Studi e Ricerche Florens 2012

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ESSAYS AND RESEARCHES

STUDI E RICERCHE

STUDI E RICERCHE

ESSAYS AND RESEARCHES Biennale Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali International Biennial of Cultural and Environmental Heritage

EDITORI - STAMPATORI




Mission: creare a Firenze un laboratorio permanente internazionale di approfondimento e di confronto per la classe dirigente e gli operatori sui temi della cultura e dell’ambiente quali strumenti chiave di sviluppo economico e benessere sociale. Promuovere un nuovo modello per la valorizzazione del patrimonio culturale e diffondere una visione unitaria e sinergica tra cultura, ambiente, tecnologia ed economia. La Fondazione Florens organizza la Biennale internazionale dei beni culturalie ambientali, con sede a Firenze. Durante la prima edizione, che si è tenuta nel 2010, sono state registrate circa 9.000 presenze a convegni e lectio magistralis e circa 200.000 agli eventi, tra i quali particolare successo hanno avuto la rievocazione del miracolo di San Zanobi, con la sistemazione di un prato tra il Duomo e il Battistero di Firenze e la rievocazione della disputa sulla collocazione del Davide di Michelangelo, con la collocazione di una copia in resina prima sullo sprone del Duomo, poi sul sagrato del Duomo stesso e infine in Piazza Signoria. Il presente volume è stato stampato nell’imminenza della seconda edizione, Florens 2012, il cui programma prevede un forum internazionale di tre giorni, convegni e tavole rotonde, lectio magistralis, mostre, concerti, installazioni ed eventi.


Soci Fondatori Founders

Direzione culturale Florens 2012 Cultural direction Mauro Agnoletti, professore di Pianificazione del Paesaggio rurale e Storia dell’Ambiente presso l’Università di Firenze Andrea Carandini, professore senior Sapienza Walter Santagata, professore ordinario di Scienze delle Finanze - Università degli Studi di Torino Consiglio scientifico Fondazione Florens © Committee Cristina Acidini Soprintendente Polo Museale Fiorentino Superintendent of Polo Museale Fiorentino Terry Garcia Vice Presidente National Geographic Society Vice President National Geographic Paolo Galluzzi Direttore, Museo Galileo. Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze Galileo Museum, Director. Florence’s Institute and Museum for the History of Science Mons. Timothy Verdon Direttore del Centro Diocesano per l’Ecumenismo, Direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Arte Sacra e per i Beni Culturali Ecclesiastici, Direttore del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore Director of the Diocesan Center for Ecumenism, Director of the Diocesan Office for Sacred Art and Ecclesiastic Cultural Heritage; Director of the Cathedral Works Museum of Santa Maria del Fiore Ben Janssens Presidente del Comitato Esecutivo di The European Fine art Foundation - TEFAF Maastricht President of the European Fine Art Foundation’s Executive Committee - TEFAF Maastricht Consiglio di amministrazione della Fondazione Florens Board of Directors of the Florens Foundation Presidente President Giovanni Gentile Vice presidenti Vice presidents Aureliano Benedetti, Consiglio di Gestione di Intesa Sanpaolo Management Board of Intesa Sanpaolo Mauro Fancelli, Presidente Confederazione Nazionale Artigianato Piccola e Media Impresa Firenze President of the National Confederation of Handicrafts, Small and Medium Enterprises of Florence Consiglieri Members of the board Francesco De Luca, consigliere delegato CNA Informatica e Servizi s.r.l. Leonardo Ferragamo, presidente Associazione Partners Palazzo Strozzi President of the Association Partners Palazzo Strozzi Marco Frey, professore ordinario Scuola Superiore Sant’Anna Professor at Scuola Superiore Sant’Anna Alessandro Laterza, presidente Commissione Cultura Confindustria President of the Culture Committee of Confindustria Vittorio Meloni, direttore relazioni esterne Intesa Sanpaolo Head of External Relations of Intesa Sanpaolo Consigliere tesoriere Treasurer councillor Mauro Pagliai, presidente Polistampa President of Polistampa Direttore generale General manager Niccolò Manetti Segretario generale General secretary Giacomo Bei


STUDI E RICERCHE

ESSAYS AND RESEARCHES Biennale internazionale dei beni culturali ed ambientali International Biennial of Cultural and Environmental Heritage

a cura di / edited by Mauro Agnoletti Andrea Carandini Walter Santagata

EDITORI - STAMPATORI


STUDI E RICERCHE ESSAYS AND RESEARCHES Biennale internazionale dei beni culturali ed ambientali International Biennial of Cultural and Environmental Heritage Progetto e coordinamento editoriale Concept and editorial coordination Mauro Agnoletti Editor Antonio Santoro Traduzioni Translations Federico Poole In collaborazione con: In collaboration with:

© 2012 Fondazione Florens Fondazione Florens Via Tornabuoni, 1 - Firenze Tel. 39 055 296631 © 2012 Cultlab - Deistaf via San Bonaventura, 13 - Firenze Tel. Fax 39 55 3288676 www.cultlab.deistaf.unifi.it © 2012 Bandecchi & Vivaldi via Giovanni XXIII, 54 - 56025 Pontedera (Pisa) Tel. 0587-483270 – Fax 0587-483269 www.bandecchievivaldi.it info@bandecchievivaldi.com


PREFAZIONE Imparare, sperimentare, conoscere, intraprendere. Nella mia esperienza, sono attività che si sono combinate naturalmente, completandosi e arricchendosi l’un l’altra. Credo fortemente che la cultura sia non solo il nutrimento del progresso umano ma anche un fattore competitivo: per un’impresa, per un territorio, per un Paese. Questo è ancor più vero, in questi tempi di accresciuta concorrenza globale, per l’Italia e per le nostre città, tra le quali la mia Firenze. È ampiamente condiviso che il nostro posizionamento competitivo sui mercati non possa che fondarsi sulla qualità e che sia solo con produzioni di alto valore aggiunto che noi potremo difendere il nostro benessere, il nostro stile di vita e il nostro modello di sviluppo, dalla serrata e aggressiva concorrenza, non sempre purtroppo in forme leali, proveniente da Paesi che usufruiscono non solo di costi del lavoro più bassi ma di sistemi sociali meno attenti ai diritti dell’uomo e alla conservazione dell’ambiente. Se questa consapevolezza è ormai largamente diffusa, forse non si riflette ancora a sufficienza sul fatto che la qualità richieda cultura, che non sia in realtà altro, in essenza, che cultura. Serve cultura per conferire eccellenza alle nostre produzioni, cultura che sia capace di farsi conoscenza tecnica, sensibilità per le forme, attenzione al cliente, efficienza organizzativa. E serve cultura sul mercato, dalla parte dei clienti, perché la qualità possa essere apprezzata in forme di consumo più sofisticate e attente ad esempio agli aspetti ambientali e sociali e perché ne sia riconosciuto il valore aggiunto. Investire sulla cultura, puntare alla qualità della vita, significa dare vita a un nuovo modello di sviluppo, capace di farci superare le secche della crisi economica apertasi nel 2008 e riacutizzatasi nel 2011 a causa delle tensioni finanziarie sui debiti sovrani e sull’Euro. L’elevazione dell’uomo, cui aspira la cultura, porta con sé benessere e sviluppo economico. Il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy ebbe a dire: “The life of the arts, far form being an interruption, a distraction in the life of a nation, is close to the center of a nation’s purpose, and is a test of the quality of a nation’s civilization”. La Fondazione Florens auspica la fioritura di idee, di progetti, di avventure artistiche ed economiche. Florens favorisce la conoscenza ed il confronto tra approcci, sensibilità e visioni diverse. Florens si offre come un laboratorio in cui imprenditori, artisti, ricercatori, intellettuali, possano scambiare esperienze e punti di vista, ricercando collaborazioni e promuovendo sintesi che facciano progredire le conoscenze e incentivino le produzioni e le espressioni artistiche. Tra le attività della Fondazione Florens, importante rilievo assume la realizzazione di studi e di ricerche. La conoscenza e l’approfondimento costituiscono la base che rende possibile nuove idee, nuova progettualità e anche nuova imprenditoria. Nel 2010 la Fondazione ha editato il volume L’economia di beni culturali e ambientali: una visione sistemica e integrata realizzato da The European House – Ambrosetti Spa, nel quale, tra l’altro, si quantificava in 2,49 il moltiplicatore sul Pil della spesa in cultura, si faceva un’analisi del posizionamento dei territori rispetto al potenziale del settore culturale e creativo attraverso un indicatore sintetico denominato “Florens index” e si presentava una indagine sulla cultura su un campione di 4.000 cittadini italiani, 4.000 europei e 1.000 statunitensi. In occasione di Florens 2012, Biennale internazionale dei beni culturali e ambientali, la Fondazione Florens presenta questo volume di ricerche, curato da Andrea Carandini, Mauro Agnoletti e Walter Santagata, che scavano in profondità, con approccio qualitativo, su tre diversi ambiti in cui cultura ed economia si incrociano in modo fecondo: i beni culturali; il paesaggio; l’industria creativa e culturale. La varietà degli ambiti di indagine è la cifra del contributo che Florens ha inteso dare con questo programma di studi, con l’intento di offrire, in primo luogo agli autori e poi ai lettori, la possibilità di confrontare metodi di analisi, approcci e spunti, tutti però fortemente caratterizzati dalla ricerca di nuove forme attraverso le quali accrescere l’investimento culturale e generare nuova intrapresa economica. Giovanni Gentile Presidente Fondazione Florens President of the Florens Foundation 7


PREFACE

Learn, experiment, know, undertake. In my experience, these activities naturally work together, completing and enriching one another. I firmly believe that culture is not just the substance of human progress but also a factor in competitiveness: for businesses, regions, and for countries. This is even truer now, in these times of increased global competition, for Italy and for our cities, including my Florence. It is widely understood that our competitive position on the market cannot be based on anything but quality and that only with high quality production can we defend our wellbeing, our lifestyle and our development model, from tough and aggressive competition, unfortunately not always legitimate, from countries that take advantage of not only lower labor costs but of social systems much less attentive to human rights and environmental conservation. If this idea is now widely understood, perhaps we do not sufficiently reflect on the fact that quality requires culture; that in essence it cannot be anything other than culture. Culture is necessary for conferring excellence on our products, culture that is able to be technologically advanced, sensitive to form, attentive to clients, organized efficiently. And we need culture on the market, on the part of clients, so that quality can be appreciated in more sophisticated and attentive consumer formats for example in environmental and social aspects and so the added value can be recognized. Investing in culture, concentrating on quality of life, means giving life to a new development model will enable us to overcome the economic crisis that began in 2008, and worsened in 2011 due to the financial tensions over sovereign debt and the Euro. The elevation of man, to which culture aspires, brings with it wellbeing and economic development. The president of the United States John F. Kennedy said: “The life of the arts, far from being an interruption, a distraction in the life of a nation, is close to the center of a nation’s purpose, and is a test of the quality of a nation’s civilization”. The Florens Foundation hopes for the flourishing of ideas, projects, artistic and economic adventure. Florens favors knowledge and a meeting of different approaches, sensibilities and visions. Florens offers itself as a workshop where entrepreneurs, artists, scholars and intellectuals can trade experiences and points of view, seeking collaboration and promoting syntheses that advance knowledge and incentivize artistic production and expression. Among Florens Foundation’s many activities, an important focus is placed on studies and research. Knowledge and examination constitute the basis for new ideas, new projects and even new businesses. In 2010, the Foundation edited the volume L’economia di beni culturali e ambientali: una visione sistemica e integrata (The economy of cultural and environmental heritage: a systemic and complete vision) published by The European House – Ambrosetti Spa which did a variety of things: the multiplier of the GDP spent on culture was quantified at 2.49%, an analysis of the positioning of regions with respect to the potential of the cultural and creative sector through a synthetic indicator named Florens Index was done, and an investigation of culture on a sample of 4,000 Italian citizens, 4,000 European citizens and 1,000 US citizens was presented. On the occasion of Florens 2012, the International Biennale of Cultural and Environmental Heritage, the Florens Foundation is presenting this research edited by Andrea Carandini, Mauro Agnoletti and Walter Santagata, whose qualitative approach focuses on three different areas where culture and economics meet in productive ways: cultural heritage; the environment; and the creative and cultural industry. Through the variety of the research, Florens intends to contribute and offer, to both the authors and to the readers, the possibility of confronting methods of analysis, approaches and cues; all, however, strongly characterized by the search for new forms through which to increase cultural investment and generate new economic enterprise. Giovanni Gentile President of the Florens Foundation Presidente Fondazione Florens 8


Florens 2012 Cultura, qualità della vita Il crescente rilievo politico e sociale che la necessità di una rivoluzione nei rapporti fra sviluppo e cultura sta assumendo in questo momento storico, segnala una profonda trasformazione che coinvolge la parte migliore del nostro paese, invitando ad una riflessione di cui Florens 2012 si vuole fare interprete. L’Italia è stata per secoli un punto di riferimento per la cultura europea, immersi nel suolo della Penisola erano le radici della civiltà e della modernità, la storia di Firenze, di Venezia, di Roma e delle cento città e paesaggi del Belpaese costituiscono la tessitura profonda della cultura italiana e di gran parte del mondo occidentale. Il modello che si può ricostruire risalendo a ritroso nei secoli parla con continua autorevolezza a chi oggi nel mondo vive la cultura e il patrimonio culturale come esperienze fondamentali per la qualità della vita. In particolare l’attenzione si concentra su due grandi politiche di trasformazione: da un lato la conservazione del passato, dall’altro l’innovazione e quindi la produzione della cultura del futuro. Sulla possibilità di integrare tali politiche si gioca l’ opportunità di proporre un modello italiano di cultura e creatività, prendendo atto che la conservazione non è contrapposta allo sviluppo, al contrario, essa rappresenta uno dei nuovi volti dell’innovazione per la società contemporanea. Ogni autentica innovazione comporta l’arricchimento continuo del patrimonio di valori lentamente sedimentato nel passato e allo stesso tempo, non si può realizzare una autentica conservazione senza la contemporanea produzione di nuovi valori. Conservare avvicina le politiche di protezione alla salvaguardia giuridica e alla riscoperta e recupero delle opere d’arte, alla gestione dei musei e delle città storiche, al recupero del paesaggio. Nella Firenze del Rinascimento ritroviamo la tensione attuale alla tutela e valorizzazione del patrimonio culturale del passato. I Medici, ma anche i cardinali umanisti romani e gli aristocratici veneti si impegnarono a definire un modello di conservazione fondato su norme di tutela, liste di opere da salvaguardare, organizzazione museale, archiviazione del bello, riflessione su un passato eccellente. La produzione di cultura è, invece, segno di una scottante asimmetria: mentre nel passato gli artisti, i creativi e i filosofi arricchivano continuamente di nuovi contenuti una cultura che si imponeva per bellezza, creatività e ingegno su tutto il mondo, oggi si assiste a una debolezza strutturale nella produzione di cultura italiana. Pochi artisti, pochi interpreti, pochi creativi, pochi scrittori, pochi compositori musicali, poca creazione di nuovi paesaggi di qualità: ecco un nuovo terreno di sfida per il modello italiano che in pochi decenni ha subito profonde modificazioni. In due generazioni di miracolo economico, che ha portato prima all’abbandono delle campagna, all’inurbamento e all’industrializzazione, e poi di stasi e di declino economico, il paradiso del bel paese è stato compromesso per quello spargersi anti estetico delle periferie che hanno contagiato le campagne. Un artigianato agricolo che pur producendo trasformava la terra in una trina, oggi è compromesso da abbandono ed industrializzazione che non hanno creato né un paesaggio migliore, né retto all’impatto della globalizzazione. Il mondo è mutato e da industriale è diventato post-industriale. Le attività primarie e secondarie hanno ceduto il posto alle industrie creative sempre più essenziali e con possibilità di sviluppo. Di queste industrie creative fa parte sia il turismo che la cultura, perché nelle società post industriali produzione e creatività tornano a fondersi, come avveniva un tempo e come l’industrialismo ha impedito. Il paesaggio è una delle grandi risorse che hanno contraddistinto l’immagine dell’Italia nel mondo, costituendo una parte fondamentale di quel “capitale” su cui si fondano le possibilità di sviluppo del paese. Esso non rappresenta più solo un fenomeno estetico-culturale, isolato dal contesto socioeconomico, ma si configura piuttosto come un nuovo paradigma di riferimento per la definizione di un modello di sviluppo adeguato a rispondere ai cambiamenti globali che interessano la società contemporanea, rappresentando il risultato dell’integrazione, nello spazio e nel tempo, di processi, economici, ambientali e sociali. I processi di globalizzazione, coi loro contraddittori effetti di omologazione e mo9


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

dernizzazione da un lato, di squilibri e diseguaglianze dall’altro, hanno reciso i legami della gente coi luoghi minando alla radice il radicamento territoriale delle formazioni sociali. La crescita della domanda di paesaggio è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità ha dissolto, esprimendo l’emergere di nuove domande sociali e di qualità della vita che attendono risposta e l’insofferenza verso politiche che favoriscono il degrado ambientale e paesistico. Nonostante l’incombere di uno scenario non sempre positivo nelle sue capacità produttive il modello italiano attuale si arricchisce di altre caratteristiche in parte già sviluppate ed in parte da sviluppare ulteriormente: – La varietà delle declinazioni e dei linguaggi. Siamo la terra delle mille città e borghi liberi e creativi, siamo,inoltre, oggi immersi in una multiculturalità internazionale. Questa diversità è diventata simbolo di modernità, di assenza di culture dominanti, ma anche rivoltando la visione, di capacità attrattive di nuovi talenti da tutto il mondo. – Il valore delle tradizioni. Questo tratto è la risultante di innumerevoli flussi di cultura che, radicati nella realtà del territorio e dei suoi saperi, alimentano una immagine viva e internazionale. Il territorio è fonte di savoir faire, di tradizioni artistiche, consocenze tradizionali e di tracce culturali che la creatività reinterpreta e rinnova dall’artigianato alla gastronomia, dalla architettura alla musica e alla letteratura, . – La capacità di rafforzare l’identità, inglobando l’architettura nella filosofia di vita cittadina e tutelando il paesaggio, rurale, urbano e culturale. Una identità che non esclude, che non alza steccati, ma al contrario che è disposta al dialogo, alla cooperazione e allo scambio di fiducia. – La creatività per la qualità sociale, ossia lo sviluppo delle attività creative non solo per accrescere le innovazioni tecnologiche, ma anche per migliorare la qualità di vita e rendere più realistici e realizzabili i piani individuali di vita. È una componente del modello italiano che lo distingue dai modelli di produzione culturali fondati soprattutto sulla ricerca di nuove tecnologie per la conquista dei mercati internazionali. – Il continuo riferimento ai network della creatività. Le industrie creative,infatti, si articolano in sistemi di diverse dimensioni che fanno sviluppare reti locali di creatività (arte contemporanea, musica, cinema, architettura e altro) comprensive di hub o fabbriche della cultura, di microservizi e di legami regionali ed extraregionali. Tutto ciò conduce alla ricerca nelle nostre città di una nuova atmosfera creativa fonte di produzione di beni, idee, prodotti di design e servizi culturali di eccellenza. – La crescita di un turismo culturale evoluto. Anche il consumo e la condivisione della nostra cultura ha cambiato natura a seguito dello sviluppo economico e sociale recente. A visitare i monumenti, siti archeologici e musei, ad ammirare i paesaggi, non sono più oggi signori istruiti, colla mente formata sulla grammatica latina. Si tratta oramai di un grande numero di uomini: Italiani, stranieri che vivono in Italia, stranieri che vengono dall’Europa e dagli Stati Uniti, e sempre più stranieri che vengono da paesi lontani, soprattutto dall’Asia (il 40 per cento a Pompei). Alberghi e trasporti non sono adeguati in Italia per un turismo di questo genere e manca per di più una strategia culturale capace di attrarre persone lontane nella Penisola. Si tratta di uomini che ignorano chi siano stati l’Imperatore Adriano, Piero de’ Medici e Beccaria. I nostri portali informatici sono inadeguati, non abbiamo un museo storico dell’Italia – come quello che ha la Germania a Berlino – né disponiamo di musei storici delle nostre città – come quelli di Londra e di Amsterdam. Perché si apprezzi il nostro paesaggio, la nostra architettura e la nostra arte è necessario che il visitatore sappia, almeno in breve, quali civiltà si sono succedute su questo lembo di terra, quali forme politiche e culturali sono state sperimentate su di essa, che hanno avuto e stanno ancora avendo un eco mondiale, quali siano i paesaggi storici che rendono unico il nostro paese ed i prodotti ad essi associati. – La costruzione di una identità competitiva, attraverso la valorizzazione del rapporto fra qualità del paesaggio, produzione tipiche e turismo, da un lato, e la proposizione di modelli qualitativi 10


Florens 2012. Ccultura, qualità della vita

per gli insediamenti urbani, periurbani e la rete infrastrutturale dall’altro, rappresenta la sfida che ci attende per rispondere ai processi di globalizzazione. Il paesaggio concorre a produrre un “valore aggiunto” non riproducibile dalla concorrenza che riconosce il ruolo della diversità e della identità storica come fattore di competitività. Solo assicurando un fecondo rapporto fra processi produttivi e qualità del paesaggio protrà essere ricomposta quella virtuosa sinergia che può portare alla qualità del paesaggio. – La revisione della percezione dei rapporti fra ambiente, natura e paesaggio, che rimetta al centro la società umana. È necessario promuovere una nuova cultura finalmente consapevole del primato storico della cultura italiana nella capacità di integrare risorse ambientali e sviluppo socioeconomico, che il mondo da tempo ci ha riconosciuto. Ciò però richiede una revisione critica di modelli consolidati senza nulla concedere al vagheggiamento nostalgico di una mitica “condizione naturale” pre-industriale e pre-moderna, all’inseguimento di una idea di ecologia illusoriamente sottratta ad ogni influenza antropica. I saggi e le ricerche contenuti in questo volume intendono offrire spunti di riflessione ed idee su questi temi, nella consapevolezza della insufficienza di una semplice denuncia dell’assenza del tema della cultura nel dibattito politico, se questa non è accompagnata da una serio lavoro di analisi dei problemi e dalla proposizione di nuove strade da perseguire.

Mauro Agnoletti Andrea Carandini Walter Santagata

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Florens 2012 CulturE AND qualitY OF LIFE There is a growing awareness today in politics and society that in this historical moment we need a revolution in the relationship between development and culture. This is a sign of a deep change that involves the best part of our country, a change that invites a reflection that Florens 2012 intends to bring to the fore. For centuries Italy was a landmark for European culture, as the country where civilization and modernity had their roots. The history of Florence, Venice, Rome and the hundred cities and landscapes of the bel paese constitutes the very fabric of the culture of Italy and of much of the Western world. The model that we can reconstruct by working our way backward through the centuries still speaks authoritatively today to those who see culture and cultural heritage as fundamental components of the quality of life. Notably, attention is focused today on two major policy objectives: on the one hand, the conservation of the past, on the other, innovation and, hence, the production of the culture of the future. An integration of these two objectives would provide an opportunity to develop an “Italian model” of culture and creativity, based on the acknowledgement that conservation is not antithetic to development; on the contrary, it is one of the new faces of innovation in contemporary society. Authentic innovation is achieved by continuously adding to a heritage of values that has slowly sedimented in the course of history. Conversely, there cannot be true conservation without the production of new values. Conservation combines heritage safeguarding policies with the legal protection, rediscovery and retrieval of works of art, the management of historical museums and cities, and landscape recovery. Something resembling the modern focus on the protection and promotion of cultural heritage can be found in Renaissance Florence The Medic as well as Roman humanist cardinals and Venetian aristocrats strove to define a conservation model based on protection norms, lists of works to be safeguarded, museum organization, the cataloguing of what is beautiful, and reflection on an exceptional past. Compared to those times, however, in modern Italy there is a glaring asymmetry between past and current cultural production. While back then artists, creative talents and philosophers kept coming up with new additions to a culture that was acknowledged worldwide for its exquisiteness, creativity and ingenuity, today we are confronted with a structural weakness in Italian cultural production. Contemporary Italy has few artists, few performers, few creative talents, few writers, few musical composers, and creates few new quality landscapes. This is the challenge the Italian model has to face, having undergone deep changes in just a few decades. Over two generations, an economic boom led to the abandonment of the countryside, urbanization and industrialization, then economic stasis and decline set in. Today, the paradise of the bel paese has thus been compromised by the unsightly expansion of suburbs, and the contagion has also spread to the countryside. An artisanal agriculture that had transformed the landscape into a work of art, but was nevertheless productive, has been undermined today by abandonment and industrialization, which have neither given rise to a better landscape nor withstood the impact of globalization. Today the world has turned from industrial to postindustrial. Primary and secondary activities have given way to creative industries, which are becoming increasingly essential and hold promise for future development. These creative industries include both tourism and culture, because in postindustrial societies production and creativity have come together again, after being separated by industrialism. Italy’s landscape is one of the major components of its image in the world. It is thus a crucial part of the “capital” on which the country’s opportunities for development rest. It is no longer a merely aesthetico-cultural phenomenon, isolated from its socioeconomic context; rather, it is a new paradigm for a development model capable of coping with the global changes of contemporary society, a model integrating economic, environmental and social processes over space and time. Globalization processes, 12


Florens 2012. Culture And Quality Of Life

with their contradictory effects of homologation and modernization, on the one hand, and imbalances and inequalities, on the other, have severed people’s ties with places, undermining the rooting of social formations in their areas. The growth of the demand for landscape is a sign that human beings feel the urge to renew their bond with the land, dissolved by modernity. They are demanding a better quality of life and are impatient of policies resulting in environmental and landscape deterioration. Although the economic scenario is not always favorable, the current Italian model can boast some already fully developed features, as well as others that are susceptible of further development: – Variety. We are a country of a thousand free and creative cities and villages; besides, today we are immersed in an international multiculturality. This diversity has become a symbol of modernity, of the absence of a dominant culture, but also of a capability to attract new talents from all over the world. – The value of traditions. This feature is the result of innumerable culture flows that are rooted in the reality of each area and its local know-how, and help to fuel a lively image of the country and project it abroad. Local areas are a fountainhead of savoir faire, artistic traditions, traditional knowledge, and cultural traces, which creativity reinterprets and renews, from craftsmanship to cuisine, and from architecture to music and literature. – A capability to reinforce identity by incorporating architecture into the philosophy of urban life and protecting the rural, urban and cultural landscape. This identity does not exclude, it does not raise barriers; on the contrary, it is open to dialogue and cooperation on a basis of mutual trust. – Creativity for social quality, that is, the deployment of creativity not only to promote technological innovation, but also to improve quality of life and make individuals’ life plans more realistic and achievable. This is a component of the Italian model distinguishing it from cultural production models founded especially on the search for new technologies to win global market shares. – Creativity networks. Creative industries are organized as systems of various extensions forming local creativity networks of contemporary arts, music, cinema, architecture, etc. A network will include culture hubs, micro-services, and regional and extra-regional connections. The aim of these networks is to establish a new creative atmosphere in our towns, a breeding ground for the production of high-end goods, ideas, design products and cultural services. – The growth of an advanced cultural tourism. Recent economic and social development has changed the ways in which we consume and share culture. Today, the majority of visitors of Italian monuments, archaeological sites, museums and landscapes are no longer highly educated gentlemen and ladies with minds shaped by Latin grammar. Today, these visitors include great masses of people: Italians, foreigners living in Italy, foreigners from Europe and the United States, and an increasing number of foreigners from remote countries, especially from Asia (40% of whom come to see Pompeii). In Italy, the accommodation and transportation system is inadequate for this kind of tourism. Furthermore, the country lacks a cultural strategy capable of attracting visitors from remote countries. These are people who do not know who Hadrian, Piero de’ Medici or Beccaria were. Our Web portals are inadequate, we do not have a historical museum of Italy like the one Germany has in Berlin or historical museums of our cities, as in London or Amsterdam. For visitors to be able to appreciate our landscape, architecture and art, they need to have at least a general knowledge of the civilizations that followed one another in our country, of its political and cultural experiences which had and are still having worldwide resonance and of the historical landscapes, and the products associated with them, that make it unique. – The construction of a competitive identity in rural areas by making the most of the relationship between rural landscape quality, typical products, and tourism, on the one hand, and qualitative models for urban and periurban settlements and the infrastructural network, on the other. These are both challenges we need to meet to respond to globalization processes. Landscape contributes an “added value” that cannot be reproduced by the competition. Historical diversity and identity should be acknowledged as a competitiveness factor. We need to restore the virtuous synergy of productive processes and landscape quality. 13


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

– Restoring the centrality of human society in our understanding of the relationships between environment, nature and landscape. We need to promote a new awareness of the historical primacy of Italian culture in the integration of environmental resources and socioeconomic development; a primacy that has since long earned worldwide recognition. To do so, however, we need to critically revise well-established models informed by a nostalgic longing for a mythical “natural�, preindustrial and premodern condition, pursuing the illusory ideal of a nature completely free from anthropic influences. The essays and researches contained in this volume intend to offer food for thought and ideas about these questions, in the awareness that it is not enough to simply denounce the absence of the theme of culture in the political debate: we need to engage in serious reflection on the issues at hand and point out new paths.

Mauro Agnoletti Andrea Carandini Walter Santagata

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Paesaggio e ambiente Landscape and ENVIRONMENT



Introduzione

Il paesaggio Le ricerche sul tema del paesaggio intendono prendere in considerazione il valore ambientale del paesaggio rurale, il suo valore economico, ed il ruolo dei paesaggi urbani e periurbani, riconoscendo in questi temi criticità sui quali avviare una riflessione. Fino ad oggi il settore dei beni culturali, quello ambientale e, come riflesso operativo, la pianificazione urbanistica e la conservazione della natura, hanno posto l’accento soprattutto sulla patrimonio culturale e le risorse ambientali. Vi è stata sostanzialmente una divisione dei ruoli, con i tradizionali apparati di tutela dello Stato concentrati sul patrimonio artistico e monumentale, mentre la conservazione della natura si è rivolta al cosiddetto territorio “aperto”, cioè il paesaggio rurale. Si è in sostanza concordato sul ruolo prioritario da assegnare al problema della espansione urbanistica e alla conservazione del patrimonio culturale, attribuendo una valore naturalistico-ambientale, al resto del paesaggio, circa il 94% del paese, adottando strategie ed orientamenti di gestione che hanno spesso ignorato le sue funzioni e la matrice storica. Etichette di “aree naturali”, “risorse naturali” ecc. sono state indifferentemente utilizzate nel settore dei beni culturali, nella conservazione della natura e nella pianificazione urbanistica per descrivere ambito paesaggistici essenzialmente determinati dalle pratiche agricole e forestali. Il prodotto di tutto questo non potevano che essere indirizzi rivolti alla rinaturalizzazione alla conservazione di habitat naturali e vincoli paesaggistici apposti in modo aspecifico alle superfici forestali. Con l’assunzione delle competenze sul paesaggio rurale da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, attraverso l’attività del gruppo di lavoro sul paesaggio sono state introdotte delle novità sia nell’approccio interpretativo, sia nelle normative. Fra queste, l’osservatorio nazionale del paesaggio, l’inventario dei paesaggi e delle pratiche tradizionali, la legge per il restauro del paesaggio rurale di interesse storico, che consente il recupero di paesaggi preesistenti, anche in presenza di coperture forestali e la proposta di legge per ridurre il consumo di suolo agrario in conseguenza dell’espansione delle aree urbane. In virtù di queste iniziative, le prospettive e le possibilità di intervento si sono molto ampliate, grazie anche alla possibilità di utilizzare in modo più efficace i fondi delle politiche agricole comunitarie. Vi è di conseguenza la necessità di ridefinire obiettivi e criteri di intervento riguardanti la gestione delle risorse paesaggistiche, comprendendo fra queste anche le aree dell’agricoltura periurbana, in una visione integrata e più aderente alla realtà storica ed al ruolo attuale del paesaggio all’interno dei processi di cambiamento globale che attraversano la società, l’economia e l’ambiente. Nonostante questa esigenza, vi è indubbiamente una certa resistenza a mettere la parola “paesaggio” Sezione 1. Paesaggio e ambiente La crescente attenzione per il paesaggio, ed in particolare per i paesaggi rurali tradizionali tipici delle tante agricolture che caratterizzano l’Italia e altri paesi del mondo, prende atto del loro fondamentale ruolo non solo come presidio del territorio, per prevenire e limitare il dissesto idrogeologico, ma anche per la conservazione della biodiversità, suggerendo di rivedere alcuni paradigmi scientifici consolidati ed aprendo nuovi orizzonti alla ricerca scientifica. Infatti, non sono solo i processi di trasformazione avvenuti in ambito agricolo ed urbanistico ad avere prodotto una banalizzazione ed un 17


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

degrado del paesaggio, ma anche la diffusione di concetti scientifici e strategie operative che hanno favorito una generica idea di “ritorno alla natura” come soluzione più efficace per con seguire la sostenibilità dello sviluppo. Sebbene l’urbanizzazione proceda al ritmo di 8000 ha all’anno, negli ultimi dieci anni, mantenendo il suo valore assoluto intorno al 6% del territorio, si osserva al contrario un abbandono della campagna pari a più di 100.000 ha l’anno, negli ultimi 100 anni, con un conseguente aumento della vegetazione forestale invadente calcolabile intorno ai 75.000 ha all’anno, includendo anche le are percorse dagli incendi. La valutazione positiva assegnata agli effetti dell’abbandono da parte di larghe porzioni del settore della conservazione della natura e della popolazione è dovuta ad una cattiva interpretazione dei concetti della biodiversità e del suo rapporto con il paesaggio rurale. Non è stato tenuto nel debito conto della esistenza di esempi di positiva interazione fra uomo e natura e di un più ampio significato del concetto di biodiversità associata al paesaggio, la cui importanza viene oggi riconosciuta sia dal Joint Program fra Convenzione Onu sulla Biodiversità e Unesco riguardo alla diversità bioculturale, sia da progetti quali il Globally Important Agricultural Heritage Systems (GIAHS) della Fao, inerente i sistemi agricoli storici. I processi di abbandono dell’agricoltura e la rinaturalizzazione di campi e pascoli, non sempre hanno favorito un aumento della biodiversità, ma piuttosto una sua riduzione, specialmente a scala di paesaggio. Esempi importanti di diversità bioculturale sono le colture promiscue, che abbinano produzione e biodiversità di specie animali e vegetali. In questo senso al scelta di mettere a confronto tre realtà paesaggistiche di grande significato storico e ambientale, ma poste in contesti ambientali e socioeconomici totalmente diversi vuole avviare una valutazione di tipo comparativo di caratteristiche poco considerate nella valutazione del paesaggio agrario fatte a livello internazionale. Queste tengono in considerazione le capacità delle culture tradizionali di creare paesaggi con un’alta biodiversità legata alle pratiche agricole, ma anche di costituire notevoli esempi di adattamento a climi diversi e spesso estremi, come nel caso dei deserti del Marocco, molto importanti per lo studio del cambiamento climatico che interessa il pianeta. Un’altra importante funzione svolta dai paesaggi tradizionali riguarda il loro insostituibile ruolo come presidio per la riduzione dei rischi di dissesto idrogeologico. Questo è il caso dei terrazzamenti, il cui abbandono pregiudica la funzione di protezione idrogeologica, con conseguenti fenomeni di dissesto idrogeologico, come avvenuto nelle Cinque Terre nell’Ottobre del 2011. La ricerca sulle Cinque Terre, oltre a sfatare alcuni miti riguardanti il rapporto fra i fenomeni di abbandono e la rinaturalizzazione delle aree agricole abbandonate, invariabilmente presentate come positivi, mette in primo piano l’urgenza di avviare una grande opera di ripristino e manutenzione di queste sistemazioni agrarie molto diffuse in tutta Italia. Le loro funzioni, oltre il contributo al miglioramento qualitativo delle produzioni tipiche, il valore storico ed estetico, sono di fondamentale importanza per il controllo e la riduzione del rischio idrogeologico, confermando il ruolo insostituibile dell’agricoltura e degli agricoltori per la manutenzione del territorio. Si tratta di un’opera necessaria e che necessità di interventi capillari e costanti, il cui costo però è largamente inferiore ai danni causati dall’abbandono. Sebbene infatti le analisi che regolarmente appaiono sui mezzi di informazione mettano in risalto invariabilmente gli effetti negativi della cementificazione, poco viene detto sul fatto che l’origine di frane, dissesti ed alluvioni non è mai “a valle”, ma a monte delle città e dei paesi e da là bisogna partire per evitarli. Sezione 2. Paesaggio ed economia I processi di modernizzazione e le potenzialità delle risorse paesaggistiche dal punto di vista economico, offrono ulteriori spunti progettuali. Sembra sempre più necessaria una revisione critica dei modelli di sviluppo consolidati, senza nessuna concessione a nostalgiche condizioni preindustriali, ma prendendo atto che tali risorse costituiscono parte fondamentale di quel “capitale” su cui si fondano le possibilità di sviluppo, concorrendo a produrre un “valore aggiunto” che riconosce il ruolo della diversità e della identità storica come fattore di competitività. La costruzione di una “identità competitiva” del territorio, attraverso la valorizzazione del rapporto fra qualità del paesaggio agrario, produzione 18


Paesaggio e ambiente. Introduzione

tipiche e turismo, da un lato, e la proposizione di modelli qualitativi per gli insediamenti urbani, periurbani e la rete infrastrutturale dall’altro, rappresentano altrettante sfide per rispondere ai processi di abbandono delle campagne e ai processi di urbanizzazione. Si tratta di fenomeni che presentano non solo effetti economici e sociali importanti, basti pensare alla crisi alimentare mondiale, ma anche alle notevoli conseguenze ambientali. Rispondere alle sfide imposte dalla modernità, implica la definizione di obiettivi qualitativi operando la revisione di alcuni orientamenti passati e chiarendo incertezze e sovrapposizioni che hanno ingenerato notevole confusione e talvolta l’inefficacia delle iniziative. Solo assicurando un fecondo rapporto fra processi produttivi e qualità del paesaggio possono anche essere proposti, ad un più ampio numero di soggetti e aperti a nuovi flussi turistici, l’insieme dei beni culturali italiani, che non sono solo fatti di monumenti ed opere d’arte, ma anche da città e campagne sottoposti a processi di continua trasformazione che richiedono di essere governati. Il Piano Strategico Nazionale di Sviluppo Rurale 2007-2013 ha già tentato di indirizzare le politiche regionali verso una maggiore considerazione di questa risorsa. È però necessario riuscire a produrre indagini che affrontino in profondità il valore economico del paesaggio e l’utilità di investire in questo settore, cercando di individuare esperienze significative per suggerire nuovi indirizzi e nuove opportunità, per offrire più opzioni di intervento al decisore pubblico. L’indagine proposta dalla Professoressa Torquati su quattro casi di studio scelti fra aziende che hanno effettivamente investito su questa risorsa risponde a questa esigenza, con una analisi attenta delle componenti economiche legate a scelte aziendali attinenti al paesaggio. Più ad ampio raggio risulta invece il lavoro proposta dai colleghi dell’Università di Minho, in Portogallo, relativo agli effetti degli inserimenti della valle del Douro nel patrimonio mondiale Unesco. Il crescente numero di siti iscritti nella categoria dei paesaggi culturali, potrebbe consentire l’avvio di un progetto internazionale volto a chiarire il ruolo economico di queste iniziative, che la ricerca pur nella limitatezza del testo, cerca di affrontare mettendo in evidenza i punti di forza ed i punti deboli di una operazione che ha ormai dieci anni di vita. Oltre all’importanza di investire nel recupero e nella conservazione del paesaggio storico come fattore di competitività, è necessario anche tenere in considerazione la progettualità legata alla creazione di nuovi paesaggi, in grado di abbinare obiettivi qualitativi che uniscono la qualità dei prodotti all’attrattività dei luoghi di produzione. È necessario sfatare vecchi miti legati ad una supposta inadeguatezza economica della conservazione del paesaggio storico, o l’idea che un paesaggio di qualità sia il naturale risultato di una qualunque agricoltura. Appare invece urgente impostare strategie di mercato in grado di rendere palese il rapporto fra paesaggio e prodotto ed avviare una offerta integrata di prodotti e servizi in grado di attrarre un consumo ed un turismo di qualità. Questo consentirà anche di affrontare in modo vincente la sfida relativa a mercati e paesi emergenti quali i cosiddetti BRIC. In particolare il mercato cinese, specie nelle fasce elevate dei consumatori mostra un crescente interesse per il valore paesaggistico e storico associato al nostro paese, non solo al prodotto tipico e ad un semplice “stile di vita”. Questo insieme di visioni e strategie non appaiono oggi ancora pienamente condivise da alcune istituzioni pubbliche e dalle rappresentanze di categorie e realtà produttive che operano nel settore, mentre invece alcuni imprenditori più dinamici, hanno già iniziato cambiamenti importanti nelle loro strategie produttive e di mercato. Si è quindi proposta una sperimentazione progettuale che ha preso come esempio un vigneto posto nell’azienda del Castello di Verrazzano (Greve in Chianti - Fi). L’opportunità di prendere il Castello di Verrazzano come caso di studio è legata alla disponibilità del proprietario e alle condizioni dell’azienda, che accanto alla produzioni vitivinicola ed olivicola, presenta un’importante attività agrituristica. Tutto questo, oltre alla necessità di rinnovare i vigneti, offriva le condizioni per proporre una nuova architettura degli impianti con l’obiettivo di rendere fruibile al pubblico una porzione maggiore del paesaggio dell’azienda, aumentandone il pregio estetico nel rispetto delle esigenze produttive. Il progetto non si è posto il problema di una ricostruzione storica, ma ha invece scelto di produrre un nuovo paesaggio che è il prodotto di una rielaborazione di valori lentamente sedimentati nel passato in questo territorio, come avviene in qualunque processo di innovazione, combinando esigenze produttive tradizione e valore estetico. 19


