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Alberto Aghemo Velia Titta Matteotti: uniti in quansiasi lotta
Velia Titta Matteotti. Uniti in qualsiasi lotta
Alberto Aghemo
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Velia non è stata mai soltanto la moglie di Matteotti. Meglio: lo è stata forse nella vulgata popolare, nel culto del martire antifascista per eccellenza, in un mito che molto ha sottratto alla comprensione della reale statura del Matteotti politico e, in misura non inferiore, di quella fine intellettuale, poetessa e narratrice appassionata e colta che con lui ha condiviso dodici anni di una vita intensa, tesa, drammatica.
Mai compagna di partito, Velia Titta ha rappresentato per Giacomo Matteotti la forza intima, il conforto degli affetti, la partecipe appartenenza a un destino, la passione condivisa. In una parola, l’amore. E, non disgiunti da questo, il supporto affettivo e ideale, quella tensione etica che, in tempi estremi, si è dovuta spingere nella comunione di ansia e dolore ben al di là della sana ragionevolezza, dei doveri coniugali, delle convenienze sociali. *
Ultima di sei fratelli1, Velia nasce a Pisa il 12 gennaio del 1890 da Oreste Titta, “artefice del ferro battuto” assai apprezzato, libero pensatore e di indole insofferente, e da Amabile Sequenza, donna austera, sensibilissima,
dovesse costarmi la vita io vorrò perdermi tutta nell’amore che avrò sempre per lei Velia a Giacomo, 16 ottobre 1912
Un bacio a te proprio d’amore Velia a Giacomo, 15 maggio 1924 profondamente religiosa, che lascia nella figlia un’impronta profonda. La giovane segue con profitto e disciplina corsi regolari di studio e consegue la “licenza” preso la Scuola Normale femminile di Pisa manifestando sin da giovanissima una personalità spiccata e autonoma, naturalmente rivolta a grandi temi spirituali del suo tempo approfonditi attraverso molte e intense letture di autori italiani e stranieri, delle quali si trova ampia traccia nella sua precoce opera letteraria oltre che nell’intensa corrispondenza con Giacomo Matteotti e con la cognata Lea, moglie di Titta Ruffo2. È lettrice vorace, curiosa, poliglotta: oltre alla lingua francese, bagaglio irrinunciabile della fanciulla di buona educazione del tempo, conosce l’inglese che a volte si diverte a italianizzare (ho forghettato, ti kisso). Non si interessa di politica. Preferisce la poesia, la narrativa, la musica, l’arte. È credente e praticante, senza bigottismo ma con genuino fervore. È dolce ma tenace: una giovane donna, come si diceva allora, “di temperamento”. E ha un talento precoce.
Ha appena diciotto anni quando dà alle stampe le poesie di Primi versi e
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la raccolta È l’alba, due pubblicazioni uscite entrambe nel 19083. Si tratta prevalentemente di poesie d’occasione, dedicate ai familiari4, accompagnate da descrizioni paesaggistiche e confessioni autobiografiche. Le composizioni sono in strutture chiuse di tradizione romantica e di forte eco pascoliana, non disgiunta da suggestioni dannunziane:
Quest’abbandono che le tue membra inonda di una fiera stanchezza travolta m’ha nell’onda del tuo destino!5
La reminiscenza pascoliana emerge, con evidenti richiami alle cadenze e al colore di Myricae, nei versi de Il Messaggio:
Fuori si udiva appena un canto d’usignolo, e un eco d’acque in fuga con un sussurro che pareva un volo6 .
Non manca, in quelle prime ma già felici prove, il riaffiorare di icastici ricordi carducciani:
Mugghia correndo il fiume rapido verso la foce; mandan le argentee spume tra l’infuriar la voce7 .
Si tratta nell’insieme di composizioni, come nota Caretti, “di levigata cantabilità parnassiana” nelle quali “l’acerbità del dettato non impedisce di apprezzare le buone letture e, insieme, la ricerca di una nettezza espressiva […] con tratti di asciutto riserbo e di castigata semplicità”8. La giovane Velia legge dunque rapita e fa proprio il respiro poetico, la cadenza metrica, l’intima suggestione dei giganti – Pascoli, Carducci, D’annunzio – di una stagione letteraria irripetibile; lo fa con una mimesis creativa che esalta la sua adesione interiore a quei mondi poetici e fissa nel verso una spiritualità profonda, prorompente, già matura, votata alla sensibilità ma spogliata di ogni sensiblerie.
