Roberto Zapperi, Un buffone e un nano fra due cardinali

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FONDAZIONE CAMILLO CAETANI

CENTRO DI STUDI INTERNAZIONALI GIUSEPPE ERMINI FERENTINO

ROMA

Riproduzione digitale

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ROBERTO ZAPPERI

Un buffone e un nano fra due cardinali Aspetti della comicità a Roma nell'ultimo Cinquecento Con una nota di Lucia Megli

Roma 1995


QUADERNI DELLA FONDAZIONE CAMILLO CAETANI

VIII

Roberto Zapperi

Un buffone e un nano fra due cardinali Aspetti della comicità a Roma nell'ultimo Cinquecento

Con una nota di Lucia Megli

ROMA 1995


QUADERNI DELLA FONDAZIONE CAMILLO CAETANI A CURA DI LUIGI FIORANI

VIII


Roberto Zapperi

Un buffone e un nano fra due cardinali Aspetti della comicità a Roma nell'ultimo Cinquecento Con una nota di Lucia Megli

ROMA 1995


© 1995 FONDAZIONE CAMILLO CAETANI VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE, 32 • ROMA


Indice

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UN BUFFONE E UN NANO TRA DUE CARDINALI,

di Ro-

berto Zapperi · 29

DOCUMENTI

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LA SCRITTURA DI PIETRO VERDERAME,

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di Lucia Megli


Roberto Zapperi UN BUFFONE E UN NANO FRA DUE CARDINALI ASPETTI DELLA COMICITÀ A ROMA NELL'ULTIMO CINQUECENTO


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Il cardinale Alessandro Farnese ricordò nel suo testamento del 22 giugno 1587 1 tre suoi servitori con un legato speciale che li privilegiava manifestamente rispetto a tutti gli altri componenti della sua famiglia, ricordati l'uno dopo l'altro in una lunga lista di legati, annessa al testamento. Il loro inserimento nel testamento stesso, anziché nella lista insieme a tutti gli altri, era un segno evidente di distinzione, che si può spiegare solo con i rapporti di particolare affetto e di intimità che il testatore aveva con loro. I tre servitori vennero designati per nome e cognome e si chiamavano Pietro Verderame, Taddeo Del Forno e Pasquino Querceto. I primi due compaiono nel ruolo della famiglia, compilato subito dopo la morte del cardinale, con una qualifica e il nome incompleto o addirittura diverso, che fa pensare subito ad una sorta di nome d'arte: Verderame, fra gli aiutanti di camera, come Pietro matto, Taddeo del Forno come Rodomonte nano capocaccia. Il terzo, Pasquino Querceto, non venne registrato, perché evidentemente era già morto quando il ruolo fu compilato, ma sappiamo da altre fonti che era guardarobiere e non rientrava a quanto pare in quella specie di corte dei miracoli che il cardinale manteneva per il suo svago. Vi avevano invece parte preminente i primi due, che meritano sotto questo aspetto ogni attenzione.


La qualifica di matto attribuita a Pietro lo inseriva in quella categoria piuttosto composita di persone che assimilava allora in tutta l'Europa sotto il comune denominatore della comicità, ogni sorta di sciocchi o di burloni alla professione del buffone. La clausola testamentaria che il cardinale Alessandro gli dedicò non autorizza a ritenere Pietro un buffone di mestiere: egli lasciava a lui, al nano e a Querceto un legato per un vitalizio di cento scudi annui che si dovevano versare direttamente agli altri due, ma non a Pietro. Per conto di lui, il cardinale voleva che li riscuotessero ogni anno il vescovo di Cassano o la principessa di Bisignano, ai quali raccomandava caldamente di prendersene cura. Questa preoccupazione scopre una riserva sulle sue facoltà mentali, che Farnese giudicava evidentemente tali da richiedere una tutela nell'uso del denaro. Egli pensava che dopo la sua morte Pietro se ne dovesse ritornare in quello stesso principato di Bisignano, nel quale si diceva fosse nato e nel quale inoltre rientrava la diocesi di Cassano: La principessa era sua nipote, Isabella Della Rovere, figlia della sorella Vittoria, duchessa di Urbino, e moglie di Nicolò Berardino Sanseverino, principe di Bisignano. · Pietro passava dunque a Roma per uno di quei poveri mentecatti con i quali i signori non disdegnavano allora di trastullarsi, con grave disappunto dei veri professionisti della buffoneria, come quel Bernardino Ricci che nel secolo successivo farà pubblicare un intero dialogo per rivendicare al suo mestiere dignità di vera e propria arte liberale. Egli dichiarava di non sapersi capacitare cotne potessero · i principi divertirsi « con nani e storpiati ridicolosi, o vero con altre persone sciocche e scimunite ». Una consuetudine piuttosto diffusa nelle corti, che Ricci deplo-

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rava senza mezzi termini: « io non so con qual coscienza i signori lo facciano, perché da queste che son miserie umane, gli animi. ben compiti debbono muoversi a compassione e non a riso » 2 • A dir la verità, il testamento di Farnese prova che l'una cosa non escludeva l'altra. Sin troppo interessato a contrastare la concorrenza pericolosa di sciocchi e scimuniti, Ricci sorvolava sulla circostanza decisiva che essi trovavano ricetto nelle corti perché facevano ridere non meno dei buffoni di mestiere. Il filo rosso della comicità che legava queste categorie così diverse di persone non si poteva spezzare tanto facilmente e meritava invece la massima considerazione. Pietro Verderame ed Enrico Caetani Ciò che nei discorsi di Pietro faceva ridere Farnese e i suoi cortigiani è piuttosto difficile sapere. Alcune sue lettere giungono però di rincalzo e permettono di capire le contraddizioni di una vicenda umana per certi aspetti non poco sconcertante. Le lettere sono cinque e vennero indirizzate da Pietro nel corso del 1587 al cardinale Enrico Caetani, allora legato di Bologna e residente in quella città. Pietro scrive per dare informazioni, che non hanno però mai un carattere riservato e, per quel poco che riguardano il padrone, rivelano solo fatti di dominio pubblico. Vivendo quotidianamente a stretto contatto con lui, nella cerchia dei suoi più intimi servitori, Pietro, che nei ruoli della famiglia del cardinale è registrato proprio per questo fra gli aiutanti di camera, veniva a sapere di sicuro molte cose che avrebbero fatto gola a Caetani. Non ne

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scrisse mai niente e non fece la spia, come quel cameriere di Farnese, Antonio Malvezzi, che gli comunicava invece notizie segretissime 3 • Improvvisatosi menante, Pietro mandava a Bologna avvisi innocentissimi da Roma, che ragguagliavano il legato di ciò che sapeva già benissimo dai dispacci degli agenti da lui appositamente stipendiati per tenerlo informato di tutto quello che succedeva. L'interesse delle lettere non stava quindi nel contenuto, ma nella forma che evidentemente induceva il destinatario alla risata per le sue enormità. Di questo effetto comico il mittente mostrava di non accorgersi e Caetani ovviamente stava al gioco: alla sua prima lettera rispose per ringraziarlo degli avvisi che gli mandava, invitarlo a continuare e promettere di voler chiedere per giunta a Farnese di lasciarlo a Roma durante la prossima estate, quando egli si trasferiva con la sua corte a Caprarola, per poter indirizzare anche a lui avvisi tanto preziosi 4. Il legato faceva finta di non sapere che, stando Pietro al servizio di Farnese solo perché lo faceva ridere, leggeva di sicuro le sue lettere per il suo divertimento, prima che fossero spedite. Si sa del resto che i signori ordinavano talvolta essi stessi al matto di inviare lettere a destinatari lontani, anzitutto per il loro proprio diletto. La marchesa di Mantova, Isabella d'Este, le faceva addirittura dettare dal suo Mattello, analfabeta come tanti buffoni erano, ad un suo segretario, per poterne assa~ parare le delizie facete nel momento stesso in cui venivano scritte 5 • Caetani era parente, oltre che amico di Farnese, lo frequentava abitualmente e conosceva bene la piccola congrega che manteneva per il suo svago. Nella lettera a Pietro ricordò infatti tre personaggi che ne facevano si-

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curamente parte, il nano Rodomonte, Nasone e Celio, probabilmente due buffoni, ai quali Pietro aveva accennato. Pur disponendo a Bologna di un proprio buffone, quel Giovanni Battista Grana, ricordato in una lettera di un certo Buzio, cappellano del cardinale Marco Sittico Altemps 6, il legato amava condividere lo spasso con Farnese e, dato che Pietro gliene offriva l'occasione, volle andare fino in fondo. Concluse quindi la lettera con l'annuncio di un regalo, una ricompensa, scrisse, per i servizi che Pietro gli rendeva con l'invio degli avvisi. Gli mandò una scatola di saponette di Bologna, che allora sembra fossero particolarmente pregiate, ma solo per burla, perché le palle accuratamente confezionate erano di legno e non di sapone. Quello di fare al matto scherzi, talvolta persino feroci, rappresentava per i padroni il culmine del divertimento, al quale difficilmente sapevano rinunciare, per quanta sofferenza potesse costare al malcapitato destina· tario. A Pietro costò parecchio, perché quando le saponette giunsero a Roma e si scoprì ch'erano false, divenne lo zimbello di tutta la corte: ogni cortigiano ne voleva ed una venne mandata fino a Gradoli, per il divertimento della sorella di Farnese, la duchessa Vittoria, che in quel momento vi soggiornava. Pietro fece l'offeso, scrisse a Caetani, con il solito stile sgrammaticato, una lettera risentita, ma fino ad un certo punto, perché in fondo, insistendo su ogni dettaglio delle reazioni divertite dei cortigiani, finiva per prolungare lo spasso di chi aveva fatto lo scherzo. Alle burla dei padroni doveva avere fatto il callo e quando gli dissero che dell'inganno non era responsabile il legato, ma solo il profumiere bolognese al quale aveva ordinato le saponette, prese subito per buona la

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scusa, mostrandosi soddisfattissimo della punizione (carcere e tormenti) che Caetani mandò a dire di avergli fatto infliggere. Il suo agente Costantino Guidi, recatosi da Farnese per trattare con lui affari per conto del padrone, lo trovò contornato dai cortigiani che menavano Pietro per il naso, assicurandolo che il legato non ne aveva saputo niente e aveva fatto punire il profumiere appena informato del suo misfatto. Senza mostrare di sospettare minimamente di queste spiegazioni, Pietro gongolò di gioia, ripetendo di avere sempre detto che Caetani non c'entrava di sicuro 7• Due giorni prima del dispaccio di Guidi, Pietro aveva già provveduto a riconciliarsi con il legato, spedendogli un secondo avviso, come se nessun incidente avesse mai turbato i loro rapporti. Solo due settimane dopo, nella sua quarta lettera che conteneva altri avvisi, dichiarò di essere stato informato dell'inganno ordito ai suoi danni dal profumiere bolognese e della punizione che aveva ben meritato. L'intenzione di Caetani, conveniva egli ·ora, era stata di mandargli in dono le saponette e di questa intenzione, tradita dal ribaldo profumiere, lo ringraziava di tutto cuore. La quinta lettera spedita da Caprarola con altri avvisi, conclude questa singolare corrispondenza, con un ritardo di ben cinque mesi rispetto alla quarta, che scopre una riserva: Pietro amava sgrammaticare fingendosi menante e ne ridessero pure tutti quanti, Farnese e Caetani e i cortigiani. La burla però non gli era piaciuta, anche se non gli era parso vero di poter ricucire al più presto lo strappo che aveva provocato. Visto che Caetani tutto sommato non era il suo padrone, era meglio lasciar cadere una corrispondenza che lo esponeva a 'così spiacevoli sorprese: il rientro a Roma, dove l'aspettava la nuova

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carica di cardinal camerlengo, offrì quindi la scusa buona per dare esito alla decisione presa già sicuramente alcuni mesi prima. Effetti comici Come si è visto, le lettere avevano un effetto comico, che solo interessava tanto Farnese quanto Caetani. Per quanto scemo potesse essere Pietro, non lo era di sicuro fino al punto di non capire che il suo modo strampalato di scrivere piaceva tanto ai signori. Se poi questo modo di scrivere fosse solo il risultato della sua scarsa istruzione e non anche un fine perseguito con precisa intenzione comica resta ancora da appurare. Fra le poche già segnalate e pubblicate, un termine di confronto particolarmente istruttivo è offerto da alcune lettere, contemporanee a quelle di Pietro, del comico bolognese Ludovico de Bianchi, ben noto Dottor Graziano della compagnia dei Gelosi, che all'occasione s'improvvisava buffone per principi generosi, come il granduca di Toscana Ferdinando I de Medici, o suo nipote, il duca di Bracciano Virginio Orsini. Sebbene l'estrazione popolare di questo attore si possa considerare indubitabile, è chiaro però che a forza di calcare le scene e di frequentare attori colti come Francesco e Isabella Andreini, famosi comici gelosi, avesse raggiunto un livello di istruzione di gran lunga superiore a quello di Pietro Verderame. Basterebbe a provarlo la stessa grafia delle sue lettere autografe, abbàstanza vicina a quella di uso comune fra le persone colte dell'epoca. Per questa ragione il suo stile non lascia àdito al dubbio sulla consapevolezza dell'inten-

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zione comica che sussiste invece per quello di Verderame. L'effetto coniico è perseguito tuttavia con procedimenti desunti dallo .stesso principio generale della deformazione sistematica delle parole. Certo, Ludovico dispone di ben altri mezzi e si può permettere di frequente trasformazioni audacissime di parole. Per storpiarle le sostituisce spesso con altre, di significato diverso ma di forma simile, che ricava talvolta dalla loro stessa scomposizione: lontano diventa lotenta, licenza: tisia cenza, contento: contra vento. Questo procedimento arriva a coinvolgere in qualche caso intere proposizioni, come conforme al mio volere quanto più presto che diventa con le forme al mio volare quattro piume in presto . Lo stesso Ludovico si rese conto che questo stile comico rischiava di fallire per eccesso di bravura: a forza di spingere le deformazioni oltre ogni limite finiva infatti per rendere impossibile la comprensione della lettera anche al suo illustre destinatario, fosse pur colto quanto e più di lui. Per evitare questo pericolo, egli aggiunse sempre una traduzione letterale che garantisse una volta per tutte la perfetta comprensibilità delle sue lettere, mettendo a disposizione del lettore una chiave per decifrare il codice adoperato 8 • Le lettere di Pietro non richiedevano alcuna traduzione: i due cardinali ed eventualmente anche i loro cortigiani le potevano leggere e ridere a prima vista, perché le deformazioni non occultavano mai completamente il signf ficato delle parole. Nei pochi casi in cui diventavano effettivamente irriconoscibili, al difetto delle parole supplivano gli abbondanti riferimenti offerti dal contesto della lettera. Così fu per i due nomi di luogo (Cazarolle per Zagarolo) e di persona (pianthero per Bianchetti), ampiamente noti ai lettori e comunque ricostituiti nella loro 0

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piena identità dai rimandi assai espliciti che Pietro si preoccupò di addurre. Di Cazarolle scrisse infatti che era il feudo dei Colonna ·dal quale Sisto V aveva fatto venire l'acqua Felice per alimentare le fontane della sua villa. Di pianthero precisò che era stato coppiere del papa Gregorio XIII e che i suoi funerali si dovevano celebrare nella chiesa di S. Agostino. Tutti sapevano a Roma che l'acqua Felice veniva da Zagarolo. I prelati che avrebbero letto la lettera di Pietro conoscevano benissimo Bianchetti, che era stato maestro di camera del papa defunto appena due anni prima, e sua eminenza grigia. Pietro lo dichiarò coppiere, perché il più grasso dei benefici che la sua morte rese vacante, il canonicato di S. Pietro, fu assegnato subito dal papa regnante al suo coppiere Biagio Cangi. Subito, per evitare che la vacanza stuzzicasse l'appetito, foriero di inevitabili fastidi, dei tanti ecclesiastici sempre a caccia di benefici. Della morte di Bianchetti e del beneficio di grossa rendita toccato al coppiere di Sisto V, Pietro aveva sentito parlare, sicuramente con stizza, dai chierici cortigiani di Farnese, ai quali si può presumere senza troppi rischi di sbagliare, che l'appetito non difettasse. La confusione tra le due cariche, quella di maestro di camera occupata dal defunto e quella di coppiere tenuta dal suo fulmineo successore nel canonicato, doveva far scoppiare in grandi risate soprattutto il principale, maestro insuperato nell'arte di arraffare soffiare scambiare ripartire riservare benefici. Fra i tanti che tenne saldamente in mano per oltre mezzo secolo, dai tempi dorati del nonno Paolo III fino alla morte, c'era l'arcipretura della basilica di S. Pietro che gli conferiva, in quanto superiore diretto, poteri di controllo sui canonici e quindi anche su Bianchetti, costretto