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Sezione 3. Paesaggi urbani e periurbani Con l’inversione del rapporto fra la popolazione che vive in campagna e quella che vive in città a favore della seconda, ormai in corso di alcuni anni sono profondamente cambiati non solo i rapporti che regolano le relazioni fra i due sistemi, ma anche il valore assegnato al territorio rurale e alle aree periurbane, oltre naturalmente al ruolo della pianificazione. Le ricerche presentate nella sezione dedicata ai paesaggi urbani e periurbani prendono sostanzialmente in esame alcune di queste problematiche mettendo a confronto casi diversi dal punto di vista urbanistico, ambientale e paesaggistico. Il primo e più evidente confronto viene offerto dalle indagini che mettono a confronto al città di Portland e Firenze. Si tratta di due luoghi che offrono le due facce di una stessa medaglia e dei problemi connessi. Da un lato abbiamo una città con un centro storico che costituisce ancora il nucleo di pregio dell’impianto urbanistico fiorentino, dall’altro una città molto più moderna che ha affidato e risolto, con un’efficace pianificazione urbanistica, non solo i problemi del traffico ma anche del rapporto con la campagna. Il grande incremento dei trasporti pubblici di superficie di Portland, completamente gratuiti nella downtown area, ha praticamente svuotato il centro dalla circolazione degli autoveicoli, rendendo più conveniente l’uso del mezzo pubblico. Il sistema delle piste ciclabili e delle aree verdi si è inserito in un contesto urbano modernissimo, ma molto piacevole esteticamente, con quartieri che presentano locali all’aperto ed una variegata offerta di eventi e luoghi di ritrovo che presentano un carattere policentrico. La campagna, d’altra parte, rientra in città con gli affollatissimi farmer’s markets, non tanto mercati ortofrutticoli come si vedono nelle città italiane, ma piuttosto un complesso di produttori che gravitano nell’area periurbana che più volte a settimana vengono in città per vendere i loro prodotti. Si tratta certo di una città che non ha la storia e la bellezza architettonica di cui Firenze è ricca, e nemmeno le colline intorno a Portland pur ricordando Firenze, presentano un sistema insediativo paragonabile anche per bellezza estetica. Certamente Firenze è lontana dall’avere risolto sia il problema della circolazione veicolare nell’area urbana, sia il rapporto con la sua campagna, vista la difficoltà anche solo a dibattere della realizzazione di una fascia agricola che oltre a conservare il paesaggio rurale proteggendolo dall’avanzata del cemento, possa svolgere una funzione economica e ricreativa. Firenze costituisce infatti un esempio significativo, sebbene non il più importante in Italia, dell’espansione delle aree urbane nel territorio agricolo. L’area urbana è raddoppiata di estensione negli ultimi cinquanta anni, mentre la popolazione è rimasta sostanzialmente inalterata, palesando le contraddizioni di un modello di sviluppo urbanistico e che le recenti proposte legislative del Ministero dell’agricoltura cercano di limitare. L’altra ricerca presentata riguarda un problema di interesse mondiale, ma particolarmente interessante per l’Italia ed il Mediterraneo, cioè la cementificazione delle coste. Si tratta di un tema a cui è dedicato anche un documento prodotto per l’incontro dell’ONU avvenuto a in occasione dei venti anni trascorsi dalla dichiarazione delle Nazioni Unite su “Environment and Development” a Rio de Janeiro . Il caso di Antalya, presentato in questo volume è particolarmente significativo per l’Italia. Il ritmo impressionante di crescita delle aree urbane lungo un porzione straordinaria, dal punto di vista del valore paesaggistico, della costa meridionale della Turchia, ricca di siti archeologici e caratteri ambientali di pregio, è avvenuto soprattutto per effetto del turismo, oltre che per la crescita della popolazione urbana. La tensione fra uno sviluppo del turismo basato sulle risorse paesaggistiche e gli effetti negativi della crescita incontrollata delle strutture insediative replicano la storia di molte aree costiere italiane, presentando problemi analoghi legati alla necessità di conservare il valore del paesaggio e di sviluppare l’economia locale. Così come l’Italia degli anni ’60, la Turchia sta attraversando un periodo di veloce crescita economica che ha portato questo paese alla ribalta non solo fra le economie emergenti, ma anche ai primissimi posti come destinazione turistica, con proiezioni future che mostrano numeri da primato. Mauro Agnoletti

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IntroduCTION

Landscape Research on the theme of landscape looks at the environmental value of rural landscape, its economic value, and the role of urban and periurban landscapes, to single out critical aspects on which to begin a reflection. So far the heritage and environmental sectors, and, as a consequence, urban planning and nature conservation, have mainly placed the stress on cultural heritage and environmental resources. In substance, there has been a distinction of roles, with the traditional protection apparatuses of the State focusing on the artistic and monumental heritage, while nature conservation has concentrated on “open land”, that is, the rural landscape. There has thus been an agreement to prioritize the issue of urban expansion and the conservation of cultural heritage, and grant the rest of the landscape, about 94% of the country, a naturalistic-environmental value, adopting strategies and management approaches that have often overlooked the historical function and matrix of the rural landscape. Labels such as “natural areas”, “natural resources” etc. have been indifferently used in the cultural heritage sector, in nature conservation and in urban planning to describe landscape areas that are essentially a result of agricultural practices and forestry. The inevitable result of all this was the approving of planning guidelines aiming at the naturalization and conservation of natural habitats, and the imposing of landscape restrictions on wooded areas. However, since the jurisdiction on the rural landscape has been assigned to the Ministry of Farming, Food and Forest Policies, a workgroup focusing on the rural landscape has managed to introduce a number of innovations, both in the interpretive approach and in legislation. These innovations include a national landscape observatory, a catalogue of landscapes and traditional practices, an act providing for the restoration of rural landscape of historical interest that allows the restoration of pre-existing landscapes even by removing forest covers, and a bill for an act to reduce the loss of farmland consequent on the expansion of urban areas. Thanks to all these initiatives, today the prospects and possibilities for action have become much broader, partly because it is now possible to make a more effective use of Common Agricultural Policy funds. There is a consequent need to redefine the objectives and action guidelines of landscape resource management—including periurban agricultural areas among landscape resources. We need an integrated vision adhering more closely to the historical reality and present role of the landscape within the global change processes that society, the economy and the environment are going through. Section 1. Landscape and environment Today there is an increasing awareness that the traditional rural landscapes produced by a myriad of farming practices found in Italy as well as the rest of the world play a fundamental role not only in minimizing hydrogeological instability, but also in conserving biodiversity. This new awareness has led to a revision of well-established scientific paradigms and is opening new horizons for scientific research. The current degradation of the landscape is not merely a result of the changes that have occurred in urbanism and agriculture; it is also an effect of the spread of scientific concepts and operational strategies promoting a generic “return to nature” as the most effective means to achieve sustainable development. Although urbanization proceeds at a speed of 8000 ha per year, over the last ten years its exten21


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

sion has remained stable at around 6% of the total area of Italy. On the contrary, over the last 100 years the countryside has been abandoned at a rate of more than 100,000 ha per year, with a consequent increase of invading forest vegetation estimable at about 75,000 ha per year, including burned-down areas. Many operators involved in the nature conservation sector and a large part of the population see this abandonment as a good thing, but this is due to a misguided understanding of the concept of biodiversity and its relationship with the rural landscape. Those who hold this opinion overlook the existence of examples of positive interaction between human beings and nature, or that the concept of biodiversity can have a broader meaning that also includes the landscape. The importance of the rural landscape for biodiversity is recognized today both by the Joint Program of the ONU Conference on Biodiversity and the UNESCO Conference on Biocultural Diversity, and by projects such as the Globally Important Agricultural Heritage Systems (GIAHS) of the FAO, which is centered on historical farming systems. The abandonment of agriculture and the naturalization of meadows and fields have often resulted, not in an increase, but in a loss of biodiversity, especially at the landscape scale. Mixed cultivation is an important example of biocultural diversity, combining agricultural production with the biodiversity of animal and plant species. With these considerations in mind, we decided to compare three landscape realities of great historical and environmental significance, but located in totally different environmental and socioeconomic contexts. Our intent is to encourage the comparative evaluation of features that are usually overlooked in international assessments of the rural landscape. We have thus highlighted the ability of traditional farming, not only to create landscapes with a high biodiversity, but also to provide remarkable examples of adaptation to different and often extreme climates, as in the case of the deserts of Morocco. Such examples are important for studies of global climate change. Another important function of traditional landscapes is protection from hydrogeological hazard. This is especially true of terraces, whose abandonment has brought on hydrogeological disasters such as those occurred in Cinque Terre in October 2011. Our research in Cinque Terre, besides debunking certain myths about the positive effects of the naturalization of abandoned agricultural areas, shows how urgent it is to undertake a major operation to restore and maintain these earthworks, found all over Italy. Terraces, besides contributing to the quality of typical products, and apart from their aesthetic and historical value, are of fundamental importance as a means to control and reduce hydrogeological instability. This confirms the irreplaceable role of agriculture and farmers in land maintenance. Terrace restoration and maintenance requires minute and constant work, whose cost, however, is still much less than that of the damages caused by their abandonment. Although the media invariably emphasize the negative effects of urbanization as a cause of hydrogeological disasters, they rarely mention that the origin of landslides and floods is never downhill of towns and villages, but always uphill of them; that is where we need to start from to prevent them. Section 2. Landscape and economy Modernization processes and the economic potential of landscape resources also call for innovative planning. A critical revision of well-established development models appears to be increasingly necessary. No concessions should be made to nostalgic longings for preindustrial conditions, but we should acknowledge that the rural landscape is a crucial component of the “capital” on which development opportunities are founded. It produces an “added value” incorporating diversity and historical identity as a competitiveness factor. The construction of “competitive identities” in rural areas by making the most of the relationship between farming landscape quality, typical products and tourism, on the one hand, and qualitative models for urban and periurban settlements and the infrastructural network, on the other, are both challenges we need to take up to react against the abandonment of the countryside and urbanization processes. The abandonment of agriculture and urbanization not only have major economic and social impacts—one only needs to think of the global food crisis—but also significant environmental consequences. Meeting the challenges of modernity implies defining qualitative 22


Landscape and environment. Introduction

objectives by revising certain earlier approaches and doing away with uncertainties and overlaps that have engendered remarkable confusion and sometimes rendered actions ineffective. Only by ensuring a fertile relationship between productive processes and landscape quality can we make the whole of Italian cultural heritage attractive for a broader range of subjects and new tourist flows, since our cultural heritage is not only made up of monuments and works of art, but also of cities and rural areas, and these are undergoing processes of constant transformation that need to be managed. The National Strategic Plan for Rural Development 2007-2013 has already attempted to steer regional policies towards higher consideration of the rural landscape as a resource; but we need to do more. We need to produce in-depth investigations of the economic value of landscapes and the usefulness of investing in this sector, trying to single out significant experiences to suggest new approaches and point out new opportunities, and offer public decision-makers more opportunities for action. Prof. Torquati’s investigation of four case studies chosen among businesses that have invested in the landscape resource addresses this need, with its careful analysis of the economic components of landscape-related business decisions. Our colleagues of the University of Minho, in Portugal, have proposed a study with a broader scope, focusing on the effects of the inclusion of the Douro Valley in UNESCO’s World Heritage List. The increase in the numbers of sites listed by UNESCO as “cultural landscapes” could encourage the launching of an international project to shed light on the economic usefulness of this inclusion. The study addresses this question by highlighting the strengths and weaknesses of this operation, undertaken some ten years ago. If investing in recovering and conserving the historical landscape as a competitiveness factor is important, so is the planning of new landscapes to combine quality products with attractive production sites. We need to debunk the old myth of the alleged economic inadequacy of historical landscape conservation, as well as the idea that any kind of agriculture will produce a quality landscape. It is urgent, instead, to develop market strategies capable of manifesting the relationship between the landscape and its products, and to launch integrated offers of products and services capable of attracting quality consumption and tourism. This will allow us to successfully compete with emerging countries, such as the so-called BRIC. The Chinese market, in particular, and especially its higher consumer categories, is displaying an increasing interest in the landscape and historical values associated with our country, and not merely in typical products and a “simple lifestyle”. Today this set of visions and strategies does not yet appear to be fully shared by some public institutions and the representatives of the sector’s workers and producers, although some especially dynamic entrepreneurs have begun to introduce significant changes in their production and marketing strategies. We have therefore proposed an experimental project for the renovation of a vineyard in the Castello di Verrazzano farm (Greve in Chianti - Fi). We were given the opportunity to use the Verrazzano Castle as a case study thanks to the willingness of the owner. Another important consideration was that the farm, besides producing wine and oil, functions intensively as a holiday farm. All this, along with the fact that the vineyards were in need of renovation, created the conditions for proposing a new organization of cultivations, allowing visitors to enjoy a larger portion of the farm and increasing its aesthetic value without detracting from the needs of production. We did not consider attempting a historical reconstruction; rather, we sought to produce a new landscape that is the result of a reinterpretation of local values that have slowly accreted over time, as in any innovative process, combining productive goals, tradition, and aesthetical values. Section 3 . Urban and periurban landscapes With the inversion, some years ago, of the ratio between the population living in the countryside and that living in towns in favor of the latter, their reciprocal relations have changed, and so has the value attributed to rural land and periurban areas, and, of course, the role of planning. The research 23


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presented here in the section devoted to urban and periurban landscapes examines some of these issues by comparing different cases from an urban planning, environmental and landscape perspective. The first and most obvious parallel can be drawn between the two studies on the towns of Portland and Florence. These are two places that show the two faces of the same coin. On the one hand, we have a town with a historical center that is still the valuable original urban core of Florence, on the other a much more modern town that has successfully addressed traffic problems and the issue of its relationship with its countryside through effective urban planning. The great increase of surface public transportation in Portland, which is completely free in the downtown area, has practically emptied the center of cars. A system of bicycle lanes and green areas has been created in a very modern but aesthetically pleasing urban context, with neighborhoods with open-air areas and a rich and polycentric offer of events and social gathering places. The town is connected to its countryside through the very popular farmers’ markets, which are not like the fruit and vegetable markets of Italian towns; rather, they are outlets for farmers who grow crops in the periurban area and come to town several times a week to sell their own products. Of course, Portland cannot compare to Florence in history and architectural beauty; nor can the hill landscape around Portland, although remindful of that of Florence, rival with it in beauty. Florence, however, has not come even close to solving traffic problems in its urban area and the problems affecting its countryside. It is hard even to discuss the creation of an agricultural strip preserving the rural landscape from urban sprawl, as well as having an economic and recreational function. Florence is indeed a significant example, although not the most important in Italy, of the expansion of urban areas over farmland. The extension of its urban area has doubled over the last fifty years, while the population has remained essentially unchanged. This reveals the contradictions of an urban development model whose negative effects the recent legislative proposals of the Ministry of Agriculture are trying to limit. The other research presented here concerns an issue of global interest, and one that is of special interest for Italy and the Mediterranean, namely, the urbanization of coasts. This subject is also the focus of a document produced for the UN meeting on the occasion of the twentieth anniversary of the “Environment and Development� UN declaration of Rio de Janeiro. The case of Antalya presented in this volume is of special interest for Italy. The province has witnessed an impressive growth of urban areas along a stretch of the southern coast of Turkey of exceptional landscape worth, rich in archaeological sites and with valuable environmental characteristics. This growth is mainly due to tourism and the growth of the urban population. The contradiction between the development of tourism based on landscape resources and the negative effects of uncontrolled urban expansion in the Antalya province parallels the story of many Italian coastal areas, themselves torn between the need to preserve landscape values and that to develop the local economy. Like Italy in the 1960s, Turkey is going through a period of rapid growth that has earned it a prominent place among emerging economies. It is also a major tourist destination, projected to reach record-breaking figures in the future. Mauro Agnoletti

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paesaggio e dissesto idrogeologico: Il disastro ambientale del 25 ottobre 2011 nelle Cinque terre Mauro Agnoletti, Francesca Emanueli, Giacomo Maggiari, Federico Preti Cultlab Laboratorio per il paesaggio ed i beni culturali Facoltà di Agraria – Università di Firenze

Introduzione L’esistenza e l’importanza delle sistemazioni a terrazzi in Italia è nota fin dal Neolitico ed è ampiamente documentata a partire dal Medioevo. Nel ‘700, agronomi italiani, quali Landeschi, Ridolfi e Testaferrata, cominciarono ad “imparare l’arte” delle sistemazioni in collina e in montagna, tanto da essere definiti come “i maestri toscani della bonifica collinare” (Sereni, 1961). Una serie di trattati agronomici, prodotti fra ‘700 e ‘800, constatava come la situazione fosse allora molto critica per la prevalenza di coltivazioni “a rittochino”(Greppi, 2007). Sempre in quegli anni, la necessità di incrementare l’area delle superfici agricole ha spinto a dissodare terreni anche su pendici scoscese e di conseguenza procedere a complesse opere di ciglionamento e terrazzamento. L’opera dei bonificatori toscani era mirata ad una lotta tenace contro gli ordinamenti colturali “a rittochino” in favore delle lavorazioni “a traverso”, meno soggette a problemi di instabilità superficiale e a fenomeni di erosione del suolo (Meini, 2010). L’utilizzo di ciglionamenti e terrazzamenti è proseguito fino all’ultimo dopoguerra, fino a quando il contratto mezzadrile garantiva la costante manutenzione delle sistemazioni, caratterizzando buona parte dei paesaggi collinari e montani dell’Italia centrale. A partire dagli anni ’40, a causa del progressivo abbandono delle aree agricole, si è assistito al peggioramento dello stato di conservazione di quegli elementi tipici del paesaggio agrario. Tale abbandono non ha interessato soltanto l’Italia, come confermato in letteratura (Walther 1986; Garcia-Ruiz e la santa Martinez, 1990; Harden, 1996; Kamada e Nakagoshi, 1997; MacDonald et al., 2000; Romero Clacerrada e Perry, 2004). Attualmente, il progressivo degrado delle opere di terrazzamento rappresenta una problematica territoriale, sia per le dimensioni spaziali dello sviluppo di questi manufatti, sia per la loro collocazione a monte e a valle di infrastrutture viarie e centri abitati in ambiente montano e collinare. Rilevanti porzioni di territorio versano attualmente in condizioni di crisi e l’esigenza di intervenire è motivata da aspetti di carattere idrogeologico e di carattere culturale. Con l’industrializzazione dell’agricoltura e l’abbandono delle campagne verificatosi verso dagli anni ’60 in poi, si è assistito ad una graduale abbandono di questa pratica, grazie all’avvento di trattrici meccaniche in grado di lavorare i terreni secondo la massima pendenza (rittochino) consentendo anche una riduzione dei costi di manodopera. Il catalogo nazionale del paesaggio rurale storico ha segnalato la presenza di terrazzamenti con molteplici qualità di colture anche se la colture della vite è quella che sembra presentare la frequenza più elevata (Agnoletti 2010). Secondo i canoni dell’agricoltura industriale il terrazzamento, oltre al maggior costo, non sarebbe favorevole alla migliore coltivazione della vite. In conseguenza di questo processo molte aree terrazzate sono state abbandonate specialmente nelle principali regioni vitivinicole, a cominciare dagli anni ’60. Nel corso degli ultimi anni però si è avviata una riflessione sulle conseguenze del loro abbandono, che riguardano aspetti paesaggistici, economici, ambientali e sociali. Questa indagine, svolta nel corso del novembre 2011 intendeva indagare il rapporto esistente fra terrazzamenti e dissesto idrogeologico nell’area delle Cinque Terre investita dal disastro ambientale verificatosi il 25 ottobre 2011 in seguito a intese precipitazioni che in circa 6 ore hanno prodotto circa 542 mm di pioggia riversatasi nel territorio delle Province di La Spezia e Massa Carrara causando frane e smottamenti con danni alle persone e alle cose. L’importanza del25


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

l’area è legata non solo alla presenza di una viticoltura produttiva, ma anche al fatto di essere inserita in un Parco Nazionale che è anche paesaggio Unesco inserito nel patrimonio mondiale dell’umanità. Sembrava quindi particolarmente significativo valutare i fenomeni avvenuti, non solo per contribuire alle iniziative volte a prevenire il ripetersi di tali eventi, ma anche per il significato questa zona a livello mondiale, in particolare per la storia dei terrazzamenti.

Fig.1. Terrazzamenti delle Cinque Terre, oltre al grande valore storico ed estetico, svolgono un fondamentale ruolo produttivo e di riduzione del rischio idrogeologico. In Cinque Terre, terracing, besides having great historical and aesthetic value, plays a fundamental role in agricultural production and in the reduction of hydrogeological risk.

1. Storia delle Cinque terre e della sua viticoltura In epoca pre-romana il territorio delle Cinque Terre era popolato, secondo la documentazione storica a disposizione, in parte da Liguri Apuani e in parte da Tigulli1. Se per Diodoro Siculo, storico greco vissuto nel I secolo a. C., i declivi delle Riviere e il loro suolo sassoso costituirebbero gli evidenti limiti di un territorio precluso «a Cerere e a Bacco» (Compagnoni, 1820), testimonianze divergenti, come la lastra bronzea detta Tavola di Polcevera (117 a. C.) riferiscono della presenza della vite e la costruzione di ciglioni presso l’antico popolo dei Liguri, quindi in epoca preromana. Plinio il Vecchio celebrò il vinum lunense2, sottolineando la presenza nelle Alpi Marittime di un’uva selvatica nota come raetica3. Un aspetto singolare della produzione locale risultava la preparazione e l’aggiunta di pece vegetale al vino allo scopo di insaporirlo o conservarlo (Gambari, 2007). Ciò che è certo è che il paesaggio storico terrazzato delle Cinque Terre è opera di enormi modifiche effettuate dall’uomo nell’arco di 1000 anni di storia, Al popolo dei Tigulli Rovereto (1924) attribuisce la realizzazione dei primi terrazzamenti. Nel 177 a.C. i coloni romani si spartirono la campagna di Luni (ager lunensis) e fondarono Vernazza e Corniglia, conosciute allora con il nome di Vulnetia e di Cornelia (Marengo, 1924). 3 Historia naturalis (XIV, 8, 7): “Etruriae palmam Luna habet”. 1 2

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con duro lavoro, continuo e assiduo di molte generazioni che hanno sostituito nei secoli la macchia mediterranea e l’area boschiva che copriva i fianchi dei monti con la messa a coltura della vite in terrazzamenti (Marmocchi, 1846). Dopo i secoli altomedievali, caratterizzati un imbarbarimento delle pratiche agricole, intorno all’anno Mille si notano i primi segnali di un timido risveglio dell’economia. Si rimettono a coltura terre da tempo abbandonate o devastate dalla violenza delle incursioni saracene, riservando ampio spazio alla vite. I documenti storici attestano che, rispetto ai secoli precedenti, attorno la Mille, la vita ricominciò a rifiorire anche nelle Cinque Terre, con la nascita dei cinque famosi borghi e la realizzazione delle prime sistemazioni agrarie. Fu proprio in questo periodo che, grazie al controllo del territorio esercitato dai monasteri e dalle pievi benedettine, si diffondono in modo sistematico i sistemi terrazzati: “Il lavoro della terra viene affidato alla popolazione in cambio di protezione. I disboscamenti, la sistemazione idrica del fondovalle, l’aperture di alcune vie montane, la diffusione della tecnica del terrazzamento e della coltura dell’ulivo, contribuiscono a ridefinire l’assetto e l’immagine del paesaggio, pur subendo interruzioni e rallentamenti a causa delle invasioni saracene fino al XI sec” (Brancucci et. al., 2000). Tre principali tecniche di costruzione permettono una prima distinzione tra i tipi di terrazzamenti: i ciglioni, le lunette e i terrazzi propriamente detti. La prima è utilizzata nell’entroterra ligure dove i pendii non presentano eccessive pendenze (nelle zone di crinale o nei fondovalle) e le terrazze, coltivate in genere ad orto, vengono contenute da brevi scarpate inerbite. La seconda, diffusa soprattutto nel Medioevo, serve a proteggere il terreno di pertinenza dei singoli alberi in maniera tale che non essere dilavato; il muro, a forma di mezzaluna, è costruito su terreni in forte pendenza. Le terrazze propriamente dette invece sono una successione di muri che contengono le piane coltivabili (lenze) più o meno profonde a seconda dell’inclinazione del versante. Generalmente, per garantire il drenaggio dell’acqua in eccesso, il materiale lapideo è posato senza legante (Di Gregorio, 2010). Il faticoso lavoro per rendere il terreno coltivabile ha dato così vita ad una “terra a scalini” (Ghersi e Ghiglione, 2012). Il paramento murario funge anche da riserva di calore; le pietre restituiscono l’energia termica accumulata durante il giorno creando un particolare e privilegiato microclima soprattutto per quelle colture che, come la vite, prediligono i terreni asciutti. I paesi delle Cinque Terre vedono la loro nascita contemporaneamente a due fatti che segnano profondamente la storia europea: la conquista del Mediterraneo da parte dei saraceni e l’espansione demografica che, prosegue fino allo scoppio della Grande Peste Nera (1346-1347). Nel 1113-15 Genova, un comune dai fiorenti interessi commerciali con l’Oriente e per questo interessato a proteggere le rotte commerciali dalla pirateria saracena, acquista Portovenere, che apparteneva ai signori di Vezzano; nel 1135 si impossessa di Sestri Levante; nel 1152 ottiene Lerici, nel 1209 acquista Vernazza, pochi anni dopo Monterosso e Corniglia e nel 1275 Riomaggiore e Manarola. La crescita degli insediamenti sulla costa fu accompagnata dalla costruzione di tutte le chiese di questi borghi, tra la prima metà del XIII secolo e la prima metà del XIV, nonché da un peso politico amministrativo non trascurabile all’interno del dominio genovese. Le prime descrizioni delle Cinque Terre si hanno sostanzialmente all’inizio del XV secolo. Jacopo Bracelli, cancelliere e storiografo della Repubblica, fu il primo a descrivere con una certa accuratezza questa zona della Liguria nella Descriptio orae Ligusticae (1448): “Indi sorgono sulla costiera cinque terre quasi ad egual distanza tra loro che sono Monterosso, Vulnezia, ora chiamata volgarmente Vernazza, Cornelia, Manarola e Rio Maggiore, non solo famose in Italia ma anche presso i Francesi e gli Inglesi per la eccellenza del loro vino. Cosa in vero che fa meraviglia vedere monti così erti e scoscesi che perfino gli uccelli stentano a trasvolarli, pietrosi ed aridi e ricoperti di tralci così stecchiti ed esili da rassomigliare piuttosto a quelli dell’edera che della vite. Di qui vien fuori il vino che approntiamo per le mense dei re” (Marengo, op. cit.). Questi cinque borghi furono accomunati spontaneamente, cioè probabilmente senza l’imposizione ufficiale del potere politico centrale, da un unico toponimo sia per la bontà del loro vino, sia per l’identica coltivazione della vite, posta su terrazzamenti, che dava forte unicità e identità a quel paesaggio rispetto al resto dell’estremo levante ligure (Storti, 2004). Fu proprio grazie alla nascita dei Comuni e la cessazione delle incursioni piratesche da parte dei Saraceni che cominciarono ad espandersi lungo la costa che nell’entroterra sia i centri abitati sia le coltivazioni agricole. I terrazzamenti divennero un patrimonio collettivo da difendere come testimoniano le prescrizioni imposte dagli statuti comunali come quelli di Celle del 27


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1414 in cui si faceva divieto di asportare le pietre dai paramenti murari o di lavorare la terra troppo a ridosso di quest’ultimi per non danneggiarli. Nel corso del XVI secolo i cinque borghi cominciarono a differenziarsi un po’ l’uno dall’altro per le loro attività: Vernazza e Monterosso consolidarono sia la viticoltura che l’attività marinara mentre Corniglia mantenne esclusivamente la produzione vinicola. Durante il XVIII la spinta dell’armata rivoluzionaria francese comportò la fine della Repubblica di Genova nel 1797 e la nascita della Repubblica Ligure. Nelle Cinque Terre, dunque, si passò dalle due podesterie fino allora esistenti, a cinque comunità, una per ogni borgo e per ogni parrocchia. Nel 1805, per volontà dello stesso Napoleone I, la Repubblica Ligure cessò di esistere e la Liguria intera fu inglobata nell’Impero francese; le cinque comunità delle Cinque Terre si ridussero a tre comuni: Monterosso, Vernazza e Riomaggiore, a cui furono accorpate le frazioni di Corniglia e di Manarola. Dopo la caduta di Napoleone nel 1814 ed il Congresso di Vienna, la Liguria, con Regio Editto dell’11 novembre 1818, entrò a far parte del regno di Sardegna con la costituzione della “Provincia di Levante” con sede alla Spezia. In questo periodo, sotto il dominio dei Savoia, furono realizzate numerose opere pubbliche. Per quanto riguarda le divisioni amministrative, anche con i Savoia rimasero i tre comuni istituiti da Napoleone. Nell’Ottocento due importanti cambiamenti avvennero invece nella viticoltura; modifiche che ruppero la tradizionale coltivazione delle viti messa in atto per tanti secoli. Il primo fu l’introduzione di altri tipi di vitigni meno pregiati ma più produttivi per quantità. L’altro importantissimo cambiamento, che ha reso meno faticosa la vendemmia e le altre operazioni colturali, fu l’uso della pergola bassa costituita da tralicci di canne sostenuti da piccoli paletti di legno posti ad una altezza di non più di 50 cm dal suolo, in sostituzione del vitigno allevato “a terra”4. Con la scomparsa delle frontiere statali interne in seguito all’Unità d’Italia, si iniziò il libero trasporto e commercio delle merci; ciò diede il via a notevoli cambiamenti sul piano economico e sociale anche nel Levante Ligure. Le opere realizzate nell’area furono soprattutto due: la costruzione dell’arsenale della Marina Militare alla Spezia e l’attuazione della linea ferroviaria lungo tutta la Riviera di Levante da Genova a Sarzana. Nel 1874 venne inaugurato il tratto di ferrovia Genova - La Spezia: questo episodio portò alla rottura di quel millenario isolamento dei borghi delle Cinque Terre dal resto della nazione. Per quanto riguarda la produzione vinicola, verso la fine del XIX secolo essa era raddoppiata rispetto a quella esistente nei primi decenni del secolo. Tutto ciò fu dovuto all’aumento della superficie vinicola che raggiunse, con il terrazzamento dei fianchi dei monti e l’impianto dei nuovi vitigni, quasi la quota di crinale. Sempre nel 1874 fu pubblicata la Guida delle Alpi Apuane, a cura di Cesare Zolfanelli e Vincenzo Santini che offre un’immagine precisa e dettagliata delle Cinque Terre: “Da Portovenere, seguendo la linea marittima verso Genova si trova il seno delle Cinque Terre (…). Quivi il territorio si suddivide in cinque paeselli unicamente coltivati a vite (…) In questo tratto di terreno si trovano molte scogliere scoscese e dirupate, in modo che neppure vi possono montare le capre: tuttavia, mercé, l’industria, abbonda di vigne e le viti sono poste nelle fessure tra masso e masso, a guisa di capperi, ove mettono le loro radici e pendono ciondoloni giù per le balze con i lunghi loro tralci. Sebbene semplicissimo sia il metodo di tenere la vite e vi siano nella costiera luoghi rapidissimi, ove si formano i vigneti, che all’abitatore della pianura farebbero orrore di accostarvi solo il piede, pure la vite viene coltivata con grandissima cura, e vi sono dei pazientissimi agricoltori i quali, per non perdere il favore della loro esperienza, fondano le vigne sopra il pendio di nudo scoglio. Costrutto un muricciolo vi portano la terra da altri luoghi; ma talvolta la sventura li coglie, e l’industrie coltivatore vede scendere il tutto in mare, trasportato dalle acque”. Nel 1920 il la viticoltura locale fu gravemente colpita dalla filossera che provocò la morte, in pochissimi anni, di tutti i tipi di vitigni coltivati. Dopo la diffusione della filossera, la ripresa della viticoltura fu faticosa anche per la mancanza di manodopera. Infatti già alla fine dell’Ottocento, con la diminuzione del reddito agricolo, si assiste prima ai primi flussi migratori verso le città, poi all’emigrazione verso i paesi esteri, specialmente nelle Americhe. “La coltivazione delle vigne in questo paese è veramente singolare e semplicissima, poiché senza confondersi a fare fosse, e divelti nel terreno che non vi è, i magliuoli della vite, si ficcano nei suoli della poca terra che restano tra i filoni e le conniutture delle pietre, di cui sono formate le dirupate pendici di questi monti e non si fa loro altra carezza ne si dà governo e non vi è bisogno di pali o altro sostegno” (Targioni Tozzetti 1768-1779).

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Dagli anni ’70 in poi alle Cinque Terre si è verificato un crollo nell’agricoltura e nella pesca pari a più del 70%. I borghi di Vernazza e Riomaggiore sono quelli in cui il ridimensionamento della viticoltura è stato più rilevante; ad esempio tra il 1982 e il 1990 a Riomaggiore si è registrata una perdita di ben 52 ha e a Vernazza di 24 ha. (Storti, op. cit.). Tutto questo decremento della superficie a vite può essere considerato una costante degli ultimi trent’anni; lo spopolamento delle campagne ha determinato una costante diminuzione della necessaria manutenzione dei terrazzamenti. La viticoltura a terrazze del territorio delle Cinque Terre rappresenta un patrimonio economico, storico e culturale, un paesaggio modellato, con fatica e sofferenze, dall’uomo per garantirsi la sopravvivenza, ma reso vulnerabile se viene messa in discussione la presenza antropica5.

Fig. 2. I terrazzamenti modellano le pendici delle Cinque Terre, preservando molte pratiche tradizionali legate non solo ai materiali costruttivi, ma anche alle tecniche di allevamento della vite (foto Agnoletti). Terracing molds the slopes of Cinque Terre, preserving many traditional practices not only as regards building materials, but also grapegrowing techniques (photograph by Agnoletti).

2. Terrazzamenti e rischio idrogeologico Indagini svolte dal CULTLAB hanno già evidenziato le problematiche riguardanti il rapporto fra terrazzamenti e dissesto, sebbene svolte in Toscana è utile riportare alcuni dati per inquadrare il fenomeno. Per quanto riguarda l’aspetto idrogeologico, l’abbandono dei terrazzamenti ha portato ad un avanzato stato di degrado dei manufatti realizzati in epoche storiche e non più oggetto di manutenzione, con innesco di processi di erosione ed instabilità superficiale. Il ruolo dei terrazzamenti nel controllo di produzione di deflusso superficiale è infatti ormai noto (Llorens et al., 1992; Gallart et al., 1994) così come il ruolo nel controllo dell’erosione superficiale e di fenomeni di instabilità sempre superficiali (Bellin et al., 2009; Romero Diaz et al., 2007; Shrestha et al., 2004). In studi precedenti, (Preti, “Non basta aver fatto i terrapieni ed i muri; convien mantenerli. I venti in certi luoghi e da per tutto le dirotte e le lunghe piogge lor fanno terribile guerra. Torrentelli improvvisamente nati e traboccati o svintisi dai loro artefatti canali di scolo, squarciano ed abbattono i muri, si travolgono a guisa di cascata di gradino in gradino e trascinano fino in fondo alla valle la terra vegetale, con tanta fatica radunata sui pianerottoli che questi sostengono. È forza che il buon villano con lavoro quasi continuo, rifaccia e rinnalzi i muri, e dall’imo vallone riporti in alto la terra che cento volte vi ha già riportata” (Bertolotti, 1834).

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2001, 2002) è stato trattato l’aspetto dell’aumento di rischio idrogeologico associato all’abbandono dei terrazzamenti. Più recentemente si è indagata la stabilità del singolo manufatto per valutare se il versante potrà mantenere anche la sua efficacia per il controllo di erosione, instabilità gravitativa e deflussi di piena (Bresci et al., 2012). Dati interessanti sono stati ottenuti studiando l’evoluzione dell’uso del suolo e dello stato di manutenzione dei terrazzamenti nel bacino del Fosso delle Rave in Versilia a seguito dell’alluvione del 19 giugno 1996 (Ravenna, 2001; Preti et al., 2001 a, b, c). Altri studi svolti nelle aree della montagna Apuana (Agnoletti 2007), hanno evidenziato il rapporto dell’abbandono di aree terrazzate con le dinamiche del paesaggio, la biodiversità e gli eventi di dissesto idrogeologico verificatisi nella zona di Cardoso nel 1996. Per quanto riguarda le variazioni del tempo di risposta e della capacità di accumulo idrico dei versanti terrazzati, è stato studiato sia il rallentamento del deflusso idrico sia l’allungamento dei percorsi di corrivazione dovuti al fatto che, mediamente, la pendenza di ciascun ripiano fra i terrazzamenti è ridotta di circa il 57% rispetto a quella naturale, mentre la sua lunghezza è ridotta di circa il 5%. Sono anche stati valutati ipotetici scenari futuri, corrispondenti agli anni 2050 e 2100, a cui si attribuiscono, come proiezione basata sulle attuali condizioni di uso del suolo e gestione del territorio, rispettivamente, la mancanza di manutenzione delle sistemazioni di versante presenti e la totale assenza di sistemazioni con la diffusione del bosco misto mesofilo originario, dovuta ad un processo di successione secondaria. Questa ipotesi comporterebbe un potenziale aumento dei picchi di piena duecentennale e della pericolosità idraulica che da 200 anni passerebbe a circa la metà, in assenza di sistemazioni di versante. Analogamente sono state confrontate nel bacino della Greve, la situazione attuale con uno scenario tendenziale in cui si è ipotizzato che l’area campione sia ormai priva delle opere di terrazzamento. Nello scenario ipotetico sono stati mantenuti costanti tutti i parametri morfometrici ad eccezione della pendenza media che, eliminando la riduzione dell’acclività dovuta alle opere di sistemazione (pendenze medie del 10÷12%), assume un valore pari al 20%. I risultati mostrano che se allo stato attuale si verifica statisticamente un’esondazione in corrispondenza di un evento di piena con tempo di ritorno di cinque anni, in assenza di sistemazioni questo scende a soli due anni. La colonizzazione da parte del bosco può essere associata al degrado dei sistemi terrazzati (sia come effetto sia come causa) e quindi ad un aumento del rischio di erosione e frane, ma deve essere tenuto conto di quanto segue: - la vegetazione spontanea si insedia prima dove è più difficile coltivare (pendenze elevate, suoli poco profondi, etc.) e quindi le condizioni di instabilità sono di per sé maggiori - il sovraccarico della vegetazione ha un effetto negativo meno rilevante di quello positivo dato da rinforzo del terreno dovuto agli apparati radicali - la vegetazione spontanea spesso può essere quindi in grado di esercitare un ruolo “protettivo” con riduzione dei picchi di piena nei bacini montani (Preti et al., 2011) e di rischio di frana superficiale, a questo può essere inficiato nei casi di versanti molto pendenti, con spessori di detrito poco sviluppati e con substrati non graditi dalle radici, come ad es. per il castagno su calcare in Alta Versilia (Preti et al., 1999) o sulle pendici di Salerno (Hofmann, 1955) e dove i sistemi terrazzati non vengono manutenuti. Dagli anni ’50 in poi, in particolare, il progressivo abbandono delle superfici agricole, ha provocato il deterioramento dei manufatti di contenimento delle aree terrazzate, portando, in alcuni casi, al collasso delle strutture. Lo studio dei terrazzamenti ha assunto particolare importanza negli ultimi anni, con la crescente presa di coscienza della loro valenza economica, ambientale e storico-culturale, oltre alle già note funzioni idrologiche che i paesaggi terrazzati svolgono nel paesaggio agrario, come il controllo dell’erosione, la stabilizzazione dei versanti, l’allungamento dei tempi di corrivazione e l’eventuale riduzione dei volumi di deflusso superficiale. Il Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali dell’Università di Firenze, ha iniziato la mappatura e la caratterizzazione di paesaggi terrazzati a matrice agricola a livello regionale, in modo da costituire un database contenente informazioni quali georeferenziazione dei siti, parametri tecnico-costruttivi, tipologia e stato di conservazione dei manufatti e destinazione d’uso del suolo dell’area. Un’analisi di stabilità dei manufatti in versanti terrazzati a matrice agricola in Toscana è stata recentemente condotta indagando l’influenza della geometria del manufatto, dei parametri 30


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geotecnici del terreno, della presenza di contropendenza della base di appoggio, di sisma e di falda sulla stabilità del manufatto (Bresci et al., 2012). A tale scopo si è fatto riferimento al “Report scientifico – Analisi territoriale e tipologica dei sistemi terrazzati agricoli della regione Toscana” (CULTLAB 2011), per l’individuazione di aree terrazzate localizzate in diverse zone della Toscana con differenti caratteristiche dei terreni e scegliendo un caso di studio a Pontremoli, colpito all’evento alluvionale del 25 dicembre 2010. In particolare è stato evidenziato come la presenza di falda se pur a livelli ben inferiori a quelli del piano di campagna, comporti valori dei coefficienti di sicurezza per la stabilità del muro a secco significativamente inferiori al caso di terreno privo di falda ed anche inferiori ad 1 (ribaltamento), confermando l’importanza di tenere conto di tale fattore in fase di verifica e di dimensionamento dei manufatti e del mantenimento delle condizioni di drenaggio attraverso gli stessi. 3. L’indagine svolta nelle Cinque Terre Il materiale di analisi utilizzato riguarda un filmato realizzato da telecamera mobile e circa 500 scatti fotografici effettuati in data 2 Novembre 2011 (Fig. 3), da un elicottero in volo nell’area di Vernazza – Monterosso (SP)6.