L’istantanea ritrae una giovane Velia Titta
Negli anni successivi lascerà la poesia per la prosa: un percorso coronato dalla pubblicazione, nel maggio 1920 nelle edizioni Treves, del romanzo L’idolatra, firmato con lo pseudonimo di Andrea Rota. Nel mezzo stanno le pagine diaristiche dal titolo Veglie di Boscolungo, che non vedranno mai la stampa, della cui esistenza sappiamo da due lettere a Giacomo datate, rispettivamente, 13 settembre e 10 novembre 1912. Il titolo è rivelatore di un evento destinato a cambiare la vita di Velia non
Velia Titta Matteotti
meno di quella di Giacomo Matteotti. Il loro incontro, infatti, avviene in proprio a Boscolungo, nei pressi dell’Abetone, nell’estate del 1912: lei ha ventidue anni, lui ventisette e l’amore nasce immediato, pur nella consapevolezza della differente formazione, di diversi percorsi di vita che saranno poi tuttavia destinati a intrecciarsi indissolubilmente. Velia era allora orfana della madre, morta a soli 50 anni nel 1094, e priva del padre, che aveva da tempo lasciato la famiglia per unirsi a un’altra donna. A fare le veci del padre è il fratello Ruffo, che offre alla sorella minore il proprio sostegno affettivo e materiale e saprà essere un punto di riferimento saldo in anni decisivi per la sua formazione. Il loro rapporto è illuminato da un affetto reciproco, profondo e tenace, da cui nasce, con la conoscenza di Giacomo, la militanza antifascista di Titta Ruffo che molto costerà al cantante ormai affermato a livello internazionale: esule in Francia dopo l’assassinio del cognato, fu poi imprigionato nel corso di una successiva vista a Roma; liberato a seguito delle pressioni degli ambienti culturali d’Oltralpe, è privato del passaporto e costretto a interrompere la sua brillante carriera musicale9 .
Tornando alle Veglie, non resta che il rimpianto per un’opera mai nata che, al di là del valore letterario soltanto ipotizzabile, avrebbe reso una testimonianza di sicuro spessore sulla genesi di una potente passione che plasma e dà vita a una profonda relazione amorosa. Scrive Velia nella prima delle due lettere ora citate:
[…] le manderò un giorno il frutto di tutta la mia passione minuto per minuto da quando partì da Boscolungo fino ad ora. E prosegue nella seconda:
[…] c’è dentro tutto ciò che ho sentito e sofferto per lei, dal giorno che mi sono accorta di amarlo […] le più segrete ed intime sensazioni che passano e vivono in me, e non c’è in esse pensiero o palpito che non sia strettamente legato a lei, in modo che solo a vedermele accanto, che a toccarle, mi pare di accarezzare il suo viso, di baciare la sua fronte.
Non è letteratura. Non c’è in queste parole caste eppure ardenti, vibranti di tenerezza e di passione alcun compiacimento dannunziano, alcuna studiata posa estetica: c’è, piuttosto, la declinazione di un sentimento genuino e profondo, un darsi generoso e totale che è la cifra del grande amore, quello di una vita. E c’è, pure, l’abbandono languido ma consapevole della donna che sente, “sa” senza dubbio alcuno – pur nella differenza di genere e di espressione del sentimento – che il proprio slancio è totalmente ricambiato.
Questa sensibilità appassionata e questo stesso percorso emotivo si riverberano naturaliter nella Velia narratrice: L’idolatra è la storia dell’amore infelice, mai vissuto tra Dani (Daniele) e Lella (Raffaella), la giovane protagonista senza famiglia nella quale non è difficile scorgere qualche tratto autobiografico. Dopo una forzata separazione i due si ritrovano per scoprire di condividere un amore a lungo inconfessato, reso impraticabile dalle nozze di lei, celebrate nel periodo di lontananza, con Landino, abile restauratore nella cui bottega la giovane si distingue per il suo talento, e dal quale tuttavia è già separata. Il ritrovato amore per Dani è un luminoso presagio nella vita sentimentale precocemente spenta di Lella, che tuttavia rifiuta l’offerta di Dani di
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seguirlo, per riguardo nei confronti di Landino e a causa dei sentimenti che ancora la legano al suo ambiente. Dani partirà senza di lei e la giovane, disperata, vede inaridire la propria vita in una desolazione che presto la porta alla morte. Non ostante l’essenzialità della trama10, la psicologia dei personaggi è tratteggiata con una cura che denota partecipe sensibilità e la scrittura elegante restituisce al lettore immagini intense nelle quali il naturale pudore non fa velo all’abbandono della passione. È il caso dell’incontro d’amore tra i due giovani, la cui narrazione è tutta dalla parte di lei:
Si diede, come cadere in un’acqua profonda senza riaversi più dal brivido dell’annegato che si salva11 .
Da quel momento l’amore finalmente raggiunto trasforma la protagonista nell’idolatra del titolo: Dani è ormai una presenza ossessiva, perennemente al centro dei suoi pensieri (“Egli le era davanti come un idolo”). Ma il romanzo restituisce anche, con una forte vena di impressionismo pittorico, ben tratteggiati scorci di una Pisa “evanescente e umbratile, chiaroscurata e impalpabile, percorsa da lampi e fremiti di luce”12: una perfetta quinta per la messa in scena del dramma interiore di due coscienze inquiete e destinate al dolore.
