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Un saluto e un augurio (anzi due) (A. Rodinò di Miglione

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Gallinelli

Gallinelli

Un saluto e un augurio (anzi due)

L’uscita di questo numero del nostro Bollettino – numero doppio, per gli anni 2019 e 2020 – mi offre l’occasione di formulare un saluto e un augurio (in realtà, come si vedrà, gli auguri son due ma il secondo non è che un corollario del primo).

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Un saluto anzitutto, per seguire un ordine cronologico e non certo di importanza: è il primo numero che esce dopo la mia elezione a presidente della Fondazione, il 18 dicembre 2018, e desidero quindi, insieme al ringraziamento al Consiglio che mi ha eletto, rivolgere qui il mio saluto più cordiale agli amici della Giunta e del Consiglio stesso, ai nostri collaboratori e a tutti coloro che seguono le attività della Fondazione Camillo Caetani.

E veniamo all’augurio: è rivolto di tutto cuore e a nome di noi tutti a Bruno Toscano che il 6 aprile 2020 ha compiuto 90 anni, lieta e importante ricorrenza che avremmo voluto degnamente festeggiare, ma che purtroppo la pandemia che ci ha afflitto, e ancora ci affligge sia pure come tutti auspichiamo andando ad esaurirsi, lo ha impedito. Auguri Bruno, per la tua attività che, anche se hai voluto lasciare la presidenza, è tuttora essenziale alla Fondazione di cui resti validissimo componente della Giunta, e soprattutto auguri per tutto quello che desideri.

I dieci anni di presidenza di Bruno Toscano hanno rappresentato, per suo impulso, un momento di crescita della Fondazione.

La storia di essa è ormai lunga: sono 65 anni dalla sua istituzione nel 1956 da parte di Roffredo Caetani, duca di Sermoneta, per ricordare il figlio Camillo caduto in Albania nel 1940, e questa ricorrenza meriterebbe che – sia pure in ritardo – le si dedicasse, più che una celebrazione, un momento di ricordo e approfondimento, traendone spunto per una sempre maggiore e migliore attività; e lo si potrebbe fare in uno dei nostri Laboratori del prossimo 2022. All’iniziale presidenza del Fondatore, rimasta in realtà virtuale, hanno fatto seguito, da quando la Fondazione ha iniziato ad operare, quella della figlia Lelia (1964-1977), del marito di lei Hubert Howard (1977-1985), di Giacomo Antonelli (1985-2007), e quindi la brevissima presidenza di Gian Paolo Zanchini di Castiglionchio (20072008), purtroppo interrotta dalla sua scomparsa, e l’interim di Giacomo Antonelli in attesa della nuova elezione. Sotto la guida di costoro la Fondazione ha preso forma – sostanzialmente quella che ancor oggi vediamo, e tuttora nella sede allora assegnatale – e ha iniziato ad agire secondo le li-

nee tracciate nell’Atto costitutivo, sia con l’attività di conservazione e tutela del patrimonio immobiliare e soprattutto morale e documentario affidatole dal Fondatore, e poi da donna Lelia nel suo testamento, sia con l’attività culturale volta a far conoscere e proseguire l’opera condotta in questo campo da quelli che chiamiamo, con un certo eufemismo, i Caetani contemporanei: Leone, islamista, Gelasio, storico della Famiglia e riordinatore dell’Archivio, e lo stesso Roffredo, musicista.

Continuando ad adempiere fedelmente a queste finalità, la presidenza di Bruno Toscano ha portato tuttavia ad una maggiore caratterizzazione della Fondazione come istituto culturale, potremmo dire ‘a tutto campo’, e ne ha ampliato la sede con due sale ed una saletta, una delle quali accoglie, in una bella sistemazione, la Biblioteca di Marguerite, mentre l’altra è stata attrezzata per lo svolgimento dei Laboratori e la saletta utilizzata per piccole esposizioni. In quest’opera di valorizzazione si inquadra anche la cura– come mai era stato fatto prima – del patrimonio artistico lasciato dalla Famiglia, oltre che promuovendone studi restaurando importanti opere: dall’impegnativo intervento sul fregio affrescato da Brill e collaboratori e sul cinquecentesco soffitto ligneo intagliato del salone del piano nobile, affittato come residenza dell’Ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede, se non il più ampio certo tra i più belli delle residenze aristocratiche romane, ai restauri dei dipinti della Calunnia di Federico Zuccari, della Deposizione dello Stomer, per citarne solo i più rilevanti, e di molti altri quadri e ‘pezzi’ di arredo, tutti testimoniati nei precedenti numeri del nostro Bollettino.

Sono queste le linee su cui ho cominciato e desidero continuare a muovermi, nel rispetto delle ovvie differenze che, pur nella piena consonanza di intenti, vi sono per formazione ed indole tra ognuno di noi, ed è questo il secondo e conclusivo augurio che formulo: di riuscire con l’aiuto degli amici della Giunta e del Consiglio, soprattutto con quello prezioso di Bruno, e con il sostegno dei nostri validi collaboratori, a continuare, possibilmente ampliandola (e penso in particolare alle nuove opportunità – ma anche alle sfide, a volta spinose – che i nuovi media informatici offrono, per una maggiore conoscenza e consultabilità del nostro Archivio) l’opera iniziata e portata avanti soprattutto nell’ultimo decennio dalla Fondazione Camillo Caetani.

Buon lavoro a noi tutti!

antonio rodinò di MigLionE

Studi in corso

Luoghi, dinamiche e strutture del monachesimo medievale sui monti Lepini

La ricerca in corso, svolta nell’ambito del dottorato di ricerca in Storia, territorio e patrimonio culturale dell’Università degli studi Roma Tre presso l’Università di Roma Tre, affronta tematiche legate alla cultura materiale dei siti monastici sui monti Lepini, con particolare attenzione agli insediamenti presenti nella porzione occidentale della catena montuosa. Il lavoro si basa su campagne di raccolta in situ di dati materiali utili – ritengo – a tratteggiare una più dettagliata storia del monachesimo medievale, in questa porzione del Lazio meridionale. Si tratta di indagini che non presuppongono attività di scavo, incentrandosi sull’acquisizione di planimetrie, sul rilievo delle murature superstiti e sulla ricognizione intensiva presso tutti quei siti che sono noti solamente attraverso scarne attestazioni documentarie.

La ricerca può beneficiare di una solida e ricca storia degli studi e su repertori di fonti documentarie già pubblicati, ma registra, oltre ad una notevolissima rarefazione di quelle antecedenti al XII secolo, una certa standardizzazione delle tematiche riguardanti il monachesimo medievale. Proprio i dati relativi alla cultura materiale, architettonica e artistica, potrebbero dare nuove prospettive al dibattito sul territorio lepino.

Attualmente i siti rinvenuti e sui quali sono stati eseguiti sopralluoghi sono tredici, fondati tra XI e XIII secolo e distribuiti nei territori comunali di Cori, Cisterna, Norma, Sermoneta, Carpineto, Bassiano, Sezze e Priverno. Questi occupano posizioni di sommità, in grotta o valle e in molti casi ripetono scelte stanziali che possono essere riscontrate in epoche precedenti, fin dall’età pre-protostorica: un aspetto della ricerca è effettivamente legato alla geografia del sacro in epoca medievale e a quanto questa si sovrapponga alla distribuzione demica propria di altre epoche; tutto ciò permette di dare spazio al tema delle dinamiche insediative nel territorio montano, di leggerne le costanti e le peculiarità.

