FONDAZIONE CAMILLO CAETANI ROMA
Presidente Bruno Toscano Vicepresidente Piero d’Amelio
Consiglio Tommaso Agnoni, Luciano Arcangeli, Lucio Caracciolo, Rita Cassano, Lelio Fornabaio, Andrea Gentiloni, Duccio K. Marignoli, Maria Cristina Misiti, Cesare Pasini, Lucia Pirzio Biroli Stefanelli, Antonio Rodinò di Miglione, Pier Giacomo Sottoriva Giunta Bruno Toscano, Piero d’Amelio, Andrea Gentiloni, Antonio Rodinò di Miglione
Via delle Botteghe Oscure, 32 – 00186 Roma Tel. 06 68 30 73 70 info@fondazionecamillocaetani.it www.fondazionecamillocaetani.it
PALAZZO CAETANI Bollettino della Fondazione Camillo Caetani
4-5 (2016-2017)
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA
PALAZZO CAETANI Notiziario periodico
Direttore: Bruno Toscano Redazione: Rita Cassano, Caterina Fiorani, Giovanna Sapori, Massimiliano Tortora
Referenze fotografiche: Mario Brunetti, Marcello Fedeli, Maurizio Necci, Pasqualino Rizzi. Le foto di Gioia Alessandri sono state gentilmente fornite dalla famiglia. Le schede non firmate sono a cura della redazione.
Edizioni di Storia e Letteratura via delle Fornaci 38, 00165 Roma Tel. 06.39.67.03.07 – Fax 06.39.67.12.50 e-mail: redazione@storiaeletteratura.it
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Sommario Ricordo di Gioia Alessandri (Bruno Toscano, Andrea Gentiloni Silveri), 7; Gioia Alessandri e il restauro del salone. Intervista a cura di Maria Grazia D’Amelio, 10
studi in corso
Papa Gelasio II, i Caetani di Sermoneta e l’Isola Tiberina (Giulio Del Buono), 17; Signori delle acque (Alfredo Franco), 18; Un codice palinsesto della Commedia nell’Archivio Caetani (Marco Cursi, Valentina Fele), 19; Il ritrovamento del codice (1976) nel racconto di Hubert Howard, 22; Un lettore di Dante nella Firenze quattrocentesca (Anna Pegoretti), 24; Un ritratto di Alfonso Caetani (Ilaria Sferrazza), 28; Una proposta per Minardi giovane: il ritratto di don Alfonso Caetani (1810 circa) (Giovanna Capitelli), 31; Michelangelo Caetani e gli orafi Castellani: i documenti della Fondazione (Lucia Pirzio Biroli Stefanelli), 37; L’attualità di Bassani. Cento anni dopo (Massimiliano Tortora), 41
acquisizioni e restauri
Statuetta raffigurante Afrodite anadyomene (Franca Taglietti), 43; Il restauro del salone di Palazzo Mattei Caetani (Luciano Arcangeli), 46; Un’ospite ignorata, l’Aurora del Pomarancio (Bruno Toscano), 52; Uno studio di Severini per il ritratto di Marguerite Caetani (Claudia Terenzi), 55
Le collane, 56; Schede di libri, 58; Convegni e mostre, 63; Attività in collaborazione, 68; Borse di studio, 71
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Ricordo di Gioia Alessandri Anche i restauratori si distinguono per generazioni. Conosco bene quella di Gioia, la stessa dei giovani che, negli anni Settanta, si formarono nei primi corsi decentrati dell’Istituto Centrale del Restauro, nell’ambito di una coraggiosa iniziativa di Giovanni Urbani, allora direttore dell’Istituto, cui anche io collaborai. Di Gioia, diplomata all’ICR, colpisce, come dei migliori tra loro, il grado di affezione al proprio lavoro, congiunto con un alto senso di responsabilità. L’avevo notato già quasi quarant’anni fa, quando frequentavo il laboratorio romano della Tecnireco in Piazza Cesarini Sforza, e potei conoscerla tramite Paolo Virilli. Ma sono le fitte conversazioni recenti sui numerosi restauri da lei curati in Palazzo Caetani che mi hanno rivelato per intero la natura tenace e profonda del suo impegno. Non è frequente che un simile impegno, che sottintende il possesso di piene qualità, conviva con un’indole intensamente riflessiva; di più, pensosa fino al dubbio. Le certezze assolute sono escluse, la strada giusta è saggiamente sperimentale, e centra l’obiettivo attraverso gli Palazzo Caetani 4-5 (2017)
scambi con chi collabora o, anche, con il committente, se ha esperienza di restauro. Dovendo, dunque, rappresentare la Fondazione Camillo Caetani, le mie conversazioni con Gioia registrano una frequenza pressoché settimanale, quasi sempre nel piccolo laboratorio dell’ammezzato davanti all’opera da restaurare. Il risultato finale, sempre impeccabile, è raggiunto per prudenti interventi parziali, fino, ad esempio, all’ultima pulitura, che rivela il grado qualitativo del dipinto, suscitando il comune entusiasmo. Nell’insieme, traggo da questi incontri una lezione di equilibrio. Equilibrio tra interventi più o meno incisivi, con una costante preferenza per i secondi; tra modalità di finitura e di presentazione; ma anche tra le esigenze delle regole e quelle di ogni singola opera, con i suoi specifici problemi. Come avviene solo per gli operatori di eccellenza, seguire il lavoro di Gioia equivale a constatare l’evoluzione della cultura del restauro che ha segnato, in modo particolare, questi ultimi decenni. Bruno Toscano Presidente
Gioia ha iniziato a lavorare per la Fondazione nel 1993, restaurando l’intercolumnio d’ordine dorico del portico del cortile d’onore di Palazzo Caetani. Da allora, non ha più smesso di dedicarsi al nostro meraviglioso patrimonio artistico; fino all’ultimo giorno, quando aveva appena completato il restauro del soffitto ligneo a cassettoni del salone grande, al primo piano, ed iniziato il ciclo degli affreschi della decorazione parietale. Gioia ha dato testimonianza di una dedizione attenta ed appassionata; ogni volta, affrontava con pari curiosità ed impegno il lavoro che le si prospettava: uno studio, una manutenzione, un restauro significavano, 8
per lei, l’inizio sempre nuovo di una storia con le ‘nostre opere’, e con il Gruppo che muove le corde di questo Palazzo. Ha sempre fatto affidamento, in modo incondizionato, sulle persone che ha incontrato, sapendo creare le giuste sinergie per portare a compimento il lavoro. E questo, non solo considerando il messaggio proveniente dalle opere stesse, ma contando sugli uomini che, a tutti i livelli, possono sperimentare un approccio all’arte che rende tali opere ancora più straordinarie e vive. All’inizio, è stata accompagnata da Paolo e Laura Mora, insieme a tanti altri personaggi illustri, presenti nei cantieri; anche grazie al suo contributo, l’arte del restauro è divenuta patrimonio della Fondazione. La strada deve, dunque, proseguire con gli altri. Il carattere peculiare di Gioia è stato l’attenzione discreta per ogni cosa, per ogni storia ed angolo di vista, per la serietà e lo spirito critico sul lavoro, e per un suo primario ‘ascolto’, proprio di chi vive l’opera abitando il Palazzo ed il suo spazio – dove lei ha passato molto del suo tempo. Ringraziamo Gioia per quanto ha compiuto, la lunga serie di interventi di restauro e di manutenzione, e per aver goduto, insieme a lei, dei beni della Fondazione; un patrimonio salvaguardato con un affetto ed una cura familiari. Andrea Gentiloni Silveri
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Gioia Alessandri e il restauro del salone di palazzo Caetani Intervista a cura di Maria Grazia D’Amelio L’intervista ha avuto luogo il 25 novembre 2015, mentre Gioia Alessandri lavorava al restauro del soffitto del salone del palazzo. MGD: Presumo che, per un restauratore, operare su un soffitto dalle dimensioni e dalla ricchezza simili a quello della sala Magna di palazzo Caetani sia un’occasione rara. Immagino, quindi, che l’approccio al restauro di un’opera così preziosa sia peculiare e anche complesso, vista l’iniziale impossibilità di ispezionarlo da vicino. Come avete proceduto? GA: Il primo approccio è stato possibile solo a distanza. Alcuni danni erano macroscopici e visibili dal basso ad occhio nudo. Le cadute di frammenti scultorei, infatti (il ginocchio destro di uno degli efebi, ed uno dei grandi rosoni, dal diametro di circa 55 centimetri), avevano allarmato la Fondazione Caetani, rendendo il restauro non più procrastinabile. Oltre all’osservazione dal basso, è stata effettuata una campagna fotografica, con ingrandimenti dei particolari molto danneggiati, che hanno consentito una prima analisi ed una stima sommaria dei costi. 10
Solo dopo il montaggio del ponteggio, però, è stato possibile stilare la mappa dello stato di degrado. I danni erano molteplici e di differente natura: distacchi dei decori lignei, ampie fessure sui fondi dei lacunari, lesioni negli efebi reggistemma, mancanze di componen-
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ti decorative, sollevamenti diffusi degli strati a gesso e colla finiti ad oro, aloni di umidità e macchie per infiltrazioni, incongrue ridipinture e dorature. Claudia Conforti e Gioia Alessandri sul ponteggio del cantiere di restauro del soffitto.
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Fortunatamente, non è stata rilevata la presenza di insetti e muffe. MGD: Nel contratto siglato dal legnaiolo Giovanni Volpetta da Castiglione e dall’intagliatore Carlo Nuti sono indicati i legni (albuccio, tiglio) per il soffitto e i suoi decori. Inoltre, alcuni indizi fanno ipotizzare l’esistenza di un soffitto precedente a quello commissionato dal cardinale Gerolamo, di cui l’Olivieri si sarebbe servito. Avete potuto verificare questa ipotesi? GA: L’uso attuale della sala Magna come ambiente di rappresentanza ha determinato i tempi del restauro e dettato, di conseguenza, anche le scelte metodologiche. D’altro canto, lo stato di degrado del soffitto era concentrato nello strato di finitura, e non coinvolgeva la struttura; per questo, si è deciso di non eseguire analisi dendrologiche e chimiche. Riguardo il riutilizzo di cornici e fasce preesistenti, esso è stato eseguito magistralmente, poiché non è percepibile alcuna difformità nelle modanature. MGD: Nel contratto per la pittura e per la doratura del soffitto, stipulato con Andrea de Bartoli da Caragnano, è richiesto espressamente l’impiego dell’azzurro di biadetti, meno costoso del blu oltremare, e dell’oro zecchino, di cui è specificato il titolo. I pigmenti e la qualità della doratura dell’opera corrispondono alle prescrizioni? 12
GA: Il soffitto è stato sottoposto a numerosi interventi durante l’Ottocento; lavori affidati non a restauratori professionisti, ma a decoratori. Nell’ultimo restauro, precedente al nostro, il soffitto è stato oggetto di un’operazione arbitraria. I decoratori hanno utilizzato tinte dalle tonalità molto più vivide delle originali. Infatti, tutte le fasce policrome decorate a motivi vegetali e geometrici sono state rese monocromatiche, con tempere azzurre e rosse coprenti. Il recupero delle fasce decorative è avvenuto fortuitamente, essendo queste state scoperte in una campionatura operata su di una piccolissima superficie. L’azzurro riaffiorato ha un tono molto delicato; potrebbe essere azzurrite, ma, in mancanza di analisi chimiche, non è possibile affermarlo con certezza. Nei lacunari erano visibili vecchi tentativi di riadesione dei frammenti lignei intagliati e di pellicole d’oro. Molte erano le ridorature parziali a porporina, eseguite grossolanamente rispetto alla doratura originaria, che è stata realizzata con foglie sovrapposte di splendente oro zecchino. Il galero cardinalizio, liberato da uno strato spesso e opaco di tempera rossa, ha riservato molte sorprese, specie per i materiali e per le tecniche originarie. Infatti, sulla tesa del galero è stata ritrovata una lamina d’argento inchiodata e laccata. Questa tecnica, detta della ‘meccatura’, è finalizzata a conferire all’argento in foglia, a se-
conda del dosaggio della vernice, riflessi dorati. Lo stesso soggolo del galero non è stato realizzato con legno intagliato, ma con un grosso canapo, irrigidito e tinto per immersione nella lacca rossa. Tra l’altro, il soggolo, inchiodato agli efebi reggistemma, ha assolto anche al compito di vincolare i due altorilievi al soffitto.
di di differente misura e fattura, e di differente epoca, ovviamente relativa ai numerosi restauri. Non sono stati rinvenuti perni lignei, staffe metalliche o altre ferramenta.
MGD: Come sono state eliminate le tempere incongrue?
MGD: Come sono collegati tra loro gli elementi del soffitto?
GA: La squadra era composta da otto restauratori, alcuni formatisi nei cantieri di restauro, altri diplomati nelle scuole ufficiali di Roma e di Firenze. Tutti, comunque, in possesso delle competenze necessarie per potere intervenire su tutta la superficie del soffitto – ad esclusione del consolidamento delle parti lignee ammalorate, affidato ad un esperto, specializzato in restauro di cornici e di mobili antichi di pregio. Un ebanista ha ripristinato la doratura sulle lacune e sulle stuccature, mediante l’applicazione di foglia d’oro superiore con brunitoio in pietra d’agata. L’intervento è durato pochi mesi, da maggio a novembre 2015. Tra pochi giorni inizieremo il restauro del doppio fregio, con il vantaggio, però, di averne già analizzato il degrado e aver deciso l’intervento, sfruttando i ponteggi allestiti per il soffitto.
GA: Oltre agli incastri perfetti, i componenti sono solidali tra loro mediante una chiodatura diffusa; è presente una grande quantità di chio-
La sala Magna di palazzo Caetani, già Mattei, misura circa 10×8 metri, per un’altezza di 9 metri. Le cospicue di-
GA: Il restauro è iniziato con la pulizia delle superfici, spolverate con spazzole e pennelli a secco per rimuovere i depositi incoerenti; si è appurato che il substrato della materia originale era abbastanza resistente e stabile. Fortunatamente, le tempere azzurra e rossa con cui erano state ridipinte le fasce orizzontali e verticali risultavano solubili in acqua per l’80% della superficie. Tamponando con le spugne naturali umide, la maggior parte della tempera è stata eliminata, e, laddove essa era più tenace, o nelle parti in sottosquadro, è stata rimossa con bisturi, cioè con un’operazione di asportazione selettiva, ovviamente molto attenta.
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MGD: Quali erano le specificità di ciascun operatore della squadra di restauratori? E quanto è durato l’intervento?