Fig. 3. Abitato di Vernazza. La fotografia evidenzia una frana avvenuta su terrazzi abbandonati e coperti dalla vegetazione forestale. The settlement of Vernazza. The photograph highlights the landslides occurred on abandoned terraces now covered by woods.

I file digitali delle immagini riportano le coordinate geografiche dell’elicottero al momento dello scatto, ciò ha permesso di localizzare geograficamente la maggior parte degli eventi franosi registrati, tramite l’utilizzo di Google Earth. L’operazione ha consentito la realizzazione di una serie di schede dove vengono riportati la collocazione dell’evento, lo scatto fotografico, la relativa immagine di Google Earth (anno di riferimento 2006) ed una foto-interpretazione della classe attuale di copertura ed uso del suolo interessata dall’evento (Fig. 4, 5 e 6). Il risultato dell’analisi è un database nel quale vengono riportate le caratteristiche degli eventi franosi. Sono stati volutamente omessi i casi di cedimenti riconducibili alle aree rocciose poco vegetate prospicienti il mare aperto. Le schede di classificazione realizzate sono 37 e si riferiscono a 88 eventi franosi di diversa entità. Ogni evento franoso è stato individuato con una prima interpretazio6

Questa parte dell’indagine è stata realizzata grazie al contributo del Fondo Italiano per l’Ambiente. 31


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F1 F2 F3 Fig. 4. (In alto a sinistra) Una foto aerea dell’anno 2006. (In alto a destra) La fotografia dello stesso luogo scattata il 2 novembre 2011. Le frane sono avvenute su terrazzamenti abbandonati e coperti dal bosco: f1: bosco misto; f2: terrazzamenti olivati abbandonati; f3: arbusteto/macchia. (Above, left) An aerial photograph of the year 2006. (Right) The corresponding picture taken on 2 November 2011. The landslide occurred on mixed woods (f1), abandoned olive terraces (f2) and shrubland (f3).

F1 F2

Fig. 5. (In alto a sinistra) La foto aerea del 2006; (a destra) La fotografia dello stesso luogo scattata il 2 novembre 2011. Le due frane (f1e f2) sono avvenute su terrazzamenti abbandonati di recente. (Above, left) An aerial photograph of the year 2006; (right) The corresponding picture taken on 2 November 2011. The landslides (f1 and f2) occurred on recently abandoned terraces.

ne visiva del materiale e classificato. Successivamente, per ogni evento di dissesto è stata costruita una legenda di riclassificazione in base agli usi del suolo su cui l’evento si è verificato, distinguendo corpi di frana e nicchie di distacco L’analisi dei dati raccolti mostra una evidente e statisticamente significativa relazione fra abbandono e fenomeni franosi (Grafico 1). Su 88 casi (100%) soltanto in 7 di essi (7,95%), di cui 5 riconducibili ad aree con coltivazioni in atto e 2 ad aree in cui si rileva una recente asportazione della copertura arborea, non sono state rilevate tracce di abbandono. Il database non riporta informazioni dettagliate per le categorie forestali ma appare evidente la mancanza di una gestione selvicolturale per i boschi presenti nell’area. Per tale motivo e per le informazioni storiche disponibili, le aree boscate presenti sono state d’ufficio associate alle aree abbandonate, in quanto riconducibili a successioni secondarie su terrazzi abbandonati non oggetto di gestione forestale. Escludendo le superfici in forestali in cui non è stato possibile rilevare una struttura sottostante a terrazzi, risultano 50 casi (la totalità per quello che riguarda le aree agricole) in cui i terrazzi sono presenti sotto la copertura forestale 32


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F1

F2

Fig. 6. (In alto a sinistra) La foto aerea del 2006; (a destra) la fotografia dello stesso luogo scattata il 2 novembre 2011. La frana è avvenuta su terrazzamenti coperti dal bosco. (Above, left) An aerial photograph of the year 2006; (right) the corresponding picture taken on 2 November 2011. The landslides occurred on abandoned terraces covered with woodsGrafico 1. Diagramma delle classi di uso del suolo rilevate in corrispondenza dei corpi di frana. Diagram of land-use classes in the areas affected by the bodies of the landslides.

Come si osserva dalla tabella 1, le superfici forestali e le colture abbandonate sono interessate in quantità simili (boschi 44,32 %; terrazzamenti abbandonati 47,73 %), dai fenomeni franosi. Inoltre, si rilevano 2 casi di dissesto in aree interessate dall’asportazione totale della copertura arborea (deforestazione calcolata tra il 2006 e l’attualità). Tali operazioni, indipendentemente dalle finalità, sono avvenute in zone molto acclivi, dove già di per sé erano sconsigliabili. Tra l’altro si nota in uno dei due casi la realizzazione di viabilità secondaria realizzata al fine di raggiungere edifici presenti nell’area (Fig. 7). 33


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Tabella 1. Classificazione della distribuzione dei corpi di frana negli usi del suolo. Classification of land uses on surfaces impacted by bodies of landslides. Classificazione corpo di frana su usi del suolo Classification of land uses in areas impacted by bodies of landslides

Tot.

%

alternanza coltivazioni abbandonate di recente e altre coperture del suolo alternation of recently abandoned cultivations and other forms of land covers

13

14,77

arbusteto/macchia - shrubland/maquis

24

27,27

asportazione di vegetazione arborea - removed tree cover

2

2,27

bosco a prev. di conifere - prevalently coniferous woods

5

5,68

bosco a prev. di latifoglie - prevalently broadleaf woods

6

6,82

bosco misto- mixed woods

4

4,55

terrazzamenti abbandonati con arbusteto/macchia - abandoned terraces with shrubland/maquis

9

10,23

terrazzamenti abbandonati di recente - recently abandoned terraces

17

19,32

terrazzamenti vitati in attività - terraces with active vineyards

5

5,68

terrazzamenti olivati abbandonati - abandoned olive terraces

3

3,41

Totale categorie forestali - Total for woodland categories

44,32

Totale categorie colture abbandonate - Total for abandoned cultivation categories

47,73

Totale complessivo - Overall total

88

100,00

LEGENDA CROMATICA - CHROMATIC LEGEND Categorie afferenti alle colture abbandonate - Abandoned cultivations Categorie afferenti alle superfici forestali - Woodland Altre categorie - Other categories

Fig. 7. Esempio di frana verificatasi in corrispondenza di un’area in cui è stata asportata la vegetazione arborea ed è stata realizzata una nuova viabilità secondaria. Example of a landslide in an area where the tree cover was removed and a new secondary road was built.

Infine, in 5 casi su 88 (5,68%) si rilevano eventi franosi in corrispondenza di colture in atto: è interessante notare come in genere l’evento si verifichi al margine delle coltura al confine con aree forestali (Fig. 8). In un caso il fenomeno si realizza in corrispondenza di un’area in cui la disposizione dei filari di vigna si è inusualmente (per la zona) realizzata a girapoggio in alternanza al rittochino (Fig. 9). 34


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Fig. 8. (A sinistra) Evento franoso verificatosi a carico di un vigneto terrazzato adiacente ad un’area forestale. (Left) A landslide that impacted a terraced vineyard adjoining a wooded area. Fig. 9. (A destra) Evento franoso verificatosi a carico di un vigneto terrazzato in cui si alterna filari disposti a girapoggio con quelli disposti a rittochino. (Right) A landslide that impacted a terraced vineyard alternating rows arranged along contour lines with slopewise rows. Grafico 2. Usi del suolo nel quale si sono originate le nicchie di distacco. Land uses on detachment surfaces.

L’analisi delle situazioni in cui è avvenuto il distacco delle frane (nicchie di distacco) fornisce un dato molto interessante: si nota infatti un aumento più che significativo (13%) delle superfici afferenti alle categorie di uso del suolo forestali, nelle quali si sono verificate frane, e una drastica diminuzione delle categorie afferenti alle colture terrazzate abbandonate. Nello schema è riportata la categoria “sotto strada” che riguarda l’8 % circa delle casistiche. La categoria è stata introdotta arbitrariamente perché è apparsa degna di nota la correlazione tra infrastrutture (strade) sovrastanti e l’incuria delle aree a valle (Fig. 10). 35


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Tabella 2. Classificazione della distribuzione delle nicchie di distacco negli usi del suolo. Classification of land uses on detachment surfaces. RECLASS NICCHIA DI DISTACCO - RECLASS. OF DETACHMENT SURFACES

Tot.

%

alternanza coltivazioni abbandonate di recente e altre coperture del suolo alternation of recently abandoned cultivations and other forms of land covers

4

4,55

arbusteto/macchia - shrubland/maquis

26

29,55

asportazione di vegetazione arborea / removed tree cover

1

1,14

bosco - woodland

25

28,41

terrazzamenti abbandonati con arbusteto/macchia - abandoned terraces with shrubland/maquis

10

11,36

terrazzamenti abbandonati di recente - recently abandoned terraces

7

7,95

terrazzamenti vitati in attività - terraces with active vineyards

3

3,41

terrazzamenti olivati in attività - terraces with active olive groves

2

2,27

terrazzamenti olivati abbandonati - abandoned terraces with olive groves

3

3,41

Frane collocate sotto strada - landslides below roads

7

7,95

Totale categorie forestali - Total woodland categories

57,95

Totale categorie colture terrazzate abbandonate - Total abandoned cultivation on terrace categories

27,27

Totale complessivo - General total

88

100

LEGENDA CROMATICA - CHROMATIC LEGEND

Categorie afferenti alle colture abbandonate - Abandoned cultivations

Categorie afferenti alle superfici forestali - Woodland

Altre categorie - Other categories

Fig. 10. Evento franoso verificatosi a seguito del cedimento della scarpata a valle della strada. A landslide caused by the collapse of a bank downhill from a road. 36


M. Agnoletti, F. Emanueli, G. Maggiari, F. Preti Paesaggio e dissesto idrogeologico

4. Conclusioni Il problema del dissesto idrogeologico nel nostro paese è conosciuto fino dall’antichità, il problema è stato al centro delle politiche ambientali dello Stato Unitario che hanno richiesto impegni economici crescenti che si sono protratti fino al secondo dopoguerra ed hanno interessato in varia misura tutto il paese (Agnoletti 2002). Le strategie adottate sono passate attraverso varie fasi storiche, influenzate da modelli tecnico scientifici che hanno proposto soluzioni con caratteristiche tecniche diverse, spesso poco a favore delle pratiche agricole tradizionali, ma più spesso in favore di soluzioni di tipo ingegneristico, con la realizzazione di manufatti per la regimazione di fiumi e torrenti o estesi rimboschimenti delle superfici montane. Più recentemente l’attenzione del pubblico e di molte associazione ambientaliste in relazione ai fenomeni di dissesto, si è soprattutto focalizzata sulla cementificazione del territorio e le conseguenze nefaste di scelte urbanistiche inappropriate. L’obiettivo del presente lavoro era invece quello di riportare l’attenzione su tutto ciò che avviene “a monte” delle zone urbane di fondo valle, in questo caso dei centri urbani posti lungo la costa delle Cinque Terre, individuando possibili relazioni tra le forme di uso e copertura del suolo e gli eventi dissesto, soprattutto in relazione allo stato delle opere tradizionali di sistemazione idraulico-agraria. L’elemento distintivo di tutti gli eventi franosi analizzati è l’abbandono che emerge chiaramente come causa scatenante degli eventi del 25 ottobre 2011. Non si rileva infatti alcun caso in cui una nicchia di distacco di una frana si sia sviluppata su aree regolarmente coltivate con i tradizionali terrazzamenti, mentre queste avvengono dove i terrazzi sono abbandonati e coperti dal bosco. Inoltre, se da un lato emerge l’esigenza di cure colturali e forme di gestione per le superfici forestali, dall’altro si può asserire che le superfici terrazzate ben mantenute sono in grado di arginare i fenomeni di dissesto anche quando questi si originano in altre categorie di uso del suolo. Sembra chiaro che gli effetti benefici sono più evidenti laddove le superfici gestite sono più estese e più il sistema agrario è complesso. Dal punto di vista delle infrastrutture (viabilità ecc.) si rilevano problematiche essenzialmente legate ad una scarsa manutenzione delle scarpate, in particolare a valle delle strade, cosa tra l’altro già nota agli addetti al settore, che divengono particolarmente gravose in un contesto estremamente sensibile dal punto di vista idrogeologico come quello in analisi. L’impressione maturata nel corso del lavoro è che l’abbandono causi un acuirsi dei problemi connessi a frane superficiali e lave torrentizie, per un aumento di materiale instabile (pietre e terra) negli orizzonti superficiali. Il processo di abbandono dei terrazzi genera un aumento dell’instabilità con la colonizzazione da parte di specie arbustive ed arboree, che aumentano i fattori di rischio. Le frane studiate non mostrano una particolare relazione con le specie arboree, dato che i boschi di conifere e latifoglie presentano percentuali simili, si può al momento grossolanamente distinguere tra

Fig. 11. (A sinistra e a destra) Pinete di pino marittimo sviluppatesi su terrazzi abbandonati percorsi dal fuoco; il fuoco ha riportato alla luce i terrazzamenti sotto la copertura forestale ancora in perfetto stato di conservazione. (Left and right) Maritime pinewoods on abandoned terraces ravaged by a fire. The fire has brought back to light the terracing underlying the forest cover but still in good conditions. 37


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arbusteto/macchia e bosco, con una fase di ricolonizzazione iniziale in cui il territorio è maggiormente “sensibile”, in quanto la classe arbusteto/macchia mostra una frequenza di frane del 27 %. Le aree forestali in questi contesti non possono fare a meno di cure colturali, ma appare necessario monitorare la situazione sotto la copertura forestale esistente anche per accertare l’esistenza di terrazzamenti in diverse fasi di colonizzazione, con particolare riferimento allo stato della struttura dei terrazzamenti. In particolare, potrebbe essere interessante monitorare se ci sono differenze tra le diverse tipologie forestali, con particolare riferimento al Pino marittimo, indicato spesso come principale elemento destabilizzante anche a causa del precario stato fitosanitario e per la struttura del suo apparato radicale costituito da lunghe radici superficiali. Tale specie, peraltro, non ha alcun interesse per la produzione legnosa, né per il paesaggio storico, ma costituisce spesso una specie invasiva che si insedia dopo l’abbandono e l’incendio. Dal materiale fotografico raccolto si osservano peraltro ampie aree percorse dal fuoco su terrazzamenti prima coperti da pino marittimo, in perfetto stato di conservazione nonostante gli eventi meteorici del 25 ottobre (Fig.11). Possiamo quindi concludere che l’abbandono del paesaggio tradizionale, oltre alla perdita di valori estetici e culturali, contribuisce anche ad aggravare la situazione economica, visto che i costi di manutenzione dei terrazzi sono probabilmente inferiori al costo richiesto per rimediare ai danni causati a cose, persone ed infrastrutture, in seguito ad eventi catastrofici. Oltre a questo, le soluzioni al problema del dissesto non possono essere generici richiami alla necessità di rimboschire le pendici montane e collinari, ma richiedono una più equilibrata valutazione del ruolo delle attività agricole e forestali come presidio del territorio. Bibliografia di riferimento Agnoletti M., (2002) Le Sistemazioni Idraulico-Forestali dei bacini montani dall’unità d’Italia alla metà del XX secolo, in Disboscamento montano e politiche territoriali, a cura di Lazzarini A., Franco Angeli. Agnoletti, M., (2007) The degradation of traditional landscape in a mountain area of Tuscany during the 19th and 20th centuries: implications for biodiversity and sustainable management. Forest Ecology and Management 249 (1/2), Special Issue on Traditional Knowledge, Cultural Heritage and Sustainable Forest Management, Guest editors John A. Parrotta and Mauro Agnoletti, pp. 5-17. Agnoletti M., a cura di, (2010) Paesaggi Rurali Storici. Per un Catalogo Nazionale, Laterza, Bari. Amorfini A., Bartelletti A., Preti F., (2002) Note sull’evento alluvionale del 19 giugno 1996 in Alta Versilia-Garfagnana e sugli interventi di sistemazione dei versanti, Quaderni di Idronomia Montana n. 18. Bellin N., van Wesemael B., Meerkerk A., Vanacker V., Barbera G.G., (2009) Abandonment of soil and water conservation structures in Mediterranean ecosystems. A case study from south east Spain, Catena 76, pp. 114-121. Brancucci G., Ghersi A., Ruggiero M. E., (2000) Paesaggi Liguri a Terrazze. Riflessioni per una metodologia di studio, Alinea editrice, Firenze. Bresci et al., (2012) Palermo, Analisi di stabilità di muri a secco in aree terrazzate) Stability analysis of dry stone walls on terraced areas, Palermo. Carl T., Richter M., (1989) Geoecological and morphological processe on abandoned vine-terraces in the Cinque Terre (Liguria). Geoòkodynamic 10, pp. 125-158. Cazorzi F., (1996) Dalla Fontana G., Un modello distribuito per la valutazione degli effetti idrologici. Conti L., Tei T., Sorbetti Guerri F., Barbari M., (2011) Analisi territoriale dei sistemi terrazzati agricoli della Regione Toscana. Convegno di medio termine AIIA 201, “Gestione e controllo dei sistemi agrari e forestali”, Belgirate, 22-24 settembre, pp. 1-7. Cultlab, (2011) “Report scientifico. Analisi territoriale e tipologica dei sistemi terrazzati agricoli della regione Toscana”. Dipartimento di Economia Ingegneria, Scienze e tecnologie Agrarie e Forestali, Facoltà di Agraria, Università di Firenze. Di Gregorio L., (2010) Centro per la ricerca e la formazione agricola, un progetto per il recupero delle aree rurali e delle terrazze liguri. Per la valorizzazione del patrimonio paesaggistico e culturale della Liguria, Tesi Laurea, Politecnico di Milano, A. A. 2010/2011. Gallart F., Llorens P., Latron J., (1994) Studying the role of old agricultural terraces on runoff generation in a Mediterranean small mountainous basin. Journal of Hydrology 159, pp. 291-303. Genova, pp. 53-56. 38


M. Agnoletti, F. Emanueli, G. Maggiari, F. Preti Paesaggio e dissesto idrogeologico

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LANDSCAPE and hydrogeological risk. the environmental disaster of 25 October 2011 in Cinque Terre Mauro Agnoletti, Francesca Emanueli, Giacomo Maggiari, Federico Preti Cultlab Laboratorio per il paesaggio ed i beni culturali Facoltà di Agraria – Università di Firenze Introduction The existence and importance of terracing in Italy is attested ever since the Neolithic and well documented from the Middle Ages onward. In the 1700s, Italian agronomists such as Landeschi, Ridolfi and Testaferrata began to “learn the art” of hill and mountain terracing, earning their characterization as “Tuscan masters of hill management” (Sereni, 1961). A number of agronomic treatises written in the eighteenth and nineteenth centuries observe that there was a critical situation at the time due to a prevalence of a rittochino (slopewise) cultivation (Greppi, 2007). During the same period, the need to increase agricultural surface induced farmers to till the soil even on steep slopes and hence engage in complex terracing works. The Tuscan agronomists waged a relentless struggle against a rittochino cultivation in favor of a traverso (across the slope) arrangements, less prone to surface instability and soil erosion (Meini, 2010). Contour terraces and regular terraces remained in use until the second postwar period, as long, that is, as sharecropper contracts guaranteed their constant maintenance. Terraces were thus a regular feature of many hill and mountain landscapes in central Italy. Beginning in the 1940s, the gradual abandonment of agricultural areas led to deterioration of these typical elements of the agrarian landscape. The abandonment of the countryside occurred in other nations besides Italy, as the literature confirms (Walther 1986; Garcia-Ruiz and la santa Martinez, 1990; Harden, 1996; Kamada and Nakagoshi, 1997; MacDonald et al., 2000; Romero Clacerrada and Perry, 2004). The current ongoing deterioration of terracing is an issue at the district level, due both to the extension of the terraces and to the fact that they lie uphill and downhill of roads and settlements on hills and mountains. Large areas are presently in critical conditions. Action is called for, for reasons that are both hydrogeological and cultural. With the industrialization of agriculture and migration away from the countryside from the 1960s onward, there has been a gradual dropping of terrace building and maintenance, a consequence of the introduction of tractors capable of tilling the soil along the steepest incline of a hillside (a rittochino), allowing a reduction of labor costs. The national catalogue of the historic rural landscape has recorded a number of terraces on which a variety of crops are grown, although viticulture seems to prevail (Agnoletti 2010). According to the principles of industrial agriculture, terracing, besides being more expensive, is not the best suited method for grape growing. This has led to the abandonment of many terraced areas since the 1960s, especially in the principal winegrowing regions. Over the last few years, however, a reflection has begun on the consequences of terrace abandonment for the landscape, the economy, the environment and society. Here we present the results of an investigation we carried out in November 2011. Our intent was to investigate the relationship between terraces and hydrogeological risk in the Cinque Terre district, impacted by an environmental catastrophe on 25 October 2012 following intense rainfall—about 542 mm of rain in about 6 hours—that flooded areas in the Provinces of La Spezia and Massa Carrara, causing landslides that harmed people and damaged property. The area owes its importance not only to its productive viticulture, but also to its being part of a National Park that is included in the UNESCO World Heritage List. We hence thought it was especially important to assess what happened, not only to prevent future damages, but also in consideration of the significance of the area at the global level, especially as regards the history of terracing. 40


M. Agnoletti, F. Emanueli, G. Maggiari, F. Preti Landscape And Hydrogeological Risk

1. History of Cinque Terre and its viticulture According to available historical sources, in pre-Roman times the Cinque Terre area was peopled partly by Liguri Apuani and partly by Tigulli.1 According to Diodorus Siculus, a Greek historian who lived in the first century B. C., the slopes of the Riviere and their rocky soil constituted the evident drawbacks of the area, precluded, which was precluded “to Ceres and Bacchus” (Compagnoni, 1820). However, there are divergent testimonies in this regard—such as a bronze tablet known as the Polcevera Table (117 BC)— which report that the ancient Liguri were already growing grapes and building contour terraces in pre-Roman times. Pliny the Elder celebrates the vinum lunense2and mentions the presence in the Maritime Alps of a wild grape known as raetica.3 An unusual aspect of local wine production was the preparation of vegetable pitch and its addition into the wine to flavor or preserve it (Gambari, 2007). What is certain is that the historical terraced landscape of Cinque Terre is the result of major transformations undertaken by human beings over 1000 years of history, through the harsh, continuous and assiduous toil of generations who over centuries replaced the maquis and woods covering the slopes with vineyards growing on terraces (Marmocchi, 1846). After the early Middle Ages, which witnessed a barbarization of farming practices, the first timid signs of a recovery begin to be noticeable around the year 1000. Lands that had long been abandoned, or devastated by the violence of Saracen incursions, were farmed again, leaving ample room for grapevine. Historical documents indicate that Cinque Terre also witnessed a new bloom around the year 1000. This is when the famous five towns were founded and the first agricultural landscaping works were undertaken. It is also around this time that terracing becomes widespread, thanks to the control of the land exercised by Benedictine monasteries and parishes: “The local people were charged with farm work in exchange for protection. Deforestation, valley-bottom hydraulic works, the opening up of some mountain paths, and the spread of terracing and olive-growing contributed to redefine the organization and image of the landscape, notwithstanding interruptions and slowdowns due to Saracen invasions until the eleventh century” (Brancucci et al., 2000). Three main forms of terraces were built: contour terraces, lunettes, and terraces in the strict sense. The first type is used in the interior of Liguria, where slopes are not excessively steep (along ridges or valley bottoms). Vegetables are usually grown on the terraces and they are retained by short grassy scarps. The second type, especially popular in the Middle Ages, is used to prevent the land in which individual trees are rooted from being washed away. These terraces have crescent-shaped walls and are built on a steep slopes. Terraces in the strict sense, instead, consist of a succession of walls that retain the cultivable plots (lenze), which are more or less deep depending on the inclination of the slope. Usually the stones of the terrace walls are laid without a binder to allow excess water to drain away. The harsh toil put in to make the land cultivable thus gave rise to a “stepped land” (Ghersi and Ghiglione, 2012). The walls also have a heat-storing function. The stones give back the thermic energy accumulated during the day, creating a peculiar favorable microclimate, especially for crops like grapevine, which thrive in dry soil. The founding of the towns of Cinque Terre is coeval with two events that deeply marked European history: the conquest of the Mediterranean by the Saracens and the demographic expansion that went on until the outbreak of the Great Black Plague (1346-1347). In 1113-15, Genoa, a town with flourishing commercial interests in the Orient, and therefore interested in protecting commercial routes from Saracen piracy, purchased Portovenere, which belonged to the lords of Vezzano. In 1135 it gained control of Sestri Levante; in 1152 it acquired Lerici, in 1209 Vernazza, a few years later Monterosso and Corniglia, and in 1275 Riomaggiore and Manarola. The expansion of the settlements along the coast went hand in hand with the erection of their churches between the first half of the thirteenth century and the second half of the fourteenth, and with the growth of their political importance within the Genoese dominion. The first descriptions of Cinque Terre date from the Rovereto (1924) credits the Tigulli with the building of the first terraces. In 177 BC, Roman colonists divided up the countryside of Luni (ager lunensis) among themselves and founded Vernazza and Corniglia, known at the time as Vulnetia and Cornelia (Marengo, 1924). 3 Naturalis historia (XIV, 8, 7): “Etruriae palmam Luna habet”. 1 2

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early fourteenth century. Jacopo Bracelli, chancellor and historiographer of the Genoese Republic, was the first to provide a fairly accurate description of this area of Liguria, in his Descriptio orae Ligusticae (1448): “Then along the coast stand five lands almost at equal distances from one another, which are Monterosso, Vulnezia, now vulgarly known as Vernazza, Cornelia, Manarola and Rio Maggiore, famous not only in Italy but also among the French and the English for the excellence of their wine. Which in truth is amazing when one sees these mountains, so steep and precipitous that even birds barely manage to fly across them, rocky and arid, and covered with sprays so slender and shriveled that they look more like ivy than grapevine. From here comes the wine we prepare for the tables of kings” (Marengo, op. cit.). These five towns were spontaneously associated—that is, probably without the imposition of an official decision by the central political power—under a single name, both because of the quality of their wine and because of they all grew grapes in the same way, on terraces that put a strong mark on their landscape and sharply distinguished it from the rest of the extreme versant of Liguria (Storti, 2004). Thanks to the foundation of these municipalities and the cessation of the incursions of Saracen pirates, both the settlements and the crops began to expand along the coast and inland. The terraces became a collective resource to be defended, as attested by prescriptions in municipal statutes, such as that of Celle in 1414, forbidding the taking of stones from terrace walls or the tilling of the soil too close to the walls at risk of damaging them. During the sixteenth century, the five towns began to somewhat differentiate themselves from one another in their activities. Vernazza and Monterosso developed both viticulture and seafaring, while Corniglia remained exclusively reliant on wine-growing. During the eighteenth century, pressure from the French revolutionary army led to the end of the Republic of Genoa in 1797 and the creation of the Repubblica Ligure. In Cinque Terre there was a consequent shift from the two podesterie that had existed up to then to five communities, one for each town and parish. In 1805, by will of Napoleon himself, the Repubblica Ligure ceased to exist and Liguria was entirely incorporated into the French empire. The five communities of Cinque Terre were reduced to three communes: Monterosso, Vernazza and Riomaggiore, which incorporated Corniglia and Manarola as sub-municipalities. After the fall of Napoleon in 1814 and the Congress of Vienna, Liguria became part of the Kingdom of Sardinia, under the terms of the Royal Edict of 11 November 1818, which declared the constitution of the “Provincia di Levante”, with its capital at La Spezia. Many public works were undertaken in this period, under the rule of the Savoy dynasty. As to administrative divisions, the three communes instituted by Napoleon were retained under the Savoy. In the nineteenth century, two important changes were introduced in viticulture, which marked a break with the traditional methods that had been used for so many centuries. The first was the introduction of other varieties of grape, of lesser quality but more productive in quantitative terms. The other very important change, which made the wine harvest as well as other kinds of agricultural work less strenuous, was the replacing of “ground-level” vineyards with low pergolas constituted by reed trellises on small wooden stakes rising no higher than 50 cm above the ground.4 With the disappearance of state boundaries following the Unity of Italy, unhindered transportation and trade throughout the nation brought remarkable economic and social changes in eastern Liguria as well as elsewhere in Italy. Two major infrastructures were built at this time: the Navy arsenal in La Spezia, and the coastal railway that ran along the Riviera del Levante from Genoa to Sarzana. The Genoa-La Spezia railway stretch was inaugurated in 1874, marking the end of the thousands of years of isolation of the towns of Cinque Terre from the rest of the country. As to wine production, by the early nineteenth century it had doubled compared to the first few decades of the century. This was due to the increase of the wine-growing surface through the building of new terraces almost up to the mountain crests. The year 1874 also witnessed the publication of the Guida delle Alpi Apuane, edited by Cesare Zolfanelli and Vincenzo Santini, which offers an “The cultivation of vineyards in this land is truly peculiar and very simple, because without wasting time in digging pits in the ground, there being none, the vines are stuck in what little earth remains between the cracks and joins of the rocks that form the rugged slopes of these mountains, and no other care is taken of them nor are they managed, and there is no need for poles or other supports” (Targioni Tozzetti 1768-1779).

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M. Agnoletti, F. Emanueli, G. Maggiari, F. Preti Landscape And Hydrogeological Risk

accurate and detailed description of Cinque Terre: “From Portovenere, following the coastline railway towards Genoa, one encounters the cove of Cinque Terre (…). Here the land is divided among five villages where only grapes are grown (…). In this stretch of land are many steep and rugged rocks, such as not even goats can climb. Nevertheless, thanks to its industry, the land is rich in vineyards, and vines are placed in the crevices between one rock in the next, like capers, where they take root and hang down the slopes with their long sprays. Although the method of managing grapevine is very simple and vineyards are formed along extremely steep places along the coast, which plain dwellers would dread to even tread on, grapevine is cultivated with the greatest care, and there are some extremely patient farmers who, so as not lose the advantage of their experience, plant vineyards on slopes of bare rock. Having built a low wall, they bring soil from other places; but sometimes misfortune hits them, and the industrious grower sees the whole thing washed down to sea by the water.” In 1920, local viticulture was seriously impacted by phylloxera, which in very few years caused the death of all varieties of grapes grown in the area. After the phylloxera epidemic, viticulture had a hard time recovering, partly due to the lack of labor. As early as the late nineteenth century, as agricultural income decreased, the first migratory flows began, first towards cities, then towards foreign countries, especially the Americas. From the 1970s onward, Cinque Terre witnessed a more than 70% decline of its agriculture and fishing. The towns of Vernazza and Riomaggiore are those that experienced the worst decline of viticulture; for example, the loss of over 52 ha was reported in Riomaggiore between 1982 and 1990, and 24 ha in Vernazza (Storti, op. cit.). This decrease of vineyard surface can be regarded as a constant trend over the last thirty years. The depopulation of the countryside has determined a constant reduction of the maintenance required by the terraces. Terraced viticulture in the Cinque Terre area is an economic, historical and cultural heritage, a landscape modeled by human beings with the sweat of their brow to guarantee their livelihood. But if the population declines this heritage is placed at jeopardy.5 2. Terracing and hydrogeological risk Investigations by CULTLAB have already highlighted certain aspects of the relationship between terracing and hydrogeological risk. Although they were carried out in Tuscany, citing some of their results will help us to put the phenomenon into context. As regards the hydrogeological aspect, terrace abandonment has resulted in an advanced state of deterioration of these constructions made in earlier historical times. The ceasing of their maintenance has triggered processes of erosion and surface instability. The role of terracing in the control of surface runoff is well known today (Llorens et al., 1992; Gallart et al., 1994), as is their role in controlling surface erosion and instability (Bellin et al., 2009; Romero Diaz et al., 2007; Shrestha et al., 2004). Earlier studies (Preti, 2001, 2002) have investigated the increase of hydrogeological risk associated with terrace abandonment. More recently, other scholars have investigated the stability of individual terraces to gauge whether the versant will be able to retain its efficacy in the control of erosion, gravitational instability and flooding (Bresci et al., 2012). A study of the evolution of land use and terrace maintenance in the Fosso delle Rave basin in Versilia after the flood of 19 June 1996 has yielded interesting data (Ravenna, 2001; Preti et al., 2001 a, b, c). Other studies on areas in the Apuan mountains (Agnoletti 2007) have highlighted the relationship between the abandonment of terrace areas and landscape dynamics, biodiversity, and the hydrogeological disasters that occurred in the Cardoso area in 1996. “It is not enough to have made the earthworks and the walls; they should be maintained. The winds in some places, and the heavy and long-lasting rains everywhere, wage a terrible war on them. Small torrents suddenly formed and overflowing their artificial drainage channels or breaking free from them, break through and tear down the walls, and sweep down like a waterfall from step to step, dragging down to the valley bottom the soil that was gathered with such toil on the shelves they supported. The good peasant is constrained to almost endlessly work at repairing and rebuilding walls, and bring back up from the valley bottom the soil he has already brought up a hundred times” (Bertolotti, 1834).

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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

As regards variations in reaction times and the capacity for water accumulation of terraced slopes, Agnoletti has studied both the slowing down of runoff and the lengthening of flowpaths as a consequence of the reduced acclivity of slopes between terraces—respectively, by 57% and 5% compared to the acclivity of the natural slope. Agnoletti has also assessed hypothetical future scenarios, in 2050 and 2100, based on the projection of the current situation of land use and management, which would lead, respectively, to the total end of maintenance of the current terracing, and to the total loss of terracing with the spread of the original mesophilic mixed woods through a process of secondary succession. This hypothesis would involve a potential increase of bicentennial flood peaks and flood risk, which in the absence of terracing would be reduced to a mere 100 years. Agnoletti also compares the present situation of the Greve basin with a prospective scenario hypothesizing a complete lack of terraces. All the current morphometric parameters are retained in this hypothetical scenario, except for average acclivity, which in the absence of terraces would increase from 10-12% to 20%. The results show that, while today on average overflowing followed by floods occur every five years, in the absence of terracing this interval would be reduced to only two years. Colonization of slopes by woods goes hand in hand with the deterioration of terracing—both as an effect and a cause—and the concomitant increase of erosion and landslide risk, but with the following caveats: - spontaneous vegetation begins by colonizing spots that are harder to cultivate (steep slopes, shallow soils, etc.) and where instability is hence already higher. - the negative effect of the overloading of slopes with vegetation is more than offset than the positive effect derived from the reinforcing of the ground by plant roots; - spontaneous vegetation can hence often play a “protective” role, reducing flood peaks in mountain basins (Preti et al.) and the risk of superficial landslides, especially in the case of very steep slopes with shallow soil layers that roots do not easily take hold in—as in the case of chestnut trees growing on limestone in Upper Versilia (Preti et al., 1999) or on the slopes of Salerno (Hofmann, 1955)—and wherever terracing is not maintained. From the 1950s onward, the gradual abandonment of agricultural surfaces has led to the deterioration of terrace walls and, in some cases, their collapse. The study of terracing has gained special importance over the last few years with the growing of awareness of their economic, environmental and cultural-historical importance, as well as the hydrological functions of terraced landscapes in farm areas, including erosion control, slope stabilization, the lengthening of concentration times, and sometimes the reduction of surface runoff. The Laboratory for Landscape and Cultural Heritage of the University of Florence has begun the mapping and description of the terraced farming landscape of the Region of Tuscany with the ultimate aim of building a database containing information such as georeferencing of sites, technical-constructive parameters, typology and state of preservation of terraces, and local land uses. A study of terraced agricultural areas in Tuscany has been recently carried out, investigating the importance of factors such as terrace geometry, the geotechnical parameters of the ground, countersloping, seismic events and groundwater-related events on terrace stability. The authors of this study drew on the “Report scientifico – Analisi territoriale e tipologica dei sistemi terrazzati agricoli della regione Toscana” (CULTLAB 2011) to identify terraced areas in various parts of Tuscany with different soil characteristics. One of their case-studies was Pontremoli, struck by a flood on 25 December 2010. The study emphasizes that the presence of groundwater here, although very deep underground, involves significantly lower security coefficients for the stability of the dry-stone walls, even lower than 1 (collapse). This confirms that it is important to take account of this factor when checking and sizing terraces, and to make sure the terraces drain properly.