In particolare la ricerca affronta temi legati alle tipologie murarie reperibili sul territorio, implementando i casi recensiti nel corpus già esistente (D. Fiorani, Tecniche costruttive murarie medievali. Il Lazio meridionale, Roma 1996), e offre l’occasione di cogliere nel dettaglio gli interventi apportati negli insediamenti per i quali può documentarsi la successione di più fasi edilizie. Un esempio è fornito dalle tipiche architetture modulari di

scuola cistercense che si impongono, nel corso del XIII secolo, sulle strutture già esistenti nell’abbazia della Trinità di Cori (G. Barco, La Trinità di Cori e l’archeologia del monachesimo in territorio lepino, in Cori nel Medioevo, c.s.) o nel sito di Valvisciolo in territorio Carpinetano (G. Caetani, Regesta Chartarum I, p. 31 n. 1416; F. Caraffa, I monasteri medievali nella parte Nord-orientale dei Monti Lepini, «Bollettino dell’Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale», XI, 1983, pp. 47-50): queste, leggibili al livello planimetrico, offrono supporto alla formulazione di una cronologia relativa, interna all’insediamento monastico, e a proporre datazioni assolute per le fabbriche del sito stesso.

Più a sud, alcuni insediamenti che gravitano intorno alla valle dell’Amaseno come San Salvatore di Mileto a Roccasecca dei Volsci e Monte S. Angelo nel territorio di Priverno (O. Bucarelli, Insediamenti monastici nella media valle dell’Amaseno, in Le valli dei monaci. Atti del Convegno internazionale di studio, Roma-Subiaco, 17-19 maggio 2010, a cura L. Ermini Pani, Spoleto 2012, pp. 909-940) consentono di apprezzare realizzazioni murarie con paramento in opus mixtum pertinenti all’XI secolo che, in attesa di una più approfondita ricerca che le metta in rapporto alle poche testimonianze – più antiche – note in area umbra (Otricoli) e ostiense, sembrano mostrare una derivazione da modelli di murature di età imperiale reperibili in loco.

Un altro aspetto legato allo studio delle murature tocca la tematica delle finiture: gli intonaci a falsa cortina dipinta, nella Trinità di Cori o presso S. Maria al Monte Mirteto, spingono a cercare la presenza di questa tipologia di decorazione in tutti gli insediamenti dove sono riscontrabili interventi di scuola cistercense e la cui diffusione può essere osservata con forme simili negli ambienti di Valvisciolo di Sermoneta, a Subiaco, nel chiostro cosmatesco dell’abbazia di Santa Scolastica e in un’ampia casistica in tutto il territorio centro italico, molto diffusa anche oltralpe (D. Fiorani, Finiture murarie e architetture nel Medioevo. Una panoramica e tre casi di studio nell’Italia centromeridionale, Roma 2008, pp. 41-52).

Il recente rinvenimento di un affresco finora inedito, pertinente all’insediamento di Colle Sant’Ermo, sulla cima dei colli Seiani presso Priverno, conferma l’importanza delle ricognizioni in situ per la ricerca in corso. Disposti sulla volta di una piccola cisterna in muratura del I secolo d.C., i brani pittorici, databili al tardo XIII secolo, unitamente alla lettura di documenti dell’Archivio della Cattedrale di Priverno, permettono di tratteggiare la gestione e la committenza artistica del piccolo insediamento della diocesi di Terracina e, rappresentando l’intervento più tardo reperibile nei siti oggetto della ricerca, consentono di chiudere il lavoro con una incursione in campo storico artistico alle soglie del ’300.

giovanni Barco

Notizie inedite sulla storia di palazzo Mattei Caetani «alle Botteghe Oscure»

La storia della costruzione e delle modifiche dei palazzi della famiglia Mattei, cioè Palazzo Mattei Caetani, Palazzo Mattei di Giove, il palazzo di Giacomo Mattei ed il Palazzo Mattei di Paganica, compresi in un compatto isolato nel Rione Sant’Angelo, è ancora oggi poco chiara. L’area, definita anche insula Mattei, è compresa tra le attuali via Michelangelo Caetani, via dei Funari e via di Paganica e sorge in una zona caratterizzata da preesistenze, come la Crypta Balbi e l’antico monastero legato alla chiesa di Santa Maria domine Rose, della cui natura e assetto non abbiamo ancora oggi un’esatta cognizione (C. Varagnoli, I palazzi dei Mattei: il rapporto con la città, in Palazzo Mattei di Paganica e l’Enciclopedia Italiana, a cura di G. Spagnesi, Roma 1996, pp. 135-190; D. Manacorda, La topografia della zona dall’antichità al Rinascimento, in Palazzo Caetani. Storia arte e cultura, a cura di L. Fiorani, Roma 2007, pp. 3-14; C. Varagnoli, Una città di palazzi: insula dei Mattei, ibidem, pp. 15-34).

È noto comunque che l’area delle Botteghe Oscure, verso la fine del Medioevo, era caratterizzata dalla presenza di attività artigianali e commerciali di vario genere che aveva attirato l’interesse di alcune famiglie baronali (come i Boccamazza e i Pier Mattei Albertoni) e famiglie di mercanti e artigiani (come i Bellomo, i Vienimbene di Matelica e i Funari), che qui si erano insediate (G. Facchin, Cardinali, nobili e mercanti. Via delle Botteghe Oscure tra Rinascimento e Controriforma, «Rivista dell’istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», 68, 2013, pp. 11-22). Ludovico I Mattei, figlio di Giacomo e pronipote di Jacobello Mattei, esponente di una famiglia trasteverina dedita tradizionalmente al commercio del bestiame, accrebbe la propria fortuna tramite l’esercizio del credito e la locazione di beni fondiari nella zona fuori Porta Portese (tra via della Magliana e l’Aurelia). Tra il 1473 e il 1502 acquistò una serie di immobili nell’isolato prospiciente l’area dell’antica Platea Piscinae (oggi piazza Mattei) e avviò le prime attività di costruzione (A. Pontecorvi, Ludovico Mattei, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Roma 2009, ad vocem). I suoi eredi, il figlio Pietro Antonio ed il nipote Ciriaco, continuarono l’espansione edilizia nella zona con l’acquisto di altri stabili ma fu la generazione successiva a intervenire in maniera più decisiva sull’aspetto dell’isolato, avviando quelle trasformazioni che lo

caratterizzano. A partire dagli anni Quaranta del XVI secolo, infatti, si definirono i tre poli principali dell’insula nelle nuove fabbriche di Alessandro (sul lato nord-est), promotore della costruzione di Palazzo Mattei Caetani, e di Ludovico II (sul lato ovest) di quella di Palazzo Mattei di Paganica e nei lavori di restauro e di rinnovamento delle case di Giacomo, affacciate su piazza Mattei.

Nonostante una considerevole quantità di dati e le analisi degli studiosi, gli interrogativi che riguardano le fasi di costruzione e di modifica delle abitazioni dei Mattei non mancano. Esse hanno subito continue trasformazioni nel tempo sia nell’età più antica, che culmina nella costruzione del palazzo di Asdrubale Mattei (Palazzo Mattei di Giove, v. G. PanofskySoergel, Zur Geschichte des Palazzo Mattei di Giove, «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 11, 1967-68, pp. 111-188; C. Varagnoli, Eredità cinquecentesca e aperura al nuovo nella costruzione di palazzo Mattei di Giove, «Annali di Architettura. Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza», 10-11, 1998-1999, pp. 322-334), che in anni più recenti ad opera della famiglia Caetani, ultima proprietaria del Palazzo Mattei alle Botteghe Oscure, oggi sede della Fondazione Camillo Caetani. Non tutti gli interventi compiuti sono documentati e non tutti i documenti noti contribuiscono a chiarire le fasi costruttive e decorative dei palazzi, specialmente quando si riferiscono a parti dell’edificio o ad elementi architettonici o decorativi non più esistenti: ciò vale in particolare per il Palazzo Mattei Caetani. Sulla base degli studi citati e in particolare del fondamentale volume sul palazzo pubblicato nel 2007, ho potuto ricostruire alcuni aspetti della sua complessa storia nel corso delle mie ricerche per la tesi di dottorato (Università degli Studi Roma Tre) finanziata con una borsa della Fondazione Caetani (Il cardinale Girolamo Mattei (1547-1603): la famiglia e la corte, le fabbriche, i restauri, le decorazioni, tesi di dottorato, XXXIII ciclo, 2017-2020).

