RACCOLTA DI STUDI OFFERTI
ISA LORI SANFILIPPO a
SCRITTI PER ISA a cura di ANTONELLA MAZZON
ROMA
2008
STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
NUOVI STUDI STORICI – 76
DANIELA ESPOSITO - SUSANNA PASSIGLI
ALCUNE NOTE SULL’INSEDIAMENTO FORTIFICATO DI CAPODIBOVE. DAL CASALE, AL CASTRUM, AL CASALE*
Attraverso questa ricerca desideriamo proporre l’analisi di un caso specifico a sostegno del modello elaborato da Sandro Carocci e Marco Vendittelli, relativo allo sviluppo degli insediamenti e all’assetto del territorio nella Campagna Romana dei secoli XIII-XIV1. Il castrum Caetani sorto sul mausoleo di Cecilia Metella, al terzo miglio della via Appia, rappresenta un caso che, se per alcuni versi si attiene al processo di trasformazione dell’insediamento duecentesco della Campagna Romana, per altri, come verrà sottolineato, si mostra del tutto eccezionale2
* Il saggio è frutto di un lavoro comune. La suddivisione è indicata dalle sigle delle autrici al termine delle due sezioni.
1 L’analisi che si propone è basata sui materiali raccolti per la tesi di laurea in Archeologia e Topografia medievale di S. Passigli, Capo di Bove: dal castrum al casale, Università di Roma «La Sapienza», Facoltà di Lettere e Filosofia, relatrice prof. Letizia Pani Ermini, a.a. 1983-1984. Tale analisi si è potuta giovare delle recenti acquisizioni che hanno visto progredire insieme l’interpretazione storica con quella delle strutture materiali, sviluppate nel volume diS. Carocci - M. Vendittelli, L’origine della Campagna Romana. Casali, castelli e villaggi nel XII e XIII secolo, con saggi di D. Esposito, M. Lenzi, S. Passigli,Roma 2004 (Miscellanea della Società romana di storia patria, 47). Si tratta di acquisizioni maturate da parte del gruppo di ricerca ormai consolidato sul piano scientifico e legato da profondo affetto sul piano umano, gruppo il cui percorso Isa Lori Sanfilippo ha seguito costantemente con passione.
2
Dell’insediamento medievale sorto riutilizzando il mausoleo di Cecilia Metella, hanno trattato: A. Nibby, Analisi della carta de’ dintorni di Roma, Roma 1848; L. Canina, La prima parte della Via Appia: dalla Porta Capena a Boville descritta e dimostrata con i monumenti superstiti, Roma 1853, pp. 87-92; C. Borgnana, Del castello e della chiesa de’ Caetani nella via Appia, Roma 1866; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, III, Roma 1938-1943, pp. 515-516; P. Adinolfi, Roma nell’età di mezzo, I, Roma 1881, pp. 42 ss.; G. Tomassetti, Della Campagna Romana nel Medio Evo,«Archivio della Società romana di storia patria», 2 (1879), pp. 129-164; G. Digard, Le domaine des Gaetani au tombeau de Cecilia Metella, in Mélanges G. B. De Rossi, Recueil de travaux publiés par l’École française, Roma 1892, pp. 281-290; U. Leoni - G. Staderini, Sull’Appia antica, Roma 1907; J. Ripostelli - H. Marucchi, La via Appia à l’époque romaine et de nos jours, Rome 1908, pp. 139-151; G. Tomassetti, La Campagna romana antica medievale e moderna, nuova edizione
La via Appia era larga abbastanza da permettere il comodo passaggio dei carri e aveva una caratteristica che la accomunava ad altre importanti vie consolari romane: nel tratto presso la città essa era disseminata di ricche tombe nobiliari risalenti al periodo compreso fra il I secolo a. C. e il I d. C., come nel caso del sepolcro di Cecilia Metella. Oltre che di tombe, in età imperiale questa porzione del suburbio romano era costellata di fastose ville, che costituivano da un lato un piacevole rifugio per i nobili proprietari, dall’altro erano al centro dello sfruttamento agricolo dei latifondi e degli insediamenti rurali legati all’attività economica. Questi insediamenti non erano isolati nella campagna, ma costituivano «un continuo ininterrotto di abitati» che giungeva sino alle pendici dei Colli Albani3. Già in età imperiale la zona fu oggetto di opere di drenaggio, mediante cunicoli e gallerie, e di strutturazione viaria per facilitarne lo sfruttamento agricolo, attraverso un articolato sistema viario composto da diverticoli in terra battuta. Le colline erano terrazzate per estendere i campi di grano, le vigne, gli oliveti: era, questo, un insieme di terreni coltivato dai contadini residenti all’interno del pagus denominato Triopio4. La frequentazione di questo tratto della via Appia non si arrestò nei secoli successivi, divenendo meta dei fedeli alla ricerca di una sepoltura per sé e per i propri familiari, presso le spoglie dei martiri ospitate nei cimiteri lungo la consolare. Nonostante la distruzione di alcuni tratti di acquedotto, lo storico Procopio testimonia
aggiornata a cura di L. Chiumenti - F. Bilancia, II, Firenze 1975, pp. 101-114; C. De Cupis, Storia dei luoghi già abitati nell’Agro Romano nella zona della bonifica obbligatoria,in C. De Cupis, Vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’Agro Romano,Roma 1911, pp. 452456; A. Muñoz, La tomba di Cecilia Metella,«Bollettino di Archeologia cristiana», 23 (1913), pp. 4-14; T. Ashby, La Campagna Romana al tempo di Paolo III, Mappa della Campagna Romana del 1547 di Eufrosino della Volpaia riprodotta dall’unico esemplare esistente nella Biblioteca Vaticana, Città del Vaticano s. d. [1914], pp. 34-35; G. Silvestrelli, Città, castelli, terre della regione romana. Ricerche di storia medievale e moderna sino all’anno 1800,Città di Castello 1914, I, p. 165; A. Celli, Storia della malaria nell’Agro Romano, Città di Castello 1925, pp. 135, 140, 190, 216; G. Caetani, Domus caietana: storia documentata della famiglia Caetani, San Casciano Val di Pesa, pp. 151-157; E. Amadei, Le torri di Roma, Roma 1932, pp. 152-162; E. Martinori, Lazio turrito, Roma 1933, pp. 113-115; G. M. De Rossi, I monumenti dell’Appia, «Capitolium», 43 (1968), pp. 307-323; L. Quilici, La valle della Caffarella e il Triopio di Erode Attico, «Capitolium», 43 (1968), pp. 329-352; G. M. De Rossi, Torri e castelli della Campagna Romana, Roma 1969, pp. 34-36; L. Fiorani, L’Appia antica nel Medio Evo,«Capitolium», 44 (1969), pp. 121 ss.; Via Appia. Il Mausoleo di Cecilia Metella e il castrum Caetani, a cura di R. Paris, Milano 2000.
3 Questa efficace immagine del paesaggio suburbano di Roma viene da L. Quilici, La Campagna Romana come suburbio di Roma antica, «La parola del passato», 158-159 (1974), pp. 410-438.
4 Quilici, La valle della Caffarella e il Triopio cit., pp. 329-352. L’autore individua il sito dell’abitato rurale proprio presso la tomba di Cecilia Metella.
DANIELAESPOSITOche nel 535 la strada era in piena funzione per il passaggio di carri e di attrezzature militari5
Un toponimo di origine greca, presumibilmente attribuito al monumento, ha indotto a ipotizzare una prima forma di riutilizzazione del sepolcro già in età altomedievale6. Nell’impossibilità di verificare questa ipotesi, un fatto sembra tuttavia certo. Nella metà del IX secolo la zona in questione era definita iuris Sanctae Romanae Ecclesiae, il che induce a concludere che essa appartenesse ancora ad uno dei più longevi patrimonia laziali della Chiesa7. Un’altra ipotesi sembra invece da confutare, sia per la dubbia interpretazione del privilegio che ha indotto a formularla, sia in assenza di prove materiali derivate dall’analisi delle strutture murarie. E’ infatti da escludere che la fortificazione adiacente alla tomba di Cecilia Metella sia stata opera dei conti di Tuscolo nell’XI secolo, come è stato dedotto da un passo del privilegio del pontefice Gregorio VII a favore del monastero di San Paolo fuori le mura8. Lo smembramento della famiglia e delle sue proprietà, causato dall’esasperazione generata nei romani a causa degli abusi per i quali essa si era distinta in passato, risale infatti almeno a quaranta anni prima la menzione contenuta nel privilegio di Gregorio VII. Inoltre recenti studi sulla famiglia permettono di escludere che possedimenti fortificati dei conti di Tuscolo si spingessero sulla via Appia a pochi chilometri da Roma9
Con il XII secolo la documentazione conservata si fa meno rarefatta. Ed è soprattutto la proprietà degli enti religiosi romani che appare parti-
5 Procopio di Cesarea, La guerra gotica, a cura di E. Bartolini, traduzione di D. Comparetti, Milano 1994, lib. I, cap. XIV.
6 Il regesto sublacense dell’XI secolo, a cura di L. Allodi - G. Levi, Roma 1885, pp. 7071, doc. 31, 850. Fra i confini di una terra coltivata si faceva riferimento a un monumentum qui vocatur ta canetri capita, la cui localizzazione coinciderebbe con il sepolcro di Cecilia Metella. Il toponimo sarebbe una corruzione di cata cretici capita, dove seguito dalla preposizione di luogo catà, capita sarebbe da mettere in relazione con la decorazione a bucrani del sepolcro e cretici sarebbe riferibile al soprannome di Quinto Metello, autore di una campagna militare a Creta, Tomassetti, Della Campagna Romana cit., pp. 129 ss.
7 F. Marazzi, I «patrimonia sanctae Romanae Ecclesiae» nel Lazio (secoli IV-X). Struttura amministrativa e prassi gestionali, Roma 1998 (Nuovi Studi Storici, 37), in particolare le pp. 127-130 sul patrimonium Appiae
8 B. Trifone, Le carte del monastero di San Paolo, «Archivio della Società romana di storia patria», 31 (1908), pp. 267-313: 278, doc. 1, 14 marzo 1081.