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M. Agnoletti, F. Emanueli, G. Maggiari, F. Preti Landscape And Hydrogeological Risk

3. The investigation in Cinque Terre The source of information used here are a video and about 500 photographs shot on 2 November 2011 (Figure 3) from a helicopter flying over the Vernazza-Monterosso (SP) area.6 The digital image files indicate the geographical coordinates of the helicopter at the time they were taken, and this has allowed us to geographically localize most of the recorded landslides using Google Earth. We drew up a series of records listing the location of each landslide, its photograph, the corresponding image in Google Earth (year of taking 2006), and a photointerpretation of the present land-cover and landuse class of the location impacted by the landslide (Figs. 4, 5 and 6). The result of this analysis was a database of landslide characteristics. We intentionally left out landslides resulting from the collapse of sparsely vegetated rocky spots overlooking the open sea. We compiled 37 records referring to 88 landslides of various magnitudes. We began by identifying and classifying each landslide through a preliminary visual interpretation of our data. We subsequently drew up reclassifying legends for each landslide, based on land uses in the locality impacted by the landslide, and distinguishing the bodies of landslides from detachment surfaces. Our analysis of the collected data shows a clear and statistically significant relationship between terrace abandonment and landslides (Graph 1). Out of 88 cases (100%), only 7 (7.95%) showed no traces of abandonment. 5 of these regarded actively cultivated areas, the other 2 areas where the wooded cover had been recently removed. Our database does not give detailed information on woodland categories, but it clearly highlights the lack of silvicultural management of the local woods. For this reason, and on the basis of available historical information, we have classified the wooded areas in our study as abandoned areas, as they are the result of secondary successions on abandoned terraces and hence cannot be equated with managed woods. Leaving out forest surfaces where we were unable to detect underlying terracing, we detected 50 cases where terraces lay under the forest cover. This was always the case in agricultural areas. As Table 1 shows, forest surfaces and abandoned cultivations are affected in equal proportions (44.32% for woods, 47.73% for terraces) by landslides. Furthermore, 2 landslides were observed in areas where the tree cover had been totally removed (between 2006 and the present day). This removal, whatever its end, was done on very steep slopes, and was hence ill-advised. Incidentally, in one of these two cases one can see that a secondary road was built to reach buildings present in the area (Fig. 7). Finally, in 5 cases out of 88 (5.68%), the landslides impacted active agricultural areas. Interestingly, this usually occurs at the edge of cultivation, on the border with wooded areas (Fig. 8). In one case, the landslide occurred in a vineyard where the rows of vines were arranged alternately along contour lines and slopewise, which is unusual in this area (Fig. 9). If we look at the statistics for the detachment surfaces of landslides, a very interesting datum emerges: we notice, that is, a more than significant increase (13%) of surface classified as woodland and a sharp drop of abandoned cultivated terraces. The graph includes the “below roads� category, which accounts for about 8% of occurrences. We arbitrarily introduced this category because we regarded as significant the correlation between above-lying infrastructure (road) and the lack of maintenance of the areas downhill of it (Fig. 10). 4. Conclusions Hydrogeological instability in our country has been a problem in our country ever since ancient times. It was a central concern of the environmental policies of the unified State, and required increasing expenses until the second postwar period, affecting the whole country to some degree or other (Agnoletti 2002). The adopted strategies have gone through several historical phases, influenced by 6

This part of the investigation was carried out thanks to the financial support of the Italian Environmental Fund. 45


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

technical and scientific models proposing various kinds of solutions, often based, not on traditional farming practices, but on an engineering approach involving the building of structures to manage river and torrents, or extensive reforestation of mountain slopes. More recently, the attention of the public and of many environmental associations has focused especially of the role of urban sprawl and inappropriate urban planning decisions in determining hydrogeological instability. The objective of the present study, instead, has been to call attention back to all that goes on uphill of urban areas on valley bottoms—in this case, the urban centers situated along the coast of Cinque Terre—, recognizing possible relationships between landslides and different types of land use and cover, especially with regard to the state of traditional water and agricultural land management works. The distinctive element shared by all the landslides examined here is abandonment, which clearly emerges as the ultimate cause of the events of 25 October 2011. We did not detect a single case where a landslide originated from a regularly cultivated area with traditional terracing, whereas landslides do occur where terraces are abandoned and colonized by woods. Furthermore, if on the one hand our study highlights the need for cultivation and forest management, on the other it shows that well-maintained terraced surfaces are capable of containing landslides even when these originate from other land-use categories. It appears clear that the beneficial effects of terracing are more evident where the well-maintained surfaces are more extensive and the farming system is more complex. As regards infrastructures (roads etc.), the main problems we observed depend on a lack of maintenance of banks, especially downhill from roads. This issue, already familiar to those who work in this sector, is especially thorny in a highly sensitive hydrogeological context like the one under study. The impression we have gained in the course of our investigation is that abandonment aggravates the effects of superficial landslides and torrent floods by increasing the amount of unstable material (earth and rocks) on the surface. The abandonment of terraces increases instability and risk factors as a result of their colonization by shrubs and trees. The landslides we studied do not show significant correlations with one or another tree species, as conifer and broadleaf woods were affected by landslides in similar percentages. In the present state of our knowledge, we can roughly distinguish between shrubland/maquis and woods, with an initial recolonization phase when the land is more risk prone, since the shrubland/maquis land-use category shows a 27% frequency of landslides. In situations such as these wooded areas cannot be left unmanaged. Besides, it appears that the ground under the forest cover needs to be monitored to detect underlying terraces at different stages of colonization and assess the structural conditions of these terraces. It would also be interesting to ascertain whether there are differences between the different types of woodland, especially as regards maritime pines, often indicated as the principal culprits of destabilization because of their precarious phytosanitary conditions and their long superficial roots. Incidentally, this is not a lumber species and holds no historical landscape interest; indeed, it is often an invasive species that settles in after abandonment or a fire. Our photographs show vast burned-down areas on terraces formerly covered with maritime pine. The terraces are perfectly preserved in spite of the rains of 25 October (Fig. 11). We can thus conclude that the abandonment of the traditional landscape, besides leading to loss of aesthetical and cultural values, contributes in aggravating the economic situation, since the costs of terrace maintenance would probably be lower than those of compensation for the damages caused by catastrophic events to people, property and infrastructure. The hydrogeological instability issue cannot be addressed merely by generically recommending the reforesting of hill and mountain slopes. A more balanced assessment of the role of agriculture and forestry in land protection is called for.

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la diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici Analisi comparativa della valle di Viñales (Cuba), la valle di Telouet (Marocco) e la valle d’Itria (Italia) Mauro Agnoletti, Martina Tredici, Antonio Santoro Cultlab Laboratorio per il paesaggio ed i beni culturali Facoltà di Agraria – Università di Firenze

Introduzione Lo studio dei paesaggi rurali ha assunto una nuova dimensione che coinvolge istituzioni scientifiche mondiali, continentali e nazionali. In particolare l’attenzione degli studiosi si concentra sui paesaggi storici, più precisamente i paesaggi tradizionali. Tali paesaggi sono indissolubilmente legati alle pratiche mantenute e trasmesse da generazioni di produttori: agricoltori, pastori e boscaioli. Si tratta di complessi sistemi basati su tecniche ingegnose e diversificate che hanno fornito un contributo fondamentale alla costruzione ed al mantenimento del patrimonio storico, culturale e naturale, rappresentando il continuo adattamento a condizioni ambientali difficili e mutevoli, fornendo molteplici prodotti e servizi, contribuendo alla qualità della vita e producendo paesaggi di grande bellezza. La rapidità e l’ampiezza delle trasformazioni tecnologiche, culturali ed economiche avvenute negli ultimi decenni minacciano i paesaggi e le società rurali ad essi associate. Pressioni molteplici costringono i produttori ad innovare le tecniche agricole, portando spesso a pratiche insostenibili, all’esaurimento delle risorse naturali, al declino della produttività, e ad una specializzazione eccessiva. Questo pone seri rischi per la conservazione di questa risorsa economica, culturale ed ambientale, non solo interrompendo la trasmissione delle conoscenze necessarie al suo mantenimento, ma portando anche alla destabilizzazione socioeconomia delle aree rurali. L’interesse per lo studio di questi paesaggi è oggi sostenuto da importanti organismi nazionali ed internazionali. L’Italia ha per prima iniziato un lavoro di inventariazione del paesaggio rurale storico sulla base del quale sono stati impostati strumenti normativi per consentire non solo la catalogazione ma anche il sostegno economico agli agricoltori. La FAO con il progetto Globally Important Agricultural Heritage Systems si è posta l’obbiettivo di individuare paesaggi rurali storici, mentre i paesaggi culturali dell’Unesco considerano anch’essi il paesaggio rurale, sebbene con un orientamento diverso rispetto al progetto FAO. Una importante novità è il programma sulla diversità bioculturale della Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite (CBD), il quale finalmente riconosce il valore del paesaggio rurale per la biodiversità. Si tratta di un importante collegamento con il settore della conservazione della natura fino ad oggi poco interessato ai paesaggi rurali, ma più rivolto agli habitat naturali. Alla luce di queste iniziative ci è sembrato utile tentare un confronto fra tre paesaggi tradizionali collocati in contesti ambientali, economici e sociali molto diversi, ma tutti inseriti nel patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco, per una prima valutazione di elementi in comune ed eventuali diversità nella struttura del mosaico paesaggistico, anche in relazione ai progetti FAO e CBD. Si intende così contribuire ad approfondire le basi scientifiche per il riconoscimento, la conservazione, la gestione dinamica dei sistemi di paesaggio storico e delle pratiche tradizionali, sulla base dei metodi di analisi e dei risultati già acquisiti per il catalogo nazionale del paesaggio rurale italiano, ma che il Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali dell’università di Firenze sta implementando con la FAO e la CBD. 47


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

1. La valle di Viñales (Cuba) La valle si trova nella provincia di Pinar del Rio, nel nord est dell’isola di Cuba. Si tratta di un territorio agricolo di grande interesse inserito nella lista dei siti del patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco. La proposta per l’iscrizione della valle nella “World Heritage List” dell’Unesco per la categoria “paesaggio culturale” è del 22 giugno del 1998. La zona costituisce una “miscela” di elementi naturali, in particolare piccole colline calcaree con pendici molto ripide chiamate “mogotes” e attività antropiche, relative principalmente alla coltivazione di tabacco, di foraggio e ad altre colture agricole. Le particolari caratteristiche ambientali, unite alle attività agricole e alle dinamiche storiche che hanno interessato il territorio, rendono il luogo molto particolare anche dal punto di vista estetico. Il contrasto di colori fra la terra rossastra, il fogliame verde delle colture e gli affioramenti calcarei (i mogotes), rendono inconfondibile il luogo agli occhi del visitatore. Esso può essere definito un paesaggio agrario tradizionale rappresentativo della zona caraibica e della cultura rurale cubana, alla cui sopravvivenza contribuiscono i crescenti flussi turistici e le strutture alberghiere di buona qualità e a basso impatto costruite di recente.

Fig. 1. (A sinistra) Localizzazione del sito di Viñales a Cuba. (Left) The location of the site of Viñales in Cuba. Fig. 2. (A destra) Veduta della valle di Viñales da sud ovest (foto M. Agnoletti). (Right) View of the Viñales valley from the southwest (photograph by M. Agnoletti).

1.1 Caratteristiche del sito Informazioni storiche dettagliate sono piuttosto carenti circa l’area di Viñales. Le numerose grotte sparse sui versanti collinari della Valle sono state abitate molti secoli prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli da popolazioni indigene. Il suolo molto fertile ed il clima favorevole sono stati utili allo sviluppo dell’allevamento e delle coltivazioni di foraggio e di colture alimentari, attraverso l’utilizzo degli schiavi provenienti dall’Africa. I cimarrones, schiavi evasi, spesso trovavano rifugio proprio nelle suddette grotte. A seguito della sempre maggiore importanza delle coltivazioni di tabacco, il villaggio di Viñales fu fondato nel 1875, lungo la strada che porta dalla città di Pinar del Rio, il capoluogo di Provincia, a Puerto Esperanza, il maggiore porto della zona. Il Ferrocaril del Oeste (la ferrovia occidentale), di cui rimangono ad oggi solo pochi tratti visibili, fu costruito nel 1882. La Valle è stata anche lo scenario di parecchie operazioni militari sia durante la Guerra d’Indipendenza, che durante la Rivoluzione Cubana di Fidel Castro. Attualmente l’intera valle è completamente vocata all’agricoltura: la popolazione residente (circa 8000 persone) è occupata nella coltura del tabacco ed in altre attività agricole. Viñales è circondata da montagne. La zona pianeggiante arata e coltivata, risulta “punteggiata” da affioramenti calcarei che raggiungono altitudini anche di 300 metri (i mogotes). La vegetazione su queste collinette è caratterizzata da specie endemiche, in particolare la Microcycas calocoma, annoverata fra le specie a rischio (critically endangered) nella Red List of threatened species dello IUCN (International Union for Conservation of Nature). 48


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

Fig. 3. (A sinistra) La Microcycas calocoma è una specie che cresce solo a Viñales. (Left) Microcycas calocoma is a tree species that only grows in Viñales. Fig. 4. (A destra) Esempio di abitazione tradizionale ai piedi di un mogote, i ripidi rilievi calcarei che caratterizzano il paesaggio della valle (foto M.Agnoletti). (Right) A traditional dwelling at the foot of a mogote, one of the steep limestone hills that distinguish the valley’s landscape (photograph by M. Agnoletti).

La pianura è interamente vocata all’agricoltura tradizionale. Esperimenti abbastanza recenti hanno dimostrato che i metodi meccanizzati di coltivazione vanno ad influire negativamente sulla qualità finale del tabacco; questo spiega come mai vengono tuttora utilizzati i metodi tradizionali quali la trazione animale. L’aspetto della Valle cambia con il passare delle stagioni e con il conseguente ciclo di crescita delle colture, e questi mutamenti sono accentuati dal suo orientamento est-ovest. Con il passare delle ore, grazie alle diverse inclinazioni dei raggi solari, si può godere di uno spettacolo unico, dovuto alla roccia grigia delle formazioni calcaree, al terreno rossastro, alle abitazioni bianche o grigie, ed infine alle piante coltivate, nelle varie tonalità di verde. La maggior parte degli edifici sparsi nella vallata sono molto semplici: costruiti con materiali locali ed utilizzati come abitazioni, o piccole fattorie a gestione familiare. Il villaggio di Viñales, incernierato lungo la viabilità principale, ha mantenuto il suo layout originale e presenta molteplici esempi interessanti di architettura coloniale. L’intera valle è caratterizzata da una cultura originale, una sorta di sintesi e miscela fra i contributi dei popoli indigeni, dei conquistadores spagnoli e degli schiavi africani. I Cubani si identificano particolarmente con Viñales, sia a causa della bellezza del sito, sia per la sua importanza storico-culturale. Circa il 92% dell’area che rientra nella World Heritage List è nelle mani di proprietari privati, di cui il 30% posseduto da coltivatori singoli ed il resto dall’Associazione Nazionale dei Piccoli Agricoltori. Attualmente la valle è salvaguardata dai provvedimenti previsti nella “Costituzione della Repubblica di Cuba” del Febbraio 1976 e dalla “Dichiarazione” del 27 Marzo 1979, che la identificano come Monumento Nazionale, in applicazione delle due leggi del 4 Agosto 1977, la prima sulla protezione della proprietà agricola e l’altra sui monumenti nazionali e locali. La più alta autorità responsabile della gestione del sito è costituita dal Consiglio Nazionale del Patrimonio Culturale e Naturale dello Stato di Cuba. La supervisione locale è affidata però al Centro Provinciale per il Patrimonio Culturale di Pinar del Rio, alla Divisione Provinciale del Ministero della Scienza, Tecnologia e Ambiente ed infine alla Divisione Provinciale del Ministero dell’Agricoltura. La conservazione dei valori naturali ed antropici dell’area viene considerata importante, ma sono tenute in considerazione anche le necessità sociali della popolazione locale, la promozione economica delle attività e l’incremento della qualità di vita. 49


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Fig. 5. I caratteristici mogotes creano un contrasto esteticamente molto interessante con la pianura coltivata. La combinazione fra le peculiarità geomorfologiche, le colture agricole e le dinamiche storiche, contribuiscono al valore del sito di Viñales (foto M. Agnoletti). The mogotes make for a very interesting aesthetical contrast with the cultivated plain. The combination of geomorphological peculiarities, farming and historical dynamics contributes to the value of the site of Viñales (photograph by M. Agnoletti).

Fig. 6. (A sinistra) Le tipiche capanne per l’essiccazione del tabacco con struttura in legno (foto M. Agnoletti). (Left) Typical wooden huts where tobacco is dried (photograph by M. Agnoletti). Fig. 7. (A destra) La lavorazione dei campi per la coltivazione del tabacco è spesso ancora eseguita con il traino animale ed aratri in legno (foto M. Agnoletti). (Right) The tobacco fields are often still ploughed with animal-drawn wooden ploughs (photograph by M. Agnoletti).

1.2 Integrità e vulnerabilità L’area iscritta nella Lista del Patrimonio Unesco è considerata un “paesaggio vivente”, con un elevato tasso di “autenticità”, dimostrandosi capace di preservare fino ad oggi il suo carattere peculiare nonostante le dinamiche socioeconomiche e gli elevati flussi di turisti. Sebbene il dossier di candidatura dell’UNESCO spieghi che le misure generali per la protezione e la gestione dovrebbero essere in grado di prevenire anche i danni legati all’antropizzazione, le problematiche legate alle trasformazioni dell’uso del suolo non sembra siano state oggetto di grande attenzione, anche perché manca un rilievo puntale 50


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

della sua struttura con una cartografia di riferimento. Tale rilievo appare di fondamentale importanza per stabilire se le trasformazioni in corso vadano ad alterare il mosaico paesaggistico e quindi le condizioni per l’ iscrizione nel patrimonio Unesco. Peraltro, tale mancanza si rileva in molte altre proprietà iscritte, per le quali sarebbe necessario istituire un sistema di monitoraggio adeguato a valutare le trasformazioni del paesaggio con periodici rilevamenti della struttura dell’uso del suolo. Tale ridotta attenzione si manifesta anche nelle attività di promozione turistica, visto che ad un esame sommario mancano pubblicazioni o altro materiale con informazioni sul paesaggio agrario della zona, mentre vi sono notizie sulla vegetazione e la fauna naturale, oltre a cenni storici generali. Stessa problematica si rileva nella organizzazione delle visite turistiche, le quali pur menzionando l’iscrizione nel patrimonio Unesco, non fanno cenno alla categoria di beni nei quali la valle è iscritta ne forniscono spiegazioni sui caratteri del paesaggio agrario, demandando questo ai contadini delle piccole fattorie presso le quali le guide turistiche accompagnano i turisti per osservare produzione e lavorazione dei sigari locali. Per tali motivi ci è sembrato opportuno procedere ad un rilievo dell’uso del suolo per consentire di definire la situazione attuale in vista di possibili trasformazioni del paesaggio locale. 1.3 Analisi effettuate In base ad una fotointerpretazione di massima, attraverso le immagini satellitari di Google Earth, sono state identificate dodici classi di copertura del suolo. Dai dati raccolti risulta che il 48% della superficie studiata è occupata da colture agrarie di vario tipo (seminativi semplici e arborati, colture arboree, colture di tabacco); il 34% risulta invece impegnato da vegetazione arborea, quali i boschi caratterizzanti i mogotes e la vegetazione ripariale, che presenta un interessante disegno “tentacolare” che permea la trama agraria; circa il 12% della superficie complessiva è caratterizzato invece da prati e pascoli, ed infine solo il 6% è occupato dal tessuto urbano, continuo e discontinuo. Il mosaico paesaggistico risulta molto frammentato per ciò che concerne la porzione agricola (superficie media agraria di circa 0,48 ha), con una netta dominanza dei seminativi semplici che caratterizzano il paesaggio locale che appare con una “grana” piuttosto fine. I mogotes formano un agglomerato posto al centro della valle contornato da aree agricole. Tale disposizione oltre ad un particolare valore dal punto di vista spaziale, crea anche una evidente peculiarità dal punto di vista estetico. Infatti, oltre alla verticalità dei rilievi calcarei, che normalmente colpiscono di più l’occhio dell’osservatore rispetto alle componenti orizzontali, la vegetazione arborea che uniformemente li ricopre crea un interessante contrasto con la frammentazione del paesaggio agrario, presentando caratteri di omogeneità molto diversi nella stessa zona. Tab. 1. Struttura dell’uso del suolo della Valle di Viñales. Structure of land use in the Viñales valley. Usi del suolo - Land Uses

Superficie - Surface (Ha)

Superficie - Surface (%)

Coltura tabacco - Tobacco crops

119,97

5

Seminativi semplici - Arable lands

859,54

36

Seminativi arborati - Arable lands with trees

97,82

4

Seminativi irrigui - Irrigated arable lands

53,32

2

Prati e pascoli - Meadows and pastures

282,29

12

Colture arboree - Permanent wooded crops

16,22

1

Tessuto urbano continuo con resedi - Continuous urban fabric

121,44

5

Tessuto urbano discontinuo con resedi - Discontinuous urban fabric

29,652

1

Case sparse - Scattered housing

5,477

0

./.. 51


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Bosco alto - Mixed forest

775,86

32

Vegetazione ripariale - Riparian vegetation

48,66

2

Acque superficiali - Water bodies

8,48

0

2418,729

100

TOTALE - TOTAL

Tab. 2. Nella tabella si osserva come il numero delle tessere del mosaico paesaggistico identificate come seminativo semplice è superiore rispetto alle altre colture, mentre è elevata anche la presenza di alberi al bordo dei campi. The table shows that the number of arable land patches in the landscape mosaic is higher than that of other patches of cultivated land, and that there is a high number of trees along field edges.

Usi del suolo - Land uses

Numero Tessere Number of patches

Numero Tessere Agr Number of cultivated patches

Superficie Surface (Ha)

Superficie Agr Sup. Media Tot Superficie Media Agr Agricultural Average surface Average surface surface (Ha) of patch (Ha) of cultivated patch (Ha)

Coltura tabacco Tobacco crops

243

243

119,97

119,97

0,49

0,49

Seminativi semplici Arable lands

1761

1761

859,54

859,54

0,49

0,49

Seminativi arborati Arable lands with trees

212

212

97,82

97,82

0,46

0,46

Seminativi irrigui Irrigated arable lands

117

117

53,32

53,32

0,46

0,46

Prati e pascoli Meadows and pastures

94

282,29

3,00

Colture arboree Permanent wooded crops

61

61

16,22

16,22

0,27

0,27

Tessuto urbano continuo con resedi Continuous urban fabric

12

121,44

10,12

Tessuto urbano discontinuo con resedi Discontinuous urban fabric

47

29,652

0,63

Case sparse Scattered housing

98

5,477

0,06

Bosco alto - Mixed forest

165

775,86

4,70

Vegetazione ripariale Riparian vegetation

48

48,66

1,01

Acque superficiali Water bodies

62

8,48

0,14

2920

2394

2418,729

1146,87

0,83

0,48

TOT

Fig. 8 (pagina a fianco). La cartografia dell’uso del suolo di Viñales, oltre alla complessità della struttura del mosaico agrario, mostra come i mogotes formino un agglomerato posto al centro della valle contornato da aree agricole. Tale disposizione oltre ad una particolare valore dal punto di vista spaziale, crea anche una evidente peculiarità dal punto di vista estetico, come osservabile in fig. 4. Fig. 8. (next page). The land-use map of Viñales, besides highlighting the complexity of its agricultural mosaic, shows that the mogotes are clustered in the center of the valley and surrounded with farmland. This arrangement, besides making for an unusual spatial quality, also results in a distinctive aesthetic peculiarity, as fig. 4 shows. 52


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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

2. La valle di Telouet, Monti dell’Atlante Orientale (Marocco) Il Marocco presenta straordinari esempi di paesaggi rurali storici caratterizzati da pratiche agricole secolari ancora utilizzate dalle popolazioni locali. Tali pratiche, oltre a sostenere la vita della popolazione, hanno consentito di sviluppare l’agricoltura in zone molto aride trasformando il deserto in un vero e proprio giardino. La diffusione dell’agricoltura tradizionale è ancora elevata, pertanto, assieme ad aree che ormai utilizzano tecnologie moderne ad alta produttività, esistono ancora una grande quantità di paesaggi rurali che abbinano peculiari caratteristiche ambientali, alla storia e alle attività agricole tradizionali. Tutto questo crea luoghi di grande fascino, caratterizzati da una agricoltura sostenibile, a bassa intensità energetica, caratterizzata da una cura attenta e capillare delle colture agricole e della gestione delle acque, con aspetti insediativi di grande pregio storico architettonico.

Fig. 9. (A sinistra) Localizzazione del sito di Telouet in Marocco. (Left) The location of the site of Telouet in Morocco. Fig. 10. (A destra) La valle di Telouet si presenta come un piccolo paradiso, con fortificazioni medievali ed insediamenti abitati immersi in aree finemente coltivate con molte piante arboree. Le tecniche agricole tradizionali nel corso dei secoli sono state in grado di trasformare un ambiente desertico in un luogo adatto alla vita; questo è uno dei motivi della loro attuale importanza anche come esempio di adattamento al cambiamento climatico (foto M. Agnoletti). (Right) The Telouet valley appears as a small paradise, with medieval fortifications and settlements immersed in finely cultivated areas with many trees. The traditional agricultural techniques employed over the centuries have managed to transform the desert environment into a place suitable to support life. They are an example of adaptation to climate change and this is one of the reasons for their present importance (photograph by M. Agnoletti)

2.1 Caratteristiche del sito Partendo da Marrakech in direzione dell’Alto Atlante e scendendo poi sul versante orientale lungo la spettacolare strada di Tizin’Tichka, si incontra una verde e fertile vallata coltivata che si staglia e si contrappone ai versanti aridi e brulli delle montagne circostanti. Nella parte nord-est della valle si trova il villaggio fortificato di Telouet e la Kasbah du Pacha e Glaoui, oggi disabitata, ma per secoli uno snodo centrale delle carovane provenienti dal deserto del Sahara e dirette a Marrakech, le cui mercanzie dovevano pagare un dazio al Pacha. La vallata si snoda fino allo Ksar di Ait-Ben-Haddou, un sito iscritto nel Patrimonio Mondiale dell’Unesco, da qui la strada prosegue poi verso Ouarzazate, capoluogo della provincia, posta in prossimità del confine con il sahara algerino. Il villaggio di Telouet è molto vicino ad altri piccoli centri abitati, quali Abadoua a Ovest, Tighza e Tasga ad Est. La valle è stata presa in esame nel tratto, lungo circa 3 km che va dalla kasbah di Telouet a nord-est, verso il sito di Sidi Daoud a sud-ovest. L’altitudine si attesta attorno ai 1740-1750 metri s.l.m., con un massimo di 1780 mt nella zona a nord-est e con un minimo di 1695 nell’area più meridionale della valle. La kasbah di Telouet rappresenta un ottimo esempio dell’architettura in pisè (terra cruda e paglia) del sud del Marocco, di cui troviamo però il modello più illustre a poche decine di chilometri più a sud, ad Ait-Ben-Haddou. 54


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

2.2 Il villaggio e la Kasbah di Telouet Non abbiamo testimonianze certe circa l’origine delle spettacolari costruzioni presenti a Telouet, ma è possibile che risalgano alla diffusione dell’islam nell’area e alla fondazione di Sijilmassa nel 757 d.C., e che la loro struttura e le tecniche costruttive si siano propagate da tempi molto antichi nell’ area del Djebel e nelle valli del sud del Marocco. La kasbah tipica del Marocco meridionale costituisce l’unità abitativa delle famiglie appartenenti alle classi più agiate e presenta varie forme e molteplici funzioni. Nel caso di attività agricole la struttura è generalmente suddivisa in tre livelli, in cui il piano terra è utilizzato come rimessa e stoccaggio dei prodotti agricoli, mentre i piani superiori servono da alloggio per la famiglia in periodi diversi dell’anno e, più precisamente: in estate il primo piano ed in inverno l’ultimo. Le case contigue servono da alloggio per i braccianti e per coloro che lavorano la terra. Nel caso di funzioni difensive la struttura assume l’aspetto e la funzione di un palazzo-fortezza, in cui risiede il potere locale, raggiungendo spesso le dimensioni di un piccolo villaggio. Per i sostenitori della bioarchitettura, ma non solo, si tratta di costruzioni bellissime, splendidamente inserite nel paesaggio, realizzate con materiali naturali e completamente riciclabili.

Fig. 11. La vallata intorno alla Kasbah di Telouet (foto M. Agnoletti). The valley around the kasbah of Telouet (photograph by M. Agnoletti).

2.3 L’agricoltura tradizionale nell’Alto Atlante e a Telouet Per il nostro studio non ci siamo potuti basare su una bibliografia riguardante la valle in questione. Pertanto, alcune informazioni generali sulla zona derivano da alcuni articoli relativi alle pratiche agricolturali e all’allevamento in altre valli dell’Alto e Medio Atlante, più precisamente quelle della Provincia di Azilal e del territorio di Ait Arfa. In queste aree si riscontra un particolare equilibrio fra intervento antropico e ambiente naturale, fra proprietà private e zone di demanio pubblico, tipico di buona parte dei monti nord-africani: dolci terrazzamenti irrigui sui versanti più bassi delle valli in concomitanza con l’utilizzo della vegetazione dei versanti più alti per il pascolo, principalmente ovino, e fondo valle spesso intensamente coltivati. Un’ideale sezione della catena dell’Alto Atlante mostra come il pascolo 55


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Fig. 12. Malgrado la parte esterna della Kasbah di Telouet sia in cattive condizioni l’interno della residenza del pascià appare meravigliosamente decorato, anche con l’uso di marmi che secondo le guide locali provengono da Carrara. La finezza delle decorazioni del palazzo si integra con la finezza della trama agricola delle aree coltivate (foto M. Agnoletti). Although the outside of the Kasbah of Telouet is in poor condition, the inside is still wonderfully decorated, also employing marble that local guides say comes from Carrara in Italy. The elegance of the palace decoration is a fit pendant to the fine-grained fabric of the local farmland (photograph by M. Agnoletti).

stagionale si distribuisca all’incirca fra i 500 ed i 3300 mt s.l.m., mentre fra i 1000 ed i 2500 mt circa troviamo terrazzamenti coltivati e campi di fondovalle per l’agricoltura di sussistenza. Al di sotto dei 500 mt s.l.m. abbiamo infine piani d’irrigazione più ampi in prossimità dei villaggi. La coltivazione a terrazzamenti irrigui in passato si è basata principalmente su una rotazione biennale a tre colture, mentre recentemente si sta facendo strada la tendenza a scendere a due: una a cereali (frumento, orzo o mais), l’altra orticola o a maggese. La copertura arborea, sebbene ancora abbastanza diffusa, è oggi in stato di forte degrado; questa comprende principalmente olivi (Olea europea), querce (Quercus rotundifolia, Quercus faginea, Quercus suber), ginepro (Juniper phoenicea, Juniper oxycedrus) e cipresso (Cupressus atlantica). Vi sono anche dei rimboschimenti realizzati essenzialmente con Pino di Aleppo, che si inseriscono con difficoltà nel paesaggio tradizionale per i sesti di impianto geometrici poco in sintonia con il resto del paesaggio. Le colture arboree più diffuse sono essenzialmente tre: olivi, mandorli e pistacchi. L’allevamento in queste aree è di tipo essenzialmente ovino (pecore e capre). Uno schema di massima degli spostamenti dei greggi ci indica che questi vengono condotti, da Agosto a fine Settembre, nelle aree coltivate di fondovalle per pascolare i residui della mietitura, nelle zone a maggese e nei lotti di suolo pubblico, quali le ampie fasce lungo la viabilità. Il sistema di irrigazione è un elemento centrale del paesaggio di queste zone dell’Atlante. Si basa su uno schema molto semplice ma altrettanto efficace: l’acqua viene deviata dai ruscelli di montagna attraverso pietre e sterpaglie, in canali chiamati seguias, che scorrono ad una pendenza di poco maggiore rispetto all’intorno. La semplice forza di gravità e la facilità di drenaggio da questi versanti al fondovalle evitano il ristagno delle acque. Lungo le seguias vengono solitamente piantati alberi di noce, mandorli e, più recentemente, meli e peri, sia per il commercio che per rinforzare gli argini. Nelle zone più ripide i muri a secco, realizzati fino al XIX 56


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

Fig. 13. Molte piccole parcelle irrigate contribuiscono a creare un mosaico paesistico finemente coltivato ed arborato, tipico dell’agricoltura di questa zona dell’Atlante. La presenza di piccoli insediamenti fortificati unita alla agricoltura tradizionale crea un paesaggio che sembra provenire da un altro periodo storico, ma è invece ancora vitale (foto M. Agnoletti). Several small irrigated plots contribute to form a fine-grained cultivated and treed landscape mosaic, typical for this zone of the Atlas. The presence of small fortified settlements combines with traditional agriculture to give rise to a landscape that seems to come from another time, but is nevertheless still vital (photograph by M. Agnoletti).

secolo con ciocchi di ginepro, raramente raggiungono larghezze superiori ai 30 metri, mentre si allargano molto con l’addolcirsi del pendio. Nel fondo valle di Telouet la canalizzazione crea una rete di piccolissimi appezzamenti separati da argini in terra che vengono periodicamente irrigati. 2.4 Integrità e vulnerabilità Il paesaggio della valle di Telouet si presenta ancora molto integro nella parte agricola, mentre gli insediamenti appaiono spesso abbandonati ed in rovina, specie i castelli. L’agricoltura costituisce ancora una parte importante delle strategie di sostentamento della popolazione e presenta un elevato valore paesaggistico ed estetico. Attualmente sono in corso dei lavori per la costruzione di una nuova strada che, se potrà consentire maggiore facilità di spostamento per merci e popolazione, dall’altro porterà anche un sensibile aumento del flusso turistico, per ora assai limitato anche dalla carenza di sistemazioni alberghiere, ridotte ad alcuni piccoli alberghi intorno alla Kasbah. I maggiori flussi turistici sono infatti concentrati nel sito Unesco di Ait-Ben-Haddou, a cui si accede dalla strada principale per Quarzazate. La nuova strada potrebbe anche favorire il sorgere di nuovi nuclei abitati importando materiali e tecniche costruttive non in sintonia con quelli tradizionali locali, operazioni che in altre parti del Marocco hanno già profondamento alterato la struttura insediativa storica. L’agricoltura della valle, come in altre zone dell’Atlante, viene messa a repentaglio da alcuni principali fattori socio-economici: – abbandono delle montagne e urbanizzazione; – le richieste del mercato, non più incentrate su prodotti tradizionali; – gli aiuti statali che si sono incentrati maggiormente sulla produzione agricola a larga scala, orientata all’esportazione, danneggiando ulteriormente quella tradizionale; La combinazione di questi fattori può generare un circolo vizioso, dal momento che l’abbandono di queste aree rende sempre più difficile ed onerosa, per coloro che restano, la gestione e la conservazione delle pratiche tradizionali, favorendo modelli intensivi, meno dispendiosi e più produttivi in termini quantitativi. 57


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2.5 Analisi effettuate In base ad una fotointerpretazione attraverso le immagini satellitari di Google Earth, sono state identificate diciotto classi di copertura del suolo. Si premette che come “incolti” sono state classificate tutte quelle aree residuali, localizzate sia fra gli appezzamenti coltivati, quali seminativi semplici, seminativi arborati, colture arboree, orti, sia ai margini della viabilità e del tessuto urbano continuo e discontinuo. In certi casi, a causa della definizione della foto aerea, risulta piuttosto complesso distinguere questo uso del suolo dal pascolo. Secondi i dati raccolti il 58% della superficie studiata è occupata da colture agrarie, seminativi semplici e arborati, colture arboree, orti. I seminativi da soli raggiungono il 45% della superficie dell’area. La vegetazione, bosco di alto fusto e vegetazione ripariale, raggiunge solo il 5% della superficie complessiva, mentre il 14% è occupato da aree edificate, classificabili come tessuto urbano continuo, discontinuo, case sparse e kasbah (il castello). Le aree indicate come “incolti” raggiungono il 10%, mentre i “pascoli”, semplici, arborati e cespugliati, solo il 6%. Si tratta quindi di un paesaggio in cui i seminativi svolgono un ruolo fondamentale nel definire le sue caratteristiche. Il mosaico agricolo presenta un’elevatissima frammentazione, non solo per ciò che concerne la porzione agricola, ma anche per tutti gli altri usi del suolo. Si nota infatti che la superficie media delle tessere agrarie è pari ad appena 0,09 ha, ma anche gli altri usi del suolo hanno tessere con una superficie media assai ridotta, pari a 0,14 ha. Si tratta quindi di un paesaggio con una grana finissima, più di quella osservata a Viñales e nella valle d’Itria. Anche se il seminativo semplice domina, la ricchissima componente arborea non fa sentire la mancanza di veri e propri boschi nelle aree coltivate, contribuendo anche alla biodiversità. Il principale carattere del paesaggio locale è sicuramente legato al contrasto fra le pendici montane desertiche e l’intensa coltivazione del fondo valle, oltre alla conformazione stretta e sinuosa della valle. Dal punto di vista cromatico il verde della vegetazione crea un contrasto molto evidente con il rosso del suolo, mentre le componenti insediative, ugualmente di colore rossastro, presentano caratteristiche architettoniche coerenti con il paesaggio storico anche se spesso presentano un cattivo stato di conservazione. Tab. 3. il paesaggio del fondo valle di Telouet è dominato dai seminativi irrigui. The landscape of the Telouet valley bottom is dominated by irrigated arable lands. Usi del suolo - Land Uses

Superficie - Surface (Ha)

Superficie - Surface (%)

Alveo fluviale - Riverbed

22,8

5

Argini - Banks

4,34

1

Acque superficiali - Water bodies Seminativi - Arable lands

0,6

0

203,201

45

Seminativi arborati - Arable lands with trees

35,466

8

Colture arboree - Permanent wooded crops

11,373

3

Orti - Vegetable gardens

8,258

2

Giardini - Gardens

2,06

0

Pascoli - Pastures

15,53

3

Pascoli arborati - Wooded pastures

5,274

1

Pascoli cespugliati - Pastures with shrubs

10,945

2

Incolti - Fallows

45,35

10

Bosco alto - Mixed forest

8,868

2

Vegetazione ripariale - Riparian vegetation

13,8

3

33,267

7

10,4

2

Tessuto urbano continuo - Continuous urban fabric Tessuto urbano discontinuo - Discontinuous urban fabric 58

./..


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici Resedi abitazioni - Courtyards

18,12

4

Castello - Castle

2,26

1

TOTALE - TOTAL

451,912

100

Tab. 4. I dati mostrano un’ altissima frammentazione del paesaggio, un mosaico finissimo lavorato con cura nei più minimi dettagli, tipico dell’agricoltura tradizionale locale. Our data shows very high landscape fragmentation, a painstakingly managed, very fine-grained land mosaic, typical of local traditional agriculture.

Usi del suolo - Land uses

Alveo fluviale - Riverbed

Numero Numero Tessere Tessere Agr Number of Number of cultipatches vated patches 3

Superficie Surface (Ha)

22,8

Superficie Agr Sup. Media Tot Agricultural Average surface surface (Ha) of patch (Ha)

Superficie Media Agr Average surface of cultivated patch (Ha)

7,60

Argini - Banks

9

4,34

0,48

Acque superficiali - Water bodies

5

0,6

0,12

Seminativi - Arable lands

2353

2353

203,201

203,201

0,09

0,09

Seminativi arborati Arable lands with trees

267

267

35,466

35,466

0,13

0,13

Colture arboree Permanent wooded crops

83

83

11,373

11,373

0,14

0,14

Orti - Vegetable gardens

156

156

8,258

8,258

0,05

0,05

Giardini - Gardens

3

3

2,06

2,06

0,69

0,69

Pascoli - Pastures

27

15,53

0,58

Pascoli arborati - Wooded pastures

8

5,274

0,66

Pascoli cespugliati Pastures with shrubs

11

10,945

1,00

Incolti- Fallows

161

45,35

0,28

Bosco alto - Mixed forest

50

8,868

0,18

Vegetazione ripariale Riparian vegetation

52

13,8

0,27

Tessuto urbano continuo Continuous urban fabric

8

33,267

4,16

Tessuto urbano discontinuo Discontinuous urban fabric

80

10,4

0,13

Resedi abitazioni - Courtyards

24

18,12

0,76

Castello - Castle

1

2,26

2,26

TOTALE - TOTAL

3301

2862

451,912

260,358

0,14

0,09

Fig. 14. (Pagina seguente) La carta dell’uso del suolo del fondo valle di Telouet mostra un tipico andamento delle colture e degli insediamenti che si sondano lungo il percorso del fiume. Colpisce l’estrema frammentazione del paesaggio che rappresenta anche un importante esempio di diversità bioculturale. Malgrado teorie scientifiche che considerano la frammentazione un rischio per gli habitat naturali, la diversità bioculturale tipica dei paesaggi tradizionali è invece caratterizzata dalla frammentazione. (Next page) The land-use map of the Telouet valley bottom shows the typical arrangement of fields and settlements along the winding course of the river. One is struck by the extreme fragmentation of the landscape, a significant example of biocultural diversity. While some scientific theories regard fragmentation as a risk for natural habitats, fragmentation is a typical feature of the biocultural diversity of traditional landscapes. 59


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

60


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

3. La valle d’Itria La valle è stata scelta fra le molte località italiane inserite nel Catalogo Nazionale dei Paesaggi Rurali di Interesse Storico per le caratteristiche del paesaggio agrario particolarmente complesso, che la rendono adatta ad un confronto comparativo con i paesaggi di Viñales e Telouet, oltre al fatto di essere anch’essa inserita nel patrimonio Unesco, sebbene per gli aspetti insediativi. Si tratta di uno dei paesaggi più noti della Puglia, grazie ai caratteristici trulli, ma certo questa regione presenta una grande dotazione di paesaggi storici di grande bellezza, oggi minacciati non solo da urbanizzazione e pratiche agricole inappropriate, ma anche dal proliferare di torri eoliche. Queste, come nel resto d’Italia, sono scarsamente utili per la produzione di energia rinnovabile, ma hanno invece un forte impatto su uno dei paesaggi più belli del nostro paese. L’analisi dell’uso del suolo della valle è particolarmente utile non tanto per la world heritage list del’Unesco, ma soprattutto perché il Catalogo Nazionale del Paesaggio prevede un accurato rilievo dell’uso del suolo per stabilire l’integrità storica del paesaggio agrario.

Fig. 15. (A sinistra) Localizzazione del sito della Valle d’Itria. (Left) the location of the Itria valley. Fig. 16. (A destra) Nella valle d’Itria i trulli, i muri a secco e le colture agricole su piccola scala, si fondono per definire un paesaggio unico nel contesto nazionale (foto tratta da Paesaggi Rurali Storici per un Catalogo Nazionale, Mauro Agnoletti, a c. di, Laterza). (Right) In the Itria valley, trulli, dry-stone walls and small-scale farming combine to give rise to a landscape that is unique in Italy.