Romanzo intimista e di impronta sentimentale, dalla prosa misurata ed elegante, L’idolatra non sfugge alla critica letteraria del tempo e incontra un certo, incoraggiante favore13, buon viatico per future prove che tuttavia non vedranno mai la luce: la nascita di tre figli in rapida successione e le drammatiche vicende familiari frustreranno ogni ulteriore ambizione letteraria.
Solo dopo l’assassinio di Giacomo Velia mediterà di ordinare per la stampa le proprie memorie che pensa anche di sottoporre, per raccoglierne il parere, a Gaetano Salvemini, che dopo il delitto si è avvicinato alla vedova e alla causa del socialismo riformista, come testimonia il non ampio ma intenso carteggio tra i due14, ma la cosa non avrà seguito. Analoga sorte tocca ad alcuni racconti scritti a due anni e mezzo dalla scomparsa di Giacomo durante una permanenza in Abruzzo. Ne dà notizia l’autrice in una breve premessa trovata nelle Carte Matteotti, di cui riferisce Caretti:
Dedico alla sua veneranda memoria il racconto di alcuni episodi a me avvenuti e narrati durante la nostra permanenza su la montagna dell’aquilano: […] consolante fatica nelle lunghe sere di solitudine15 .
Il riferimento alla “consolante fatica” fa fede di una vocazione letteraria profonda e mai sopita; il fatto che i racconti non siano mai approdati alla stampa testimonia le difficoltà, morali e materiali, dell’ora: gli anni difficili ma felici sono ormai alle spalle e si è definitivamente consumata una stagione che non tornerà più e ha ceduto il campo alla cupezza esistenziale della vedovanza. Di più: si vivono tempi sinistramente condizionati dalla cappa che il regime fascista impone al Paese e, ancor più duramente e con triste efficacia, ai suoi oppositori, a coloro che, come Velia, rappresentano una minaccia o possono gettare un’ombra sul ritratto che di sé il duce intende consegnare alla storia.
Abbiamo lasciato Velia e Giacomo al loro primo incontro montano del 1912: da allora e sino al gennaio del
Velia Titta Matteotti
1916, quando si sposano, trascorrono gli anni assai intensi del fidanzamento nei quali si misurano le distanze tra le rispettive formazioni e vocazioni e pure si rinsaldano le affinità che cementeranno il loro legame: su tutte, tra la morale religiosa della giovane letterata e la morale laica del militante socialista. La solidità crescente della loro unione, fondata su una sincerità assoluta e sul rispetto dell’altro, è testimoniata, scandita dall’intenso carteggio tra i due giovani, quasi sempre costretti a una forzata lontananza che diventerà ancora più dolorosa e pesante dopo il matrimonio e negli anni della Grande Guerra.
Ma non sa dottore che non potrò mai dirle nulla che non senta né viva, perché mi parrebbe disonesto sottolinea Velia a Giacomo in una delle prime lettere del settembre del 1912, per poi confidargli il 13 luglio del 1913 (si noti il passaggio al “tu”):
non ti invito a rompere tutto quello che ha formato la tua vita fin’ora […] voglio che tu debba sentire in me tutto il conforto di ciò che arresta e abbatte spesse volte nella via che ognuno si sceglie […] una vita di solo amore, non potrebbe mai bastare a un uomo come te16 .
Il conflitto sulla religione torna a imporsi quando i due decidono di sposarsi, in piena guerra. Dopo un confronto travagliato Velia accetta le nozze con rito civile, ma non rinuncia a riaffermare le proprie convinzioni e scrive a Giacomo:
No, no vieni, saremo felici lo stesso, tu continuerai la tua vita, e io non posso in questo giorno mentire e dirti cosa non vera o nascondendo il mio cuore. Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in qualsiasi lotta […] Sii tranquillo, nulla potrebbe separarmi mai da te17 .
Velia con il fratello Titta Ruffo
“Uniti in qualsiasi lotta”: si fondono in quelle parole una consapevole esperienza di vita condivisa, un impegno saldo per il futuro e un terribile presagio del tempo a venire. Velia le scrive tra la sera del 7 e la mattina dell’8 gennaio 1916: quella stessa sera si sposano in Campidoglio.
Siamo in piena guerra mondiale: un travaglio epocale la cui tragica portata è ben presente ai giovani sposi. Velia condivide il pacifismo di matrice cristiana e l’orrore per l’“inutile massacro” denunciato, peraltro alquanto tardivamente, da Benedetto XIV. D’altro canto, il pacifismo laico intransigente
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e determinato di Matteotti segna una linea di non ritorno nei confronti del Partito Socialista, del quale non può condividere la prudente, debole linea del “non aderire e non sabotare” e nei confronti dello Stato in guerra: Giacomo sarà un irriducibile “sabotatore” e pagherà per la sua presa di posizione pubblica il prezzo dell’isolamento politico e l’arruolamento forzato18, con destinazione la Sicilia, sotto vigilanza come “sovversivo”. Inizia per i giovani sposi un periodo difficile, scandito da nuove lunghe separazioni.