9 Oltre a G. Falco, I comuni della Campagna e della Marittima nel Medio Evo, ora in G. Falco, Studi sulla storia del Lazio nel Medioevo, II, Roma 1988 (Miscellanea della Società romana di storia patria, 24), pp. 419-690, sull’insediamento dei conti di Tuscolo, si veda da ultimo V. Beolchini, Tusculum, 2.: Tuscolo, una roccaforte dinastica a controllo della Valle Latina: fonti storiche e dati archeologici, Roma 2006.
ALCUNENOTESULL’INSEDIAMENTOFORTIFICATODICAPODIBOVE
colarmente sviluppata nell’area. I monasteri di San Giovanni a Porta Latina, San Paolo fuori le mura, Santa Maria Nova, Santa Balbina, Sant’Alessio si affacciano quali detentori di possedimenti situati fuori la porta Appia, fra i secoli XIII e XIV. La copertura conica del sepolcro di Cecilia Metella dovette dare origine alla denominazione duecentesca del monumento, utilizzato quale punto di riferimento topografico per la localizzazione di «tres pedicas terre ad Monumentum Prezatum cum ipso monumento in strata antiqua Albani». Fra gli altri beni, questi possedimenti furono oggetto di un privilegio di conferma emesso il 3 giugno 1217 dal pontefice Onorio III a favore del monastero romano di Sant’Alessio10 L’edificio, con gli appezzamenti di terra che lo circondavano (pedicae: appezzamenti dall’ampiezza che oscillava fra i dieci e i quaranta ettari), confinava a nord con la località denominata Marmorata dove si trovavano beni dello stesso monastero di Sant’Alessio11. Il toponimo Marmorea vanta una certa continuità nella documentazione dell’area, riferito in primo luogo al corso d’acqua che successivamente verrà designato come fosso della Caffarella e in seguito al casale Marmoria, Sette Bassi, Arco Travertino, Buon Ricovero, Statuario, che nel 1660 si estendeva dal terzo al sesto chilometro della via Appia, fra questa e la via Tuscolana (fig. 4)12. Verso ovest erano i beni del monastero di San Giovanni a Porta Latina, ubicati al secondo miglio della via Appia13. A sud est, fra il quarto e il quinto miglio della strata publica, si trovava il casale quod dicitur Iuvaci, che venne confermato alla chiesa di San Paolo in Albano nel 128214. Poco oltre, verso sud
10 F. Nerini, De templo et coenobio Sanctorum Bonifacii et Alexii historica monumenta, Romae 1752, p. 236, 3 giugno 1217.
11 A. Monaci, Regesto dell’abbazia di Sant’Alessio all’Aventino, «Archivio della Società romana di storia patria», 28 (1905), pp. 151-200: 154, n. 27, 1208.
12 La torre del casale Marmorea è segnata sulla carta di Eufrosino della Volpaia del 1547, Ashby, La Campagna Romana al tempo di Paolo III cit. Un indispensabile sostegno per la ricostruzione topografica dei casali duecenteschi è costituito dalle mappe del Catasto Alessandrino del 1660, conservate nell’Archivio di Stato di Roma, fondo Presidenza delle Strade. La mappa seicentesca del casale Marmoria, Sette Bassi, etc., quella del casale Statuario di Santa Maria Nova e le due di Capo di Bove hanno rispettivamente la segnatura 429/26, 433A/17, 433A/49 (famiglia Cenci) e 433A/50 (ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum), (figg. 1 e 3).
13 C.M. Crescimbeni, Istoria della chiesa di San Giovanni a Porta Latina, Romae 1716, p. 216.
14 «Item concedimus casale nostrum, quod dicitur Iuvaci cum toto suo tenimento, quod positum est prope urbem ad quinque vel quatuor milliaria extra portam Appiam, seu Lateranensem, tamen in territorio albanesi, sub his finibus, ad totum territorium eius, ab uno latere est tenimentum casalis quod dicitur Monimentum Pescutum quod est monasterii Salvatoris Sancte Balbine, ab alio latere est tenimentum casalis quod dicitur Statuarium
est e su entrambi i lati della strada, si estendeva il casale quod dicitur Statuarium di proprietà del monastero di Santa Maria Nova, ubicato al quinto miglio poco prima della Villa dei Quintilii. Da questa serie di testimonianze deriva che nel corso dei decenni centrali del Duecento anche il nostro Monumentum Pescutum o Peczutum fu interessato dal processo di ‘incasalamento’. Se fino ai primi anni del secolo il toponimo veniva utilizzato per designare genericamente una località ove si trovavano un antico monumentum e alcune pedicae di terra, nel 1282 esso appare fissato nella percezione topografica del territorio per denominare un casale, ossia «un’azienda agricola caratterizzata da due elementi fondamentali: l’accorpamento fondiario e la costruzione di edifici rurali»15. La delimitazione dei confini, così come si è cercato di ricostruire attraverso la documentazione duecentesca, mostra che il territorio che componeva la proprietà agricola, il tenimentum, doveva svilupparsi lungo la via Appia per circa due chilometri raggiungendo quindi una superficie di circa duecentotrenta ettari16. Tale estensione si dovette ottenere accorpando le precedenti pedicae attraverso passaggi di proprietà che non ci sono pervenuti. Si trattò probabilmente di una successiva serie di donazioni a favore di enti religiosi, il monastero romano di Sant’Alessio prima e in seguito quello del Salvatore in Santa Balbina. La proprietà fondiaria del Monumentum Peczutum a sua volta era delimitata dai territori di altri casali (Marmorea, Statuarium, Iuvaci), insieme ai quali essa costituiva ormai una maglia compatta di tenimenta caratterizzati da simili ordinamenti colturali. Al proprio interno trovavano posto terre cerealicole, vigne e orti, oltre che un nucleo edilizio con strutture difensive, edifici per uso abitativo e per le attività agricole, elementi, tutti, che implicavano un’intensa utilizzazione del suolo condotta da una cospicua popolazione residente17. Il Monumentum Peczutum stesso
quod est ecclesie Sancte Marie Nove, ab alio latere est tenimentum casalis Iudicis Angeli Petri Mathei (…)», così recita un atto di dotazione del monastero di San Paolo di Albano datato 21 aprile 1282, inserto in un privilegio di Onorio IV del 20 aprile 1286, F. Ughelli, Italia Sacra sive De Episcopis Italiae, I, Venetiis 17172, pp. 265-267. La localizzazione topografica di questa proprietà confinante con Capodibove è suggerita dalla presenza di un tempio dedicato a Giove, del quale rimanevano cospicui resti in laterizio all’altezza della chiesa di Sant’Urbano, situata sull’opposto lato della via Appia: da Iovis sarebbe infatti derivata la corruzione Iuvaci.
15 Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 12.
16 La ricostruzione topografica della superficie del casale del secolo XIII si basa sul riporto cartografico sulla tavoletta dell’Istituto geografico militare in scala 1: 25.000 (Roma, 150 IV S. O.) delle proprietà rurali seicentesche raffigurate nelle già citate mappe del Catasto Alessandrino.
17 Questo assetto è suggerito da un atto relativo a un terreno non lontano dal nostro, composto da «vineae, scilicet viginti petiae et orti cum turricella, positi extra portam Apiam
ALCUNENOTESULL’INSEDIAMENTOFORTIFICATODICAPODIBOVEdovette quindi rappresentare una preziosa base edilizia per provvedere il casale dei necessari fabbricati agricoli, attraverso la realizzazione di corpi aggiunti che siamo ormai in grado di distinguere nel loro progressivo sviluppo architettonico.
Una serie di quindici documenti permette di ricostruire le fasi dell’acquisto del casale da parte della famiglia Caetani, nonché formulare un’ipotesi circa le possibili tappe della costruzione dell’edificio addossato al Monumentum Peczutum e infine dare risalto all’insediamento dei Caetani presso la tomba di Cecilia Metella nel più generale contesto dell’occupazione del suolo nell’Agro Romano dei secoli XIII-XIV18. L’intero casale Caputbovis et Caputvacce venne acquistato dai Caetani nella persona di Francesco, cardinale di Santa Maria in Cosmedin, in soli quattro giorni, dal 14 al 17 marzo 1302. Nello stesso giorno, il 14 marzo, avvennero dapprima la vendita di un terzo del casale da parte di Sabbus Caballuti a favore di Leo quondam Iohannis Iudicis, poi la conferma pontificia di questa vendita e infine la successiva vendita della medesima porzione da parte di Leo al cardinale Francesco19. Evidentemente la conferma papale di questa prima transazione, portando la data del giorno della vendita stessa, doveva essere già redatta a mancare solo della firma del pontefice. Si tratta di un particolare illuminante sul modo di condurre questo tipo di affari da parte di Bonifacio VIII, un papa dai pochi scrupoli ma caratterizzato da un esasperato formalismo legalistico. Può stupire, inoltre, il fatto che la medesima porzione di territorio sia stata oggetto di un doppio passaggio di proprietà. Una possibile spiegazione può trovarsi nella necessità di regolare la posizione giuridica dei venditori, i Gabelluti, per evitare eventuali lagnanze da parte di terzi, data la fretta con la quale il papa condusse l’affare o a causa di un ipotetico vincolo contro l’alienazione senza il consenso dei condomini. La prima vendita, quella da parte di Sabbus Caballuti a Leone
in loco ubi dicitur Vallis Iohannis Iudicis», donato da Petrus figlio di Enricus Iohannis Romani al monastero di Sant’Alessio e confinante con beni del monastero di San Paolo, del monastero di San Sebastiano, con la Vallis Cardosa e con la via publica, Nerini, De templo cit., p. 452, 12 marzo 1274.
18 Les Registres de Boniface VIII (1294-1303),a cura di G. Digard - M. Faucon - A. Thomas - R. Fawtier, III, Paris 1921 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 2 sér.), coll. 882 e 912-926, nn. 5373 e 5402-5408. Sulle lettere in questione, Digard, Le domaine des Gaetani cit. Lo stesso studioso, editore delle lettere pontificie, ritenne di non ripetere l’esatto contenuto dei diversi atti, per non appesantire il testo. Da ciò scaturì la necessità di riconsiderare l’insieme dei documenti. Questo riesame della loro cronologia e dei passi relativi alla vendita delle varie frazioni, contenuti in ciascuno di essi, è stata la prima, preziosa e appassionante ‘lezione di metodo’ che ricevetti da Jean Coste.
