Diario di guerra
1944-1945: pagine di memorie ritrovate
29 marzo ‘44
Nuova incursione su Torino. Un’ora in rifugio. La Fiat è in fiamme.
25 dicembre ‘44
Quinto Natale di guerra! Freddo, neve, soli in casa. Non uno spalatore in tutta Torino.
Torino, 1944. Cesare Furbatto, agente immobiliare padre di tre figli, inizia ad annotare su una piccola agenda ciò che accade in questi ultimi terribili mesi di guerra. Con uno stile incisivo e sintetico focalizza le costanti del conflitto in atto: violenza, terrore, morte, fame e freddo, mancanza di ciò che è essenziale e, nonostante tutto, volontà di resistere e sopravvivere.
Dedica questo diario alla figlia più piccola, che avrebbe voluto chiamare “Sfollatina” proprio perché, come gran parte dei torinesi terrorizzati dai continui bombardamenti, la famiglia si spostava tra la città e la provincia. Ne deriva un racconto unico e oggettivo che ci induce a riflettere sugli orrori e le drammatiche conseguenze di tutte le guerre. Il
Sommario
DIRETTORE RESPONSABILE
Lidia Brero Eandi
REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE
Linda Ferrando
PROGETTO GRAFICO
Irene Bottino
ILLUSTRAZIONI
balun, gioco di Langa
Fascino e tradizione del pallone elastico, dal Piemonte alla Liguria // Luigi Cabutto 44
Le battaglie di Lidia Poët
Prima avvocatessa d'Italia, lottò per i diritti dei più deboli // Cristina Ricci 50
L'obiettivo di Leonilda
La vita controcorrente della fotografa che "non aveva paura di nulla" // Alessandra Demichelis 56
Il bitter del signor Campari
La vera storia dell'aperitivo che ha reso famosa l'Italia nel mondo // Renzo Fiammetti 62
Il lungo viaggio dei Walser
Le antiche origini del popolo che colonizzò le Alpi sfidando la montagna // Enrico Rizzi 68 Hans Clemer, il Maestro d'Elva
I capolavori del pittore itinerante che dalle Fiandre arrivò a Saluzzo // Daniela Bernagozzi 76
Quintino Sella, abile statista instancabile alpinista
Dalle Alpi alle finanze, le scalate del biellese che risanò il Regno d'Italia // Davide Mana 82
Quando la natura invade i nomi di luogo
Erbe, fiori e arbusti nella toponomastica piemontese // Alberto Ghia 88
Dissiunari
Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato 92
Un giro in libreria // Roberto Coaloa 94 Le nostre firme e l'illustratore di questo numero 96 Fondazione Enrico Eandi
Ginger Berry Design
STAMPA
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ISSN 2611-8335 Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018. © 2022 Fondazione Enrico Eandi Tutti i diritti riservati.
CARAMBA, IL MAGO DEI COSTUMI
Dal Regio alla Scala, Luigi Sapelli rivoluzionò gli abiti di scena con luci e colori di Manuela Vetrano“Caramba!” si sentiva risuonare tra le pareti del Caffè Molinari di piazza Solferino. Questa parola spagnola – in italiano “caspita” – scandiva i racconti di un giovanotto che difficilmente passava inosservato. Piccoletto e tutto nervi, dallo sguardo penetrante e dall’outfit caratterizzato da un cappello a tesa larga, cravatta alla lavallière e panciotto variopinto, Luigi Sapelli era uno di quei bohèmien che, nella Torino di fine Ottocento, bevevano e discutevano seduti sui divanetti rivestiti in velluto rosso del “Moli”.
Ma chi era questo ragazzo che usava quella curiosa interiezione spagnola, diventata poi il nome d’arte con cui fu conosciuto in tutto il mondo? E cosa raccontava con modi tanto appassionati ai suoi amici? L’affascinante vicenda di questa gloria piemontese è stata riportata in auge grazie all’esposizione In scena! Luci e colori nei costumi di Caramba, allestita da maggio a settembre 2022 al Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto di Torino. Curata dalla storica dell’arte Silvia Mira, la mostra esponeva una quarantina di costumi teatrali e dieci bozzetti autografi facenti parte rispettivamente delle collezioni delle sartorie teatrali Devalle di Torino e Pipi di Palermo.
Ispirato dallo Scià di Persia
Nato a Pinerolo il 25 febbraio 1865, Luigi Pietro Benedetto Sapelli apparteneva a una città e a una famiglia entrambe di tradizione militare. Il nonno fu al seguito di Napoleone nella campagna di Spagna del 1808–1809 e nella battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815, arruolato nel XXXI reggimento di fanteria leggera. Il padre Filippo, dopo essersi distinto come ufficiale di cavalleria a capo di uno squadrone di lancieri durante la battaglia di Montebello del 20 maggio 1859, era diventato capitano istruttore presso la prestigiosa Scuola di Cavalleria di Pinerolo. Dall’ambiente militare il piccolo Luigi mutuò il rigore e la disciplina, che costituirono in seguito le colonne portanti del suo lavoro. Lo affascinavano le coreografiche parate dei soldati e studiava con interesse le diverse fogge delle uniformi, bottone per bottone. Ma non ne voleva proprio sapere di camminare sulle orme dei suoi familiari. Le regole e gli ordini non facevano per lui. Era troppo incline a seguire le vie che il suo estro creativo aveva preso a suggerirgli da quando assistette alla partenza da Torino dello Scià di Persia, Nasser al-Din, e della sua delegazione, venuti in visita al re Vittorio Emanuele II nell’estate del 1873. La magnificenza dei cortei delle carrozze e dei corazzieri, gli abiti fiabeschi realizzati con stoffe preziose dai mille colori, si impressero nella sua mente di bambino e non l’abbandonarono più.