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mensioni non delineano, tuttavia, un rettangolo regolare. La sala si innalza per due piani, in angolo tra la facciata e via Michelangelo Caetani, cosĂŹ da fruire di una duplice illuminazione naturale, garantita da due ranghi di finestre che consentono di apprezzare il magnifico soffitto ligneo e il sorprendente fregio pittorico a doppia fascia, alto ben 4 metri, riferito a Paulo Bril (1554-1626) e ai suoi collaboratori (sugli affreschi, cfr. P. Tosini, La decorazione tra Cinquecento e Seicento al tempo dei Mattei, in Palazzo Caetani storia arte e cultura, a cura di Luigi Fiorani, Roma, Fondazione Camillo Caetani, Istituto Poligrafico e zecca dello stato, 2007, pp. 141-170; G. Sapori, I paesaggi di Paul Bril nel fregio del Salone, in Palazzo Caetani - Il Salone Restaurato 2015Particolare del soffitto in restauro. Palazzo Caetani î ‚ 4-5 (2017) î ‚
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2016, Spoleto, Fondazione Camillo Caetani, Nuova Eliografica, 2016). Il sontuoso soffitto a lacunari fu commissionato nel 1598, diversi anni dopo il completamento del palazzo, dal cardinal Gerolamo Mattei, a Pietro Paolo Olivieri (1551-1599), il quale, per dissimulare le irregolarità della sala, adottò una distribuzione a quincunx, con un lacunare rettangolare al centro e quattro quadrati agli angoli, rilegati a quello centrale da due coppie di cassettoni minori rettangolari (per Pietro Paolo Olivieri, Dizionario Biografico degli Italiani, 79, Roma 2013, ad vocem; si veda anche C. Conforti – M. G. D’Amelio, Di cieli e di palchi: soffitti lignei a lacunari in Roma moderna, in «Bollettino d’Arte», volume speciale Palazzi del Cinquecento a Roma, 2016). I contratti stipulati per le opere in legno e per le pitture rivelano dispositivi costruttivi, tra i quali l’aderenza della nuova struttura al soffitto preesistente, di cui vengono riutilizzati alcuni travicelli e molte modanature (ASR, Trenta Notai Capitolini, uff. 2, Atti Francesco Righetti, vol. 41, ff. 479-480). La Fondazione Caetani, proprietaria del palazzo, ha intrapreso, nel 2015, un accurato restauro del soffitto e dei suoi fregi pittorici, affidato alla provata esperienza di Gioia Alessandri, del Laboratorio Alessandri Restauri, che ne ha restituito la primitiva bellezza. Sono riaffiorati, coperti da precedenti restauri con tinte blu e rosse, i motivi policromi 16
fitomorfi e meandriformi delle fasce piane; questi (greche, cancorrenti, motivi vegetali) erano e sono – ora, dopo il restauro – accordati con le forme degli intagli e con le cromie degli affreschi sottostanti. Gli incontri con Gioia Alessandri, sulle impalcature del cantiere, sono stati decisivi per la verifica delle notizie documentali, emerse nel corso di uno studio sui soffitti lignei a lacunari a Roma in epoca Moderna, condotto dall’Università di Tor Vergata (dal 2014 è in corso la ricerca Uncovering Excellence, Wood, Luxury, Antiquity and Crafts in the Coffered Ceilings of Renaissance and Baroque in Rome, coordinata da C. Conforti e M. G. D’Amelio, Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa “Mario Lucertini”, Università di Roma Tor Vergata. Il primo incontro con Gioia Alessandri è avvenuto il 10 luglio del 2015). Nel suo laboratorio ‘aereo’, Gioia si è generosamente soffermata sui particolari costruttivi e sulle tecniche decorative del soffitto, e ha condiviso con noi le scoperte del restauro. L’intesa è stata immediata ed è nata l’idea di un’intervista, che si è svolta nella sala Magna del palazzo, il 25 novembre del 2015. Ringrazio Lorenzo Ciccarelli per la collaborazione, e sono grata a Claudia Conforti per i suoi preziosi consigli. Sono debitrice a Leonardo Baglioni, Università di Roma La Sapienza, per le fotografie a corredo del testo. Maria Grazia D’Amelio
Studi in corso Papa Gelasio II, i Caetani di Sermoneta e l’Isola Tiberina Lo studio in corso, che muove dalla mia tesi di dottorato (borsa Caetani presso Università degli Studi Roma Tre) sull’Area del Foro Olitorio, Foro Boario e Isola Tiberina, ha l’obiettivo di chiarire l’eventuale appartenenza di Gelasio II (Papa nel biennio 1118-1119) ai Caetani di Sermoneta, e la storia delle proprietà di questi ultimi sull’Isola Tiberina. Punto di partenza della ricerca è l’opera di Costantino Gaetani dal titolo Commenti alla Vita di Gelasio II di Pandolfo Pisano, edita nel 1638. L’autore, esponente di spicco dell’epoca della Controriforma, e appartenente ad un ramo collaterale dei Caetani, elaborò una grandiosa ricostruzione storico-erudita, nella quale immaginava che la prima apparizione dei Caetani sull’Isola Tiberina fosse databile almeno all’inizio del XII secolo, quando Giovanni Gaietanus, primo esponente del ramo romano del nobile lignaggio, e Papa col nome di Gelasio II, avrebbe acquistato alcuni terreni sull’Isola. Nei secoli seguenti, la teoria di Costantino riscosse un notevole successo tra una serie di autori molto vicini ai Caetani (spesso memPalazzo Caetani 4-5 (2017)
bri della famiglia stessa, o direttori dell’archivio familiare), e contribuì a formare, all’interno della ricca bibliografia sulla storia della famiglia, un vero e proprio filone di studi, che faceva risalire le origini della casata indietro nel tempo, sino ai duchi di Gaeta. Allo scopo di raggiungere conclusioni storicamente attendibili, la tesi dell’erudito sarà, prima di tutto, divisa in tre distinti problemi di ordine storico-topografico: l’appartenenza di Papa Gelasio II alla famiglia Caetani; i primi possedimenti documentati della famiglia Caetani sull’Isola Tiberina (al di là di Gelasio II); i contatti tra Papa Gelasio II (indipendentemente dalla sua appartenenza ai Caetani) con l’Isola e con la zona tra Ghetto, Foro Olitorio e Foro Boario. Come spesso accade, pur parlando del tempo di Gelasio II e della sua appartenenza al ramo romano dei Caetani, l’opera di Costantino Gaetani ci racconta, in realtà, l’epoca dell’autore, e i suoi rapporti con i Caetani di Sermoneta. Il secondo passo, di conseguenza, consisterà nel tralasciare la verifica delle teorie di Costantino (che possiamo senza 17
dubbio attribuire al genere delle ‘genealogie incredibili’), per concentrarsi sulla genesi, sulle cause e sui committenti (gli stessi Caetani di
Sermoneta) delle sue ipotesi. Giulio Del Buono
Signori delle acque La mia tesi di dottorato (borsa Caetani presso Università degli Studi Roma Tre) ha come argomento i feudi Caetani tra Medioevo ed Età Moderna. Le fortune delle famiglie feudali sono assai spesso dettate da diversi fattori: dal mero possesso di luoghichiave, strategici per i percorsi commerciali o per i condizionamenti politici, alle capacità personali nel comando e nell’organizzazione di uomini e mezzi, fino alla continuità e alla gestione del potere. Resta esemplare al riguardo, nella storia della feudalità italiana, il caso di Roffredo III Gaetani (c. 1270-c. 1335), il quale, nella sua posizione precaria di signore inviso ai Colonna e agli altri potentati di Campagna, tentò, tramite accordi, tregue e concessioni, di salvaguardare il suo ‘stato’. Forte dell’ingerenza che si era conquistato negli affari del Regno di Sicilia, e grazie ad oculate alleanze e alla salda fede guelfa, che gli aveva garantito la fiducia del re, riuscì, negli anni successivi al 1319, a restaurare la rocca di Fondi. 18
Questo aspetto pratico della sua azione signorile è una delle componenti del dominio utile, che racchiude in sé i concetti dell’uti-frui e della percezione dei frutti. All’interno di questa cornice di storia del diritto e della mentalità, quindi, appare importante e meritevole di ulteriori approfondimenti la capacità dimostrata da Roffredo III di intervenire sul proprio dominio, pianificandone l’organizzazione ai fini dello sfruttamento economico e della difesa militare – aspetti, questi, preminenti, anche a tutela della salute degli abitanti. L’intera piana di Fondi, in quell’epoca, versava, infatti, in condizioni rovinose, a causa degli squilibri idrogeologici. Nell’atto di subentrare nel possedimento feudale, Roffredo III dovette, perciò, compiere vasti lavori di dissodamento e bonifica, che probabilmente, fino ad allora, erano stati disattesi. Non sono ben ricostruibili le fasi di queste imponenti operazioni; tuttavia, sembra chiaro il legame tra le opere di bonifica dell’area a nord-est di Napoli, messe in atto da
re Roberto tra il 1311 ed il 1312, e queste laziali, che il regnante sovvenzionò. Questa sostanziale comunione di intenti tra re e feudatario induce ad ipotizzare un passaggio di competenze e conoscenze tra la curia napoletana e la contea, finalizzato al progetto di ricostruzione della cittadella fortificata e dei suoi percorsi viari interni,
che furono pavimentati. Alla partecipazione attiva della popolazione di Fondi a questo progetto signorile si deve, forse, ricondurre anche la concessione degli statuti civici da parte del signore gaetano. Alfredo Franco
Un codice palinsesto della Commedia nell’Archivio Caetani All’interno della vastissima tradizione manoscritta della Commedia dantesca (oltre 850 codici, distribuiti tra il XIV e il XV secolo), il testimone conservato presso l’Archivio della Fondazione Camillo Caetani (Fig. 1) ha attirato l’attenzione degli studiosi fin dai pionieristici studi di Colomb de Batines (1846) e Carl Täuber (1889). Assegnato concordemente ad un periodo compreso tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, fu riportato da Albinia de la Mare (1979) e Augusto Campana (1981) agli ambienti frequentati dai copisti e dagli intellettuali che orbitavano intorno alla prestigiosa figura di Coluccio Salutati, per tre decenni cancelliere della Repubblica di Firenze, e convinto promotore della rinnovata cultura umanistica. Misteriosa resta l’identità del trascrittore: Sandro Palazzo Caetani 4-5 (2017)
Bertelli (2007) ha proposto l’attribuzione alla mano di Luigi di Ser Michele Guidi, notaio fiorentino vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo; ma tale ipotesi è stata smentita da Teresa De Robertis (2016), che aveva attribuito al Guidi, in precedenza (2006), un piccolo corpus di una decina di codici. Quanto, invece, alla localizzazione, sembra certo che il codice fu confezionato in area fiorentina. La Commedia Caetani è, in questo periodo, oggetto di una ricerca condotta da Valentina Fele nell’ambito di una tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Roma La Sapienza; l’obiettivo di questo lavoro è quello di approfondire lo studio del testimone romano in ottica strettamente paleografica e codicologica. Un primo risultato, di cui si può dare conto in questa sede, è l’individua19
Fig. 1 – Roma, Archivio Caetani, Misc 1221/1245, c. 75r. 20
Fig. 2 – Roma, Archivio Caetani, Misc 1221/1245, c. 51v., particolare (fotografia scattata con l’ausilio della lampada a raggi ultravioletti).
Fig. 3 – Roma, Archivio Caetani, Misc 1221/1245, c. 43v., particolare (fotografia scattata con l’ausilio della lampada a raggi ultravioletti).
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zione di un gran numero di carte palinseste (ovvero soggette ad una procedura di riuso consistente nella cancellazione di un testo primitivo, e nella successiva riscrittura); tale rilevazione, compiuta grazie all’ausilio della lampada a raggi ultravioletti, ha permesso di cogliere alcune labili tracce di un inventario di masserizie, compilato in un’elegante mercantesca toscana, risalente alla seconda metà del Trecento (Figg. 2 e 3). Sarebbe interessante capire chi abbia fornito al nostro copista quel materiale di scrittura: ciò potrebbe attestare la sua appartenenza ad una famiglia mercantile, anche se non si può escludere che abbia ricevuto le membrane in disuso dal committente del testo; in questo secondo caso, saremmo dinanzi ad
un copista ‘a prezzo’, secondo una circostanza che parrebbe avvalorata dall’attribuzione alla sua mano di una seconda copia della Commedia (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 90, sup. 132). D’altro canto, la presenza di varianti testuali di sua mano nei margini di un altro codice del poema dantesco (il ms. 1031 della Biblioteca Riccardiana di Firenze) costituisce un significativo indizio a favore di un’ipotesi tutt’affatto differente, ovvero quella di un copista-studioso, che avrebbe allestito il codice ora conservato all’Archivio Caetani ad uso proprio, come ipotizzato prima da Michele Barbi (1932) e poi da Augusto Campana (1981). Marco Cursi – Valentina Fele
Il ritrovamento del codice (1976) nel racconto di Hubert Howard* «Il 9 Gennaio 1976, verso le ore 15:00, durante il trasloco delle filze dell’archivio economico ed amministrativo dall’ambiente dell’attuale amministrazione1 alla loro nuova dimora, nel Palazzetto, il signor Osvaldo Carpifave, portiere del Palazzo Caetani ed usciere dell’archivio della Fondazione, mise le mani sul prezioso codice dantesco della Divina Commedia2, che mancava già da qualche decen22
nio, mentre lavorava assieme ad altri quattro giovani, sotto la direzione del rag. Lauro Marchetti. La storia dello smarrimento del codice, come mi fu raccontata dal duca Roffredo Caetani, è la seguente: durante la Seconda guerra mondiale, nell’inverno del 1943, venne chiesto al duca Caetani di mostrare il codice ad uno specialista, proprio prima che si accingesse a lasciare Roma
per recarsi a Ninfa. A tale scopo, il duca fece trasferire il prezioso codice dall’amministratore Angeli, indicandogli di muoverlo dalla cassaforte dell’amministrazione al suo studio. A seguito della visita dello specialista, affrettatosi per la partenza imminente, e pensando che sarebbe comunque tornato a Roma dopo un paio di giorni, il duca ripose il codice in uno degli armadi del suo studio, nascondendolo sotto la propria biancheria, e si diresse con la famiglia verso Ninfa. Il giorno dopo, gli alleati sbarcarono ad Anzio, dove si consumò una feroce battaglia, con bombardamenti, estesa fino a Cisterna; cosa che impedì al duca di rientrare subito a Roma. Passarono circa tre mesi prima che poté ritornare in città con la propria famiglia; ma, purtroppo, al suo ritorno, non trovò più il codice. Disperato per la perdita, il duca informò subito le autorità, estendendo le ricerche anche a biblioteche e ad antiquari, in Italia e all’estero. Ma ogni tentativo risultò vano. Più volte mi pregò di continuare le ricerche per conto suo, all’interno e all’esterno del Palazzo, ma non seppe mai indicarmi un luogo dove pensasse che il codice potesse essere nascosto. La scoperta del codice pone alcuni problemi ed interrogativi sconcertanti: 1. come abbiamo detto, il codice fu scoperto tra le carte dell’archivio economico ed amministrativo di Roma, accuratamente nascosto dietro due filari di filze, ad un’altezza di Palazzo Caetani 4-5 (2017)
circa tre metri, tra gli scaffali dell’ufficio principale; 2. solo il duca stesso e gli addetti all’amministrazione avevano le chiavi dell’archivio. È dunque da escludere che domestici o altro personale potessero entrare, all’epoca, senza permesso, o senza essere identificati; meno ancora è probabile che questi potessero arrampicarsi sugli scaffali, per nascondere un libro senza essere veduti; 3. dopo il licenziamento, nel 1946, dell’amministratore comm. Angeli e della sua segretaria, la signorina di Pillo3, ricevemmo una chiave dell’archivio il signor Federico Bracco, nel 1947, e, dopo la morte del duca, io, che preferii cederla in busta sigillata al dott. Fiorani, archivista della Fondazione, quando questi cominciò a schedare l’archivio economico; 4. il primo giorno in cui iniziò il trasporto delle filze dall’ambiente dell’amministrazione al Palazzetto, ovvero l’8 Gennaio 1976, il rag. Bracco, all’inizio dei lavori, sollecitò il portiere Osvaldo Carpifave, il rag. Lauro Marchetti ed altri che lavoravano a prestare attenzione nella fase di rimozione delle filze, poiché tra gli
Trascrizione a cura di Caterina Fiorani della minuta preparata da Hubert Howard per il Consiglio della Fondazione del 26 febbraio 1976. 1 Che verrà dato in affitto ai f.lli Sonnino, a partire dal 1° marzo 1976. 2 Conosciuto come il codice Caetani, dalla denominazione di Marsilio Ficino. 3 Che poi sposò. *
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scaffali4 poteva nascondersi il prezioso codice, smarrito da molti anni. Quando Donna Lelia ed io lo interrogammo su questo punto5, egli ci disse che ricordava vagamente che, una volta, il duca gli aveva detto di non escludere che il codice potesse essere nascosto tra le filze dell’archivio economico. E infatti fu così. Evidentemente, le filze fungevano da nascondiglio anche per altri oggetti – vi si trovò anche un pacco di caffè non tostato, involuto in un giornale tedesco del 1941. Dopo la morte del duca, il signor Bracco mi chiese altresì di ispezionare, nel caso in cui il codice fosse stato nascosto proprio lì, un certo armadio del grande salone, celato da un quadro; ma non vi trovammo nulla». Le filze e gli scaffali tra cui venne, appunto, rinvenuto il codice. 5 Il duca non ci aveva mai accennato nulla di simile. 4
Riproduzione fotografica del codice Caetani della Divina Commedia Nel corso del 2016, la Fondazione Camillo Caetani ha voluto affidare a Danilo Renzulli il delicato lavoro di riproduzione fotografica del prezioso codice Caetani della Divina Commedia. Il lavoro di fotografia si è reso necessario non solo per una corretta conservazione e per la necessaria limitazione al maneggio degli studiosi, ma, soprattutto, per permetterne una più facile lettura ed un’eventuale identificazione dei numerosi scoli – per ora studiati da Oscar Kristeller e Albinia de la Mare, i quali tentarono di attribuirli a Marsilio Ficino.