19 Les Registres de Boniface VIII cit., nn. 5402, 5403, 14 marzo 1302.
Iudicis, si presenta inclusa nella lettera pontificia di conferma. Essa è completa delle varie formule, compreso l’elenco delle pertinenze che, per questo motivo, si trova ripetuta due volte. La conferma della seconda vendita, quella da Leone al Caetani, per prudenza avvenne a maggiore distanza di tempo, dopo circa un mese20. Nel mese di marzo vennero redatti altri due documenti di vendita. Questa volta direttamente a Francesco, i fratelli Paulus et Ceccus Gaballuti e poi Oddutius et Matheutius Gaballuti vendettero la loro quota, corrispondente rispettivamente a un sesto e un terzo dello stesso casale21. Anche in questo caso le conferme seguirono non meno di un mese dopo, il 16 e il 17 aprile22. Il 17 marzo finalmente anche l’ultimo sesto del casale passò nelle mani del cardinale Francesco, mediante una donazione da parte di Luca Savelli23. Ad eccezione della famiglia Iudicis, i Caetani ebbero dunque a che fare con la famiglia dei Gabelluti. Allo stato attuale degli studi sulle famiglie aristocratiche di Roma, poche sono le notizie sulla famiglia Gabelluti e soprattutto sul momento in cui entrò in possesso del casale sulla via Appia. Era certamente una famiglia appartenente all’élite cittadina non baronale, nel cui ambito era largamente diffusa la proprietà di casali e, nella seconda metà del XIII secolo, era imparentata con Giovenale Mannetti24. Il Savelli, senatore nel 130425, doveva essersi imparentato con i Gabelluti ed essere in questo modo entrato in possesso di una frazione della proprietà della famiglia. L’approvazione degli atti da parte del pontefice avvenne il 16 e il 17 aprile, tramite quattro lettere di conferma riferite alle tre vendite e alla donazione26.Sommando le varie porzioni del casale Caputbovis et Caputvacce, oggetto di questi primi documenti, ne risulta che ormai la totalità del casale era nelle mani di Francesco e della famiglia Caetani. Di questa prima tornata di atti, datati fra i mesi di marzo e di aprile 1302, doveva far parte un’altra vendita allo stesso Francesco. Essa aveva come oggetto il casale Turris de Perronis con
20 Ibid., n. 5404, 17 aprile 1302.
21 Ibid., 15 marzo 1302.
22 Ibid., 16 e 17 aprile 1302.
23 Ibid., n. 5406, 17 marzo 1302.
24 Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 100. Siamo grate a Marco Vendittelli per le informazioni fornite sulla famiglia Gabelluti e per gli spunti e utili consigli.
25 A. Salimei, Senatori e statuti di Roma nel Medioevo. I Senatori, Roma 1935 (Biblioteca storica di fonti e documenti, 2), p. 90.
26 Il 16 marzo 1302 vennero riconosciute dal papa la vendita del 15 marzo da parte di Oddutius et Matheutius (Les Registres de Boniface VIII cit., n. 5405) e la donazione da parte di Luca Savelli(Ibid., n. 5406). Il giorno seguente si riconobbero le vendite del 14 marzo da parte di Leone Iudicis e del 15 marzo da parte di Paulus e Ceccus (Ibid., n. 5404).
ALCUNENOTESULL’INSEDIAMENTOFORTIFICATODICAPODIBOVE
tre torri comprese entro i suoi confini, situato nei pressi di Capodibove. La vendita è nota attraverso un atto del 21 agosto 1302, che vi fa allusione27 L’affare era stato dunque condotto ‘tamburo battente’: in un mese e tre giorni il cardinale Francesco Caetani aveva acquistato due vaste proprietà, caratterizzate dalla presenza di aziende agricole già bene avviate e aveva fatto confermare l’operazione dal papa.
L’eccessiva rapidità dell’acquisto dovette tuttavia nascondere qualche forzatura da parte del pontefice, notoriamente bene avvezzo a tale condotta. Il secondo blocco di documenti risulta dunque condizionato da probabili risentimenti suscitati dal suo comportamento o da eventuali ingiustizie, più semplicemente provocate da distrazioni a causa della fretta. Nella vendita del casale Caputbovis et Caputvacce, per esempio, non si era tenuto conto della frazione di un dodicesimo che apparteneva a Petrutius et Iannutius, figli minori di Egidia, vedova di Giacomo Gabelluti e madre dei già noti Paulus, Ceccus, Oddutius e Matheutius. Per rimediare senza provocare ulteriori difficoltà, il cardinale Francesco preferì acquistare da Egidia la sua frazione, pagando una seconda volta per la superficie di terra che egli doveva aver già pagata nel corso dei precedenti acquisti. Questa seconda vendita di un terreno, in realtà già venduto, avvenne il 19 luglio 1302 e fu stilata redigendo un elenco di pertinenze sul quale varrà la pena soffermarsi in seguito28. Un ulteriore documento, datato 21 agosto, è testimone di un’altra leggerezza commessa ai danni degli ex proprietari del casale Turris de Perronis, la famiglia di Leo quondam IohannisIudicis. Anche in questo caso non si era tenuto conto dei diritti di Giovanni, figlio di Leone. In questo caso venne scelta una soluzione amichevole, senza ricorrere a un nuovo pagamento: Leone e suo figlio Giovanni compilarono semplicemente un secondo atto di vendita, per lo stesso prezzo e lo sostituirono al primo. Grazie a questo documento, che ne contiene il ricordo, siamo a conoscenza dell’intera circostanza29. Rimaneva a questo punto da far approvare i nuovi atti al papa: questa volta si impiegò maggiore prudenza, in quanto non trascorsero meno di otto mesi prima che Bonifacio VIII emanasse le bolle di conferma. Il 19 marzo 1303 venne confermata la vendita del casale Turris de Perronis e il 20 marzo dello stesso anno quella del restante dodicesimo del casale Caputbovis et Caputvacce30
27 Les Registres de Boniface VIII cit., n. 5408, 21 agosto 1302. Molto probabilmente anche questa vendita aveva avuto luogo nel mese di marzo, come le precedenti ed era stata oggetto di una conferma pontificia poi annullata e non registrata, in quanto, come si vedrà, l’atto di vendita venne sostituito con un altro.
28 Ibid., n. 5407, 19 luglio 1302.
29 Ibid., n. 5408, 21 agosto 1302.
30 Ibid., 19 marzo 1303 e n. 5407, 20 marzo 1303.
In seguito all’analisi dei termini relativi alle componenti edilizie, contenuti nei documenti provanti la vendita del casale Caputbovis et Caputvacce, salta agli occhi una decisa distinzione fra due diversi tipi di elenco delle pertinenze. Ciò che si rivelerà ancora più interessante è che questa distinzione corrisponde precisamente ai due blocchi di documenti, ripartiti in base alla loro cronologia. All’interno degli atti stilati nei mesi di marzo e aprile 1302, il passo relativo alle pertinenze si riferisce al «casale Capitisbovis et Capitisvacce, ac omnes munitiones et munimenta, domus, hedificia, fortellicia (…)». Il documento redatto nel mese di luglio dello stesso anno indicava invece: «tota munitio, que dicitur Caputbove, et alia turris, que dicitur Caputvacca, cum claustris, casseris et fortellitiis suis (…)». I termini contenuti nel primo blocco di atti si rifanno decisamente agli edifici e agli annessi agricoli e difensivi del casale duecentesco31 L’elenco comprende le abitazioni e i magazzini (domus, hedificia) e le strutture per la difesa della popolazione residente e del raccolto (munitiones, fortellicia). Fra queste ultime manca stranamente l’edificio centrale del nucleo edilizio del casale, la torre. Questo fulcro del territorio agricolo, nel caso di Capodibove, doveva essere rappresentato dal mausoleo stesso e quindi essere designato non con il termine turris, ma con il vocabolo munitio, riferito al luogo protetto nel suo insieme, come del resto risulta chiaro dal testo della serie successiva di atti («tota munitio, que dicitur Caputbove, et alia turris, que dicitur Caputvacca»)32. Altro termine relativo ad opera difensiva è fortellitium o fortellicium. Esso si trova impiegato di frequente ad indicare una fortificazione generica o come elemento fortificato del casale33. Nel nostro caso dobbiamo riconoscervi il palatium del casale dei Gabelluti, la residenza destinata al soggiorno estivo dei proprietari. Dunque, secondo la descrizione delle pertinenze contenuta nei documenti dei mesi di marzo e aprile 1302, ci troviamo di fronte a un casale in piena regola. Costituito da terreni coltivati, vigne, prati per il pascolo e boschi con corsi d’acqua, vi si trovavano già in funzione anche costruzioni per la difesa, ottenute grazie al reimpiego del mausoleo romano, utilizzato come munitio secondo una pratica che del resto trova numerosi confronti
31 Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., pp. 69-92.
32 J.F. Niermeyer, Mediae Latinitatis Lexicon minus, Leiden 1976, p. 711. Con questa accezione il termine munitio si trova anche in Statuti della città di Roma, a cura di C. Re, Roma 1880 (Biblioteca dell’Accademia Storico-giuridica, 1), p. 128, linea 17.
33 Per un esempio del primo caso di impiego, Anonimo Romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 1979, p. 113. Il termine figura impiegato nella descrizione delle strutture di un casale, seppure assai più tardo, in Archivio Storico Capitolino (d’ora in poi ASC), Archivio Urbano, sez. I, not. Venettini, 785 bis, tomo 11, cc. 45v-46v, 31 marzo 1427.
ALCUNENOTESULL’INSEDIAMENTOFORTIFICATODICAPODIBOVE
nel territorio romano. Più che a una fortificazione voluta dai conti di Tuscolo nel secolo XI, le strutture difensive che i Caetani trovarono al loro ingresso a Capodibove, in conclusione, dovevano essere pertinenti a un tipico casale duecentesco.