Incerta è la genesi del palazzo, voluto da Alessandro Mattei (m. 1565) come residenza per la sua famiglia, e poco chiare le sue diverse fasi di costruzione e decorazione. Realizzato forse su progetto di Giovanni Lippi, detto Nanni di Baccio Bigio, a partire almeno dal 1548 (F. Cappelletti – L. Testa, Il Trattenimento di virtuosi. Le collezioni secentesche di quadri nei Palazzi Mattei di Roma, Roma 1994, pp. 8-9 e p. 11 note 14-16; C. Varagnoli, I palazzi dei Mattei: il rapporto con la città, cit., pp. 144-147; L. Marcucci, Architettura e committenza nel XVI secolo, in Palazzo Caetani, cit., pp. 109121), nei tempi più antichi ospitò probabilmente attività legate alla lavorazione della pelle, come suggerisce una testa di bufalo in pietra posta sulla porta d’ingresso di uno degli ambienti al piano terra, visibile ancora oggi (C. Trovini, Rimesse e stalle, in Palazzi del Cinquecento a Roma, a cura

di C. Conforti – G. Sapori, Volume speciale Bollettino d’arte, Roma 2017, p. 294). Il piano nobile venne decorato probabilmente nei primi anni ’60 del Cinquecento con alcune Storie di Alessandro Magno dipinte a fresco dai fratelli Taddeo e Federico Zuccari (C. Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari: fratelli pittori del Cinquecento, Roma 1998-1999, vol. I, pp. 116-123).

Le mie ricerche nell’archivio familiare Antici Mattei aggiungono nuovi dati e precisazioni sui lavori, in parte già studiati (Cappelletti – Testa, Il Trattenimento di Virtuosi, cit., pp. 13-24; P. Tosini, La decorazione tra Cinquecento e Seicento al tempo dei Mattei, in Palazzo Caetani, cit., pp. 141-171), di trasformazione del piano nobile compiuti tra novembre 1598 e novembre 1601 in occasione di una campagna decorativa promossa dal cardinale Girolamo Mattei.

Ho potuto raccogliere inoltre alcune notizie sulla perduta decorazione di ambienti vicini al salone, sulle fasi decorative della cappella e l’anticappella, e sulla realizzazione dell’altare ligneo della cappella, opera di Francesco Nicolini, forse da un disegno di Giovanni Battista Montano, e della pala di Cristoforo Roncalli pagata dal cardinale nel maggio 1601, di cui si perdono le tracce dopo il 1776.

I documenti identificati nel corso delle mie ricerche mi hanno permesso inoltre di chiarire i lavori promossi nel palazzo entro il 6 giugno 1624, data di morte di Giovanni Battista figlio di Ciriaco. Innanzitutto è emersa la notizia di una decorazione a fresco, oggi perduta, di Prospero Orsi in una delle stanze del piano nobile, per la quale il 16 dicembre 1614 il pittore riceveva 27 scudi «per l’intero pagamento di tutti i lavori fatti si in pittura come altri risarcimenti in casa nostra». In quel tempo l’Orsi dipinse molte opere per i Mattei (Cappelletti – Testa, Il Trattenimento di Virtuosi, cit., pp. 144-145), tra le quali il quadro con San Filippo Neri in compagnia di Carlo Borromeo, posto nella cappella del Palazzo di Ciriaco Mattei alla Navicella. I suoi rapporti con la famiglia Mattei risalivano almeno al dicembre 1603, quando si occupò, su incarico di Ciriaco e Asdrubale, degli apparati decorativi per le esequie del cardinale Girolamo Mattei (morto l’8 dicembre 1603): ricevette 140 scudi «per pagamento di tutte le pitture de arme, morti, figure et altro servite per il funerale et esequie della bo: me: del s. card.le» (Marzani, Il cardinale Girolamo Mattei (1547-1603), cit., p. 34).

Il 28 gennaio 1617 Stefano Ricciardi, pittore poco noto incaricato di alcuni lavori di doratura dai Padri della Chiesa Nuova, fu pagato «per pittura fatta a tre soffitti di tre camerini di Casa nostra», a conferma dei lavori di abbellimento del piano nobile condotti in quegli anni.

Con l’estinzione del ramo di Ciriaco, il 27 ottobre 1625 Monsignor Alessandro cedette il palazzo ed i beni in esso contenuti allo zio Asdrubale (ASR, Trenta Notai Capitolini, uff. 11, Angelo Giustiniani giugno e dicembre

1630) ma continuò a risiedervi fino alla morte, avvenuta il 10 ottobre 1630.

Entrato in possesso del palazzo avito, Asdrubale decise di affittarlo poiché abitava, insieme alla famiglia, nel Palazzo Mattei di Giove. La pratica della locazione anche di importanti palazzi nobiliari a Roma era molto frequente dato il continuo succedersi dei funzionari nelle cariche amministrative ed ecclesiastiche e la necessità per ambasciatori, diplomatici, cardinali, personaggi di alto rango di trasferirsi spesso per breve tempo a Roma, centro spirituale e temporale del potere (M. C. Cola, Palaces for rent, in Display of art in the Roman palace 15501750, edited by G. Feigenbaum, Los Angeles 2014, pp. 46-47).

Asdrubale Mattei affittò, dal 1632 al 1638, il palazzo alle Botteghe Oscure ad Orazio Magalotti, funzionario papale di alto rango, che condusse alcuni lavori di ampliamento degli appartamenti al terzo piano. In agosto gli subentrò l’alto prelato Corsini e nel 1642 il Duca Girolamo Mattei, figlio di Asdrubale, vendette il palazzo al cardinale Marzio Ginetti e a suo fratello Giuseppe per 24000 scudi (P. Cavazzini, Famiglie e palazzi romani all’alba del barocco, «Te. Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te», 6, 1999, pp. 21-33). All’atto di vendita del 12 agosto 1642 era allegato un inventario del palazzo conservato nell’Archivio Lancellotti (che Patrizia Cavazzini mi ha generosamente fatto conoscere) ma rimasto fino ad ora inedito (AL, Famiglia Ginetti, Istromenti e scritture della compra del Palazzo, 12 agosto 1642). Il documento è di fondamentale importanza perché costituisce l’unica testimonianza a metà Seicento dell’assetto di tutte le decorazioni – affreschi e stucchi – del Palazzo delle Botteghe Oscure, molte delle quali oggi non più esistenti. Solo una di esse è stata recentemente ritrovata (B. Toscano, Un’ospite ignorata, l’Aurora del Pomarancio, «Palazzo Caetani. Bollettino della Fondazione Caetani», 4-5, 20162017, pp. 52- 54).