3.1 Descrizione del sito La Valle d’Itria, ambito territoriale coincidente con l’appendice meridionale dell’Altopiano delle Murgie e nota anche come “Valle dei Trulli”, si estende fra le province di Bari, Taranto e Brindisi. Il suo territorio comprende oltre ad Alberobello, i comuni di Noci, Cisternino, Castellana Grotte, Putignano, Locorotondo e Martina Franca; gran parte di questi insediamenti si dispongono su un sistema di alture a corona di una depressione allungata sulla quale si affacciano attraverso terrazze e belvedere. Come dicevamo l’area è riconosciuta tra i Siti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco (Trulli di Alberobello) ed è interessata dalla Riserva Naturale Murgie Orientali e dal SIC Murgia di Sud-Est, oltre ad essere oggetto di vincolo paesaggistico 1497/39. La presenza di riserve naturali e SIC è già un dato interessante rispetto alla evidente matrice storica del paesaggio locale. L’abbondanza della materia prima (formazioni calcaree) particolarmente idonea all’utilizzo quale materiale da costruzione, ha consentito la massima diffusione di una determi61


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nata tipologia edilizia: il trullo. Le origini del trullo risalgono alla preistoria: nel corso dei millenni la sua originaria struttura architettonica è andata man mano trasformandosi da semplice riparo a vera e propria abitazione. Il trullo più antico del quale si abbia notizia è quello in contrada Marziolla, risalente al 1559. I tratti storicamente più significativi e, almeno fino agli anni ’50-’60 del Novecento, assolutamente dominanti della presenza antropica e del paesaggio, agrario e non, della Valle d’Itria e di alcune zone contigue, sono stati l’insediamento sparso di una quota rilevante della popolazione totale e la massiccia diffusione del vigneto, coltivato in piccoli, talora minuscoli, appezzamenti delimitati da muri a secco (pareti) e quasi sempre dotati di trulli, generalmente pluricellulari e tradizionalmente destinati ad ospitare per tutto, o per la maggior parte dell’anno, le famiglie contadine. Proprio gli elementi calcarei del substrato geologico, spesso molto sottili, offrono materiale (chiancaredde) adatto per la copertura dei “trulli” e delle falde a spioventi delle costruzioni a pignon, generalmente di maggiori dimensioni ed a pianta rettangolare, disseminate nei centri storici della zona o presenti, prevalentemente come locali di servizio, nelle masserie della “Murgia dei trulli e delle grotte”. Il nome Valle d’Itria deriva quasi certamente dalla diffusione in questa area e, più in generale, nel Salento, del culto della Madonna dell’Odegitria protettrice dei viandanti, diffuso dai monaci basiliani che tra l’VIII e il IX secolo si rifugiarono nella Puglia centro-meridionale. La massiccia presenza, in tutta la zona, di una vasta ed antica proprietà fondiaria appartenente ad enti ecclesiastici ha favorito, già nel tardo Medioevo e nella prima età moderna, la formazione di un diffuso e relativamente stabile piccolo-medio possesso contadino, che ha reso più agevole, grazie a contratti a lungo termine di tipo censuario ed enfiteutico, l’impianto di colture arboree ed arbustive, in particolare del vigneto. Nel secolo successivo all’Unità d’Italia nei tre comuni che dominano e comprendono la Valle d’Itria si registra la massima diffusione del vigneto (fino al 55-60%) ed il più alto grado di dispersione della popolazione contadina nelle campagne, sebbene non manchino, superfici più o meno ampie a cerealicoltura e pascolo organizzate in masserie e vaste aree boschive. Casedde e vigneto hanno rappresentato, almeno fino agli anni ’50-’60 del Novecento, un binomio inscindibile che, però, si è progressivamente e rapidamente allentato nei decenni successivi per la crisi della piccola proprietà contadina, travolta dall’emigrazione di massa, dal peso crescente delle attività manifatturiere ed artigianali, ormai prevalenti anche fra quanti risiedono stabilmente in campagna, e dalla motorizzazione di massa. Le masserie sorgono numerose nella campagna della valle, quali simboli architettonici della borghesia terriera. La masseria rappresenta una sorta di topos per il territorio pugliese, come la cascina in area pa-

Fig. 17. (A sinistra) Le aree agricole caratterizzate dai Trulli conservano ancora caratteri di semplicità costruttiva e colture tradizionali che conferiscono autenticità al sito, anche in questa zona si registrano purtroppo i fenomeni di abbandono tipici del paesaggio agrario italiano (foto Pierguidi). (Left) In the agricultural zones where trulli are found, the buildings retain their architectural simplicity and traditional crops are still grown, conferring authenticity on the area; unfortunately, here too we observe the effects of the abandonment that is affecting all of the Italian farming landscape (photograph by Pierguidi). Fig. 18. (A destra) Il paesaggio agrario è caratterizzato da esemplari monumentali di olivo con età di centinaia di anni (foto S. Russo). (Right) The agricultural landscape is distinguished by monumental olive trees that are hundreds of years old (photograph by S. Russo). 62


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dana o il casale toscano. Quello delle masserie costituisce forse il più forte sistema di infrastrutturazione del territorio della Regione, ed in particolare della Valle d’Itria: un capillare organismo di sfruttamento del territorio demaniale, rigorosamente normato. La masseria regia basso medievale, ad esempio, era sede di coltivazioni a rotazione di grano, orzo e fave, una all’anno; il quarto anno si prevedeva il riposo dedicando il terreno interamente al pascolo. Successivamente la Regia Dogana della Mena delle Pecore, voluta nel 1443 da Alfonso d’Aragona sulla base di un’efficace esperienza simile in Andalusia, riorganizzava profondamente la campagna pugliese in senso pastorale. Nascevano in questo periodo le “masserie di portata”, date in concessione ed in cui erano ammessi quasi esclusivamente il pascolo bovino e la coltivazione cerealicola e per le quali esisteva l’obbligo di aprirne le terre al pascolo ovino un anno ogni cinque. A metà del ‘500 si ha un nuovo momento importante per la storia del sistema delle masserie: in quel periodo, difatti, migliaia di ettari del regio demanio vennero sottratti al pascolo e vennero istituite le masserie nelle quali i massari concessionari avevano facoltà di decidere da soli quali coltivazioni adottare. 3.2 Integrità e vulnerabilità L’iscrizione nel Patrimonio Mondiale Unesco è relativa solo all’insediamento di Alberobello e, più in particolare, esclusivamente ai suoi rioni “Monti” e “Aia Piccola”. In base alla convenzione Unesco sul Patrimonio Mondiale del 1972, Alberobello viene salvaguardata in qualità di “gruppo di edifici”, non vi è quindi alcun riferimento al paesaggio agrario. Il Catalogo Nazionale del Paesaggio Rurale Storico precisa che l’integrità del paesaggio della Val d’Itria risiede nel mantenimento, in alcune zone, degli equilibri tradizionali tra i vari usi del suolo, la presenza dei trulli e la forte parcellizzazione. Con la regolamentazione in corso dei sistemi di produzione e di commercializzazione dei prodotti della zona, è possibile ed ipotizzabile una ripresa economica, sia pur in forme e contesti nuovi, di attività produttive ed utilizzazioni funzionali capaci di recuperare, sia pur in parte, le forme di paesaggio e le destinazioni colturali che hanno segnato la storia di questa area. Le minacce per il paesaggio della Valle d’Itria sono legate a numerosi fenomeni. Dagli anni ’70 del XX secolo, si è assistito alla drastica riduzione delle superfici a vigneto, al degrado e spesso all’abbandono dei trulli, l’assente o cattiva manutenzione dei muri a secco, spesso sostituiti da meno costosi, ma francamente repellenti, muri in cemento, talora rivestiti con lastre calcaree di forma più o meno irregolare. In parte i vigneti tradizionali, costituiti da impianti di varietà “verdeca” e “bianco Alessano”, coltivati in filari bassi e piantati in conche che servivano a trattenere le acque meteoriche per contrastare lo smottamento del terreno più o meno scosceso, sono stati sostituiti da tendoni per la produzione di uve da tavola. Se fino agli anni ’80 molti trulli venivano abbandonati, in seguito si è preferito destinarli ad uso stagionale da parte di residenti e turisti che attivano in questo settore un mercato lucroso, spesso con ristrutturazioni poco rispettose delle caratteristiche architettoniche e paesaggistiche della zona. Anche la crescente espansione di aree abitate ed industriali costituisce una minaccia concreta per il paesaggio della Valle d’Itria. 3.3 Analisi effettuate L’analisi effettuata è relativa solo ad una porzione della Valle d’Itria e, più precisamente a quella, estesa circa 800 ha, situata in località Paretone, nel comune di Martina Franca, con ortofoto del 2010. Il 48% della superficie studiata è occupata da colture agrarie di vario tipo (seminativi semplici, arborati, con frutteti, con olivo, con orti, vigneti semplici e consociati con altre colture, orti, frutteti) contribuendo a mantenere elevato il numero degli usi del suolo. La vegetazione forestale raggiunge solo il 10% della superficie complessiva, mentre il 22% è occupato da aree edificate, ossia dagli agglomerati urbani, comprensivi delle pertinenze, categoria nella quale ricadono anche i trulli. Infine, pascoli e prati (anche arborati e con olivi) raggiungono il 12% della superficie totale. Notiamo anche in questo caso una situazione fortemente frammentata con un alto numero di usi del suolo, oltre ad una superficie media, sia complessiva sia agricola, delle tessere molto bassa (0,26-0,29 ha). 63


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Tab. 5. Struttura dell’uso del suolo della Valle d’Itria; si osserva il valore elevato degli agglomerati urbani, pur nella prevalenza degli usi del suolo agricoli. Land use structure in the Itria valley. The importance of urban settlements is noticeable, notwithstanding the prevalence of agricultural land uses. Usi del suolo - Land Uses Agglomerati urbani e resedi - Urban areas and courtyards Arboricoltura da legno - Arboriculture

Superficie - Surface (Ha)

Superficie Surface (%)

182,98

22

0,33

0

Arbusteto - Shrubland

8,16

1

Bosco - Mixed forest

81,71

10

Frutteto - Orchard

30,50

4

Improduttivo - Unproductive land

2,26

0

Incolto - Fallow

45,75

5

Incolto con frutteto - Fallow with orchard

4,82

1

Incolto con olivo - Fallow with olive trees

3,77

0

Olivato fruttato - Olive grove with orchard

6,49

1

Oliveto - Olive grove

53,32

6

Orti - Vegetable gardens

8,31

1

Orti con olivi - Vegetable gardens with olive trees

1,77

0

Orti e frutteto - Vegetable gardens with orchard

0,57

0

Pascolo - Pasture

30,19

4

Pascolo arborato - Wooded pasture

4,23

1

Pascolo con olivo - Pasture with olive trees

2,02

0

Prato - Meadow

62,46

7

Prato arborato - Wooded meadow

3,47

0

Prato con olivi - Meadow with olive trees

4,73

1

Seminativo - Arable land

111,21

13

Seminativo arborato - Arable land with trees

19,58

2

Seminativo con frutteto - Arable land with orchard

62,17

7

Seminativo con olivo - Arable land with olive trees

48,10

6

Seminativo con olivo e fruttet - Arable land with olive and fruit trees

12,53

1

Seminativo con orti - Arable land with vegetable gardens

3,28

0

Seminativo con orti e frutteto - Arable land with vegetable gardens and orchard

4,04

0

Seminativo con orti e olivo - Arable land with vegetable gardens and olive trees

1,15

0

seminativo con orti e vite - Arable land with vegetable gardens and vineyard

0,40

0

Seminativo con vite - Arable land with vineyard

2,10

0

Seminativo con vite e frutteto - Arable land with vineyard and orchard

0,97

0

Seminativo con vite e olivo - Arable land with vineyard and olive trees

2,95

0

Vigneto - Vineyard

27,68

3

Vigneto e orti - Vineyard and vegetable gardens

0,63

0

Vitato fruttato - Vineyard with orchard

2,42

0

Vitato olivato - Vineyard with olive trees

1,98

0

839,05

100

TOTALE - TOTAL 64


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

Tab. 6. I dati riportati in tabella evidenziano l’elevata frammentazione del mosaico paesaggistico e la grande complessità degli usi agricoli. Contrariamente a quanto affermato da alcuni approcci scientifici legati alla conservazione della natura la frammentazione contribuisce alla biodiversità del paesaggio. The data in this table bear witness to the high degree of fragmentation of the landscape mosaic and the high complexity of farmland uses. The fragmentation of the landscape is increasing the biodiversity, not reducing it, as often stated by nature conservation studies.

Usi del suolo - Land uses

Agglomerati urbani e resedi Urban areas and courtyards

Numero Numero Superficie Tessere Tessere Agr Surface Number of Number of culti(Ha) patches vated patches

Superficie Superficie Agr Sup. Media Tot Media Agr Agricultural Average surface Average surf. surface (Ha) of patch (Ha) of cultivated patch (Ha)

950

182,98

0,19

Arboricoltura da legno Arboriculture

2

0,33

0,17

Arbusteto - Shrubland

20

8,16

0,41

Bosco - Mixed forest

55

81,71

1,49

Frutteto - Orchard

164

164

30,50

30,50

0,19

0,19

Improduttivo - Unproductive land

5

2,26

0,45

123

45,75

0,37

Incolto con frutteto Fallow with orchard

8

4,82

0,60

Incolto con olivo Fallow with olive trees

5

3,77

0,75

Olivato fruttato Olive grove with orchard

27

27

6,49

6,49

0,24

0,24

Oliveto - Olive grove

204

204

53,32

53,32

0,26

0,26

Orti - Vegetable gardens

Incolto - Fallow

104

104

8,31

8,31

0,08

0,08

Orti con olivi Vegetable gardens with olive trees

8

8

1,77

1,77

0,22

0,22

Orti e frutteto Vegetable gardens with orchard

6

6

0,57

0,57

0,10

0,10

Pascolo - Pasture

53

30,19

0,57

Pascolo arborato Wooded pasture

4

4,23

1,06

Pascolo con olivo Pasture with olive trees

2

2,02

1,01

Prato - Meadow

95

62,46

0,66

Prato arborato - Wooded meadow

10

3,47

0,35

Prato con olivi Meadow with olive trees

11

4,73

0,43

Seminativo - Arable land

288

288

111,21

111,21

0,39

0,39

Seminativo arborato Arable land with trees

36

36

19,58

19,58

0,54

0,54

Seminativo con frutteto Arable land with orchard

252

252

62,17

62,17

0,25

0,25

Seminativo con olivo Arable land with olive trees

127

127

48,10

48,10

0,38

0,38

./.. 65


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches Seminativo con olivo e fruttet Arable land with olive and fruit trees

38

38

12,53

12,53

0,33

0,33

Seminativo con orti Arable land with vegetable gardens

19

19

3,28

3,28

0,17

0,17

Seminativo con orti e frutteto Arable land with vegetable gardens and orchard

23

23

4,04

4,04

0,18

0,18

Seminativo con orti e olivo Arable land with vegetable gardens and olive trees

5

5

1,15

1,15

0,23

0,23

seminativo con orti e vite Arable land with vegetable gardens and vineyard

3

3

0,40

0,40

0,13

0,13

Seminativo con vite Arable land with vineyard

15

15

2,10

2,10

0,14

0,14

Seminativo con vite e frutteto Arable land with vineyard and orchard

6

6

0,97

0,97

0,16

0,16

Seminativo con vite e olivo Arable land with vineyard and olive trees

9

9

2,95

2,95

0,33

0,33

Vigneto - Vineyard

212

212

27,68

27,68

0,13

0,13

Vigneto e orti Vineyard and vegetable gardens

5

5

0,63

0,63

0,13

0,13

Vitato fruttato Vineyard with orchard

6

6

2,42

2,42

0,40

0,40

Vitato olivato Vineyard with olive trees

15

15

1,98

1,98

0,13

0,13

2915

1572

839,05

402,18

0,29

0,26

TOTALE - TOTAL

4. Analisi comparativa Per quanto riguarda la scelta del campione l’estensione complessiva delle aree è molto diversa, si sono infatti scelte porzioni di territorio specifiche rispetto all’intero mosaico paesaggistico per mettere in evidenza alcuni caratteri ritenuti importanti. L’area analizzata a Viñales presenta una superficie totale di oltre 2400 ettari, quella della Valle d’Itria 839 ettari circa, quella di Telouet solo 450 ettari. Non sono quindi da prendere in considerazione le estensioni totali dei singoli usi del suolo, ma piuttosto la loro struttura, ed il loro valore relativo rispetto all’area presa in esame. Considerando i dati raccolti in modalità comparativa, le tre aree presentano tutte una predominanza della superficie agraria rispetto a quella boschiva, ed una superficie media delle tessere agricole relativamente ridotta: 0,48 ha per Viñales, 0,29 ha per la Valle d’Itria 0,09 ha per Telouet. Il sito marocchino presenta di gran lunga la maggiore finezza della trama del paesaggio, dovuta alle caratteristiche delle colture irrigue e alle pratiche agricole storiche. Anche il numero delle classi in cui sono state divise le relative coperture è molto diverso fra le tre aree: 12 classi di uso del suolo per Viñales, 18 per Telouet e 36 per la Valle d’Itria. Questo è dovuto non solo ad un effettivo numero maggiore di usi del suolo del caso italiano, ma anche al fatto che la fotointerpretazione di quest’ultimo è stata integrata anche con rilievi a terra che hanno permesso di rilevare con maggiore dettaglio il numero degli effettivi usi del suolo. Per le altre due aree invece è stata interpretata solo l’immagine satellitare di Google Earth, incrociando questo dato con alcune fotografie da terra, di cui solo in alcuni casi era conosciuto il punto di presa. 66


Fig. 19. Anche la Valle d’Itria, come gli altri casi, presenta un mosaico agricolo frammentato tipico di molti paesaggi agrari tradizionali, anche se vi sono molti elementi recenti fra gli usi del suolo. Si nota la diversa forma delle tessere del mosaico rispetto a Viùales e Telouet. Like other traditional farming landscapes in Italy, the Itria valley has a fragmented agricultural mosaic, although many forms of land use are recent. One will remark the different shape of the plots compared to Viùales and Telouet. 67


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Tab. 7. Tabella comparativa degli indici paesaggistici per le tre aree. - Comparative table of landscape indexes for the three areas. Indici Valutazione Paesaggio - Landscape Assessment Indexes

Viñales

Telouet

Valle d’Itria

12

18

36

NUMERO TESSERE - NUMBER OF PATCHES

2920

3301

2916

NUMERO TESSERE AGRICOLE NUMBER OF ARABLE LAND PATCHES

2394

2862

1588

NUMERO USI DEL SUOLO NUMBER OF LAND USES

SUPERFICIE TOTALE (ha) TOTAL SURFACE AREA

2418,729

451,912

839,05

SUP. MEDIA TESSERE (ha) AVERAGE SURFACE AREA OF PATCHES

0,83

0,14

0,29

SUP. MEDIA AGRICOLA (ha) AVERAGE SURFACE AREA OF ARABLE LAND PATCHES

0,48

0,09

0,29

678,57

939,67

891,77

EDGE DENSITY

Dalla tabella n. 7 si evince che il numero degli usi del suolo più elevato è quello della Valle di Itria, confermando una varietà più elevata delle produzioni agricole associate a questo paesaggio. Considerata la superfice totale notevolmente inferiore di Telouet rispetto alle altre aree appare invece molto significativo il numero elevato di tessere del mosaico agricolo di questa zona. Abbiamo quindi una minore varietà di usi del suolo rispetto alla Valle d’Itria, ma una più alta frammentazione delle parcelle a seminativo in conseguenza della pratica tradizionale della coltura irrigua. Tale carattere del paesaggio è rafforzato dalla ridottissima superficie media di ogni tessera del mosaico, si tratta in sostanza di un grande “puzzle”, organizzato in minuscole tessere la cui ricombinazione con i diversi usi del suolo amplifica la diversità del paesaggio così creato. Ciò implica la disponibilità di una abbondante forza lavoro per il continuo lavoro di manutenzione dei sistemi irrigui, aspetto che costituisce uno degli elementi di criticità socioeconomica. Una situazione simile, con minori usi del suolo, ma maggiore frammentazione, la si riscontra nel confronto fra Valle d’Itria ed il sito cubano. Un tratto distintivo del paesaggio della Valle d’Itria è la presenza di colture promiscue caratterizzate da seminativi misti ad oliveti, vigneti e frutteti. Si tratta di una peculiarità storicamente rilevante del paesaggio agrario italiano, segnalata sino dal periodo etrusco, con una persistenza storica di più di 2000 anni. Così come il sapiente sfruttamento dell’acqua ha consentito di rendere coltivabile il deserto marocchino, in Italia, alla scarsità di suolo si è rimediato coltivando più colture sullo stesso appezzamento, ottenendo diversi raccolti. Non si trattava solo di cereali, frutta, olive o vino, come nel caso della Valle d’Itria, ma anche di produrre legna da ardere ricavata dalla potatura delle piante arboree, o foglie per alimentare il bestiame. Non è un caso che la produzione di legna da fuoco al di fuori del bosco fino al secolo scorso sia sempre stata doppia rispetto a quella prodotta in bosco in Italia e che la densità di piante arboree per ettaro in campagna potesse superare quella presente in alcuni tipi di boschi, contribuendo alla biodiversità del paesaggio rurale. Un’altra caratteristica studiata è la connettività dei paesaggi analizzati. L’indice di Edge density “E”, va a misurare la complessità del mosaico e le caratteristiche delle superfici di contatto fra le le tessere che lo compongono. Questo indice prende quindi in esame non solo il numero e la superficie media delle tessere, ma anche la loro forma, più o meno irregolare e la loro complessità, dal momento che più i bordi delle tessere si presentano sfrangiati maggiore è il valore di E e, di conseguenza, maggiore è la Edge density. Pertanto tale indice, assieme agli altri utilizzati, ci aiuta a misurare non solo la frammentazione e l’eterogeneità del mosaico paesaggistico in questione, ma la connettività ecologica fra 68


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

i diversi habitat corripsondenti. Nella tabella 8, relativa alla valle di Viñales, notiamo come la classe di uso del suolo che presenta una Edge density maggiore sia quella delle colture arboree, mentre i boschi presentano il valore più basso. Tab. 8. Viñales, connettività del paesaggio - Viñales, landscape connectivity. Perimetro UDS (m) Land use perimeter

Area UDS (Ha) Land use Surface area

Edge Density

Coltura tabacco - Tobacco crops

69.683,00

119,97

580,84

Seminativi semplici - Arable lands

516.121,00

859,54

600,46

Seminativi arborati - Arable lands with trees

66.134,00

97,82

676,08

Seminativi irrigui - Irrigated arable lands

36.091,00

53,32

676,88

Prati e pascoli - Meadows and Pastures

90.658,00

282,29

321,15

Colture arboree - Permanent wooded crops

13.487,00

16,22

Tessuto urbano continuo con resedi Continuous urban fabric

21.228,00

121,44

174,80

Tessuto urbano discontinuo con resedi Discontinuous urban fabric

17.049,00

29,65

575,01

Case sparse - Scattered housing

8.973,00

5,48

1.637,41

Bosco alto - Mixed forest

132.984,00

775,86

171,40

Vegetazione ripariale - Riparian vegetation

45.584,00

48,66

936,79

Acque superficiali - Water bodies

UDS - Land use

831,50

8.145,00

8,48

totale - total

8.142,81

960,50

media - average

678,57

Nella tabella 9, relativa alla Valle di Telouet, vediamo che la classe di uso del suolo con la maggiore Edge density è quella degli orti; i boschi presentano un valore abbastanza alto, a differenza delle altre due aree di studio, mentre sono i pascoli ad avere il valore più basso. Nella tabella 10, che riguarda la Valle d’Itria, troviamo nuovamente il bosco come classe con la Edge Density più bassa e gli orti come classe con il valore più alto. È chiaro che in questi ultimi casi a pesare sul risultato è più la minore superficie media delle tessere piuttosto che la minore o maggiore irregolarità dei bordi. Come si può notare dalla tabella di sintesi, n.7, l’area di studio che presenta una maggiore Edge Density media, ossia calcolata come il totale dei valori di Edge density di tutte le classi di uso del suolo, suddiviso per il numero di dette classi, è quella della Valle di Telouet, subito seguita dalla Valle d’Itria. Sul valore molto basso dell’Indice per Viñales influisce pesantemente l’alta superficie media delle tessere boschive presenti nell’area. Tab. 9. Telouet, connettività del paesaggio - Telouet, landscape connectivity. Perimetro UDS (m) Land use perimeter

Area UDS (Ha) Land use Surface area

Edge Density

Alveo fluviale - River bed

14.400

22,8

631,58

Argini - Banks

5.737

4,64

1.236,42

557

0,6

928,33

Seminativi - Arable lands

293.848

203,201

1.446,10

Seminativi arborati Arable lands with trees

44.000

35,466

1.240,62

Colture arboree - Permanent wooded crops

12.666

11,373

1.113,69

UDS - Land use

Acque superficiali - Water bodies

./.. 69


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches Orti - Vegetable gardens

15.009

8,258

1.817,51

Giardini - Gardens

1.104

2,06

535,92

Pascoli - Pastures

10.620

15,53

683,84

Pascoli arborati - Wooded pastures

3.714

5,27

704,74

Pascoli cespugliati - Pastures with shrubs

7.874

10,95

719,09

Incolti - Fallows

42.569

45,35

938,68

Bosco alto - Mixed forest

10.161

8,87

1.145,55

Vegetazione ripariale - Riparian vegetation

18.550

13,8

1.344,20

Tessuto urbano continuo Continuous urban fabric

12.261

33,27

368,53

Tessuto urbano discontinuo Discontinuous urban fabric

11.538

10,4

1.109,42

Resedi abitazioni - Courtyards

12.145

18,12

670,25

632

2,26

279,65

totale - total

16.914,13

media - average

939,67

Castello - Castle

Tab. 10. Valle d’Itria, connettività del paesaggio. Itria valley, landscape connectivity. UDS - Land use Agglomerati urbani e resedi Urban areas and courtyards Arboricoltura da legno - Arboriculture

Area UDS (Ha) Land use perimeter

Area UDS (Ha) Land use Surface area

Edge Density

184.094

182,98

1.006,09

340

0,33

1.030,30

Arbusteto - Shrubland

6.233

8,16

763,85

Bosco - Mixed forest

29.249

81,71

357,96

Frutteto - Orchard

31.415

30,5

1.030,00

Improduttivo - Unproductive land

1.561

2,26

690,71

Incolto - Fallow

35.410

45,75

773,99

Incolto con frutteto - Fallow with orchard

3.138

4,82

651,04

Incolto con olivo - Fallow with olive trees

2.258

3,77

598,94

Olivato fruttato - Olive grove with orchard

6.103

6,49

940,37

Oliveto - Olive grove

46.746

53,32

876,71

Orti - Vegetable gardens

13.418

8,31

1.614,68

Orti con olivi - Vegetable gardens with olive trees

1.596

1,77

901,69

Orti e frutteto - Vegetable gardens with orchards

842

0,57

1.477,19

Pascolo - Pastures

19.225

30,19

636,80

Pascolo arborato - Wooded pasture

2.049

4,23

484,40

915

2,02

452,97

Prato - Meadow

34.181

62,46

547,25

Prato arborato - Wooded meadow

2.828

3,47

814,99

Pascolo con olivo - Pastures with olive trees

Prato con olivi - Meadows with olive trees

3.220

4,73

680,76

Seminativo - Arable land

78.743

111,21

708,06

70

./..


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici Seminativo arborato - Arable land with trees

11.548

19,58

589,79

Seminativo con frutteto Arable land with orchard

58.827

62,17

946,23

Seminativo con olivo Arable land with olive trees

34.880

48,1

725,16

Seminativo con olivo e frutteto Arable land with olive and fruit trees

10.418

12,53

831,44

Seminativo con orti Arable land with vegetable gardens

3.677

3,28

1.121,04

Seminativo con orti e frutteto Arable land with vegetable gardens and orchard

4.598

4,04

1.138,12

Seminativo con orti e olivo Arable land with vegetable gardens and olive trees

1.042

1,15

906,09

Seminativo con orti e vite Arable land with vegetable gardens and vineyard

477

0,4

1.192,50

Seminativo con vite - Arable land with vineyard

2.579

2,1

1.228,10

Seminativo con vite e frutteto Arable land with vineyard and orchard

1.059

0,97

1.091,75

Seminativo con vite e olivo Arable land with vineyard and olive trees

2.182

2,95

739,66

Vigneto - Vineyard

33.670

27,68

1.216,40

Vigneto e orti - Vineyards with vegetable gardens

837

0,63

1.328,57

Vitato fruttato - Vineyard with orchard

1.705

2,42

704,55

Vitato olivato - Vineyards with olive trees

2.585

1,98

1.305,56

Totale - Total

32.103,68

Media - average

891,77

4. Conclusioni Le aree prese in esame riguardano zone del mondo con caratteristiche ambientali, sociali ed economiche molto diverse, che hanno però in comune un’elevata complessità del paesaggio che questo studio intendeva evidenziare. Nel caso del Marocco e di Cuba abbiamo due paesi in via di sviluppo in cui l’agricoltura tradizionale è ancora parte importante del sistema economico, mentre nel caso pugliese si tratta di un’agricoltura meno centrale all’interno del modello di sviluppo, come d’altra parte avviene in gran parte dell’Italia. Se quindi nei primi due casi è l’economia agricola a sostenere il paesaggio tradizionale, nel caso italiano si tratta piuttosto di una combinazione di fattori legati alla multifunzionalità dell’agricoltura a consentire la sua conservazione. Ciò propone un diverso ruolo e un diverso significato del paesaggio tradizionale nelle diverse fasi dello sviluppo dei tre paesi, una situazione che però non ha pregiudicato la loro conservazione. È inoltre significativo che tutti i tre siti abbiano in comune un’alta complessità del mosaico paesaggistico, come risultato di esigenze produttive e pratiche agricole tradizionali, nonostante condizioni ambientali profondamente diverse, che quindi giocano un ruolo non decisivo da questo punto di vista. Le strategie di adattamento all’ambiente delle culture tradizionali hanno in questo caso determinato alcune caratteristiche comuni del paesaggio indipendentemente dalle determinanti ambientali. Per quanto riguarda le forme di protezione dell’Unesco, anche se solo Viñales è incluso nel patrimonio dell’umanità per il suo paesaggio agrario, la ricerca mostra che non vi è una vera protezione e caratterizzazione del paesaggio agrario nel sito cubano nel dossier di candidatura, mentre tutte e tre 71


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

le aree hanno un paesaggio agrario con qualità tali da essere sicuramente inseribili sia fra i paesaggi culturali dell’Unesco sia nel progetto Globally Important Agricultural Heritage Systems della Fao. Inoltre, la complessa struttura del mosaico paesaggistico rappresenta in modo esemplare quei caratteri di diversità bioculturale promossi dalla Convenzione Mondiale per la Biodiversità delle Nazioni Unite. Sebbene le tre zone siano evidentemente caratterizzate da tipologie insediative particolarmente importanti dal punto di vista storico architettonico, non abbiamo svolto analisi su questo aspetto, visto che si tratta di elementi molto più spesso oggetto di attenzione rispetto al paesaggio agrario. Senza dubbio Telouet è caratterizzata dalla presenza di strutture edificali di notevole rilievo, spesso imponenti come nel caso dei castelli, mentre invece i trulli hanno forme senz’altro molto originali, anche se meno rilevanti dal punto di vista dimensionale, ma più legate ad insediamenti sparsi. Senza dubbio l’architettura conferisce un carattere inconfondibile alle zone di Telouet e alla Valle d’ Itria, mentre Viñales appare meno importante da questo punto di vista. I paesaggi studiati sono presenti da alcuni secoli, e risultano stabilizzati, o evolvono molto lentamente, presentano caratteristiche tipiche dei paesaggi tradizionali, così come definite da Antorp, essendo legati all’impiego di pratiche e tecniche caratterizzate da un ridotto impiego di energie sussidiarie esterne, sia in termini di meccanizzazione, irrigazione, che di concimazioni chimiche e di agrofarmaci, con la presenza di ordinamenti colturali caratterizzati da lunga persistenza storica e forti legami con i sistemi sociali ed economici locali che li hanno prodotti. I processi produttivi che hanno portato alla costruzione del paesaggio sono inoltre caratterizzati da pratiche storiche di “attivazione delle risorse ambientali”, come indicato per l’Italia da Diego Moreno. Il loro significato attuale e quindi la necessità del loro studio e conservazione, riguarda non solo il loro fondamentale ruolo per l’identità culturale, ma anche l’essere esempi particolarmente significativi di adattamento a condizioni ambientali difficili, e di elevata diversità bioculturale. Allo scopo di mettere a punto più adeguati quali richiedono anche una adeguata pianificazione, è però necessario approfondire il loro studio, definendo più puntualmente la struttura del paesaggio, in vista di un monitoraggio delle loro trasformazioni e di più adeguate politiche di sostegno da parte degli organismi nazionali ed internazionali, a cui questo studio vuole offrire un piccolo contributo.

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M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro La diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici

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The biocultural DIVERSITY of HISTORICal rural landscapes A comparative analysis of the Viñales valley (Cuba), the Telouet valley (Morocco), and the Itria valley (Italy) Mauro Agnoletti, Martina Tredici, Antonio Santoro Cultlab Laboratorio per il paesaggio ed i beni culturali Facoltà di Agraria – Università di Firenze

Introduction Today, the study of rural landscapes has expanded to a whole new level, with the involvement of scientific institutions at the global, continental and national scale. Scholars have been focusing especially on historical landscapes and, more precisely, on traditional ones. These landscapes are indissolubly connected with practices handed down from one generation of farmers, shepherds and woodsmen to the next, elaborate sets of ingenious and diversified techniques that have contributed in a fundamental way to the construction and conservation of our historical, cultural and natural heritage. These techniques were a means to continuously adapt to difficult environmental conditions to provide a whole range of products and services, and thereby improving people’s standard of living as well as generating landscapes of great beauty. The speed and scope of the technological, cultural and economic changes of the last few decades are threatening our landscapes and the rural societies associated with them. Multiple pressures are inducing farmers to adopt new farming techniques, often leading to unsustainable practices, resource depletion, productivity decline and excessive specialization. This places the preservation of landscapes as an economic, cultural and environmental resource in serious jeopardy. The result is not only a break in the transmission of the traditional knowledge required for landscape maintenance, but also the socioeconomic destabilization of rural areas. Today major national and international organization are supporting studies on traditional landscapes. Italy was the first to begin work to draw up a catalogue of its historical rural landscape as a basis for legislation to allow not only the recording of this heritage but also the giving out of incentives to farmers. With its Globally Important Agricultural Heritage Systems project, the FAO has set as its objective the identification of historical rural landscapes. The focus of UNESCO’s “cultural landscapes” is also rural landscapes, although its perspective is different from that of the FAO project. An important novelty is the program on biocultural diversity of the United Nations Convention on Biological Diversity (CBD), which finally recognizes the importance of rural landscapes for biodiversity. This program provides an important link with the nature conservation sector, which so far has shown little interest in rural landscapes, being more concerned with natural habitats. In the light of these initiatives, we thought it would be useful to attempt a comparison between three traditional landscapes placed in very different environmental, economic and social contexts, but all included in UNESCO’s list of world heritage. The purpose is to preliminarily assess shared features and differences, if any, in the structure of the respective landscape mosaics of these areas, also as they relate to the FAO and CBD projects. We thereby intend to consolidate the scientific basis for the identification, conservation, and dynamic management of historical landscape and traditional practice systems, employing methods of analysis developed both for the national catalogue of the Italian rural landscape and in the Workshop for Landscape and Cultural Heritage that the University of Florence is implementing with the FAO and CBD. 74


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1. The Viñales valley (Cuba) The Viñales valley lies in the Province of Pinar del Rio, in the northeast part of the island of Cuba. It is an extremely interesting agricultural area, included in UNESCO’s World Heritage List. The proposal for inclusion was submitted on June 22, 1998. The area is distinguished by a commixture of natural elements—especially small limestone hills with very steep slopes called mogotes—and human activities, principally consisting of the growing of tobacco, forage, and other crops. Its peculiar environmental features, along with its agricultural activities and historical dynamics, make this a very special place also from an aesthetic standpoint. The chromatic contrast between the reddish earth, the green foliage of the crops and the rocky outcrops make this a unique area in the eyes of visitors. The valley can be regarded as a traditional agrarian landscape that is representative of the Caribbean zone and of Cuban rural culture. Growing tourist flows, with recently built good quality and low environmental impact hotels, are contributing to its survival. 1.1 Characteristics of the site Historical information about the Viñales area is rather scarce. The many caves scattered along the hill slopes of the valley were inhabited many centuries before the arrival of the Spanish conquistadores by indigenous populations. The very fertile soil and favorable climate encouraged the development of animal husbandry and the growing of forage and food crops, employing slaves brought over from Africa. Fugitive slaves (cimarrones) often found shelter in the caves. Due to the increasing importance of tobacco growing, the village of Viñales was founded in 1875 along the road leading from the town of Pinar del Rio, the Province capital, to Puerto Esperanza, the largest port in the area. The Ferrocaril del Oeste (the western railroad), only a few stretches of which are still visible today, was built in 1882. The valley was also a scenario for military operations, during both the Independence War and Fidel Castro’s Cuban Revolution. Today the whole valley is given over to agriculture. The resident population—about 8000 people—works in tobacco growing and other farming activities. Viñales is surrounded by mountains. Its ploughed and cultivated level part is dotted with limestone outcrops, the mogotes, rising as high as 300 meters. The vegetation on these hills includes some endemic species, notably Microcycas calocoma, classified as “critically endangered” in the Red List of Threatened Species of the International Union for the Conservation of Nature (IUCN). The plain is entirely given over to traditional agriculture. Fairly recent experiments have proved that mechanized farming methods were negatively impacting the final quality of the tobacco. This is why traditional methods, such as animal traction, are still used today. The appearance of the valley changes with the passing of the seasons and the crop growth cycle. These changes are accentuated by its eastwest orientation. With the passing of the hours, the different angles of the sunrays variously highlight the limestone formations, the reddish ground, the white or gray houses, and the different shades of green of the crops, making for a truly unique spectacle. Most of the buildings scattered across the valley are very simple. They are built with local materials and used as dwellings or small family farms. The village of Viñales, which extends along the main road, has retained its original layout and offers a number of interesting examples of colonial architecture. The whole valley is distinguished by its own original culture, a sort of blend of inputs from indigenous populations, the Spanish conquistadores and African slaves. The Cubans identify especially strongly with Viñales, both for the beauty of its landscape and for its cultural-historical importance. About 92% of the area included in the World Heritage List is privately owned. 30% of this is owned by individual farmers, the rest by the National Association of Small Farmers. The valley is presently under protection under clauses in the Constitution of the Republic of Cuba of February 1976 and the Declaration of 27 March 1979, which designate it as National Heritage, in application of two laws of 4 August 1977, one on the protection of farm property, the other on national and local heritage. The 75


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highest authority responsible for the management of the site is the National Council for Cultural and Natural Heritage of the State of Cuba. Local supervision, however, falls to the Provincial Center of Cultural Heritage of Pinar del Rio, the Provincial Division of the Ministry of Science, Technology and Environment, and the Provincial Division of the Ministry of Agriculture. The conservation of the natural and anthropic values of the area is regarded as important, but proper consideration is also given to the social needs of the local population, the promotion of local economic activities and the improvement of quality of life. 1.2 Integrity and vulnerability The area included in the UNESCO World Heritage List is considered a “living landscape” with a high degree of “authenticity”, which has proved capable of retaining its peculiar character in spite of socioeconomic dynamics and high tourist flows. Although the application for the site’s inclusion in the World Heritage List explains that general measures for its protection and management should be also adequate to prevent damages deriving from human action, the issue of land-use changes does not seem to have received much attention. Most notably, the application does not include a detailed map of the area. Such a map would be essential to establish whether ongoing changes are altering the landscape mosaic and hence the requirements for inclusion in the World Heritage List. A similar shortcoming can be found in the documentation of many other sites included in the WHL, for all of which a monitoring system periodically recording land-use patterns should be established to assess landscape changes. This lack of attention for land-use in the Viñales valley is also reflected in the promotion of tourist activities. At a quick examination, it appears that publications or other materials providing information on the rural landscape are lacking, whereas information on natural plant life and fauna is available, as well as general historical information. The same shortcoming is observable in the organization of guided tours of the area. The promotional materials for these tours, while they do note the valley’s inclusion in the WHL, make no mention of the heritage category in which it is included, and provide no information on the features of the local agricultural landscape, delegating this task to the farmers on the small farms where tour guides bring tourists to watch the manufacture of local cigars. For these reasons, we deemed it worthwhile to undertake a survey of land use in the area to determine what the present situation is and what changes in the local landscape we may expect. 1.3 Analysis On the basis of photointerpretation using Google Earth satellite images, we identified twelve classes of land cover. Our data indicate that 48% of the studied surface is occupied by various kinds of cultivated land (simple and treed arable lands, permanent wooded crops and tobacco crops); 34% is covered by trees, including the mixed forest on the mogotes and the riparian vegetation, which shows an interesting “tentacular” pattern that permeates the agricultural fabric; about 12% of the surface is taken up by meadows and pastures; finally, only 6% is given over to urbanization, both continuous and discontinuous. The agricultural portion of the landscape mosaic appears to be very fragmented, with an average agrarian surface of only 0.48 ha. There is a clear-cut predominance of arable lands, which put a characteristic stamp on the local landscape, making it appear rather “fine-grained”. The mogotes are clustered together in the center of the valley, surrounded by farmland. Their position, besides having a particular value from a spatial point of view, also creates a distinctive aesthetic peculiarity. The verticality of the limestone hills normally catches the eye of the observer more than the horizontal components of the landscape, and their uniform tree cover makes for an interesting contrast with the fragmentation of the agricultural landscape.