Per essere vicina al marito Velia si trasferisce tra mille difficoltà per qualche tempo, da sola, nel settembre del 1916 in albergo a Messina, dove giovani sposi occasionalmente si incontrano. Nella primavera dell’anno successivo scrive a Giacomo:
il pensiero che io partecipo con te, vicinissima a ogni tua cosa, ne l’unica attesa del tuo bene e del nostro ritorno alla vita cara lasciata, ti sia almeno di aiuto e di conforto morale19 .
Il tono affettuoso e partecipe e, insieme, l’oggetto di questa missiva – il sostegno morale e la salda condivisione degli affetti nella lontananza e in una difficile congiuntura – si ritroveranno come una costante in tanta corrispondenza successiva e troveranno sempre un’espressione composta, rassicurante: una conferma e un conforto in un’esistenza che, soprattutto negli anni aspri e vilenti del dopoguerra, sarà scandita da mille incertezze quotidianamente vissute e da tante violenze patite o minacciate.
Nel maggio del 1918 nasce Gian Carlo; seguiranno Gian Matteo, nel febbraio del 1921, e Isabella, nata il 7 agosto del 1922. Nella primavera del 1919 Giacomo è finalmente congedato e riprende a pieno ritmo e con rinnovato entusiasmo l’attività politica e sindacale nel Polesine e a Roma: viene eletto deputato per la prima volta nello stesso anno e quindi riconfermato nelle tornate elettorali del 1921 e del ’24. All’intensa azione parlamentare accompagna un’ardimentosa militanza antifascista nei paesi del suo collegio e nelle piazze di Rovigo e di Ferrara. Il vagheggiato ritorno alla “cara vita lasciata” non è che una fuggevole illusione. Giacomo, che per il temperamento irruento è chiamato “Tempesta”, molto si espone contro i fascisti e gli agrari, particolarmente violenti nel Polesine, e rischia in prima persona. Nel gennaio del 1921 il militante socialista, ormai leader riconosciuto, è aggredito una prima volta a Ferrara, dove è accorso per partecipare ai duri scontri tra socialisti e fascisti seguiti all’eccidio di Castello Estense; due mesi più tardi, a Castelguglielmo, viene sequestrato, oltraggiato e minacciato di morte da squadristi polesani che lo bandiscono dalla sua terra; altre aggressioni si succederanno a Padova, a Siena, a Cefalù. Velia, che ha appena dato alla luce Matteo, è comprensibilmente turbata e scrive:
Mi è difficile persuadermi che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita20 .
Con il drammatico susseguirsi degli eventi al timore presto segue lo sgomento:
Non desidero che di veder finire questo flagello e di saperci tutti in una vita civile […] temo qualsiasi decisione, qualsiasi eventualità che possa nascere portandoti pericoli.
Velia Titta Matteotti
Costretta con sempre maggiore frequenza a un penoso distacco da Giacomo che, mentre la famiglia è nella grande casa di Fratta Polesine, si divide tra l’impegno parlamentare a Roma e il presenzialismo legato al ruolo di segretario del Partito Socialista Unitario, e i cui movimenti sono spesso imposti dalla necessità di sfuggire alla vigilanza o alla rappresaglia di un fascismo ormai divenuto regime, Velia lancia al marito accorati inviti alla cautela:
per carità non esporti, non fare imprudenze, vorrei annegare i pensieri che amareggiano la separazione, il domani incerto, i timori che li avvenimenti possano colpirci nelle cose più care
e tuttavia non manca di confermare il rispetto per le motivazioni ideali che spingono Giacomo all’azione e la profonda adesione a quel rigore morale che della sua militanza politica è il sostanziale presupposto:
Nulla è più importante di compiere i doveri che sentono: questo ti scrissi in momenti per te assai più tragici di questi, e ti ripeto.
Parole ancor più dense di significato quando si consideri che la minaccia non incombe solo su Giacomo, ma lambisce anche lei e i bambini, vittime di intimidazioni dei fascisti a Varazze dove, nell’estate del 1922, si era rifugiata poco dopo la nascita della terzogenita Isabella. Altre minacce seguiranno nel 1923 a Fratta Polesine, in un clima divenuto sempre più ostile.
Archivio fedele e puntuale dei sentimenti, il carteggio tra Velia e Giacomo di quegli anni “tragici” ci restituisce tuttavia anche slanci di passione, vibranti testimonianze di un amore che sembra aver trovato un nuovo approdo quando la famiglia si riunisce a Roma, nella nuova casa al Flaminio, nella speranza, brutalmente negata dagli eventi, di una nuova serena stagione di convivenza. Nel maggio del 1924 Velia è a Milano e da lì scrive a Giacomo, con genuino trasporto di madre e di sposa:
Scrivimi due righe, che state tutti bene, e che non vi duole che stia lontana questi giorni; bacia i piccoli e dammi notizie, un bacio a te proprio d’amore.