Cominciò allora una fase molto lunga e accidentata della storia del Palazzo che venne affittato a diverse persone e venduto più volte fino al definitivo passaggio di proprietà ai Caetani il 14 novembre 1776. Parte di questa storia è già nota grazie alle ricerche di Carla Benocci (C. Benocci, I Mattei, i Negroni e i Serbelloni, in Palazzo Caetani, cit., pp. 49-67), ma può essere oggi integrata grazie ad alcuni documenti da me ritrovati. Dal 30 settembre 1673 il palazzo tornò di proprietà dei Mattei di Giove ma i Ginetti vi rimasero in affitto fino al novembre 1682, quando si trasferirono in Palazzo Lancellotti ai Coronari. Come era usuale per importanti famiglie che affittavano un palazzo, anche i Ginetti realizzarono in Palazzo Mattei Caetani lavori di restauro e di decorazione di una certa consistenza, come prova il notevole importo di 800 scudi versato a pittori, di cui non è precisato il nome, «in aver fatto soffitte, fregi, ornamenti con spese di

tela, colori, Indorature et altro (…)» (3 settembre 1682). Eugenia Spada, la vedova di Girolamo Mattei e tutrice del figlio Alessandro, a causa del forte indebitamento della famiglia vendette infatti il palazzo con i suoi arredi a monsignor Giovanni Francesco Negroni il 24 novembre 1682 per 32500 scudi. La cessione fu in seguito considerata fraudolenta da parte degli eredi Mattei che cercarono in tutti i modi di rientrare in possesso del palazzo; non si rassegnarono mai alla perdita dell’edificio e, abitando nel contiguo Palazzo Mattei di Giove, si comportarono spesso come dei vicini alquanto fastidiosi.

Dopo la morte del cardinale Negroni, il palazzo accolse per qualche tempo il nipote cardinale Giovanni Battista Spinola, ma già nel giugno 1753 gli eredi lo vendettero, insieme a parte degli arredi, al genovese Giuseppe Maria Durazzo. Nel dicembre 1760 gli eredi Durazzo vendettero al cardinale Fabrizio Serbelloni che, desideroso di appianare la controversia con i Mattei ereditata dai precedenti proprietari, pagava loro 2500 scudi. Ereditato da Giovanni Battista Serbelloni, il palazzo infine venne venduto al Duca Francesco Caetani il 16 novembre 1776 che apportò alcune modifiche architettoniche all’edificio di concerto con i vicini Mattei di Giove e commissionò ad Antonio Cavallucci la decorazione di alcune sale (1776-1787) (E. Debenedetti, Itinerario della decorazione settecentesca di Palazzo Caetani, in Palazzo Caetani, cit., pp. 171-192).

Notizie sugli interventi compiuti all’interno dal palazzo da parte dei diversi proprietari in questo rapido susseguirsi sono dunque desumibili da alcuni documenti che ho reperito nell’archivio Antici Mattei. Già Alessandro Agresti aveva fatto riferimento all’esistenza nel palazzo di tracce di decorazioni pre-settecentesche, oggi non più esistenti (A. Agresti, Un artista e il suo mecenate: Francesco V, Antonio Cavallucci e la decorazione del Palazzo Caetani a via delle Botteghe Oscure, «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», 68, 2013, pp. 111-141); un’altra prova è emersa nel corso del recente restauro del salone, con la rimozione delle vecchie stoffe damascate che ricoprivano le pareti al di sotto del fregio, che ha svelato l’esistenza di uno zoccolo dipinto a finta pietra modanata, resto di una decorazione a fresco (L. Arcangeli, Il restauro del salone di Palazzo Mattei Caetani, «Palazzo Caetani. Bollettino della Fondazione Camillo Caetani», 4-5, 2016-2017, pp. 49-50).

In conclusione è evidente che, in un importante palazzo dalla storia così complessa come Palazzo Mattei Caetani, interventi di restauro e ricerche d’archivio potrebbero anche in futuro rivelare altri inaspettati e importanti dettagli sulle trasformazioni compiute dai suoi diversi abitanti nel corso dei secoli.

giuLia Marzani

Bandini, una famiglia tra Francia, Italia e Algeri

Nel XVI secolo il Mediterraneo è protagonista della lotta tra due entità imperiali di rilievo quasi mondiale: l’Impero Asburgico e l’Impero Ottomano. Insieme agli Stati ed alle formazioni statuali loro alleate o vassalle, le due potenze intraprendono per tutto il secolo una guerra aperta e dichiarata che ha i suoi campi di battaglia sul mare e sulla terra, dalle acque del Mar Mediterraneo occidentale sino alle distese pianeggianti dell’Ungheria o ai campi di battaglia montuosi ed irregolari dei Balcani. Il conflitto in realtà si estende ben oltre il ‘settore’ europeo, e trasforma modi di pensare, mentalità, rapporti sociali. Per questa ragione presentare il conflitto mediterraneo che anima un intero bacino geografico per quasi un secolo come una pura e semplice storia di battaglie è assai riduttivo. In tal senso risulta emblematica la distinzione realizzata da Salvatore Bono tra conflitto ad alta intensità, contraddistinto da assedi, battaglie navali e scontri campali tra eserciti, e conflitto a bassa identità. È in quest’ultimo frangente che l’analisi dei fatti deve accostare, seppur non abbandonare del tutto, i grandi soggetti storici per avvicinarsi alle strette e minute trame di un’esistenza quotidiana che vede coesistere momenti di pace e relazioni pacifiche insieme con episodi guerreschi e violenti. La guerra di corsa, la schiavitù e le missioni di riscatto (o di redenzione) si inseriscono in questo frangente delineando tanto i momenti di contatto quanto quelli di frizione.

Come dimostrato dagli studi di Giovanna Fiume e di Daniel Hershenzon, la schiavitù mediterranea, oltre ad avere caratteristiche proprie, peculiari, che la differenziano da qualsiasi altro ‘modello’ schiavile mondiale, è anche un momento in cui soggetti istituzionali e privati, tendenzialmente antagonisti, si ritrovano a cooperare per necessità su di un terreno di fiducia ‘forzata’ e di relazioni a carattere tendenzialmente commerciale. Le reti di contatti, le relazioni trans-imperiali analizzate ad esempio da Gurkan, si estendono e sopravvivono durante i momenti di guerra ad alta intensità e, anzi, si rafforzano ed acquisiscono nuovo valore e nuove priorità. Il già citato Hershenzon e Wolfgang Kaiser analizzano in maniera puntuale in che modo non solamente si sviluppi, attorno al commercio e alla redenzione dei captivi, un sistema di relazioni su base forzatamente fiduciaria tra soggetti considerati e pensati come antagonisti, ma come altresì un momento tragico, quale la schiavitù di migliaia

di persone, venga a trasformarsi in un momento di collaborazione tra soggetti differenti. Le reti commerciali integrano quelle corsare e ‘schiaviste’, producendo una serie di alleanze che spesso vedono soggetti preferire, per proprio tornaconto, la collaborazione con agenti di fede opposta piuttosto che con correligionari.