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per questa ragione a contatti piuttosto frequenti con lui. Buona conoscenza di Bianchetti aveva anche Caetani, che durante il pontificato di Gregorio XIII se l'era trovato sempre di mezzo e una volta ne era rimasto persino scottato nella collazione di un beneficio ecclesiastico. Non c'era dunque pericolo di sbagliare a tirarlo in ballo nella lettera: sia Farnese che Caetani sapevano tutto di lui. Questa insolita forzatura, nel senso di una completa trasformazione della parola, fa pensare ad una tentazione deliberatamente faceta. Cazarolle, che ricavò per metatesi da Zagarolo, evocava infatti facilmente il volgare cazzarola, usato con funzione eufemistica in luogo di una parola ancora più volgare, come esclamazione di meraviglia e di dispetto. Sentimenti che nel caso dell'acquedotto Felice erano giustificati dalla imponenza dell'impresa, realizzata a spese della Camera apostolica, per abbellire la villa sontuosa, cantata dai poeti per lo splendore dei giochi idraulici degni delle consorelle di Tivoli e di Bagnaia (Villa d'Este e Villa Lante), che il papa aveva donato l'anno prima alla prediletta sorella, Camilla Peretti 9 • Assai più complessa e sottile la seconda operazione. Pianthero rimanda infatti a Bianchetti o Bianchetto come più spesso si diceva, alla lontana e per vie traverse, secondo un procedimento piuttosto azzardato, che solo l'ampia notorietà del personaggio poteva cautelare: dalla prima parte della pa~ rola Bian divenuta pian per via dell'oscillazione, abbastanza frequente nelle cinque lettere, tra la b e la p, Pietro giunse a piantho, che recuperava in una parola di senso compiuto oltre alla o ancora due consonanti, la t e la h, di Bianchettò. Da piantho a pianthero il passo era breve, e bastò aggiungere il suffisso ero, .tipico di tanti cognomi. Il pianto richiamava per metonimia la morte e i funerali

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del prelato, ma anche, e qui sta la malizia, la rabbia dei chierici che piangevano il beneficio volato in altre mani. La stessa riserva della notorietà presupposta come salvaguardia lo incoraggiò ad avventurarsi in altre operazioni, ai limiti della comprensibilità, nei saluti apposti a tutte e cinque le lettere. La ricorrenza della formula di saluto, che tollerava solo poche varianti, tutte canonizzate dalla tradizione e ripetute come un rituale a conclusione di ogni lettera, lo metteva al sicuro rispetto al significato, sicuramente inequivocabile, e lasciava via libera alla manipolazione più disinvolta. Nei saluti infatti Pietro si permetteva addirittura di eliminare dalla formula varie parole, oltre a deformare quelle che restavano. Nella prima lettera la formula: mi raccomando per sempre alla sua grazia, le bacio le mani e prego il Signore che la conservi felice, diventa racomanda sempre li pasiolimane di felixce li ricoserva, dove si vede che cadono alla sua grazia e prego il Signore che, mentre le parole che restano vengono storpiate e trasformate in vario modo. Nelle altre quattro lettere, Pietro si comportò con la stessa disinvoltura, preoccupandosi solo di non ripetere mai la stessa forma di riduzione e deformazione della formula di saluto che aveva adottato prima. Quando mancava la salvaguardia della notorietà, Pietro diventava cauto e stava attento a mantenersi entro i limiti più evidenti della piena comprensibilità. Ben consapevole della grave scarsità dei suoi mezzi linguistici, cedette alla tentazione solo in rari casi. Gli avvenne così una volta di lasciarsi sfuggire una parola nuova, quantinale, di significato dubbio e comunque non del tutto evidente. La ricavò dall'aggiunta all'aggettivo quanto, usato come avverbio, del suffisso nate, che di regola allude alla

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durata, determinata dal numerale (ad es. triennale). Sostituendo al numero l'avverbio quanto, Pietro intendeva dichiarare una ( durata indefinita, ma piuttosto piccola di tempo (qualche tempo). In tutti gli altri casi di parole strane, perché fortemente storpiate (come ondesci per udii e erigrasiate per ringrazio), oppure trasferite dal loro senso abituale ad altro desumibile dal contesto (come maschero per maschio) o ancora composte dall'unione in una sola di due parole diverse storpiate (come saribeni per stare bene), il significato era fuori discussione. La maggior parte delle deformazioni comportò comunque l'intervento su una parte minima della parola, una consonante, una vocale, una sillaba al massimo. Si tratta cioè quasi sempre di quella operazione, definita dalla retorica classica, della quale Pietro ovviamente nulla sapeva, come metaplasma e articolata in varie classi di figure che ricorrono nelle sue lettere con frequenza, soprattutto quelle più semplici fondate sul raddoppiamento (tittulo, cassa, messe) o la riduzione della consonante doppia (fato, copieri, bala). Deformare le parole con il minimo sacrificio delle sue componenti è ciò che a Pietro conveniva di più e questa convenienza spiega anche l'oscillazione tra la b e la v (peramente per veramente), tra la b e la p (sabone per sapone, sabute per saputo), tra la t e la d (dornate per tornate). Deformarle anche con i legamenti, che asso~ ciano in una sola composta due o tre parole leggermente modificate, ma pur sempre riconoscibili, risponde alla stessa esigenza di economia delle risorse (nonavese per non avessi, menispiace per me ne dispiace, laute per l'ho avuta). Sono tutti procedimenti caratteristici di uno scrittore poverissimo di risorse. L'interesse delle sue lettere non sta t1;1ttavia in questa deficienza di mezzi, ma nella sco-

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perta fondamentale che proprio questa deficienza si poteva convertire in una grande risorsa e diventare la base · di uno stile comico di sicura efficacia. La prima cosa che salta agli occhi in questo stile comico è l'uso della punteggiatura: Pietro si serve di un solo segno, il punto, con il quale isola e circoscrive ogni parola, fosse pure limitata ad una sola vocale, come la preposizione a. Soltanto nella quarta lettera usa due volte i due punti, senza attribuire loro tuttavia una funzione diversa da quella solita di separare le parole. Tutti questi punti che le scandiscono dovrebbero dare al lettore la percezione visiva immediata di una grave difficoltà nell'uso della scrittura. Come se lo scrittore volesse dichiararsi incapace di valicare il limite assegnato dal punto a ciascuna parola, per spingersi oltre e costruire proposizioni e periodi. Il processo della significazione doveva scaturire dalla semplice successione di parole staccate e autosufficienti, secondo una sorta di stile telegrafico. Questo sistema di punteggiatura è chiaramente desunto dai manuali di calligrafia che fungevano anche da sillabari, come quello famoso di Marcello Scalzirii di uso comune a Roma proprio negli anni in cui Pietto vi scriveva le lettere à Caetani. L'elencazione delle lettere dell'alfabeto era contrassegnata in questi manuali dal purito che le staccava l'una dall'altra per permettere al principiante di poterle facilmente sillabare. Pietro, che doveva avere imparatò a scrivere da poco, con l'aiuto di uno di questi manuali, ne estese l'uso dalle semplici ~illabe a tutte le parole, còn una trovata piuttosto ingegnosa the associava a prima vista il difetto e l'artificio, l'ignoranza e l'abilità 10 • Questa stessa finalità si può cogliere in altri procedimenti che eludono palesemente norme elementari di

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grammatica e di sintassi: i più frequenti sono la mancata concordanza della persona tra pronome e verbo (io: prima persona / assiste: terza persona), del genere (Signoria: femminile / Illustrissimo: maschile) e del numero (due: plurale / coglione: singolare) tra sostantivo e aggettivo. Talvolta per questo stesso motivo, Pietro distribuisce casualmente la collocazipne delle parole e più di rado di interi gruppi di parole all'interno della lettera, come nella terza, dove i saluti vengono anticipati e incastrati tra la notizia del parto e quella del soggiorno del papa nella sua vigna. L'uso della punteggiatura, il mancato rispetto delle concordanze, la sporadica collocazione irregolare delle parole perseguono lo stesso scopo di esibire una scrittura assai difettosa ma sempre comprensibile. Anche se isolate in apparenza dal punto, le parole vengono collocate quasi sempre secondo una successione ordinata in proposizioni e periodi, che assicurano la piena intellegibilità dei discorsi. Per quanto stentata e quasi sillabata nella sua stessa rappresentazione grafica, la compitazione sgrammaticata di Pietro restava sempre comprensibile. Questa preoccupazione cosl forte induce a riportare i suoi spropositi linguistici ad una precisa intenzione comica, perseguita metodicamente. Quando Pietro scoprl che il suo difetto di cultura faceva tanto ridere i suoi fin troppo acculturati ascoltatori, cominciò ad ostentarlo. Successivamente dovette capire che il suo difetto risultava tanto più comico, quanto più sembrava nascosto e rivelato solo inconsapevolmente. Per questa ragione egli si spacciava per menante con il cardinal Caetani e infiorettava i suoi avvisi di parole latine e riferimenti colti orecchiati dai discorsi dei cortigiani di Farnese. Sin dalla prima lettera si presentò come una persona istruita che va a visitare 1a

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basilica di Santa Pudenziana, della quale Caetani era titolare, si compiace dei lavori di restauro ancora in corso, si sofferma sullo . stemma cardinalizio con le armi della famiglia Caetani che vi aveva trovato esposto. Per accreditare questa presunzione, usa parole sofisticate desunte dal linguaggio ecclesiastico (come titolo), parole latine perfettamente regolari (ben quattro: tempore, arma, die, februari), ricorda il papa Bonifacio VIII, massima gloria dei Caetani, con una piaggeria da perfetto cortigiano. Da questa altezza precipita però subito al livello più basso, storpiando tante parole e intercalando al latino regolare quello maccheronico (dixci, dixio, felixce, sapienti). Il contrasto tra l'altezza della pretesa e la bassezza dei risultati doveva garantire il più sicuro effetto comico. Con la pratica di questa scrittura strampalata, Pietro finiva per attenersi, senza saperlo, alla classica teoria rinascimentale della comicità, come era stata enunciata al massimo livello nel Cortegiano di Baldesar Castiglione: « il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa deformità; perché solamente si ride di quelle cose che hanno in sé disconvenienza e par che stian male, senza però star male » 11 • Nell'anno 1587 nel quale scrisse le cinque lettere a Caetani, Pietro era diventato ormai, per quel tanto che la sua scarsa istruzione glielo permetteva, un esperto buffone, capace di sfruttare con innegabile abilità alcune delle più importanti risorse di quel mestiere. Si preoccupò tuttavia tnoltissimo di conservare agli occhi del padrone, dei suoi amici e cortigiani, la fisionomia dello sciocco che più gli conveniva, avendo imparato che ignoranza e stupidità erano le sole armi che potesse usare facilmente con successo. Con tutta probabilità Pietro, che doveva avere un qual-

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che difetto fisico o mentale, era stato pescato in uno dei quarantuno comuni calabresi che facevano parte del principato di Bisignano, spedito a Napoli e quindi regalato dal principe o dalla principessa allo zio cardinale come un tipico scemo del villaggio. All'ingresso nella sua corte, tale doveva essere stato veramente. Con gli anni però imparò a fare tesoro della sua stupidità e a forza di · bazzicare i cortigiani divenne sempre più astuto e capace di far ridere con arte. Nell'uso dei ferri dei mestiere, come nei primi rudimenti della scrittura, dovette essere introdotto ed istruito da altri buffoni, probabilmente proprio quei due, Nasone e Celio, da lui ricordati nella prima lettera a Caetani. La metamorfosi dello sciocco in accorto e abilissimo buffone non era certo ignota alle corti rinascimentali: in un caso tra i più clamorosi fu segnalata da Brantome, a proposito del celebre Thony, il matto del re di Francia Enrico II 12 • Alla morte del cardinale Alessandro (2 marzo 1589), la numerosa famiglia che ne dipendeva fu licenziata e solo pochi componenti di essa restarono al servizio del giovane pronipote Odoardo Farsene. Fra di loro non risultava vi fosse Pietro, che figura ancora nell'ultimo ruolo postumo della famiglia del cardinale alla data del 10 aprile 1589, senza che si abbia di lui, dopo questa data, nessun'altra notizia. Con tutta probabilità se ne ritornò in Calabria, nel suo villaggio di origine, come prevedeva la clausola testamentaria disposta in suo favore da Farnese, a godersi in santa pace il vitalizio che gli era toccato. Inghiottito dal villaggio calabrese, sparì dall'orizzonte della storia, lasciando a Roma solo le pochissime tracce riemerse dagli archivi dei due cardinali con i quali ebbe a che fare. . Dopo molti secoli, la sua breve storia romana trovò un


curioso imprevedibile riscontro in un aneddoto folklori co, raccolto poco prima del 1875 a Palermo dalla voce di un uomo del popolo: l'aneddoto fu intitolato dal folklorista Giuseppe Pitré che lo pubblicò, Giufà e il cardinale, e fa parte del ciclo dello sciocco, assai diffuso nel folklore siciliano, ma anche in quello calabrese. Giufà, che in Calabria si chiamava Juvadi, era lo scemo del villaggio che nell'aneddoto uccide per sbaglio un cardinale. Farnese era stato per molti anni arcivescovo di Monreale e questa ricchissima sede vescovile dista solo pochi chilometri da Palermo. Si sa inoltre che l'aneddoto ha un'ascendenza folklorica cinquecentesca, attestata da una novella di Straparola, nella quale il servo scemo uccide il padrone, per sbaglio ma non senza malizia, esattamente come farà Giufà con il cardinale. I contorni storici delle persone sfumano e si perdono completamente nel folklore. Restano però i ruoli: lo scemo e il cardinale, il servo e il padrone. Lo scemo subisce gli scherzi del padrone e alla fine lo uccide: con questo gesto estremo di ritorsione ribalta nel desiderio il rapporto sociale immodificabile al quale la storia l'ha condannato. Per una volta e in modo risolutivo, il più debole vince sul più forte. Ciò che l'aneddoto folklorico racconta non dipende di sicuro dalla storia documentata dei rapporti di Pietro con Farnese e Caetani. Si dispone tuttavia in perfetta simmetria con essa e permette alla fin fine di comprenderne il suo significato più profondo 13 • 0

Il nano Taddeo Del Forno

La storia di Pietro Verderame s'incrocia più di una volta con quella di un altro servitore del cardinale Alessandro,

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compreso come lui nella clausola testamentaria riservata ai suoi più intimi servitori per un vitalizio di cento scudi annui 14. Si tratta del nano bolognese Taddeo Del Forno, che portava il soprannome di Rodomonte e figura nell'ultimo ruolo della sua famiglia come capocaccia. Sia il soprannome che la carica avevano un'evidente motivazione scherzosa: Rodomonte era il nome del re Saraceno di Sarza, desunto dai poemi cavallereschi e in particolare dall'Orlando furioso, dove compare come un cavaliere di grande superbia e violenza. Affibbiarlo al nano voleva dire prenderlo in giro e con la stessa intenzione gli veniva data la carica di capocaccia, perché un nano non poteva essere capo di alcunché, considerata la sua statura che lo condannava ad essere e restare sempre piccolo e subordinato in ogni cosa a quelli più alti di lui. In comune con Pietro egli aveva ovviamente il compito di far ridere il padrone ed eventualmente i suoi amici. Una sua lettera a Caetani per chiedergli di intervenire a Bologna in f~ore di certi suoi parenti e altri accenni in una lettera di J:'ietro a Caetani e in una di Caetani a Pietro 15 , fanno capire che egli era ben noto al legato che non disdegnava all'occorrenza di fare scherzi anche a lui. Per questa ragione è il probabile protagonista di una burla che Caetani, rientrato a Roma e divenuto camerlengo, giocò ad un nano nell'aprile del 1589. Il nano aveva chiesto di ottenere l'onore della cittadinanza romana oppure quello di cavaliere dello speron d'oro ed infine, nel caso fosse impossibile procurargli una delle due onorificenze, almeno un dottorato in diritto canonico. Caetani approfittò di questa richiesta in verità piuttosto imprudente, per organizzare la beffa in collaborazione con tre altri cardinali suoi amici, uno dei quali aveva la facoltà

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di concedere dottorati. Assegnarono al nano un tema per una dissertazione che nascondeva una trappola, perché era desunto da un trattatello di Aristotele che studiava la questione fisiologica delle origini del sonno e sosteneva che i nani dormivano troppo per via della testa troppo grossa in rapporto al corpo, che impediva all'aria fredda di affluirvi e lasciava via libera a quella umida che induceva alla sonnolenza. Il nano seppe superare brillantemente l'ostacolo, pronunciando un'orazione che fu molto ammirata-. A conclusione della solenne cerimonia, saltò fuori però un buffone bolognese convocato appositamente per ridicolizzare il nano con sproloqui nel dialetto della sua città. Accortosi della beffa, il nano mortificatissimo tentò di fuggire, ma ne fu impedito e fu costretto a bere l'amaro J calice fino all'ultima goccia. Nei due avvisi che raccontano la burla la vittima è designata come il nano di Caetani, ma nel suo archivio non c'è traccia di nani al suo servizio e dati i suoi rapporti con Rodomonte e l'intervento del buffone bolognese è molto probabile che si trattasse proprio di lui 16 •

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Note 1

Documento 12. Il tedeschino ovvero Difesa dell'arte del cavaliere del piacere e altri scritti, a cura di T. MEGALE, Firenze 1995. 3 Lettere di Antonio Malvezzi a Caetani con notizie riservate in ACR, Fondo generale, 29 novembre 1586 e 1 agosto 1587. Nello Stato della casa dell'Ill.mo Sig. cardinal Farnese de /e.me. per tutto li 10 d'aprile 1589, in ASN, Archivio farnesiano, busta 1849, c. 2r, Malvezzi è registrato come cameriere di Farnese. 4 Documento 6. 5 A. LUZIO - R. RENIER, Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi di Isabella d'Este in « Nuova antologia», XXVI (1891), 34, p. 633; il carteggio di Bernardino Ricci è stato pubblicato ora da MEGALE, Il tedeschino. 6 Documento 8. 7 Documento 7. a Documenti 9, 10, 11. 9 Documento 4. 10 Su questo punto vedi l'intervento di Lucia Megli) 11 B. CASTIGLIONE, Il cortegiano, a cura di B. MAIER, Torino 1955, p. 261; fondamentali su questo punto le riflessioni di V.J. PROPP, Comicità e riso, tr. it., Torino 1988. 12 La vie des grands capitaines français in . Oeuvres completes de Pierre de Bourdeille seigneur de Brant6me, a cura di L. LALANNE, III, Paris 1867, pp. 342 s. 13 Documento 13. 14 Documento 12. 1s Documenti 5, 6 e 14. 16 Documento 15. 2 B. RICCI ,

Lucia Megli e Roberto Zapperi ringraziano Armando Petrucci che li ha sorretti in questo lavoro con grande generosità, prodigandosi in consigli e correzioni.