Le caricature del "Caramba"
La famiglia non era affatto propensa ad appoggiare le fantasie artistiche del ragazzo. Fu così che Luigi trovò la scappatoia ideale in Torino. Qui si trasferì per adempiere alla sua formazione presso l’istituto tecnico e poi alla facoltà di Medicina, quest’ultima scelta solo per compiacere i suoi. Lo studio, infatti, non era il suo primo pensiero e ogni momento libero lo trascorreva a teatro o in qualche caffè-concerto. La Torino fin de siècle era una città assai vivace e offriva molti intrattenimenti ai suoi trecentomila abitanti. Vi erano oltre dieci teatri e un ricco palinsesto per tutti i gusti e tutte le tasche: opere, concerti, balletti, spettacoli di marionette e circensi, prosa, operette, riviste. Luigi assisteva a tutti gli spettacoli che riusciva a pagarsi con i pochi spiccioli che aveva in tasca. Se ciò che vedeva non gli garbava, lo esponeva verbalmente agli
IO NON UCCIDO
Torino e la lotta per l'obiezione di coscienza a cinquant'anni dall'approvazione della legge
di Marco Labbate
Corteo da piazza Carlo Alberto a piazza Lagrange per la manifestazione dell’11 marzo 1972 (© Archivio Centro Studi Sereno Regis, FMP, fasc. 169).A Torino, feci numerose conoscenze di questi “War Resisters”. Mi si presentò per prima la figurina sorridente di Miss Beaton. […] Una donnina di mezz’età, di piccola complessione, occhi chiari, dall’aria distinta ed affabile. Le era vicino il professore di lingue Alfred Tucker, un vecchio canuto e roseo, tipicamente inglese […]. Faceva un caldo terribile, noi tutti eravamo senza giacca, alcuni in calzoncini corti, come l’olandese van Wijk, avvocato difensore degli obiettori di coscienza […]. Conoscevo già quasi tutti gli intervenuti attraverso fotografie, articoli e personale corrispondenza. Stuart Morris, alto e rosso scozzese; Reginald Reynolds, arguto scrittore e parlatore, magro come un levriere; Robert Porchet, dall’aria un po’ cupa […]. Divenne un resistente alla guerra quando, combattente nella Prima guerra mondiale, in un assalto alla baionetta udì un giovane tedesco che cadendo al suolo esclamò: “Mutti, mutti!” (mamma, mamma!). Disertò, fu imprigionato, deportato alla Gujana […]; Hem Day, anarchico belga, editore e pubblicista […]; l’alto vecchio quacchero John Fletcher dalla bianca barbetta a punta […]. La nota esotica [sic] fu rappresentata dalla dottoressa in medicina indiana miss Sushila Nayar […]. Mi disse di essere stata discepola di Gandhi e sua medichessa. Mancava il presidente (fondatore) della WRI Herbert Runham Brown, deceduto, purtroppo, l’anno precedente. Tenne il suo posto Harold Bing, professore e storico distinto, che insieme a miss Beaton diresse le sedute.
Questo affresco è scritto, nelle sue memorie, da Edmondo Marcucci, intimo amico del filosofo Aldo Capitini. Riguarda una riunione che si tiene a Torino nell’estate del 1950. È la prima volta che la War Resisters International, nata nel 1921 e divenuta nel frattempo la più importante organizzazione internazionale dedicata all’obiezione di coscienza, arriva in Italia. È dunque comprensibile l’entusiasmo di entrare in contatto con una realtà internazionale per i pochi attivisti italiani che avevano cominciato ad adoperarsi per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza subito dopo la fine della guerra, dopo che l’istanza pacifista
Ma perché viene scelto proprio il capoluogo piemontese? A motivi logistici si unisco -
Il caso Pinna
Torino era diventata, un po’ per caso e un po’ no, uno scenario significativo nella vicenda dell’obiezione di coscienza. E tale si sarebbe mantenuto. Fin dal 1946, si erano infatti svolti a Torino tre processi a obiettori: se i primi due, quello al pentecostale Rodrigo Castiello e al testimone di Geova Enrico Ceroni erano passati quasi in segreto, il terzo, al ferrarese Pietro Pinna, era diventato un caso nazionale. “Circola per questa placida Torino di fine estate un acuto senso di curiosità”, aveva scritto Emiliano Zazo su Milano Sera, raccontando l’attesa del processo all’obiettore: e in effetti l’aula del tribunale è gremita e sono accorsi i giornalisti dei quotidiani, di alcuni periodici nazional-popolari, quale Oggi, o improntati alla cronaca nera, come Crimen, che a Pinna avrebbe dedicato la prima pagina: è il segno che l’interesse attorno a questo conflitto tra una singola coscienza e l’ordinamento militare è diffuso ben oltre la città.
Merito di tale partecipazione è della divulgazione di due piccoli circuiti nonviolenti, nati attorno ad Aldo Capitini e all’ex-sacerdote modernista Giovanni Pioli. Alla fine, la corte infligge a Pinna dieci mesi con la condizionale. Il giovane è nuovamente chiamato al Car (Centro Addestramento Reclute) di Avellino, condannato una seconda volta, poi al terzo richiamo, riformato per una inesistente nevrosi cardiaca. Nel frattempo, in Parlamento, due deputati, un socialdemocratico, Umberto Calosso, e un democristiano, Igino Giordani, presentano, invano, un disegno di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza,
UN ARTISTA PIEMONTESE NELLA LOIRA
Gabriele Reina si racconta tra araldi, stemmi e maioliche nella cornice del castello di Villandry
di Gabriele Reina
Si dice che buona parte del “Made in Italy” inabissi le proprie radici nel Rinascimento. Quando architetti, pittori, sarti, tessitori, intagliatori, fabbri, scultori, falegnami, cuoiai, “designers” insomma, trascinarono ai limiti della perfezione le nostrane capacità artigianali, ovvero l’“Arte del saper fare”, la téchne, l’abilità manuale dei greci antichi. Oggi però dominano l’arte contemporanea e la pittura astratta. Possiamo francamente affermare che possiedano un fascino altrettanto immediato e soprattutto comprensibile? Sono veramente strumenti morali di conoscenza? Possiamo onestamente riallacciare il contemporaneo a un’istantanea sensazione estetica, come può esserlo il buon ritratto dei propri cari, ma anche un vigneto ben piantumato nelle Langhe, un muretto a secco nel Canavese, il pinnacolo di una chiesa del Monferrato? La verità è che con gli antichi mestieri, anche l’“Arte del saper fare” va scomparendo.