Del loro vibrante epistolario è l’ultima lettera. Poche settimane più tardi Giacomo Matteotti, a trentanove anni, morirà per mano fascista. L’assassinio consumato il 10 giugno del 1924 cambia la storia d’Italia e segna la fine di una comunione d’amore e ideale durata dodici anni. Per Velia si apre una nuova, dolente stagione della vita. *
Gli anni a venire, non molti invero per Velia, sono segnati dal rimpianto, incupiti dalla solitudine e spesso resi ancor più amari da un clima di ostilità e di sospetto. La vedovanza, portata peraltro con grande dignità e fermezza, si rivela un cammino difficile. Grava su tutto, come emerge dalle Carte Matteotti ordinate e restituiteci da Stefano Caretti, il rimpianto di Giacomo, della sua presenza e di “non averlo saputo e potuto strappare alla morte”, che si accompagna al peso di essere amorevole e fedele custode non solo dei figli, ma anche della memoria del marito e del suo lascito ideale, come rivela il carteggio con Filippo Turati e con Gaetano Salvemini, intenso a partire dagli anni immediatamente successivi al delitto e poi via via più rarefatto.
I primi tempi sono durissimi e la chiamano a fronteggiare non solo l’in-
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sopportabile tragedia personale, ma anche l’onere di una responsabilità ideale che si fa più grande mano a mano che il regime, proprio a seguito dell’assassinio di Giacomo di cui il duce farà propria ogni responsabilità, si mostra nella sua natura di feroce dittatura. Su Matteotti Mussolini mette subito una sordina che diventerà, nel volgere di pochi mesi, prima strettissima censura, poi una vera damnatio memoriae. Pochi sono, di conseguenza, i momenti “pubblici” nei quali Velia è chiamata a rendere testimonianza di sé e della sua condizione di vedova. Il primo è l’incontro con Mussolini a Palazzo Chigi del giugno del 1924 – quando ancora non vi era certezza ma solo un fortissimo tragico presentimento circa la sorte di Giacomo – affrontato con dignitosa e gelida compostezza e del quale tuttavia la propaganda del duce costruì immediatamente una vulgata in pieno stile mussoliniano.
Una triste ribalta si offre alla vedova di Matteotti ancora nel marzo del 1926 quando a Chieti si celebra il processo-farsa ai membri della “Ceka fascista” che, guidati da Amedeo Dumini, hanno materialmente assassinato Giacomo. Velia rifiuta di costituirsi parte civile e così argomenta le sue fondate ragioni nella lettera inviata al Presidente della Corte d’Assise:
L’assassinio di Giacomo Matteotti, tragedia mia e dei miei figli, tragedia dell’Italia libera e civile, mi lasciò credere che giustizia sarebbe stata non invano invocata. […] Ma nelle varie vicende giudiziarie, e per la recente amnistia, il processo – il vero processo – a mano a mano svaniva. Ciò che oggi ne rimane non è più che l’ombra vana. […] Chiedo perciò mi sia concesso di estraniarmi dall’andamento di un processo che ha cessato di riguardarmi. […] Mi parrebbe accedendo all’invito, di offendere la memoria stessa di Giacomo Matteotti, per il quale la vita era cosa terribilmente seria. Quella memoria nella quale e per la quale, e solo per educare i figli all’esempio ed alla fermezza paterna, vivo ancora appartata e straziata.
La rinuncia aveva palesemente solide motivazioni, alle quali un’altra – politica e giuridica – se ne aggiunge. Il processo a Dumini e ai suoi camerati avvalora la tesi che il delitto fosse maturato tra zelanti sodali fascisti mossi da patriottico, incontrollabile ardore e nega di fatto l’esistenza di mandanti, di ben più alti istigatori. E che tale riserva fosse fondata è dimostrato dal fatto che di lì a poco il Senato del Regno, costituito in Alta corte di giustizia, avrebbe prosciolto da ogni accusa il capo della polizia e comandante della Milizia Emilio De Bono, il quadriumviro pesantemente implicato nel delitto Matteotti.
La scelta di Velia non è tuttavia sempre accettata e rispettata, e ciò le vale qualche incomprensione, che lei vive con amarezza. Non bastasse, in quanto vedova di Matteotti è oggetto di offese e minacce da parte fascista. Non soltanto ingiurie, ma anche colpi di pistola esplosi sotto le sue finestre: atti intimidatori assai gravi che limitano la sua libertà e le impongono, in quanto madre di tre bambini, una condotta estremamente cauta e riservata.
La sua vita, già “appartata e straziata”, si fa ancora più difficile con la promulgazione delle “leggi eccezionali” del 1926. L’intera famiglia è da allora soggetta a una strettissima vigilanza: chiunque visiti Velia viene fermato e interrogato, tutta la corrispondenza è sotto controllo nel timore che la vedova di Matteotti coltivi contatti
Velia Titta Matteotti nei confronti di Velia e dei figli: creaccuratamente seguite, quando non
con esponenti dell’antifascismo o mediti l’espatrio. La condizione di Velia, sottoposta a un’avvilente sorveglianza, diviene progressivamente di completo isolamento. Oramai, scrive a Salvemini nell’aprile 1927,
nessuna notizia arriva più dai vicini e dai lontani. Nessuna possibilità di far giungere una parola.