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Documenti

Nella pubblicazione delle cinque lettere di Pietro Verderame, ho adottato il criterio seguente. Ho dato prima la trascrizione degli originali, riprodotti a parte in fac-simile, sciogliendo le abbreviazioni. Ho fatto seguire la traduzione in italiano moderno e ho aggiunto una scelta di avvisi contemporanei per permettere un confronto con il genere al quale Pietro si ispirava. Segue in ultimo il commento.

1 Pietro Verderame a Enrico Caetani (ACR, Fondo generale, alle date) Illustrissimo et Reverendissimo mosignore patron mio osservandissimo.

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Io. visto. tittulo. Vostra. Signoria. Illustrissimo. fato. bello. peramente. vechio. papi. Bonifacio. VIIJ. tempere. arma. et. visto. Nasone. sepelito. recato. die. 2. di. marzo. ore. I.+ di. notte. et. Pompeo. de. Valle. morte. die. 28. februari. ore. XI. et. cardinali. Papienti. dixci. messa. Santo. Lorend. di. mure. fatane. piova. et. a. Vostra. Signo-

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ria. io. nonavere. Carensano. mio. io. sepavolo. et. dixio. racomanda. sempre. io. malati. di. pasciolimane. di. felixce. di. ricoserva. di. Roma. adi. IIJ. di. marzo . MDLXXXVI}. Di. Vostra. Signoria. Celio. apredicato. sapienti. I. di. marzo. passato. la. domenica. · humilissimo. servitori. a. Vostra. Signoria. Pietro. Verderame. Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore padron mio osservandissimo Ho visitato la basilica di Santa Pudenziana, rimessa a nuovo. E' veramente antica, come lo stemma della .Sua famiglia, del tempo del papa Bonifacio VIII. Ho visto- seppellire Nasone ai suoi funerali, il giorno 2 di marzo alle ore una e mezza di notte. Il 28 febbraio alle ore undici è avvenuta la morte di Pompeo Della Valle. Il cardinale Papiense celebrò la messa nella basilica di San Lorenzo fuori le mura e pioveva. Quel giorno ero malato e non l'avrei saputo, se non avessi il mio Carensano. Mi raccomando sempre alla Sua grazia, le bacio le mani e prego . Dio che la conservi felice. Di Roma, adì 3 di marzo 1587. Di Vostra Signoria [P.S.] Celio ha predicato sapientemente il primo di marzo passato; èhe era domenica. ·. Umilissimo servitore di Vostra Signorià Pietro Verderame

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Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, c. 83', 4 marzo 1587) I nove cardinali comparsi per servire Nostro Signore domenica matina dal suo giardino a San Lorenzo fuor delle mura, benché invitati da Sua Santità a salire nelli lor cocchi per la pioggia che versava indiscretamente dal cielo, volsero nondimeno (ch'altramente non pareva che convenisse loro) cavalcare dietro alla lettica di Sua Santità. Di maniera che giunti a quella chiesa si trovano ben riccamati di fango et affluenti benissimo d'acqua, con necessità di rivestirsi d'ogni cosa. In detta capella cantò messa per eccellenza il cardinal di Pavia, dopo la quale pur al ritorno al giardino del papa ad accompagnarlo, ebbero un altro asperges dalle nubi co'l reficiat d'un pranzo ancora da Sua Beatitudine all'improviso per ristoro di tanto loro incomodo et gli istessi illustrissimi di là fecero corte verso la sera al papa fin a palazzo.

L'll dicembre 1585 Sisto V aveva nominato Enrico Caetani cardinale, assegnandogli il titolo presbiterale di Santa Pudenziana. Titolo valeva per Chiesa, con riferimento alle chiese di Roma alle quali era preposto un cardinale e Pietro usava quindi il termine in modo del tutto appropriato, come si può desu• mere da un documento del 1593, nel quale si assicura che « il titolo del cardinale Caetano si fa ogni dl più chiaro con la spesa della cappella » . L'antica basilica paleocristiana era ridotta allora in pessime condizioni e il nuovo cardinale titolare non poté fare a meno di provvedere ai restauri. Quando Pietro andò a visitarla, i lavori, diretti dall'architetto dei Caetani Francesco da Volterra, dovevano essere già in una fase piuttosto avanzata. Come primo atto della presa di possesso, Caetani

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espose sulla facciata della chiesa due stemmi della sua famiglia, uno decorato dal cappello cardinalizio e l'altro dalla tiara con le chiavi di S. .Pietro che dovevano ricordare il pontificato di Bonifacio VIII, lontano nei secoli e tanto più glorioso per la sua antichità. Come omaggio doveroso alla gloria maggiore dei Caetani, Pietro diceva che il loro stemma poteva essere esposto a buon diritto in una chiesa cosi antica 1 • Della morte di Nasone e Pompeo Della Valle non è rimasta traccia nelle cronache romane. Del primo non si ha alcuna notizia, ma il soprannome con il quale era noto anche a Caetani, che nell'unica lettera di risposta a Verderame si dichiarò dispiaciuto della sua morte, lascia pensare che fosse un altro buffone della corte di Farnese. Di Pompeo Della Valle si sa invece quanto basta: nobile romano piuttosto violento, ebbe a che fare più volte con la giustizia per t fatti di sangue nei quali incorreva facilmente. « Cascato da cavallo rompendo lande», in un torneo di carnevale tenuto il 10 febbraio, mori due settimane dopo, nella notte tra il 27 e il 28 . Pietro poté riferire l'ora precisa della morte (le undici della notte, cioè, secondo il nostro computo, le cinque del mattino), come aveva riportato quella altrettanto precisa dei funerali di Nasone (l'una e mezza di notte, cioè le sette e mezza della sera), perché il fratello del defunto, Valerio Della Valle, era in stretto contatto con Farnese, essendo stato allocato da lui al servizio del nipote, Giuliano Cesarini, figlio della figlia Clelia 2 • Il cardinale che celebrò la messa in quella giornata cosi piovosa fu Ippolito de Rossi, detto Papiense in quanto vescovo di Pavia. Come avverte l'avviso urbinate con gran dovizia di particolari, la scelta della basilica di San Lorenzo fuori le mura dipendeva dal papa che vi teneva volentieri la cappella pontificia per la prossimità di uno dei suoi giardini, dove poteva riparare comodamente appena finita la messa 3. Nel ruolo della famiglia del cardinale Alessandro, Pietro venne registrato per due boc<:he e la seconda doveva essere quella di questo Carensano, il famiglio che lo serviva a spese di Far-

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nese. Nello stesso ruolo, la lista degli àiutanti di camera conclusa da Pietro si apre con un Celio da Canino, che si può identificare con il Celio del quale egli scriveva. Era noto anche lui a Caetani, che nella lettera già ricordata lo associò al defunto Nasone e si rallegrò di sentire che si fosse improvvisato predicatore. Con tutta probabilità si doveva trattare di un terzo buffone di Farnese 4•

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Illustrissimo et Reverendissimo signore sempre osservàndissimo misalute -,

Io. none. lavate. mano. lepalle. io. adonato. via. io. sobeni. in. salame. di. Fufaro. io. novolie. niente. perhe. nomepiace. et. Alexandere. Orsino. adolta, laprimo. la. senconda. deli. Camilla. vostro. fratello. laute. sexi. lepalle. dixci. Alexsandere. Orsino. dixci. a. Vostra. Signoria. Illustrissimo. dixce. coglione. ame. et. menispiace. starnale. et. dixci. cavalieri. Tomaso. et. signore. Francesco. Lino. vole. sabone. lepallo. et. io. nodalto. di. pasilimano. di. saribeni. di. felixce. di. conserva. di. Roma. adi. dui. aprile. MD L XXXVI}. Di. Vostra. Signoria. Illustrissimo. et. Reverendissimo. dixci. vostro. fratello. ildi. stassione. Santo. Sephano. dornate. di. Palo. die. 20. di. marzo. Camilla. Caetano. odicto. acardinali. Farnesi. die. iiij. kalende aprile. humilissimo: servitore. a. Vostra. Signoria. Pietro. Verderame.

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Illustrissimo e Reverendissimo signore sempre osservandissimo io la saluto Non mi sono lavato le mani con le palle, le ho date via.

Io capisco bene, non sono un salame di Fusaro, io non voglio niente, perché non mi piace. Alessandro Orsini ha preso la prima di esse e vostro fratello Camillo ha avuto la seconda. Le palle sono sei. Dissi ad Alessandro Orsini di avere detto a Vostra Signoria Illustrissima che egli disse coglione a me e me ne dispiace. Sta male e lo dissi al cavalier Tornasi. Il signor Francesco Lino vuole anch'egli le palle di sapone, ma io non gliel'ho date. Le bacio le mani e prego Dio che la faccia stare bene e la conservi felice. Di Roma adì 2 di aprile 1587. Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima [P.S.] Dissi che Vostro fratello Camillo Caetani, i] giorno della stazione di Santo Stefano, cioè, il 20 marzo, è tornato da Palo e l'ho detto al cardinal Farnese il 4 di aprile. Umilissimo servitore di Vostra Signoria Pietro Verderame

Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, c. 104V, 18 marzo 1587) Lunedì mattina il cardinal Farnese s'inviò verso Palo à ricreatione per sei giorni. Alessandro Orsini era cameriere di Farnese, Francesco Lino segretario, il cavalier Tommaso Tornasi maestro di camera.

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L'abate Camillo Caetani, fratello minore di Enrico, era anche egli un protetto del cardinale Alessandro, lo frequentava abitualmente e lo raggiunse nel suo castello di Palo, dove si era recato il 16 marzo per diporto. Il giorno della stazione di Santo Stefano, nel quale si celebravano nella chiesa di Santo Stefano rotondo le funzioni liturgiche del venerdi dopo la quinta domenica di quadragesima, ultimo prima del venerdi santo, era il 20 marzo, esattamente come riferito nel poscritto della lettera di Pietro 5 •

3 Illustrissimo. et. Reverendissimo. mosignore. patronissimo. sempre. osservandissimo.

Io. ondesci. lanova. vostro. nipote. duchessa. Altepis. fatto. figlio. maschero. hore. 12. die. XVI. aprile . nipote. cardinali. Altaepis. die. 10. datte. di. pasiolima. di. felice. papi. Sixsto. V. andare. vinia. dii. papi. tutte. cardinali. concitori. di. Roma. adi. XVI. di. aprile. 1587. di. Vostra. Signoria. Illustrissimo. morto. Pianthero. copieri. papi. Gregari. 13. tutte. cente. portali. Santo. Agustina. et. abaciatone. Hispania. andato. Caprarola. andato. Madona. Loreto . .die. 17. humilissimo. sertori. a. Vostra. Signoria. Pietro. Verderame. ··

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Illustrissimo e Reverendissimo Monsignore padron mio sempre osservandissimo Ho sentito la notizia che Vostra nipote, la duchessa Altemps, il 16 aprile alle ore dodici ha fatto un figlio maschio, che è nipote del cardinale Altaemps. In data del giorno 10, il papa Sisto V è andato nella sua vigna con tutti i cardinali e vi tennero un concistoro. Le bacio le mani e prego Dio che la conservi felice. Di Roma, adl 16 di aprile 1587. Di Vostra Signoria Illustrissima [P.S.] E' morto Bianchetti coppiere del papa Gregorio XIII . Il feretro fu portato con il concorso di molta gente nella chiesa di S. Agostino. L'ambasciatore spagnolo, di ritorno da un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto, si è fermato il 17 a Caprarola.

Umilissimo servitore di Vostra Signoria Pietro Verderame

Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, cc. 143', 149', 15r) 15 aprile 1587: La matina di lunedl il papa a piedi per la via aperta da lui et per la vigna del Bandini passò dal suo giardino a quello di Montecavallo a far concistoro in quel palazzo. 18 aprile 1587: Giovedl mattina al fare del giorno Mons. Bianchetti già Maestro di camera di Gregorio in

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casa del fratello auditore di Rota spirò dopo tre giorni soli d'infirmità ... sono vacate da 4 badie non ancora dispensate, che si sappia, et il canonicato in S. Pietro ottenuto da Mons. Biagio coppiero del papa. Et Altemps d'allegrezza per il putto, che nacque l'istessa matina della duchessa di Gallese sua nuora, non può capire nella pelle, essendosene rallegrata seco tutta l'adulatrice corte. Farnese ha mandato per ricevere con il solito suo splendore in Caprarola l'ambasciatore cattolico di ritorno con la moglie per di là da Loreto. 25 aprile 1587: L'altra matina in Santo Agostino con l'intervento di tutti i Bolognesi che si trovano in questa città et in S. Pietro nella capella Gregoriana, con la presenza di tutte quelle dignità, furono fatte le essequie septuenali del Bianchetti già Maestro di camera di Gregorio con quelle pompe solite farsi a' grandi.

Cordelia, figlia di Giovanna Caetani, sorella del cardinale Enrico, e di Virginio Orsini duca di Sangemini, era' sposata a Roberto Altemps duca di Gallese, figlio del cardinale Marco Sittico Altemps. Partorl effettivamente il 16 aprile alle ore sei del mattino un figlio maschio, al quale fu imposto il nome di Giovanni Angelo in onore del papa Pio IV (Giovanni Angelo de Medici), che aveva fatto le fortune romane della famiglia Altemps. Pietro era così bene informato della data e dell'ora del parto, perché nella famiglia del cardinale Alessandro erano presenti ben quattro Orsini e uno, Giovanni Antonio, potrebbe anche essere stato il fratello della puerpera, che si chiamava proprio cosl. Ciò che impedisce di affermarlo con tutta certezza in mancanza di riscontri più precisi è la preoccupazione di accaparrarsi i nomi di famiglia più ·prestigiosi che ossessionava

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gli Orsini dei vari rami collaterali e produceva di frequente casi di omonimia, come per questo Giovanni Antonio 6 • Esatte le notizie, attestate dagli avvisi, del concistoro tenuto da Sisto V nel palazzo del Quirinale, adiacente al giardino della sua villa sul Viminale, dell'ospitalità concessa da Farnese a Caprarola all'ambasciatore spagnolo conte di Olivares, di ritorno da un pellegrinaggio a Loreto con la moglie, della morte e dei funerali di Ludovico Bianchetti, che, come precisano gli avvisi, era stato maestro di camera e non coppiere di Gregorio XIII. Coppiere, però di Sisto V, era Biagio Cangi, destinato a succedergli di 11 a poco nel principale beneficio ecclesiastico reso vacante dalla sua morte, un canonicato di San Pietro. Dato che Farnese tra le tante cariche ecclesiastiche deteneva anche quella di arciprete di San Pietro, era il capo di quel capitolo e conosceva benissimo tutti i canonici che ne facevano parte. Con Bianchetti mantenne contatti piuttosto stretti per i poteri di controllo che era tenuto ad esercitare su di lui e l'anno prima ad esempio ne aveva autorizzato un viaggio a Bologna. L'ex maestro di camera del defunto pontefice, bolognese come lui, ne era stata la vera e propria eminenza grigia e nel palazzo della cancelleria, residenza ufficiale di Farnese, era di casa. Per tutto il lungo pontificato di Gregorio XIII, chiunque avesse aspirato al favore del papa doveva passare attraverso di lui e non c'era beneficio ecclesiastico che non dipendesse dalle sue manovre per l'assegnazione. Per questa ragione lo conosceva benissimo anche Caetani, tanto interessato alla collazione dei benefici quanto Farnese e i suoi cortigiani. Di Bianchetti si serviva regolarmente come intermediario per i doni che lo zio Nicola, cardinal di Sermoneta, faceva giungere al papa: vino, trote, meloni, senza dimenticare di riservarne una parte per lui. Nell'agosto del 1582 papa Gregorio gli assegnò una ricca abbazia e il cardinale, che ne era stato informato tempestivamente dal nipote rimasto fino ad allora a bocca asciutta, si affrettò a complimentarsi, sen-

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za ricavarne tuttavia alcun frutto, per quanto ossequiosa fosse stata la risposta del maestro di camera. Due anni dopo, nel luglio del 1584, con l'occasione della vacanza di un canonicato della basilica di San Lorenzo in Damaso, sia Farnese che Caetani, in concorrenza per la collazione, se la dovettero vedere con lui, che mise in mezzo persino il figlio del papa, Giacomo Boncompagni, per soffiarla ai due litiganti come il terzo del proverbio. In quanto titolare di quella basilica e vicecancelliere della Chiesa, Farnese ebbe partita vinta e riuscl a strappare il canonicato per il suo segretario Francesco Lino, ma fu uno scontro all'ultimo sangue e solo per un pelo riuscl a vincerlo. Di un personaggio così noto nella corte di Farnese, che aveva avuto a che fare con lui fino a pochi mesi prima, nell'ottobre del 1586, Pietro, sempre preciso e bene informato in tutti i riferimenti a fatti e persone ·contenuti nelle sue lettere, non poteva ignorare di sicuro il nome esatto e la carica ricoperta nella famiglia di Gregorio XIII: la deformazione dell'uno e la sostituzione dell'altra erano dunque intenzionali 7 •

4 Illustrissimo et. Reverendissimo mosignore. et. patron. mio sempre osservandissimo

Io. erngrasiate. io. laute. sabone. Bolohnia. sexi. cossa. Vostra. Signoria. Illustrissimo. io. sabute. a. Vostra. Signoria. comandato. furbo. bala. legnia. messe. marzo. di. passato. die. 17. Bolognia. a. Vostra. Signoria. assiste. letra. mio. et. a. Vostra. Signoria. io. assiste. lettra. a. Vostra. Signoria. Illustrissimo. et. papi. Sixsto. V. andato. Santi. Apostolu. tutte. cardinali. et. Farnesi. andato. fore. di. Roma. die. bella. giardino. dil. papa. fontana. ventucio. Ca-

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zarolle. terra. cardinali. Colonia. et. a. Vostra. Signoria. Illustrissimo. mandato. sabone. palle. di. Bolognia. a. madama. di. Urbino. dove. Graduli: et. signore. Lodario. Conte. andato. Venetia. Ancona. permale. Venetia. di. paciolimano. racomanda. sempre. di. felice. di. conserva. di. Roma. adi. primo. di. maggio. mile. civicento. ontanta. sette. Di. Vostra. Signoria. Illustrissimo. tutto. Vostro. amorevole. humilissimo. servitori. a. Vostra. Signoria. Pietro. Verderame.