Un ritorno ai fasti del passato
In questo contesto si colloca una inaspettata mostra personale di un artista assai legato al Piemonte (fra l'altro anche scrittore, autore del poderoso volume Superga Segreta, i Mausolei dei Savoia), rievocante in modo assoluto i fasti di un’epoca fiorente per la tradizione artigiana italiana, quasi un’antiavanguardia.
La sede è prestigiosa: il magnifico castello di Villandry sulla Loira, dai giardini forse più famosi di Francia. Il tema è legato alla figura di Leonardo, in questo caso ricollegato alla fine del Rinascimento italiano, dovuto alle “Guerre d’Italia” del 1494–1559 che sconvolsero il Bel Paese e cagionarono l’esilio del grande artista italiano sulla Loira, a un pugno di chilometri da Villandry.
Sono oltre cento le opere esposte, in realtà una piccolissima parte di migliaia e migliaia, tutte di grande formato, dai colori smaglianti e luminosi. L’insieme è totalmente coinvolgente e scenografico, perché gremiscono un intero piano del maniero al punto che sembra di tornare ai tempi della corte di Francesco I di Francia o di qualche negletta Wunderkammer. Numerose le tecniche che vengono sapientemente utilizzate dall'artista: antica tempera senese, olio, matita sanguigna, marmi scolpiti, carboncino, acrilici, acquarelli, smalti e soprattutto maiolica.
Gabriele Reina racconta il suo percorso artistico e la sua mostra inaugurata nell'aprile 2022 al castello di Villandry dal titolo "Héraldique de la Renaissance, au temps de François Ier et de Léonard de Vinci".
cm 45x35.
DIARIO DI GUERRA
Una storia privata attraversata dalla Grande Storia
di Lidia Brero EandiÈ una piccola agenda dalle pagine sottili che potrebbe stare in una mano chiusa, scritta con grafia minuta e regolare col pennino e un inchiostro sbiadito dal tempo. Eppure il messaggio che queste righe trasmettono è incredibilmente attuale. La piccola agenda è un diario di guerra e di nuovo la guerra sta imperversando ai confini dell’Europa.
Maledizione congenita nell’umanità di ogni tempo e luogo, la guerra è sempre diversa e sempre uguale per l’inevitabile sequenza di orrori che trascina con sé: morte e violenza di ogni genere, distruzioni, fame e miseria, paura, disperazione, infinite sofferenze fisiche e morali.
Un diario di guerra, nella sua immediatezza e incisività, racconta dunque ciò che soffre chi la guerra la sta vivendo, la paura che impregna ogni pensiero, l’idea della morte che diviene quasi familiare e tutto ciò che la Storia ufficiale lascia sottinteso o accenna appena.
Custodito nel tempo dalla famiglia come ricordo prezioso, questo diario riporta quasi quotidianamente, oltre a notazioni di carattere privato, i fatti che caratterizzano la vita di Torino tra il 1944 e il 1945, gli anni tragici della Resistenza.
Lo sfollamento
Cesare con la sua famiglia è sfollato da Torino come ormai più del sessanta per cento degli abitanti, terrorizzati da bombardamenti sempre più rovinosi. Nella sola notte del 13 luglio 1943 tonnellate di bombe anglo-americane provocano ottocento morti e oltre novecento feriti. Torino brucia, Torino crolla.
Sono fortunati coloro che possono permettersi di sfollare in provincia e, per lavoro, affrontare il quotidiano viaggio di andata e ritorno dalla città. Come appunto Cesare, sfollato a Pinerolo, che però annota con preoccupazione i rischi sempre maggiori di questi viaggi. Non si tratta delle cimici che passeggiano per i vagoni né dell’acqua che vi entra quando piove né della scomodità di trovarsi infilato tra ceste e sacchi nel bagagliaio o pigiato come una sardina perché determinati scompartimenti sono riservati a militari che non ci sono. E nemmeno si tratta del fatto che il treno non riesca a proseguire perché le rotaie sono state divelte durante la notte. Ciò che preoccupa sono invece gli ordigni sui binari, come la bomba del 15 luglio 1944 sulla Torino-Pinerolo, o i mitragliamenti dei vagoni in corsa o gli allarmi che costringono i passeggeri a gettarsi dal treno per nascondersi non si sa dove.
A sinistra: Via Roma, incursione del 13 luglio 1943, foto di D. Scrigna (© Sforza M., "La città sotto il fuoco della guerra", Torino, U. Allemandi & C., 1998).
La piccola agenda originale in cui sono conservati i ricordi di guerra.
1° agosto 1944
Che triste giornata! 6 allarmi. 3 volte fuggiti dal treno! Mitragliati! Nascostici sotto un ponticello. Impossibile continuare! Pericoli e pena indescrivibili!
26 agosto 1944
A Torino in treno sotto gli allarmi è uno spasimo. Vagone tutto bucherellato. Avanti alla macchina c’è il carro-scudo.
E poi la situazione peggiora. Vengono minati e fatti saltare tutti i ponti. 28 ottobre 1944
[…] Occorrono 2 trasbordi e il passaggio sul ponte a 15 metri dalle acque limacciose e vorticose, senza appoggio, salterellando le traversine dei binari. è un momento terribile, spaventoso. Tanti si fanno accompagnare dai soldati. Io sudavo freddo. Temevo di svenire in mezzo al ponte! Al ritorno […] 5 ore e mezzo di viaggio da Torino a Pinerolo. Si può continuare così? Tram – posto di blocco – camion scoperto – freddo da morire – (polmoniti in vista) – poi a piedi e infine da Piscina su un carro lento lento…
E infine:
4 novembre 1944
Non c’è più il treno per Pinerolo.
QUANDO LO SPORT PIÙ AMATO ERA IL TAMBURELLO
Passato e presente del tambass in Monferrato
di
Martino Pinna Sferisterio di Moncalvo negli anni Settanta.È un pomeriggio di una domenica d'agosto a Grazzano Badoglio – Grassan in piemontese – paesello di circa 600 anime in provincia di Asti, che prende il nome da Pietro Badoglio, qui nato e morto. Nonostante la canicola del primo pomeriggio sembra che tutti, nel Monferrato, si stiano dirigendo qua. C'è perfino la coda per imboccare la strada che porta nella parte alta del paese, sulla collina. Il traffico viene gestito da anziani signori con la pettorina arancione, tutti molto concentrati. Spiegano dove parcheggiare e indicano dove incamminarsi per arrivare in centro. La meta si intravede da lontano: è la piazza del campanile. Da lì provengono cori da stadio, grida e una voce amplificata che rimbomba nelle viuzze del borgo. "Ci aspettiamo un migliaio di persone" spiega uno dei signori con la pettorina arancione.