Nel grande mercato della compravendita degli schiavi, a cui possiamo ascrivere le missioni di riscatto e redenzione, in quanto profondamente inserite nel sistema dal cambio monetario e dell’inflazione del prezzo stesso degli schiavi, Roma partecipa in maniera organizzata ed istituzionale dal 1582-1583, quando l’Opera Pia per il riscatto degli schiavi viene affidata in gestione all’Arciconfraternita del Gonfalone di Roma, istituzione a carattere cittadino di cui partecipano nomi importanti del patriziato e dell’alta ‘borghesia’ commerciale e mercantile della città capitolina. La storia istituzionale di questo incarico ed i rapporti che regolano l’Opera pia con l’Arciconfraternita sono evidenziati dai registri delle sedute ufficiali, i quali ci consegnano non solamente uno spaccato dei dibattiti e delle discussioni in merito alla partecipazione economica dell’Arciconfraternita nelle missioni di riscatto, ma ci rivelano altresì il ruolo che hanno avuto, nella formazione dell’istituzione, alcune grandi figure del panorama romano: Ulisse Galli Lancerino, San Severina, Pamphili, Farnese e Bandini. Su quest’ultimi si focalizza parte della mia ricerca perché è grazie al banco di Pierantonio e Orazio Bandini, che figurano come Depositari (probabilmente dell’Opera Pia), che l’attività redentrice può essere portata avanti, quantomeno dal punto di vista economico.

È necessario, in questo caso, fare un piccolo passo indietro per spiegare l’importanza, all’interno del mercato dei riscatti, dei networks informativi. Come detto, in un mondo dove le distanze geografiche scandiscono i ritmi delle guerre e dei mercati, dove l’insicurezza dei mezzi dei trasporti e l’antagonismo di base, pur sempre esistente tra soggetti appartenenti a fedi opposte, inficiano la corretta comunicazione ed i rapporti non solo di tipo diplomatico, una rete fiduciaria cui appoggiarsi per manovre finanziarie, commerciali ma anche spionistiche si rendeva necessaria, oltre che di vitale importanza. Per queste ragioni, ogni istituzione per la redenzione dei captivi doveva dotarsi necessariamente, vista la sensibilità dei propri obiettivi, di una salda ed articolata rete di informatori ed appoggi sparsa sui grandi centri del Mediterraneo. Roma, Barcellona, Marsiglia, Lione, Messina, Costantinopoli, Genova, Venezia sono solo alcune delle città all’interno delle quali il flusso di informazioni poteva essere controllato e ‘gestito’ da agenti tanto governativi quanto privati (Hershenzon). A gestire, in un clima concorrenziale più che monopolistico, questo flusso informativo non vi erano tanto le ‘agenzie’ di spionaggio delle singole

entità statuali o imperiali (che in questo momento storico vedono un loro perfezionamento), quanto dei brokers privati che possedevano il necessario capitale sociale per poter servire istituzioni, religiose e non, e privati. Difatti, sono loro a possedere il controllo ed a loro bisogna rivolgersi per avere il necessario supporto.

L’Opera Pia del Gonfalone di Roma non fa eccezione ma, dalla sua, ha il privilegio di possedere affiliati di alta caratura e dal grande capitale, spesso più umano che propriamente economico. Come già dimostrato da Delumeau, e, in tempi più recenti, da Volpini e Bruscoli, il flusso di informazioni a Roma era notevole, strettamente legato a figure di mercatores fiorentini (fuoriusciti e non solo) e genovesi. Dotati di possibilità economiche rilevanti e della giusta rete di contatti diffusi in tutto il Mediterraneo, i Bandini incarnano perfettamente questo ruolo di banchieri, da un lato, e di brokers dall’altro. L’attività di famiglia di Pierantonio e Orazio Bandini si appoggia su di un prestigio familiare accumulato, a Roma e fuori, da attività che riuniscono l’imprenditoria finanziaria, la guerra, e l’occupazione e la gestione di importanti cariche religiose tra cui persino il cardinalato.

Dalla documentazione conservata presso la Fondazione Camillo Caetani, una parte di questo ‘capitale’ emerge dalla vita pubblica e privata della famiglia: strettamente imparentati con i Giustiniani quasi sono, e diverranno ancor più, tra i banchieri di origine genovese i più facoltosi della città capitolina; gli Strozzi, con i quali diventeranno partner commerciali e finanziari tanto in Italia quanto in Francia. Ed è proprio nel Regno d’oltralpe che i legami si fanno ancor più stretti: a Lione possiedono una filiale della propria attività finanziaria, i ‘Bandini & Strozzi di Lione’ come emergono dalla documentazione conservata presso l’Archivio Apostolico Vaticano (AAV); a Marsiglia hanno contatti commerciali con importanti mercanti ed armatori di navi, testimoniati da fitti scambi epistolari conservati in AAV, in Archivio di Stato di Roma (ASR) e all’interno dell’Archivio Giustiniani Bandini presso la Fondazione Camillo Caetani, dove sono molteplici le provvigioni e le procure affidate ai vari esponenti della famiglia Bandini. Anche a Parigi, all’interno della corte di Caterina de’ Medici e di re Enrico, hanno numerosi interessi mediati dalla partecipazione in guerra al fianco dei francesi di Giulio Bandini in qualità di capitano di fanteria e dai rapporti finanziari con il sovrano.

Sarà questo legame finanziario con la corte francese che determinerà, secondo Delumeau, seppur per un breve lasso di tempo, la chiusura della banca romana per alcuni giorni e di conseguenza il tracollo della sede francese. Probabilmente, proprio a seguito di questo momentaneo blackout dei fondi Bandini, le attività dell’Opera Pia romana sono sospese. Quest’interruzione in realtà, qualora

avvalorata dalle fonti in nostro possesso, porterebbe inevitabilmente non soltanto a certificare la tesi secondo la quale le attività di riscatto nel Mediterraneo erano strettamente legate ai networks creditizi ed informativi costruiti attorno a questo particolare tipo di commercio, ma, allo stesso tempo, avremmo in mano un’ulteriore prova della natura prettamente economico-commerciale di un fenomeno al quale, almeno l’Opera Pia, aveva dato un’impronta quasi esclusivamente religiosa e caritatevole.

Allo stesso tempo, e fatto ancor più importante, sarebbe evidenziata la natura profondamente integrata e relazionale di questo fenomeno. I legami delle istituzioni redentrici con uomini d’affari e di commercio, importantissimi per le necessità del riscatto stesso, espongono le opere ad una partecipazione pubblica e privata di tale portata da radicarne il futuro e le possibilità di sviluppo alla ‘salute’ finanziaria degli stessi banchi a cui s’appoggiano. Le oscillazioni finanziarie di fatto, una costante anche nel mercato dei riscatti, determinano non solamente il buon esito di una missione ma, al contempo, la possibilità di avere seguito o di non partire affatto. La vita di centinaia e di migliaia di schiavi è spesso legata alla vita di alcuni prestiti concessi da Roma, Genova o Firenze a Parigi, le stesse città che, come emerso dagli studi di Kaiser, Hershenzon e prim’ancora di Manca, sono le medesime a guadagnare allorquando i mercati dei riscatti fanno ampio uso di speculazione sui tassi di credito e di cambio della moneta da una sponda all’altra del Mediterraneo.

Ed è proprio attraverso l’esame di singoli ‘momenti’ e di singole vicende che possiamo provare a cogliere uno dei molti fili che compongono il reticolo generale degli eventi: la complessità a cui s’accennava in apertura è la possibilità di cogliere più di una traiettoria, potendo andare a fondo nella lettura di un articolato momento storico qual è stato il XVI secolo.

antonino caMpagna

La famiglia Caetani e la famiglia Leopardi

Nel settembre 2020 la Fondazione Camillo Caetani mi ha affidato l’incarico di schedare i documenti del Fondo generale dell’Archivio Gentilizio Caetani a partire dal 1775, anno in cui il duca di Sermoneta Francesco V Caetani (1738-1810) acquista il Palazzo Mattei in via delle Botteghe Oscure dagli eredi del cardinale Fabrizio Serbelloni (1695-1775) per la somma

di 39.500 scudi (AC, Fondo generale, n. 186868, 1775 s.d.-1775 gennaio 13). Il Fondo generale o Cronologico contiene 200.000 documenti datati dalla fine del XV al XIX secolo.