Illustrissimo e Reverendissimo monsignore e padron mio sempre osservandissimo

Io ringrazio Vostra Signoria Illustrissima di aver avuto le sei saponette da Bologna. Ho saputo il 17 passato cosa ha ordinato Vostra Signoria Illustrissima a Bologna, dopo che le è stata letta la mia lettera, contro il furbo profumiere che nel mese di marzo ha dato a Vostra Signoria le palle· di legno. Poco dopo ho assis.t;ito alla lettura della lettera di Vostra Signoria Illustrissima. Il papa Sisto V si è recato nella chiesa dei XII Santi Apostoli, accompagnato da tutti i cardinali e approfittando della bella giornata, si è trasferito poi nel suo giardino, per inaugurare le fontane e i giochi idraulici messi in opera, usando l'acqua Felice che aveva fatto venire da Zagarolo, terra del cardinal Colonna. Farnese è andato fuori Roma e ha mandato le palle

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di sapone, inviate da Vostra Signoria Illustrissima da Bologna, a madama la duchessa di Urbino, che si trova a Gradoli. Il signor Lotario Conti è andato a Venezia per la via di Ancona, da dove proseguirà per mare verso Venezia. Le bacio le mani, mi raccomando sempre alla sua grazia e prego Dio che la conservi felice. Di Roma, adì primo di maggio 1587 Di Vostra Signoria Illustrissima Tutto Vostro amorevole umilissimo servitore di Vostra Signoria Pietro Verderame. Avvisi di Roma (BAV , Ur b. L a. t 1055 , cc. 161 v, 167r, 23or)

29 aprile 1587: Lunedì sera Farnese andò a Grottaferrata a dare il possesso di quella abbadia a donn'Odoardo suo nipote. 2 maggio 1587: Iermattina il papa in lettica accompagnato dalli cardinali palatini et da quelli di Borgo a cavallo si trasferì da palazzo alla chiesa di Santi Apostoli alla messa cantata dal Cardinal Azzolino per l'annuale coronatione di Sua Santità, la quale anca in quell'istesso monastero si fermò a pranzo et passò di là ad un pezzo al suo giardino. 29 aprile 1587: Andarà il Papa a Zagarolo la settimana che viene per veder quell'acqua che designa di comperare, havendo pagata quella _Felice al signor Martio Colonna per 25 mila ducati, che già tre giorni gli furono sborsati. (Attilio Malegnani al duca di Mantova in L.v. Pastor, Storia dei papi, X, Roma 1928, p. 603).

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3 giugno 1587: Nostro Signore fece sborsare 10 mila scudi al cardinal Colonna et il Popolo Romano di tanti altri ha dato assegnamento al signor Martio nipote di Sua Signoria Illustrissima per l'acque che hanno concesso a benefitio di Roma, che scaturiscono nel loro stato, con perdita di quel commodo delle moli che macinano il grano.

Papa Sisto aveva fatto venire da Zagarolo, feudo di Marzio Colonna, fratello del cardinale Marcantonio, l'acqua che da lui prese il nome di Felice. In primo luogo l'aveva destinata alla sontuosa villa Montalto che stava facendo costruire nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore, per donarla alla prediletta sorella Camilla Peretti. Le fontane e i giochi d'acqua che l'adornavano furono celebrati in versi e in prosa da vari letterati, fra i quali primeggiò con la sua Perettina, quello stesso Aurelio Orsi, servitore del cardinale Alessandro, che aveva cantato in precedenza le meraviglie del palazzo Farnese di Caprarola, dotato anch'esso di splendidi giardini ricchi di fontane e giochi d'acqua. Come al solito, Pietro aveva raccolto le sue informazioni orecchiando fra i cortigiani di Farnese 8 • La sorella del cardinale Alessandro, Vittoria Farnese, sposa di Guidobaldo Della Rovere e quindi duchessa di Urbino, dall'ottobre del 1585 si era trasferita nel palazzo farnesiano di Gradoli, dove soggiornò fino al marzo del 1588, quando rientrò a Pesaro 9 • Di questo viaggio di Lotario Conti, parente e cortigiano di Farnese (figura infatti anch'egli nel ruolo della sua famiglia), non ho potuto trovare alcuna conferma. Va tenuto presente comunque che il fratello di lui, Carlo, era vescovo di Ancona ed era naturale che Lotario passasse a visitarlo 10 •

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5 Illustrissimo. et. Reverendissimo. signore. patron. mio. osservandissimo. salute. A. Vostra. Signoria. strova. medaglia. nova. papi. Pio. V. et Sixsto. V. mandato. de qua. et. dixci. Lancilotto. dixci. bucca. perche. venire. Vostra. Signoria. Illustrissimo. Caprarola. messe. settembre. et. io. nonevere. io. sapute. messe. ottobre. dixci. lui. vere. et. die. di. racomanda. di. pasiolimano. Vostra. Signoria. Illustrissimo. di. Caprarola. adi. 18. di. settembre. 87. di. Vostra. Signoria. Illustrissimo. et. Reverendissimo. io. mandato. bando.. a. Vostra. Signoria. et. signore. Rodamonte. volere. fare. capella. Madona. Caprarola. pintore. Samoggia. venire. Caprarola. carbone. fare. humilissimo . servitore. afette. a. Vostra. Signoria. Pietro. Verderame.

Illustrissimo et Reverendissimo signore padron mio osservandissimo salute. Vostra Signoria troverà la nuova medaglia che le hanno mandato di qua. Essa riporta su una faccia l'effigie del papa Pio V e sull'altra quella di Sisto V. Disse Lancillotto, lo disse a bocca, che Vostra Signoria Illustrissima verrà qui a Caprarola nel mese di settembre, ma non è vero, perché io ho saputo che verrà nel mese di ottobre. Egli ha ribattuto che è vero, indicando il giorno. Bacio le mani

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a Vostra Signoria Illustrissima e mi raccomando alla sua grazia. Di Caprarola, adl 18 settembre 1587 Di Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima [P.S.] Io ho mandato a Vostra Signoria il bando. Il signor Rodamonte vuol farsi una cappella dedicata alla Madonna a Caprarola. Il pittore Samoggia deve venire a Caprarola, per dare sull'intonaco lo spolvero del carbone. Umilissimo servitore affezionatissimo di Vostra Signoria Petro Verderame

Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, cc. 398', 406r) 9 settembre: L'altra sera furono i sostituti del fiscale in banchi con gli sbirri a levare ad ognuno le pollizze delle scommesse sopra il futuro camerlengo et le autentiche et fermate da mercanti furono restituite a i patroni et !'altre dubbiose ritenute per verificarle, con ordine del governatore che in banchi passata l'hora di notte non si possa trattare se non con i lumi in mano et ognuno perse. Che i giovani inferiori di 22 anni non possino fare scommesse et che da i soli sensali si scaltrischino i maneggi di questa mala natura, solevata però dagl'intendenti per mantenere questa piazza abondante del denaro che andarebbe altrove, con gran danno di Roma se questo non si facesse. In tanto sono prigioni 4 sensali per pollizze fatte da loro con

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fraude in questo chiasso di scommesse sopra detto camerlengato. 19 settembre: E' fuori un bando che proibisce a qual si voglia stato e grado di uomini et di donne et sopra qual si voglia accidente futuro il fare scommesse sotto pene diverse, secondo la qualità delle persone et con ordine che quelli che averanno dato fuora cedole o fatto castelletti in negotio simile debbano denuntiarle al capo notaro del governatore con le forme et le promissioni con le quali serano loro uscite di mano 5 giorni dopo la pubblicatione di questo bando et di quelle che le fossero venute di fuori. Et dopo la publicatione di questo editto per avertimento del governatore al papa che le tolerava per gioco della plebe et per utile della piazza, sono stati alcuni che hanno offerto 40 mila scudi per erigere di questi un ufficio et si possino fare come prima delle scommesse, levando però da questa pratica tutte quelle cose che rendano scandalo et danno con occulta fraude et paghino quelli che vorranno entrare in questo ballo un tanto per ogni mutatione et alteratione che si farà in tal maneggio. Sisto V aveva fatto coniare questa medaglia in onore del papa dal quale tanti benefici aveva ricevuto e in primo luogo la nomina a cardinale. Lancillotto Biancardo era un cameriere di Farnese. Il cardinale Enrico, che aveva acquistato la carica di camerlengo il 10 settembre, doveva rientrare a Roma per prenderne possesso: il 26 ottobre ottenne dal papa l'autorizzazione a tornare e solo nel novembre lasciò Bologna. Pietro era dunque meglio informato di Biancardo 11 • Il bando era stato pubblicato il giorno prima, 17 settembre, per proibire le scommesse sulle nomine dei cardinali e sull'assegnazione delle cariche ecclesiastiche. Questo delle scommesse

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era il gioco preferito dai Romani che vi puntavano anche somme considerevoli, alimentando un grosso giro di malaffare, in cima alle preoccupazioni del governatore della città. Pietro mandò il bando a Caetani, perché erano state proprio le scommesse sul suo camerlengato a provocarlo 12 • La cappella del nano Rodamonte nella chiesa di Santa Maria della Consolazione a Caprarola esiste ancora. Fino ad ora non mi è riuscito però di identificare il pittore che l'affrescò. Lo spolvero del carbone in polvere sul cartone che prefigurava l'affresco sulle pareti e sulla volta, era il più importante preliminare all'esecuzione della pittura 13 •

6 Enrico Caetani a Pietro Verderame (minuta) [Bologna] XI di marzo 1587 Illustrissimo Signor Pietro Verderame Voi vi portate tanto bene con me in darmi avviso delle cose di Roma che per questa estate voglio supplicare Monsignor Illustrissimo Farnese che vi lasci a Roma per dar conto a Sua Signoria Illustrissima et a me di tutto quello che occorre. Mi è dispiaciuta la morte di Nasone et me rallegro che Celio sia fatto predicatore. In ricompensa · delli Vostri avvisi vi mando una scatola di balli di Bologna, ma vi avverto che non ve ne serviate a mal uso, visitando con questa occasione Fiora alla Traspontina. Scrivetemi spesso et salutate Rodomonte da parte mia.

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1. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Roma 2 aprile 1587


2. Pietro Verderame a Enriço Caetani, Roma 2 aprile 1587 (esterno della lettera)


3. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Roma 16 aprile 1587


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,40<;(71~ ,, _ 4, Pietro Verderame a Enrico Caetani, Roma 17 aprile 1587 (esterno della lettera datata 16 aprile)


5. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Roma 1 maggio 1587


6. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Roma 1 maggio 1587 (esterno della lettera)


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7. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Caprarola 18 settembre 1587


8. Pietro Verderame a Enrico Caetani, Caprarola 18 settembre 1587 (esterno della lettera)


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Costantino Guidi a Enrico Caetani Roma 18 aprile 1587 Al sudetto uffitio si trovò presente il Signor Pietro Verderame il quale ha Vostra Signoria Illustrissima in tanto buon concetto che non se gli può in nessun modo far credere ch'ella abbia saputo l'inganno delle palle di sapone o di legno et essendogli stato detto che Vostra Signoria Illustrisima ha fatto metter prigione il profumiere e che gli ha fatto dare tre tratti di corda, sgrigna con un piacere grande e dice, beh, non vi diceva io che il Signor cardinale Caetano non ne haveva saputo niente? Il Signor cardinal Farnese et i suoi gentiluomini se ne son presi e pigliano tanto spasso che la festa dura tuttavia.

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Don Antonio Buzio cappellano del cardinale Altemps al cardinal Caetani legato di Bologna. Roma, 9 maggio 1587 (ACR, Fondo generale, alla data) Prego Vostra Signoria Illustrissima con l'occasione di darle queste nuove, vagli favorirmi di far chiamar a sé messer Giov. Battista suo buffone e dirle per amor mio che come prattico di quest'arte voglia esser contento star su l'aviso come le capita a le mani qualche buon compagno e buffone inviandolo alla volta di Roma, che se le darà

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molto buon recapito, ma avvertisca sopra tutto che le piaccia il formaggio parmigiano, il che tornerà comodo anco a lui, poiché le ne lasserà miglior parte, restando solo alla distributtione di tal formaggio, et Vostra Signoria Illustrissima mi farà questa gratia che le ne restarò con obHgo. Di Roma alli 9 di maggio 1587. Di Vostra Illustrissima et Reverendissima Signoria humilissimo servitore don Antonio Buzio

Il nome di questo buffone del cardinale Enrico Caetani si trova registrato, fra gli aiutanti di camera, nel ruolo della sua famiglia, datato 13 gennaio 1590, dopo che era rientrato da qualche anno a Roma dalla legazione di Bologna. Si chiamava Giovanni Battista Grana, ma è dubbio che Grana fosse un vero cognome. Con tutta probabilità si trattava di un sòprannome scherzoso che alludeva alla sua voracità nel mangiare il formaggio parmigiano, come la lettera di Buzio lascia intendere. Di lui non si hanno altre notizie 14 •

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Ludovico de Bianchi al granduca Ferdinando de Medici. Milano, 6 settembre 1589 (ASF, Mediceo del principato, busta 808, nn. 369 e 370) Serenissimo Gran Duca Per vendere il giaccio inviziato una mia suplicia a Vostra Altezza Serenissima con sustiranza che li sia frito galitia con una intrada da oste di mane di Vostra Altezza Serenissima la torlo a di nove a ripugnarla che la sedia in legno presa la sua buona età fermarmi tantalo favore cli negro aciarla con le forme al mio volare quattro piume in presto aciò camilo a riviera che salara un bravo a Dio piacendo possi sechare al monte dua ove interare cazziatori che sempio netaro lonbligo al tereno di Vostra Altezza Serenissima pertegando el gielo che li conza d'ogni sugo descendere con facilità e cosi un milion manente incholandomi gli onbraso le soraltissime mani. Da MiHani ali pur assai del mese seguente prossimo passada cha da vegnire l'anno che corre e non se vede. Il Dottor Gratiano Serenissimo Gran Duca Per haver di già inviato una mia supplicha a Vostra Altezza Serenissima con speranza che gli sia fatto gratia con uno ita est di mano di Vostra Altezza Serenissima la torno di novo a ripregarla che si degni per sua bontà farmi tanto

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favore di negociarla conforme al mio volere quanto più presto acciò che al mio arrivo che sarà in breve a Dio piacendo possi .sicuramente diventare cacciatore che sempre meterrò obligo eterno a Vostra Altezza Serenissima pregando il cielo che li concedi ogni suo desiderio con felicità et così humilmente inchinandomi gli baccio le Serenissime mani. Di Milano li VJ settembre 1589. Di Vostra Altezza Serenissima Devotissimo servitore Il Dottor Gratiano

10 Ludovico de Bianchi al Granduca Ferdinando de Medici. Pistoia, 21 ottobre 1589 (ASF, Mediceo del principato, busta 809, 579) Serenissimo Gran Duca mio Signore Per recar denari a Vostra Altezza Serenissima la prima messa a me fritta a Fiore di Lorenza alla tavella regulare di Vostra Altezza Serenissima di forarmi appresso a uno staro delle primicie cuccie dal peggio che se avernia da salare gli mondo ceste porche regole a trenta che gli referiscano la marmoria di merendarmela al secondo del organo e costi a correre vi do argumentando caricresendo querela ch'io Sansone orbo ligado per mia panirola dappresso