Il confronto fra i due blocchi di documenti rivela in primo luogo che la proprietà riunita dai Caetani fra i mesi di luglio e di ottobre nasceva da due distinti casali già uniti dai Gabelluti. Di conseguenza, sia la munitio di Capodibove, sia la torre di Capodivacca erano già esistenti al momento dell’acquisto. Quest’ultima, in particolare, costituiva il residuo di un casale del quale non abbiamo notizia a causa della mancanza di documentazione. Posto, dunque, che con munitio e fortellicium si intendesse il nucleo interno della fortificazione di Capidibove (il mausoleo fortificato e la residenza signorile), nella seconda serie di documenti fece la sua comparsa il termine claustrum. Questo, con le sue varianti (renclaustrum, reclaustrum, inclaustrum, enclaustrum), nelle fonti anteriori alla metà del XIV secolo, era impiegato per designare la cinta muraria del casale34. Se quest’ultimo termine apparteneva in modo specifico al paesaggio dei casali, cassarum rinvia invece a un contesto culturale che accomuna casali e castra e «designa un ridotto potentemente difeso da torri e cortine murarie situato all’interno di una cinta di mura. In alcune descrizioni di castelli è sinonimo del termine rocca e indica la zona dove sorgono le residenze del signore»35 Spicca dunque il fatto che la descrizione contenuta nel documento del mese di luglio fosse maggiormente dettagliata e concentrata sull’aspetto fortificato e difensivo. Si osservi in particolare che nel documento estivo compaiono alcuni termini che mancavano negli atti dei mesi di marzo e aprile. Ciò induce a concludere che i Caetani avessero avuto una certa urgenza di realizzare questa loro roccaforte a cavaliere della via Appia, in una posizione così vicina alla città e che nel giro di solo quattro mesi avessero già posto mano ai lavori di trasformazione delle strutture del casale in quelle di un castrum. Ma nel mese di luglio 1302 l’insediamento fortificato non doveva ancora essere giunto a compimento. L’avvenuta conclusione dei lavori è attestata solo nel maggio dell’anno successivo, quando il pontefice, sempre rivolgendosi a Francesco Caetani, dedicava una chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola in dicto castro Caputbovis36. Nel giro di quattordici mesi Capodibove era già divenuto un castrum, con una propria comunità residente e bisognosa dei consueti servizi religiosi. Proprio la
Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 79.
Ibid.,p. 80, con esempi.
Les Registres de Boniface VIII cit., n. 5373, 12 maggio 1303.
popolazione residente, la cui presenza aveva determinato la costruzione di una cinta muraria e di una chiesa, costituisce l’elemento discriminante che segnò il passaggio di rango da casale a castrum. In altre parole, si può affermare che l’atto di costituzione della chiesa di San Nicola sancì, di fatto, la trasformazione di un’azienda agricola duecentesca in un abitato fortificato dotato di un cospicuo numero di abitanti e della relativa giurisdizione. Solo un pontefice come Bonifacio VIII Caetani, dal quale il senatorato romano dipendeva strettamente dopo il 1297, sarebbe stato in grado di dar vita a una tale operazione di «prepotente collocazione della fortezza a sbarramento di un fondamentale asse stradale poco fuori le mura cittadine»37
Non a caso, la decadenza della famiglia Caetani portò con sé il suo patrimonio. La morte di Bonifacio VIII ebbe conseguenze immediate sull’instabile equilibrio degli accordi fra famiglie. Nel 1305, le «Leges populi Romani et Senatus Consulta super iustitia Columnensium contra iniquitates Bonifacianas» stabilirono il risarcimento dei danni subiti dai Colonna, che i Caetani avrebbero dovuto pagare in denaro liquido o consegnando «castra et possessiones sita in districtus Urbis» situate entro un raggio di cinque miglia dalla città. Si tratta di una disposizione calcolata proprio per includere il castrum Caputbovis che bloccava il passaggio sull’Appia38. Così, dopo appena due anni dal loro insediamento a Capodibove, i fondatori del castrum dovettero rinunciarvi.
I documenti di Bonifacio VIII tacciono riguardo alla superficie del casale acquistato dai Caetani. Essi però contengono le cifre relative al pagamento dei beni acquistati e i dati topografici relativi ai casali confinanti e agli elementi del paesaggio agrario e costruito circostante. Il riporto cartografico sulla tavoletta dell’Istituto Geografico Militare delle due tenute di Capo di Bove disegnate sulle mappe del Catasto Alessandrino del 1660 costituisce un ‘fondo carta’ completo di toponimi di età moderna e contemporanea sul quale individuare i dati contenuti negli atti trecenteschi
37 E. Duprè Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria pontificia (1252-1377), Bologna 1952 (Storia di Roma, 11), pp. 356-358.Per le strategie familiari e l’espansione territoriale della famiglia Caetani in particolare dopo l’elezione di Bonifacio VIII, G. Falco, Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani (1283-1303),«Rivista storica italiana», 45 (1928), pp. 225-278 e S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993 (Nuovi Studi Storici, 23),pp. 147-148 e 328-329.Per l’eccezionalità del caso di Capodibove nel panorama dell’incastellamento duecentesco, Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 31. 38 P. Dupuy, Histoire du différend d’entre le Pape Boniface VIII et Philippes le Bel, Roy de France,Paris 1655, pp. 278-282. Sulla disposizione, J. Coste, Boniface VIII en procès. Articles d’accusation et dépositions des témoins (1303-1311), Roma 1995 (Studi e documenti d’archivio, 5), p. 219, nota 4.
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(fig. 4). Nell’elenco dei confini del casale Caputbovis et Caputvacce del 1302 figurano alcune proprietà del tutto sconosciute39. Diversamente, fra i proprietari confinanti di Capodibove verso nord ovest, già noti grazie alla documentazione duecentesca, si rintracciano ancora il monastero di San Giovanni a Porta Latina e la chiesa di San Sebastiano. Nel 1302 figurava inoltre un casale Nicolai Malacene militis. Il 28 luglio 1383 esso costituiva l’oggetto di un lascito testamentario (casale quod dicitur Turris Malacena), ubicato fuori porta San Giovanni e compreso fra il casale Palombaro, il casale del monastero di Santa Maria Nova (casale Statuario), il casale della Selce e il territorio di Marino40. Queste indicazioni inducono a concludere che il casale Turris Malacene costituisse il confine sud orientale del casale Caputbovis. Nessuna notizia successiva permette di seguire le sorti dell’altro casale acquistato da Francesco Caetani fra il 1302 e il 1303, il casale Turris Perronis con le sue tre torri (turris que fuit domine Rucciane, turris que fuit Iohannis Macharii, turris que fuit Angeli Cornicella de Urbe) e la sua piscaria41. E’ quindi ragionevole pensare che il possedimento, immediatamente dopo l’acquisto, sia stato accorpato al casale di Capodibove per comporre un’unica estesa proprietà. La turris Caputvacce, unita al casale Caputbovis nella vendita del 1302 e da questo scorporata dopo il Trecento, doveva corrispondere alla porzione estesa a ovest della via Appia, che in età moderna appartenne all’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum42 La pianta di Eufrosino della Volpaia del 1547 raffigura entrambi i monumenti, il mausoleo e la torre di Capo di Vacca, ma in posizione scambiata fra loro rispetto al tracciato della via Appia. I dati topografici relativi al casale Turris Perronis spingono a collocare anche questa porzione di territorio a ovest della via Appia, verso la valle della Caffarella43. Esso risulterebbe
39 Si tratta del casale «iudicis Iohannis Satulli et nunc venerabilis fratris Egidii, archiepiscopi Bituricensis», della «turricella heredum quondam Petri magistri Pandulfi», dei beni delle chiese di Santo Stefano in Celiomonte e di Santa Martina, Les Registres de Boniface VIII cit., n. 5402, 14 marzo 1302.
40 Biblioteca Apostolica Vaticana, Sant’Angelo in Pescheria, not. Scambi, I/13, cc. 45v 50v, 28 luglio 1383. Quattro anni dopo una porzione del casale Turris Malacene venne venduta; in quell’occasione il casale risultava confinare con i beni del monastero di Santa Maria Nova, con il casale Turris Archionis, con il casale della Selce, con il casale Palombaro e con il territorio del castrum di Marino, ASC, Archivio Urbano, sez. I, not. Venettini, 785, tomo 3, c. 17v, 17 gennaio 1387.
41 Les Registres de Boniface VIII cit., n. 5408, 21 agosto 1302.
42 A. Ruggeri, Le terre dei Cenci nell’Agro Romano: dalla via Aurelia alla via Ardeatina, in I Cenci. Nobiltà di sangue, a cura di M. Di Sivo, Roma 2002, pp. 3-128, in particolare le pp. 82-84.
43 Il «locus qui dicitur lo Cretaccio, super proprietate ecclesie sive hospitalis Sancti Thome in Formis», dove si trovava il casale Turris Perronis è noto nel secolo XIV, A.
compreso fra la chiesa del Domine quo Vadis, i terreni circostanti la chiesa di San Sebastiano, il casale di Torre Marancia e il casale di Sant’Alessio. In questa zone è attestata anche una vallis Iohannis Iudicis, personaggio che abbiamo già incontrato, padre di quel Leone che fece da intermediario nel primo frettoloso acquisto di Capodibove da parte di Francesco Caetani44.
Il casale Turris Perronis doveva estendersi in conclusione su un’area posta a sud ovest rispetto al casale seicentesco di Capo di Bove (Capo di Bove dei Cenci, mappa 433A/50), sull’opposto lato della via Appia, area che sulla tavoletta IGM conserva il toponimo Torraccia di Zampa di Bove. Esso dovette entrare a far parte della proprietà Caetani di Capodibove, che all’inizio del secolo XIV venne così accresciuta di circa trecentocinquanta ettari, raggiungendo una superficie massima che sfiorava i seicento ettari. La tenuta di Capo di Bove che nel 1660 si estendeva a ovest della via Appia (Capo di Bove dell’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum, mappa 433A/49) non conservò la superficie nella sua interezza, ma dovette ridursi alla sua porzione più meridionale. Così, il territorio che ne fu estrapolato, per motivi di cui non siamo a conoscenza, fu sottratto alla fascia di Agro Romano caratterizzata dalla ripartizione della proprietà in casali (moderne tenute) e fu attratto nella fascia suburbana, la cui proprietà era frammentata in orti e vigne, facendo completamente perdere le tracce del precedente assetto fondiario.