Entro al bar, prendo dell'acqua e chiedo al barista chi vincerà secondo lui. "Te lo dico fra tre ore" risponde. Lui la partita non la potrà vedere, deve lavorare al bancone. "Ascolto i rumori e le urla del pubblico, da quelli capisco come sta andando. E poi ogni tanto entra qualcuno e mi aggiorna". Una partita di tambass, il tamburello a muro, può durare molto, sicuramente molto più di una partita di calcio. "Qua non ci interessano Inter, Milan e Juventus" aggiunge la cameriera. "Qua ci interessa il tamburello".
Dagli amplificatori viene fatto suonare l'inno di Mameli, il pubblico è avvolto dalla nube dei fumogeni. Grida, fischi e applausi riempiono la piazza e il capo ultras scandisce i canti con un tamburo. È un pubblico misto: a pochi metri dai più scalmanati ci sono le signore del posto, ben vestite, sedute sulle seggiole, pronte anche loro a seguire e commentare la partita. Dopotutto non si tratta di un incontro qualunque: è la finale di serie A, "una partita molto attesa" mi dicono. Alla fine durerà ben quattro ore e mezza. Durante queste ore, tra una battuta e l'altra, si alternerà il sole con le nubi, la pioggia e perfino l'arcobaleno.
Il rumore della pallina colpita dai tamburelli scandisce l'incontro. Nessuno sembra stancarsi. La domanda, che rivolgo anche a un anziano signore ex giocatore di tambass, è ovviamente una: com'è possibile? Com'è successo che nel Monferrato il tamburello sia diventato lo sport per eccellenza, quello capace di richiamare carovane di persone in piccoli e normalmente sonnecchianti paesini, addirittura più del calcio? L'ex giocatore alza le spalle: “Guardi, non so: quando io avevo 14 anni giocavano tutti a tamburello, e allora ho giocato anche io. Poi ho continuato per trent'anni. Non so perché. Mi piaceva”.
"Non c'è Juventus che tenga"
Facciamo alcuni passi indietro. Il primo, agli anni Sessanta. La trasmissione della Rai “Cronache italiane” dedica alcuni servizi all'argomento. "La domenica, nel Monferrato, appartiene al tamburello. Non c'è Juventus che tenga" dice il cronista in un servizio di fine anni Sessanta. Sotto sentiamo le urla dei tifosi e vediamo le immagini delle partite, del tutto simili a quelle del 2022, fatta eccezione per la misteriosa presenza di una mucca sotto il segnapunti. Si giocano ben 36 partite in contemporanea, tutte in questa zona del Piemonte. In palio per chi vince il torneo, oltre al prestigio e alla coppa, c'è un cinghiale, un certo Pasqualino, catturato e allevato appositamente come premio per la squadra vincitrice. Forse anche la mucca fa parte del bottino.
"Le strade di collina sono gremite di macchine, sono tutti qui per il tamburello. Qua il calcio minuto per minuto non ha ascoltatori” continua il cronista. Tanto che si improvvisa un surreale “tamburello minuto per minuto” con le radiocronache dai vari paesi dove si sta giocando. Vengono intervistati alcuni bambini: "A te non piacerebbe andare a vedere la Juventus o il Torino?". "No, mi piace il tamburello" risponde deciso uno. Gli viene chiesto chi sono i loro idoli sportivi – il cronista accenna Moncalvo
La
IL BALUN GIOCO DI
LANGA
Fascino e tradizione del pallone elastico, dalle colline piemontesi al mar di Liguria
di Luigi Cabutto
domenica pomeriggio giocando “alla pantalera” sul sagrato di San Benedetto Belbo.Le onde collinari del basso Piemonte sono sempre state anche le “colline in pugno”: il balun, il gioco, il divertimento per antonomasia della cultura contadina e della Langa della tradizione. Il balun esalta le doti rusticane della forza, del colpo d’occhio e dell’astuzia ed evoca piazze gremite di gente, palloni velenosi, finestre che si aprono e si chiudono per favorire il giocatore di casa. L’anima del balun è la sfida, che incarna l’acceso campanilismo tipico di queste terre. Pertanto, i giocatori, nell’immaginario popolare, rappresentano il paese, la terra, la comunità e diventano guerrieri nella difesa/conquista della “caccia”. Vincere sulle piazze o nelle contrade dell’avversario-nemico è quasi impossibile: la gobba sul muro di una casa, i contrafforti di una chiesa o di un castello, un cornicione o un davanzale, i coppi, rappresentano altrettante insidie/opportunità. Quando non basta, ci si mette anche la gente del posto, con provocazioni assortite, con la vicinanza fisica. E, per vincere, allora, non è sufficiente dar forza di pugno sulla palla.
Contro chiese e campanili
Il popolare e campestre gioco, infatti, ama le piazze, cerca alte mura per l’appoggio e, di conseguenza, trova le chiese, i castelli e le case più aristocratiche. Ne scaturiscono curiose questioni che, in pieno stile ancien régime, vedono il clero e la nobiltà di paese contrapporsi al popolo. Vere pagine di storia, attraverso le quali si possono raccontare i secoli e seguire il progressivo processo di affrancamento delle genti contadine di Langa e Monferrato nei confronti del potere fondato sul privilegio di nascita.
La desolata rassegnazione con cui il parroco di Castiglione Falletto, nel 1787, informa il vescovo di dovere molte volte ritardare le sacre funzioni o di dover cominciare “con ben pochi”, mentre davanti alla chiesa si gioca, è il segno di una società contadina che cambia ed è ormai sorda a tanti anatemi. A Novello, ad esempio, fin dal 1872, con un apposito articolo del regolamento di polizia urbana si proibisce il gioco delle bocce e del balun nelle pubbliche vie e piazze e specialmente nei giorni festivi: ma con quali risultati abbiamo già visto. Anche a Verduno, lamentandosi “un'evidente molestia e pericolo per i viandanti in ispecie per le donne e per i ragazzi” per via del balun, nel 1914 se ne proibisce la pratica nelle vie centrali del paese “nel tempo delle funzioni religiose e nel tempo fra l’andata ed il ritorno della popolazione dalle stesse funzioni, come pure in ogni occasione di insolita affluenza del pubblico”.