È in questo contesto che dalla concentrazione antifascista di Parigi giungono inviti a espatriare. Filippo Turati già nell’estate del 1927 propone di riparare in Francia con la famiglia dalla madre di Giacomo, Isabella, che rifiuta. Non avrà seguito nemmeno un progetto promosso da Giustizia e Libertà due anni più tardi, sull’onda del successo dell’impresa di Lipari che aveva portato Oltralpe i fratelli Rosselli, piano di cui Velia viene messa a conoscenza in circostanze avventurose. I tentativi dei fuoriusciti non sfuggono tuttavia alla stretta sorveglianza fascista: il capo della polizia Bocchini in persona impartisce disposizioni perché fosse “assolutamente impossibile qualsiasi tentativo di espatrio” e il questore di Rovigo ricorre alle minacce: se avesse acconsentito alle proposte di espatrio, Velia “difficilmente sarebbe uscita viva dal Regno”. Quando nel 1931, dopo la scomparsa di Isabella e con il venir meno della principale remora al trasferimento all’estero, i Rosselli rinnovano l’invito, Velia è ormai molto prostrata e in ansia per la strettissima sorveglianza subita ancor più che da lei, dai figli. Il trasferimento clandestino, programmato per l’estate del dalla costa ligure ma il piano di fuga salta a causa dell’arresto da parte della polizia fascista di Giuseppe Germani, un amico di Giacomo riparato a Parigi, appositamente rientrato in Italia per organizzare l’espatrio.
Ancorché fallito, il piano comporta un inasprimento delle misure di polizia sce ancora la pressione sulla famiglia Matteotti, che da qualche tempo si dibatte anche in difficoltà economiche, 1931, prevedeva un imbarco notturno
alimentate, dal regime. Nel 1929, ricorderà in seguito Matteo Matteotti, i fittavoli della principale tenuta della famiglia, “già assoldatori di bande fasciste”, incendiarono edifici e fienili, avvelenarono il bestiame, ferirono a fucilate il fattore. Nello stesso periodo il regime fascista riesce a infiltrare in casa Matteotti un suo informatore, che gode della stima di Velia. È Domenico De Ritis, amico di lunga data di Giacomo, poi passato al servizio di Bocchini con il nome in codice Tisde 331. Sarà De Ritis a incoraggiare la vedova a beneficiare degli aiuti nel frattempo offerti dal regime sotto forma di mutui a tassi agevolati, in ciò sostenuto anche da Casimiro Wronoski, già giornalista del «Corriere della Sera» e imparentato con la famiglia, anch’egli collaboratore dell’Ovra.
Se a Fratta Polesine il clima si è fatto ostile, le condizioni di vita a Roma non sono meno difficili. Ricorda Gian Carlo Matteotti:
A Roma eravamo isolati. Sotto la nostra abitazione di Via Pisanelli eravamo sorvegliati 24 ore su 24. Persino quando andavamo a scuola un’auto ci seguiva. Tutti avevano paura a frequentarci.
Velia, annota ancora il figlio maggiore, è ormai “caduta in un profondo
Alberto Aghemo
stato di prostrazione”: una condizione esistenziale certamente non estranea al suo precoce declino e alla prematura scomparsa, all’età di soli 48 anni. Si spegne il 5 giugno del 1938 in una clinica romana dove era stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Per il regime è ancora nel “novero dei sovversivi” e sino all’ultimo non vengono meno le rigorose misure di polizia nei suoi confronti, che anzi la accompagnano anche in occasione dei funerali celebrati a Fratta in forma strettamente privata: viene impedito di seguire il feretro, la chiesa è sgomberata, si vieta di rendere omaggio alla salma al passaggio del corteo funebre. Le quattordici persone presenti alla cerimonia sono oggetto di indagini minuziose, così come coloro che hanno espresso per lettera partecipazione al lutto. Due mazzi di fiori deposti dai parenti sul 82 feretro sono zelantemente sequestrati perché “tutti rossi”. Nemica del regime anche post mortem, come Giacomo: si può ipotizzare che la cosa non le sarebbe dispiaciuta. La morte, scrive nelle sue memorie Vera Modigliani, “pareva aver perfezionato la loro comunione ideale”. L’osservazione è amara ma acuta. Velia, dopo l’assassinio di Giacomo, gli sopravvive 14 anni, più di quanti ne abbia vissuti al suo fianco ma il suo è, appunto, un sopravvivere. La sua brillante personalità, l’accesa sensibilità, il grande talento di poetessa e narratrice, il vibrante rigore morale, la tenace determinazione alla lotta: tutto comincia a spegnersi a partire da quel 10 giugno del 1924, quando le ammazzano Giacomo. Non un compagno – lo aveva, lo avevano entrambi capito subito – ma
Ritratti di famiglia
l’amore di una vita, l’amore per la vita.