La tempestosa e contrastata vita di Bonifacio VIII si concluse l’11 ottobre 1303, come si è già messo in evidenza, solo pochi mesi dopo il compimento dei lavori per la residenza di Capodibove. Quest’ultima, negli anni immediatamente successivi, fu teatro di alcuni eventi bellici. Nel 1312, quando essa era divenuta roccaforte della famiglia Savelli, si ha notizia di un conflitto fra questi contro Enrico VII sostenuto dai Colonna45. La residenza continuò per un certo periodo ad essere utilizzata come punto di appoggio per la sosta degli imperatori e dei loro eserciti, lungo i viaggi da
Dell’Assunta - A. Romano di Santa Teresa, San Tommaso in Formis sul Celio, notizie e documenti, Isola del Liri 1927, appendice documentaria, 5 gennaio 1366. Il casale Turris de Marrancis figurava fra i confini della detta proprietà, il 17 gennaio 1378, ibid
44 Nella vallis Iohannis Iudicis si trovava una turricella, confinante con i beni di San Sebastiano, la vallis Cardosa e la via pubblica, donata da Pietro di Enrico di Giovanni Romani al monastero di Sant’Alessio, Nerini, De templo cit., p. 452, 12 marzo 1274.
45 Nicolai Episcopi Botrontinensis Relatio de itinere italico Henrici VII imperatoris ad Clementem V papam, in R.I.S., IX, Mediolani 1726, coll. 918-919. I Savelli dovettero entrare in possesso di una frazione del terreno già prima dell’avvento dei Caetani, in virtù di un matrimonio con i Gabelluti. A Giovanni Savelli, poco prima dello scontro, vengono attribuiti alcuni lavori di restauro delle mura di Capodibove, Gregorovius, Storia della città di Roma cit., III,pp. 515-516.
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e verso Napoli. Per esempio nel 1406 si ha notizia di una notte trascorsa da Paolo Orsini durante il viaggio per Napoli per trattare la pace con il re Ladislao46. Nel 1482 durante la guerra fra il papa Sisto IV e Ferdinando I di Napoli, la sfilata dell’esercito di Roberto Malatesta passò «ante palatium extra portam Appiam iuxta Capita Bovis, prope rivum qui dicitur la Marmorea». Due anni dopo, trovando il monumento abbandonato, esso venne occupato dagli Orsini, i quali ne vennero cacciati dalle truppe del papa Innocenzo VIII che vi si accamparono, durante la guerra contro Marino47
Parallelamente a queste attestazioni relative alla permanenza in uso delle strutture della residenza fortificata di Capodibove, alcuni atti ne registrano la successiva trasformazione in casale agricolo. Nel caso di Capodibove, come altrove nell’Agro Romano, questa seconda fase di incasalamento scaturiva da uno spontaneo passaggio dei territori dei castra a quelli dei casali. Ciò avvenne in seguito allo spopolamento delle campagne e all’abbandono della manutenzione delle strutture edilizie precedentemente costruite. I casali bassomedievali assunsero quindi una fisionomia completamente diversa rispetto a quelli appartenenti alla prima fase. Essi furono «frutto di un processo di investimento e di innovazione molto più semplice di quello attestato in precedenza»48. Per quanto riguarda le costruzioni, raramente si pose mano a nuovi investimenti e al contrario si moltiplicarono i casi di edifici abbandonati e destinati a cadere in rovina, con esiti che si possono constatare nella raffigurazione delle torri allo stato di rudere sulla carta di Eufrosino della Volpaia del 1547. Le vicende del casale quattrocentesco, con i suoi frazionamenti e i suoi passaggi di proprietà, riguardarono personaggi appartenenti a famiglie cittadine la cui forte ascesa economica era basata proprio sullo sfruttamento dei pascoli estesi nei casali dell’Agro Romano. Fra questi, nel corso del XV secolo, si
46 Il diario romano di Antonio di Pietro dello Schiavo dal 19 ottobre 1404 al 25 settembre 1417, a cura di F. Isoldi, in R.I.S.2, 24/5, Città di Castello - Bologna 1912-1917, p. 979, 1406.
47 «Item è ditto che Marino si era renduto alla ecclesia, tutto for che la rocca; ma poi lo martedì lo campo andò ad lui con gente della ecclesia e colli Ursini, et foro commandate molte persone a portare pane e vino a Capo de Bovi, dove lo ditto campo passò», per questa e la precedente notizia, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato (sec. XV), a cura di O. Tommasini, Roma 1890 (Fonti per la Storia d’Italia, 5), pp. 100-101 e 118-119.
48 Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 17. Per lo sfruttamento del territorio basato sul sistema del casale bassomedievale, J.-C. Maire Vigueur, Les «casali» des églises romaines à la fin du Moyen Âge (1348-1428),«Mélanges de l’École française de Rome», 86 (1974), pp. 63-136 e A. Cortonesi, L’economia del casale romano agli inizi del Quattrocento, in Ruralia. Economie e paesaggi nel medioevo italiano, Roma 1995, pp. 105-118.
contano Rita Tedallini con il suo procuratore Lorenzo di Pietro Omniasancti soprannominato lo mancino, i Rogeri e infine i Leni49. Nella seconda metà del secolo XVI la proprietà unitaria dei Leni venne ripartita nelle due porzioni della tenuta che sono giunte sino a noi grazie alle mappe del Catasto Alessandrino del 1660. La parte a destra della via Appia pervenne all’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum (Capo di Bove dell’ospedale del Salvatore ad Sancta Sanctorum, mappa 433A/49, rubbia quarantasette pari a circa ettari ottantasette) e la parte a sinistra fu comprata fra il 1549 e il 1567 da Rocco e Francesco Cenci (Capo di Bove dei Cenci, mappa 433A/50, rubbia sessantacinque pari a circa ettari centoventi; figg. 1 e 3)50 SP * * *
L’attuale assetto dei resti del castrum Caetani, restaurati di recente a cura della Soprintendenza archeologica di Roma, mantiene, in gran parte, la configurazione dei ruderi così come si era consolidata fin dall’epoca moderna. Dopo la sistemazione del tratto della via Appia nel XIX secolo, gli interventi di restauro condotti nei primi anni del XX secolo da Giovanni Battista Giovenale e da Antonio Muñoz, rispettivamente sulla chiesa e sul palazzo, sono stati condotti con metodologia in linea con le prescrizioni conservative e filologico-scientifiche elaborate nell’ambito del IV Congresso degli ingegneri e architetti italiani, tenutosi a Roma nel 1883, e divulgate in forma sistematica da Camillo Boito in Questioni pratiche di Belle Arti51. Secondo tale impostazione teoretica e di metodo, le reintegrazioni murarie sulla sommità dei muri perimetrali e sui contrafforti della chiesa di San Nicola sono ben riconoscibili; queste sono realizzate con blocchetti di tufo poco più alti di quelli originali e allettati con malta di calce e pozzolana rossa a grana fine, dal caratteristico colore rosato, distinguibile anche visivamente da quella originale, quest’ultima a base di calce,
49 Per le vendite del casale da parte di Lorenzo Martino di Lello Leni e di Rita Tedallini a Giordano Colonna, Subiaco, Biblioteca di Santa Scolastica, Archivio Colonna, perg. III, BB, XXX, 18 (12 marzo 1421) e perg. III, BB, XXX, 20 (15 marzo 1421). Per la proprietà dei Leni, I. Ait - M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di San Pietro. I Leni: uomini d’affari del Rinascimento, Roma 2000, pp. 128-129.
50 Per le vicende relative ai passaggi di proprietà alla famiglia Cenci nel secolo XVI, Ruggeri, Le terre dei Cenci cit.,pp. 82-84.
51 C. Boito, Questioni pratiche di Belle Arti, Milano 1893; A. Muñoz, Restauri e nuove indagini su alcuni monumenti della via Appia, «Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma», XLI (1913), pp. 3-21, in particolare le pp. 4-14.
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pozzolana rossa a grana media e fine e piccole parti di tufo (fig. 5). Così anche gli archetti ogivali delle monofore della medesima chiesa sono reintegrati e, in parte, ricostruiti con mattoni di nuova produzione; l’ingresso principale e l’accesso laterale, sul fianco sud-est, risultano rispettivamente tamponato e reintegrato con bozze irregolari di lava leucititica e malta pozzolanica, caratterizzata sempre dal tipico colore rosato della malta di restauro. Analogo criterio della distinguibilità degli interventi di restauro è seguito nelle reintegrazioni delle strutture del palatium come, ad esempio, nelle bifore dei fronti orientale e occidentale, realizzate, sulla base di alcuni resti presenti prima dei restauri sul fronte orientale, con reintegrazioni di marmo lavorate con sagome semplificate (fig. 6).