Un lettore di Dante nella Firenze quattrocentesca Ser Piero di Bonaccorso Bonaccorsi (1410-77), notaio di professione e “dantista per passione” della Firenze quattrocentesca, è noto agli studi danteschi principalmente in quanto autore del cosiddetto Cammino di Dante. Si tratta di un’opera poco frequentata e solitamente considerata la prima topo-cronografia della Comme24
dia: un’anticipazione del meglio noto (benché perduto) lavoro di Antonio Manetti intorno al ‘sito, forma et misura’ dell’inferno di Dante, ripreso tanto da Cristoforo Landino nel suo monumentale commento al poema (1481), quanto da Girolamo Benivieni nella celebre edizione Giuntina del 1506. Secondo l’opinione corrente, il
lavoro di ser Piero sarebbe espressione di una lettura ingenua del poema, e frutto acerbo di un interesse topografico tutto fiorentino, certo peculiare e nemmeno trascurabile nei suoi esiti (annoverando fra gli altri persino il giovane Galileo, che discusse il tema del locus inferni in due lezioni all’Accademia Fiorentina, nel 158889), ma in definitiva marginale: una bizzarra curiosità da eruditi, insomma. Una ventina d’anni fa, un volume di Stéphane Toussaint (De l’Enfer à la coupole: Dante, Brunelleschi et Ficin. A propos des “codici Caetani di Dante”, prefazione di Eugenio Garin, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 1997), pubblicato sotto gli auspici della Fondazione Caetani, portava finalmente alla luce il complesso intreccio fra interessi danteschi ed Umanesimo ‘architettonico’, sviluppatosi nella Firenze quattrocentesca, all’ombra della miracolosa cupola senza armatura di Filippo Brunelleschi. L’interesse per la topografia infernale veniva riconsiderato da Toussaint nel quadro di una poesia e di una filosofia che tendono a farsi pratica, a conquistare il dominio sulla realtà attraverso la geometria e la misurazione. Un lavoro di profondo impegno storiografico e filosofico, in cui il Cammino di Bonaccorsi compare quale episodio non trascurabile di una tradizione esegetica dantesca che si fa spazio di crescita di un pensiero e di una progettazione nuovi. Da qui, la suggestiva ipotesi che, proprio nella cupola e nella sua sezione interna a cono rovesciato, sia possibile intravePalazzo Caetani 4-5 (2017)
dere una proiezione della cavità infernale immaginata da Dante. La piccola opera del Bonaccorsi, dunque, viene affrancata dal ruolo di bizzarro passatempo, per essere promossa a terreno di prova di una riflessione sullo spazio e sul cosmo. Due erano i codici della collezione Caetani considerati da Toussaint: da un lato, la celebre Commedia, su cui si è soffermato, a partire almeno da Kristeller, lo sguardo di numerosi studiosi. Dall’altro, un testimone autografo del Cammino di Bonaccorsi (Misc. 1198/1222), reso noto e descritto nel 1956 da Pio Pecchiai. Ho avuto modo di riprendere in mano proprio questo codicetto pergamenaceo di ser Piero, splendidamente conservato, nell’ambito di una ricerca che ha coinvolto tutti i noti testimoni del Cammino, e, in particolare, le rappresentazioni di inferno, purgatorio e paradiso. I risultati sono stati presentati nell’aprile 2016 in un convegno presso la Società Dantesca Italiana a Firenze (Dante visualizzato. Le carte ridenti II: XV secolo, prima parte), e verranno a breve pubblicati negli atti. Scopo primario dell’indagine era quello di riconsiderare le rappresentazioni topografiche che il Bonaccorsi offre dei regni oltremondani, alla luce della non trascurabile tradizione trecentesca di diagrammi dell’aldilà. I disegni schematici che si trovano pressoché in ogni edizione moderna della Commedia, infatti, hanno una tradizione insospettabilmente lunga, che risale addirittura ai più antichi manoscritti 25
del poema. Il loro impatto sul nostro immaginario non è trascurabile: l’inferno di Dante sarà per tutti (persino per chi non abbia letto il testo per intero) una cavità ad imbuto; il purgatorio, la grande montagna-ziqqurat. Un immaginario sfruttato mirabilmente da Primo Levi nella descrizione, in Il sistema periodico, della cava amiantifera di Balangero, non paragonabile a nulla se non «alle rappresentazioni schematiche dell’inferno, nelle tavole sinottiche della Commedia». La cava, dunque, non assomiglia all’inferno, ma ad uno di quegli schemi noti a tutti, e la cui sola menzione basta a rendere l’idea. Aveva ragione Levi a ricordare come queste schematiche rappresentazioni topografiche faccia26
no il paio con le tavole sinottiche del poema, ovvero con tutti quegli apparati che permettono di riassumerne il contenuto. Di fatto, potremmo dire che le due funzioni si assommano fin dai primi testimoni, secondo un meccanismo permesso dal poema stesso: la narrazione del viaggio, infatti, si dipana attraverso i luoghi che corrispondono, di conseguenza, a porzioni di testo. E proprio su questo gioca il Cammino di Piero, non essendo altro che un riassunto della Commedia, ridotta alle sue partizioni principali, coincidenti con i luoghi attraversati. Proprio il Cammino Caetani, però, rende palese (e meglio di altri testimoni) come alla volontà di ripercorrere il testo e la struttura morale dell’aldilà
dantesco si aggiunga un’esplicita ambizione cartografica, non sorprendente nella Firenze che aveva appena tradotto la Geografia di Tolomeo, che aveva perfezionato la prospettiva lineare, e raggiunto vertici inusitati nella geometria e nell’architettura grazie all’impresa brunelleschiana. Come in un altro autografo del Cammino (Riccardiano 1122), il testo è preceduto ed introdotto da una coppia di immagini. Sul recto troviamo la montagna del purgatorio, circondata dai nove cieli astronomici e dall’empireo. Spicca alla base della montagna l’uscita dell’inferno, corredata di didascalia: «bucho et fiume che esce di inferno». Sul verso della carta, si trova un diagramma della voragine infernale inclusa in un cerchio più ampio, Palazzo Caetani 4-5 (2017)
il «globo della terra». Ebbene: se nel testimone Riccardiano il foro d’uscita dell’inferno sulla spiaggia purgatoriale trova corrispondenza perfetta nel verso della carta, all’altezza di quello che Piero chiama «punto ponderoso» – ovvero il centro della terra, dov’è il pube di Lucifero –, nel codice Caetani, la metà del corpo di diavolo corrisponde, sul recto, al buco lasciato dal compasso per realizzare le sfere celesti. Se è vero che il foro viene a trovarsi, così, all’altezza della seconda cornice purgatoriale, è anche vero che, da un punto di vista cosmologico, esso corrisponde perfettamente al centro dell’universo. Qui, più che altrove, è insomma evidente il tentativo di realizzare una rappresentazione dei tre regni che obbedisca 27
ad una medesima logica complessiva, e che possa rendere conto tanto del fatto che inferno e purgatorio sono posti dentro e sopra lo stesso globo, quanto del loro collocamento all’interno del cosmo. Un tentativo che obbedisce non a preoccupazioni insensate, ma ad
una profonda riflessione – condotta ai massimi livelli, nella Firenze quattrocentesca – sulla posizione dell’uomo nel cosmo, sulla forma della terra, sulla presenza del divino in essa. Anna Pegoretti
Un ritratto di Alfonso Caetani Nelle sale della Fondazione Camillo Caetani, in via delle Botteghe Oscure, sono molti i ritratti dei membri della famiglia appesi alle pareti e raccolti insieme, per scelta della Fondazione stessa, come a voler popolare ancora quel palazzo in cui molti degli effigiati avevano realmente vissuto. Tra questi, si conserva un piccolo dipinto di autore ignoto, che aveva attirato la mia attenzione nel corso delle ricerche per il dottorato perché, ad una più accurata osservazione, l’edificio rappresentato sullo sfondo mi pareva noto. Si tratta del ritratto di Alfonso Caetani (inv. 718, olio su tela, cm 43×31), e l’edificio in scorcio in secondo piano sembra decisamente simile a quello riprodotto in un’incisione ottocentesca del Gabinetto Comunale delle Stampe, e in una vecchia foto degli inizi del Novecento (entrambe pubblicate in Palazzo Caetani, storia, arte cultura, a cura di L. Fiorani, Roma 2007, pp. 86-87), con il corpo di fabbrica prin28
cipale della cosiddetta Villa Caserta, la villa che i Caetani possedevano sull’Esquilino, oggetto delle mie ricerche per il dottorato (cfr. Bollettino della Fondazione Camillo Caetani, 3, 2015, pp. 24-30). I due edifici sono pressoché identici; inoltre, l’identificazione è indubbia, vista la presenza nel dipinto dell’arco romano di Gallieno, comunemente detto di S. Vito, dal nome della chiesa adiacente, e sempre menzionato come riferimento topografico nelle descrizioni della villa e del relativo palazzo. Si è trattato di una scoperta inaspettata e molto interessante; anche perché, durante le ricerche relative alla villa Caetani, in cui ho esaminato dei documenti che descrivevano i lavori eseguiti all’interno del palazzo, nucleo residenziale della villa, e in cui venivano elencati tutti gli ambienti che formavano gli appartamenti, uno di questi veniva indicato come appartenente a ‘don Alfonso’. Ho cercato, dunque,
di chiarire chi fosse Alfonso Caetani, soprattutto per comprendere se, in qualche modo, egli avesse contribuito alla sistemazione più tarda della villa, e ad eventuali lavori; ma le informazioni disponibili erano e sono esigue, sia dal punto di vista biografico, sia documentario. Le uniche notizie sulla sua vita sono quelle riferite da Gelasio Caetani nella sua Genealogia (G. Caetani, Caietanorum genealogia, Perugia 1920, p. 92). Alfonso Caetani nacque il 25 giugno 1792 (fede di nascita in Arc. Caet. n. 198013), quarto ed ultimo figlio del duca Francesco V Caetani (1738-1810) e di Anna Maria Meucci, sposata da questi nel 1779, in seconde nozze, dopo la morte della prima moglie, Teresa Corsini. Oltre alla data della Cresima, e alla notizia di essere stato membro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, non c’è nulla di più; evidentemente, egli non si sposò mai, poiché nessun matrimonio è registrato, e morì il 29 giugno 1870, Palazzo Caetani 4-5 (2017)
appena dopo aver compiuto, dunque, 78 anni. Come di consuetudine per i figli maschi non primogeniti, visse a completo carico del padre, e, successivamente, del fratello maggiore Enrico (1780-1850), il quale aveva ereditato il titolo e la primogenitura (il primo in linea ereditaria era il figlio maschio nato dalle nozze con Teresa Corsini, Filippo, che però morì nel 1790). Alla morte del fratello Enrico, il mantenimento di Alfonso passò nelle mani dell’erede al titolo, il nipote Michelangelo II (1804-1887), che si occupava della gestione degli affari della famiglia, e della distribuzione dei vitalizi per il sostentamento di tutti i suoi membri. Le ricerche su Alfonso Caetani sono proseguite nell’Archivio di Stato di Roma e nell’Archivio Storico dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, per cercare di delineare con maggior precisione la personalità di questo personaggio, che aveva vissuto a 29
lungo, ma che sembrava scomparso dalle memorie di famiglia. Entrambe le indagini sono state utili per aggiungere qualche dettaglio in più alla sua biografia. Nell’Archivio dei Cavalieri di Malta è conservato un fascicolo (ASMOM, serie A, fald. 183, fasc. 11) che contiene la richiesta ufficiale di Alfonso di entrare a far parte dell’Ordine gerosolimitano, e, soprattutto, una documentazione molto dettagliata per dimostrare il suo grado di nobiltà – elemento imprescindibile per poter far parte dell’Ordine. La questione fu abbastanza dibattuta, tanto da far quasi desistere il Caetani – sua madre Anna Maria Meucci non solo non era nobile di nascita, ma, forse, era anche donna di umili origini, dato che lavorava, probabilmente, in servizio alla villa Caserta (viene menzionata come una dei ‘famigliari’ nel Giornale delle cose rimarcabili nel Felice Governo dell’Ecc.mo Signor Don Francesco Caetani Duca di Sermoneta, in Archivio Caetani, Misc. 190/331, f. 119v). Questa circostanza creò non pochi problemi al figlio del duca, che venne infine accettato, data l’importanza del suo nome, e la presenza di altri membri della casata nell’Ordine (nel 1788, monsignor Onorato Caetani venne insignito della Croce di Devozione dei Cavalieri di Malta). Nell’Archivio di Stato di Roma, ho reperito il testamento di Alfonso Caetani (ASR, Trenta notai capitolini, notaio Antonio Bini, officio 19), che venne aperto il giorno stesso della sua morte, il 29 gennaio 1870, su richiesta 30