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2. The Telouet valley, Eastern Atlas Mountains (Morocco) Morocco offers some extraordinary examples of historical rural landscapes characterized by centenarian agricultural practices that local populations are still carrying on. These practices, besides ensuring the population’s livelihood, have allowed the farming of very arid areas, transforming the desert into a true garden. Traditional agriculture is still widespread. While some areas today employ highyield modern technologies, there are still many rural landscapes combining distinctive environmental characteristics with historical features and traditional agricultural activities; fascinating places where farmers practice a low-energy-input sustainable agriculture, carefully managing their crops and water, and graced by settlements of high architectural-historical value. 2.1 Characteristics of the site Going out from Marrakech towards the Upper Atlas and then down the eastern versant on the spectacular Tizin’Tichka road, one encounters a green and fertile cultivated valley that stands out against, and contrasts with, the bare and arid slopes of the surrounding mountains. In the northeast part of this valley are the fortified village of Telouet, the Kasbah du Pacha, and Glaoui, which today is uninhabited, but was for centuries a central node for caravans traveling from the Sahara desert to Marrakech, which had to pay duties on their goods to the local pasha. The valley weaves its way all the way to the ksar of Ait Ben-Haddou, a site included in Unesco’s World Heritage list. From here the road goes on to Ouarzazate, the provincial capital, near the border with the Algerian Sahara. The village of Telouet is very near to other small settlements, such as Abadoua to the west, and Tighza and Tasga to the east. For our study, we focused on a roughly 3-km-long stretch of the valley going southwest from the kasbah of Telouet to the site of Sidi Daoud. The average altitude is about 1740-1750 m.s.l., with a maximum of 1780 m in the northeast part of the valley and a minimum of 1695 in its southernmost part. The kasbah of Telouet is an excellent example of pisé (mud-and-straw) architecture in southern Morocco. The most illustrious example, however, can be found a few dozen kilometers to the south, at Ait Ben-Haddou. 2.2 The village and kasbah of Telouet We have no certain information about the origin of the spectacular buildings found in Telouet, but they may very well date back to the first spread of Islam in the area and the foundation of Sijilmassa in 757 AD. Their architecture and building techniques may have spread ever since very early times across the Djebel area and to the southern valleys of Morocco. The typical southern Moroccan kasbah is a residential unit for families of the more well-to-do classes, and exists in several forms with different functions. If it serves as a farmhouse, the building usually rises in three stories. The ground floor is used as a storeroom and a barn, while the upper floors are the living quarters for the family, used alternately, the second floor in the summer, the third in the winter. Farm laborers live in houses adjoining the main building. If its function, instead, was defensive, the kasbah has the appearance of a fortress, is the residence of the local authorities, and often attains the size of a small village. These exquisite buildings, much appreciated by advocates of bio-architecture, and not only by them, fit splendidly into the landscape and are made of natural and completely recyclable materials. 2.3 Traditional agriculture in the Upper Atlas and at Telouet Since no specific literature about the Telouet valley was available, we drew some general information from articles on agriculture and animal husbandry in other valleys in the Upper and Middle Atlas, 77


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more specifically, in the Province of Azilal and the Ait Arfa area. In these valleys one observes a remarkable balance between human action and the natural environment, and between private property and commons, that is typical of a large part of the North African mountain ranges, with gently sloping irrigated terraces on the lower valley slopes, pastures on the upper slopes where sheep and goats are mostly grazed, and often intensive agriculture on the valley bottoms. An ideal section of the Upper Atlas range shows that seasonal grazing is distributed roughly between 500 and 3300 m.s.l. Between ca. 1000 and 2500 m.s.l. are cultivated terraces and valley-bottom fields for subsistence agriculture. Below 500 m.s.l. are the larger irrigated areas near villages. In the past, the farming of irrigated terraces was mainly based on a three-crop biennial rotation, but the latest trend is to reduce this to two crops: one of cereals (wheat, barley, or maize), the other of vegetables or fallow. The tree cover, although still quite widespread, today is in a state of serious deterioration. It mainly consists of olive (Olea europea), oak (Quercus rotundifolia, Quercus faginea; Quercus suber), juniper (Juniper phoenicea, Juniper oxycedrus) and cypress (Cupressus atlantica). There are also some reforested areas, mainly with Aleppo pines, whose geometrical spacing however jars with the traditional landscape. There are three main tree cultivations: olive, almond, and pistachio. In these areas the livestock mainly consists of sheep and goats. From the end of August to late September the flocks are led down into the cultivated valley bottom to graze on harvest residues, in fallow fields, and on various kinds of commons, such as the broad strips alongside the roads. Irrigation systems are a central landscape element in these areas of the Atlas. They are very simple but quite effective: rocks and shrubs are used to deviate mountain streams into canals called seguias, which always run at a slightly steeper angle than the surrounding ground. Simple gravity and easy drainage from these versants down to the valley bottom prevent water stagnation. Walnut or almond and, more recently, apple or pear trees are planted along the seguias, both to produce fruit for the market and to reinforce the banks. In steeper areas, dry-stone walls—made until the nineteenth century with chunks of juniper—rarely exceed 30 meters in width, while on gentler slopes they are much wider. On the Telouet valley bottom, crisscrossing canals form a web of tiny plots separated by periodically irrigated earth banks. 2.4 Integrity and vulnerability The Telouet valley landscape still appears to be basically intact as regards its agricultural part, while the settlements, and especially the castles, are often abandoned and in ruins. Agriculture still plays an important role in the population’s subsistence strategies, and retains high landscape and aesthetic value. Work is presently under way to build a new road. While this will undoubtedly improve transportation of goods and people, it will also determine a significant increase of the tourist flow, which today is limited, among other things, by the scarcity of hotels, of which only a few small ones are found around the Kasbah. Today the main tourist flows are concentrated in the World Heritage Site of Ait-Ben-Haddou, accessible from the main road to Ouarzazate. The new road could also encourage the construction of new settlements with materials and building techniques jarring with the traditional local ones. Such development has already deeply altered the historical architectural fabric in other locations in Morocco. As elsewhere in the Atlas Mountains, the agriculture of the valley is mainly threatened by the following socioeconomic issues: – migration from the mountains and urbanization; – a shift of the market demand away from traditional products; – state incentives for large-scale agricultural production for exportation, which further undermines traditional farming. These issues will combine to generate a vicious circle, since migration from these areas makes the keeping up of traditional practices increasingly difficult and costly for those who stay behind, favoring the adoption of intensive models, which are cheaper and, in quantitative terms, more productive. 78


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2.5 Analysis On the basis of photointerpretation of Google Earth satellite images, we identified eighteen classes of land cover. We classified as “fallows” all residual areas, both those lying between cultivated plots— bare and treed fields, orchards and vegetable gardens—and those lying alongside the roads, or alongside continuous or discontinuous urban fabric. In some cases the insufficient resolution of the satellite images makes it hard to distinguish this type of land-use from grazeland. Our data indicate that 58% of the studied surface is taken up by various kinds of crops (simple or treed ploughed fields, orchards and vegetable gardens). Arable lands account for 45% of the total surface of the area. Natural vegetation, including mixed forest and riparian vegetation, covers only 5% of the overall surface. 14% is occupied by developed areas, classified as continuous urban fabric, discontinuous urban fabric, scattered houses, and the kasbah or castle. Areas classified as uncultivated (fallows) account for 10%, and “pastures”—bare, treed or with shrubs—only for 6%. Arable lands are thus the dominant landscape feature. The agricultural mosaic is highly fragmented, and this is true not only of the actually cultivated portion, but also of the non-agricultural land uses. The average surface of cultivated patches is just 0.09 ha, but other land uses also have a very small average patch surface, only 0.14 ha. This is thus a very fine-grained landscape, more so than those of Viñales and the Itria valley. In spite of the prevalence of bare arable lands, the richness of the tree cover makes up for the lack of actual woods in the cultivated areas, and also contributes to biodiversity. The most noticeable visual features of the local landscape are certainly the contrast between the desert mountain slopes and the intensively cultivated land on the valley bottom, and the narrow and sinuous conformation of the valley itself. The green of the vegetation contrasts sharply with the red of the soil. The buildings are reddish-colored and display architectural features that blend well into the historical landscape, although they are often poorly preserved. 3. The Itria valley This valley was one of many areas in Italy selected for inclusion in the National Catalogue of Landscapes of Historical Interest, because of the characteristics of its especially complex agricultural landscape. These characteristics are such as to make the Itria valley suitable for a comparison with the landscapes of Viñales and Telouet. Furthermore, like the latter sites, it is included in the World Heritage List, although for its settlement-related features. The Itria valley is one of the best known areas in Puglia, thanks to its typical buildings known as trulli, but it also offers historical landscapes of great beauty. These landscapes are threatened today not only by urbanization and inappropriate agricultural practices, but also by the proliferation of wind turbines. Here, as in the rest of Italy, wind turbines, while making only a scarce contribution to the production of renewable energy, have a strong negative impact on one of the most beautiful landscapes in the country. An analysis of land uses in the valley will be especially useful, not so much for the requirements of UNESCO’s World Heritage List, as much as because the National Landscape Catalogue prescribes accurate monitoring of land uses to determine the degree of historical integrity of the agricultural landscape. 3.1 Site description The Itria valley, also known as the “Valley of the Trulli”, is a southern appendage of the Murgie plateau spanning the Provinces of Bari, Taranto and Brindisi. It encompasses the municipalities of Alberobello, Noci, Cisternino, Castellana Grotte, Putignano, Locorotondo and Martina Franca. Many of these towns are arranged on terraces and belvederes on the slopes of hills crowning the elongated depression of the valley. The area is included among UNESCO World Heritage Sites under the denomination “Trulli di Alberobello”. It is included in the Eastern Murgie Natural Reserve and the Southeast Murgia 79


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SCI, and is under landscape restrictions as per Act 1497/39. Considering the clearly historical matrix of the local landscape, the fact that natural reserves and SCIs have been established here is an interesting datum. Due to the abundance of limestone formations providing construction material for the buildings known as trulli, this is the area where these buildings are most widespread. Their origins go back to prehistory. Over thousands of years, trulli evolved from simple shelters into true dwellings. The oldest known trullo is in the Marziolla district and dates back to 1559. The historically most significant features of the landscape of the Valle d’Itria, and those that at least as late as the 1950s or 60s dominated the human and rural landscape, were the fact that a significant part of the population lived in scattered houses, on the one hand, and the abundance of vineyards, on the other. The vineyards are grown on small and sometimes tiny plots edged by dry-stone walls (pareti). On each plot there is almost invariably a trullo, that is, a traditional building, usually with several rooms, where peasant families used to live for most or all of the year. The often very thin limestone layers of the geological substratum provide suitable stones (chiancaredde) for the roofs of the trulli, as well as the eaves of the roofs of à pignon buildings. The latter are usually larger than trulli and rectangular in plan, and are widespread in the historical centers of towns in the area, or used as service buildings next to farmhouses (masserie) in the “Murgia of trulli and caves”. The Valle d’Itria almost certainly derives its name from the popularity in this area, as well as the rest of Salento, of the cult of the Madonna of the Odegitria, a protector of travelers. The cult was disseminated by Basilian monks who sought refuge in south-central Puglia between the eighth and the ninth century. For many centuries, ecclesiastic institutions owned vast estates in the area. As early as the late Middle Ages and the early Modern age, this favored the rise of a widespread and relatively land ownership system based on small or middle-sized peasant holdings, rented out under long-term emphyteutic contracts that encouraged the planting of tree orchards and shrub crops, especially vineyards. The century that followed the Unity of Italy witnessed the maximum spread of vineyards in the three municipalities comprising the Valle d’Itria, up to 55-60% of the area of the valley, as well as the highest degree of dispersion of the peasant population in the countryside; although some more or less vast surfaces managed by farmhouses were set aside for grain and grazing, and there were ample wooded areas. Casedde and vineyards remained indissolubly paired at least until the 1950s or 60s. The importance of the system, however, thereafter rapidly declined due to the crisis of smallholdings, ruined by mass emigration, the growing importance of manufacturing and crafts even among people living permanently in the countryside, and mass motorization. The valley has many farmhouses, architectural symbols of the landed middle class. In Puglia the farmhouse (masseria) is a topos of sorts, like its analogs in the Po River plain (cascina) and Tuscany (casale). The masserie system probably constitutes the most significant farmland infrastructure in the Region, especially in the Itria valley, a dense and rigidly regulated organism for the exploitation of farming commons. For example, late medieval royal masserie rotated crops of wheat, barley and broad beans, one a year. On the fourth year the land was allowed to rest and wholly given over to grazing. In later times, the institution of the Regia Dogana della Mena delle Pecore (Royal Shepherding Toll Station) by Alfonso d’Aragona in 1443, under the inspiration of the success of a similar experiment in Andalusia, brought with it a deep reorganization of the Puglian countryside, with a new emphasis on animal husbandry. This period witnessed the establishment of masserie di portata, farmhouses granted on concession where almost nothing but cattle-grazing and grain-growing was allowed, and placed under the obligation of opening their lands to sheep grazing one year every five years. The mid 1500s marked an important turning point in the history of the local farmhouse system. Thousands of hectares of royal commons were made off limits to grazing, and masserie were instituted on them whose concession holders were given the right to freely choose what crops to grow. 3.2 Integrity and vulnerability The area of the Itria valley included in the World Heritage List only encompasses the settlement of Alberobello and, more specifically, its “Monti” and “Aia Piccola” districts. Under the terms of the Unesco 80


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro The Biocultural Complexity Of Historical Rural Landscapes

Convention on World Heritage of 1972, Alberobello is protected as a “group of buildings”; no reference is made to its agricultural landscape. The National Catalogue of the Historical Rural Landscape specifies that the Itria valley landscape owes its integrity to the preservation, in some of its areas, of the traditional equilibrium between different land uses, the presence of trulli, and high property fragmentation. The actions currently being undertaken to regulate the production and commercialization of local agricultural products may help to bring about an economic recovery that may help to at least partially revive, although in new forms and in the new changed context, the historical landscape and the land uses that have marked the history of this area. The current threats to the landscape of the Itria valley depend on several phenomena. The 1970s witnessed a drastic reduction of the wine-growing surface, the deterioration and often the abandonment of trulli, and inadequate maintenance of dry-stone walls, often replaced by less expensive but frankly repellent concrete ones, sometimes faced with irregular limestone slabs. In the traditional vineyards, verdeca and bianco Alessano grapes are grown in low rows in hollows preventing rainwater from draining away along the steep slopes. These rows, however, have been partially replaced by tendoni for the production of table grapes. While until the 1980s many trulli were being abandoned, trulli owners later preferred to destine them to seasonal use by residents or tourists. This has given rise to a profitable market, leading to renovations that often show little respect for the architectural and landscape characteristics of the area. The increasing expansion of residential and industrial areas also poses a threat to the landscape of the Itria valley. 3.3 Analysis Our analysis only focused on a portion of the Itria valley, extending over about 800 ha in the district of Paretone, in the municipality of Martina Franca. We used orthophotographs from 2010. 48% of the surface under study is occupied by various kinds of farmland displaying a considerable variety of land uses: bare and treed arable lands; arable lands with olive and fruit trees, or vegetable gardens; monocultural vineyards and vineyards associated with other crops; vegetable gardens; orchards. Woodland only covers 10% of the total surface. 22% is occupied by housing and their courtyards, including trulli. Finally, pastures and meadows (some with olive trees) account for 12% of the total surface. So in this case, too, we are looking at a highly fragmented situation with a high number of land uses and a very low average surface of individual land mosaic patches, both on farmland and overall, 0.26 and 0.29 ha, respectively. 4. Comparative analysis As regards the choice of our sample, the overall extensions of the areas being compared are very different. In each case, we chose specific portions of the landscape mosaic to highlight certain features we regarded as important. The area analyzed in Viñales has a total surface of over 2400 hectares, that in the Itria valley about 839 hectares, and that in Telouet only 450 hectares. The total extensions of individual lands uses should thus be disregarded; what counts is the ratio of this extension to the total area under consideration, and the structure of land use. In a comparative perspective, the three areas all display a prevalence of farmland over woodland and a relatively small average area of farmed plots: 0.48 ha in Viñales, 0.29 ha in the Itria valley, and 0.09 ha in Telouet. The Moroccan site has by far the finest-grained landscape mesh, due to the characteristics of its irrigated fields and historical farming practices. The number of land-use classes in which we divided the respective land covers is very different from one area to the other: only 12 land-use classes for Viñales, 18 for Telouet, and 36 for the Itria valley. Although the Itria valley does have a higher variety of land uses, this partially reflects the fact that its photointerpretation was complemented with field 81


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observations that allowed us to make finer distinctions. For the other two areas, we only interpreted Google Earth satellite images and cross-checked their evidence with ground photographs, for only some of which we know where they were taken. Table 7 shows that the Itria valley has a higher number of land-uses and, accordingly, produces a higher variety of crops. Considering the markedly smaller surface of Telouet compared to the other two areas, the very high number of patches in its agricultural mosaic appears to be highly significant. The area has less variety of land-uses compared to the Itria valley, but a higher fragmentation of ploughed fields as a result of traditional irrigation agriculture. This characteristic of the Telouet valley landscape is enhanced by the very small average surface of each patch in the mosaic. It is essentially a very large puzzle made of tiny pieces, and this, combined with the variety of land-uses, makes for very high landscape diversity. This form of land use requires abundant labor for the continuous maintenance of the irrigation systems, and labor scarcity is thus one of the critical socioeconomic issues of the area. A similar situation, with less variety of land uses but more fragmentation, can be observed in our comparison between the Itria and Viñales valleys. A distinctive feature of the landscape of the Itria valley is the presence of mixed cultivation, especially ploughed fields combined with olive groves, vineyards and fruit orchards. This is a historically significant peculiarity of the Italian rural landscape, attested ever since Etruscan times, and thus having a historical persistence of over 2000 years. Just like the masterful exploitation of water has allowed local farmers to make the Moroccan desert cultivable, in Italy farmers made up for land scarcity by growing several crops on the same plot to obtain several harvests. These crops included not just cereal, fruit, olives or wine, as in the Itria valley, but also firewood obtained from the pruning of trees, or tree foliage used as fodder for livestock. Significantly, until the last century twice as much firewood was produced outside of forests as inside them, and the density of trees per hectare in the countryside sometimes exceeded that found in some types of woods, contributing to the biodiversity of the rural landscape. Another feature we have studied is the connectivity of the landscapes under consideration. The “Edge Density” index, “E”, measures the complexity of a land mosaic and the characteristics of boundaries between the patches that compose it. This index reflects not only the number and average surfaces of the patches, but also the regularity or complexity of their shapes, since the more irregular the patch edges, the higher the Edge Density. So this index, along with the others we employed, helps to measure not only the fragmentation and heterogeneity of a landscape mosaic, but also the ecological connectivity between the various habitats in a given area. In Table 8, which regards the Viñales valley, we notice that the land-use class with the highest Edge Density is orchards, while woods have the lowest one. In Table 9, which regards the Telouet Valley, we notice that the land-use class with the highest Edge Density is that of vegetable gardens. Woods show a fairly high value, differently than in the other two study areas, while pastures have the lowest value. In Table 10, regarding the Itria valley, once again we find woods as the class with the lowest Edge Density and vegetable gardens as the class with the highest. Clearly in these last cases these values depend more on the lower average surface of patches rather than on the lower or higher irregularity of their edges. As the general overview in Table 7 shows, the study area with the highest average Edge Density—calculated as the sum of the Edge Densities of all land-use classes divided by the number of land-use classes—is the Telouet valley, immediately followed by the Itria valley. The very low value of the index for Viñales is heavily influenced by the high average surface of the woodland patches in the area. 4. Conclusions The areas under examination lie in world regions with very different environmental, social and economic characteristics, but have in common a high landscape complexity, a feature that this study intended to highlight. In the case of Morocco and Cuba, we are looking at two developing countries 82


M. Agnoletti, M. Tredici, A. Santoro The Biocultural Complexity Of Historical Rural Landscapes

where traditional agriculture is still an important part of the economic system. In the case of Puglia, instead, as in much of the rest of Italy, traditional agriculture has a more marginal role. Thus, while in the first two cases it is the farming economy that sustains the traditional landscape, in the Italian case it is rather a combination of factors connected to the multifunctionality of agriculture that guarantees its conservation. This indicates that the traditional landscape has a different role and meaning in the three respective countries where our study areas are located, because these countries are at different development stage. This, however, has not jeopardized the conservation of the traditional landscape. Besides, it is significant that all three areas have in common a high complexity of the landscape mosaic as the result of traditional agricultural practices, in spite of their very different environmental conditions, which hence have not played a major role under this regard. In these cases, the strategies of environmental adaptation of traditional cultures have determined similar landscape characteristics independently of environmental variables. As regards the protection of these areas by UNESCO, although only Viñales is included in the World Heritage List for its rural landscape, our research shows that no true protection of the rural landscape is provided for in the application dossier, nor a description of its features. Furthermore, all three areas have rural landscapes with features making them certainly eligible for inclusion both among UNESCO cultural landscapes and in the Globally Important Agricultural Heritage Systems project of the FAO. Besides, the complex structure of the landscape mosaic in these areas is an exemplary illustration of biocultural diversity as promoted by the United Nations’ World Convention for Biodiversity. Although all three areas have settlements with important architectural historical characteristics, we did not look into this aspect, since such elements usually receive much more attention than the rural landscape. Telouet certainly has some remarkable buildings, including some imposing castles, while trulli, while less monumental and more scattered, undoubtedly have very original architectures. These buildings unquestionably confer a unique character on the Telouet and Itria areas, while the architectural aspect appears less important in the Viñales valley. The landscapes under study have existed for some centuries and today appear to have stabilized, or to be evolving very slowly. They display the typical features of traditional landscapes as defined by Antorp, being maintained with practices and techniques requiring few external energy inputs, whether in the form of mechanization and irrigation or of chemical fertilizers and agro-drugs. Their crop fabric is characterized by long historical persistence and a strong connection with the local social and economic systems that produced it. The productive processes that led to the construction of these landscapes have involved historical practices of “activation of environmental resources”, as Diego Moreno showed in the case of Italy. These landscapes need to be studied and conserved not only for their significance as an element of cultural identity, but also as especially remarkable examples of adaptation to difficult environmental conditions and high biocultural diversity. For adequate planning to be undertaken, we need to understand the structures of these landscapes more in detail to be able to monitor their transformations, and as a premise for the implementing of more adequate support policies by national and international organisms. This study is meant as a modest contribution towards this end.

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Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani: quattro casi studio a confronto Biancamaria Torquati, Giulia Giacché Dipartimento di Scienze Economico-Estimative e degli Alimenti dell’Università di Perugia 1

1. Introduzione La contrapposizione urbano-rurale che ha caratterizzato la società industriale si è si affievolita nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso contribuendo alla formazione di un “nuovo spazio di sviluppo economico-sociale”, non più città né campagna, dove la società industriale e post-industriale realizza le sue molteplici funzioni (Merlo, 1995). Oggi si preferisce parlare di rapporto tra urbano e rurale proprio per sottolineare il nuovo atteggiamento della società nei confronti dell’ambiente rurale al quale si attribuiscono valori positivi come quelli della bellezza del paesaggio, della tranquillità, della salubrità dei luoghi, della presenza di alimenti genuini e delle relazioni sociali (Torquati, Giacché; 2010). In questo mutato contesto l’impresa agricola può cogliere nuove opportunità legate alla domanda congiunta di qualità dell’ambiente e delle produzioni agricole da parte dei cittadini. Sempre più consumatori, infatti, esprimono una domanda articolata basata sull’acquisto di prodotti tipici, sicuri e con valenza paesaggistica, di soggiorni agri-turistici, di ricreazione e accesso alle strutture aziendali. In questo nuovo contesto l’impresa agricola presenta confini strutturali e funzionali meno definiti che in passato e, nello stesso tempo, più complessi. Nel “nuovo spazio di sviluppo economico-sociale” le imprese agricole stanno ritornando a svolgere il ruolo di motore di sviluppo dei territori attraverso la produzione di prodotti e servizi che nascono dal rispetto e dalla valorizzazione delle risorse ambientali e storico culturali. Alcune imprese agricole hanno avviato un processo di valorizzazione dei propri prodotti e della propria immagine facendo ricorso agli elementi storico culturali del paesaggio agrario del proprio territorio, soprattutto in zone collinari del centro-sud Italia dove era prevalente la piccola proprietà contadina. In questo lavoro, con spirito pionieristico di sereniana memoria, affrontiamo lo studio del paesaggio agrario con una prospettiva dal basso e all’interno delle imprese agricole, evidenziandone gli aspetti più propriamente tecnici ed economici, ma anche sociali e culturali. La scelta delle imprese è ricaduta tra quelle del settore vitivinicolo in quanto è il settore più inserito in percorsi turistici che legano la qualità del prodotto alle caratteristiche del territorio e che, più degli altri, ha risposto ai cambiamenti in corso adottando la strategia della creazione del valore piuttosto che quella della riduzione dei costi di produzione. Nell’ambito del settore vitivinicolo sono stati selezionati quattro casi studio in base ai seguenti criteri: 1) ricostruzione degli elementi del paesaggio agrario con funzioni di tutela dell’ambiente e di sviluppo rurale; 2) valorizzazione economica del prodotto sul mercato; 3) forma di conduzione aziendale; 4) localizzazione geografica nel centro-sud d’Italia. Le analisi condotte sulle quattro imprese selezionate ci consentono di leggere la ricostruzione del paesaggio agrario in termini funzionali alla tutela dell’ambiente e allo sviluppo rurale, di riflettere sul ruolo che il paesaggio agrario svolge come ri-

1 Gli autori ringraziano il Dr. Agronomo Marco Serafini della Cantina Novelli, il Dr. Agronomo Giuseppe Beldono e il Dr. Agronomo Rosario Previtera rispettivamente Direttore tecnico e Consulente della Cooperativa Enopolis Costa Viola, il Dr. Paolo Socci proprietario della Fattoria di Lamole, il Dr. Lorenzo Fasola proprietario della Cantina Montevibiano Vecchio, per aver fornito i dati tecnici ed economici dei casi studio e per la loro professionalità che hanno reso possibile la realizzazione di questo lavoro.

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sorsa economica territoriale e del rapporto circolare esistente tra attività economica e paesaggio nelle aree rurali. Il ricorso ai casi studio come metodo di ricerca esprime la convinzione che, per attivare una riflessione teorica adeguata sul valore del paesaggio agrario e sul ruolo che può assumere in questo periodo di grandi cambiamenti, è indispensabile analizzare il fenomeno con un solido radicamento nelle realtà empiriche, così come afferma Brunori (2012) in riferimento al contesto più ampio della multifunzionalità. In particolare l’obiettivo primario del lavoro è quello di analizzare i risultati economici ottenuti da quattro imprese vitivinicole italiane che, attraverso il recupero di forme tradizionali di allevamento dei vigneti, producono vini di eccellenza valorizzando il paesaggio viticolo storico in un contesto di salvaguardia dell’ambiente e degli aspetti socio-culturali identitari del territorio. L’obiettivo secondario riguarda alcune riflessioni teoriche su: i) rapporto tra internalizzazione della risorsa paesaggio e strategie aziendali perseguite; ii) quanto la ricostruzione del paesaggio influenzi il ridimensionamento della funzione produttiva agricola a vantaggio della funzione ricreativa-turistica e ambientale-conservativa. Il lavoro da qui in avanti è così strutturato: nel secondo paragrafo si discutono brevemente le dinamiche competitive del sistema vitivinicolo italiano e i comportamenti innovativi assunti dagli imprenditori negli ultimi decenni; nel terzo si esaminano gli aspetti più rilevanti della progressiva semplificazione che ha subito il paesaggio viticolo italiano e il nuovo interesse nei confronti delle forme viticole storiche da parte di alcune tipologie di impresa; nel successivo quarto paragrafo dopo la presentazione dei quattro casi studio esaminati attraverso l’analisi del contesto paesaggistico di riferimento e le risorse endogene utilizzate, si illustra l’analisi economica realizzata attraverso l’utilizzo dei bilanci conguagliati e la valutazione dei progetti di investimento; nel quinto paragrafo vengono discussi i risultati emersi dall’analisi economica ed esaminati i modelli imprenditoriali emersi; nel sesto e ultimo paragrafo sono state riportate alcune considerazioni conclusive. 2. Dinamiche competitive del sistema vitivinicolo e comportamenti innovativi Il sistema vitivinicolo, negli ultimi decenni, ha ricercato vantaggi competitivi attraverso l’affermazione di brands territoriali riferiti ad ambiti geografici ristretti. Le produzioni vitivinicole di qualità risultano, infatti, fortemente legate ai territori di origine sia in riferimento alle caratteristiche pedoclimatiche dei luoghi e alle conoscenze locali, da cui scaturisce la tipicità del prodotto, sia in riferimento alla struttura del paesaggio, che influisce sulla attrattività territoriale e culturale. Da ciò ne deriva che le strategie delle imprese vitivinicole risultano sempre più interrelate alle risorse specifiche degli ambienti socioterritoriali, così come il conseguimento del vantaggio competititivo sempre più legato alla progettazione e realizzazione di azioni che mettono in risalto le peculiarità e la riconoscibilità dei territori in cui sono insediate (Torquati, 2009). Anche la capacità di mantenere nel tempo un vantaggio competitivo sembra dipendere sostanzialmente dalle risorse a cui l’impresa può attingere, e questo non fa altro che rafforzare il rapporto tra impresa e territorio, soprattutto in un contesto di globalizzazione come quello attuale. Il territorio rappresenta il luogo in cui sono create le risorse sociali, quelle cioè che non vengono ereditate passivamente come quelle di base (risorse naturali, clima, forza lavoro non specializzata), ma vengono prodotte e riprodotte come la tradizione culturale, le caratteristiche estetiche del paesaggio, la qualità dell’ambiente (Brunori, 2003). Il territorio quindi è un generatore di risorse (Distaso in Brunori, 2003) e le imprese hanno il compito di mobilitarle a fini economici valorizzandole. La valorizzazione della risorsa paesaggio richiede la presenza di una imprenditorialità efficace con una spiccata creatività ed una innovatività di fondo. Si pensi all’imprenditore-innovatore di Schumpeter (Schumpeter, 1971), al risk-taker di Knight (Knight, 1921) o al decion-maker di Cole (Cole, 1959), cioè ad un imprenditore con una capacità innata di innovare pronto nel prestare attenzione a nuove opportunità, di valutare e accettare il rischio, di prendere decisioni e di inserirsi velocemente su nuovi mercati. In una agricoltura che cambia non basta che l’imprenditore presti attenzione ai meccanismi interni della propria impresa ma è necessario che sia recettivo nei confronti degli stimoli esterni (Corno, 86


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

1995) al fine di identificare nuove opportunità di progressione economica, sia in termini di reddito che di profitto. Queste caratteristiche imprenditoriali permettono all’impresa di inserirsi su nuove opportunità, ma non portano necessariamente al successo imprenditoriale (Viaggi, 2012) e cioè ad estrarre reddito dall’ambiente in cui si opera. Il successo imprenditoriale è legato ad un progetto complessivo che ingloba l’intera mission aziendale, per cui il recupero di forme e di architetture storiche del paesaggio rurale può rappresentare una opportunità di sviluppo per l’impresa se associato a comportamenti imprenditoriali realmente innovativi, finalizzati ad un restauro funzionale degli elementi paesaggistici. Dove per restauro funzionale si intende il recupero della valenza produttiva delle forme storiche, la salvaguardia della biodiversità e dell’ambiente, in una prospettiva di sviluppo locale. Recuperare le forme e le architetture del paesaggio vuol dire andare oltre una statica conservazione dei paesaggi e oltre la moda per l’argomento, superando la semplice logica turistico-commerciale che ridurrebbe gli interventi ad una mera operazione di marketing. Risulta fondamentale riconoscere il valore del paesaggio, riscoprirne la funzionalità, reinterpretandolo alla luce dei mutamenti intercorsi nel rapporto uomo ambiente. Si tratta, in sostanza, di rendersi conto della grande diversità e qualità dei paesaggi ereditati dal passato e di inserirli in una prospettiva di sviluppo locale e di valorizzazione delle produzioni locali, contribuendo a creare ricchezza attraverso il binomio “presidio del territorio” e “permanenza dell’uomo”. 3. La dinamica dei paesaggi vitivinicoli e l’emergere di nuove tipologie d’impresa A partire dagli anni Cinquanta del Secolo scorso si è registrata una graduale trasformazione dei paesaggi viticoli italiani che ha interessato le forme di allevamento, i tutori, la gestione e la collocazione geografica del vigneto. Per quanto riguarda le forme di allevamento utilizzate si è persa la diversificazione che, in passato, aveva connotato ogni singola regione. Alcuni esempi sono costituiti da: in Italia settentrionale la pergola trentina o altoatesina, in Italia centrale la piantata tosco-umbro-emiliana, e in Italia meridionale la vite maritata campana e la vite ad alberello. Oggi il numero di sistemi di allevamento si è ridotto a poche tipologie funzionali e ad una viticoltura moderna basata sempre più sulla meccanizzazione delle diverse operazioni colturali. Attualmente i viticoltori fanno riferimento essenzialmente alle forme di allevamento a spalliera poiché più adattate alla meccanizzazione e quindi al risparmio di manodopera. Per quanto riguarda la densità di impianto si assiste ad una diminuzione delle distanze di piantagione nei nuovi impianti o ad un rinfittimento dei vecchi vigneti con basse densità di impianto. In merito alla scelta dei tutori nel corso degli anni c’è stato un graduale passaggio dall’uso dei pali in legno (fino alla fine degli anni Settanta) a quelli in cemento (anni Ottanta e Novanta soprattutto per la forma di allevamento a palmetta), e successivamente a quelli in ferro (a partire dal 2000). Questa scelta è stata dettata da motivi di ordine economico e di funzionalità nella gestione del processo produttivo. Infatti, nella scelta dei tutori e dei pali il viticoltore tende a orientarsi in base al grado di meccanizzazione del vigneto, alla durata, alla praticità nella messa in opera, al costo dell’impianto e all’estetica. La progressiva meccanizzazione del vigneto e la crescente professionalità espressa dalle aziende vitivinicole ha portato ad una progressiva concentrazione della viticoltura in aree particolarmente vocate allargando, anche, la superficie media degli appezzamenti (Torquati et al., 2011). Le aree terrazzate con i muretti a secco, nella maggior parte dei casi, hanno subito un progressivo abbandono portando ad un dissesto idrogeologico e a fenomeni di erosione del terreno; in atri sporadici casi sono state conservate grazie alla costituzione di imprese cooperative in grado di rilanciare produzioni enologiche per un mercato di nicchia. Le minacce alla conservazione di questa viticoltura definita “eroica” sono differenti da regione a regione ma in gran parte riconducibili all’invecchiamento della popolazione, all’eccessivo frazionamento fondiario, alla difficoltà di accesso e di gestione delle terrazze, all’alto costo per la manodopera, alle consistenti risorse economiche necessarie per il mantenimento dei terrazzamenti, al mutamento di pratiche colturali che hanno portato anche alla perdita di conoscenza su come gestire e mantenere i muretti stessi. 87


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La progressiva semplificazione delle forme di allevamento della viticoltura italiana è stata accompagnata da una crescente diversificazione del prodotto vino nelle sue caratteristiche tangibili e intangibili, nelle forme di commercializzazione e in quelle di comunicazione. In alcuni casi e negli anni più recenti, la differenziazione è avvenuta anche attraverso la ricostruzione di vigneti storici che spesso sono rientrati a far parte di un progetto più generale di diversificazione dell’impresa volto a conciliare le esigenze della produzione con quelle dell’ambiente, e a conquistare nicchie di mercato più esclusive. Trattasi di imprese che, nella maggior parte dei casi, hanno cercato di costruirsi uno spazio economico autonomo il più possibile svincolato il più possibile dal potere della grande distribuzione e capace di attribuire al prodotto un valore più equo, hanno investito in processi produttivi a basso impatto ambientale, hanno fatto leva sulla capacità di comunicazione e su un forte legame con il territorio integrando il più possibile funzioni produttive e servizi ambientali. Sono imprese che hanno avuto il coraggio di pensarsi come soggetti attivi di un processo di cambiamento autonomo non imposto da terzi ma modellato su un rinnovato rapporto tra uomo e natura, tra impresa e territorio, tra urbano e rurale. Spesso si tratta di laboratori a cielo aperto a cui cercheremo di dare evidenza empirica in questo lavoro. 4. Case studies I quattro casi studio sono stati selezionati in base a criteri paesaggistici (come la tipologia del progetto paesaggistico e le finalità per cui è stato realizzato), criteri strutturali (come la forma di conduzione aziendale, la dimensione produttiva e la localizzazione geografica), e a criteri economici (come l’entità degli investimenti effettuati e il livello di valorizzazione del prodotto sul mercato). La scelta è ricaduta su quattro imprese agricole strutturalmente diverse ma accomunate da una strategia aziendale che contempla la valorizzazione del paesaggio vitivinicolo storico. Oggetto di analisi sono: 1) i vigneti terrazzati ripristinati dalla Fattoria di Lamole, impresa a conduzione diretta situata nel Chianti fiorentino; 2) i vigneti maritati recuperati dalla Cantina Novelli, azienda a conduzione con salariati appartenente al Gruppo Agroalimentare Novelli nel Comune di Giano dell’Umbria; 3) un vigneto moderno reimpiantato in un’area storica con un muro di cinta di epoca romana dalla Cantina Montevibiano Vecchio, situata nel comune di Marsciano in Umbria e condotta con salariati; 4) la viticoltura estrema della Costa Viola in Calabria, caratterizzata da terrazzamenti e muretti a secco in cui opera la Cooperativa Enopolis che conta tra i soci circa 100 viticoltori e la cantina Criserà (tab.1). I casi studio sono interessanti per la diversità degli interventi realizzati, per le diverse finalità che hanno spinto gli imprenditori a progettarli e per i risultati economici ottenuti nell’ambito del contesto aziendale in cui sono stati integrati. 4.1 Forma di conduzione, dimensione produttiva e contesto paesaggistico di appartenenza Ogni impresa ha una storia da raccontare che deriva dalle caratteristiche fisiche e dagli aspetti culturali del territorio in cui è situata, pertanto, la scelta delle aziende è stata fatta prendendo in considerazione anche il contesto paesaggistico di riferimento (tab.1). La Fattoria di Lamole fa parte dell’ambito territoriale del Chianti2 che, secondo il piano di indirizzo territoriale (PIT) con valenza paesaggistica della Toscana, deve il suo considerevole valore paesaggistico all’agro-mosaico connotato da tessere terrazzate di uliveti, vigneti, seminativi e boschi. L’impronta rurale del paesaggio, quindi, costituisce il sostanziale e qualificante elemento di questo ambito nonoA livello regionale sono stati individuati 38 ambiti di paesaggio sulla base dell’identificazione delle caratteristiche riconoscibili “identità dei luoghi” e riconosciute “così come è percepito dalle popolazioni” in coerenza con i contenuti della Convenzione europea del paesaggio (2000). Gli ambiti quindi rappresentato dei riferimenti concettuali di “appartenenza” dei territori per i quali sono state definite le regole della trasformazione/conservazione.