L’analisi delle testimonianze materiali dell’insediamento, situato lungo la via Appia, pone in evidenza quanto la documentazione e le fonti scritte lasciano ipotizzare: l’esistenza di una successione di fasi costruttive dell’insediamento rurale trasformato in castrum e quindi nuovamente ricondotto a casale, cronologicamente piuttosto ravvicinate. L’ampia disamina dei termini e dei riferimenti agli elementi del casale e del castrum di Capodibove nella documentazione dei primi del XIV secolo permette di ipotizzare infatti il periodo di trasformazione del casale –dal marzo 1302 –e di realizzazione del castrum, terminato già nel 1303. La lettura e l’interpretazione analitica dei termini utilizzati per descrivere le diverse porzioni del casale e del suo tenimento acquistati dai Caetani nel marzo e nel luglio del 1302 e, in particolare, delle sensibili differenze fra il primo e il secondo gruppo di documenti e, quindi del documento del 12 maggio 1303, relativo alla concessione al cardinale Francesco Caetani dei diritti sulla chiesa parrocchiale di San Nicola, cercano e trovano una conferma della presenza di fasi costruttive diverse pur se molto ravvicinate nel tempo, anche nella lettura ‘diretta’ delle strutture materiali e delle architetture dell’insediamento. A tal proposito, come si è visto, la documentazione d’archivio permette di ipotizzare la presenza di strutture preesistenti, costruite alcuni anni prima della vendita ai Caetani. Infatti, solo nel 1282, la tenuta viene descritta come un casale, un termine che non era ancora presente nelle testimonianze scritte sull’area risalenti alla prima metà del XIII secolo52
Come ben delineato negli studi che, dalla fine del XIX secolo, hanno avuto come oggetto l’insediamento di Capodibove, il complesso è caratterizzato da strutture che, oltre ad essere difensive, avevano una destinazione pre-
52 Tra i confini del casale Iuvaci, di pertinenza del monastero di San Paolo di Albano viene citato, per la prima volta, il «tenimentum casalis quod dicitur Monimentum Pescutum, quod est monasterii Salvatoris Sancte Balbine». V. supra, nota 14.
valentemente residenziale53. Tale carattere è testimoniato, ad esempio, dalle eleganti bifore trilobate, dal balcone aperto verso la campagna, dagli affreschi e dalle strutture di servizio presenti all’interno del palazzo e altro. L’insieme conserva ancora oggi, oltre alle strutture del palazzo e della cappella dedicata a San Nicola, i resti cospicui della cinta muraria intervallata da salienti sporgenti, aperti verso l’interno dell’insediamento fortificato; sono invece scomparsi i due archi che sottendevano il percorso della via Appia negli accessi al castrum da Roma e da sud, ancora visibili quando Uggeri nel 1804 descriveva e riproduceva in alcune vedute i ruderi dell’insediamento54 (figg. 2 e 7). Al palatium si accedeva tramite un portale sormontato da uno stemma marmoreo con la testa di un bue e due stemmi della famiglia Caetani, ancora in situ L’intervento di sistemazione realizzato nel corso del XIX secolo comportò la chiusura di tale accesso con un ‘montaggio’, in mostra, di alcuni pezzi marmorei erratici appartenenti a monumenti presenti sulla via Appia55 (fig. 8).
Il complesso sorge in un’area pianeggiante e ingloba, come noto, le strutture del mausoleo di Cecilia Metella; tale consuetudine di riutilizzare preesistenze (sepolcri, cisterne e altro) per la realizzazione di nuovi insediamenti è diffusa nelle strutture dei casali e castra medievali della Campagna Romana56. Citando solo alcuni esempi, fra i casali, si ricordano Casal Rotondo, al sesto miglio della via Appia, costituito da un sepolcro circolare sormontato da un edificio quadrangolare in blocchetti databili al XIII secolo, il casale con la torre presso i resti del ponte Salario, risalente alla fine del XII secolo e sorta sui resti di un sepolcro romano e molti altri casi (fig. 9).
Il castrum è chiuso da una cinta muraria quadrangolare, con andamento longitudinale e con salienti sporgenti in un rapporto lunghezza-profondità parti a 2:1 – 1,5:1 circa. Tali caratteri, comuni a numerosi esempi riscontrabili in area romana in fondazioni castrensi due-trecentesche e riferibili ai lontani esempi dei castra romani, sono da mettere in relazione sia con la natura pianeggiante dell’area su cui sorge, sia con le ragioni difensive che richiedevano, per una buona difesa radente delle mura e il tiro incrociato, la presenza di torrette sporgenti con solai intermedi interni. La sporgenza
53 A. Uggeri, Journées pittoresques des edifices de Rome ancienne, Roma 1800; Canina, La prima parte della Via Appia cit.; Borgnana, Del castello e della chiesa de’ Caetani cit.; Tomassetti, La Campagna cit.,II, pp. 101-114; Muñoz, Restauri cit.; Caetani, Domus caietana cit.; De Rossi, Torri e castelli cit.,pp. 34-36; Via Appia cit.
54 Uggeri, Journées cit., II, n. 17.
55 Canina, La primaparte della Via Appia cit.
56 S. Carocci - M. Vendittelli, Società e economia (1050-1420), in Roma medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari 2001 (Storia di Roma dall’Antichità a oggi, 2), pp. 71-116 e Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit.
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delle torrette rispetto al filo della cinta può essere ritenuto un carattere datante, riferibile cioè al pieno XIII e al secolo successivo; minori appaiono, infatti, le sporgenze dei salienti o semplicemente delle soluzioni ‘a baionetta’ delle cinte fondate nel XII e nei primi decenni del XIII secolo (rapporto lunghezza-profondità 3:1)57. Tra queste ultime si ricordano la cinta del castello di Piombinara, presso Colleferro, costruita dalla famiglia Conti nei primi anni del XIII secolo, quella del castello di Porto, concesso in enfiteusi agli Stefaneschi e già esistente nella seconda metà del XIII secolo, la cinta del castello di Castiglione, presso Palombara Sabina, fondato dai de Palumbaria e risalente forse alla fine del XII o agli inizi del secolo successivo, quella infine del Castrum Montis Frenelli (Borghetto, presso Grottaferrata, anch’esso risalente forse alla fine del XII secolo58
Fra gli insediamenti fortificati di epoca più tarda, con torrette notevolmente sporgenti, si ricordano, fra le altre, le cinte del Castel Savelli, presso Albano, risalente alla metà del XIII secolo e del castello, sempre dei Savelli, costruito all’interno delle mura della città, sull’Aventino, nella seconda metà del XIII secolo (figg. 10 e 11).
La tecnica costruttiva impiegata nella realizzazione della cinta muraria del castrum è costituita da una muratura ‘a sacco’ con paramenti in blocchetti di tufo e bozze e bozzette di materiali di reimpiego come marmo, lava, calcare, travertino, che portano spesso impressi sulle facce a vista i segni delle lavorazioni alla gradina, alla subbia, alla sgorbia o allo scalpello dei blocchi originari. La posa in opera è a filari orizzontali o sub-orizzontali, con una media del modulo per tre pari a circa 27-32 centimetri. In particolare, in prossimità della chiesa di San Nicola, si nota una serie di filari sovrapposti in blocchetti di tufo in tutto simili a quelli impiegati nell’apparecchio murario della stessa chiesa (fig. 12). La conformazione dei blocchetti e delle bozzette, per quanto associati a bozze lapidee, può essere ragionevolmente inclusa fra le murature diffuse in area romana nel corso del XIV secolo, quando il rigore geometrico delle apparecchiature duecentesche venne a perdersi gradualmente in favore di una sempre maggiore
57 Tale assetto è presente anche in esempi basso-laziali, come rilevato da D. Fiorani, Architettura e cantiere delle strutture fortificate, in Castelli del Lazio meridionale, a cura di G. Giammaria, Roma-Bari, pp. 57-106, in particolare pp. 58-61.
58 «Castrum Portus cum fortalizio seu rocca Traiano, portu, piscaria et rebus aliis de pertinentia dicti castri, ad episcopum portuensem pleno iure spectantia (…) sub annuo censu unius apri», questa la descrizione compresa nell’atto di enfiteusi del castrum concessa alla famiglia Stefaneschi, D. Esposito, Il castello di Porto nel medioevo. Il complesso fortificato da civitas a castrum, in Episcopio di Porto. Un’esperienza innovativa di restauro, a cura di S. Cancellieri, Roma 2001, pp. 35-53, con bibliografia di riferimento.
irregolarità evidente anche nella messa in opera59. Parte di tale irregolarità dell’apparecchiatura deve essere anche riferita ad alcuni interventi di ‘rimontaggio’ di pezzi caduti in terra nel corso degli anni, nei primi del XX secolo60.
All’interno della cinta sorgevano le case dell’abitato, oggi non più visibili, il palazzo, con cisterna e cortile interni, la chiesa. Questa è ad aula unica, con facciata rettilinea e campanile a vela; i fianchi sono contrastati da contrafforti, fra i quali si alternano monofore sormontate da archi ogivali con finestre con profilo marmoreo trilobato. L’abside è ampia e sporge sul fronte posteriore. All’interno, lo spazio della navata era scandito da archi trasversali poggianti su mensole scolpite. Gli studi condotti da Marina Righetti Tosti-Croce segnalano il riferimento a stilemi architettonici angioini, in particolare, ad esempio, per il motivo del profilo trilobato con lobo superiore più alto rispetto ai laterali, di derivazione francese e riscontrabile nella chiesa di Santa Chiara di Napoli, o alla particolare soluzione stilistica dei peducci d’appoggio dei costoloni (fig. 13)61. La tecnica muraria che costituisce la struttura della chiesa, benché diversa e meno differenziata per materiali impiegati rispetto a quella di parte della cinta muraria, può essere accostata cronologicamente alla cinta stessa. I paramenti sono in bozzette di tufo locale di colore grigio-verde, allettati secondo corsi orizzontali con malta a base di calce e pozzolana rossa a granulometria medio-grossa e di buona qualità. L’altezza media delle bozzette è di circa 6,5 – 7, 2 centimetri, la lunghezza varia in media fra i 12 e i 20 centimetri; le altezze dei moduli per tre filari è pari, in media, a 26 centimetri, quella per quattro filari a 35 centimetri e quella per cinque filari a 43 centimetri (fig. 14) 62. Le altezze dei giunti verticali misurano in media 2 cen-
59 D. Esposito, Tecniche costruttive murarie medievali. Murature ‘a tufelli’ in area romana, Roma 1998.
60 Passigli, Capo di Bove cit., p. 174.
61 M. Righetti Tosti-Croce, Un’ipotesi per Roma angioina: la cappella di S. Nicola nel castello di Capo di Bove, in Roma anno 1300, Atti della IV Settimana di Studi di Storia dell’arte medievale dell’Università di Roma “La Sapienza” (19-24 maggio 1980), a cura di A.M. Romanini, Roma 1983, pp. 497-503.
62 L’apparecchio murario a blocchetti lapidei fu denominato impropriamente “opera saracinesca” fin dalla metà del XVIII secolo nell’errata convinzione che questo tipo di muratura fosse d’origine saracena. A tal proposito si rimanda al contributo di E. De Minicis, Un diffuso errore storiografico, in Dalla Tuscia romana al territorio valvense. Problemi di topografia medievale alla luce delle recenti indagini archeologiche, Giornate in onore di Jean Coste (Roma, 10-11 febbraio 1998), a cura di L. Ermini Pani, Roma 2001 (Miscellanea della Società romana di storia patria, 43), pp. 21-28 e di Esposito, Tecniche cit., pp. 57-67. La tecnica muraria in blocchetti lapidei a corsi orizzontali è una tecnica muraria diffusa in area romana (districtus Urbis) tra la fine del XII e il XIV secolo ed è legata alla tradizione costruttiva romana dell’opera listata semplice in blocchetti lapidei, appar-
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timetri. Anche in questo caso, l’apparecchiatura muraria appare riconducibile a una datazione tarda relativamente allo sviluppo, fra XIII e XIV secolo, della tecnica in blocchetti, coincidente con la fase costruttiva, testimoniata dalle fonti, condotta dalla famiglia Caetani nei primi anni del XIV secolo (1302-1303)63.