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un staro a Vostra Altezza Serenissima la quila partorirà quarto primiere semino appresso a terra l'oca in un cassone et con sequestro un milion di monte et un miglio in cane le vinte mane agli impegolando ogni facilità e continento. Per ricordare a Vostra Altezza la promessa a me fatta a Fiorenza alla tavola regale di Vostra Altezza di farmi apresentare delle prime caccie dal Poggio che se haveano da fare, gli mando queste poche righe attento che gli rinfreschino la memoria di mandarmela secondo l'ordine et così ancor io vado agumentando et crescendo quello ch'io sono obligato per mia parola d'appresentare a Vostra Altezza Serenissima, la quale portarò quanto prima, se mi appresenterà l'occasione. Et con questo humilmente megli inchino, baciandoli le invitte mani, pregandoli dal Cielo ogni felicità e contento. Di Pistoia questo dl 21 di ottobre 1589. Di Vostra Altezza Serenissima humil servo Lodovico de Bianchi da Bologna detto il Dottor Gratiano

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l1 Ludovico de Bianchi a Virginio Orsini duca di Bracciano. · Firenze, 14 novembre 1589 (ASCR, Fondo Orsini, sez. I, busta 104, n. 153) A lo Illustrissimo et Eccellentissimo Signor don Verginio Orsini ducha di Brazano mio Signore osservandissimo Eccellentissimo mio Signore Se bene fo sidi da lotenta un dente de mancho non odo a [machinare Se bene sarà di lontano niente di mancho non o da [manchare di visitare Vostra Eccellenza con queste porche pirole di visitare Vostra Eccellenza con queste poche parole e brusarli vinte mani comune io segadore del padiglione e basarli le in vite mani comè mio Signore e padrone pegolandolo a non machinare del suo liuto e furore pregandolo :a, noti manchare del suo aiuto e favore ai sochi'posinote negre la lisia cenza da resentare in Roma [con la mia caponaria acio posi otenere la Hcentia di recitare in Roma con la mia [compagnia che per Italia grasa salaro sie pare orboligado a Vostra [silencia come severo intrigho che per tal gracia sarò sempre obligato a Vostra Eccellenza [come servo anticho e cosl purgerò il gielo per la sua facilità e contra vento e cosl pregarò il cielo per la sua felicità e contento


de Fior de Lorenza ani quatorded de novembre 1589 de Fiorenza ali quatordeci di novembre 1589 Di Vostra Eccellenza umilissimo servo Lodovicho di Bianchi da Bolognia deto il dotor Graciano

Questo attore bolognese, uno dei primi a portare la maschera del Dottor Graziano, originaria del resto proprio della sua città natale, recitò per un certo numero di anni nella più celebre compagnia italiana del Cinquecento, quella dei Gelosi. Come « Lodovico de Bianchi da Bologna deto il dotor Graciaho comicho geloso » si firmò infatti in una lettera da Bologna à: Vincenzo Goniaga del 16 dicembre 1585 e ancora in un'altra da Venezia, al granduca di Toscana Francesco de Medici, del1'11 luglio 1587, continuò a firmarsi « Lodovicho di Bianchi da Bologna deto il dotor Graciano di gelosi ». Nella firma di tre lettere del 1589, indirizzate le prime due al nuovo granduca Ferdinando de Medici (del 6 settembre e 21 ottobre) e la terza, del 14 novembre, al giovanissimo suo nipote, Virginio Orsini duca di Bracciano, cade però il riferimento alla compagnia dei Gelosi, segno evidente che Ludovico non ne faceva più parte. Già nel 1585 Vincenzo Gonzaga gli aveva proposto di entrare nella compagnia dei Desiosi, chiamata anche della Diana, per via della · primadonna Diana Ponti, che meglio di tutti gli altri attori la rappresentava. A questo passo forse egli si era deciso nel 1588, visto che nel corso del carnevale i Desiosi tennero a Roma vari spettacoli anche in casa di quello stesso Virginio Orsini, al quale il comico bolognese aveva dedicato l'anno prima le sue Cento e quindìèi conclusioni in ottava rima. Se pure vi entrò, ne dovette uscire abbastanza presto, perché, quando egli giunse a Firenze tra la

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fine di ottobre e l'inizio di novembre, i Desiosi vi avevano già recitato senza di lui. Nella lettera ad Orsini lo pregò di ottenergli la licenza di venire a Roma con la sua compagnia, ma è dubbio che alludesse ai Desiosi, tanto più che Diana Ponti vi portò per il carnevale del 1590 un altro Graziano, certo Andreazzo, a quanto pare il suo amante del momento. La lettera del novembre 1589 è l'ultima traccia rimasta di questo attore, che dovette morire di Il a poco. La sua fama gli sopravvisse però di molti anni, se è vero che ancora nel 1607 uno dei maggiori comici di quel tempo, Francesco Andreini che era stato suo collega nella compagnia dei Gelosi, lo ricordò nelle sue Bravure del capitan Spavento, come il « famoso Dottor Graziano de i comici Gelosi». Famoso per le lettere comiche che egli soleva leggere sulla scena, provocando le più aperte e fragorose risate. Questa delle lettere era sicuramente la sua grande specialità, che gli valeva il massimo successo e fino al punto di indurlo a spedirle come semplici missive ai principi suoi protettori che ne ricercavano gli spettacoli. Diversamente dalle prime due, le tre del 1589 sono- inf-;tti lettere comiche, come quelle che egli doveva leggere sulla scena, sebbene ora per raggiungere l'effetto comico anche da lontano, osasse di affidarsi alla sola lettura diretta del destinatario. Il procedimento seguito nelle lettere era quello di storpiare le parole, talvolta oltre il limite che ne lasciava ancora riconoscibile il significato. La mimica che sulla scena permetteva di recuperarlo non soccorreva più in assenza dell'attore che dovette escogitare un altro accorgimento. In tutte e tre le lettere Ludovico si preoccupò infatti di aggiungere alle parole storpiate quelle di uso normale, con una sorta di traduzione che nella terza, quella a Virginio Orsini, è addirittura interlineare. Delle tre, questa è anche l'unica autografa, come si può desumere dal confronto con la lettera, priva di intenzioni comiche, indirizzata nel 1587 al granduca Francesco. Le due dirette al granduca Ferdinando, da Milano l'una e da Pistoia l'altra, risultano invece copie di originali perduti eseguite da un segre-

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tario granducale, come attesta la grafia che compare in altre lettere della stessa filza con firma e provenienza diversa. Evidentemente il ricorso alla traduzione interlineare, adottato con tutta probabilità anche in queste due, ingenerava qualche confusione e disturbava la lettura. L'augusto destinatario per garantirsi tutto intero il diletto che da essa si riprometteva ordinò allora che fossero copiate nella forma più chiara possibile. La qual cosa dovette fare uno dei suoi segretari, aggiungendo la traduzione della prima lettera in un secondo foglio e quella della seconda nello stesso. Di questo tipo di intervento fece invece a meno Virginio Orsini, che preferl affrontare da solo la lettura della lettera di Ludovico, ingegnandosi a superarne le difficoltà con le sue proprie risorse 15 •

12 Dal testamento del cardinale Alessandro Farnese, in data di Roma 22 giugno 1587 (ASR, Collegio dei notai capitolini, Notaio Prospero Campana, voi. 467, cc. 41rv) Legavit Petro Verderamo calabro eius servitori annua scuta centum donec vixerit pro alimentis et aliis necessitatibus suis in principio cuiuslibet anni persolvenda in manibus Domini episcopi Cassani et Illustrissimae Dominae principissae Bisiniani, in cuius dominio vel statu idem Pet~us dicitus esse natus. Qui Domini episcopus et principissa eadem annua scuta centum pro dictis alimentis et necessitatibus Petri consignare teneantur rogans eos ut intuitu pietatis curam huiusmodi suscipere ac prosegui dignentur. Thadeo del Forno Bononiensi antiquo eius servi-

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tori alia scuta centum annua illius vita durante prestanda legavit, cui Thaddeo ac etiam Pasquino Querceto expensas victus pro ipsis et unoquoque eorum pro suò quoque famulo donec vixerint, jure legati prestati mandavit.

Un avviso di Roma del 14 marzo 1587 segnalò la morte di Tiberio Carafa e la conseguente vacanza del vescovato di Cassano in Calabria che egli fino ad allora aveva occupato. Un altro avviso del 28 ottobre dava per sicura l'assegnazione di questo vescovato al fratello minore del cardinale Enrico. Camillo Caetani aveva già raggranellato un bel gruzzolo di abbazie, ma nessun vescovato e si capisce che cercasse di mettere le ·mani su quello di Cassano, dotato della rendita, niente affatto disprezzabile, di 5.000 scudi. Nel poscritto della seconda lettera a Caetani, Pietro lo avvertì che il fratello era andato a trovare Farnese a Palo, da dove era rientrato a Roma il 20 marzo. Che ci fosse andato, non appena aveva saputo della vacanzà di Cassano, con l'intenzione di chiedergli aiuto per farselo assegnare, appare del tutto plausibile. Alla data del testamento, 22 giugno 1587, la pratica doveva essere già bene avviata e si può supporre che il cardinale Alessandro, affidando al vescovo di Cassano una sorta di tutela di Pietro Verderame, pensasse proprio a Camillo Caetani. Tanto più che nominò il fratello maggiore Enrico suo esecutore testamentario 16 • Le cose tuttavia all'ultimo momento presero una piega di• versa e Cassano finl nelle mani di un altro prelato. Il 24 otto- · bre 1587, quattro giorni prima che l'avviso di Roma desse Camillo Caetani come sicuro successore di Tiberio Carafa, l'esule inglese Lewis Owen che italianizzò il nome come Ludovico Audoeno, si rivolse al duca di Urbino, Francesco Maria II Della Rovere, per farsi raccomandare a Biagio Cangi, il cop• piere del .papa· promosso pochi giorni prima ·maestro di camera. Cangi veniva a trovarsi cosl, rìspetto a Sistò V, nella stessa

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posizione nella quale era stato Bianchetti al tempo di Gregorio XIII. Quanto pesasse il titolare di quella carica sul papa, si vide pochi mesi dopo, quando Owen ebbe Cassano, .soffiandolo a Camillo Caetani. Il 18 novembre Cangi scrisse al duca che poteva c;ontare su di lui. Il 22 gennaio 1588 Owen stesso gli annunciò che il vescovato gH era stato aggiudicato: il 3 marzo ebbe infatti la nomina e la consegna del pallio 17 • La principessa di Bisignano, Isabella Della Rovere, era figlia di Vittoria Farnese, sorella del cardinale Alessandro e quindi sua nipote. Sposa dal 1565 a Nicola Berardino Sanseverino, principe di Bisignano, passò la vita a litigare con i] marito, un poco di buono, unicamente interessato alla dissipazione del suo immenso patrimonio. Devotissima allo zio cardinale che le fu di aiuto e conforto nei continui litigi conjugali, risiedette spesso, nei primi venti anni circa di matrimonio, nei feudi calabresi del marito, più sovente a Cassano, ma tals volta anche a Morano, Campotenese e Castrovillari. A partire dal 1583 si trasferì però definitivamente a Napoli, dove il principe possedeva due palazzi, uno a Chiaia e l'altro, l'attuale palazzo Filomarino, nel cuore della città 18 • Pasquino Querceto fu trascelto da Farnese, insieme a Pietro e a Taddeo Del Forno, fra i legatari privilegiati nel suo testamento, per evidenti motivi di particolare affezione. Non com pare nell'ultimo ruolo della sua famiglia, compilato dopo la sua morte, il 10 aprile 1589, perché con tutta probabilità a quella data era già morto. Contava tra i servitori più antichi e figura in un ruolo della sua famiglia del 1554 con la qualifica di guardarobiere. Insieme a Taddeo Del Forno e a vari altri servitori del cardinale, faceva parte della confraternita del Santissimo Sacramento del Corpo di Cristo, che si appoggiava alla basilica di S. Lorenzo in Damaso, della quale Farnese era titolare. Della confraternita, Querceto fu priore negli anni dal 1577 al 1581, e negli atti delle congregazioni era qualificato sempre · come suo ·guardarobiere 19 • 0

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13 Giufà e il cardinale

Si racconta che c'era una volta Giufà. Sua madre un giorno per levarselo di torno gli disse: vattene a caccia, vai, prendi un cardellino. Prese uno chioppo per andarsene a chiese: e come sono i cardelli, madre, io non li conosco. O bestia! Neanche sai come sono fatti i cardelli? Sono quelli che hanno la testa rossa. Giufà prese lo schioppo e se ne andò a caccia fuori porta. Cammina, cammina, giunse in una chiusa e lì che vide? Vide un cardinale che stava passeggiando. Appena si accorse che portava lo zucchetto rosso in testa, si disse: O che bel cardellone! Buhm! e gli tirò una schioppettata. Il povero cardinale cadde raggomitolato per terra senza dire una parola. Giufà allora tutto contento si carica addosso il cardellone e si . spinge con fatica verso casa. Appena arrivato, si mise a fare il diavolo a quattro: madre, madre, scendete che io da solo non lo posso portare sopra il cardello, tanto è grosso e pesante. Sua madre appena gli sentì dire queste parole, alzò la voce: meschina me! chi sa che ha fatto ... chi sa che è successo! E per la fretta ruzzola scivolando da un gradino all'altro della scala. Quando vide di che si trattava, gli prese un accidente. Che hai fatto? Anima scellerata, chi hai ammazzato? Ora ti mandano alla forca .. . e morirai ... e io resto sola e sconsolata. Come debbo fare ... A, che figlio mi è toccato in sorte. La povera madre si strappava i capelli e quasi si ammazzava. Giufà, allocchito, allocchito, le disse infine: ora, madre, mi dovete spiegare che scherzi sono questi che fate. Dunque, avendomi ordinato di andarmene a caccia e di pren-

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dere un cardello con la testa rossa, ho fatto come mi avete detto e vedo che fate un finimondo e ce ne vogliono cento per tenervL Vattene, erba vile, pane perso, anima dannata; come dobbiamo fare con questo morto? Dove lo seppelliamo? Oh che guaio che mi è capitato! E la povera madre non si dava pace e piangeva lacrime di sangue. Niente, madre mia, non si spaventi, le disse Giufà. Ora lo butto nel pozzo, gli getto sopra un po' di pietre e in un attimo non se ne parla più. Così fece Giufà. Prese il morto, lo gettò nel pozzo e poi gli lasciò cadere addosso una quantità di grosse pietre e di sassi. Poi gli venne l'idea di buttarvi sopra un castrato morto e sopra di esso ancora un altro po' di pietre e di ciottoli, tanti che il pozzo quasi si riempì. Dopo che se ne sbrigò, che pensa? Pensa di recarsi da] giudice e gli raccontò che nel pozzo del suo cortile era stato buttato un cardinale morto. Il giudice sapeva com'era fatto Giufà e gli disse ridendo: vattene, va, · sciagurato che non sei altro, va, vedi che hai da fare, va. Ma vedendo che non se ne voleva andare e ripeteva sempre, venga, venga, disse fra sé: che sarà successo? Chiamò un po' di sbirri e tutti insieme si recarono a casa di Giufà. Appena arrivati, il giudice disse a Giufà: scendi tu stesso nel pozzo e vediamo cosa c'è. Giufà scese senza esitare nel pozzo e di là sotto gridò al giudice: Signor giudice, l'acqua è diventata pietre e il morto è sopra le pietre. Allora gli sbirri legarono una coffa ad una fune e si misero a tirare su le pietre che Giufà vi metteva dentro. Dopo un bel pezzo, Giufà si mise a gridare da lì sotto: Signori miei, Signori miei, al cardinale sono cresciute le corna. Il giudice si mise a ridere e gli rispose con una disinvoltura che maggiore non poteva essere: non ti preoccupare, continua

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a levare le pietre. E Giufà continuò a levarle. Quando il castrato fu completamente scoperto dalle pietre, Giufà chiamò di nuovo: Signori, è un castrato. Il giudice allora gli rispose: sali pezzo di birbante, ho visto quanto sei sciocco, un'altra volta non ti arrischiare a fare queste cose, sai? Va a lavorare, a buscarti il pane, senza disturbare nessuno, se no ti faccio legare e ti faccio mettere in castello, vattene. Giufà restò come un allocco. Il giudice e gli sbirri se ne andarono e la povera madre, zitta, zitta, si risollevò, vedendo che il figlio era uscito dai guai come Dio volle. Favola favola non ce n'è più brutto viaggio quando fu. Questo aneddoto fu pubblicato nel 1875 in dialetto siciliano dal folklorista Giuseppe Pitré che l'aveva raccolto a Palermo, dalla viva voce di un uomo non identificato della contrada Denisinni. Fa parte del ciclo assai diffuso dello sciocco, noto in Sicilia prevalentemente con il nome di Giufà, che comprende una ventina di aneddoti. Per alcuni di essi è stata riconosciuta un'origine araba, ma non per questo di Giufà e il cardinale, registrato in Sicilia, sempre nel secolo scorso, in due altre versioni, una, pubblicata dallo stesso Pitré, raccolta a Marsala, Canta la notte, e l'altra, pubblicata da Laura Gonzenbach nel 1870 in traduzione tedesca, fra le fiabe raccolte da lei nelle provincie di Messina e di Catania. In nessuna di queste due versioni Giufà uccide un cardinale, nella prima invece un uomo qualsiasi non qualificato per il mestiere e nella seconda un pastore. Una terza versione assai più antica ricorre in una novella di Giovan Francesco Straparola. Di origine indubitabilmente folklorica, la novella contamina due aneddoti diversi del ciclo dello sciocco e a quello di Giufà che uccide qualcuno e lo butta nel pozzo ne associa un