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stante la presenza di un’agricoltura specializzata. In questo contesto la Fattoria di Lamole occupa una superficie totale di 270 ha di cui 200 ettari di bosco, 16,5 ettari di vigneto, 3 ettari ad oliveto in coltura promiscua e la restante superficie a pascolo, ancora oggi destinata all’allevamento di pecore. Negli anni Settanta durante il processo di riaccorpamento dell’azienda inizia la fase di ristrutturazione dei vigneti sul totale dell’area a vigneto mentre il ripristino dei terrazzamenti e dei muretti a secco su 4,5 ha inizio nel 2001 per completarsi nel 2004 (Fig. 1 e 2). La Cantina Novelli, localizzata nel comune di Giano dell’Umbria ai confini con Spoleto e Montefalco, due tra i più famosi comuni vitivinicoli umbri, appartiene, al paesaggio identitario regionale dei Monti Martani che presenta, secondo il Piano Paesaggistico Regionale, una connotazione prevalentemente fisico-naturalista3 caratterizzata da un sistema collinare con una morfologia del terreno particolarmen-

Fig. 1/2. (In alto a sinistra e a destra) Vigneto terrazzato della Fattoria di Lamole. Forma di allevamento ad alberello palizzato con distanza tra le file di 2,2 m e sulla fila di 0,6. Uso di pali tutori in legno di acacia e di vitigno Sangioveto. Situato a Greve in Chianti nel Chianti Fiorentino. (Above, left and right) Terraced vineyard at Fattoria di Lamole. Vine training based on alberello palizzato (supported bush-trained vines) with 2.2 m distance between rows and 0.6 between plants in each row. Posts of acacia and Sangioveto grapes. Location: Greve in Chianti in the Chianti Fiorentino area.

Fig. 3. (Sopra a sinistra) Vigneto ad alberata. Forma di allevamento vite maritata ad aceri campestri con distanza tra le fine di 6 m e sulla fila di 5 m. Vitigno scelto Trebbiano spoletino. Localizzato nel Comune di Giano dell’Umbria. (Above left) Alberata vineyard. Vine training system with vines supported by field maples (acer campestre) with 6 m distance between rows and 5 m between plants in each row. Trebbiano Spoletino grapes. Location: Giano dell’Umbria. Fig. 4. (Sopra a destra) Vigneto ad alberata pre-fillosserico. Santa Maria della Spina, Spoleto. (Above right) Pre-phylloxera vineyard. Location: Santa Maria della Spina, Spoleto. 3 Il Piano Paesaggistico Regionale dell’Umbria individua 19 paesaggi identitari tramite un procedimento interpretativo basato sul patrimonio conoscitivo, sulle relazioni tra risorse identitarie e sulla registrazione dei valori simbolici connessi ai processi di identificazione collettiva. L’attribuzione della dominante (fisico-naturalistica, storico-culturale o sociale-simbolica) a ciascun paesaggio regionale conduce ad una identificazione sintetica che restituisce l’identità prevalente di ciascun contesto, letto alla scala regionale.

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Fig. 5/6. (In alto a sinistra e a destra) Vigna storica circondata da un muro di epoca romana. Forma di allevamento a cordone speronato con distanza tra le file di 2,5 m e sulla fila di 0,91 m. Uso di pali tutori in legno di acacia e vitigni di Merlot, Pinot Grigio e Chardonnay. Localizzato nel Comune di Montevibiano Vecchio, Umbria. (Above, left and right) Historical vineyard surrounded by Roman stone wall. Spurred cordoned vine training with 2.5 m distance between rows and 0.9 m between plants in each row. Use of acacia for posts and Merlot, Pinot Grigio and Chardonnay grapes. Location: Commune of Giano dell’Umbria.

te adatta ad un uso agricolo specializzato, in particolare seminativo e vigneti, dove esiste un connubio stretto tra morfologie dei suoli, trame agricole e forme insediative storiche. La significatività di questo paesaggio è stata attribuita alla presenza di un mosaico agro-forestale complesso e ad una elevata parcellizzazione che lo ha caratterizzato per diversi secoli. Al margine dei boschi gli uliveti ritagliano appezzamenti regolari ma discontinui espandendosi in corrispondenza dei centri abitati, mentre, nella collina coltivata si notano superfici rimboschite a ciliegio. La coltura principale resta quella olivicola, ancora condotta con impianti a sesto sparso, i filari dei gelsi, come quelli di altre essenze arboree maritate alla vite, delineano i segni caratteristici del paesaggio e ricordano le forme caratteristiche dell’alberata tosco-umbro-marchigiana tipica del sistema mezzadrile (Pierguidi, 2010). In questo ambito territoriale la Cantina Novelli inizia il suo progetto vitivinicolo nel 2000, inaugura la cantina nel 2007 e due anni dopo impianta mezzo ettaro di vite maritata (Foto 3 e 4). Gli attuali 56 ha a vigneti sono situati nei comuni di Spoleto, Montefalco e Giano dell’Umbria e vengono gestiti nell’ambito di un contesto aziendale di oltre 800 ettari. Questa giovane cantina che fa parte di uno dei gruppi agroalimentari più significativi d’Italia (Gruppo Novelli), ha cercato di differenziarsi dalle altre andando alla riscoperta dei vitigni autoctoni della zona spoletina e intraprendendo una azione di salvaguardia nei confronti dell’alberata umbra. La Cantina di Castello di Montevibiano Vecchio, localizzata anch’essa in Umbria, appartiene invece al paesaggio identitario regionale del Tuderte che si configura come un paesaggio a dominante storicoculturale, in cui gli assetti insediativi dei centri storici di collina e di pianura emergono sulla vasta piana fluviale coltivata e insediata, e dove il paesaggio agrario conserva ancora i caratteri storici conferiti dalla mezzadria, unitamente alle visibili e rilevanti testimonianze della fase di incastellamento. In questo contesto l’azienda agricola nel 2000 riprende l’antica tradizione vitivinicola familiare impiantando 37 ettari di vigneto e costruendo una nuova cantina, e puntando in entrambi i casi sull’utilizzo di processi produttivi eco-sostenibili. Nel 2005, il progetto nominato 360° Green Revolution, viene impreziosito dalla ricostruzione di un antico vigneto di circa 1 ha a testimonianza di una viticoltura che va ben oltre la semplice produzione di un buon vino (foto 5 e 6). La Cooperativa Enopolis e in particolare i vigneti delle aziende socie si trovano in Costa Viola, una delle Unità Paesaggistiche Territoriali della Regione Calabria4 che fa parte dell’Ambito Paesaggistico Le 39 Unità Paesaggistiche Territoriali della regione Calabria hanno un’ampiezza e caratteristiche tali da rendere la percezione di un sistema territoriale capace di attrarre, generare e valorizzare risorse di diversa natura. Queste sono identificate e si determinano rispetto ad una polarità/attrattore (di diversa natura) che coincide con il “talento territoriale”, riferito ai possibili vari tematismi e tipologie di risorse. Le Uptr e le loro aggregazioni sono definite, nell’ambito della pianificazione regionale, come le unità fondamentali di riferimento per la pianificazione e programmazione medesima (Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico della Regione Calabria, QTRP).

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B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

Fig. 7/8. (In alto a sinistra e a destra) Vigneti terrazzati della Costa Viola. Forma di allevamento a cordone speronato o a Guyot con distanza tra le file di 1,2 m e sulla fila di 0,8 m. Uso di pali tutori in legno di acacia o in cemento e vitigni di Malvasia nera, Nerello calabrese, Prunesta e Pinot nero. Localizzato in Calabria sulla Costa Viola. (Above, left and right) Terraced vineyards of the Enopolis cooperative on Costa Viola. Spurred cordon or Guyot vine training with 1.2 m between rows and 0.8 m between plants in each row. Acacia or concrete posts and Malvasia nera, Nerello Calabrese, Prunesta and Pinot nero grapes. Location: Costa Viola, Calabria region.

Territoriale Regionale nominato “Lo Stretto di Fata Morgana”. Quest’area è fortemente caratterizzata da un paesaggio terrazzato che si sviluppa lungo il versante tirrenico della Calabria meridionale per circa 20 km, dove la coltivazione della vite, secondo i primi dati certi, risale intorno all’anno 1000. Attualmente i vigneti sono situati a circa 1 km di distanza dalla costa e la superficie vitata totale è stimata in circa 200 ha, dove ben 195 si trovano in aree con pendenze superiori al 40%. In particolare la fascia altimetrica di distribuzione è compresa tra i 200 e i 400 metri, dove ricade il 55% della superficie utilizzata per la coltivazione. Il buono stato di conservazione dei 200 ettari di vigneto terrazzato oggi in produzione (foto 7 e 8) si deve alle specifiche politiche d’intervento a salvaguardia e recupero del paesaggio e dei vitigni, attivate nell’ultimo ventennio, e all’azione di concertazione e coordinamento portata avanti anche dalla Cooperativa Agricola Enopolis, istituita nel 2004. Tab. 1 - Casi studio: forma di conduzione, dimensione produttiva e contesto paesaggistico di appartenenza. Case studies: type of management, production size and belonging landscape context.

Imprese vitivinicole - Winemakers

Forma di conduzione Type of management

Superficie agricola totale (ha) Total agricultural surface (ha)

Superficie a vigneto (ha) Vineyard surface (ha)

Bottiglie di vino prodotte mediamente all’anno (*) Average wine bottles produced per year (*)

Contesto paesaggistico (**) Landscape context (**)

Fattoria di Lamole, Greve in Chianti (Firenze) Fattoria di Lamole, Greve in Chianti (Firenze)

Conduzione diretta Directly managed

270

16,5

6.000

Ambito territoriale Chianti. PIT Toscana Territorial area: Chianti. Tuscany PIT

Cantina Novelli del Gruppo Novelli, Giano dell’Umbria (Perugia) Cantina Novelli del Gruppo Novelli, Giano dell’Umbria (Perugia)

Conduzione con salariati Managed with employees

280.000

Paesaggio regionale dei Monti Martani a dominante fisico-naturalistica. PPR Umbria Landscape of the Martani Mountains dominated by physical and naturalistic components. PPR Umbria

800

56,0

91

./..


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Cantina Castello di Montevibiano Vecchio, Marsciano (Perugia) Cantina Castello di Montevibiano Vecchio, Marsciano (Perugia)

Conduzione con salariati Managed with employees

Cooperativa Enopolis Costa Viola, Villa San Giovanni (Reggio Calabria) Cooperativa Enopolis Costa Viola, Villa San Giovanni (Reggio Calabria)

Cooperativa agricola Cooperative farm

500

40

28,0

10,5

250.000

200.000

Paesaggio regionale del Tuderte a dominante storico-culturale. PPR Umbria Landscape of Tuderte dominated by historical and cultural components. PPR Umbria Ambito paesaggistico territoriale dello Stretto di Fata Morgana. QTRP Calabria Territorial area of the Fata Morgana channel. QTRP Calabria

(*): La produzione media annua della Cooperativa Enopolis è riferita alla Cantina Criserà che è socia della Cooperativa. The average production of Cooperativa Enopolis is referred to Cantina Criserà, a winery member of the cooperative. (**): Contesti paesaggistici individuati nell’ambito del PIT = Piano di Indirizzo Territoriale, PPR = Piano Paesaggistico Regionale, QTRP = Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico, delle rispettive Regioni. The landscape contexts are identified from the PIT = Piano di Indirizzo Territoriale (Territorial Plain), PPR = Piano Paesaggistico Regionale (Regional Landscape Plain), QTRP = Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico (Regional Territorial Landscape Panel), of thedifferent regions.

4.2 Tipologia del progetto paesaggistico e finalità Le motivazioni che hanno spinto gli imprenditori a realizzare la ricostruzione degli elementi paesaggistici sono legate, in misura diversa a seconda della mission aziendale, alla tutela ambientale, alla valorizzazione paesaggistica in termini visivi e/o storico-testimoniali, alla fruizione ricreativa e allo sviluppo locale, al miglioramento della qualità del vino prodotto, ai risultati economici derivabili dall’investimento effettuato (tab.2). Il peso delle singole motivazioni varia in base alla strategia generale adottata dalle singole imprese nel perseguire i loro obiettivi economici e sociali. Nel caso della Fattoria di Lamole il recupero ha riguardato le sistemazioni idrauliche agrarie (antichi terrazzi e acquidocci), interessando la forma di allevamento (alberello palizzato), i materiali per l’impianto come pali (in legno di castagno) e tutori (di acacia), la scelta dei vitigni (recupero di antichi vitigni). Per quest’ultimo aspetto sono stati selezionati i cloni tipici del Sangioveto di Lamole e reimpiantati franchi di piede (senza l’innesto con la vite americana). Il progetto di recupero ha riguardato 4,5 ettari di vigneto terrazzato ma l’attenzione si è concentrata sulla gestione della vigna Grospoli ampia 1,2 ettari che, per le sue caratteristiche strutturali, aveva prodotto in passato vini d’eccezione. Le strutture in pietra sono tornate così alla loro funzione fondamentale di regolazione idrogeologica e termica cedendo, dopo il tramonto, il calore accumulato durante il giorno. L’imprenditore, che conduce direttamente la sua azienda, ha voluto fermamente ritornare a fare un vino eccellente creando un laboratorio a cielo aperto dove, come lui stesso afferma, “studiare un “prototipo” e farlo diventare una “macchina di serie”. Il suo intervento ha avuto il pregio di aver riacceso i riflettori su un territorio rurale destinato ad un progressivo e inesorabile abbandono nonostante venga considerato la culla della viticultura chiantigiana. L’opportunità è stata colta grazie alla partecipazione della Fattoria di Lamole al programma Leader Plus toscano (2000-2006), nell’ambito del quale la zona del Chianti era tra le tre aree rurali regionali considerate prioritarie per gli interventi finalizzati a rivitalizzare il contesto socio-economico con strategie volte a valorizzare le risorse culturali oltre che naturali, incrementando al tempo stesso i livelli occupazionali e la qualità della vita. In tale contesto alla valorizzazione paesaggistico visiva e storico-testimoniale legata ai terrazzamenti e ai muretti a secco si è affiancata la valorizzazione delle strutture rurali di proprietà dell’impresa, rendendo parte delle abitazioni contadine di Lamole adatte ad ospitare sia turisti in cerca di riposo sia artisti in cerca di ispirazione. 92


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

Tab. 2 - Casi studio: tipologia del progetto paesaggistico e finalità. Case studies: Landscape project type and purpose. Finalità della ricostruzione degli elementi paesaggistici Purpose of the reconstruction of the landscape features

Imprese vitivinicole Winemakers

Fattoria di Lamole, Greve in Chianti (Firenze) Fattoria di Lamole, Greve in Chianti (Firenze)

Ricostruzione elementi del paesaggio viticolo Reconstruction of the landscape features related to the vineyards

Terrazzamenti e muretti a secco Terraces and drystone walls

Cantina Novelli del Gruppo Novelli, Giano dell’Umbria (Perugia) Cantina Novelli del Gruppo Novelli, Giano dell’Umbria (Perugia)

Forma allevamento della vite maritata vite maritata

Cantina Castello di Montevibiano Vecchio, Marsciano (Perugia) Cantina Castello di Montevibiano Vecchio, Marsciano (Perugia)

Vigneto storico con muro di cinta di epoca romana Historical vineyards with a boundary wall of the Roman period

Cooperativa Enopolis Costa Viola, Villa San Giovanni (Reggio Calabria) Cooperativa Enopolis Costa Viola, Villa San Giovanni (Reggio Calabria)

Terrazzamenti e muretti a secco Terraces and drystone walls

Realizzazione vigneto paesaggistico (ha) Landscape vineyard surface (ha)

Tutela ambientale Environmental protection

Valorizzazione paesaggistica Type of valorization

Fruizione ricreativa/ sviluppo locale Recreational function / local development

Qualità produttiva Advantages for the products

Valorizzazione produttiva attuale (ha)* Enhancement of the current production (ha)*

Fruizione ricreativa Recreational use

Ricostruzione microclima e fertilità del terreno Microclimate and soil fertility reconstruction

Antico Lamole Vigna Grospoli Chianti Classico DOCG (0,46 ha) Antico Lamole Vigna Grospoli Chianti Classico DOCG (0,46 ha)

1,2

Evitare il Paesaggisdissesto tico visiva idrogeologico, e storicoconservare la testiomobiodiversità niale Avoid hydroLandscape, geological aesthetic, risk, preserve historical biodiversity

0,5

Conservare la biodiversità Preserve biodiversity

Paesaggistico storicotestiomoniale Landscape, historical

Vigneto immagine Sample vineyard

Utilizzo vitigno Traibo Canpre-fillos- tina Novelli (0,5 ha) serico Use of a Traibo Cantina pre-phylNovelli (0,5 ha) loxera grapevine

1,0

Riduzione gas ad effetto serra Reducing greenhouse gases

Paesaggi­ stico visiva e storicotestiomoniale Landscape, aesthetic, historical

Fruizione ricreativa Recreational use

MicroVigna clima Lorenzo favorevole (1 ha) Positive Vigna Lorenzo microcli(1 ha) mate

7,0

Evitare il PaesaggisSviluppo dissesto tico visiva locale e idrogeologico, e storicofruizione conservare la testiomoricreativa biodiversità niale Local developAvoid hydroLandscape, ment and geological aesthetic, recreational risk, preserve historical use biodiversity

Vino “estremo” “extreme” wine

Armacìa IGT Costa Viola (2,70 ha) Armacìa IGT Costa Viola (2,70 ha)

(*): Superficie a vigneto paesaggistico la cui produzione di vino viene valorizzata sul mercato. (*): Surface of landscape vineyard producing grapes for marketed wine.

La Cantina Novelli è stata la prima in Umbria ad attivarsi per salvaguardare quel che resta della piantata umbro-marchigiana attraverso la valorizzazione di vigneti storici in produzione e la realizzazione, nei pressi della stessa cantina, di 0,5 ettari di “vigneto maritato” all’acero. Con la finalità principale di 93


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

riscoprire e valorizzare il trebbiano spoletino, un vitigno autoctono della zona di Spoleto, è stato attivato nel 2006 un complesso programma di ricerca, coordinato dal Prof. Attilio Scienza, che ha permesso di esaminare circa 1.500 viti storiche franche di piede e maritate agli aceri e agli olmi ancora presenti nella vallata di Spoleto e nelle montagne di Norcia, tra le quali sono state selezionate le 580 ritenute più interessanti, di età tra gli 80 e i 150 anni. Le piante selezionate, successivamente, sono state classificate in quattro biotipi e il loro materiale genetico è stato poi propagato permettendo di ottenere migliaia di barbatelle che hanno dato vita a diversi ettari di vigneti moderni di Trebbiano Spoletino, che nel 2011 ha ottenuto il riconoscimento di vino a Denominazione di Origine Controllata. Attraverso questo progetto l’azienda vitivinicola ha potuto rendersi conto anche del valore storicotestimoniale dei piccoli appezzamenti di vite maritata, ancora in vita grazie all’attaccamento di anziani agricoltori, e delle emozioni profonde che la bellezza visiva di questi vigneti riescono a suscitare ancora oggi. Da qui l’idea imprenditoriale di prendere in affitto alcune coltivazioni di vite maritata da destinare alla produzione di un vino proveniente esclusivamente da vitigni pre-fillosserici, e di impiantare, anche in questo caso secondo una impostazione prototipale, mezzo ettaro di vite maritata all’acero nei pressi della cantina. Questo vigneto, che entrerà in piena produzione tra tre anni, è destinato a diventare il “vigneto immagine” della cantina e testimone della volontà dell’impresa di coniugare tecniche moderne di coltivazione e vinificazione con la tradizione viticola del territorio. Con la Cantina di Montevibiano Vecchio si entra in un contesto agricolo all’avanguardia per quanto concerne la sostenibilità ambientale affiancata alla conservazione di un ambiente rurale che ha nel paesaggio uno dei punti di forza. L’azienda nel 2004 ha avviato un progetto pilota che le ha permesso di ottenere la prima certificazione in Italia “0 grenhouse emission” secondo lo standard ISO 14064 che attesta i risultati eco-sostenibili ottenuti dall’azienda, passata dalla produzione di +287 tonnellate di CO2 equivalente, nel 2004, a quella di -764 tonnellate di CO2 equivalente nel 2008. L’immagine dell’azienda è centrata sulla sua responsabilità ambientale che è stata consolidata attraverso una crescente attenzione nella gestione dei 200 ettari di bosco per incrementare la resa in assorbimento di CO2, la sostituzione di trattori alimentati a gasolio con trattori alimentati a biodisel, un aumento dell’utilizzo dei fertilizzanti organici in sostituzione di quelli minerali, la produzione e l’impiego di energia rinnovabile, l’uso di macchine elettriche per gli spostamenti interni all’azienda. In questo contesto si colloca l’attività vitivinicola dell’azienda ad emissioni zero, condotta su 37 ettari di vigneto moderno eco-compatibile di cui uno è considerato il fiore all’occhiello di tutta l’azienda per motivi sia storici che pedo-climatici, il cosiddetto “vigneto immagine” in cui confluiscono gli oltre 4.500 visitatori che l’azienda ospita durante i suoi eco-tour. La vigna si estende per circa un ettaro ed è circondata per metà da un muro costruito nel 217 a.C., epoca a cui risale anche la coltivazione della vite in questa zona. La vigna è stata impiantata nel 2006 dopo importanti lavori di pre-impianto finalizzati a ripristinare le caratteristiche tecniche e morfologiche dell’appezzamento che permettessero di sfruttare al massimo il micro-clima favorevole sempre in un’ottica di zero emissioni di gas ad effetto serra.. Il terreno è stato avvicendato per due anni per favorire un arricchimento in sostanza organica e poi inerbito a file alterne al fine di migliorare le caratteristiche di ritenzione idrica del suolo ed evitare di irrigare durante estate. Attenzione particolare è stata dedicata alla palificazione del vigneto realizzata completamente in legno, al ripristino del muro di epoca romana, alla fruibilità del vigneto per le visite con macchine elettriche attraverso una viabilità di accesso con siepi di alloro contornate da oliveti storici. La forma della vigna ad anfiteatro, posizionata in collina, che si apre su una vallata incontaminata, contribuisce a renderla magica. Questo vigneto può considerarsi una sintesi perfetta tra tradizione e innovazione come risposta alle odierne sfide in ambito climatico. Con la Cooperativa Enopolis della Costa Viola, che svolge la sua attività dal 2004, si entra in un contesto in cui la valorizzazione del paesaggio agrario, e dei valori storico-culturali che esso rappresenta, è strettamente legata allo sviluppo locale di un intero territorio che può contare prevalentemente su risorse paesaggistico-ambientali. Il principale intervento, realizzato dai viticoltori soci della cooperativa, ha interessato il ripristino e la manutenzione delle terrazze dette anche “rasule”. Queste sono costituite 94


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

da fasce vitate da 0,7-1 m fino a 2,5-3 m, sostenute da muri a secco, denominati “Armacìe”, di spessore variabile in funzione dell’elevazione che va da 1 a 3 m. L’accesso ai terrazzamenti avviene attraverso piccole scale in pietra di forma irregolare, ricavate direttamente nello spessore dei muretti o attraverso scale disposte parallelamente al muro, fungendo quindi anche da contrafforte, nei terrazzamenti più acclivi. Quest’ultima soluzione assume una doppia funzione: di contenimento e irrigidimento oltre che di regimazione delle acque meteoriche (acquidocci). I viticoltori hanno potuto contare su un lungo e proficuo lavoro di concertazione con la Cooperativa e gli Enti pubblici sia per il ripristino e mantenimento dei terrazzamenti e dei muretti a secco sia per implementare forme di meccanizzazione possibili in questa area come l’installazione di monorotaie, in rari casi di minitransporter e, più recentemente, di mini-teleferiche sperimentali. Per il ripristino e il mantenimento dei muretti a secco i viticoltori hanno usufruito di aiuti tramite iniziative pensate nell’ambito della programmazione integrata territoriale, secondo la quale la valorizzazione agricola costituisce un volano per la valorizzazione turistica e ambientale del territorio. In particolare i finanziamenti sono stati stanziati in un primo momento con la L.R. 34/86 per la difesa paesaggistica e ambientale, rimasta operativa dal 1990 al 1995 e, poi, con il PSR (2000-2006) nell’ambito delle misure agroambientali (misura F.2.b.). Successivamente sono stati previsti finanziamenti all’interno del Contratto di Programma vitivinicolo provinciale e del Piano vitivinicolo regionale. 4.3 Analisi economica attraverso i bilanci conguagliati L’analisi economica è stata effettuata ricorrendo allo strumento del bilancio conguagliato per tener conto della natura poliennale del vigneto il cui ciclo di produzione è in genere caratterizzato da intervalli di tempo contraddistinti da andamenti regolari delle produzioni, quali: stazione di impianto, caratterizzata da assenza di produzioni, durante la quale le piante vengono messe a dimora e si sviluppano; stazione di incremento, all’inizio del quale le piante entrano in produzione fino a raggiungere, con incrementi successivi, un livello stabile; stazione di maturità, durante la quale si realizzano le produzioni più elevate; stazione di decremento, durante la quale le produzioni vanno via via decrescendo (De Benedictis e Cosentino, 1979). Generalmente è durante la stazione di decremento che viene deciso di spiantare il vigneto poiché ritenuto non più economicamente conveniente. L’ultimo anno del ciclo di produzione, che generalmente coincide con l’anno di espianto, viene detto età del tornaconto. Occorre tener presente che in un bilancio conguagliato i valori attivi e passivi vengono determinati in riferimento a prezzi e produzioni medie di un certo numero di anni calcolati partendo dall’anno d’impianto e arrivando a quello di espianto del vigneto. Al fine di tenere in debito conto il fattore tempo è necessario posticipare i valori annuali (costi e produzione vendibile) alla fine del ciclo in modo da ottenere le annualità costanti posticipate disponibili alla fine del ciclo. Per l’imprenditore, infatti, non è indifferente che un determinato valore si verifichi in un anno anziché in un altro Si procede quindi calcolando sia la produzione vendibile annua conguagliata sia i costi annui conguagliati posticipando alla fine del ciclo i valori annuali attraverso le seguenti formule: n (1 + r ) n-j. r PV = Σ PVj. ---------------- [1] J=1 (1 + r ) n - 1 n (1 + r ) n-j. r C = Σ Cj. ------------------- [2] J=1 (1 + r ) n - 1 Dove: PV = produzione vendibile annua conguagliata 95


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

C = costo annuo conguagliato PVj = produzione vendibile nell’anno generico j Cj = costo nell’anno generico j r = tasso di interesse n = anni di durata del ciclo produttivo j = anno generico del ciclo produttivo Per ogni caso studio quindi si è proceduto al calcolo, a prezzi 2011, dei costi e della produzione vendibile dei singoli cicli produttivi la cui lunghezza, per tutti i casi, è stata ipotizzata di 21 anni. In particolare i costi si riferiscono ai costi di investimento sostenuti per l’impianto, ai costi di gestione per l’intero ciclo produttivo, ai costi per la vinificazione e la commercializzazione dei vini in bottiglie da 0,75l, ottenuti nelle cantine delle rispettive imprese; mentre la produzione vendibile è stata riferita alla commercializzazione dell’intera produzione di vino in bottiglie nei vari cicli di produzione secondo i prezzi di vendita del vino in cantina o in fattoria praticati nel 2011. I risultati relativi alla stima dei costi e delle produzioni vendibili per ogni anno del ciclo produttivo sono stati riportati nella tabella 3. Essi derivano da indagini dirette condotte presso le rispettive aziende nel corso del 2011, in cui si sono approfonditi gli aspetti riguardanti la ristrutturazione dei vigneti paesaggistici, e del 2012, in cui si sono approfonditi gli aspetti economici legati alla fase di vinificazione e a quella di commercializzazione dei vini. Tab. 3 - Costi e produzioni vendibili dei rispettivi cicli produttivi dei vigneti paesaggistici, dati riferiti ad un ettaro. Costs and saleable productions of landscape vineyards; values per hectare.  (valori in euro, produzione uva in quintali, produzione vino in bottiglie da 0,75 l) (values in euros, grape production in quintals, wine production in 0,75 litres bottles)

Vigna, costi Vineyard, cost Impianto Establishing 1° anno 1st year

Vigna Grospoli Antico Lamole Chianti Classico DOCG Vigna Grospoli Antico Lamole Chianti Classico DOCG Totale costi Uva Total cost Grapes

Cooperativa Enopolis Costa Viola Armacìa IGT Cooperativa Enopolis Costa Viola Armacìa IGT

Cantina Novelli Traibo Cantina Novelli Traibo

Cantina Castello di Montevibiano Vecchio Vigna Lorenzo Cantina Castello di Montevibiano Vecchio Vigna Lorenzo

Totale costi Total costs

Uva Grapes

Totale costi Total costs

Uva Grapes

Totale costi Total costs

Uva Grapes

143.458

78.168

79.876

34.000

2.091

4.243

3.658

1.900

2° anno 2nd year

4.837

3.048

3.658

4.200

3° anno 3rd year

5.643

20

3.970

40

3.788

5.200

20

4° anno 4th year

5.943

40

4.770

50

6.000

30

4° e 5° anno 4th and 5th year

4.310

15

dal 5° al 20° anno 5th-20th year

6.483

60

5.170

60

6.545

40

dal 6° al 20° anno 6th-20th year

15.630

75

Totale costi Total costs

Bottiglie vino Wine bottles

Totale costi Total costs

Bottiglie vino Wine bottles

Totale costi total costs

Bottiglie vino Wine bottles

Totale costi Total costs

Bottiglie vino Wine bottles

3° anno 3rd year

13.207

1.402

11.212

2.803

-

12.296

1.402

4° anno 4th year

26.404

2.803

14.016

3.504

-

18.435

2.102

Cantina, costi Cellar, costs

96

./..


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani 4° e 5° anno 4th and 5th year

-

-

8.997

1.051

-

dal 5° al 20° anno 5th-20th year

39.611

4.205

16.820

4.205

-

24.582

2.803

dal 6° al 20° anno 6th-20th year

-

-

44.991

5.256

-

Cantina, produzione vendibile Cellar, saleable production

Produzione vendibile Saleable production

Bottiglie vino Wine bottles

Produzione vendibile Saleable production

Bottiglie vino Wine bottles

Produzione vendibile Saleable production

Bottiglie vino Wine bottles

Produzione vendibile Saleable production

Bottiglie vino Wine bottles

3° anno 3rd year

35.050

1.402

30.833

2.803

-

35.050

1.402

4° anno 4th year

70.075

2.803

38.544

3.504

-

52.550

2.102

4° e 5° anno 4th and 5th year

-

-

18.918

1.051

-

dal 5° al 20° anno 5th-20th year

105.125

4.205

46.255

4.205

-

70.075

2.803

dal 6° al 20° anno 6th-20th year

-

-

94.608

5.256

-

Fonte: Nostre elaborazioni da indagini dirette, 2011 e 2012 - Source: Our eleborations from direct investigations, year 2011 and 2012

Si precisa che nei costi di impianto sono stati compresi i costi di ripristino dei muretti a secco nel caso dei vigneti terrazzati di Lamole e della Costa Viola; i costi per la formazioni delle tirelle necessarie per completare la costituzione dell’alberata, sostenuti nei 5/6 anni successivi all’impianto fino all’entrata in produzione delle viti maritate; i costi per il ripristino del muro di epoca romana e della viabilità con cui si accede al vigneto immagine di Montevibiano Vecchio. Per l’analisi dettagliata di tali costi e di quelli relativi alla gestione dei vigneti si rinvia al lavoro di Torquati, Giacché e Venanzi (2011). L’analisi dei costi sostenuti dall’arrivo dell’uva in cantina fino alla vendita del vino in bottiglie da 0,75l è stata effettuata in due step: nel primo sono stati ricostruiti i costi di produzione e di commercializzazione sostenuti mediamente dalle quattro cantine per le operazioni comuni a tutta la produzione viticola; nel secondo si sono valutati i costi aggiuntivi inerenti la produzione specifica dei vini provenienti dai vigneti paesaggistici. La prima tipologia di costi risente, ovviamente, della dimensione produttiva della cantina che ricordiamo essere in media all’anno di 6.000 bottiglie per la Fattoria di Lamole, di 200.000 bottiglie per la Cantina Criserà, di 250.000 bottiglie per la Cantina di Montevibinao Vecchio e di 280.000 bottiglie per la Cantina Novelli (tab.1). La seconda tipologia di costi riguarda i maggiori costi sostenuti per le fasi di vinificazione, di imbottigliamento e di affinamento in botti specificamente realizzate per le uve provenienti dai vigneti paesaggistici, nonché i maggiori costi sostenuti per attività di marketing e di comunicazione dedicate specificamente ai vini prodotti con uve provenienti dai vigneti paesaggistici. Sommando ai costi di cantina e di commercializzazione i costi di produzione dell’uva si è ottenuto il costo totale di produzione vitivinicola che, espresso per bottiglia prodotta, è risultato di: 6,86 euro per l’Armacìa IGT; 12 euro per il vino di Vigna Lorenzo; 12,74 euro per il Traibo; 14 euro per Antico Lamole Chianti Classico DOCG. Sottolineiamo che il valore di 12 euro per il vino di Vigna Lorenzo, riportato solo per completezza di analisi, va considerato come del tutto indicativo poiché la strategia commerciale e di comunicazione della Cantina di Montevibiano per il vino proveniente dal suo vigneto immagine segue una strada diversa dalle altre imprese. Per il criterio di omogeneità, di seguito, non verranno presi in considerazione i risultati economici della Cantina di Montevibiano a cui verrà dedicato uno spazio specifico nel quinto paragrafo. Dall’analisi condotta è possibile notare come cambia l’incidenza delle diverse voci di spesa sul costo totale di produzione (tab. 4). Il costo di produzione dell’uva in tutti i casi esaminati risulta essere il costo mag97


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

giore andando ad incidere per il 42% per l’Armacìa IGT e per il 33% nei casi del Chianti Classico DOCG e del Traibo. Segue il costo di vinificazione/affinamento il cui peso ha un’incidenza che vari dal 21% nel caso del Traibo al 26% nel caso dell’Armacìa IGT. Per gli altri costi si registrano le seguenti oscillazioni: i costi di imbottigliamento e confezionamento variano dal 4% per l’Armacìa IGT al 10% per il Traibo; i costi generali assumono un peso del 4% per l’Armacìa IGT che diventa del 10% per il Traibo; la remunerazione per il capitale fondiario e agrario e la voce di spesa inerente gli interessi passivi oscilla dal 4% per l’Armacìa IGT all’8% per il Traibo; i costi sostenuti per il marketing e la distribuzione variano dal 10% per l’Armacìà e il Chinati Classico al 19% per il Traibo. La produzione vendibile è stata stimata ipotizzando la commercializzazione di tutta la produzione di vino ricavabile dagli ettari di vigneto paesaggistici nelle diverse fasi del ciclo produttivo e utilizzando il prezzo medio di vendita della bottiglia in azienda nel 2011, che è risultato essere in media rispettivamente di 11 euro per l’Armacìa IGT, di 18 per il Traibo e di 25 euro per il Chianti Classico DOGC (tab.4 ). Il calcolo dei bilanci conguagliati ha richiesto, inoltre, la difficile scelta del tasso di interesse da adottare. È noto che esso varia negli anni, e che è strettamente dipendente dalla lunghezza del periodo a cui si fa riferimento e del grado di rischiosità dell’investimento. Consapevoli dell’aleatorietà di tale scelta si è preferito far riferimento ad un tasso di interesse medio costante, inteso come saggio medio di preferenza temporale dell’imprenditore, che è stato supposto pari ad un minimo del 2% ad un massimo del 6%. Tab. 4 - Costi di produzione e ricavi dei vini prodotti nei vigneti paesaggistici, dati riferiti ad una bottiglia di 0,75l - Production costs and income for the wines produced from the landscape vineyards; datas reported to a 0,75 litres bottle. Vigna Grospoli Antico Lamole Chianti Classico DOCG Vigna Grospoli Antico Lamole Chianti Classico DOCG

Cooperativa Enopolis Costa Viola Cantina Novelli Traibo Armacìa IGT Cantina Novelli Traibo Cooperativa Enopolis Costa Viola Armacìa IGT

Costo di produzione dell’ uva - Grapes production cost

33%

4,58

33%

4,18

42%

2,86

Vinificazione e affinamento - Vinification

25%

3,50

21%

2,64

26%

1,80

Imbottigliamento e materiale confezionamento Bottling and packaging material

16%

2,20

9%

1,20

15%

1,00

Costi generali - General costs

9%

1,32

10%

1,32

4%

0,25

Remunerazione capitale fondiario e agrario, interessi passivi Payment for land and agricultural capital, interest expenses

7%

1,00

8%

1,00

4%

0,25

Marketing e distribuzione - Marketing and delivery

10%

1,40

19%

2,40

10%

0,70

Costo totale di produzione vitivinicola Total cost of wine production

100%

14,00

100%

12,74

100%

6,86

Ricarico sul costo di produzione Final price in percentage production cost

48%

6,66

17%

2,14

33%

2,23

20,66

14,88

9,09

21%

4,34

21%

3,12

21%

1,91

25,00

18,00

11,00

Prezzo di vendita al netto dell’Iva Selling price without VAT (euros) Imposta del valore aggiunto (Iva) - VAT (% and euro) Prezzo di acquisto del consumatore in azienda Final price at the farm for consumers (euro)

Fonte: Nostre elaborazioni da indagini dirette, 2011 e 2012 - Source: Our eleborations from direct investigations, year 2011 and 2012.

Si è proceduto al calcolo del bilancio conguagliato applicando la formula [3] e utilizzando sia il saggio del 2% che quello del 6%. 98


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

n (1 + r) n-j. r Bilancio conguagliato= PV – C = Σ (PVj – Cj). ------------------- [3] J=1 (1 + r ) n - 1 I risultati, riportati nella tabella 5, stanno ad indicare il risultato di esercizio medio annuo ricavabile dai vigneti paesaggistici in relazione alle ipotesi di calcolo via via indicate. Ad un tasso di interesse del 6% l’annualità media costante risulta pari a 46.205 euro per un ettaro di vigneto terrazzato nella Fattoria di Lamole, a 13.353 euro per un ettaro di vigneto con vite maritata nella Cantina Novelli, a 11.077 euro per un ettaro di vigneto terrazzato nella cooperativa Enopolis Costa Viola. Valori che sottolineano la convenienza economica degli investimenti effettuati dagli imprenditori misurata in termini di reddito annuo costante. Tab. 5 - Analisi economica: i bilanci conguagliati. Economic analysis: multi-year balances. Bilancio conguagliato Multi-year balance

Valorizzazione produttiva (%) Grapes used for wine (%)

(r=2%)

(r=6%)

Vigneto terrazzato con muretti a secco - Chianti Classico DOCG Terraced vineyard with dry-stone walls - Chianti Classico DOCG

100

55.030

46.205

Vigneto con vite maritata - Traibo Vineyard with vite maritata - Traibo

100

17.050

13.353

Vigneto terrazzato con muretti a secco - Armacìa IGT Terraced vineyard with dry-stone walls - Armacìa IGT

100

14.529

11.077

Vigneto terrazzato con muretti a secco - Chianti Classico DOCG Terraced vineyard with dry-stone walls - Chianti Classico DOCG

38

7.795

2.742

Vigneto terrazzato con muretti a secco - Armacìa IGT Terraced vineyard with dry-stone walls - Armacìa IGT

40

2.668

104

Vigneto - Vino / Vineyard - Wine

Bisogna tener presente che, attualmente, la Fattoria di Lamole e la Coopertiva Enopolis non valorizzano tutta la produzione dell’uva attraverso la vendita rispettivamente dei vini Chianti Classico DOCG e Armacìa IGT, poiché: nel primo caso viene vinificata solo il 38% dell’uva proveniente dalla Vigna Grospoli mentre il restante 62% viene venduta a 0,9 euro al chilo; nel secondo caso viene vinificata dalla cooperativa solo il 40% dell’uva proveniente dai vigneti terrazzati dei soci mentre ben il 60% viene trattenuta dai soci stessi per autoconsumo (in questo caso il valore dell’uva è stato stimato pari a 0,7 euro al chilo). In base all’attuale modalità di commercializzazione i valori dei bilanci conguagliati indicano comunque il raggiungimento di un reddito che, però, si riduce a 104 euro nel caso della Cooperativa Enopolis (2.668 con un saggio medio di preferenza temporale dell’imprenditore del 2%) e a 2.742 nel caso della Fattoria Di Lamole (7.795 con un saggio medio di preferenza temporale dell’imprenditore del 2%) (tab.5). 4.4 Valutazione dei progetti di investimento La valutazione economico-finanziaria è stata realizzata utilizzando il metodo del tasso di redditività attualizzato. Tale metodo permette di stabilire se la redditività attualizzata dell’investimento è superiore al costo del capitale e per far questo si attualizzano i redditi futuri derivanti dall’investimento (Torquati, 2003). Nel procedere alla valutazione si sono prima presi in considerazione, come nell’analisi 99


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

con i bilanci conguagliati, sia i costi degli investimenti sostenuti per realizzare i vigneti paesaggistici sia i costi e le produzioni vendibili calcolate per i singoli anni dei cicli produttivi. Successivamente si è proceduto con la valutazione economico-finanziaria basata sull’attualizzazione di tali valori calcolando: il Valore Attuale Netto (VAN), utilizzando la formula [4]; il Tasso di Rendimento Interno (TRI), cioè quel tasso di attualizzazione per il quale il flusso monetario generato dai costi risulta uguale al flusso monetario generato dalla produzione vendibile (VAN = 0); il punto di pareggio temporale dell’investimento, nominato break even finanziario del ritorno dell’investimento, che rappresenta il periodo necessario affinché le risorse assorbite nel tempo dall’investimento (costi cumulati inclusi gli investimenti) eguagliano il totale delle risorse generate dall’attività (produzioni vendibili cumulate). n1 VAN = Σ (PVj – Cj). ------------ [4] J=0 (1 + i) j Dove: j = 0 corrisponde all’anno in cui viene fatto l’investimento i = costo attuale del capitale I risultati dell’analisi, effettuata considerando un costo attuale del capitale pari al 6%, confermano la sostenibilità economica di tutti gli investimenti in “vigneti paesaggistici” esaminati. Dal momento che un progetto risulta tanto più conveniente quanto più elevato è il suo valore attuale netto, il più conveniente risulta quello realizzato nella zona del Chianti, seguito da quello relativo all’impianto della vite maritata, per finire con quello realizzato in Costa Viola. I valori assunti dai rispettivi tassi di rendimento interni, oltre a sottolineare la validità degli investimenti, permettono di valutare la convenienza dell’investimento in funzione della differenza tra questo tasso e quello da corrispondere per il reperimento dei finanziamenti necessari per attuare l’investimento (tab. 6). Il divario, per i vigneti esaminati, oscilla tra i 21,5 punti percentuali nel caso dei vigneti nel Chianti e i 12 punti percentuali nel caso dei vigneti in Costa Viola. Fig. 9 - Ricostruzione di un paesaggio vitivinicolo storico ed effetti diretti e indiretti su sviluppo locale e ambiente (suolo, biodiversità, clima) - Restoration of an historical vineyard landscape and direct and indirect effects on local development and environment (soil, biodiversity, climate).