Il pallone della Mondo
Intorno al balun, dopo il balun, c’è dunque la festa contadina, con tavole ricche di piatti, di convivialità, di assordante bellissima confusione, sovente l’unico divertimento per le nostre genti contadine. Ma anche per il più popolare gioco della società agricola di Langa arriva il momento della resa: confinato negli sferisteri per far libero spazio alla lambretta e alla macchina, il gioco delle piazze perde il contatto con i suoi palcoscenici preferiti e con la quotidianità del paese e, di conseguenza, non sa assorbire la crisi dei modelli culturali contadini del secondo dopoguerra. Gli unici a tenere in vita e a continuare a fabbricare la pregiata alchimia di colla e gomma per la Pallapugno sono i figli di Edmondo Stroppiana di Gallo d’Alba: da ottanta anni la ditta
LE BATTAGLIE DI LIDIA POËT
Prima avvocatessa d’Italia, lottòper i diritti dei più deboli
di Cristina RicciLa figura di Lidia Poët è, purtroppo, ancora sconosciuta ai più. Prima donna a laurearsi in giurisprudenza nel 1881, prima donna a chiedere, e ottenere, l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino, per poi esserne radiata.
Nella sentenza di Cassazione che la escluse dall’avvocatura si legge:
Ma sebbene gli studii tecnici e scientifici degli uomini e delle donne siano una preparazione alle professioni, è troppo ardita la pretesa di voler trovare una legge sulla pubblica istruzione sottintenda una dichiarazione generale nel senso, che il diploma ottenuto da una donna basti a far nascere la capacità relativa e la condizione di diritto in ispecie, della professione dell’avvocato, mentre nemmeno l’ammissione all’esame pratico, e l’averlo sostenuto con esito favorevole, valgono per radicare un diritto acquisito all’esercizio.
Non si vuole qui trattare dell’annosa vicenda ben conosciuta ma piuttosto delineare la personalità di Lidia Poët, anche alla luce del suo essere valdese.
Mi spinge in questa impresa la convinzione che sia difficile costruire un futuro partendo da un presente che ha dimenticato le sue radici storiche. Sono persuasa che all’oblio della sua figura corrisponda la dimenticanza di una parte importante della storia della conquista di diritti fondamentali, non solo nella società italiana, ma anche in quella europea.
Ricordare chi ha lottato
Per rendere un’idea della vastità dei temi dibattuti dalla giurista Lidia Poët, a titolo esemplificativo, si elencano: il diritto alla giusta pena, alla riabilitazione dei rei, i diritti dei minori a essere giudicati in un apposito tribunale, quello della parificazione dei figli, sia che siano nati fuori o in costanza di matrimonio, e ancora la rivendicazione di diritti per le donne quali il diritto al lavoro e al voto.
Scordarsi delle lotte intraprese per ottenere queste conquiste rischia di farci cadere nella trappola di ritenere che questi siano stati diritti elargiti, “donati” per buonismo. Sminuendo l’operato delle donne ottocentesche, che si voglia chiamarle femministe o proto femministe, si ha una visione distorta dei fatti e della storia, e si corre il rischio di ridimensionare la portata di questi diritti svuotandoli del loro reale valore.
La psicoterapeuta israeliana Dina Wardi, ha dimostrato che traumi generazionali, come le persecuzioni, vengono trasmessi, anche attraverso il “non detto”. Esiste una sorta di eredità della memoria che impregna e influenza le generazioni successive a quelle che hanno subito il trauma; ai figli viene addossata la responsabilità di tenere viva la memoria e/o del riscatto. Basandosi su questo studio Bruna Peyrot, nel suo saggio Essere terra, afferma che anche tra i valdesi esiste una sorta di DNA culturale trasmesso dai genitori ai figli.
L'impronta valdese
La cultura valdese era, ed è, complessa, influenzata non solo dalle vicende storiche di questa minoranza religiosa ma anche dal territorio. Le valli valdesi sono terre di confine; numerosi gli scambi con la vicina Francia ma anche, e soprattutto, grazie all’adesione alla Riforma protestante, con Inghilterra e Germania. La cultura valdese non è locale, va ben oltre le Valli e può essere definita, a pieno titolo, transalpina.
Lidia PoëtL'OBIETTIVO DI LEONILDA
La vita controcorrente della fotografa che "non aveva paura di nulla"
di Alessandra DemichelisDue artisti contemporanei, distanti tra loro come più non si potrebbe – uno, Roger Ballen, newyorkese trasferitosi a Johannesburg, esploratore di marginalità e mondi inconsci; l’altro, Guido Harari, di casa ad Alba, con i suoi ritratti di rock star internazionali – in altrettante interviste recenti hanno sfiorato un tema cruciale del rapporto con il proprio lavoro: la scoperta di sé. Guardando i bambini “riuscivo a riappropriarmi di una parte di me”, dice Ballen; e Harari, puntando con curiosità l’obiettivo sui musicisti per svelarne il lato più intimo, dichiara di comprendere qualcosa di se stesso. Il viaggio interiore che si affronta posando uno sguardo attento su un altro essere umano credo accomuni i grandi fotografi di ogni tempo ed è questo che oggi mi chiedo di fronte alle fotografie di Leonilda Prato: cosa avrà scoperto di sé questa donna dopo aver trascorso tanto tempo a guardare gli altri. Forse doti di pazienza, di empatia, o la capacità di rinnovare il piacere nell’incessante gioco di rimandi tra chi osserva e chi è osservato. Non si spiegherebbero altrimenti certi sguardi, ora seri, ora attraversati da lampi di ironia, ma sempre colmi di un’attesa fiduciosa, come chi sa che non verrà tradito. E non si spiegherebbe, se non con una profonda compartecipazione, la scelta di alcuni soggetti, al di là dei ritratti, come l’arrivo del circo sulla piazza del paese, il suo, che ci catapulta di botto nel Novecento misero delle sue origini e nella vita randagia che a un certo punto aveva scelto per sé. Oltre, naturalmente, a dirci molto della consapevolezza con cui svolgeva il suo mestiere.