del nipote Michelangelo II, suo erede. Nel piccolo ritratto della Fondazione – in ottimo stato di conservazione, grazie anche al recente restauro, che ne ha integrato le piccole cadute di colore, e che ne permette, ora, un’ottima lettura –, Alfonso Caetani viene raffigurato in piedi di fronte al muro di cinta della villa, quindi all’esterno di questa, così da poter includere nella veduta dello sfondo anche l’antico arco romano. Non sappiamo se questa scelta sia dovuta alla volontà dell’artista o allo stesso Caetani, il quale, forse, aveva voluto includere, come già detto, un elemento topografico di rilievo, in modo da rendere riconoscibile l’edificio alle sue spalle, e, allo stesso tempo, per assecondare il gusto, allora diffuso, di rappresentare opere e monumenti dell’antichità a corredo dei ritratti di nobili e viaggiatori – sinonimo di cultura e di gran moda. La villa fu rappresentata non solo per celebrare una delle proprietà di famiglia, ma, forse, anche perché Alfonso la elesse come sua residenza, alternativa al palazzo alle Botteghe Oscure, nel periodo successivo alla morte del padre Francesco, che avvenne nel 1810, e con l’insediamento nel palazzo di famiglia dei successori Enrico e Michelangelo, rispettivamente suoi fratello e nipote. Il ritratto mostra un giovane elegante, con un bastone da passeggio e un libro aperto tra le mani, quasi come se fosse stato interrotto nella lettura, e distratto dal richiamo di qualcuno – in questo caso del pittore, che ne coglie l’e-
spressione pacata ma intensa, diretta allo spettatore. Purtroppo, il quadro non è firmato; sul retro della cornice è applicato un cartiglio, su cui è scritto «Don Alfonso Caetani penultimo figlio di don Francesco nacque 14 giugno 1792 – morì Cavaliere di Malta e Cameriere segreto di Leone XII (1823-29)». L’effigiato sembra molto giovane, e l’assenza della croce, simbolo dei Cavalieri di Malta, fa supporre che, quando egli fu ritratto, non ne era ancora membro – risulterebbe altrimenti strano che non volesse far sfoggio dell’onorificenza che tanto aveva desiderato ed atteso. Alfonso chiese di diventare Cavaliere di Giustizia con una richiesta ufficiale del maggio 1834. Le pratiche si protrassero per almeno un anno, ma la documentazione a nostra disposizione non fornisce alcuna indicazione a riguardo, se non quella relativa
al 24 dicembre 1851, giorno in cui gli venne affidata la croce di devozione. Considerando come termini cronologici la data di nascita del 1792, la richiesta ai Cavalieri del 1834, e l’aspetto estremamente giovane nel ritratto, possiamo ipotizzare che questo venne eseguito tra gli anni Dieci e i Venti dell’Ottocento, datazione che sembra confermata anche dalla foggia dell’abito. Per quanto riguarda l’identificazione del pittore, Stefano Grandesso, che ringrazio, suggerisce un orientamento nell’ambito di Jean François Sablet (1745-1819), il quale dipinse, durante il suo secondo soggiorno romano, negli anni Ottanta del Settecento, raffinati ritratti di eleganti personaggi della Roma del tempo. Giovanna Capitelli propone qui il nome di Tommaso Minardi. Ilaria Sferrazza
Una proposta per Minardi giovane: il ritratto di don Alfonso Caetani (1810 circa) Molto è noto sul sodalizio amicale che Tommaso Minardi (Faenza 1787Roma 1871) – fra i protagonisti della scena artistica romana ottocentesca – strinse con i fratelli Michelangelo e Filippo Caetani in età matura, quando entrambi frequentarono il suo studio a Palazzo Doria Pamphilj, Palazzo Caetani 4-5 (2017)
al Collegio Romano, per coltivare, da ‘nobili dilettanti’, l’esercizio del disegno (Susinno 1999). Di questo legame sono testimonianze ancora vivide e parlanti i minardianissimi album di acquerelli e disegni dei due fratelli, esposti, ormai diversi anni fa, in una graziosa mostra al Museo Napoleoni31
Fig. 1 – Tommaso Minardi, Ritratto di Michelangelo Caetani, 1825, matita nera su carta, Roma, Fondazione Camillo Caetani.
Fig. 2 – Tommaso Minardi, Ritratto di Michelangelo Caetani, 1825, matita nera su carta, Antonacci Lapiccirella Fine Art.
co (Il salotto delle caricature, 1999); il ritratto di Michelangelo Caetani, che Tommaso Minardi tratteggiò a grafite nel 1825 (Fig. 1), e l’altra versione autografa (Fig. 2); una lettera molto commovente con la quale Michelangelo descrive all’amico e maestro gli esiti della Repubblica Romana del 1849 (Ovidi 1902, p. 244, doc. XLV); infine, la voce esterna di Ernesto Ovidi, che ricorda nella biografia dell’artista come anche Enrico Caetani (divenuto duca di Sermoneta nel 1810), padre dei due allievi appena menzionati, fosse «legato al Minardi da particolare stima e amava di scrivergli sovente lettere confidenziali, briose e talvolta satiriche» (Ovidi 1902, p.10). È invece passato pressoché inosservato (se si esclude Ricci 2009 e
2012) il fatto che il pittore faentino trovò ospitalità ed amicizia nella famiglia Caetani sin dai primi anni del suo soggiorno a Roma, dopo il 1803, e che dal duca Francesco V questi ricevette, in segno di stima per le sue qualità, nel 1807-1808, l’incarico di dipingere la pala d’altare con l’Assunzione della Vergine per la chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo di Cisterna di Latina; un incarico che, per primo, scatenò nel pittore quegli infiniti ripensamenti ed angustie creative che avrebbero accompagnato tutta la sua pratica pittorica, al punto che, pur avendo condotto a termine il bozzetto per la pala nel 1809 (di cui, tuttavia, si ignora da sempre la collocazione, Ricci 2009, p. 94, nota 192; Ricci 2012, p. 257, doc. II), fu costretto a rinunciarvici.
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Fig. 3 – Tommaso Minardi, Ritratto di Alfonso Caetani giovinetto, 1810 circa, olio su tela, Roma, Fondazione Camillo Caetani. Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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Fig. 4 – Tommaso Minardi, Autoritratto nella soffitta, 1813 circa, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio Vasariano. 34
Una lettera di Francesco V Caetani a Tommaso Minardi, datata 16 aprile 1808 (Roma, Archivio di Stato, Fondo Ovidi, b.1, fasc.1, trascritta in Ricci 2009, p. 329, e Ricci 2012, p. 257, doc.1), ci mostra quanto paterna ed affettuosa fosse la confidenza tra il nobile e il giovane artista. Nell’epistola, scritta in risposta ad una sua, giuntagli da Bologna, il duca si interessa alla formazione di Minardi, approvando «il suo desiderio di trattenersi a Firenze per apprendere il metodo degli antichi Maestri di quella scuola». Tra i due corse, dunque, un fitto scambio epistolare, di cui, però, sembrano essersi conservati solo due esemplari unilaterali. Un’altra lettera del duca raggiunse, infatti, Minardi a Venezia il 1° luglio 1810 (in Ovidi 1902, pp. 194-195, doc.V), e fu l’ultima che Francesco V scrisse prima di morire; ma, stanti i nostri sondaggi, nessuna traccia delle lettere del giovane Minardi al duca si conserva nell’Archivio Caetani. Infine, a conferma di quanto fin qui riassunto, un altro significativo indizio della familiarità del pittore con i Caetani, esperita già nel primo decennio dell’Ottocento, e soprattutto di quanto questa significasse per lui, giunge dai Cenni autobiografici di Minardi, nella forma trascritta da Guglielmo De Sanctis (1900, p. 25, e, invece, censurata della frase riguardante i Caetani nella copia manoscritta conservata a Forlì, Biblioteca Comunale, Fondo Piancastelli, n. 288/194, pubbl. in Tommaso Minardi 1981, pp. 150-152). Palazzo Caetani 4-5 (2017)
Fig. 5 – Tommaso Minardi, Ritratto di Fortunato Duranti, 1815-16, matita grassa su carta, Fermo, Biblioteca Comunale, inv. n. 175.
In questo testo, descrivendo succintamente i suoi primi anni romani, Minardi ricorda come: «Era pur chiamato il ragazzo faentino, specialmente in casa Caetani, ove soleva andare talvolta dal Duca [don Francesco V Caetani] per essere stato a lui raccomandato nella mia venuta in Roma». Un piccolo ritratto mostratomi da Ilaria Sferrazza (che qui ringrazio) per un parere attributivo ha subito suscitato in me un’ipotesi di familiarità con la mano di Minardi, portandomi a riflettere sul contesto fin qui sunteggiato (Fig. 3). Recentemente restaurato, il dipinto raffigura il giovane Alfonso Caetani (Roma 1792-1870), vale a dire il figlio mal noto di Francesco V e della 35
seconda moglie, la bellissima Anna Maria Meucci, stante sullo sfondo di Villa Caserta. L’opera è databile con poco margine di dubbio – e per l’età del ritrattato, e per la foggia dell’abito indossato, e per punto di stile – approssimativamente al 1810, ossia al tempo della prima Roma napoleonica. Il dipinto è un prodotto di grande qualità di quella ritrattistica in piccolo ‘alla francese’, esemplata sul modello di Louis Gauffier e LouisLéopold Boilly, e portata ai suoi vertici da Jacques-Henri Sablet, anche a Roma. Tuttavia, a ben guardare, al di là della famiglia tipologica cui il ritratto di certo appartiene, la mano non sembra quella di un pittore francese. Il giovane Alfonso è colto nella disinvoltura della posa, mentre disegna su di un taccuino, con i capelli un poco scarmigliati e liberi, e il fiocco della cravatta svolazzante. Il quadretto possiede un’aria distintiva, di pittura raddolcita, attenta ai dettagli, neo-fiamminga, che mi sembra possibile collegare ad un dipinto, ad un hapax, se vogliamo, della carriera di Tommaso Minardi: il suo celebre Autoritratto nella soffitta (Fig. 4) – un’opera databile, com’è noto, al 1813 circa. Sappiamo, dalle ricerche di Laura Capon Piperno, che, proprio intorno al 1810, Minardi realizzò molti ritratti a matita, di amici e conoscenti, in una concentrazione di densità che non si verificò più avanti. Alcuni di questi sono perfettamente compati36
bili con lo stile del piccolo quadro (Fig. 5). La proposta che qui avanzo prudentemente è, allora, quella di riconoscere nel ritratto del giovane Alfonso della Fondazione Caetani un’opera del giovane Tommaso Minardi. Si tratterebbe di un ritrattino in pittura realizzato dall’artista all’indomani del ritorno dai viaggi d’istruzione al nord della penisola, qualche tempo dopo che Alfonso aveva perso il padre (cioè dopo il 24 agosto 1810); un pegno d’amicizia per l’orfano di poco più giovane, e per la famiglia di lui che l’aveva accolto con calore e fiducia. Giovanna Capitelli Bibliografia Guglielmo De Sanctis, Tommaso Minardi e il suo tempo, Roma 1900. Ernesto Ovidi, Tommaso Minardi e la sua scuola, Roma 1902. Laura Capon Piperno, Disegni giovanili di Minardi, in «Quaderni sul neoclassico», 4 (1978), pp.173-194. Tommaso Minardi. Disegni, taccuini, lettere nelle collezioni pubbliche di Forlì e Faenza, catalogo della mostra, a cura di M. Manfrini Orlandi e A. Scarlini, Bologna 1981. Il salotto delle caricature. Acquerelli di Filippo Caetani. 1830-1860, catalogo della mostra (Roma, Museo Napoleonico), a cura di C. Cannelli e G. Gorgone, Roma 1999. Stefano Susinno, Nobili e dilettanti a scuola di Minardi, in Il salotto
delle caricature. Acquerelli di Filippo Caetani. 1830-1860, catalogo della mostra (Roma, Museo Napoleonico), a cura di C. Cannelli e G. Gorgone, Roma 1999, pp. 29-42. Saverio Ricci, Il magistero purista di Tommaso Minardi. 1800-1850, tesi di dottorato, XXI ciclo, tutor En-
rico Parlato, Università degli Studi della Tuscia, Viterbo 2009. Saverio Ricci, Agli albori del Purismo. Il riflesso degli antichi maestri nell’opera del giovane Tommaso Minardi, in La ricerca giovane in cammino per l’arte, a cura di C. Bordino e R. Dinoia, Roma 2012, pp. 241-261.