Nell’enorme quantità di carte è notevole la pluralità di rapporti che la famiglia Caetani intesseva con la società del suo tempo: al duca arrivavano infatti le lettere più disparate, da quelle del pizzicarolo (ad esempio: AC, Fondo generale, n. 200418, 1777 ottobre 1-1777 novembre 3) a quelle del perito agrario (ad esempio: AC, Fondo generale, n. 198961, 1783 gennaio 21-1783 marzo 11), da quelle degli stradali per i lavori di manutenzione dei fossati del castello fino a quelle dei più alti prelati; ma senza dubbio la maggior parte della corrispondenza rimane quella intercorsa tra famiglie nobiliari. In modo particolare sono state prese in esame alcune lettere datate tra il 1775 e il 1776 che ci riportano alle radici della più nobile famiglia di Recanati che ha dato i natali a Giacomo Leopardi, il maggior poeta ottocentesco italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale. Le prime due lettere esaminate riguardano la partecipazione di nozze del conte Giacomo Leopardi (1742-1781) e la marchesa Virginia Mosca (17561820), i nonni del poeta ottocentesco, firmate una dal suo bisnonno paterno Vito Leopardi e l’altra da quello materno il marchese Carlo Mosca Barzi di Pesaro. La prima partecipazione di matrimonio recita così: «Soddisfo alle parti che mi corrono con Vostra Eccellenza, porgendole la notizia dello stabilito accasamento del conte Giacomo mio figlio primogenito con la signora marchesa Virginia figlia del signor marchese Carlo Mosca Barzi di Pesaro» Recanati, 1775 gennaio 30 (AC, Fondo generale, n. 191919, 1775 gennaio 30). Nella seconda lettera, invece, leggiamo: «Presentandosi per me onorevole rincontro di notificare a Vostra Eccellenza gli stabiliti sponsali di mia figlia Virginia col conte Giacomo Leopardi di Recanati» Pesaro, 1775 febbraio 4 (AC, Fondo generale, n. 97026, 1775 febbraio 4).

La terza lettera ‘leopardiana’ del Fondo generale, infine, contiene l’annuncio di nascita del padre del noto poeta, Monaldo Leopardi (17761847) nato a Recanati il 16 agosto 1776. Il conte Giacomo Leopardi così scrive al duca di Sermoneta Francesco V Caetani: «Adempio con Vostra Eccellenza il piacevole dovere di parteciparle il felice parto della contessa Virginia mia consorte, la quale venerdì 16 corrente ha dato alla luce un figlio maschio» Recanati, 1776 agosto 16 (AC, Fondo generale, n. 155912, 1776 agosto 18).

Nell’archivio gentilizio dei Caetani di Sermoneta numerose sono le testimonianze del rapporto tra i duchi Caetani e le Marche. Sono presenti, infatti, numerose lettere provenienti da città come Fermo, Senigallia, Osimo, Pesaro e molte altre. Per spiegare la presenza di lettere spedite dalla famiglia Leopardi ai Caetani vanno

innanzi tutto ricordate le comuni origini pesaresi della nonna del poeta Virginia Mosca Barzi e di Carlotta Ondedei (1723-1752), figlia del conte Zongo Ondedei e Teresa Cima, moglie di Michelangelo I Caetani e madre di Francesco V Caetani. In secondo luogo, va osservato come Palazzo Antici-Mattei, l’ultimo ad essere costruito di quelli della cosiddetta insula Mattei (di cui naturalmente fa parte anche il Palazzo Caetani-Mattei oggi sede della Fondazione Camillo Caetani), e sito all’angolo tra via dei Funari e via Caetani, sia stato acquistato dallo zio materno del Leopardi, Carlo Antici, che aveva sposato l’ultima erede dei Mattei, Marianna. Diversi anni dopo proprio in questo palazzo è stato ospitato il poeta di Recanati dal 23 novembre 1822 alla fine di aprile 1823, durante il suo soggiorno romano, in una stanza posta al terzo piano. Si può, dunque, dedurre che tra la famiglia originaria di Sermoneta e quella di Recanati ci fosse la volontà di conservare e alimentare un rapporto amichevole, continuativo ed autentico. Tutto ciò sarebbe dimostrato dall’assenza nella corrispondenza epistolare di accenni a questioni economiche o di interesse e, al contrario, dalla esclusiva presenza di informazioni e notizie di carattere intimo e famigliare, come l’avvento delle nozze o la nascita della prole.

chiara rotondi

Gli album fotografici della famiglia Caetani

La Fondazione Camillo Caetani conserva nel proprio archivio un patrimonio fotografico di notevole interesse per l’arco cronologico, le tecniche impiegate e la varietà di oggetti. Tra questi ultimi gli album fotografici sono quelli maggiormente adatti a indagare il rapporto con il medium degli esponenti dell’ultima generazione della famiglia. Sono sedici volumi e le fotografie più antiche sono raccolte nel volume designato sul dorso come Ballo in costume in casa Caetani 1875, titolo riferibile a un ricevimento che si svolse nel palazzo di via delle Botteghe Oscure l’8 febbraio 1875. Si trattò di un evento mondano e politico, ampiamente descritto dalle cronache cittadine, che impegnò i partecipanti per settimane con preparativi comprendenti delle sedute di posa con l’abbigliamento scelto per il ballo nei maggiori studi fotografici cittadini: quelli di Lorenzo Suscipj, Henry Zinsler, Schemboche, Fratelli D’Alessandri, Henri Le Lieure. Alcuni elementi fanno supporre che l’album non sia stato allestito immediatamen-

te e che il suo curatore debba essere Gelasio Caetani (1877-1934), figlio di Onorato (1842-1917) e di Ada Bootle Willbraham (1841-1934), principi di Teano, organizzatori del ricevimento. Gelasio sembra qui pertanto applicare anche alla fotografia quell’ottica di riordino e organizzazione dei materiali dell’archivio famigliare nota soprattutto per la pubblicazione della poderosa opera Domus Caietana: storia documentata della famiglia Caetani. L’album si compone di stampe all’albumina in formato gabinetto, generalmente montate sul supporto in cartoncino originale dello studio che le ha realizzate. Mostrano ritratti singoli, più di rado di coppia, incollati, appaiati e corredati dalla didascalia autografa di Gelasio recante il nome e/o il titolo della persona raffigurata, a volte specificando incarichi o appellativi nobiliari assunti successivamente nel tempo. I tratti salienti della maggior parte delle persone fotografate, come dei personaggi che interpretano, sono stati ricostruiti in occasione di una mostra dedicata al Ballo del 1875 ospitata dal Museo Napoleonico di Roma nel 2002, promossa, tra gli altri, dalla Fondazione Camillo Caetani in collaborazione con la Fondazione Primoli in cui erano esposte le copie collezionate dal conte Giuseppe Primoli (G. Gorgone – C. Cannelli, “Il costume è di rigore” 8 febbraio 1875: un ballo a Palazzo Caetani, Roma 2002). La comparazione dei due gruppi di fotografie rivela interessanti differenze, in primo luogo per la presenza di numerose varianti, che meritano di essere ulteriormente indagate. Nell’album Caetani inoltre destano interesse le stampe colorate, tra le quali ne spicca una all’albumina in formato cabinet raffigurante il pittore piemontese Carlo Pittara (18351891) in abiti seicenteschi (Archivio Caetani, fondo fotografico, album Ballo in costume in casa Caetani 1875, p. 81, fotografia n. 2). La coloritura delle stampe fotografiche è un’attività costante fin dagli esordi del medium che s’intensificò dopo il 1870 circa allorché vennero immessi sul mercato i coloranti sintetici (L. Scaramella, Fotografia: storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici, Roma 2003, p. 65). Il ritratto di Pittara non è tuttavia ascrivibile al mero risarcimento del colore comune nella fotografia del tempo, configurandosi piuttosto come una vera e propria opera d’arte che il pittore provvede, difatti, a firmare nello stesso modo utilizzato per i suoi dipinti (Fig. 1). Pittara all’epoca del ‘Ballo Teano’ non si era ancora trasferito a Roma, ma manteneva comunque un suo studio al numero 53 di via Margutta e in quello stesso 1875 partecipò alla mostra dell’Associazione Artistica Internazionale di Roma (A. Guido, in Carlo Pittara: la riscoperta della Fiera di Saluzzo. Cavalli, costumi e dimore, Milano 2020, p. 132). È interessante notare come il pittore attorno a cui si era riunita la cosiddetta Scuola di Rivara – un cenacolo di artisti di formazione varia accomunati dalla tendenza alla pit-