Reinventarsi sempre
La vita di Leonilda Prato farebbe storia anche se non esistessero le sue fotografie. Basterebbero le sue scelte controcorrente, il carattere intrepido, la determinazione nell’inventare la sua esistenza a lasciarci stupiti e colmi di ammirazione. E a volte accade infatti che il racconto delle sue avventure, diventate leggendarie nella trasmissione della memoria familiare, in un certo senso ne fagociti l’opera. Si comincia a parlare di lei e non si finisce più, anche perché entrare a parole nella vita segreta delle immagini è oggettivamente complicato. Le fotografie, in fondo, richiedono silenziosa contemplazione. Ed è pur vero che se la sua esistenza non avesse preso una certa direzione non avrebbe scattato quelle fotografie, in quel modo. Eppure ognuna di esse andrebbe considerata come un universo a sé stante per i discorsi che racchiude e per come li rivela.
Fotografia di Leonilda Prato, soggetto anonimo, s.d. (© Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo).
Per questo il racconto biografico, per una volta, si farà sintetico, limitandosi alla nascita in quel di Pamparato, anno 1875, madre tessitrice, padre presto defunto; all’incontro con Leopoldo, alto, bello, spirito d’artista destinato alla completa cecità; al matrimonio contro il volere delle famiglie, alla scelta di lasciare il paese e condurre vita nomade cantando e suonando nelle piazze, tornando solo per mettere al mondo i figli, quattro. Si limiterà a quel loro muoversi a piedi attraverso confini e tunnel in costruzione, quello del Sempione attraversato al buio, anno di grazia 1905; all’incontro, in Svizzera, con un anziano fotografo e con l’arte, svelata come una formula alchemica, di impressionare le immagini giocando con la luce e la materia; alle ulteriori svolte dell’esistenza mentre il Novecento si dipanava dispensando dolori, la morte in guerra nel 1917 dell’adorato primogenito al Monte Zebio, quella del marito nel 1926 a Sanremo; al reinventarsi molte volte, prima merciaia, poi allevatrice di galline ovaiole per gli alberghi della Riviera, maglierista con dotazione di macchine; e poi un nuovo ritorno a Pamparato, e
IL BITTER DEL SIGNOR CAMPARI
La vera storia dell'aperitivo che ha reso famosa l'Italia nel mondo
di Renzo FiammettiDov'è nato il Campari? A Novara? A Milano? E Torino cosa c’entra? Una certa confusione aleggia attorno alla figura di Gaspare, il padre della bevanda conosciuta in tutto il mondo, spesso confuso con suo figlio, Davide, il primo imprenditore di famiglia.
Dalla provincia novarese al capoluogo piemontese
La storia avventurosa e drammatica di Gaspare Campari e del suo bitter merita di essere raccontata sin dalle origini, dal piccolo borgo di Cassolnovo, oggi in provincia di Pavia ma all’epoca in provincia di Novara, dove Gaspare nasce nel 1828, nella famiglia numerosa di Giuseppe e Margherita Del Fra, ultimo di dieci fratelli. La famiglia non è benestante anche se conosce una certa agiatezza tanto da poter far studiare il figlio primogenito, che diventa infatti medico nell’ospedale di Vigevano e, per brevi periodi, anche sindaco di quella cittadina. Una delle sorelle di Gaspare, Maria Teresa, si sposerà a Vigevano e un suo nipote sarà Direttore generale del Ministero per il Commercio estero. Ma per Gaspare il destino dispone diversamente. Probabilmente i genitori, interrogandosi sul suo futuro, scartano per lui sia il lavoro agricolo sia la possibilità di proseguire negli studi. Non è dato sapere se la famiglia non avesse i mezzi per far studiare Gaspare come aveva fatto con il primogenito Davide oppure se Gaspare fosse poco avvezzo allo studio e alla fatica sui libri. È molto probabile che, per dirimere questo angoscioso rovello, si rivolgano al marchese Giuseppe Arconati, che ha proprietà terriere e immobiliari a Cassolnovo. Qui veramente il destino di Gaspare si compie. Il marchese Arconati ha origini milanesi, ha già
indirizzato molti giovani del paese nella città lombarda per un lavoro o una professione, spesso come vigili o agenti del dazio. Nella tradizione popolare di Cassolnovo è infatti ancora vivo un proverbio che recita: O at vé in campagna a catà i sparlòn/ o at vè a Milan a fa al caplòn (o vai in campagna a raccogliere gli spinaci o vai a Milano a fare il vigile).
Non sapremo mai il perché, ma il marchese per Gaspare dispone diversamente: Torino. Nella capitale sabauda il marchese ha certamente amicizie e relazioni e là indirizza il ragazzo, ma l’appuntamento con Milano è solo rimandato. Gaspare lascia così Cassolnovo e la sua famiglia e intraprende un viaggio che – al ragazzino o poco più che era – doveva sembrare terribile e pieno di insidie. Soprattutto se affrontato da solo verso l’ignoto della grande città.
L'aria risorgimentale nei caffè
Gli anni torinesi di Gaspare Campari, dal 1842 alla metà del decennio successivo, abbracciano un periodo storico di fondamentale importanza per l’Italia intera. Gaspare vive nella città dove si prepara il Risorgimento, si gettano le basi delle guerre contro il nemico di sempre – l’Austria – e si costruisce l’idea di nuovo Stato unitario nazionale. Certo, il processo storico del Risorgimento è ben più complesso e ar-
IL LUNGO VIAGGIO DEI WALSER
Le antiche origini del popolo che colonizzò le Alpi sfidando la montagna
di Enrico RizziI “Walser” sono un piccolo popolo protagonista di una straordinaria “avventura di sopravvivenza”. La loro è stata l’affascinante sorte “migratoria” di genti d’antica origine germanica che, con impavido, strenuo ardimento, hanno affrontato la sfida di “farsi montanari” e di salire a “vivere in alto”, “nomadi” tra le alte vette, nell’orizzonte montano più vicino al cielo. Lungo un filo di cresta, una catena di valichi, un susseguirsi di alti pascoli, dal Vallese al monte Rosa, dai Grigioni al Vorarlberg, i Walser hanno trasformato il mondo inospitale delle “alte Alpi” in un mondo “abitato”. Una sfida all’altitudine che rappresenta uno dei capitoli cruciali e in parte ancora inesplorati della storia delle Alpi.