Michelangelo Caetani e gli orafi Castellani: i documenti della Fondazione Della lunga amicizia e della stretta collaborazione che legò Michelangelo Caetani (1804-1882) all’orefice Fortunato Pio Castellani (1794-1865) e ai suoi figli Alessandro (1823-1883) e Augusto (1829-1914) vi è importante testimonianza tra i documenti dell’Archivio della Fondazione. L’incontro avvenne il 10 agosto del 1826 all’Accademia dei Lincei, in occasione della lettura di una memoria – riguardante le Ricerche ChimicoTecnologiche sul colorimento detto Giallone delle manifatture d’oro – da parte di Fortunato Pio, il quale, già da una decina d’anni, andava compiendo studi e ricerche per rinnovare la produzione del suo laboratorio. Un rinnovamento per il quale il ruolo di Caetani, con le innovative proposte di rivolgersi ai «lavori degli orafi italiani dell’epoche classiche», ai gioielli Palazzo Caetani 4-5 (2017)
archeologici, fu, come è ben noto, determinante. Disegni di Michelangelo Caetani per gli orafi Castellani si trovano su foglietti ritagliati ed incollati senza un ordine coerente sulle pagine di un album che raccoglie, corredati da pochissime date, disegni di generi ed autori diversi. Quelli di mano di Michelangelo si riferiscono prevalentemente a manufatti metallici – candelabri, lampade votive, calici, ostensori – e, in numero molto minore, a gioielli – braccialetti, spille, pendenti, studi per alcuni tipi di maglia intrecciata, motivi vegetali da utilizzare per diademi –, oltre a tagliacarte ed impugnature per bastoni da passeggio. Disegnati con molta cura e precisione – a volte acquerellati per evidenziare l’inserimento nell’oro di pietre colorate, smalti e micromosaici –, venivano affidati per la realizzazio37
ne, a volte seguita personalmente dal duca fino all’ultimo dettaglio, ai lavoranti del laboratorio degli amici orafi, la cui attività ebbe sede a palazzo Raggi, in via del Corso, dal 1823 al 1854, poi in piazza Poli e, infine, nel palazzo che reca ancora oggi il nome Castellani sull’architrave del portone di accesso, in piazza Fontana di Trevi. Celebrato luogo di incontri internazionali, non esclusivamente per i collezionisti di antichità e per gli amanti di oggetti preziosi, ospitava in riunioni molto riservate i protagonisti – e Caetani figurava tra questi – delle vicende politiche che spostarono la capitale del nuovo Regno d’Italia da Firenze a Roma. In aggiunta al volume menzionato, resta un piccolo album orizzontale, che raccoglie numerosi disegni geometrici e monogrammi, tra i quali quello più noto con le due CC – ideate come marchio per contrassegnare le oreficerie Castellani. Rimane, inoltre, trasformata in tempi recenti in un pendente, la parte centrale (oro, perle e un piccolo zaffiro) di un braccialetto disegnato in una delle diciotto lettere che Michelangelo Caetani aveva inviato, tra il 1860 e il 1862, ad Alessandro Castellani in esilio a Parigi. Le lettere, che integrano significativamente la folta corrispondenza dei volumi del fondo Castellani presso l’Archivio di Stato, sono essenziali 38
per ricostruire alcuni momenti della produzione e della grande e straordinaria fortuna che i gioielli Castellani ebbero proprio a seguito del soggiorno di Alessandro a Parigi. Gli argomenti trattati, anche solo accennati, sono i più vari, dall’indicazione di precise commissioni a notazioni politiche e sociali. Emergono, solo per fare un esempio, i rapporti molto stretti con Gioacchino Rossini, destinatario di un sigillo in fase di lavorazione, e, dai numerosi suggerimenti e proposte che si trovano nelle diverse missive, piccoli dettagli e spunti interessanti per nuove ricerche. Si accenna, ad esempio, all’uso, suggerito e caldeggiato da Caetani, della malachite, allora molto costosa, importata dalla Russia (una piccola parure d’oro con cammei in questo materiale, lavorata personalmente e con la sua firma in greco, è in Fondazione), ma usata da Augusto Castellani malvolentieri ed in via del tutto sperimentale solo per un breve periodo. Una recente ricerca effettuata su alcuni oggetti Castellani in occasione della mostra Splendida Minima (Firenze, Museo degli Argenti, 2016) ha suggerito un ulteriore approfondimento in questo specifico campo, al quale la lettura integrale delle lettere può offrire interessanti risposte. I materiali della Fondazione non sono del tutto inediti; sono Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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stati in parte consultati e pubblicati in varie occasioni, finalizzati a ricerche specifiche; le lettere non sono mai state trascritte integralmente. Si ricordano, tra coloro che ne hanno usufruito per le loro pubblicazioni, Charlotte Gere (1972), Ornella Francisci Osti (1981), Geoffrey Munn (1984), Stephanie Walkers (2004), Franca Taglietti, Caterina Fiorani (2015) e, soprattutto, Maurizio Donati. Si deve in particolare a quest’ultimo, che allo studio e al recupero di materiali legati all’attività degli orefici Castellani aveva dedicato un lungo ed appassionato lavoro di ricerca, prematuramente interrotto – documentato dalle sue numerose pubblicazioni, e dalle carte del suo archivio personale, pervenuto di recente presso l’Università degli Orefici di Sant’Eligio – la puntuale ricostruzione dei rapporti che legavano i Castellani a Caetani. Sono stati ricostruiti, grazie alla sua profonda e capillare conoscenza dei fondi, presso altri archivi, istituzioni e collezioni private, che di Michelangelo Caetani 40
conservano disegni e documenti: il già citato fondo Famiglia Castellani presso l’Archivio di Stato di Roma, e il Lascito Alfredo Castellani al Museo Artistico Industriale di Roma, in parte, oggi, presso l’Istituto Statale d’Arte Roma1. Si ritiene pertanto opportuno riunire in un’unica pubblicazione il testo completo delle lettere, i circa ottanta disegni (estrapolati dall’album e riordinati per tipologia e, ove possibile, cronologicamente), e alcuni oggetti custoditi dalla Fondazione, in modo da poter offrire agli studiosi un utile strumento di ricerca. Si prevede con Caterina Fiorani, che delle lettere ha già avuto modo di scrivere, nel 2015, in occasione del riallestimento della collezione Castellani nel Museo di Villa Giulia, di effettuare un riesame complessivo di tutto il materiale, alla luce degli studi più recenti, con la ricerca della bibliografia relativa ai documenti della Fondazione che, sparsa in pubblicazioni di vario tipo, non è sempre agevole reperire. Per i rapporti Caetani-Castellani si rimanda, per ora, alla voce del Dizionario Biografico degli Italiani, (G. Bordenache Battaglia – M.G.Gajo – G. Monsagrati, 1978), al catalogo della mostra I Castellani e l’Oreficeria Archeologica Italiana (Roma 2005), e al saggio di Maurizio Donati L’oreficeria: Michelangelo Caetani e i Castellani, in Palazzo Caetani, storia arte e cultura, (Roma 2007). Lucia Pirzio Biroli Stefanelli
L’attualità di Bassani. Cento anni dopo Il 2016 è stato il centenario della nascita di Giorgio Bassani. Si è trattato di un anniversario particolarmente sentito da un punto di vista culturale, come dimostrano i convegni di New York, Bruxelles, Roma-Ferrara e molteplici altre iniziative, tra cui ci piace ricordare quella di Ninfa, a cui ha partecipato Giulio Ferroni, e quella organizzata dalla Fondazione Camillo Caetani, incentrata sull’impegno ‘ambientalista’ dell’intellettuale di Ferrara. Di fronte ad una manifestazione di interesse così estesa è d’obbligo domandarsi quale sia l’eredità che Bassani ci ha lasciato; meglio ancora, quale sia il segno che la sua opera traccia nel mondo contemporaneo. Conseguentemente, occorre chiedersi perché proprio Bassani, e non altri scrittori, abbia visto un’improvvisa, e per certi aspetti sorprendente, rinascita. Proseguendo con ordine, c’è da dire che l’anno bassaniano non si è concentrato solo sulla letteratura, ma ha investigato anche aspetti cinematografici, saggistici, ambientalistici, religiosi, storici. Insomma, proprio il disimpegnato Giorgio Bassani – ‘la Liala degli anni Sessanta’, per riprendere una celebre, quanto ormai non più fortunatissima, espressione del passato – viene oggi percepito come Palazzo Caetani 4-5 (2017)
un intellettuale. E dunque, ritornando nei confini della letteratura, possiamo dire che Il giardino dei Finzi-Contini, le Storie ferraresi, Gli occhiali d’oro vengono sottratti alla dispregiativa aerea della ‘letteratura amena’ (per dirla con Lukács), o della ‘malafede’ (ricorrendo a Sartre), insomma della scrittura facile e quasi di consumo, per essere invece letti in senso del tutto opposto. Ciò che ha contraddistinto i convegni di quest’anno, infatti, è stata un’interpretazione più politica e sociale dell’opera narrativa di Bassani. I suoi romanzi sarebbero il tentativo di mettere in moto un’azione politica (ma non partigianamente schierata, se non in una generica ‘terza via’), per contrastare le spinte più reazionarie della società. Evidente è il suo impegno per la memoria dell’Olocausto. Tutto il Romanzo di Ferrara, ma in modo particolare alcune novelle (Una lapide in via Mazzini, ad esempio), costituiscono un violento j’accuse ad una società, specificamente a quella ferrarese ed ebrea, che fa di tutto per dimenticare e per lasciarsi il passato alle spalle. Ma dopo la dimenticanza c’è il baratro dell’inconsapevolezza, che può riprodurre gli stessi tragici eventi. Per questo motivo tutta l’opera di Bassani è il tentativo di salvare la memoria: si tratta di una memoria 41
non intimistica, come spesso è stato detto, ma piuttosto sociale e collettiva. È questo il Bassani che si impone negli anni Dieci del XXI secolo. E poi, per rispondere alla seconda domanda, perché proprio Bassani ottiene, oggi, un successo di critica, che sembra quasi un risarcimento rispetto agli attacchi violenti degli anni Sessanta, e all’emarginazione dei successivi decenni? Se limitiamo la risposta al puro piano sociale, possiamo sostenere che in un’epoca postideologica quale è la nostra, proprio gli scrittori meno legati a precise parole d’ordine possono tornare in auge (di qui, ad esempio, anche il nuovo interesse per Brancati, per Parise o, per certi aspetti, per un minore come Tobino, omaggiato dal consueto Meridiano). La spiegazione è senz’altro vera, ma non risponde integralmente al quesito posto. In realtà, è più decisivo interrogare le attuali tendenze critiche in campo letterario. Da questa indagine non si fatica a notare come, negli ultimi dieci anni, la parola chiave della narrativa sia stata realismo: nel 2006, del resto, esce Gomorra, con il dibattito che ne segue, e nel 2007 viene pub-
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blicato un libro teorico importante quale Realismo. Una storia possibile, di Federico Bertoni. E il concetto di realismo non è solo un elemento guida per l’attuale produzione romanzesca (Siti, Lagioia, Durastanti, Pecoraro, ecc.), ma anche per una rivisitazione del Novecento appena trascorso, e specificamente di quello del secondo dopoguerra. Ebbene, proprio questa rilettura della storia letteraria degli ultimi cinquanta, sessant’anni restituisce a Bassani un ruolo di primo piano. I suoi romanzi, infatti, conciliano impegno e rappresentazione sociale (realistica e non deformata), fanno dialogare micro e macrostoria, si sbilanciano in giudizi e condanne senza voler essere didascalici. Inoltre, recuperando uno dei dogmi del realismo classico, e di cui spesso ci si dimentica, queste opere sono estremamente leggibili: la costruzione lineare e lo stile non virtuosistico sono funzionali al dialogo con il lettore. E questo dialogo, possiamo ben dire, continua anche dopo cento anni. Massimiliano Tortora
Acquisizioni e restauri Statuetta raffigurante Afrodite anadyomene Nell’ambito degli interventi sulle antichità del palazzo in via Botteghe Oscure, nel corso del 2015, la Fondazione Camillo Caetani ha fatto eseguire, a cura di Gioia Alessandri, il restauro di una statua di piccolo formato (h. 90 cm), che raffigura Afrodite anadyomene semipanneggiata: la dea, coperta solo nella parte inferiore del corpo da un panneggio annodato sul davanti, all’altezza del pube, è rappresentata stante sulla gamba sinistra, con la destra flessa e leggermente arretrata, nell’atto di portare le mani ai lunghi capelli, cinti da una benda, solo parzialmente conservati: i capelli sono divisi da una scriminatura centrale e rialzati sulla sommità della testa, mentre sulla nuca sono annodati e scendono lisci, a formare una sorta di coda. La statuetta, che conserva solo il braccio destro fino quasi al polso e l’attacco del sinistro subito sotto la spalla, è montata su una base circolare di restauro, all’interno della quale resta un’ampia porzione di quella originale. Si tratta di un tipo statuario datato, per lo più, intorno alla metà del III sec. a.C., la cui attribuzione è stata ampiamente discussa, e del quale sono note, fino alla tarda età imperiale, repliche, varianti e rielaborazioni, per la maggior parte di piccolo formato. La statua è lavorata in due parti separate, che erano ricomposte con ampie integrazioni in cemento. Per verificare l’effettiva pertinenza delle due parti, le integrazioni sono state rimosse e, nel 2016, sono state eseguite analisi archeometriche su campioni di marmo prelevati nei due settori della statua, da parte di Donato Attanasio dell’Istituto di Struttura della Materia del CNR, con la collaborazione di Matthias Bruno; i risultati delle analisi confermano l’identità del marmo bianco a grana grossa con cui sono realizzate le due parti e permettono di riconoscerne, con ogni probabilità, la provenienza dalle cave di Paros II, a Marathi. Come ha ben ricostruito Maria Grazia Picozzi (Palazzo Caetani, 2007), l’Afrodite faceva già parte della collezione cinquecentesca di antichità dei Caetani; essa è infatti riconoscibile nell’elenco manoscritto allegato all’Atto di vendita di una raccolta di statue antiche di Giovan Francesco Peranda, segretario di Casa Caetani, che porta la data del 30 giugno 1591: l’acquisto venne effettuato dal cardinal Enrico per la somma di 4300 scudi (ASR, Notai del Tribunale dell’A.C., uff. 6, not. F. Belgio, a. 1591, vol. 615, parte IV, cc. 469 ss.; Documenti Inediti, II, 1879, pp. 171-174, in part. 173). È possibile seguire ancora gli spostamenti dell’Afrodite nelle varie residenze dei Caetani: nel 1688, la statuetta è attestata nell’inventario generale dei beni redatto all’inizio di quest’anno, dopo la morte di Filippo II Caetani, figlio di Francesco, nella guardarobba da basso del palazzo al Corso venduto poi, ai Ruspoli (Picozzi, Palazzo Ruspoli, 1992, p. 242; Documenti Inediti, II, 1879, pp. Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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390-396, in part. p. 392, n. 47); come risulta da un inventario generale dei beni del 10 giugno 1760, redatto dopo la morte di Michelangelo, l’Afrodite si trova successivamente nella Villa Caserta, all’Esquilino (AC Misc. 296/451); è riconoscibile poi nell’inventario del 13 agosto 1770, relativo agli arredi del Palazzo affittato dal duca Francesco a Campo dei Fiori, dove si trovava anche un appartamento riservato al fratello Onorato (AC Misc 389/456); quando i Caetani lasciarono il palazzo di Campo dei Fiori, nel 1776, la statuetta passò, infine, con altre antichità, nell’attuale sede in via delle Botteghe Oscure, dove, alla fine dell’800, risultava collocata al II piano del palazzo (Matz-Duhn, Antike Bildwerke, I, 1881, p. 202, n. 763). L’Afrodite è, quindi, una delle non molte sculture che, dopo la dispersione della collezione più antica, sono confluite nella raccolta di più recente formazione, attualmente esistente nel Palazzo. Franca Taglietti