Velia Titta Matteotti
NOTE
1 Due maschi, Ettore e Ruffo, che diverrà un celebre baritono, noto in arte come Titta Ruffo, e quattro femmine: Fosca, Nella, Settima e, appunto, Velia. 2 Fondamentali per ricostruire la personalità di Velia sono i due volumi delle Opere di Giacomo Matteotti nella monumentale edizione critica in tredici tomi curata da Stefano Caretti per i tipi di Nistri-Lischi (e poi della Pisa University Press) dedicati alla corrispondenza intercorsa con Giacomo: le Lettere a Velia, con prefazione di Eugenio Garin, del 1986, e Lettere a Giacomo, del 2000, con prefazione di Stefano Timpanaro. Entrambi i testi sono preceduti da ampie introduzioni di Caretti che con accuratezza, eleganza ed efficacia tratteggia un ritratto prezioso di Velia Titta Matteotti. Altri utili rifermenti si trovano, tra l’altro, in: G. Cornali, L’idolatra, «I libri del giorno», a. III, n. 5, maggio 1920, pp. 255-256; G. E. Modigliani, L’assassinio di Giacomo Matteotti, Casa Editrice Avanti!, Roma 1945; V. Modigliani, Esilio, Garzanti, Milano 1946; F. F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1946; R. Titta, La mia parabola. Memorie, Staderini, Roma 1977; A. G. Casanova, L’epistolario di Matteotti, in «Critica Sociale», giugno 1986, pp. 75-79; S. Timpanaro, Lettere a Velia, in «Belfagor», 31 maggio 1987, pp. 357-360; S. Caretti (a cura di), Matteotti. Il mito, Nistri-Lischi, Pisa 1994; M. Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 1997; A. Parini, La vita di Giacomo Matteotti, a cura di M. Scavino e V. Zaghi, Minelliana, Rovigo 1998; Stefano Caretti, Il delitto Matteotti. Storia e memoria, Lacaita, Manduria - Bari-Roma 2004; Valentino Zaghi, Nella terra di Matteotti. Storia sociale del Polesine tra le due guerre mondiali, Minelliana, Rovigo 2014; P. Locatelli, Con gli occhi di Velia. Da Matteotti ai Rosselli, intervento al convegno omonimo tenuto a Rovigo il 13 gennaio 2018, http://www.pialocatelli.info/con-gli-occhi-di-velia-da-matteotti-ai-rosselli/. Curata, anche se non particolarmente approfondita, la voce Velia Titta di Wikipedia, https://it.wikipedia. org/wiki/Velia_Titta. A parte si segnalano gli intensi ricordi familiari di Matteo Matteotti in Quei vent’anni, Rusconi, Milano 1985. 3 Per i tipi della Tipografia Prosperi, Pisa 1098. 4 Alla madre, al cognato Emerich, alla sorella Fosca e al fratello Ruffo. Alcuni di questi ultimi furono ripresi il 24 dicembre 1908 dal giornale madrileno «Correo Español» che lodò la giovane autrice per il “talento extraordinario”. 5 La siesta nella vita, vv. 2-5. 6 Il Messaggio, vv. 9-12. 7 Effetti estivi, vv. 5-8. 8 Così Stefano Caretti nell’«Introduzione» al volume, da lui stesso curato, Velia Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, cit., pp. 16-17. 9 Cfr. S. Timpanaro, «Premessa» a V. Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, cit., pp. 8-9, H. Sachs, Musica e regime, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 200-202. 10 «La favola è esile e statica» chiosa Stefano Caretti nel già ricordato saggio introduttivo alle Lettera a Giacomo, p. 18. 11 A. Rota, L’idolatra, Treves, Milano 1920, p. 21. 12 La puntuale notazione è di S. Caretti – op. cit., p. 19 – che nel romanzo coglie temi e motivi di Antonio Fogazzaro ed echi dei romanzi di Romain Rolland, dei quali Velia è lettrice attenta. 13 Ne scrive in termini ampiamente positivi Gino Cornali su «I libri del giorno» del maggio 1920, che ne loda la “passione fremente”; più cauto Luigi Tonelli su «Il Marzocco», a. XXV, n. 41, del 10 ottobre del 1920 che parla di un “frutto immaturo di un ingegno promettente”. 14 Una traccia importante di tale intenso rapporto intellettuale e umano è nell’epistolario pubblicato in appendice alle più volte ricordate Lettere a Giacomo curate da S. Caretti: «Carteggio Velia Matteotti – Gaetano Salvemini», pp. 315-320. Si segnala su tutte la splendida, vibrante lettera del 3 febbraio 1926 che Salvemini indirizza a Velia da Londra. 15 Citato da Caretti dalle Carte Matteotti. Cfr. Lettere a Giacomo, cit., p. 21. I racconti sono complessivamente ventuno. I titoli – se ne riportano alcuni – danno conto della loro varietà tematica: L’uomo in fiamme; Il morto di Barisciano; Il mazzolino di more; La caccia al lupo; Il cimitero antico; La casetta dell’eremita; Il cane ucciso. 16 Lettere a Giacomo, cit., p. 22, il corsivo è nostro. 17 Op. cit., p. 23 e pp. 103-105, passim. Il corsivo è nostro. 18 Giacomo Matteotti era affetto da tisi, malattia che aveva già portato a morte il fratello maggiore, Matteo, e il più giovane Silvio. A seguito della prematura scomparsa dei fratelli era anche figlio unico di madre vedova e già collocato in congedo illimitato. In una lettera alla cognata Lea, moglie di Ruffo, in data 7 giugno 2016 Velia confida: «l’ordine veniva dal ministero della guerra […] veniva trasferito come sospetto di possibili fatti sobillatori della massa; si isolava dunque per pura ragione politica». 19 Lettera del 31 marzo 1917, indirizzata al “Soldato dr. G. Matteotti/ 4° artiglieria/ 97° compagnia/ Montecampone/ Messina”, in op.cit., p. 24 e pp. 152-3. 20 Lettera a Giacomo del 25 gennaio 1921, op. cit., pp. 26 e 214-15.