Negli ultimi secoli del medioevo i Walser hanno fondato oltre 150 insediamenti sparsi tra Francia, Italia, Principato del Liechtenstein, Austria e Germania: dalla Savoia alla Valle d’Aosta, al Piemonte e alla Lombardia, ai Cantoni Ticino, Grigioni, Berna, Uri e San Gallo (oltre naturalmente al Vallese), al Vorarlberg, al Tirolo e ai confini della Baviera: un tratto così ampio e articolato di Alpi Centrali e Occidentali, tale da poterlo oggi chiamare “Alpi Walser”.
Spirito di adattamento
Il loro lungo viaggio, nello spazio e nel tempo, inizia in terre lontane, nei secoli dell’alto medioevo, quando piccoli gruppi di pastori, discendenti da popoli nomadi di origine germanica, provenienti dalle regioni settentrionali europee, hanno trasformato antichi alpeggi sfruttati solo d’estate in insediamenti abitati anche d’inverno Sono stati il miglioramento del clima e l’iniziativa “civilizzatrice” dei monasteri a consentire ai primi coloni delle montagne di addentrarsi nel dedalo alpino. Dalla valle dell’Hasli (nell’Oberland Bernese), nel XI–XII secolo gruppi di pastori germanici raggiunsero la valle del Rodano. Qui, nel Goms (“conca”), ampia vallata a 1.300–1.500 metri sul mare, sperimentarono la capacità dell’uomo di vivere tutto l’anno in alta montagna. Erano secoli nei quali, in altitudine, non si registra ancora la presenza di colonie umane permanenti, ma solo sporadici insediamenti di minatori o cacciatori, postazioni daziarie o militari, stazioni temporanee come maggenghi o alpeggi stagionali.
Pagina a fianco: Donne del Goms, culla dei Walser, foto Wehrli, 1906. A destra: Scarpa con chiodi nella suola, Museo casa Walser a Macugnaga, frazione Borca (CC BY-SA 4.0 BelPatty86).
HANS CLEMER IL MA ESTRO D'ELVA
di Daniela Bernagozzi BernagozziNegli anni ha visto l’interno di tante chiese di montagna, soprattutto piccole. Ci è entrato per ripararsi dalla pioggia o per bisogno di fresco e di silenzio; per l’odore che hanno, per le pietre levigate dal passaggio di migliaia di fedeli e per stupirsi ogni volta della tenera e vuota ambizione a cui quelle chiesette sono monumento. Per sentirsi solo, per sentirsi male, per salvarsi e mai comunque per fede. Per questo sa che ciò che sta vedendo è un’altra cosa. La mano che ha fermato sui muri la scena non è quella di un bravo pittore itinerante o di un appassionato artigiano che la sorte o la famiglia hanno indirizzato ai colori anziché al legno, alla forgia, al bestiame, alla segale o alla spada. Chi conosce il mestiere distingue alla prima occhiata una tecnica modesta da una mano eccellente, ma tutti, anche chi come lui sa poco o niente di pittura, avverte lo stacco del talento.
Questo è un passo di un romanzo recente: La vita paga il sabato di Davide Longo. È inserito in un giallo ambientato in un luogo remoto delle valli cuneesi, un paese immaginario chiamato Clot, in cui non è difficile intravedere tanti comuni della Val Maira, e soprattutto Elva. In comune con Elva Clot ha il fatto che un maestro fiammingo in fuga vi avrebbe dipinto affreschi misteriosi. Ma tutto questo ci serve solo come incipit per dire che, sicuramente, dietro al pittore Van Drift, inventato da Longo, è celato Hans Clemer, il più famoso artista attivo nel marchesato di Saluzzo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo. Se ci si trova per la prima volta nella Chiesa Parrocchiale di Elva, che contiene la più celebre delle opere di Clemer e cioè il ciclo di affreschi sulla vita della Vergine e una grande e drammatica Crocifissione, ci potrà forse capitare di pensare come Bramard, il protagonista del romanzo, cioè che quello che si sta ammirando è di una qualità e di una intensità davvero rare in chiesette di montagna (Elva si trova a 1.600 metri di quota) delle Alpi occidentali. Forse non solo nelle Alpi.
Il mistero è innanzitutto questo: che cosa ci faceva un artista di quella capacità in paesi che a noi appaiono così isolati? Come era arrivato lì? Chi erano i suoi committenti? E infine, domanda delle domande: chi era veramente?
I capolavori fiamminghi del pittore itinerante che dalle Fiandre arrivò a Saluzzo
All’École des Mines
Originario della provincia di Biella (è nato nella frazione Sella di Valle Superiore Mosso nel 1827), Quintino Sella è l’ottavo figlio di una famiglia che da due secoli opera, come è tradizione di quel territorio, nel settore tessile. Proprio per contribuire all’attività familiare, Quintino si iscrive alla facoltà di Ingegneria di Torino, dove si laurea a vent’anni, nel 1847. La rivoluzione industriale sta cambiando il volto dell’Italia e dell’Europa, e le macchine sono entrate prepotentemente nell’industria tessile. Visti i suoi ottimi risultati universitari, tuttavia, Quintino Sella si vede offrire dall’amministrazione sabauda una alternativa all’impiego in famiglia: la possibilità di frequentare l'École des Mines di Parigi, e approfondire la sua conoscenza della mineralogia.
Ancora una volta, un indirizzo di studio legato alla trasformazione in atto nel Vecchio Continente: a metà Ottocento si cava carbone per alimentare le macchine a vapore, si scavano gallerie per la ferrovia, si estraggono metalli per l’industria pesante. In Francia, l’École des Mines è stata fondata nel 1783 con lo scopo dichiarato di formare “direttori intelligenti per le miniere del Regno di Francia”. L’importanza della scuola – il cui programma non si limitava a mineralogia e ingegneria
mineraria, ma comprendeva anche la geofisica, la sicurezza in miniera e la gestione delle risorse – è tale che l’istituto sopravvive alla Rivoluzione Francese, e si configura ben presto come il principale centro europeo per lo studio delle applicazioni civili delle scienze geologiche.