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secondo, registrato anch'esso da Pitré in Sicilia, con il titolo di Giufà e il giudice 20 • Un giudice consiglia a Giufà, molestato dalle mosche, di scacciarle a pugni e si prende un pugno sul naso, dove si era posata una mosca. Diversamente da tutte le altre versioni folkloriche, la novella presenta lo sciocco e la sua vittima come il servo e il padrone: lo sciocco Fortunio è infatti il servo di un ricco speziale che egli uccide per sbaglio con l'intento di eliminare una mosca che gli impediva di fare la siesta in santa pace. Accortosi di avere ucciso il padrone, lo seppellisce nell'orto, butta un becco nel pozzo e al giudice che Io accusa della scomparsa dello speziale, dice che è annegato cadendo nel pozzo. Vanno insieme nel pozzo, il servo vi scende e gioca la commedia dello scambio del padrone con il becco. La novella cinquecentesca si può leggere, per questo aspetto del rapporto servo-padrone, con riferimento alla storia di Pietro Verderame, servitore di Farnese. Esattamente come vi si può collegare anche l'aneddoto di Giufà e il cardinale, per l'aspetto che la vittima dello scemo è un cardinale, come Farnese lo era. E tanto più, in quanto Farnese fu per molti anni, dal 1536 al 1573 , arcivescovo di Monreale, la sede vescovile a soli sette chilometri da Palermo, dove l'aneddoto fu raccolto. L'arcivescovato di Monreale era il più ricco della Sicilia e uno dei più ricchi di tutta la cristianità. Farnese lo tenne saldamente in mano per tutta la vita, perché ne continuò a riscuotere la rendita di ben 40.000 ducati, anche dopo averlo resignato, in base ad un accordo con il suo successore Ludovico De Torres . Pochi anni dopo la sua morte (1584), gli successe nel 1588 il nipote omonimo, che era come lo zio un cliente di Farnese, e continuò a versargli la rendita intera finché visse. Successivamente e fino alla sua morte nel 1609, dovette pagare una pensione di 10.000 ducati al pronipote di Farnese, quel cardinale Odoardo che ne aveva preso il posto nel Sacro collegio. Anche il secondo de Torres fu cardinale (dal 1606), ma completamente privo del nome e. del prestigio di Farnese che, seppure fosse stato a Monreale una sola volta nel 1568 e solo per pochi me-

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si, restò sempre in quella zona della Sicilia e magari confuso con il pronipote dello stesso nome (morto nel 1626), il cardinale per antonomasia e il più importante che in ogni tempo ne avesse goduto a lungo le immense ricchezze, accumulate nelle sterminate proprietà di quella mensa arcivescovile dal lavoro dei contadini che ne dipendevano 21 • Come il cardinale dell'aneddoto folklorico richiama Farnese, cosi Giufà, lo sciocco che uccide il cardinale, richiama per altro verso lo scemo che fu al servizio di Farnese per alcuni anni. Pietro era calabrese, dalla Calabria fu catapultato a Roma in virtù della sua stupidità e in Calabria se ne dovette ritornare dopo la morte di Farnese, com'era previsto dalla clausola del testamento in suo favore e come si può desumere dall'assenza di quasiasi sua traccia nella documentazione relativa ai suoi servitori. Il ciclo dello sciocco è ben presente nel folklore calabrese, dove esiste un perfetto omologo del siciliano Giufà che porta il nome assai vicino, come del resto le due regioni, di Juvadi. Anche i due aneddoti che si leggono associati nella novella di Straparola compaiono nella versione calabrese del ciclo: tuttavia, mentre ]uvadi e le mosche corrisponde perfettamente al siciliano Giufà e il giudice, Juvadi e il cantalanotte si discosta invece alquanto dal siciliano Canta la notte e resta solo il motivo principale, perché nella versione calabrese dell'aneddoto, Juvadi uccide Cantalanotte, scambiandolo per un volatile 22 • Il ciclo dello sciocco, presente nel folklore del secolo scorso sia in Sicilia che in Calabria, vi era di sicuro anche nel secolo XVI, visto che la novella di Straparola ne attesta l'esistenza in quel secolo e sia pure in una zona lontana dell'Italia settentrionale (la novella è ambientata a Ferrara e raccontata a Ve• nezia da uno scrittore di origine padana, com'era Straparola). Nativo di un comune del principato di Bisignano, Pietro vi aveva vissuto con ogni probabilità una prima parte, non si sa quanto lunga, della sua vita. Se egli non avesse mai avuto alcuna dimestichezza .con il suo villaggio calabrese di origine,

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non si capirebbe perché Farnese nel testamento lo raccomandi al vescovo di Cassano e alla principessa di Bisignano, con la preghiera di versargli la rata annuale del vitalizio e di tenerlo sotto la loro protezione. Il fatto che nelle cinque lettere non si possa riscontrare alcuna traccia dialettale calabrese non basta ad escludere che egli fosse radicato nella cultura contadina della sua regione di provenienza, cioè nel folklore calabrese. Egli infatti a Roma faceva lo scemo e la vicenda che la documentazione disponibile permette di ricostruire ripropone in tutta la sua ambiguità proprio le stesse coordinate culturali che animano il dclo dello sciocco. L'esclusione di ogni riferimento al dialetto calabrese si può considerare programmatica, come lo era quella di Ludovico de Bianchi rispetto al dialetto bolognese. Né Farnese né Caetani capivano una sola parola del dialetto calabrese, come i granduchi di Toscana e Virginio Orsini ignoravano ogni cosa di quello bolognese. La deformazione delle parole che li doveva far ridere non poteva coinvolgere anche i dialetti sconosciuti ai destinatari delle lettere, ad evitare il rischio di renderne ancora più difficile la comprensione e mancare l'obiettivo della comicità, assumendo un termine di confronto normale del tutto sconosciuto. Sia comunque ben chiaro: il rapporto di Pietro con Farnese non può identificarsi con quello di Giufà e il cardinale. Nel folklore le persone storicamente identificate perdono i connotati personali e spariscono come tali, restano solo i ruoli: il servo e il padrone, lo scemo e il sapiente, il più debole e il più forte. Fra l'aneddoto folklorico e la storia vissuta da Pietro a Roma c'è dunque solo un rapporto di perfetta simmetria che riguarda unicamente i ruoli. Pietro serviva Farnese e lo faceva ridere facendo lo scemo. Giufà fa lo scemo anch'egli e in quanto tale uccide il cardinale. Lo scemo, vuol dire l'aneddoto, è tale solo in apparenza e dentro la sua stupidità si nasconde l'astuzia che il più debole si guarda bene dall'esibire, avendo imparato quanto sia pericoloso. Se ne serve però al momento opportuno, come unica arma di ritorsione contro il più forte.

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Lo scemo tanto dileggiato arriva cosl ad uccidere, ad uccidere persino il padrone che lo paga per dileggiarlo.

14 Taddeo Del Forno al cardinal Caetani. Roma, 16 aprile 1587 (ACR, Fondo generale, alla data) Illustrissimo et Reverendissimo Signor padron mio colendissimo La benignità di Vostra Signoria Illustrissima è cosl grande, che mi dà ardire di ricorrer da lei per favori et gratie in ogni occasione et particolarmente a beneficio de' miei. Però havendo messer Francesco Bussato una lite con messer Ferino di Alcento per conto di un legato di 400 scudi fatto da messer Battista del Cento alle sorelle di detto messer Francesco; vengo con l'humiltà che devo a supplicar Vostra Signoria Illustrissima che si degni haver per raccomandato esso messer Francesco et le povere sorelle, che sono da marito, et favorir in modo la buona giustitia loro che dal detto messer Ferino gli siano pagati li 400 scudi. Che oltre farà opera di molto merito appo il Signore Dio, io le ne resterò in singolarissimo oblego, et baciandole riverentemente le mani, prego a Vostra Signoria Illustrissima da Sua Divina Maestà ogni felicità et contento. Di Roma li 16 di aprile 87.

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Di Vostra Signoria Illustrissima et Reverendissima

Devotissimo et obligatissimo servitore Thadeo Forni alias Rodomonte. Taddeo Del Forno, ricordato da Farnese nel suo testamento tra i legatari privilegiati con il vitalizio di cento scudi annui, è il vero nome di quel Rodomonte che Caetani mandò a salutre nella lettera a Pietro Verderame dell'll marzo 1587 e che Pietro ricordò nella sua ultima a Caetani per la cappella che si stava facendo affrescare a Caprarola. L'ultimo ruolo della famiglia del cardinale Alessandro del 10 aprile 1589, che gli assegna la qualifica ufficiale ma non priva di risvolti scherzosi di capocaccia, rivela anche che era un nano, dotato come Pietro di un famiglio. Originario di Bologna, serviva Farnese da quasi mezzo secolo: in una lettera del 1583 al reggimento della sua città, egli scrisse che gli era « servitore di 40 et tant'anni ». Un nano di Bologna, sicuramente Taddeo Del Forno, figura infatti in una lista di pagamenti datata 27 dicembre 1540. Successivamente compare nei ruoli superstiti della famiglia del cardinale del 1541, 1544, 1554, 1560, 1561, 1562. Farnese era intervenuto più volte, su sua richiesta, presso le autorità bolognesi per tutelare gli interessi suoi e dei suoi parenti. Nell'aprile del 1579 chiese un intervento in favore di certi suoi nipoti. Nel febbraio del 1581 si rivolse all'ambasciatore bolognese a Roma, Camillo Bolognetti, per sollecitare la riscossione di un credito che egli vantava. Il 10 agosto 1583 e il 30 maggio 1584, scrisse al Reggimento di Bologna per fargli restituire il godimento di certe esenzioni che al nano erano state concesse durante il pontificato di Paolo III. Il 17 dicembre 1586 scrisse infine a Caetani per raccomandargli un suo parente che doveva recuperare un credito. Più tardi Rodomonte ebbe il coraggio di scrivere direttamente a Caetani e questa volta si trattava

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del credito che doveva riscuotere un altro suo parente. Stando a quanto egli stesso dichiara in questa lettera, si era rivolto già altre volte al legato per chiedergli di favorire i suoi parenti bolognesi, ma non è chiaro se alluda ad altre sue lettere o non invece a quella precedente del suo padrone 23 •

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Avvisi di Roma (BAV, Urb . Lat. 1057, c. 213V, 15 aprile 1589) Tra le tante allegrezze di nozze et parentadi capita questa ridicolosa di un nano del cardinale camerlengo, che dopo aver impetrato dal padrone di esser fatto cittadino romano et cavallero speron d'oro, ha voluto dottorarsi, et cosi lunedl in casa di Cornaro, che da Carlo V hebbe privilegio di creare dottori, ricevé in casa di S.S. Ili.ma la patente di questa honorevolezza alla presenza de cardinali Caetano, Castruccio et Pinello oltre ad esso Cornaro che banchettò le Signorie loro Illustrissime con altri signori et fece dare due conclusioni da disputare super frigidis et humidis et fu letta in una poliza d'obligo del nano che prometteva a San Gregorio prossimo di rimborsare Cornaro di 10 scudi per altri tanti spesi da S.S. Ili.ma in quel banchetto necessari per tal atto . Fatta la oratione dal nano cominciò ad argomentarli contro uno sciocco bolognese già famigliare di Cesis con certi interrogatorii stravaganti, per i quali il nano, conoscendosi burlato volse andarsene, ma fu ritenuto sino alla fine della cerimonia con strepiti de pifferi et trombe di Campidoglio. In ultimo fu fatta usci-

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re di sotto una tavola una buona troppa de nani a ringratiare i cardinali del favore fatto ad uno della loro natione et sopra questo addottoramento furono composti epigrammi ridicolosissimi. Accompagnato il nano a casa li fu necessario dare la mancia alli tamburri che l'aspettavano, oltre ad 80 para de guanti di musco et ambra che haveva donati prima. [Commento di altra mano:] In somma questo cardinale si dà con l'arte della buffoneria a tutta passata a cercare di guadagnarsi amici per voler anco lui esser papa. (c. 21Y).

Avvisi di Roma (BNF, Magl., XXIV, 17, c. P) Di Roma li 14 d'aprile 1589 Diede martedì mattina il cardinale Cornaro sontuoso banchetto a quanti nani sono in Roma, con occasione d'essersi addottorato in canonico il nano del Signor cardinale Caetano, al quale esso Cornaro diede i punti, sopra i quali si diportò valentemente.

Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, c. 400\ 12 settembre 1587) Giovedì mattina il maestro di camera di Nostro Signore s'adottorò in iure canonico volendo dire qualche cosa queste lettere così fresche in persona sua et il medesimo fece

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nella Sapiènza Mons. Biagio coppiero di Sua Beatitudine, il che fu causa di far perdere in banchi parecchi danari all'arcivescovato di Cosenza per uno di loro.

Avvisi di Roma (BAV, Urb. Lat. 1055, c. 430V, 3 ottobre 1587) Nostro Signore riconoscitore di tutti quelli che l'hanno servito ha creato cavaliere speron d'oro il suo bottigliero, con dono di un cavalierato lauretano et d'una colonna d'oro.

Il cardinale Enrico Caetani, rientrato ormai a Roma sin dal novembre del 1587 per prendere possesso della carica di caniedengo, era proprio un burlone impenitente. L'alta onorificenza di cavaliere dello Speron d'oro che equivaleva alla concessione dela nobiltà, era stata conferita da Sisto V al suo bottigliere Filippo Piscina 24 e il dottorato in diritto canonico al maestro di camera Annibale de Paoli, nominato di ll a poco vescovo di Cervia 25 e al coppiere Biagio Cangi che gli succederà nella carica di maestro di camera. Queste nomine che elevavano persone di modesta estrazione ad una condizione altamente considerata suscitarono nel nano un ben comprensibile appetito. Perché non tentare di ottenere dal potente cardinal camerlengo qualcosa di rilevante che lo potesse riscattare in qualche modo dalla condizione tanto bistrattata di nano? Per ciò che riguarda il dottorato in diritto canonico sul quale finì per concentrarsi, doveva sapere che non comportava studi regolari e preparazione specifica e si poteva concedere come

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una semplice onorificenza, come lascia intendere del resto l'avviso urbinate del 12 settembre. Per questo egli lo chiese a Caetani e pensava probabilmente di non avanzare neanche una pretesa eccessiva, visto che il dottorato si poteva considerare un ripiego, rispetto al cavalierato dello Speron d'oro che innalzava addirittura alla nobiltà, cosa palesemente esagerata per un nano. Caetani non volle mettere in mezzo il papa per ottenerlo alla Sapienza e preferl rivolgersi al collega Federico Corner, munito di un privilegio imperiale che lo abilitava a rilasciarlo 26 • La richiesta del nano fu colta a volo per ordire una burla ai suoi danni in combutta con alcuni altri cardinali, tutti nominati da Sisto V in seconda promozione insieme a lui 27 • Gli fu proposto un tema per una dotta dissertazione che gli fu chiesto di pronunciare nel corso di un'apposita cerimonia in casa di Corner. L'orazione, recitata dal nano con tutta la necessaria compunzione, nascondeva un'insidia che egli riuscl con tutta probabilità a schivare, magari con l'ausilio di un dotto compiacente adeguatamente compensato. Si trattava del tem'l super frigidis et humidis, assegnatogli con evidente riferiment0 alla teoria del sonno, enunciata da Aristotele, che nel trattatello De somno et vigilia (457a), compreso nei Parva naturali,1, tirava in ballo proprio i nani, che accusava di essere dei gran dormiglioni per via della testa troppo grossa rispetto al corpo, nella quale affluivano con facilità i vapori provocati dalle correnti umide non sufficientemente ostacolate da quelle fredde. I due avvisi assicurano che a proporre l'argomento fu Corner, ma il dotto della combriccola capace di architettare uno scherzo del genere era invece Domenico Pinelli, noto per la sua vasta dottrina, largamente attestata del resto dal catalogo superstite della sua ricchissima biblioteca. In essa figurano oltre ad una edizione dei Parva naturalia di Aristotele anche il trattato del medico Giovanni Argenteria che si occupa della questione 28 • Ma chi era questo nano? Dai due avvisi è dichiarato servitore di Caetani, ma nei ruoli della sua famiglia e in nessun al-