Il palazzo, sul lato destro della via Appia dirigendosi verso Roma, è costituito da quattro ambienti disposti a L a ridosso del mausoleo di Cecilia Metella, con un cortile centrale; da qui partiva una scala che permetteva l’accesso agli ambienti dei due livelli superiori, che avevano una distribuzione simile a quella del piano terra. Dal piano terra, un ambiente aperto sul lato orientale del cortile con un ampio arcone a tutto sesto era illuminato da due piccole finestre rettangolari e, al piano superiore, uno spazio delle medesime dimensioni si apriva, con un grande balcone, a est, verso la campagna, e, con un altro, a ovest, e comunicava con un piccolo ambiente di servizio ricavato nell’andito triangolare di risulta fra l’ambiente medesimo e il corpo del mausoleo (fig. 15). Bifore con cornici marmoree trilobate illuminavano gli altri tre ambienti al primo livello, forse camere private della famiglia residente, con camini (fig. 16). Gli ambienti del primo livello erano serviti da due porte con cornici marmoree e piccoli capitelli modanati, poi tamponate con muratura a blocchetti coeva, per tipo di apparecchiatura e composizione della malta, a quella della chiesa di San Nicola. La posizione di tali porte, aperte sui fronti ovest e sud del cortile interno, potrebbe indurre a ipotizzare l’esistenza o di una seconda scala, oltre a quella situata in prossimità del lato meridionale del cortile, prossima alle due porte o di un ballatoio al primo livello. Al piano terra si apriva un ambiente unico, che fiancheggiava i lati meridionale e orientale del cortile, con arconi trasversali a tutto sesto in laterizi poggiati su piedritti e capitelli in travertino. La successione di ambienti, gli arconi e lo sviluppo degli spazi al piano terra richiamano, come osservato da Pio Pistilli, sti-
si per la prima volta in Provenza e in Italia durante l’impero di Augusto e a Roma e nel Lazio solo a partire dal II secolo. Dalla consuetudine costruttiva romana la tecnica medievale ha ripreso soluzioni e accorgimenti tecnici, ma con intenti innovativi, volti cioè alla ricerca di esiti formali nuovi, riguardanti sia il paramento esterno dell’edificio (oggi generalmente a vista, ma in origine talvolta intonacato), sia quello interno (spesso, anche se non sempre, rivestito). Si rimanda a Esposito, Tecniche cit.
63 Dagli ultimi anni del Duecento, la tecnica muraria a blocchetti vide avviarsi un lento processo di perdita della regolarità geometrica del taglio degli elementi lapidei e di aumento graduale delle dimensioni degli stessi, di alterazione dell’orizzontalità dei corsi di malta, di diminuzione della tenacità e della resistenza della malta d’allettamento; un processo che si concluse con la scomparsa dell’apparecchio murario tra la fine del XIV e i primi decenni del XV secolo.
lemi dell’architettura tardo-duecentesca e trecentesca, in particolare cistercense e federiciana, se si pensa, fra gli altri, agli spazi del torrione del castello di Oria (Brindisi). Come per gli spazi al piano terra, analoghi richiami alla coeva cultura architettonica e artistica d’oltralpe sono presenti anche nella terminazione a ‘gradoni’ dei fronti orientale e occidentale del corpo trasversale del palazzo (fig. 17). Le due facciate, coperte da tetto a due falde, mostrano un andamento gradonato diffuso, come in altri ambiti, in area romana e nella stessa città di Roma a partire dalla metà del XIII secolo. Si pensi, a tal proposito, alla testata settentrionale dell’ala dei monaci dell’abbazia delle Tre Fontane; al palazzo cardinalizio di Santa Maria in Cosmedin (1300 circa), al palazzo senatorio (1260-1270) così come rappresentato nell’Ytalia di Cimabue e, in area romana, al palazzo del castello di Piombinara, a quello di Colleferro e della Sala dei Baroni nel castello di Sermoneta, sempre ad opera dei Caetani, così come ricostruito da Gelasio Caetani sulla base dell’affresco di Benozzo Gozzoli, nella chiesa di Santa Maria Assunta sempre a Sermoneta64.
La costruzione del palazzo appare unitaria per quanto riguarda le strutture principali e le parti costituite dalle finestre, dai balconi e dagli arconi degli ambienti al piano terra; anche le merlature a coda di rondine sembrano essere coeve alle strutture in elevato del palazzo e a quelle presenti sul coronamento dell’adiacente mausoleo. Tali strutture sono costituite da tessiture murarie in blocchetti regolari di tufo locale di colore grigio-verde, allettati con malta di calce, lava e pozzolana rossa a grana media, a corsi orizzontali e con messa in opera molto regolare. L’altezza media del blocchetti è pari a circa 6 centimetri e la loro lunghezza misura da un minimo di 12 a un massimo di circa 18 centimetri. I moduli per tre filari sono in media pari a 22,6 centimetri, per quattro filari a 30 centimetri e per cinque filari a 37,5 centimetri. La raffinata regolarità dell’apparecchio murario descritto, si ripete, è rilevabile nell’intera struttura del palazzo; da tale uniformità si escludono le tamponature di due porte al primo livello, chiusure realizzate sempre con la medesima tecnica, ma con caratteristiche, per modalità di apparecchiatura e per conformazione dei blocchetti (piuttosto bozzette, per le tamponature) simili piuttosto a quella impiegata nella cappella di San Nicola (figg. 18-19).
64 Caetani, Domus cit., I, p. 142. Per la soluzione a gradoni dei fronti e sugli spazi del palazzo, si rimanda alle osservazioni di F.P. Pistilli, Considerazioni sulla storia dell’architettura dell’abbazia romana delle Tre Fontane nel Duecento, «Arte medievale», 6 (1992), I, pp. 163-192. Sul medesimo tema, si rimanda inoltre alle osservazioni di D. Fiorani, Tecniche costruttive nel Lazio meridionale, in Sermoneta e i Caetani. Dinamiche politiche, sociali e culturali di un territorio tra medioevo ed età moderna, Roma 1999, pp. 543-561.
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Le differenze della modalità di messa in opera e di taglio degli elementi lapidei, si accompagnano anche alle diverse composizioni del tipo di malte utilizzate nel palazzo e nella chiesa (più raffinata e ben eseguita quella del palazzo, più rustica quella della chiesa e della cinta muraria); tale differenza può essere indizio di diverse fasi di costruzione delle due opere architettoniche. Infatti i caratteri dell’apparecchio del palazzo ben si accordano con le costruzioni diffuse in Roma e nel districtus Urbis nella seconda metà – ultimo quarto del XIII secolo, come nel caso, fra gli altri e rimanendo entro la città di Roma, del palazzetto Anguillara e delle strutture della cinta muraria della Rocca Savelli sull’Aventino, realizzata al tempo di papa Onorio IV Savelli. L’apparecchio della chiesa di San Nicola a Capodibove presenta invece caratteristiche simili ad alcuni esempi di apparecchiatura medievale tarda, databili al XIV secolo, come nel caso di un’aggiunta alla cinta duecentesca sempre della Rocca Savelli sull’Aventino. Si è dunque giunti a riconoscere una difformità tra le modalità costruttive della chiesa e della cinta muraria con torrette e il palazzo; una diversità comunque aderente a un linguaggio e a una consuetudine tecnicocostruttiva comuni alle espressioni architettoniche realizzate in area romana, nella sua estensione due-trecentesca, coincidente con l’area del distretto della città capitolina. Le datazioni delle due declinazioni dell’apparecchiatura muraria in blocchetti e bozzette di tufo non si discostano di più di qualche decennio e oscillano fra la seconda metà del XIII e i primi del XIV secolo. Tale constatazione comporta alcune conseguenze significative in merito all’interpretazione del carattere dei rispettivi organismi architettonici, delle relative funzioni e dell’assetto e dell’utilizzo del territorio prossimo alla città di Roma tra la fine del XIII secolo e i primi anni del secolo successivo.
Riguardo alla datazione delle strutture ‘materiali’ dell’insediamento trasformato in castrum dai Caetani, si può affermare che gli stilemi architettonici e le apparecchiature murarie del palazzo confermano un’origine compresa proprio tra la seconda metà del XIII secolo e i primi anni del XIV. Sono caratteri tardo duecenteschi, oltre alla tessitura muraria in blocchetti regolari e a corsi orizzontali in peperino, le bifore trilobate, il coronamento a gradoni dei fronti orientale e occidentale, riscontrabile in numerosi esempi romani e in area romana. Sono riferibili al XIV secolo le tessiture murarie delle tamponature delle due porte al primo livello, sulle pareti sud e est affacciate sulla corte interna del palazzo. Con caratteristiche simili, vengono apparecchiate le strutture murarie della chiesa di San Nicola e di alcuni settori della cinta muraria, in parte oggetto anche di interventi successivi all’epoca della sua primitiva costruzione. La cinta
dimostra di essere comunque posteriore alla costruzione del palazzo, soprattutto osservando un’evidente discontinuità muraria fra le due costruzioni, presente sul fronte orientale del palazzo (figg. 20-21).
La lettura delle strutture materiali e delle tecniche costruttive presenti nel palazzo, suggerisce un’ipotesi relativa all’intervento della famiglia Caetani. La presa di possesso del casale dei Gabelluti, fra il marzo e il luglio del 1302, comportò l’avvio di un’immediata azione di restauro e di adeguamento del complesso acquistato da parte dei Caetani. Oltre alla costruzione, ex novo, della chiesa e della cinta muraria, gli interventi furono anche rivolti alle strutture preesistenti del casale duecentesco e dunque del palazzo. Piccoli interventi di adeguamento possono essere riconosciuti nelle tamponature delle due porte al primo livello sulle pareti ovest e nord rivolte verso il cortile interno al palazzo e si qualificano in minute operazioni di sistemazione degli spazi e degli accessi al primo livello. Anche il resto di struttura muraria della probabile scala interna al cortile, in bozze di materiale di reimpiego, simile per messa in opera all’apparecchio della cinta muraria esterna del castrum, è addossato, senza alcun tipo di legamento, alle strutture in elevato del palazzo: la scala è dunque stata aggiunta dopo la costruzione del palazzo stesso (fig. 22).