Tra pietre e cristalli
Non ci deve tuttavia sorprendere se Quintino Sella accetta di buon grado di spostare la propria attenzione sulla mineralogia. Appassionato di montagna, ha scalato il Monte Mucrone all’età di tredici anni e da allora non ha mai smesso di compiere escursioni nell’arco alpino. Per tre anni, Quintino Sella studia perciò a Parigi ma, visto il taglio pratico dei corsi, visita miniere e cantieri in Francia, Germania e Regno Unito. Approfitta dell’occasione per compiere alcune ascensioni – come la scalata del Puy de Dôme presso Clermond Ferrand (1850).
Quella che è nata come una scelta in gran parte utilitaristica – il corso di laurea più adatto a contribuire all’azienda di famiglia – si trasforma in una passione autentica per la mineralogia e la cristallografia. In una lettera alla madre, datata dicembre 1851, Quintino scrive:
QUANDO LA NATURA INVADE I NOMI DI LUOGO
Erbe, fiori e arbusti nella toponomastica piemontese
di Alberto GhiaGuardando i nomi di luogo attraverso la lente della linguistica storica, essi si manifestano spesso come parole dense di significato, che rivelano il modo in cui il territorio è stato visto da chi lo ha nominato.
Un gruppo di parole (più tecnicamente, una sfera semantica) spesso coinvolto nella creazione di nomi di luogo sono i nomi di piante: per la loro fissità nel paesaggio, le piante ben si prestano a caratterizzare un territorio, sia quando si tratta di esemplari isolati (Robella ‘rovere bella’, AT; Lessona BI), sia quando compaiono in gruppi (spesso aggiungendo al nome della pianta un suffisso: Cereseto da ciresa ‘ciliegia’ AL, Saliceto CN). Come le piante ad alto fusto, qui rapidamente illustrate (ma recuperate Rivista Savej #6 per saperne di più!), anche le erbe, i fiori e gli arbusti sono spunti a partire dai quali creare nomi di luogo: ora ne vedremo assieme alcuni.
Arbusti
Il salice è pianta importante e molto sfruttata nel mondo contadino: dai suoi rami flessibili si possono ricavare ceste e anche legacci; se sono noti i continuatori di salex – Saliceto (CN), Sauze d’Oulx (TO) e Salza di Pinerolo (TO) – lo è meno il tipo gura, che è comunque molto ben rappresentato. Ecco alcuni esempi: Cascina della Gorra a Morano sul Po (AL), Gorra a Bene Vagienna (CN), Gorrino a Pezzolo Valle Uzzone (CN), Gorrea e Gorretti a Clavesana (CN); qui si trova anche un Rio della Gorea, Gorretta a Cessole (CN), Gorreti a Mombaldone (AT), Gorreio a Mongiardino Ligure (AL), Rio Gorei a Valle San Nicolao (BI), Gorrè a Rittana (CN), Cascina Gorrea a Carignano (TO). Tuttavia, non tutte le gure sono salici; esiste infatti un’altra voce, omofona, che signi-
fica canale. Non è semplice distinguere i nomi di luogo che si rifanno a gura ‘salice’ (da una base…) da quelli che invece si rifanno a gura ‘canale’ – soprattutto guardando solo alla forma italiana; anche lo spazio denominato ci offre pochi indizi per preferire una delle due voci: le salicacee amano l’acqua… e spesso crescono lungo canali. Un indizio più forte arriva invece dalla morfologia: a eccezione dei primi due toponimi, tutti gli altri presentano suffissi, spesso legati a fitonimi, come il suffisso latino -etum di valore collettivo; è ovviamente più facile pensare a un territorio caratterizzato da tanti salici piuttosto che da tanti canali. Dal nome latino di una specie particolare di salice, il vimini, deriva il nome di Omegna (VB); le attestazioni più antiche registrano infatti Vimenia; dalla v- iniziale si è avuto prima u (*umegna), poi au, secondo un fenomeno abbastanza diffuso nel Piemonte orientale (Aumegna) e, infine, la chiusura del dittongo in o, come nell’attuale forma italiana.
Tra gli arbusti troviamo alcune attestazioni di ginestra: Bric Genestreto a Priocca d’Alba (CN), Genestreto a Boccioleto (VC), Genestredo a Vogogna (VB), Ginestra a Monforte d’Alba (CN) e Castellamonte (TO), Ginestre a Cartosio (AL) e Castellino Tanaro (CN), Cascina Ginestra a Gattico-Veruno e Casalino (entrambi NO), Ciabote Ginestrolo a Oggebbio (VB), Casa Ginestrone a Romentino (NO), Casa Ginestre a Costigliole d’Asti (AT), Bric delle Ginestre a Camerana (CN) e ginepro: Genevreta a Sessame (AT), Zenevreto a Mombello Monferrato (AL), Bric Zenevrei a Govone (CN), Cascina Zanavreia a Ponzano Monferrato (AL); Monte Genevris a Oulx (TO), probabilmente Pietra Ginevra tra Cumiana e Cantalupa (TO), Bric Ginepretto a Castellino Tanaro (CN), Casa Ginevrina a Ozzano Monferrato (AL), Genebrer a Rorà (TO), Val Ginepro a Viarigi (AT). Le bacche di ginepro venivano (e vengono!) usate in diverse preparazioni alimentari: non è strano quindi che la presenza di tali piante sia stata ritenuta elemento caratterizzante di un luogo; allo stesso modo, troviamo segnalata anche la presenza di lamponi, come in Case Lampouiè a Sauze D’Oulx (TO) e mirtilli: Punta Morionera a Valdieri (CN), Col Pitonera a Bernezzo (CN; loc. la Pitounera), Alpe Ambruse a Piedicavallo (BI) e Brussonere in alta Valle Cervo (BI); quest’ultima località, citata dallo studioso Pietro Massia (1908), non compare sulle carte che abbiamo consultato. Solo quattro toponimi (con buone possibilità di crescita, se andassimo a cercare tra i microtoponimi che non sono mai stati cartografati) e ben tre basi lessicali diverse per indica-