Fig. 1 – Carlo Pittara, 1875, stampa all’albumina dipinta, 16.3 x 11.03 cm, Archivio Caetani, fondo fotografico, album Ballo in costume in casa Caetani 1875, p. 81, fotografia n. 2.

tura verista – in questo caso si limiti a rafforzare gli scuri, a vivacizzare alcune stoffe e a lumeggiare le zone aggettanti in cui batte la luce.

Dei restanti album, cinque (relativi agli anni 1899-1905) riguardano Gelasio Caetani, mentre nove (risalenti agli anni 1891-1908) sono da ascrivere al fratello Roffredo (1871-1961); vi è poi un volume con fotografie di vedute di montagna intitolato Dolomiti. Questi album, nonostante il loro numero esiguo e il breve lasso di anni coperto, sembrano offrire non soltanto una parziale testimonianza della vita condotta dalla famiglia nel passaggio al nuovo secolo, ma anche una dimostrazione dell’intento di esplorare il medium fotografico alla ricerca di uno strumento moderno consono alle proprie attività, approccio che mi ha indotto a schedare le sequenze e i gruppi coerenti di stampe in macroargomenti di grande attrattiva.

Un generico interesse di Gelasio Caetani per la fotografia è noto da tempo (P. G. Sottoriva, Gelasio Caetani (1877-1934). Il realismo dell’utopia. Appunti per una biografia, Roma 2014, p. 185) ma rimane tutto da analizzare il suo rapporto con i linguaggi propri di questo mezzo della rappresentazione e restituzione dei soggetti e delle situazioni riprese. Secondo una sua stessa definizione egli è stato prima di tutto «un ingegnere, che le necessità della vita hanno costretto a lottare nel campo industriale, in quello politico, in quello diplomatico ed anche sulle vette insanguinate delle Alpi» (G. Caetani, Prefazione, in Domus Caetana: storia documentata della famiglia Caetani, Sancasciano Val di Pesa 1927, vol. I, p. x). Nell’agosto del 1900 la sollecitudine verso i propri studî, che perfezionerà all’École des mines di Liegi e poi alla School of Mines della Columbia University a New York, lo condusse su uno dei cantieri più importanti del suo tempo: il Traforo del Sempione. Nonostante fosse ancora uno studente universitario, Caetani aveva già acquisito una competenza ingegneristica salda che, unita alla gestione corretta della tecnica fotografica, gli permise di realizzare un reportage di livello tale da essere proposto ad uno dei principali periodici nazionali, «L’Illustrazione italiana» dei Fratelli Treves, ottenendo perfino la copertina con l’indicazione del proprio nome quale fotografo (Fig. 2). Si tratta di dieci fotografie tradotte, in buona parte, in disegno dal pittore Arnaldo Ferraguti (1862-1925) che accompagnano un articolo di tre pagine a firma di Ernesto Mancini (E. Mancini, I lavori della galleria del Sempione, «L’Illustrazione italiana», XXVII, 30 settembre 1900, 39, pp. 228-230). Mancini dichiara in apertura d’essersi basato sui materiali fotografici e sulla consulenza tecnica di Don Gelasio Caetani, nell’intento di dare conto delle particolarità di un cantiere in cui 3600 operai stavano realizzando quella che per lunghi anni sarebbe stata la galleria ferroviaria più lunga del mondo. L’articolo esalta l’approccio moderno e le soluzioni tecnologiche approntate per la conduzio-

Fig. 2 – Copertina, «L’Illustrazione italiana», XXVII, 30 settembre 1900, 39.

ne dei lavori, ma l’argomento trattato costringeva il lettore a porsi, quanto meno, delle domande sulle condizioni proibitive in cui questi uomini dovevano trovarsi a lavorare. Capita pertanto di leggere che l’aria necessaria alla fuoriuscita di fumo e calore non poteva raggiungere il fondo della galleria di avanzamento, ma che gli operai di turno avevano il ‘beneficio’ di un calo della temperatura ambientale, comunque solo fino a 25°-28°, dovuto all’aria compressa fuoriuscente dalle perforatrici utilizzate in prima linea contro la parete di roccia. È forse in seguito a una riflessione sulle fatiche eroiche affrontate da questi operai che Ferraguti, la cui pittura aveva da tempo un chiaro impianto verista, decide di modificare la composizione di una fotografia del Caetani (p. 228) inserendo un uomo seduto, vinto dalla fatica ma pronto, con il capo rivolto verso i compagni che proseguono il lavoro, verosimilmente esemplato sulla statua bronzea del Pugile delle Terme che spossato per la lotta ha uno scatto repentino della testa verso l’annuncio del vincitore (Figg. 3-4).

Davvero interessante è l’operazione inversa che compie Gelasio Caetani rispetto all’articolo, organizzando nel suo album molte stampe all’albumina prodotte a seguito del lungo sopralluogo, dal 18 al 31 agosto 1900, compiuto sui due fronti del cantiere del Sempione, tra cui le dieci scelte da «L’Illustrazione italiana». Ritagliando in piccoli inserti il testo dell’articolo da frapporre alle fotografie, insieme alle didascalie discorsive e ai suoi disegni, si serve di elementi differenti per un proprio metatesto in cui le stampe fotografiche sono la voce maggiore e gli altri componenti ausiliari. Le difficili condizioni ambientali del cantiere sono da considerare anche per l’attività del fotografo, pertanto il buon numero di fotografie nell’album permette di apprezzare un dominio non scontato della tecnica di Caetani, il quale si trova, per esempio, a utilizzare il lampo al magnesio nelle profondità dei tunnel, con i rischi derivanti dalla combustione, oppure a cogliere in tempi minimi l’istantanea di un’esplosione. Sempre solo a titolo d’esempio si vuole qui accennare a un altro gruppo di fotografie ricomposte negli album della famiglia, questa volta relative a un viaggio in India effettuato da Roffredo Caetani nel 1907-1908. Al tempo il principe di Bassiano, a cui la sorte forse non a caso aveva dato come padrino di battesimo Franz Liszt, era già conosciuto in ambito internazionale quale valente compositore e concertista, un’attività che lo assorbiva e di cui dava conto regolarmente al padre con lettere e telegrammi. Sorprende dunque un’interruzione di mesi degli esercizi al pianoforte per compiere quello che ha tutto l’aspetto di un viaggio d’esplorazione. La prossimità di data con la nota esperienza indiana di Luigi Primoli, di cui ci rimangono soltanto due album fotografici non corredati da didascalie (Museo Nazionale d’Arte Orien-

Fig. 3 – Minatori, 1900, stampa all’albumina, 9.8 x 12 cm, Archivio Caetani, fondo fotografico, album Gelasio Caetani 1900-1901, p. 14, fotografia n. 1.