Alberto Aghemo
21 Lettera dell’aprile e del dicembre 1921, ibidem. 22 Lettera dell’11 luglio 1923, op. cit., pp. 27 e 275-76. 23 Lettera del 25 febbraio 1922, op. cit., pp. 27 e 238-40. 24 Lettera del 15 maggio 1924, op. cit., pp. 27-28 e 282, il corsivo è nostro. 25 Il riferimento è in Lettere a Giacomo, cit., p. 28. 26 Entrambi pubblicati, a cura di S. Caretti, in Appendice al citato Lettere a Giacomo, pp. 217-320. 27 Una puntuale e pour cause minuziosa ricostruzione dei fatti è nella lettera a Salvemini (Doc. XXIX), in Lettere, cit., pp. 316-17, che confuta la narrazione del «brevissimo colloquio» apparsa sul «Giornale d’Italia» del 15 giugno 1924. 28 In G. E. Modigliani, L’assassinio di Giacomo Matteotti, cit., p. 55. 29 Di tali aggressioni – che la costringono nell’estate del 1925 a lasciare Castellammare Adriatico dove era con i figli ospite di amici e l’anno successivo a rinunciare a una vacanza a Castel Del Monte – si trova ampia testimonianza in F. F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, cit., e nelle Carte Matteotti. 30 F.F. Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, cit., pp. 29 e 167. 31 Doc. XXX, in Lettere, cit., pp. 317-18. 32 Per sfuggire alla censura il messaggio di Rosselli, Lussu, Tarchiani e Rossetti è scritto con inchiostro simpatico sui margini delle pagine di un libro francese affidato a Zanotti Bianco. 33 Cfr. S. Caretti (a cura di), Matteotti. Il mito, Nistri-Lischi, Pisa 1994, pp. 356 e 351. 34 L’evento ebbe all’epoca grande risalto sulla stampa internazionale. Intervenne personalmente Stefan Zweig che scrisse a Mussolini ottenendo la commutazione del carcere inflitto a Germani in cinque anni di confino a Ponza. Cfr. S. Zweig, Il mondo di ieri, Mondadori, Milano 1980 e G. Germani, Carcere e dolore, Mosetti, Trieste 1945. 35 Una dichiarazione di Matteo Matteotti, in «Avanti!», 6 ottobre 1945, ripreso in Lettere a Giacomo, cit, p. 31. 36 Sul punto si veda M. Canali, Il delitto Matteotti, cit. 37 Canali riferisce di un mutuo agevolato presso l’Istituto San Paolo di Torino per un milione e duecentomila lire, seguito da un mutuo a tasso particolarmente agevolato erogato dal ministero dell’Agricoltura. 38 Dopo la morte di Velia, De Ritis e Wronoski diverranno tutori dei tre orfani nel tentativo di annetterli al regime. Il doppio gioco di De Ritis emergerà con la liberazione di Roma, quando i documenti del ministero dell’Interno finiranno nelle mani dei partigiani. 39 Gli fa eco la testimonianza del fratello Matteo: «Da bambini, io e mio fratello eravamo sorvegliatissimi». Entrambi sono citati in S. Caretti, Introduzione a Lettere a Giacomo, cit., p. 31. 40 Matteotti. Il mito, cit., p. 349. 41 È Mussolini in persona ad annoverarla tra i suoi nemici. Scrive Galeazzo Ciano il 18 giugno del ’38, nel suo Diario 1937-1943, che qualche giorno dopo la morte di Velia, avvenuta in ospedale dopo una delicata operazione, Mussolini, commentando l’atteggiamento da tenere nei confronti degli oppositori interni ed esterni al regime afferma: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Riportato in P. Locatelli, Con gli occhi di Velia, cit. 42 V. Modigliani, Esilio, cit., p. 12.