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tro documento del suo archivio c'è mai traccia di alcun nano. / E' possibile che fosse Rodomonte, a giudicare almeno da certi indizi. Anzitutto egli non era romano, ma nativo di Bologna e questa circostanza concorda con la notizia dell'avviso urbinate che il nano cominciò a chiedere a Caetani di fargli ottenere la cittadinanza romana, un riconoscimento onorifico assai elevato che si tributava a forestieri di gran merito che ne avessero fatto solenne richiesta, come Michelangelo e Tiziano e da ultimo Montaigne che tanto brigò nel 1581 per averlo 29 • L'avviso poi riferisce che dopo l'orazione intervenne un ex famigliare bolognese del cardinal Pier Donato Cesi (morto nel 1586) , predecessore di Caetani (1580-1584) nella legazione di Bologna 30 , che lo apostrofò con domande strampalate, probabilmente del genere di quelle rivolte da Ludovico de Bianchi al granduca Ferdinando e a Virginio Orsini. Che fosse stato chiamato proprio un buffone bolognese ad interloquire con gli spropositi tipici della tradizione comica di quella città, caratterizzata dalla maschera del dottor Graziano, dottor di leggi per l'appunto, fa pensare che anche il nano fosse di là, come lo era Rodomonte, sempre preoccupato di favorire i tanti parenti che vi aveva lasciato. Dopo la morte del cardinal Farnese (2 marzo 1589), Rodomonte era rimasto senza padrone e i suoi ben documentati rapporti con Caetani, parente amico ed esercutore testamentario di Farnese, lasciano supporre che egli possa averlo scelto come padrone ideale, visto che quello reale era venuto a mancare. La sua morte pose subito l'esigenza imperiosa di licenziare la maggior parte dei suoi fin troppo numerosi servitori, ai quali non si poteva più provvedere con le sue entrate, assicurate in prevalenza da prebende ecclesiastiche passate subito in altre mani. Già nello stesso mese di marzo i funzionari farnesiani si posero il problema e il duca Alessandro, principale erede dello zio cardinale, e capo della famiglia, mandò dalle Fiandre, dove risiedeva al servizio spagnolo, istruzioni precise per licenziare i più e mantenere al servizio del figlio Odoardo,

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di soli 15 anni ma destinato a succedere al prozio nel Sacro Collegio e obbligato per questa ragione a continuare gli studi a Roma, solo un piccolo gruppo dei tanti che componevano la famiglia del defunto 31 • Sebbene nei cinquant'anni trascorsi al servizio del cardinale Alessandro avesse messo da parte una discreta rendita, Rodomonte in verità gli era molto affezionato per essere egli stato con ogni verosimiglianza il compagno di giochi della sua infanzia romana. Nell'ottobre del 1589 Rodomonte risulta risiedere a Roma agli stipendi del duca Alesandro 32 e non fu quindi licenziato. Ma fino al luglio di quell'anno non si era ancora deciso chi dovesse restare e si capisce che nell'aprile l'ansia di perdere il posto dovesse essere fortissima, tanto più che il 10 di quel mese Odoardo era partito per Parma e non c'era a Roma neanche lui per poterlo rassicurare. I nani al servizio di Farnese al momento della sua morte erano due: oltre a Rodomonte, il ruolo della sua famiglia segnala infatti « Monsignor Decolin nano» , un savoiardo ricordato anche da altre fonti, al quale era stato affibbiato il ruolo scherzoso di Monsignore. Questo secondo nano di Farnese morì nel 1600 e nel libro dei morti della parrocchia di San Lorenzo in Damaso venne registrato alla data del 20 febbraio, come « il molto reverendo Sig. Francesco Colem savoiano, nano dell'Illustrissimo Montalto » 33 • Il cardinal nepote di Sisto V, al quale subito dopo la mar.te di Farnese lo zio assegnò la carica particolarmente lucrosa di vicecancelliere della Chiesa con l'annessa residenza nel palazzo della Cancelleria, ne ereditò anche uno dei due nani, entrato evidentemente al suo servizio, sempre con il ruolo comico di prelato che l'accompagnò fin nel libro dei morti della parrocchia annessa al palazzo della Cancelleria, dopo essere statò licenziato dai Farnese. Le richieste rivolte dal nano a Caetani potrebbero nascondere dunque il desiderio di continuare a godere della sua protezione, in vista di un eventuale passaggio al suo servizio, nel caso che çon i Farnese le cqse finissero per mettersi male.

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In conclusione, anche se non può considerarsi sicura al cento per cento, l'identificazione del nano burlato da Caetani con Rodomonte appare per tutte queste ragioni molto probabile.

Note 1 A. GARDI, Il cardinale Enrico Caetani e la legazione di Bologna (1586-1587), Roma 1985, p. 14; G. CAETANI, Domus Caietana, II, Sancasciano 1933, pp. 324 ss.; A. cozzr BECCARINI, La cappella Caetani nella basilica di Santa Pudenziana in Roma, in « Quaderni dell'Istituto di storia dell'architettura», XXII (1975), p. 156. 2 Su Pompeo Della Valle, Avvisi di Roma, in BAV, Urb. Lat. 1053, c. 422r (7 sett. 1585); ASR, Tribunale del governatore, Processi del secolo XVI, busta 198 (settembre-ottobre 1585), cc. 32Qv.327v, 371r.373r; ASV, Fondo Della Valle-Del Bufalo , busta 141, Libro dei conti di Valerio Della V alle, alle date dal 10 al 28 febbraio 1587; busta 36 {lettere del cardinale Alessandro a Valerio Della Valle del luglio-novembre 1587). 3 G.V. GULIK-C . EUBEL, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, III, Monasterii 1928, p. 269. 4 Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinale Farnese di felice memoria per tutto li 10 d'aprile 1589, in ASN, Fondo Farnesiano, busta 1849, C. 2v. 5 Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinal Farnese ... , cc. 2r-v; P. UGONI, Historia delle stationi di Roma che si celebrano la quadragesima, Roma 1588, c. 286v e ss. 6 G. GAETANI, Caietanorum genealogia, Perugia 1920, p. 74; Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinal Farnese ... , cc. 2r, Jr (oltre a Giovanni Antonio, gli altri tre Orsini erano Antonio, Alessandro e Fulvio); per Altemps, Dizionario biografico degli italiani, II, Roma 1960, pp. 551 ss. 7 L'assegnazione del canonicato di S. Pietro a Biagio Cangi fu annunciata da lui stesso, in una lettera ad Annibale di Capua del 28 aprile 1587, pubblicata da J.W. wos, Annibale Di Capua, Roma 1984, p. 103. Per i rapporti di Bianchetti con Farnese, ASP, Carteggio farnesiano estero , buste 391 (8 ott. 1581), 395 (22 ag. 1583), 396 (12 febbr. 1584), 402 (22 genn. 1586), 404 (20 òtt. 1586). Per i rapporti con Caetani, ACR, Fondo generale, 14, 15, 16, 17 ag. 1582; 10 genn. e 23 sett. 1583; 19, 22, 27, 29 luglio e 18 ag. 1584. Per l'attribuzione del canonicato a Francesco Lino, ASVR, Capitolo di S. Lorenzo in Damaso, n. 20, cc. 20v. 21r (21 luglio 1584; n. 232 (9 gennaio 1586). 8 c. MASSIMO, Notizie istoriche della villa Massimo alle terme Dio-

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cleziane, Roma 1836, pp. 100, 137, 143, 148 ss.; M. QUAST, Die Villa Montalto in Rom. Entstehung und Gestaltung in Cinquecento, Miinchen 1991, pp. 73 ss.; Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinal Farnese ... , c. 3'; 1. FALDI, Il palazzo Farnese di Caprarola, Torino 1981, pp. 28,271. 9 M. ROSSI PARISI, Vittoria Farnese duchessa di Urbino, Modena 1927, pp. 118 55. 10 Stato della casa dell'Ill.mo sig. Cardinal Farnese ... , c. 2'; Dizionario biografico degli italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 376 ss., 446 ss. 11 E. MARTINORI, Annali della zecca di Roma, Sisto V , Roma 1919, p. 41; Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinal Farnese ... , c. 2v; GARDI, Il cardinale Enrico Caetani, pp. 61 s. 12 Bando sopra le scommesse, Roma 17 settembre 1587, in Biblioteca Casanatense di Roma, Editti, II, p. 203 . 13 s. MASCAGNA, Caprarola e il palazzo Farnese, Caprarola 1982, pp. 152 ss .; Enciclopedia universale dell'arte, XIII, p. 731. 14 ACR, Fondo generale, 1590, Libro di conti, c. 13'; 1591, cc. 42r_43v, 15 La lettera a Vincenzo Gonzaga è stata pubblicata da s. UGHI, Di Ludovico de' Bianchi e dei comici Gelosi, in Biblioteca teatrale, 10-11 (1974), pp. 184 ss. La lettera del 1587 al granduca Francesco e le due del 1589 al granduca Ferdinando si conservano in ASF, Mediceo del principato, Carteggio universale, filza 788, n. 321; filza 808, nn. 369, 370, 371 e sono state pubblicate da A. D'ANCONA, Origini del teatro italiano, II, Torino 1891, p. 447 la prima, da A. BARTOLI, Scenari inediti della commedia dell'arte, Firenze 1880, p. CXXII la seconda, da L. RASI, I comici italiani, I, Firenze 1897, p . 405 la terza. La lettera a Virginio Orsini, . ancora inedita, si conserva in ASCR, Fondo Orsini, sez. I; busta 104, n. 153. Il testo delle Cento e quindici conclusioni è stato ripubblicato con commento adeguato da G. ROMEI in F . MAROTTI-G. ROMEI, La commedia del!'arte e la società barocca. La professione del teatro, Roma 1991, pp. 125 ss. Le vicende di Ludovico tra Gelosi e Desiosi si ricostruiscono sulla base delle indicazioni documentarie fornite da D'ANCONA, Origini, II, pp. 489 ss. integrate da Avvisi di Roma, in BAV, Urb . lat. 1056, cc. 74', 84' e Avvisi di Roma, in ASF, Mediceo del principato, filza 4027, cc. 204', 223r-v_ Emilio de Cavalieri a Virginio Orsini, 5 ottobre 1589 in ASCR, Fondo Orsini, sez. I, busta 104, n. 342; F. ANDREINI, Le bravure del capitan Spavento, Venezia 1607, p. 35. 16 Avvisi di Roma, in BAV, Urb. Lat. 1055, cc. 101v, 459v_ 17 ASF, Ducato di Urbino, classe I, div. G, filza CLXXVII, cc. 301', 550', 551', 552'; GULIK-EUBEL, Hierarchia catholica, III, p . 156. 18 ROSSI PARISI, Vittoria Farnese, pp. 63, 67 s., 84, 98, 111, 122 ss. ASF, Ducato di Urbino, classe I, div. G, filza CXIII. B. CROCE, Un angolo di Napoli, in Storie e leggende napoletane, Bari 1923, pp. 22 ss. 19 F. BENOIT, Farnesiana, II, La maison du cardinal Farnèse en 1554

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in Mélanges d'archeologie et d'histoire, XL (1923), p. 202; ASVR, Archivio della confraternita del S.S. Sacramento del Corpo di Cristo in S. Lorenzo in Damaso, Congregazioni, I, cc. 42r, 50v, 58v. 20 G. PITRÉ, Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, a cura di A. RIGOLI, III, Palermo 1978, pp. 372-376; Sizilianische Méirchen . Aus dem Volksmund gesammelt von L. Gonzenbach , Néirdlingen 1989, pp. 202 s.; Giufà, Il · furbo; lo · sciocco, il saggio, a ·cura di F .M. CORRAO, Milano 1991, p . 28; G,F. STRAPAROLA, Le piacevoli notti, a cura di G. RUA, n ; Bari 1927, pp: 206 ss. L'aneddoto Giufà e il cardinale è stato riscritto con un'ambientazione cinquecentesca da L . SCIASCIA, Il mare colore del vino, Torino 1973, pp. 68-76. 21 GULIK-EUBEL, Hierarchia catholica, III, p. 250. Per i due De Torres, P . MESSINA, in Dizionario biografico degli italiani, 39, Roma 1991, pp. 478-483. 22 F. MANGO, La leggenda dello sciocco nelle novelline calabre, in « Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», X (1891), pp. 51 s., 54. 23 I ruoli sono in ASN, Archivio farnesiano , buste 1848 (1541), 1849 (1562), 2032 (1561), 2033 (1560), 2030 (1540) ; BAV, Barb. Lat. 5366 (1544) ; BENOIT, Farnesiana, II, p. 202. Per le raccomandazioni del cardinal Farnese; ASB, Senato, Lettere dell'ambasciatore a Roma, VII, 55 (febbraio 1581); Lettere di principi e prelati al Senato, VI, 23 (30 maggio 1584); ASP, Carteggio farnesiano estero, buste 194 (22 aprile 1579), 394 (2 luglio, 10 e 28 agosto 1583); ACR, Fondo generale, 17 dicembre 1586. 24 Per il bottigliera Piscina, BAV, Ruoli 65 , c. 40v e per il cavalierato dello Speron d'oro P.F. BERGAMASCHI , Breve notizia istorica del pontificio et imperial ordine de' cavalieri aureati o sia dello sprone d'oro ... , Torino 1695, pp. 26 s. 25 GULIK-EUBEL, Hierarchia catholica, III, p. 164. 26 Questa facoltà gli derivava dal padre Giovanni Corner che era stato nominato conte palatino, Dizionario biografico degli italiani, 29, Roma 1983, p. 216. . 27 GULIK-EUBEL, Hierarchia catholica, III, pp. 50 s. 28 G. ARGENTERO, De sommo et vigilia libri duo, Florentiae 1556, pp. 163 s. Index librorum, seu operum quae in hac Ill.mi et Rev.mi D.D. Dominici . cardinalis Pinelli bibliotheca reperiuntur die prima ianuari 1603, in BAV, Barb. Lat., 3190, p. 77 (segnala il trattato di Argentario). 97 (segnala un'edizione dei Parva naturalia, Parigi 1530). 29 F. GRÈGOROVIUS, Alcuni cenni storici sulla cittadinanza romana, in « Atti della R. accademia dei lincei», CCLXXIV (1876-77), serie terza, Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, I, pp. 314 ss. 30 A. BORROMEO in Dizionario biografico degli italiani, 24, Roma 1980, p. 264.

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31 Si veda il regesto dei dispacci da Roma del 19 e 25 marzo, 1, 3, 5, 12, 17, 19 aprile, 28 giugno, 5, 12, 19 luglio 1589, in Protocollo far- . nesiano 1586-1602, in ASP, Carteggio farnesiano interno, busta 1080, CC. 47v, 48r-v, 49v, 50', 6Jv. 32 Libro delle entrate del duca Alessandro fatto di ottobre 1589, in ASP, Computisteria farnesiana, carte non numerate. Tra i provisionati in Roma figura per due volte Rodomonte. 33 Stato della casa dell'Ill.mo sig. cardinal Farnese, cit., c. 4'; ASVR, Liber defunctorum parochiae S. Laurentii in Damaso 1591-1602, c. 37v (20 febbraio 1600).

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Lucia Megli LA SCRITIURA DI PIETRO VERDERAME


Le cinque lettere prese in esame furono inviate da Pietro Verderame al cardinale Caetani in un arco di tempo abbastanza ristretto, il 1587. Tutte quante presentano in calce la firma di Pietro. Le caratteristiche della scrittura ed anche il particolare linguaggio in esse adottato, fanno propendere per il riconoscimento di una loro autografia, tuttavia essendo queste lettere, al momento, l'unico documento scritto che possediamo del Verderame, tale ipotesi non può costituire certezza. La scrittura è una minuscola di modulo abbastanza grande, dal ductus corsivo, accentuatamente inclinata verso destra, con aste slanciate sopra e sotto il rigo, con un tratteggio fine ed uniforme, privo di chiaroscuro. Dato il suo aspetto generale, essa può essere definita senz'altro come un'italica elementare di base 1, ovvero come una scrittura che presenta forme grafiche tipiche di uno scrivente non professionista, graficamente e culturalmente collocabile a livello di semialfabetismo. Tuttavia da un'analisi più accurata si possono acquisire importanti informazioni in grado di definire meglio caratteristiche della scrittura e fisionomia dello scrivente. Se da una parte infatti sono presenti in questa scrittura elementi quali le forme grafiche usate che confermano il basso livello di alfabetismo dello scrivente, dall'altra ve ne sono altri quali la

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accentuata inclinazione, l'uso corretto delle maiuscole, l'uso notevole di legamenti, la presenza di un sistema abbreviativo e di un sistema interpuntivo, che portano ad ipotizzare una consuetudine con lo strumento scrittorio superiore a tale livello. La forma delle singole lettere è sostanzialmente quella della scrittura italica: da notare la b senza occhiello a forma di g maiuscola ~ , la e maiuscola E , la r tracciata in un tempo solo ,. e la t con asta corta e fusione dei due tratti ,- , in alternanza con fa forma f- . Caratteristica generale della scrittura è la mancanza di rotondità, resa evidente ed accentuata nelle lettere quali m, n, u, le cui aste si incontrano ad angolo acuto. L'organizzazione generale della scrittura all'interno del foglio non è priva di imperfezioni e irregolarità. Vi sono infatti frequenti ed abbastanza disordinati inserimenti interlineari, così come non sempre uniforme è l'andamento delle singole righe, ora tendenti verso l'alto, ora in senso contrario. Ugualmente difforme è il modulo della scrittura che, pur restando sostanzialmente grande presenta notevoli diversità anche all'interno della singola riga. Tuttavia la struttura della lettera, con le sue partizioni, è sempre sostanzialmente rispettata. In tutte le lettere sono infatti c_hiaramente distinguibili intestazione, corpus e .sottoscrizione. Da notare anche come tutte le lettere si aprano con un segno di croce tracciato in alto, al centro della pagina, prima dell'intestazione. Pur non presentando questa grafia alcun elemento ornamentale o di abbellimento per essa non si può neanche usare la defìnizione di « scrittura povera » « priva cioè, o scarsamente fornita, di elementi sussidiari, quali punteg-

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giattira, segni critici, abbreviazioni, simboli tecnici » e in cui « l'uso di legamenti è poco frequente e occasionale » 2 • In questo caso vi sono infatti molti di questi elementi ma spesso usati in una forma alquanto particolare. Frequenti sono i legamenti, a conferma della corsività della scrittura. Usati costantemente in tutte le lettere essi interessano spesso anche parole piuttosto lunghe:

adonato (2,2)

nomepiace (2,3)

~

~

comandato (4,3)

racomanda (5,6)

Anche se non mancano i legamenti dal basso, è da notare come sia presente in tutte le lettere una certa tendenza alla legatura in alto.