Il restauro del salone di Palazzo Mattei Caetani Il restauro dell’intera veste decorativa del salone maggiore, comprensiva del ricchissimo soffitto ligneo intagliato e degli affreschi, al piano nobile del palazzo in via Botteghe Oscure, ha costituito il più rilevante intervento conservativo promosso dalla Fondazione in questi ultimi anni. Iniziato da Gioia Alessandri, e proseguito, dopo la sua scomparsa, da Paolo Virilli, con lo stesso gruppo di collaboratori (assicurando, così, la necessaria continuità operativa), l’intervento ha ridato piena leggibilità ad uno dei più prestigiosi complessi decorativi romani allo scadere del Cinquecento, che non era stato mai indagato a fondo. In coincidenza con la conclusione dei lavori di restauro la Fondazione ha curato la pubblicazione di un agile opuscolo (Palazzo Caetani. Il salone restaurato, Spoleto 2016, con scritti di L. Arcangeli, G. Sapori, P. Virilli), che dà conto degli interventi eseguiti e una prima riconsiderazione degli artisti presenti nell’impresa. Fu a partire dall’autunno 1598 che il cardinale Girolamo Mattei, allora proprietario del palazzo, diede inizio ai lavori nel salone di rappresentanza, commissionando la costruzione del soffitto in legno intagliato, dipinto e dorato; i lavori proseguirono, poi, con l’affidamento a Paul Bril, nel maggio 1599, della direzione della decorazione pittorica dell’ambiente: tale decorazione, cui parteciparono diversi artisti, fu condotta piuttosto speditamente, visto che per l’anno successivo, l’anno giubilare 1600, i lavori vennero conclusi. Il soffitto, progettato dallo scultore Pietro Paolo Olivieri, è formato da un’intelaiatura di lacunari, recanti, a rilievo, motivi vegetali e aquile araldiche dei Mattei; al centro, in altorilievo, vi è lo stemma di Girolamo Mattei, sorretto da due figure di angeli, e sormontato dal cappello cardinalizio: tutte le parti scolpite ed intagliate sono rivestite d’oro, 46
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mentre i fondi dei lacunari sono dipinti in blu e rosso. Proprio la necessità di tutelare e consolidare tale manufatto – ricco di elementi sporgenti e a tutto tondo – ha spinto la Fondazione a varare un programma di intervento, che, dall’iniziale restauro del soffitto, si è allargato a coinvolgere in un restauro globale anche tutte le pareti del salone, potendo contare sulla piena disponibilità dell’ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede, attualmente residente al piano nobile del palazzo. L’intervento sul soffitto, oltre ad assicurarne la stabilità, ha comportato la rimozione di estese e pesanti ripassature in azzurro e in rosso, poco avvertibili dal basso, ma che ottundevano tutto l’impianto, e ne ha recuperato, così, la preziosa eleganza originale. Il successivo passaggio al restauro delle parti dipinte ha com48
portato scelte più articolate. Il salone, di altezza rilevantissima (il suo ingombro verticale occupa due piani del palazzo), reca un fregio affrescato sotto il soffitto di dimensioni inusitate, alto circa 4 metri. Proprio tale dimensione, indicata dal committente, deve aver portato alla scelta di un fregio su due ordini sovrapposti, di cui il superiore è più ampio. Inoltre, tutti gli strombi delle finestre, sia di quelle maggiori in basso, che delle più piccole, che si aprono in alto nel fregio, sono decorati da grottesche con inserti di paesaggi e di finti cammei. Su tale veste ornamentale cinquecentesca si erano sovrapposte aggiunte più tarde, a partire da quando, nel Settecento, il palazzo passò in proprietà ai Caetani: le pareti erano arrivate ai nostri giorni rivestite con stoffe damascate, sotto le quali correva uno Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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zoccolo dipinto a finta pietra modanata. Il recupero, ancorché parziale, di sezioni di intonaco antico sulle pareti, sotto i damaschi ormai molto consunti, ha suggerito di scartare il riutilizzo di rivestimenti in stoffa, e di procedere alla ricomposizione di un intonaco con caratteristiche in tutto simili alla stesura originale, raccordando le aree superstiti, ed eliminando anche il più tardo zoccolo dipinto. La parete che ha presentato, sotto questi punti di vista, più problemi è stata quella ad est, rivolta su via Caetani; qui, l’intero spazio tra le due finestre, in basso, era originariamente occupato da un camino di dimensioni monumentali, il cui fastigio arrivava ai piedi delle figure allegoriche affrescate di Virtù, ancora presenti (la Prudenza e la Fortezza). Rimossa in epoca imprecisata la mostra del camino 50
Mattei, si trova oggi, inserita al suo posto, una mostra in marmo di dimensioni molto più ridotte, che si è mantenuta tracciando intorno ad essa semplici elementi architettonici dipinti, che servono a completare e dare unità visiva ai piani d’appoggio, sui quali si trova il gruppo di Virtù e degli angeli. Per quanto riguarda il fregio affrescato a doppio ordine, il restauro si è rivelato particolarmente necessario: si è potuto prendere atto delle lesioni di varia grandezza che, benché stuccate in passato, si erano in parte riaperte, e che segnavano l’intonaco dipinto con una serie di fratture – particolarmente evidenti nella parete al di sopra della porta di collegamento con la sala degli arazzi –, e si è intervenuti sulla necessaria riadesione tra supporto e pellicole pittoriche, con l’infiltrazione di resine in emulsione e Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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malte specifiche, per riempire i vuoti tra intonaco e struttura muraria. Il restauro pittorico vero e proprio ha rivelato un ciclo di straordinaria freschezza pittorica, e di assoluta originalità di soluzioni. Nella storia del fregio affrescato, è difficile, infatti, trovare il paesaggio con un ruolo protagonistico, come in questo di palazzo Caetani, laddove le figure allegoriche ai lati delle finte aperture si riducono a semplici elementi di contorno. Tale risultato è, senz’altro, da imputare al ruolo di direttore dell’impresa decorativa svolto da Paul Bril, uno dei protagonisti della pittura di paesaggio tra Cinquecento e Seicento; il restauro ha rivelato la qualità altissima della sua invenzione pittorica, che, nella parete ovest, arriva a concepire tre finte aperture su un unico grande spazio organico, con una battaglia navale sulla sinistra, e la veduta di un porto delimitato al centro da una quinta montana, che continua nella scena, a destra, rivelando uno scorcio di Roma. Il fregio inferiore è concepito come una serie di teorie di putti che giocano o danzano, intercalate dalle architetture dipinte, che formano la gabbia prospettica in cui è inquadrata tutta la decorazione. Sia le figure del fregio superiore, che quelle del fregio inferiore mostrano mani diverse tra loro, a conferma dei numerosi pittori intervenuti a fianco di Bril per portare a termine il complesso programma ornamentale: la pulitura e la relativa documentazione fotografica dettagliata permetteranno di studiare meglio il cantiere e le personalità intervenute. Altro conseguimento importantissimo del restauro della sala è stata la scoperta della qualità straordinaria delle grottesche, che decorano tutti gli invasi delle finestre, all’interno delle quali sono emersi alcuni piccoli paesaggi, tra i più raffinati della pittura di fine Cinquecento. Solo negli imbotti delle cinque grandi finestre, dai parapetti al pavimento, le grottesche hanno rivelato di essere il frutto di numerosi rifacimenti, a causa della continua usura nei secoli; l’attuale restauro ha scelto di mantenerle, armonizzandole, quando è possibile, con le parti originali antiche. Luciano Arcangeli
Un’ospite ignorata, l’Aurora del Pomarancio La presenza diacronica e, quindi, spesso intensamente stratificata delle testimonianze artistiche è un carattere molto frequente, in particolare negli edifici ecclesiastici che hanno sfidato i secoli, e nelle antiche sedi di istituzioni – un po’ meno nei 1. Cristoforo Roncalli, sala dell’Aurora, palazzo Caetani. 2-3. Particopalazzi gentilizi e, in genere, nell’edilizia re- lari. 4. Cristoforo Roncalli, Testa di sidenziale storica. Una lieta sorpresa è stata, angelo, studio per la decorazione dunque, la recentissima constatazione che due della cupola della Basilica lauretana, ‘strati’, uno del primo Seicento, l’altro del pie- 1608-1609 circa, Loreto Santa Casa. 52
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no Settecento, convivevano – ma clandesti- 5. Antonio Cavallucci, Atalanta e Ipponamente – in una delle anticamere del piano mene, tela. nobile in Palazzo Caetani. La grande tela a centro-volta con Atalanta e Ippomene di Antonio Cavallucci, il pittore di Casa dopo l’acquisto del palazzo da parte dei Caetani, rimossa per essere sottoposta a restauro, nascondeva, infatti, una composizione a fresco delle stesse dimensioni. Avvertito tempestivamente della scoperta da Paolo Virilli, nel sopraluogo eseguito con Andrea Gentiloni, non ho avuto dubbi nel riconoscere l’autore dell’affresco in Cristoforo Roncalli, il Pomarancio. L’attribuzione, del resto assai piana, ha trovato poco dopo conferma nel confronto con alcuni particolari degli affreschi del Pomarancio a Loreto, e, più ancora, con i disegni preparatori. In fogli già più volte editi, le teste degli Angeli sono praticamente identiche a quella della protagonista dell’affresco Caetani, un’allegoria della Aurora nella nota iconografia della figura femminile che sparge fiori, circondata da geni alati. Il confronto è così stringente da consigliare di avvicinare l’affresco agli anni, dopo il 1608, in cui il Roncalli era impegnato a Loreto. L’artista, ormai così celebre da dover rispondere a sempre più numerose e lusinghiere commissioni, ritornò dunque ad operare nel palazzo, allora, dei Mattei, circa un decennio dopo il noto intervento nella Cappella e nell’anti-Cappella. Forse proprio perché stretto fra tanti impegni, il Roncalli trattò il tema della Aurora con un ductus assai fluido, con stesure di prima mano e trasparenze. Un calo di qualità? È probabile, ma che salva una freschezza quasi da disegno colorato, che è anch’essa un carattere. Bruno Toscano 54
Uno studio di Severini per il ritratto di Marguerite Caetani Questo bellissimo disegno è stato eseguito non prima degli ultimi mesi del 1931, o al’inizio del 1932, quando evidentemente la Principessa di Bassiano chiese a Gino Severini di farle un ritratto. A quanto risulta infatti da una lettera dell’artista alla principessa, datata 13 maggio 1930, Marguerite Caetani era già in possesso di un’opera dell’artista, a cui aveva inviato il pagamento, e aveva chiesto di riservarle un secondo dipinto (si tratta probabilmente di due opere che non sono più di proprietà Caetani: Pigeons, pittura sotto vetro e Natura morta con colomba e bambino che corre, realizzate tra il ’29 e il ’30). In questa stessa lettera Severini accoglie favorevolmente la proposta di fare un ritratto di Lelia, figlia di Marguerite, terminato nel ’31 ed esposto alla SeconGino Severini, Ritratto di Marguerite Caetani, 1931da Quadriennale d’Arte nel ’35, 1932, sanguigna su carta, cm 136x53. tuttora in possesso della Fondazione, come i tre studi per il ritratto di Marguerite, tra cui questo, appena restaurato e finora mai pubblicato, identico al dipinto finale ad olio del 1932, di cui è ignota l’attuale ubicazione. Le notevoli dimensioni del disegno, molto diverse da quelle degli altri due studi conservati presso la Fondazione, una sanguigna e una matita su carta, fanno supporre che il dipinto avesse dimensioni simili, se non identiche al ritratto finale. Sono gli anni tra il ’20 e il ’30 di ritorno all’ordine per molti artisti italiani e di una particolare inclinazione neoclassica per Severini. La delicata bellezza di questo disegno e la chiarezza della composizione si ricollegano ad alcuni tra i più bei ritratti a carattere familiare realizzati in quegli anni da Severini, soprattutto i ritratti della figlia Gina e della moglie Jeanne. Claudia Terenzi Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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Le collane Archivio Caetani
a cura di Caterina Fiorani
Collana concepita per accogliere in una serie organica le pubblicazioni sui diversi fondi dell’intero corpus documentario della famiglia.
Volumi pubblicati 1. C. Fiorani, Il fondo economico dei Caetani duchi di Sermoneta, 2010. 2. G. Bassani, M. Caetani, «Sarà un numero bellissimo». Carteggio 19481959, a cura di M. Tortora, 2011. 3. La rivista «Commerce» e M. Caetani. Direzione di Sophie Levie, I. Briefwechsel mit deutschsprachigen Autoren, hrsg. von K. Bohnenkamp und S. Levie, 2012. 4. La rivista «Commerce» e M. Caetani. Direzione di Sophie Levie, II. G. Ungaretti, Lettere a M. Caetani, a cura di S. Levie e M. Tortora, 2012. 5. La rivista «Commerce» e M. Caetani. Direzione di Sophie Levie, III. Letters from D.S. Mirsky and Helen Iswolsky to M. Caetani, 2015. 6. La rivista «Commerce» e M. Caetani. Direzione di S. Levie, IV. Correspondance française. Paul Valéry – Léon-Paul Fargue – Valery Larbaud. Édition présentée et annotée par Eve Rabaté et Sophie Levie, 2016. 7. La rivista «Commerce» e M. Caetani. Direzione di Sophie Levie, V. Correspondance française. Marguerite Caetani, Jean Paulhan et les auteurs français. Édition présentée et annotée par Laurence Brisset et Sophie Levie, 2017.
Arte, archeologia e storia urbana a cura di Giovanna Sapori
Ideata per accogliere studi su temi in diverse forme e misure connessi alla famiglia Caetani.
Volumi pubblicati La pittura del Quattrocento nei feudi Caetani, a cura di A. Cavallaro – S. Petrocchi, 2013. G. Ioele, Prima di Bernini. Giovan Battista Della Porta scultore, 2016. È in preparazione: Il Liber amicorum (1590-1601) della collezione Caetani, a cura di G. Sapori. 56
Atti e rendiconti
a cura di Caterina Fiorani
Raccoglie gli atti dei convegni che si sono svolti presso il palazzo Caetani.
Volumi pubblicati 1. 2. 3.
Luigi Fiorani, storico di Roma religiosa e dei Caetani di Sermoneta. A un anno dalla morte, a cura di C. Fiorani e D. Rocciolo, 2013. Giorgio Bassani, critico, redattore, editore, a cura di M. Tortora, 2012. Il Novecento di Marguerite Caetani, a cura di C. Fiorani e M. Tortora, 2017.