Fig. 4 – Traduzione in disegno di Arnaldo Ferraguti, «L’Illustrazione italiana», XXVII, 30 settembre 1900, 39, p. 228.

tale di Roma, L’istante ritrovato: Luigi Primoli fotografo in India, 1905-1906, Roma 2004, p. 125), spinge senz’altro a interrogarsi sull’attrattiva esercitata dalle culture orientali in Italia in quel torno di anni. Grazie agli album Caetani attinenti alla trasferta indiana si possono ricostruire i tempi del viaggio e buona parte dell’itinerario: dal porto di Napoli, dove Roffredo salpa il 10 ottobre 1907 in compagnia della sorella Giovannella (1875-1971) diretta in Cina per raggiungere il marito diplomatico Alberic Grenier (18641920), attraverso il canale di Suez e il Golfo di Aden, con tappe a Ceylon (oggi Sri Lanka), Malesia, Birmania e Tibet. I due fratelli si separarono a fine ottobre a Penang (Malesia): il momento è segnalato nell’album dalle fotografie di Roffredo che riprende Giovannella sull’imbarcadero, in procinto di riprendere la navigazione sul piroscafo Princess Alice, e dalle stampe all’albumina di quest’ultima in cui il principe è ripreso da un punto di vista sopraelevato, assiso accanto a un secondo uomo, in una piccola imbarcazione governata tra i flutti da un barcaiolo locale mediante due lunghe pertiche. La didascalia che l’accompagna tramanda il senso di velata inquietudine che Roffredo deve aver provato nel trovarsi in un territorio tanto affascinante quanto difficile: «Assistiamo alla partenza di Nella, della Princess Alice e di “tutti quanti”» (Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 22). Questa annotazione funge pertanto anche da segnale di un punto di svolta che le fotografie dell’album in effetti materializzano con un cambio repentino di genere, stile e tecnica. È necessario tenere a mente un principio basilare per prendere in giusta considerazione tutti gli elementi presenti in questi volumi: comporre un album è sempre un’operazione intellettuale in cui oggetti fotografici anche differenti tra loro e testi manoscritti danno forma compiuta al pensiero momentaneo del suo organizzatore. In quest’ottica è di grande interesse trovare a questo punto ventidue stampe che non sono propriamente fotografie, bensì riproduzioni ottenute mediante un procedimento fotomeccanico che raffigurano alcuni membri della popolazione dei Sakai, termine con cui i Malesi designavano un gruppo di tribù nomadi stanziate nella giungla montana della penisola di Malacca e a Sumatra. Il Caetani collaziona nell’album queste fotoriproduzioni corredandole di didascalie esplicative quali «Preparando il veleno dall’albero Upas» (Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 22), «Donne che allattano i porcellini», «shooting poisoned arrows» (entrambe Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 24), «Abbandonato per malattia infettuosa [sic]» (Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 26). Poter apporre note del genere implica una conoscenza non solo intuitiva di questi oggetti perché, ad esempio, nell’ultima immagine il soggetto è un

bambino sdraiato su un giaciglio approntato in un ricovero di legno impiantato su un albero analogamente a un’altra in cui la didascalia recita invece: «A nurse in the tree» (Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 26).

Per comprendere il rapporto di Caetani con queste fotoriproduzioni acquistate e composte tra le proprie fotografie è dirimente scoprirne la provenienza. Pochi mesi prima del viaggio in Oriente di Roffredo, in quello stesso 1906, un altro italiano rendeva nota questa minoranza etnica a un pubblico potenzialmente vasto. A Giovanni Battista Cerruti (1850-1914), navigatore nato a Varazze che aveva partecipato a diverse spedizioni nel Sud-Est asiatico dove coltivava stabilmente dei commerci, negli anni Novanta dell’Ottocento, capitò infatti di vivere «la più incredibile delle sue peripezie nella foresta malese, dove si ritrovò accerchiato da un drappello di lanciatori di dardi avvelenati; finché per ragioni imperscrutabili (…) questi non gettarono le armi a terra e presero a venerarlo come un dio. Per più di un anno Giovanni Battista Cerruti fu imperatore del popolo Sakai nel cuore della tenebra della giungla» (nota dell’editore in Giovanni Battista Cerruti: Tra i cacciatori di teste, Roma 2020, pp. 7-8). Nel giugno del 1906 Cerruti dette alle stampe un volume intitolato Nel paese dei veleni: fra i Sakai (Verona 1906) che presentò e mise in vendita nel padiglione riservato alle iniziative italiane all’estero dell’Esposizione internazionale di Milano (28 aprile-11 novembre 1906). Il libro di Cerruti è piuttosto raro perché venne stampato in poche copie andate subito esaurite, ma ottenne buona risonanza sui giornali del tempo e la traduzione immediata in lingua inglese. Il testo ha una specifica sotto al titolo nel frontespizio: «Note ed osservazioni di un colono del Perak (Penisola di Malacca) riccamente illustrate con fotografie originali». In realtà il termine ‘originali’ è da riferire all’autorialità e non alle fotografie in sé, perché anche in questo caso si tratta di fotoriproduzioni tirate da una matrice fotografica, tra le quali si trovano anche alcune di quelle ritagliate e collezionate da Caetani. Senza voler qui riportare l’intero ‘pedigree’ scientifico di Roffredo – cresciuto accanto ad archeologi, dantisti, islamisti e così via – conviene quanto meno ricordare che il padre Onorato era stato, tra le altre cose, presidente della Società Geografica Italiana dal 1879 al 1887. La scelta operata da Roffredo Caetani tra le numerose riproduzioni disponibili in formato cartolina e nelle 260 pagine di testo del Cerruti dimostra un’impostazione scientifica rigorosa, oltre che aggiornatissima, capace di estrapolare gli aspetti etnoantropologici maggiormente caratterizzanti della popolazione dei Sakai, tanto più se raffrontata con l’impianto discorsivo e incline a indugiare sugli aspetti avventurosi del Cerruti.

Fig. 5 – Sakai, 1906, fotoriproduzione, 13.08 x 9.05 cm, Archivio Caetani, fondo fotografico, album Fotografie IV, p. 24, fotografia n. 3.

Nel dare conto dei risultati della tesi di dottorato ho scelto di presentare qui tre casi di studio relativi agli album fotografici della famiglia Caetani per dimostrarne le potenzialità nonostante il loro numero relativamente ridotto e la brevità dell’arco temporale e, nel caso del volume dedicato al Ballo del 1875 per riesaminarlo sulla base degli studi già svolti e nel contesto dell’intera raccolta. La ricerca storica su questi significativi materiali potrà proseguire soprattutto nell’ottica di fornire elementi utili alla ricostruzione degli anni di formazione di due esponenti della famiglia conosciuti in maggior misura per i meriti acquisiti in età matura. L’energia con cui Gelasio Caetani si dedicò ai propri studi di Ingegneria non è certamente sconosciuta, ma gli album fotografici mostrano come fosse in grado di raccoglierne i frutti ancor prima di laurearsi. Alla stessa maniera, gli album di Roffredo Caetani offrono indizi per indagare la sua pratica fotografica e proporre nuovi elementi utili ad approfondire la conoscenza di altri aspetti, oltre a quelli ben noti in campo musicale, della personalità dell’ultimo duca di Sermoneta.

adELE MiLozzi

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