~ fatto (3,2)

tutte (3,5)

vostro (4,16)

In alcuni casi l'unione avviene tramite l'inserimento di trattini di collegamento. E' il caso ad esempio dei legamenti di s:

yr

$,I

>fJ

j(

st

so

sa

se

J1

I.

'4

k-

li

lo

li

la

e di quelli di l

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In altri casi (fra i più frequenti quelli dei legamenti di a) le due lettere vicine vengono legate mediante il prolungamento verso l'alto del tratto finale della prima:

~ al

~ ab

at

of ol

Et

ut

ot

Altre volte ancora il tratto finale della lettera viene al contrario accorciato e disposto in posizione orizzontale alla linea di scrittura per favorire l'incontro con il tratto discendente della lettera successiva:

ur or

on

om

or

Interessante il caso che si verifica nella lettera n. 5 in cui tale tendenza si estende alle stesse cifre

1587

Le abbreviazioni sono presenti in misura massiccia nel testo ma non sempre usate in modo corretto. La maggior parte di esse inoltre è costituita da una categoria molto particolare di abbreviazioni, ovvero quelle del tipo Ill.""', R.m0 , sig.'e, osse.""', V.S., che si definiscono abbreviazioni « di rispetto », molto comuni nella corrispondenza episto-

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lare e che « stanno probabilmente a significare (e anzi ad esibire) il possesso di un determinato codice di convenzioni sociali da parte dello scrivente » e il cui uso « risponde più a questa funzione che a una vera e propria funzione abbreviativa» 3 • Le abbreviazioni d'altro tipo si riducono a pochi e particolari esempi. Ricorre due volte nella stessa lettera (la n. 5) la consueta abbreviazione composta da numero più lettere per esprimere settembre (sbre); una sola volta (lettera n. 1) il segno convenzionale -a- per mezzo; una sola volta (lettera 5) vos sovrastato da lineetta ad indicare vostra; una volta kale con asta della l tagliata per kalende (lettera n. 2) . In apertura di lettera 4 si trova erigrasiate con lineetta sopra gra, unico esempio di soppressione di nasale. Vi sono inoltre due casi, ricorrenti più volte, di quello che comunemente si definisce come segno abbreviativo superfluo costituiti da san sovrastato da lineetta e da p con asta tagliata usato come finale della parola sempre. In entrambi i casi la parola è espressa per intero pur in presenza di segno abbreviativo, nel secondo caso la finale della parola (re) è soprascritta in alto a destra. In questo caso, si può tuttavia ipotizzare che non ci si trovi dinanzi ad un uso improprio dell'abbreviazione ma ad una vera e propria variante linguistica della parola sempre, ovvero semp(er)re. L'ipotesi può essere avvalorata dall'alta frequenza di simili deformazioni linguistiche nelle cinque lettere, ma non trova all'interno di esse certa conferma in quanto non vi sono altri casi in cui lo scrivente usa la parola senza segno abbreviativo. Fra le stesse abbreviazioni di rispetto sussiste una certa varietà per cui la stessa può venir espressa in varie forme riguardo alla sua componente letterale (I. mo o Ill. mo ad

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esempio per Illustrissimo) ed anche con varia collocazione del punto che la segue che in casi frequenti è posto in alto. Non mancano inoltre anche qui gli errori e le imprecisioni. La forma patromo ad esempio che si trova nell'intestazione della lettera n. 3, viste le forme ricorrenti nelle intestazioni delle altre lettere (patrmio e patromio), è da considerarsi un errore. I numeri sono espressi sia tramite cifre arabe che cifre romane: solitamente vengono compresi tra punti, quando non lo sono, sono comunque ben staccati evidenziati da spazio bianco. Il numero 1 è quasi sempre espresso con la lettera i compresa di puntino; le aste finali dei numeri sono espresse, secondo una consolidata tradizione, con ;. L'aspetto senz'altro più originale di questa scrittura è il sistema interpuntivo costituito da un unico segno, il punto, usato costantemente per separare ogni componente della scrittura: numeri, abbreviazioni, parole, si tratti pure di singole preposizioni formate da una singola lettera (.a.)

4.

Nonostante il sistema interpuntivo di Pietro paia del tutto personale ed estraneo all'uso del tempo (sulle sue origini e funzioni cfr. più avanti), vogliamo riportare un brano contenuto nei capitoli iniziali de L'arte del puntar gli scritti di Orazio Lombardelli (Siena 1585) che dimostra come, nonostante il sistema interpuntivo si andasse ormai, nella seconda metà del Cinquecento, nettamente organizzando secondo regole precise, sussistesse ancora nel campo una certa varietà e confusione di usi: « perciò che altri non segnan punto alcuno, altri la sola virgola: chi usa sempre il punto doppio, chi sempre il mezzo punto: molti, con quel, che lor cala nella penna, distinguon parola da parola, certi gli usan tutti, ma cambiando le seggie lor na-

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turali: e finalmente innumerabili sono le stravaganze che vi passano » 5 • Nella divisione mononucleare causata dalla costante separazione operata dai punti esistono tuttavia delle « apparenti » ma significative eccezioni. In alcuni casi infatti Pietro delimita con il consueto punto due o più parole accorpate insieme. Si tratta per lo più di forme verbali composte (adotta, adonato, apredicato, sfamale), o precedute da negazione (nodalto, nonavere, novolie), di articoli uniti al nome o all'aggettivo che li segue (lanova, laprimo, lepalle), di preposizioni unite alla forma successiva (adi , ame, acardinali). In alcuni casi l'accorpamento è ancora più consistente: è il caso di menispiace, nomepiace, o della formula di saluto « bacio le mani » costantemente storpiata da Pietro in tutte le lettere con diverse varianti (paciolimano, pasilimani, pasciolimane, pasiolima). Analizzando gli elementi accorpati da Pietro possiamo rilevare come i composti da lui operati (articolo-nome, forme verbali composte, preposizione-sostantivo), fossero ancora, fino almeno alla metà del Cinquecento comunemente presenti nella lingua scritta di scriventi non professionisti, e quindi sentiti da questi e dai loro interlocutori non solo possibili ma addirittura consueti 6 • La regola sottintesa dal sistema interpuntivo di Pietro, separare parola da parola, appare dunque unica e costante non messa in discussione ma anzi confermata da questi accorpamenti di parole che abbiamo visto risultano essere, nella scrittura di semialfabeti, comunemente accettate come un'unica parola. Da dove Pietro abbia tratto un simile sistema interpuntivo è abbastanza difficile dire. Un'ipotesi è che egli avendo imparato a scrivere da autodidatta una volta arrivato

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a Roma, si sia servito di uno di quei manuali di calligrafia tanto in uso in quell'epoca ed abbia esteso all'intero processo scrittorio l'uso separativo del punto, comunemente impiegato in essi per distinguere le singole lettere del1'alfabeto presentate nelle tavole iniziali 7 • Tuttavia il valore di « separazione » è talmente insito per tradizione nel punto che non c'è forse bisogno di ricorrere ai manuali di scrittura per giustificare l'uso fattone in questa sede da Pietro. E' ipotizzabile che qualsiasi individuo di bassa cultura che sa appena scrivere possa usare il punto come rafforzamento grafico di una separazione delle parole altrimenti incerta e confusa. Ma questo non è esattamente il caso di Pietro che, se non possiede una scrittura collocabile al di sopra di una elementare di base, non si può tuttavia dire che non sappia scrivere o che lo abbia fatto per la prima volta in questi documenti. Il tipo stesso di scrittura, la « consuetudine » con essa confermata da più elementi, portano a mettere in dubbio che tale sistema sia la mera trasposizione sul piano scrittorio di una reale carenza culturale e rafforzano il sospetto che esso sia piuttosto da mettere in relazione col particolare tipo di linguaggio usato e come tale contribuisca alla cosciente realizzazione di un preciso effetto comico. Risulta così avvalorata l'ipotesi che se anche all'inizio questo sistema nacque da ignoranza, presto il Verderame seppe cogliere l'effetto che tale modo di scrivere suscitava presso i potenti e seppe senz'altro sfruttarne al meglio le opportunità. Un confronto particolarmente interessante è offerto da alcune lettere, contemporanee a quelle di Pietro, del comico bolognese Lodovico de Bianchi, ben noto dottor Graziano della compagnia dei Gelosi. Alla base dello stile comico del de Bianchi c'è infatti

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un meccanismo di distorsione della lingua che è lo stesso che emerge anche nelle lettere di Pietro; tuttavia mentre Pietro opera la « distorsione » essenzialmente sulle singole parole, con variazioni minime che le rendono « diverse » ma chiaramente riconoscibili, inserite però in un contesto sintattico non sempre lineare, Lodovico invece opera su un piano di articolazione più ampio e più complesso, che pur rispettando la sintassi, coinvolge intere proposizioni. Le singole parole vengono associate o dissociate in base spesso a pure somiglianze formali o di suono (ricordare diviene recar denari, Firenze , fiore di Lorenza) tanto che la frase che ne risulta oltre a non avere alcun senso, non ha in comune con la frase-origine che una somiglianza ritmicofonetica (è il caso ad esempio di se mi si apresenta l'occasione trasformato in semino appresso l'oca in un cassone). Se nel caso di Pietro, come già accennato in precedenza, sussiste qualche dubbio sull'origine di tale gioco comico e sulla sua « naturalità » vera o presunta, in questo caso il tutto si presenta come un esercizio assolutamente razionale e razionalizzabile 8 • Lo stesso autore era pienamente cosciente che questo stile comico rischiava di fallire per eccesso di bravura e quindi preoccupandosi di una comprensione che egli per primo riconosceva esser assai difficoltosa anche per lettori di elevata cultura, il de Bianchi, come si può vedere nell'unica lettera originale in nostro possesso, con una puntuale precisione fece seguire ad ogni frase distorta quella « normale », fornendo così la chiave per decifrare il codice adoperato. Nelle altre due lettere comiche in nostro possesso, inviate al granduca di Toscana Ferdinando de Medici, si perde questa alternanza di frase-comica, frase-normale e le

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due versioni della lettera sono riportate l'una di seguito all'altra. Come dimostrato dal confronto paleografico si tratta in questo caso di due copie della stessa mano, probabilmente attribuibili ad un segretario della corte granducale 9 • La vicenda posta in evidenza dal confronto fra l'originale e queste due copie è sicuramente alquanto singolare e induce ad alcune considerazioni. Mentre nel caso del semialfabeta Pietro è particolarmente interessante proprio il ricorso in prima persona alla scrittura, finalizzato ad un uso comico di essa, nel caso del de Bianchi, persona sicuramente più colta come la stessa grafia dimostra 10 , si assiste esattamente al contrario: il gioco comico raggiunge un livello di complessità tale che necessità oltreché di una traduzione letterale anche di una « traduzione scrittoria » che riorganizzi completamente il testo rendendolo comprensibile 11 • La lettera di Rodomonte è scritta in un'italica di buona mano ed è attribuibile ad un solo scrivente in quanto non presenta neanche nella firma alcuna variazione di scrittura. Tuttavia l'individuazione dello scrivente presenta notevoli difficoltà data la scarsezza di notizie e soprattutto l'assoluta mancanza di altri documenti a firma del nano. Risulta cioè difficile in base a quest'unica testimonianza stabilire se quella della lettera sia effettivamente la sua scrittura o se al contrario essa sia stata vergata da uno scrivente professionista quale potrebbe essere uno dei tanti segretari di Farnese. Le due ipotesi sottendono due opposte implicazioni: una provata autografia implicherebbe infatti un elevato livello scrittorio del nano, mentre il provato ricorso a una delega di scrittura potrebbe lasciar sospettare al contrario un suo completo analfabetismo. In mancanza di confronti esterni, unica particolarità ri-

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levabile all'interno della lettera è la presenza di una correzione 12, elemento questo assolutamente inconsueto nell'uso scrittorio di qualsiasi segretario. Ciò potrebbe far propendere in favore dell'ipotesi dell'autografia, rafforzata del resto dalla considerazione che nel lunghissimo periodo trascorso dal nano alla corte Farnese non è per niente improbabile che egli avesse a disposizione tutte le opportunità e gli strumenti per acquisire un elevato livello di scrittura.

Note -, Per la definizione di elementare di base cfr. A. PETRUCCI, Breve storia della scrittura latina, Roma 1989, p. 24; ID ., Scrittura alfabetismo ed educazione grafica nella Roma del primo Cinquecento: da un libretto di conti di Maddalena pizzicarola in Trastevere, in « Scrittura e Civiltà», II (1978), pp. 167-168. 2 Cfr. PETRUCCI, Scrittura alfabetismo ed educazione grafica, p. 172. 3 R. MORDENTI (a cura di), Proposta di norme editoriali per la collana « La Memoria Familiare», in « Bollettino della ricerca sui Libri di Famiglia», 2-3, maggio-dicembre 1989, p. 30. 4 Ad esclusione di due casi, presenti entrambi nella lettera 4, riga n. 6 e riga n. 10, in cui Pietro Verderame usa i due punti con una funzione peraltro non diversa da quella attribuita al punto. s o. LOMBARDELLI, L'arte del puntar gli scritti, Siena 1585, parte I, cap. III, p. 23. 6 Per uno studio sui gruppi grafici in scriventi non professionisti nel Cinquecento cfr. L. MEGLI (a cura di), Studio informatico del sistema di interpunzione, in La « memoria del principio e successo delle persone di casa nostra » di Galeotto di Giovambattista Cei e di suo figlio (1100 circa-1579), III, tesi di laurea presso il Dipartimento di Italianistica dell'Università di Roma La Sapienza, a.a. 1990-91 (dattiloscritto). 7 Sui manuali di calligrafia cfr. E. CASAMASSIMA, Trattati di scrittura del Cinquecento italiano, Milano 1966. Sull'apprendimento autodidattico e sugli strumenti relativi cfr. PETRUCCI, Scrittura alfabetismo ed educazione grafica, pp. 192-193; P. LUCCHI, La Santacroce, il Salterio e il Babbuino, in « Quaderni storici», 38 (1978), pp. 593-630; ID., Leggere, seri-

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vere e abbaco: l'istruzione elementare agli inizi dell'età moderna, in Scienze, credenze occulte e livelli di cultura, Firenze 1982, pp. 101-119. 8 Tant'è vero che tale modo di espressione, di cui non sappiamo se il de Bianchi fosse l'iniziatore, dovette però senz'altro entrar a far parte per un periodo del personaggio del Dottor Graziano ·come attesta il seguente brano tratto dall'Arte rappresentativa di A. Perrucci: « Molti anni or sono s'introdusse un modo di recitar di Dottore, che stravolgeva i vocaboli, v. g. Terribil orinai per Tribunale, Amerigo frega la groppa all'Asino per dir l'America, l'Africa, l'Europa e l'Asia, e cosi si cavava la risata dal nome storpio, che da Greci si chiama Paronoma• sia: ma perché si conobbe far il Dottor da troppo semplice e balordo, si è disusato, restando questi scherzi al servo sciocco, di cui possono esser più propry » (A. PERRUCCI , Dell'Arte rappresentativa premeditata ed all'improvviso, Firenze 1961 [riproduzione dell'edizione originale, Napoli 1699], p. 199). 9 L'ipotesi qui formulata che si tratti di copie fatte eseguire dal granduca da un proprio segretario e non, come altrimenti si potrebbe pensare, direttamente dal de Bianchi, si basa sull'esistenza nella stessa filza di documenti conservati all'Archivio di Stato di Firenze di altre lettere contemporanee stilate dalla stessa mano. La diversa provenienza delle lettere inoltre costringerebbe ad ipotizzare, nel caso della seconda ipotesi, la presenza di un segretario alle dipendenze del de Bianchi, cosa questa estremamente improbabile per un attore. 10 La scrittura del de Bianchi è un'italica di buona mano che tuttavia non raggiunge l'eleganza di una scrittura pura denunciando l'origine probabilmente popolare dell'attore. 11 Ciò vale indipendentemente dal fatto che le copie siano state fatte da un segretario, o che, secondo un'ipotesi che abbiamo definito improbabile ma non del tutto da escludere, sia stato lo stesso de Bianchi a farle eseguire. 12 A riga 6 la parola sorelle è sovrascritta al precedente figlie.

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Finito di stampare il 10 aprile 1995 dalla Tipografia Don Guanella s.r.l. Roma, Via Bernardino Telesio, 4 b


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