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Schede di libri Giovanna Ioele, Prima di Bernini. Giovanni Battista della Porta scultore (1542-1597), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016. Il libro di Giovanna Ioele è un contributo essenziale allo studio della scultura romana nel secondo Cinquecento, un argomento complesso in via di approfondimento (cfr. Scultura a Roma nella seconda metà del Cinquecento. Protagonisti e problemi, a cura di W. Cupperi – G. Extermann – G. Ioele, Firenze 2012; Splendor marmoris. I colori del marmo, tra Roma e l’Europa, da Paolo III a Napoleone III, a cura di G. Extermann – A. Varela Braga, Roma 2016 [in cui l’autrice ha fornito un contributo su Giovanni Battista Della Porta]). Giovanni Battista Della Porta proviene da una nota dinastia di scultori, architetti, ingegneri, ed assume una posizione che potrebbe fare da ponte tra il parente Guglielmo Della Porta, morto nel 1577, e l’importantissimo Nicolas Cordier, esordiente nel 1602, e già indagato da Sylvie Pressouyre in un lavoro pionieristico sulla scultura di quel periodo (S. Pressouyre, Nicolas Cordier. Recherches sur la sculpture à Rome autour de 1600, Roma 1984). Le informazioni sono chiaramente distribuite tra i capitoli, il catalogo ragionato e la raccolta di documenti. Una prima parte del testo è relativa alla produzione ‘moderna’, con sguardi sui committenti, sui cantieri, sui campi di eccellenza (il ritratto), sulla rete famigliare; una seconda parte, forse più interessante per chi scrive, è legata ad un tipo di attività che per Giovanni Baglione lucrava molto senza costare molta fatica; vale a dire il restauro, la lavorazione e il commercio di statue e marmi antichi, un settore in cui Giovanni Battista, a quanto pare, non fu secondo a nessuno. Il lettore dispone quindi di molti dati per giudicare l’artista nella sua complessità, con un’attenzione non soltanto alla forma, ma anche ai materiali. I marmi policromi diventano un elemento di prestigio sontuario ricercato dalle famiglie patrizie, in primis dai Caetani, per i quali Della Porta fa da principale fornitore nel cantiere esorbitante della cappella dinastica di Santa Pudenziana. Sul lato della for58
ma, l’artista sembra irregolare. Alcuni ritratti esprimono eccellentemente il senso di dignità morale e l’orgoglio di classe dei committenti; altre opere, invece, sono più andanti, come l’angelo sinistro dell’attico della fontana di Piazza Santa Susanna, decisamente inferiore a quello di Flaminio Vacca, sull’altro lato (fig. 111-113 del saggio). L’artista sapeva forse dosare gli sforzi a seconda dell’importanza dell’offerta, dell’attesa del committente, della distanza dello spettatore o di una qualsiasi altra considerazione pratica. Relativamente alla Fontana di Piazza Santa Susanna, l’autrice sostiene che l’abbassamento tonale dello stile fosse una condizione sine qua non per gli artisti impiegati nell’impresa (p. 121). Possiamo chiederci se l’unità stilistica fosse così importante rispetto alle esigenze di perizia tecnica e di rispetto dei tempi. I cantieri sistini sono un prodigio di efficenza tecnica sotto la direzione del compatriota Domenico Fontana. Una forma di ‘liberalismo stilistico’ poteva trovarsi alla radice della riuscita di queste imprese e, per estensione, del successo delle dinastie di scultori lombardi a Roma. Sorprende come, in seno alla stessa famiglia o allo stesso atelier, le strade possano divergere del tutto. Tommaso il Giovane mostra uno stile, per certi versi, opposto a quello del fratello Giovanni Battista, se si paragona la Deposizione del primo a Sant’Ambrogio al Corso, e la Traditio Clavis del secondo a Santa Pudenziana (fig. 26-30, 58-59). Nell’atelier di Guglielmo Della Porta, troviamo un artista come Giovanni Battista Buzzi che scolpisce le allegorie ‘senza tempo’ della tomba Ghislieri, a Bosco Marengo (1568-1571), e Jacob Cobaert che esegue il tormentatissimo San Matteo, ora alla Trinità dei Pellegrini (1581-1602). Un’omogeneizzazione stilitica ben più ferrea sarà imposta da Bernini non solo in scultura, ma in ogni branca artistica dei cantieri da lui gestiti, in prospettiva del bel composto, riducibile ad una mente sola. Gli ultimi due capitoli, che riguardano la collezione di opere antiche e la compravendita dei marmi, sono particolarmente interessanti. Non esiste un altro artista di mia conoscenza che riesca a mettere in piedi una collezione di pari prestigio. La motivazione non sta tanto nella rivendicazione di uno stato signorile – Giovanni Battista non si farà costruire un palazzo come Raffaello, Antonio da Sangallo o Federico Zuccaro –, ma piuttosto in un sicuro investimento. L’artista mostra in questo settore un talento affermato, acquistando una delle più straordinarie statue di porfido di tutti i tempi, l’Orante del Louvre, con un panneggio che sembra scolpito nell’alabastro, piuttosto che nella dura pietra egiziana. Vige una sana disinvoltura mercantile nei confronti della statua, che viene descritta come adatta per realizzare una Madonna, con o senza bambino, o una Santa di provincia con palma ed attributo; prevarrà, invece, la scelta filologica di restaurarla come Orante antica (pp. 164-166). Si vede che tutte le strade del restauro sono aperte e che il pragmatismo di mestiere mette l’artista al riparo da inquietudini religiose o problemi di gerarchia artistica. L’ultimo capitolo rivela la vitalità del commercio di marmi antichi, un’attività che offre incassi importanti (800 scudi per il pavimento della Madonna dei Monti, gestito dal fratello Paolo), e che dimostra la capacità dei lombardi di controllare Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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ogni tappa del lavoro dei marmi. Sanno anche innestarli nella statuaria, e torna, probabilmente a Giovanni Battista l’idea di qualificare i ritratti cardinalizi con una mozzetta rossa che luccica come uno stemma. A lui si potrebbe anche attribuire la splendida copia del Camillo, con uno scialle rosso a pieghe molli del tutto antifilologico, ma di un effetto ricco, che dovette piacere al cardinale Borghese (fig. 125). Il volume presenta, dunque, un artista di grande importanza, le cui doti sono felicemente espresse nel busto di Onorato Caetani in copertina e riguardano la capacità ritrattistica, la padronanza del lessico antico e l’autentico amore per i marmi colorati. Grégoire Extermann La rivista «Commerce» e M. Caetani, V. Correspondance française. Marguerite Caetani, Jean Paulhan et les auteurs français, Édition présentée et annotée par Laurence Brisset – Sophie Levie, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016. Prosegue, sempre sotto la guida di Sophie Levie, l’edizione dei carteggi che Marguerite Caetani ebbe con gli autori di «Commerce». Nel 2016, nella collana Archivio Caetani delle Edizioni di Storia e Letteratura, è stato pubblicato il volume inerente gli autori francesi, curato da Laurence Brisset. La scorsa all’indice, come di consueto, fa subito toccare con mano la centralità della rivista nel panorama internazionale tra le due guerre: Claudel, Gide, Desnon, Giono, Saint-John Perse, Ponge sono solo alcuni dei corrispondenti della duchessa Caetani. Sembra infatti che tutta l’élite culturale francese sia in qualche modo passata per «Commerce» o per lo meno con la rivista abbia avuto contatti. Ma è lecito definire «Commerce» solo una rivista? La lettura di queste lettere induce a rispondere negativamente. Infatti i quaderni stampati erano solo l’ultimo anello di un confronto che partiva da più lontano; più precisamente dal salotto di Marguerite, dove intellettuali e scrittori si incontravano e si confrontavano: davano vita insomma a quel commercio delle idee, che poi è diventato il titolo della rivista. E proprio da quegli incontri probabilmente nascevano, con parziale consapevolezza, gli indici di ogni cahier. Questo sembrano dire le varie missive, che non trattano solo di scadenze editoriali o di pezzi pubblicati, ma anche di incontri e di riunioni. 60
La rivista «Commerce» e M. Caetani, IV. Correspondance française. Paul Valéry – LéonPaul Fargue – Valery Larbaud, Édition présentée et annotée par Sophie Levie – Ève Rabaté, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016. Paul Valery, Léon-Paul Fargue e Valery Larbaud furono figure di spicco all’interno del mondo intellettuale parigino dell’entre dex guerres. E furono anche i redattori di «Commerce», e dunque i quasi quotidiani interlocutori di Marguerite Caetani. Per le cure di Sophie Levie e Ève Rabaté esce il carteggio tra questi quattro personaggi: La rivista «Commerce» e Marguerite Caetani. IV. Correspondance française. Paul Valery, Léon-Paul Fargue, Valery Larbaud. Si tratta di scambi epistolari che iniziano nel ’21, quando «Commerce» ancora non esisteva, e proseguono, infittendosi progressivamente, negli anni Venti e primi anni Trenta; in un caso, quello di Valery, troviamo documenti fino al 1945. A ben vedere, quello pubblicato da Levie e Rabaté non è solo un volume di lettere: è un pezzo di storia della cultura europea di primo Novecento. E più specificamente di quella fase contraddittoria tra le due guerre, in cui la cultura raggiungeva sì le sue punte più raffinate, ma al contempo non poteva impedire la folle e insensata tragedia che si sarebbe consumata con il Nazismo, la Shoah, la seconda e ancor più terribile «inutile strage».
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La rete dei modernismi europei. Riviste letterarie e canone (1918-1940), a cura di Raffaele Donnarumma e Serena Grazzini, Perugia, Morlacchi Editore, 2016.
European Modernism 1.
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Il modernismo ha un’implicita contraddizione. Da un lato è una corrente (e non un movimento) capace di sintetizzare le diverse esperienze sperimentali e non avanguardiste di primo Novecento che si sono registrate in Europa (Joyce e Proust, Svevo e Musil, Eliot *** e Montale, ecc.). Dall’altro lato si caratterizza per il lavoro solitario dei singoli scrittori, tendenzialmente restii a unirsi in gruppi omogenei e codificati, a firmare manifesti programmatici, a riconoscersi in parole d’orPalazzo Caetani 4-5 (2017)
la Rete
Dei moDeRniSmi euRopei Riviste letterarie e canone (1918-1940) a cura di Raffaele Donnarumma e Serena Grazzini
Morlacchi Editore U.P.
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dine secche e precise (diversamente da futuristi, surrealisti, ecc.). E tuttavia c’è un punto in cui le differenti e singole esperienze trasformano la nebulosa e cinetica area a cui afferiscono in un reticolato, magari mobile, ma comunque coeso. Questo punto di convergenza sono le riviste di inizio secolo. Per questo motivo giunge tempestiva la pubblicazione de La rete dei modernismi europei. Riviste letterarie e canone (1918-1940), a cura di Raffaele Donnarumma e Serena Grazzini, primo volume della collana European Modernism del CEMS (Centre for European Modernism Studies). All’interno di questa costellazione di riviste un posto di primo piano è ricoperto da «Commerce» di Marguerite Caetani, come dimostrano gli interventi di Antonietta Sanna e Laura Santone.
Paola Bassani, Se avessi una piccola casa mia. Giorgio Bassani, Il racconto di una figlia, Milano, La nave di Teseo, 2016. Scrivere di un padre è sempre difficile; ma diventa impresa ancora più ardua se il padre è uno degli scrittori più rappresentativi del secondo Novecento italiano. Paola Bassani, figlia appunto di Giorgio, è riuscita a trovare il giusto equilibrio e il tono adeguato per riuscire a raccontare la figura paterna. Il suo volume biografico, Se avessi una piccola casa mia, non è infatti agiografico, né esclusivamente sentimentale, e nemmeno, all’opposto, asettico come se si parlasse di un estraneo: è un volume che coniuga l’elemento affettivo e nostalgico con lo sguardo storico e critico. Ma Se avessi una piccola casa mia non è solo un volume su Giorgio Bassani, perché indaga anche i suoi ambienti e il suo mondo: in particolare quello degli ebrei ferraresi, in gran parte deportati nei campi di sterminio nazisti. E poi c’è Ferrara, il personaggio ricorrente in tutte le narrazioni bassaniane. È grazie a questa capacità di incrociare prospettive che il libro di Paola Bassani diventa un volume sullo scrittore Bassani e al contempo uno sguardo su Bassani e il suo mondo.
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Convegni e mostre Rilke e l’Italia. Convegno internazionale sulla poesia di Rilke, legata all’arte e alla cultura italiane (Fondazione Camillo Caetani-Casa di Goethe, Roma, 14-15 aprile 2016). Nei giorni 14 e 15 aprile 2016 si è tenuto a Roma, presso la Fondazione Camillo Caetani e presso la Casa di Goethe, un con-
vegno internazionale su Rilke e l’Italia. Studiosi italiani e tedeschi si sono alternati nei due giorni di lavoro, analizzando il rapporto che ha legato la poesia di Rainer Maria Rilke all’arte e alla cultura italiane. Nella Saletta adiacente la biblioteca è stata, inoltre, allestita una mostra di manoscritti e volumi rilkiani.
Rainer Maria Rilke nello studio di Villa Strohl-Fern a Roma nel 1904
Rilke e l’Italia Convegno internazionale ROMA, 14-15 aprile 2016
FONDAZIONE CAMILLO CAETANI Palazzo Caetani, Via Botteghe Oscure 32 ROMA
Palazzo Caetani 4-5 (2017)
CASA DI GOETHE Via del Corso 18 ROMA
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Gesualdo nostro contemporaneo Un convegno ed un concerto con Walter Testolin e l’Ensemble ‘De labyrintho’ (Palazzo Caetani, Roma, 29 settembre e 16 dicembre 2016). Carlo Gesualdo, principe di Venosa e principe dei madrigalisti, entra a Palazzo Caetani il 29 settembre 2016, con le parole di chi lo studia e con le voci di chi lo interpreta. Un convegno progettato da Sandro Cappelletto, ed un concerto con Walter Testolin e l’Ensemble ‘De labyrintho’: un’indagine su Gesualdo nostro contemporaneo, che diventa poi un video, con cui Gesualdo torna in Palazzo Caetani, il 16 dicembre 2016, tra gli impaGesualdo_Layout 1 23/09/16 09:12 Pagina 2
affreschi di Paul Bril, nel salone del piano nobile appena restaurato. Un video che racconta, così, la sua contemporaneità. «Più spalanco gli occhi e più m’acceco, più li chiudo e più mi ferisco…Se solo una mano si tendesse, se potessi socchiudere le palpebre, se un’alba mi toccasse la fronte». Tutto è già accaduto, è alle sue spalle, da molto tempo ormai, eppure il ricordo non concede riposo, ancora tormenta. «Di me, soltanto la musica dovrà sopravvivere»: un’invocazione, un desiderio che non può realizzarsi. Carlo Gesualdo, principe di Venosa (1566-1613), ha abbandonato da tempo il
ROMA 29 settembre 2016, ore 15.00
450 ANNI DALLA NASCITA DI CARLO GESUALDO DA VENOSA
Gesualdo, nostro contemporaneo
Confronto e concerto a cura di Sandro Cappelletto e Nino Criscenti
Bruno Toscano, presidente della Fondazione Camillo Caetani, Saluti Sandro Cappelletto, scrittore e storico della musica Carlo Gesualdo, aspetti rivoluzionari di un conservatore Cristina Targa, Museo della musica, Bologna Il principe madrigalista: Carlo Gesualdo da Venosa negli esemplari a stampa conservati al Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna Walter Testolin, Ensemble De Labyrintho Alla riva del Tebro, il madrigale a Roma nel secondo Cinquecento Luca Zuliani, Università di Padova I testi dei madrigali di Gesualdo Luciano Arcangeli, già direttore del «Bollettino d’Arte» del MIBACT L’arte visiva intorno a Gesualdo Francesco Antonioni, compositore Gesualdo e la contemporaneità Moderatore Sandro Cappelletto 17.30 aperitivo 18.30 Concerto-racconto L’avida sete eseguito da Ensemble De Labyrintho con la narrazione di Sandro Cappelletto Siamo lieti di invitarla a partecipare. RSVP PALAZZO CAETANI Via Botteghe Oscure, 32 00186 Roma Tel. 06 68803231 Info@fondazionecamillocaetani.it
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palazzo di famiglia, a Napoli, non frequenta più le corti del Nord e le loro cappelle musicali; anche la seconda moglie è fuggita, sfinita dalle sue vessazioni. Il principe assassino ha ottenuto quanto voleva, è rimasto solo, rinchiuso nel castello del paese che porta il suo stesso nome, alto, sui monti dell’Irpinia. Lui e una ‘macchina’ per stampare musica, perché soltanto alla musica vorrebbe fosse affidata la sua memoria. Il racconto lo immagina lì, durante l’estate del 1613, l’ultima di una vita eccessiva, segnata da quel duplice delitto, di cui tutta Napoli parlò. Rientrando improvvisamente, all’alba, da una partita di caccia al cinghiale, Carlo trova nella propria stanza nuziale la moglie Maria d’Avalos e il principe Fabrizio Carafa, e li uccide a fil di spada. ‘Gli angeli di Napoli’ diceva la gente, evocando la bellezza di quella giovane coppia di amanti. Il doppio delitto, poi la fuga, e il gran caso di cronaca nera. Quanta letteratura, quanta sconvenienza per un principe del sangue, nipote, per parte di madre, del cardinale Borromeo. E che paradosso, quell’assassinio, per un musicista che, nei suoi madrigali, aveva sempre evocato il desiderio d’amore, la distanza che separa l’amante dall’amata, un’avida sete che nessuna acqua basterà a saziare. Un verso sembra comprendere tutti gli infiniti versi che Gesualdo, prima affidandosi ai maggiori poeti del tempo, tra cui Torquato Tasso, poi ricorrendo solo al proprio estro, ha messo in musica in sei libri di madrigali: «Se non miro, non moro». Se non vedo il soggetto della mia passione, non posso morire di piacere nel desiderarla, e questa sofferenza, questa distanza che mai si colma, è gioia. Opposizioni d’amore affidate agli intrecci di voci che si cercano, si incontrano, si lasciano andare a brevi episodi di solitario protagonismo, in quegli anni che segnano il passaggio dalla polifonia alla monodia, dal madrigale all’aria solista, che vedono nascere l’opera in musica, cioè la rappresentazione delle passioni, e durante i quali convivono, Palazzo Caetani 4-5 (2017)
nella storia dell’arte e della cultura del nostro paese, i manierismi di Giovanbattista Marino e gli squarci di luce ed ombra, la fisicità violenta dei corpi dipinti da Caravaggio. Il principe assassino, il compositore che Igor Stravinskij, riscoprendolo, definirà ‘musicista senza padri e senza figli, pianeta senza satelliti nella storia della musica’, appartiene alla sua epoca e, insieme, la trascende, ne interpreta le opposte tensioni e le esaspera. Musica e parole, madrigali e racconto. Arte e vita, nella loro inseparabile dissonanza. Nino Criscenti
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Omaggio a Giorgio Bassani
fa la Fondazione Roffredo Caetani ha deciso di ricordare lo scrittore in occasione del centenario della nascita. Nell’incontro svoltosi l’11 novembre 2016 presso il Giardino sono intervenuti, dopo l’apertura dei lavori di Pier Giacomo Sottoriva (presidente della Fondazione Roffredo), Giulio Ferroni e Massimiliano Tortora per discutere della parte più strettamente letteraria, Maria Rosaria Iacono (vice presidente di Italia Nostra) per l’impegno ambientalista, e Paola Bassani, che ha ricordato alcuni aneddoti della vita e dell’opera del padre; tra questi anche quello in cui ha spiegato a cosa si è ispirato Giorgio Bassani quando ha descritto il giardino dei Finzi-Contini nel suo più celebre romanzo. A cosa? Al Giardino di Ninfa, da lui più volte frequentato negli anni Cinquanta.