La datazione alla seconda metà del XIII secolo delle strutture murarie del palazzo concorda dunque perfettamente con le indicazioni contenute nella documentazione d’archivio relative agli acquisti dei Caetani, pur mancando, fra gli edifici descritti, lo specifico termine di palatium, ma contemplando, come già detto, la presenza di domus, hedificia, fortellicia e altre strutture. Come già rilevato, la struttura del palazzo può quindi essere interpretata come una residenza rurale di una ricca e nobile famiglia romana, situata a poche miglia dalle mura della città; una posizione coerente con la consueta diffusione delle tenute rurali in prossimità della città (i casali) nel corso del Due-Trecento65. La costituzione del casale lungo la via Appia si inserisce a pieno titolo nel generale assetto dell’insediamento tardo medievale nella campagna intorno a Roma ed esprime lo sviluppo della ricchezza e del potere dei ceti dirigenziali cittadini fra il XII e il XIV secolo. Come ben evidenziato da Sandro Carocci e Marco Vendittelli, i casali tardomedievali non erano solo aziende agrarie fortificate con lavoratori salariati e allevamento di bestiame, ma erano anche nuclei abitati per gli stessi lavoranti, strutture di stoccaggio di prodotti dello stesso casale, e “luoghi di soggiorno estivo dei proprietari durante la stagione calda” o in caso di contrasti e turbolenze interne alla città. Erano, infine, anche un
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simbolo di uno status sociale della famiglia proprietaria66. La ricchezza e l’eleganza delle strutture del palatium sono coerenti con la destinazione residenziale dell’edificio, che, per quanto coronato da merlatura ‘a coda di rondine’, in fase con le murature del palazzo e con quelle erette sulla sommità del sepolcro di Cecilia Metella, non sembra progettato a scopo principalmente difensivo, senza escluderne comunque la funzione.
La struttura del palazzo ben si accorda, inoltre, con le prescrizioni dettate da Pier de’ Crescenzi sulle ville rurali, secondo il quale queste dovevano essere fondate in luoghi dove vi fosse garanzia di purezza dell’aria, buona terra, presenza di acqua e buona difesa dai pericoli della campagna. Per questi motivi, secondo Pier de’ Crescenzi, le finestre e le porte dovevano essere esposte a nord e ad est e, nel caso di mancanza di acqua, bisognava che «si costruiscano delle cisterne sotto i tecti»67. Per quanto riguarda la corte, questa avrebbe dovuto essere preferibilmente realizzata all’interno della villa, compresa fra gli alloggi e gli edifici e chiusa e difesa dall’esterno, «p[er]ciò cotal luogo è meno disposto alle insidie de latroni»68.
Il cardinale Francesco Caetani comperò dunque il casale con munitio di Capodibove e il casale di Capodivacca con una torre, offrendo un compenso, peraltro, molto elevato, il che sottintende, oltre ad una grande estensione del tenimentum, anche alla probabile presenza di strutture architettoniche di notevole entità69. Acquistò dunque, è un’ipotesi, le strutture architettoniche che costituivano la munitio, ossia il sepolcro di Cecilia Metella, l’edificio ad esso addossato e forse altre costruzioni oggi non più visibili. In un anno circa, fra il 1302 e il maggio del 1303, costruì la chiesa di San Nicola e la cinta di mura e adeguò e ‘restaurò’ le strutture preesistenti. I Caetani trasformarono il casale in un castrum con interventi edilizi e piccole modifiche delle strutture preesistenti e con alcune azioni ‘strategiche’, come la dotazione di una chiesa parrocchiale, finalizzata a svolgere i servizi religiosi per la comunità che vi avrebbe vissuto e introducendo,
66 Ibid., pp. 6-7.
67 A proposito della villa rurale, si legge: «Debonsi ancora fare nella villa le stalle de buoi in luogo che nel tempo del verno possano esser più calde. Et ancora si debbono fare le cielle in luogo piano dove i vasi del vino e del l’olio possano dimorare. Et anchora dove sieno i fructi secchi si come il grano la biada et al fieno sieno i tavolati. Anchora è da provedere de luogo dove habita la famiglia: acciò che affannati per lo esercito o per freddo o per caldo agiatamente vi si possano riposare», Pier de’ Crescenzi, De agricultura vulgare, Venetia 1495, f. 8r-v.
68 Ibid., f. 8v
69 Il prezzo pagato per un terzo del casale ammonta a tremila fiorini, Les Registres de Boniface VIII cit., coll. 913-915, nn. 5402, 5403, 14 marzo 1302.
all’interno del nuovo insediamento, un congruo numero di famiglie residenti70. A sostegno dell’ipotesi sulla preesistenza del palazzo rispetto agli interventi dei Caetani, si osserva come il rilievo marmoreo con la testa di bue e i due stemmi della famiglia Caetani, pur se inserito con accuratezza nella tessitura muraria, presenta alcune lievi sconnessioni, segni di un probabile inserimento a posteriori dell’elemento marmoreo sopra l’antico portale d’accesso al palazzo (fig. 23).
Sembra dunque che, anche in questo caso, come in quello di Ninfa e Sermoneta, i Caetani abbiano svolto un’intensa attività di acquisizione, trasformazione e ampliamento di strutture di un insediamento preesistente71
A Capodibove essi si trovarono di fronte a un casale situato a poca distanza dalle mura della città, a una residenza rurale appartenuta a una famiglia del ceto nobiliare cittadino romano. Il processo di acquisizione, ripresa e ‘ammodernamento’ di un tale insediamento nel territorio del districtus Urbis è un aspetto dell’avvicinamento della famiglia Caetani a Roma, culminato, come già detto, con l’acquisto della Torre delle Milizie nel 1301.
Anche l’eccezionalità dell’ubicazione del castello a meno di cinque chilometri da Roma (rispetto alla norma che vede collocate tali fondazioni almeno a dieci-dodici chilometri dalla città), già sottolineata da Sandro Carocci e Marco Vendittelli, può essere spiegata proprio attraverso la volontà politica della famiglia Caetani, sostenuta dal papa Bonifacio VIII72. Solo la forza politica di quel pontefice poteva favorire la creazione di un castello così prossimo alla città, una scelta altrimenti in contrasto con le intenzioni e le aspettative del comune romano fra la fine del Duecento e i primi anni del secolo successivo.
DE
70 Alla fine del XIII secolo, la presenza di almeno dodici famiglie era forse ritenuta la soglia demografica minima per la definizione di un castrum. Tale induzione deriva dal contenuto di un documento relativo alla richiesta di esenzione dalle imposte del comune, presentata dalle monache di San Ciriaco, proprietarie del Castello di Monte del Sorbo, presso la via Tiburtina, interpellarono, nel 1299, i giudici capitolini per accertare se il «dictum castrum fuerit et sit minori duodecim hominum in dicto castro», da intendersi come capofamiglia e dunque famiglie (non si conosce l’esito dell’interpellanza), Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 29.
71 Per gli interventi della famiglia Caetani a Ninfa, si rimanda al contributo di G. Carbonara, Edilizia e urbanistica a Ninfa, in Ninfa, una città, un giardino, Atti del Colloquio della Fondazione Camillo Caetani (Roma - Sermoneta - Ninfa, 7-9 ottobre 1988), a cura di L. Fiorani, Roma 1990, pp. 223-245.
72 Carocci - Vendittelli, L’origine della Campagna Romana cit., p. 31.
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Fig. 1 Mappa del Catasto Alessandrino (1660):Capo di Bove (prop. Cenci), ASR, Presidenza delle Strade. Catasto Alessandrino, mappa 433/49
Fig. 2 Roma, via Appia antica, complesso di Capo di Bove.Planimetria tratta da A. Uggeri, Journées pittoresques des Edifices Antiques dans les environs de Rome, Roma 1804, tav. XII
Fig. 3 Mappa del Catasto Alessandrino (1660):Capo di Bove (prop. Cenci), ASR, Presidenza delle Strade. Catasto Alessandrino, mappa 433/50
Fig. 4 Ricostruzione dell’assetto topografico del territorio fra il Due e il Trecento
Fig. 5 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, chiesa di S. Nicola: particolare di un contrafforte sul fianco sinistro restaurato da G.B: Giovenale
Fig. 6 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: particolare di una bifora sul fronte occidentale reintegrata durante i restauri diretti da A. Muñoz
Fig. 7 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, veduta d’insieme del fronte su via Appia antica
Fig. 8 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, fronte orientale del palazzo: portale tamponato
Fig. 10 Roma, via Anagnina, Borghetto: veduta della cinta muraria dalla strada
Fig. 9 Roma, via Salaria, torre: veduta d’insieme
Fig. 11 Albano (Roma), Castel Savelli.Planimetria tratta da G.M. De Rossi, Torri e cstelli della Campagna romana, Roma 1969, p. 52
Fig. 12 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, cinta muraria:particolare del paramento di un tratto prossimo alla chiesa di S. Nicola
Fig. 13 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, chiesa di S. Nicola:finestra archiacuta
Fig. 14 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, chiesa di S. Nicola:particolare del paramento della muratura
Fig. 16 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: ambiente al primo livello con bifora e tracce di camino
Fig. 15 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: cortile interno
Fig. 17 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: veduta d’insieme
Fig. 18 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: particolare del parameto della muratura
Fig. 19 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: particolare della porta tamponata al pimo livello
Fig. 20 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, complesso: veduta d’insieme del fronte orientale
Fig. 22 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: resto di scala all’interno del cortile
Fig. 21 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, fronte orientale: particolare dell’addossamento della cinta muraria alle strutture del palazzo
Fig. 23 Roma, via Appia antica, Capo di Bove, palazzo: stemma sopra il portale tamponato lungo la via consolare