Il nome di Giorgio Bassani è legato a molti luoghi: Ferrara, senz’altro, è quello più evidente, e non solo perché lo scrittore vi è nato, ma anche perché, lo notò già Pasolini a suo tempo, è il personaggio che compare costantemente nelle Storie, dai primi racconti fino all’Airone. Ma c’è un altro posto che va associato al nome e all’opera di Bassani: il Giardino di Ninfa. E proprio a Nin-
The dialectics of Modernity
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Il 16 novembre 2017 la prof.ssa Francesca Billiani della University of Manchester ha presentato presso la Fondazione Camillo Caetani il suo progetto The dialectics of Modernity. Si tratta di una ricerca di ampio respiro, che coinvolge arte, letteratura, pubblicistica varia, con l’intento di comprendere i complicati nessi tra dittatura e libertà artistica che si sono istituiti durante il ventennio fascista.
Presentazione del volume di Giovanna Ioele Prima di Bernini. Giovanni Battista Della Porta scultore (1542-1597) (Sala Commerce della Fondazione Caetani, Roma, 26 gennaio 2017). Si è svolta, il 26 gennaio 2017, presso la Sala Commerce della Fondazione, la presentazione del volume di Giovanna Ioele Prima di Bernini. Giovanni Battista Della Porta scultore (1542-1597). Ne hanno discusso, alla presenza dell’autrice, Luciano Arcangeli e Andrea Bacchi. Dopo l’ampia presentazione del presidente della Fondazione, il prof. Bruno Toscano, sono intervenuti il prof. Mario De Nonno, direttore del dipartimento di Studi Umanistici di Roma Tre, e la prof.ssa Liliana Barroero, Roma Tre. Tra gli altri, hanno partecipato anche Claudia Conforti, Grégoire Extermann, Giovanna Sapori e giovani studiosi.
Inaugurazione del salone di Palazzo Mattei Caetani (Roma, 16 dicembre 2016). Il 16 dicembre 2016 è stato inaugurato il salone restaurato di Palazzo Mattei Caetani, con un concerto eseguito dall’ensemble ‘De Labyrintho’ del Maestro Walter Testolin, alla presenza di numerosi ambasciatori presso la Santa Sede. Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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Attività in collaborazione Le giornate del Fondo per l’Ambiente Italiano (Fondazione Camillo Caetani, Roma, 20-21 marzo 2016). Il 20 e 21 marzo 2016 la Fondazione ha aderito alle giornate del Fondo per l’Ambiente Italiano, aprendo al grande pubblico i saloni
Corso monografico di Psicologia dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Roma Per il quarto anno consecutivo si è svolto a Palazzo Caetani il corso di Psicologia dell’Arte. Circa una trentina, gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma che lo hanno frequentato. Il tema di quest’anno ha riguardato Le origini scientifiche del pensiero artistico, e si è articolato attorno alle riflessioni espresse da Hans Belting in I canoni dello sguardo (Bollati Boringhieri, Torino 2014). 68
e la sede della Fondazione. Nelle due giornate l’istituzione ha accolto circa tremila visitatori, che hanno potuto ammirare i grandi libri mastri della contabilità della famiglia Caetani, i settemila volumi della Biblioteca Marguerite Caetani, e, soprattutto, gli arredi e gli spazi restaurati e riallestiti di recente.
Nel libro di Belting si affronta la delicata questione dell’antico conflitto tra iconofilia ed iconoclastia, e si dimostra come l’invenzione della camera oscura appartenga, originariamente, alla sperimentazione medico-scientifica araba del 1000, ad opera di Al-Hazen. Un’invenzione su cui, tuttavia, graverà un veto religioso, che condurrà a un vero e proprio divieto di riproduzione delle immagini, che solo i matematici-pittori del Quattrocento riusciranno a ricondurre a loro vantaggio, inaugurando quella fase ‘ri-
nascimentale’, profondamente incardinata sul culto dell’immagine, in cui siamo, ancora oggi, immersi. Una delle novità importanti di quest’anno è consistita nell’aver svolto le lezioni di Psicologia dell’Arte nella Sala Conferenze di Palazzo Caetani. Questo ha consentito la realizzazione di due inviti rilevanti. Il primo è stato rivolto alla storica gallerista romana Luce Monachesi, fondatrice della Galleria Del Cortile; una testimone di cinquant’anni di storia dell’arte contemporanea, e, in particolare, di quella Scuola di Piazza del Popolo, che ha fatto del ‘ritorno all’immagine filtrata dai mass-media’ il suo elemento distintivo. Il secondo incontro ha visto la partecipazione straordinaria della scrittrice e psicologa clinica Silvia Vegetti Finzi, la quale ha raccontato agli studenti del corso i punti salienti della propria biografia e del proprio pensiero scientifico, anche attraverso le sue numerose pubblicazioni. La presenza di Silvia Vegetti Finzi a Palazzo Caetani ha costituito un evento fondamentale per gli studenti del corso, chiamati a riflettere sui temi fondativi della psicologia dell’arte, anche in vista della loro formazione accademica specifica, e del loro immediato futuro. Archivio Giustiniani Bandini: l’informatizzazione dell’inventario Si è concluso il progetto, a cura dalla Soprintendenza Archivistica per il Lazio, finalizzato all’informatizzazione dell’inventario dell’Archivio Giustiniani Bandini, dichiarato, il 15 aprile 1969, di notevole interesse storico, e depositato, nel 1983, presso la Fondazione Camillo Caetani. Il fondo fu ordinato ed inventariato nel 1928, secondo criteri arbitrari, organizzato in due sezioni (storica ed amministrativa), nelle quali è possibile ritrovare analoga documentazione. La sezione storica conPalazzo Caetani 4-5 (2017)
serva prevalentemente le carte relative alle vicende più antiche della casata, ma anche atti amministrativi; la sezione amministrativa comprende la documentazione riguardante la gestione dei possedimenti territoriali (Tenute di Fiastra, Santa Maria in Selva, Sarrocciano, Lanciano e Rustano) e la contabilità, ma non mancano testamenti, atti giudiziari e corrispondenza personale. Il trasferimento presso la Fondazione Camillo Caetani portò alla luce altra documentazione (si tratta di corrispondenza, carte amministrative e fotografie relative al XIX e al XX secolo), riordinata e descritta, a cura della Soprintendenza Archivistica del Lazio, in un’appendice del 1984. L’attività ormai conclusa ha prodotto l’informatizzazione dei tre registri dell’inventario e dell’appendice, di cui sopra. L’obiettivo è duplice: da un lato, verificare la validità dell’inventario già esistente, controllando e completando i singoli dati, e trascrivendoli in forma omogenea; dall’altro, agevolare la ricerca storica, mettendo a disposizione degli studiosi una banca dati che permetta un’ampia e precisa analisi del materiale documentario. A supporto di quest’ultimo punto, è stata anche curata l’elaborazione di indici (enti, persone, famiglie), che offrano sostegno alla ricerca, consentendo una lettura trasversale ed incrociata della documentazione, nonché un’indagine mirata. Ilaria Bortone Programma di ricerca PerformArt Dal primo settembre 2016, è iniziato il programma di ricerca PerformArt, finanziato dall’European Research Council, ospitato dal Centre National de la Recherche Scientifique, in partenariato con l’École française de Rome, e dedicato allo studio dei 69
rapporti tra potere e arti dello spettacolo, a Roma, tra il 1644 e il 1740, basato sullo spoglio di archivi di famiglie aristocratiche. Il programma è incentrato su undici fondi d’archivio familiari, e prevede una stretta collaborazione tra ricercatori ed archivisti (http://performart-roma.eu/it/). Nel quadro di questo progetto, sto conducendo una ricerca personale dedicata all’andamento delle carriere degli artisti, attraverso la valutazione del ruolo dell’intervento aristocratico nella costruzione del loro successo professionale. Portato avanti con la perizia archivistica di Marco Cavietti, lo studio intende considerare le committenze artistiche delle famiglie Caetani e Borghese, in una prospettiva comparativa. I primi sondaggi fatti tra maggio e giugno 2017, nel fondo economico dell’archivio di famiglia (in particolare i libri mastri e i volumi di giustificazioni), confermano il dinamismo e la forma originale del mecenatismo artistico della famiglia Caetani, impegnata, sia a Roma che nei suoi feudi, nella promozione delle arti. Élodie Oriol
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Digitalizzazione «Commerce» La digitalizzazione delle riviste è un processo iniziato negli anni Novanta. In Europa, ad esempio in Francia, ha conosciuto un’enorme fortuna, e anche in Italia, a partire dal progetto CIRCE dell’Università di Trento, molti passi si sono fatti in questa direzione. Del resto anche la Biblioteca Nazionale di Roma ha messo a disposizione la riproduzione di molti periodici (tra gli altri, «Primato»). In genere, come è naturale che sia, ogni paese ha privilegiato le proprie riviste nazionali. E forse è proprio per questo motivo che «Commerce» è rimasta finora fuori: del resto la sua natura transnazionale, sotto tutti i punti di vista, l’ha resa una rivista europea, e non riconducibile a nessun preciso contesto (nemmeno la Francia). Occorreva pertanto una cordata forse più ampia per affrontare la digitalizzazione di «Commerce»; una digitalizzazione, vale la pena ricordarlo, che prevedesse anche l’interrogazione per stringhe e non solo l’anastatica. E questo gruppo di lavoro ora c’è e a questo progetto (la cui realizzazione è prevista per il 2018/2019) sta lavorando: è composto dalle Università di Pisa e di Perugia, dal CNR di Pisa, e dal Centre for European Modernism Studies.
Borse di studio In seguito alla convenzione stipulata nel febbraio 2003 tra il presidente della Fondazione Camillo Caetani, avv. Giacomo Antonelli e il direttore del Dipartimento di Studi storico-artistici dell’Università Roma Tre, prof. Vittorio Casale, la Fondazione eroga ogni anno una borsa triennale di dottorato su argomenti storico artistici pertinenti la famiglia Caetani. ––
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2016-2018 Diego Gallinelli, Trasformazioni dell’uso del suolo e dell’assetto economico-agricolo nell’antica provincia di Campagna e Marittima. Ricostruzioni 3D del paesaggio all’epoca della signoria dei Caetani. 2015-2017 Alfredo Franco, Organizzazione del territorio e regime delle acque nei feudi Caetani tra Medioevo ed età Moderna 2014-2016 Livia Nocchi, La committenza delle famiglie Caetani e Cesi a Roma (1560-1590) 2013-2015 Ilaria Sferrazza, La collezione Caetani nel Settecento: acquisizioni e dispersioni 2012-2014 Francesco Leonelli, Onorato VI Caetani e la cultura romana di fine Settecento
Palazzo Caetani 4-5 (2017)
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2011-2013 Veronica Giuliani, I paesaggi di Ninfa. Cultura e natura nel disegno storico del territorio 2010-2012 Matteo Braconi, Il mosaico dell’abside della Basilica di S. Pudenziana a Roma. La storia, i restauri, le interpretazioni 2009-2011 Giulio Del Buono, L’area del Foro Olitorio, del Foro Boario e dell’Isola Tiberina fra tradizione e trasformazione: sviluppo di un paesaggio urbano tra la metà del IX sec. e la metà del XII sec. 2008-2010 Federica Savelli, I Caetani e la contea di Fondi tra XIV e XV secolo: la produzione artistica e le sue vicende conservative. 2007-2009 Giulia Facchin, Archeologia e storia di un paesaggio urbano: l’area a nord di via Botteghe Oscure 2006-2008 Giovanna Ioele, Giovanni Battista Della Porta scultore (Porlezza 1542 - Roma 1597) 2004-2006 Cecilia Metelli, Il distacco delle pitture murali negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo 2003-2005 Laura Gori, I Caetani e le arti nella seconda metà del Cinquecento
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