ENVIRONMENT

direct effect

indirect effect

indirect effect

direct effect LOCAL DEVELOPMENT

100


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

I tempi di ritorno degli investimenti invece coincidono con il sesto anno di gestione del vigneto nel Chianti, con il settimo anno di gestione del vigneto maritato nella zona di Spoleto e con l’ottavo anno di gestione del vigneto in Costa Viola. Tab. 6. Analisi economica: la valutazione dei progetti di investimento - Economic analysis: assessing investment projects. Valorizzazione produttiva (%) Productive efficiency (%)

Valore attuale netto (euro) Current net value (euros)

Saggio di rendimento interno Internal profit rate

Break Even Finanziario Financial break-even

Vigneto terrazzato con muretti a secco Chianti Classico DOCG / Terraced vineyard with dry-stone walls - Chianti Classico DOCG

100

576.167

27,5%

5° anno 5° year

Vigneto con vite maritata - Traibo / Vineyard with vite maritata - Traibo

100

166.516

19,5%

6° anno 6° year

Vigneto terrazzato con muretti a secco Armacìa IGT / Terraced vineyard with dry-stone walls - Armacìa IGT

100

138.135

18,0%

7° anno 7° year

Vigneto terrazzato con muretti a secco Chianti Classico DOCG / Terraced vineyard with dry-stone walls - Chianti Classico DOCG

38

34.194

8,0%

11° anno 11° year

Vigneto terrazzato con muretti a secco Armacìa IGT / Terraced vineyard with dry-stone walls - Armacìa IGT

40

1.302

6,1%

12° anno 12° year

Vigneto - vino / Vineyard - Wine

I risultati cambiano sostanzialmente prendendo in considerazione l’attuale modalità di valorizzazione delle uve provenienti dalle due tipologie di vigneti terrazzati della Fattora di Lamole e della Cooperativa Enopolis (tab. 6). I valori positivi assunti del VAN confermano la validità degli investimenti ma sottolineano una situazione meno solida, saggi di rendimenti interni molto simili al costo del capitale e punti di pareggio temporali realizzati oltre il decimo anno di gestione del vigneto. 5. Discussione dei risultati Ogni caso analizzato presenta della particolarità che contraddistinguono il tipo di intervento e la strategia imprenditoriale. Il caso della Fattoria di Lamole si distingue in quanto tutto l’intervento di ripristino è stato determinante per la regolazione idreo-geologica del terreno e per la ricostruzione di un microclima adatto alla produzione del vino che ha influito sulla qualità del vino stesso. Il caso della Cantina Novelli è importante per il recupero non solo di una forma di allevamento (la vite maritata) ma anche di ceppi storici di vite che risalgono a prima dell’attacco della fillossera che ha portato all’introduzione di portainnesti americani. Gli altri due casi si distinguono per un intervento di più ampio respiro: nel caso della cantina di Montevibiano Vecchio l’impianto del vigneto è parte di un progetto ambientale complessivo per l’abbattimento delle emissioni di CO2 del ciclo di produzione del vino mentre, nel caso della Costa Viola, la ricostruzione di un paesaggio storico ha assunto una valenza di sviluppo locale e di coesione sociale attraverso la costituzione di una cooperativa per la produzione e commercializzazione del prodotto. I motivi sociali che hanno spinto le imprese a realizzare gli interventi paesaggistici, internalizzando la risorsa paesaggio e promuovendola a fattore della produzione, possono essere ricondotti a due categorie (ambiente e sviluppo locale) e a due tipologie di effetti (diretto e indiretto) (fig.9). La Cooperativa Enopoli è l’unica ad esercitare sia un effetto diretto sull’ambiente, legato alla salvaguardia del dissesto idrogeologico e alla tutela della biodiversità, sia un effetto diretto sullo sviluppo locale, legato al ruolo 101


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

assunto dalla cooperativa come coordinatrice e promotrice di iniziative collegate al contesto territoriale. Tutte e tre le imprese private, invece, esercitano un effetto indiretto sullo sviluppo locale legato alla loro capacità di attirare enoturisti e di proporsi all’attenzione delle altre aziende come aziende guida. Ognuna di loro invece ha un effetto diretto sull’ambiente che si concretizza nella riduzione di gas ad effetto serra per la Cantina di Montevibiano, la conservazione della biodiversità per la Cantina Novelli, nella salvaguardia del dissesto idrogeologico e nella tutela della biodiversità per la fattoria di Lamole. Tutte le imprese hanno puntato sulla valorizzazione del prodotto vino sul mercato facendo leva su alcuni attributi piuttosto che su altri: su una qualità di eccellenza nel caso della Fattoria di Lamole; sulla specificità di un vino pre-fillosserico e dell’emozione legata al consumo di un vino che proviene da un albero oltre che da una vite nel caso della Cantina Novelli; sul legame che esiste tra vino e territorio nel caso della Cooperativa Enopolis; sul concetto “migliorare l’ambiente” attraverso la viticoltura nel caso della Cantina di Montevibiano Vecchio. La strategia commerciale e di comunicazione della cantina di Montevibiano per il vino proveniente dal suo vigneto immagine è strettamente legata alla filosofia aziendale completamente rivolta alla salvaguardia ambientale. Il vino proveniente dalla vigna Lorenzo rappresenta il biglietto da visita dell’intera azienda in quanto coniuga gli aspetti ambientali con quelli più puramente paesaggistici e con quelli storico-culturali dell’azienda e del suo territorio. L’imprenditore intende proseguire il progetto ambientale, che ha permesso alla sua azienda di ottenere la certificazione “0 grenhouse emission”, migliorando le performance ambientali già ottenute attraverso una forte campagna di comunicazione che vede proprio nella Vigna Lorenzo una fonte di finanziamento. Il vino prodotto da questa vigna, che ogni anno riceve in vista oltre 4.500 enoturisti, è destinato ad essere consumato sul posto da coloro i quali “sposando una idea”, come afferma lo stesso imprenditore, si ritrovano una volta all’anno a condividere un momento conviviale all’interno delle viti che sono stati disposti a prendere in adozione. Nelle imprese esaminate gli imprenditori agricoli sono soggetti attivi di un processo di cambiamento che ha origini urbane, dove sempre più numerosi sono i cittadini che desiderano consumare il prodotto nel luogo di produzione, vedere i luoghi, conoscerne la storia e le tradizioni. Pertanto aver ricostruito il paesaggio ha significato arricchire, più che ridimensionare, la funzione produttiva agricola a vantaggio della funzione ambientale-conservativa e ricreativa-turistica. Non sorprende quindi constatare all’interno di queste imprese la presenza di strutture di ospitalità e accoglienza. I risultati economici, che sono stati valutati secondo la direttrice della creazione del valore aggiunto legato al vino proveniente dal vigneto paesaggistico, sono confortanti per proseguire sulla strada della ricostruzione del paesaggio in un contesto aziendale anche senza il ricorso ad aiuti pubblici (non considerati nell’analisi economica effettuata). Ovviamente, il livello del successo economico dipende dalla forza che ha l’impresa di comunicare la valenza del prodotto e di ridurre i condizionamenti provenienti dall’industria alimentare e dalla grande distribuzione. Le performance di vendita attualmente raggiunte dalla fattoria di Lamole e dalla Cooperativa di Enopolis non sono da considerarsi espressione della difficoltà dell’impresa di imporre il proprio prodotto sul mercato ma, più che altro, espressione dei tempi necessariamente lunghi richiesti per far affermare un vino destinato prevalentemente ad essere consumato nei canali diretti e in quelli più esclusivi. Gli andamenti delle vendite degli ultimi anni sono stati infatti progressivamente crescenti sia per il Chianti Classico DOCG che per l’Armacìa IGT, e sempre più orientati verso la vendita diretta (rispettivamente per il 30 e 20%), la vendita presso la ristorazione e agriturismi (rispettivamente del 30 e 40%), la vendita presso enoteche e negozi specializzati (rispettivamente del 40 e 35%) 6. Conclusioni La lettura del fenomeno della valorizzazione dei paesaggi viticoli italiani da parte delle imprese agricole, e la messa a confronto sia dei motivi che hanno determinato tale scelta sia i risultati economici ottenuti, induce ad alcune riflessioni di carattere generale. 102


B. Torquati, G. Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani

In primo luogo i casi esaminati testimoniano come i cambiamenti nella società stanno comportando a livello di impresa agricola una rielaborazione delle funzioni svolte dall’agricoltura, sempre più chiamata a costruire una nuova integrazione tra i valori del mondo rurale (ambiente, paesaggio, tradizioni e cultura rurale) e le richieste del mondo urbano (fruizione della campagna, miglioramento della qualità della vita, riscoperta della propria identità). Riprendendo il concetto di legge d’inerzia del paesaggio agrario del Sereni (1961, p. 52) secondo cui “una volta fissato in determinate forme, tende a perpetuare – anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l’origine – finché nuovi e più decisivi sviluppi di tali rapporti non vengano a sconvolgerle”, ci sembra di poter affermare che le nuove istanze del mondo urbano hanno riacceso l’interesse, sociale ed economico, per quelle forme storiche della viticoltura italiana, come i vigneti terrazzati con i muretti a secco e la vite maritata all’acero, perpetuatisi per inerzia in alcuni contesti sociali e territoriali e che oggi ri-nascono grazie a nuovi rapporti tecnici, produttivi e sociali. I risultati economici positivi ottenuti dalle imprese esaminate dimostrano che non sono tanto i contesti socio-economici in cui opera l’impresa che determinano il successo o l’insuccesso dell’investimento paesaggistico ma quanto la capacità di costruire una strategia aziendale di differenziazione del prodotto in grado di maturare un vantaggio competitivo, cioè di creare un valore per il cliente. Ciò sta a significare che il cliente deve percepire una maggiore utilità nel consumare un vino che proviene da un vigneto paesaggistico rispetto ad un vino più anonimo dal punto di vista del paesaggio, utilità che sarà tanto maggiore quanto più l’attributo paesaggio è connesso ad altri attributi ambientali e legato alla conoscenza e fruizione del territorio. La scelta del metodo dei casi studio – giustificata dalla presenza di tre condizioni: a) attenzione focalizzata su di un fenomeno contemporaneo all’interno di un contesto di vita reale (Yin, 2009); b) quesiti posti sul “come” e “perché” le imprese investono sulla risorsa paesaggio; c) la necessità di quantificare i risultati ottenuti dal punto di vista economico – si è dimostrata valida e si ritiene che, in questa fase di cambiamento della società, continuare ad indagare le realtà empiriche è indispensabile sia per attivare una riflessione teorica adeguata sia per trovare i giusti suggerimenti e la giusta scala di intervento per una politica del paesaggio che tarda a concretizzarsi utilizzando strumenti operativi diversi dalla tutela.

Bibliografia Brunori G., (a cura di) (2012), Le reti della transizione. Impresa e lavoro in un’agricoltura che cambia, Felici Editore, Pisa Brunori G., (2003), Sistemi agricoli territoriali e competitività, in Aa.Vv. La competitività dei sistemi agricoli italiani. Atti XXXVI Convegno SIDEA, Padova Cole A. H. (1959), Business enterprise in its social setting, Harvard University Press Corno F. (1995), Imprenditorialità, in Caselli L. (a cura di) Le parole dell’impresa. Guida alla lettura del cambiamento. Franco Angeli, Documenti Isvet, Milano De Benedictis M., Consentino V. (1979), Economia dell’azienda agraria, Il Mulino, Bologna Knight F. H. (1921), Risk, Uncertainty and profit. Schaffner & Marx, Houghton Mifflin Co., Boston, MA Yin R. K. (2009), Case Study Research. Design and Methods, fourth edition, Sage, USA Merlo M., (1995), Tipologie di sviluppo economico-territoriale e strutturale agricole, in Mantino F. (a cura di), Impresa agraria e dintorni. Contributi allo studio dell’impresa e delle sue trasformazioni nel territorio, Inea, Roma Pierguidi A. (2010), Le colline di Montefalco, in Agnoletti M. (a cura di) Paesaggi Rurali Storici. Per un catalogo nazionale, Editori Laterza, Bari Pieroni P., Brunori G., (2007), La (ri-)costruzione sociale del paesaggio nella campagna contemporanea: processi, problematiche, politiche per uno sviluppo rurale sostenibile, in Brunori G., Marangon F., Reho M. (a cura di), La gestione del paesaggio rurale tra governo e governance territoriale, Franco Angeli, Milano Schumpeter J. (1971), La teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze Sereni E. (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari Torquati B. (2003), Economia e gestione dell’impresa agraria, Il Sole 24 Ore, Edagricole, Bologna 103


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Torquati B. (2009), Valorizzazione dei territori viticoli: produzione di qualità - paesaggi di qualità. Architettura del paesaggio, CD Overview, allegato al n. 21 Torquati B., Giacché G., Bodesmo M., Gioffrè L., Bruni A., Ghiglioni G. (2011), Lettura paesaggistica degli interventi strutturali nel settore vitivinicolo: una proposta metodologica, in Marone E., Scozzafava G. (a cura di) La valutazione dei finanziamenti pubblici per le politiche strutturali. Atti del XL Incontro di Studio del Ce.S.E.T., Firenze University Press, pp. 157-173 Torquati B., Giacché G. (2010), Rapporto città-campagna, in Agriregionieuropa. n. 20 Torquati B., Giacché G., Venanzi S., (2011), The restoration and the development of the historical Italian wine-growing landscapes: comparino the three case studies. Paper presented at the 2nd International Conference on Landscape Economics, july 4-6, Padua, Italy Viaggi D. (2012). Maggiore attenzione all’imprenditorialità per favorire i comportamenti innovativi, in Agriregionieuropa, n. 28

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Entrepreneurial Models and the Promotion of Historical Italian Vineyard Landscapes: Four Case Studies Biancamaria Torquati, Giulia Giacché Dipartimento di Scienze Economico-Estimative e degli Alimenti dell’Università di Perugia 1

1. Introduction The town/country opposition typical of industrial societies has been weakening over the past few decades as a “new socio-economic development area” emerged, neither town nor country, in which the various functions of industrial and post-industrial society are performed (Merlo, 1995). Currently, experts tend to think of the urban and the rural as related, and emphasize the new attitude of society towards the countryside, generally associated with positive values, including landscape beauty, peacefulness, a healthy environment, genuine food products, and positive social interactions (Torquati, Giacché; 2010). This new context opens up new opportunities for farmers as a result of the combined demand for quality environment and quality food products. More specifically, there is growing consumer interest in safe and traditional food products, associated with beautiful landscapes, farmhouse tourism, recreational activities and the possibility of visiting production facilities. Within this new context, the structural and functional confines of the farming business have become less defined and more complex than in the past. Within this “new socio-economic area,” farms are resuming their historical leadership in local economies by offering services and goods that make the most of natural, historical and cultural resources, while respecting them. A number of farms have begun to promote their products and their image using the natural and historical assets of the local agricultural landscape, especially in the hilly areas of south-central Italy, were smallholding was the dominant form of property. In the present article, inspired by the pioneering work of Emilio Sereni, we intend to approach the study of the rural landscape from a bottom-up perspective, focusing on the internal organization of a number of farms and looking not only at technical and economical characteristics, but also at social and cultural aspects. We decided to focus on viticulture because it is the agricultural sector most integrated with the kind of tourism that is interested in quality food products associated with a specific place of origin, and also the sector that, more than others, has responded to market changes by increasing the appeal of their products rather than cutting production costs. Within this sector, we selected four casestudies on the basis of the following criteria: 1) the recreation of aspects of the traditional agricultural landscape for the purpose of protecting the environment and promoting rural development; 2) production for the market; 3) a specific form of farming organization; 4) a location in central or southern Italy. Our study of these four cases evidences how the restoration of the traditional agricultural landscape can help to protect the environment and promote rural development, and highlights the role of agricultural landscape as a local economic resource and the dialectic relationship between economic activities and landscape management in rural areas. We decided to use a case-study approach in the belief that, in order to carry out a theoretical reflection on the importance of agricultural landscape and its potential role in this period of great changes, Authors thanks Dr. Agronomo Marco Serafini of Cantina Novelli, Dr. Agronomo Giuseppe Beldono and il Dr. Agronomo Rosario Previtera respectively Technical Manager and Consultant of Cooperativa Enopolis Costa Viola, Dr. Paolo Socci owner of Fattoria di Lamole, Dr. Lorenzo Fasola owner of Cantina Montevibiano Vecchio, who have supplied technical and economical data of the cases and for their professionalism: they have made this work possible.

1

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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

it is essential to start from a solid empirical basis, as Brunori (2012) has already stressed with reference to the more general context of multifunctional agriculture. The primary goal of our study was to assess the economic performance of four Italian winemaking farms that have restored traditional vineyards and produce quality wines, while at the same time restoring the historical viticultural landscape and contributing to the protection of the environment and the preservation of local socio-cultural characteristics. Our secondary goal was to offer a few theoretical considerations on: i) the relationship between the use of landscape as a resource and entrepreneurial strategies; ii) the influence of landscape restoration on the re-orientation of agriculture towards recreational tourist activities and environmental protection. The present article is structured as follows: in the second section, after this introduction, we will briefly outline the competitive dynamics of the Italian winemaking sector and the innovative strategies adopted by entrepreneurs in recent decades; in the third section, we will outline the most significant aspects of the gradual simplification undergone by the Italian vineyard landscape and the new interest in historical vineyards that has arisen among certain types of farming businesses; in the fourth section, after examining the landscape context and the use of endogenous resources in our four case studies, we will illustrate our economic analysis, based on adjusted balances and the assessment of investment projects; in the fifth section, we will discuss the results of our economic analysis and the different entrepreneurial models highlighted by our study; in the sixth and last section, we will present our conclusions. 2. Competition and innovation in Italian winemaking In recent decades, winemakers have sought to gain competitive advantages by promoting brands associated with specific geographical areas. The reason is that the quality and characteristics of top wines is highly dependent on their terroir, i.e., the natural factors (soil, climate, etc.) associated with a particular area, as well as on local winemaking culture. Furthermore, the market appeal of a product is often compounded by the natural and historical qualities of the landscape of its place of origin. As a result, the strategies of wine growers have become increasingly integrated with local socio-geographical resources, and the achievement of competitive advantage is increasingly based on communication strategies highlighting the distinctive qualities of the place of origin of products. The ability to preserve a competitive advantage over time also appears to be increasingly dependent on local resources, a factor that reinforces the relationship between winemakers and their geographical context, especially in the context of today’s globalized market. The place of origin is also the place where social resources are found. Unlike other resources (climate, soil, unskilled labor) that can be acquired without effort, social resources, such as local culture or the historical features of a habitat, need to be produced and reproduced (Brunori, 2003). A local area is therefore a resource generator (Distaso in Brunori, 2003) and businesses need to make the most of these resources in order to gain economic advantages. Making the most of the landscape, however, requires entrepreneurs combining efficiency with a creative capacity for innovation, figures like Schumpeter’s innovative entrepreneur (Schumpeter, 1971), Knight’s risk-taker (Knight, 1921) or Cole’s decision-maker (Cole, 1959), that is, entrepreneurs with an instinctive ability to innovate, sense new market opportunities, evaluate risk and make decisions, and thus exploit emerging markets. In a rapidly evolving agriculture, it is not enough for entrepreneurs to wisely manage their businesses. They must also be aware of external inputs (Corno, 1995) in order to identify new market opportunities. An ability to exploit new opportunities, however, does not necessarily ensure financial success (Viaggi, 2012). Success is determined by the overall project, which is informed by the business mission in its entirety. The restoration of historical landscape and architecture in rural areas can be an 106


B. Torquati, G. GiacchĂŠ Entrepreneurial Models And The Promotion Of Historical Italian Vineyard Landscapes

opportunity for farmers if it is combined with innovative entrepreneurship aiming at restoring aspects of the landscape in a functional perspective. By functional perspective, we mean the recreation of the productive value of historical forms, and of their role in protecting the environment and biodiversity in ways that stimulate local economies. The restoration of the historical landscape and architecture must go beyond the mere preservation of landscape. On the other hand, is should not be reduced to a superficial marketing operation aimed solely at reaping immediate financial returns from tourism. It is essential to recognize the value of the landscape, to rediscover its function, to reinterpret it in the light of the changes that have occurred in the relationship between humans and the environment. We need to develop an awareness of the great diversity and quality of the landscapes we have inherited and make them into a resource for local development and a means to promote local products, contributing to the generation of income through the combination of environmental preservation and human presence. 3. The evolution of vineyard landscapes and the development of new farming models Starting from the 1950s, there has been a gradual transformation of the Italian viticultural landscape, notably as regards cultivation methods, vine-training systems, and the management and geographical location of vineyards. Vine training has become increasingly standardized, while in the past each region had its own distinctive traditional method, such as pergolas in the Trentino region, the piantata in Tuscany, Umbria and Emilia, and the vite maritata of southern Italy (both systems involving the training of vines on trees), and the vite ad alberello (bush-vine system), also in southern Italy. Nowadays the number of vine-training systems has been greatly simplified and mechanization is steadily increasing. Vineyards are mostly trained on espaliers because these are better suited to mechanization. New vineyards show a closer plant spacing, and even in the old vineyards replanting is carried out to increase density. As for trellising, wooden stakes, common till the end of the 1970s, have been gradually replaced by concrete ones (in the 1980s and 1990s, especially in espalier vineyards) and later by metal ones. The choice was due both to the cost of posts and to production requirements. Specifically, the choice of stakes and props is influenced by the degree of mechanization of the vineyard, the durability of the system, cost, and aesthetic appeal. The gradual mechanization of vineyards and the growing professionalism of winemakers has led to a gradual concentration of viticulture in the more suiTab. areas and an increase in the average size of vineyards. Vineyards on hillsides terraced with dry-stone walls are being mostly abandoned, leading to erosion and hydrogeological instability. In a few other cases, farmers have preserved such vineyards by producing wines for niche markets. In Italy, threats to this so-called “heroic� viticulture vary from region to region, but generally depend on the aging of the farming population, the small size of vineyards, the difficulty and cost of accessing and managing terraced vineyards, the high cost of labor, and changes in farming systems leading to the loss of knowhow for dry-stone wall maintenance. The gradual simplification of vineyard types has gone hand in hand with a growing diversification of wines and the ways in which they are marketed. In some recent cases, however, this diversification has been achieved by reconstructing historical vineyards as part of a more general strategy aimed at reconciling production and the environment, and targeted at more exclusive market niches. In most cases, winemakers have made an effort to become independent of large distributors and obtain a more equiTab. price for their products. They have also often invested in low environmental impact production systems, made an effort to communicate more effectively, and reinforced their ties with their local area by integrating production and environmental services. These are entrepreneurs who have had the courage of rethinking themselves as active subjects in a process of autonomous change, independent of third-parties and based on a new relationship between humans and nature, farmers and the local context, and the urban and the rural. These farms often appear as works-in-progress, whose characteristics we will try to outline in the present study. 107


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

4. Case studies We selected our four case studies on the basis of the following criteria: landscape (type of landscape project and its goals), structural characteristics (farm management, size, geographic position), financial characteristics (amount of investment, product marketing). The four farms we selected are structurally different but share an entrepreneurial strategy based on the promotion of a historical vineyard landscape. Specifically, we have focused on the following vineyards: 1) the terraced vineyards of Fattoria di Lamole, a family farm in the Chianti-producing countryside of Florence; 2) the vigna maritata vineyards restored by the Cantina Novelli, a large farm and winery with salaried employees in the town of Giano in Umbria, owned by the Gruppo Agroalimentare Novelli agribusiness; 3) a modern vineyard established in an historical area and surrounded by a wall dating to the Roman period in the township of Marsciano, Umbria, belonging to the Cantina Montevibiano Vecchio winery; 4) an “extreme-viticulture” vineyard on terraces supported by dry-stone walls on the “Purple Coast” (Costa Viola) of the Calabria region, run by the Enopolis cooperative, whose membership includes 100 people working in the vineyard and the Cantina Criserà winery. These case studies present an interesting range of approaches, characterized by different goals, business models and results. 4.1 Farm management methods, production levels, and typical landscape Each farm has its own story to tell, a story connected to the natural and cultural characteristics of the area where it stands. This is why we also selected our case studies on the basis of the geographical context and its landscape (Tab. 1). The Fattoria di Lamole is situated in the Chianti area,2 which is described in the PIT or Piano di Indirizzo Territoriale (land management plan) of the Tuscany region as a highly valuable landscape arising from the combination of terraced vineyards and olive groves, crop fields and woods. The value of this landscape is due to its agricultural features, notwithstanding the presence of specialized agriculture in it. The Fattoria di Lamole has a total surface of 270 hectares, of which 200 of woods, 16.5 of vineyards, 3 of olive groves, and the remaining 49.5 of pasture land where sheep are raised. In the 1970s, when the various land lots were unified into a single farm, all the vineyards were restructured. Later, between 2001 and 2004, the terraces and dry-stone walls were restored over an area of 4.5 hectares (figs 1 and 2). The Cantina Novelli winery is located in the township of Giano, in Umbria, near Spoleto and Montefalco, two of the most famous wine areas in Umbria. The area is characterized by the typical landscape of the Martani Mounts. The Piano Paesaggistico Regionale (Regional Landscape Plan) classifies it as a mainly physical-natural landscape,3 with hills whose soil is suiTab. for specialized agriculture, particularly crops and vineyards. The area is characterized by the close relationship existing between land morphology, the agricultural fabric and historical settlement patterns. The area owes its significance to its complex agroforestal mosaic and a century-long history of high parcelization. At the edge of the woods, the olive groves are arranged in regular but non-contiguous plots, which tend to become larger near settlements. The hills have been partly reforested with cherry trees. The main product remains ol-

At a regional level, 38 landscape areas have been identified based on objective characteristics (‘place identity’) and ascribed ones (‘perceived by the population’), in line with the indications of the European Landscape Convention (2000). These areas therefore correspond to concept of ‘belonging’ to given places, for which transformation and preservation rules have been defined. 3 The Piano Paesaggistico Regionale of the Umbria region has identified 19 landscapes through an interpretive procedure based on collective knowledge, the relations among identity resources, and the recording of symbolic values associated with processes of collective identification. By recognizing a specific characteristic (physical-natural, historical-cultural or social-symbolic) of each regional landscape as dominant, its prevalent identity at the regional scale can be defined.

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ives, still cultivated in groves planted in scattered patterns. Another typical element of the scenery are vines supported by rows of mulberries or other trees, that is, the alberata vine-training system found in Tuscany, Umbria and Marche regions, typically associated with sharecropping (Pierguidi, 2010). This is the landscape context in which the Cantina Novelli began its viticultural project in 2000, inaugurated its winery in 2007, and two years later planted half an hectare of vite maritata (Photographs 3 and 4). The present 56 hectares of vineyards extend over the municipal territories of Spoleto, Montefalco and Giano, and are part of an 800-hectare farm. Cantina Novelli, which belongs to one of the most important Italian agribusinesses (Gruppo Novelli), has sought to differentiate itself from other wineries by rediscovering autochthonous grapes of the Spoleto area and preserving the traditional alberata system. The surroundings of the Cantina di Castello di Montevibiano Vecchio, also in Umbria, show the typical landscape of the Todi area: a vast cultivated fluvial valley lined by hills dotted with Medieval castle-towns, still displaying the historical features of sharecropping agriculture. In 2000, the Cantina di Castello resumed an old wine-growing tradition. It planted 37 hectares of vineyards and built a new winery, setting their stakes in both cases on an eco-sustainable approach. The project was named “360° Green Revolution”. In 2005, an historical touch was added through the reconstruction of a one-hectare ancient vineyard (Figs 5 and 6). The vineyards of the member farms of the Enopolis cooperative are located on the Costa Viola, one of the Local Landscape Units (Unità Paesaggistiche Territoriali) of the Calabria region,4 included in the “Lo Stretto di Fata Morgana” Regional Landscape District (Ambito Paesaggistico Territoriale Regionale). Here the terraced hills extending for about 20 km along the southern Tyrrhenian coast of Calabria put a strong stamp on the landscape of the area, where grape farming dates at least as far back as the year 1000. Presently the vineyards are located about 1 km from the coast and extend over a total surface of 200 hectares, 195 of which are in areas with gradients of over 40%. The vineyards are found in an altitude strip between 200 and 400 meters, where 55% of the cropland lies. The terraced vineyards (Photographs 7 and 8) owe their good condition to specific public policies for the protection and restoration of traditional vineyards and landscapes implemented over the last 20 years, and to the work, among others, of Cooperativa Agricola Enopolis, founded in 2004. 4.2 The nature and goals of our landscape project The reasons for restoring a traditional agricultural landscape vary depending on the goals of farms: safeguarding the natural environment, improving the landscape in visual or historical terms, offering recreational activities for tourists, helping the local economy, improving wine quality, and getting economic returns on an investment (Tab. 2). The relative weight of individual motivations depends on the general strategy adopted by the farmers in pursuing their economic and social objectives. In the case of the Fattoria di Lamole, the restoration concerned water-regulating structures (ancient terraces, drainage canals), cultivation methods (alberata), the materials used for posts (chestnut) and stakes (acacia), and the choice of vines, with the replanting of old varieties. The choice fell on typical clones of Sangioveto di Lamole planted franchi di piede (that is, not grafted onto American vine as a protection against phylloxera, like regular vines). The project was carried out on 4.5 hectares of terraced vineyard, but focused mostly on the 1.2-hectare Grospoli vineyard, which in the past had

The 39 Local Landscape Units (Unità Paesaggistiche Territoriali) of the Calabria region have sizes and characteristics such as to form a land system capable of attracting, generating and making the most of different types of resources. Each landscape is distinguished by a “pole” or attractor (whose nature varies), which coincides with the specific “talent” of the area, as manifested in a range of possible themes or types of resources. The above Local Landscape Units and their groupings are defined as the basic units of reference in regional planning and programming (Quadro Territoriale Regionale Paesaggistico della Regione Calabria, QTRP).

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produced some exceptional wines. The stone structures have been restored, resuming their ancient hydrogeological and thermal function (accumulating heat during the day and releasing it at night). The owner, who manages the farm himself, has firmly set his sights on creating a top quality wine through an experimental vineyard where, in his own word, one can “study a ‘prototype’ and transform it into a ‘production item’.” His efforts have helped draw attention to this rural area, which is destined to gradual and inexorable abandonment, in spite of being commonly considered to be the birthplace of Chianti. The opportunity came thanks to the Leader Plus 2000-2006 EU program, which designated the Chianti area as one of the three rural regional areas singled out for priority investments aimed at revitalizing the socioeconomic context by exploiting cultural as well as natural resources, and thus providing new employment opportunities while at the same time improving the quality of life. The restoration of terraces and dry-stone walls was coupled with the renovation of some of the farm’s old peasant houses in Lamole, which were renovated to host tourists and artists seeking inspiration. The Cantina Novelli was the first farm in Umbria to make an effort to preserve what remains of the piantata umbro-marchigiana (the local alberata vine-training system). In an autochthonous vineyard near Spoleto, a complex research program was set up, headed by Prof. Attilio Scienza, for the purpose of recreating and marketing the old Trebbiano of Spoleto grape. The project examined about 1,500 historical ungrafted vines trained on maples and elms, located in the valley of Spoleto and the hills near Norcia, and selected the most interesting ones, for a total of 580 vines aged between 80 and 150 years. The selected vines were later classified into four biotypes. Their DNA was used to produce thousands of shoots of Trebbiano Spoletino, which were planted on several hectares. In 2011, the wine received a Controlled Origin Denomination (Denominazione di Origine Controllata). Through this project, the farmers became aware of the enduring beauty and historical importance of these small lots of maritata vines (i.e., trained on trees), which still survive thanks to the dedication of older farmers. Hence the idea of renting some vineyards of maritata vines to be used for the production of pre-phylloxera wine, and planting half an hectare of traditional vite maritata vines trained on maples near the winery. This vineyard, which is expected to reach full production in 2014, is destined to become the symbol of the winery, a living testimony to its commitment to the combination of modern wine-making techniques and local traditional viticulture. The Cantina di Montevibiano Vecchio winery is a leader in eco-sustainability combined with the preservation of the traditional rural habitat, with special emphasis on its landscape aspects. In 2004, the winery started a pilot project that allowed it to obtain the first Italian “0 greenhouse emission” certification based on the ISO 14064 standard. The company went from +287 tons of CO2 equivalent in 2004 to -764 tons in 2008. The image of the winery as an environment-friendly company has become consolidated through its management of its 200 hectares of forest to increase CO2 absorption, its replacement of diesel tractors with bio-fuel ones, its increased use of organic fertilizer in place of mineral ones, its production and use of renewable energy, and its use of electric cars for internal transportation. The wine is grown on 37 hectares of modern eco-sustainable vineyards, which includes an “image vineyard” which, for historical, pedological and climatic reasons, is the pride of the farm, and an attraction for the 4,500 people who come every year to take the farm’s “eco-tours.” The image vineyard has a surface of about one hectare and is surrounded by a stone wall dating all the way back to 217 B.C., which is the time when grapes began to be farmed in the area. The vineyard was planted in 2006, after much preparatory work to make the most of the favorable micro-climate in a zero-emission perspective. Crops were rotated on the land for two years to enrich the soil, then grass was planted in alternate rows to improve water retention and avoid having to water the vineyard during the summer. The vineyard posts are all made of wood, the ancient Roman wall has been restored, and the vineyard can be visited using electric cars running on paths bordered by laurel hedges graced with old olive trees. The vineyard extends onto a hill slope and has the shape of an amphitheater, offering a splendid view of the valley below. It stands as a perfect combination of tradition and innovation as a response to the challenge posed by climate change. 110


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The Enopolis cooperative of Costa Viola was founded in 2004. It belongs to a context is which the promotion of the agricultural landscape and its historical-cultural values goes hand in hand with the development of the area, whose main asset is the beauty of the landscape and the environment. The main action of the members of the cooperative has been the restoration and maintenance of the terraces, locally known as rasule. The height of the vine trunks ranges from 0.7 to 3 meters. The terraces are supported by dry-stone walls, locally known as armacìe, whose thickness varies depending on their height, which ranges from 1 to 3 meters. Access is achieved by small stone staircases, built either directly into the walls or alongside them; in the latter case they also function as buttresses, which are necessary for terraces on steeper slopes. The terraces serve both as slope-retaining works and as stormwater management systems. A long and fruitful collaboration between the Cooperative and public institutions has helped the wine-growers both in the restoration and maintenance of the terraces and dry-stone walls and in the implementation of limited forms of mechanization, such as monorails and, more recently, small experimental aerial tramways. To restore and maintain dry-stone walls, the cooperative has also received public funding from the integrated land planning agency, which views the promotion of traditional agriculture as a stimulus to the tourist and environmental development of the area. Specifically, financing was obtained first under regional law L.R. 34/86 for the protection of the landscape and environment, which remained in force from 1990 to 1995, and then under measure F.2.b. for agriculture and environment of the 2000-2006 Rural Development Plan (Piano di Sviluppo Rurale). Further funding is expected from the provincial Viticultural Programmatic Contract (Contratto di Programma Vitivinicolo) and the Regional Viticultural Plan (Piano Regionale Vitivinicolo). 4.3 Economic analysis by means of adjusted balances Our financial analysis is based on adjusted balances to take into adequate account the multi-year nature of vineyard production cycles, which can be divided as following: stationary stage, in which vines are planted and grow, but do not produce grapes suiTab. for winemaking; incremental stage, during which the plants gradually increment their yield; mature stage, during which the plants reach their full potential; decremental stage, during which the yield per plant gradually decreases (De Benedictis and Cosentino, 1979). During the decremental stage, the entire vineyard is usually uprooted without waiting for the plants to die, because the vineyard is no longer economically viable. The last year in the production cycle, which generally coincides with the year of uprooting, is called in Italian età del tornaconto (reckoning period). In adjusted balances, costs and returns are calculated on the basis of the average price and production in the period between the establishment and uprooting of a vineyard. To take the time factor into adequate account, it is necessary to postpone annual values (costs and markeTab. production) to the end of the entire cycle, so as to obtain constant postponed annual values available at the end of the cycle, since for the entrepreneur the year in which a given cost or return occurs makes a difference. The formulas therefore calculate both the markeTab. production per year balanced over the entire period and the costs per year, also balanced over the entire period: n (1 + r ) n-j . r PV = Σ PVj . ------------------- ------------[1] J=1 (1 + r ) n - 1 n (1 + r ) n-j . r C = Σ Cj . ------------------- ------------[2] J=1 (1 + r ) n - 1

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Where: PV = adjusted markeTab. production per year C = adjusted cost per year PVj = markeTab. production for generic year j Cj = cost for generic year j r = interest rate n = duration of production cycle j = generic year in production cycle In each case, costs and markeTab. production were calculated based on 2011 prices. The duration of vineyard production cycles was estimated to be 21 years in all cases. Costs include costs for establishing the vineyard, management costs over the whole productive cycle, costs for vinification and marketing of wine in 0.75-liter bottles in associated wineries; markeTab. production refers to the bottled wine production in the winery or on the farm at 2011 prices. Our estimates of the costs and markeTab. production for each year of the productive cycle are presented in Tab. 3. They are the result of surveys by several operators carried out in 2011, in which we focused on the restoration of the traditional vineyards, and in 2012, in which we focused on the economic aspects of the vinification process and wine marketing. Note that vineyard establishing costs include the restoration of dry-stone walls, in the case of terraced vineyards of Fattoria di Lamole and Enopolis; the costs of training wires to complete the alberata, sustained in the 5-6 years period between the establishing of the vineyard the start of grape production; the costs of the restoration of the Roman wall and of the roads leading to the “image vineyard” of Montevibiano Vecchio. For a detailed analysis of those costs and the vineyard-management costs, we refer the reader to Torquati, Giacché and Venanzi (2011). We performed our analysis of the costs sustained from the arrival of the grapes at the winery to the selling of the wine in 0.75 liter bottles in two steps: in the first, we evaluated the average costs of production and marketing sustained by the four wineries for all their wine production; in the second, we identified the additional costs of wines coming from traditional vineyards. The first type of costs is, of course, also a function of the production level of the winery. Fattoria di Lamole averages 6,000 bottles a year; Cantina Criserà, 200,000; Cantina di Montevibiano Vecchio 250,000; Cantina Novelli, 280,000 (Tab. 1). The second type of costs includes the greater costs sustained for making wine from the grapes from the traditional vineyards, and for bottling and aging this wine in specifically designed barrels, as well as the greater costs for advertising and other communication activities specifically regarding the wines from traditional vineyards. By adding the costs of the winery and of marketing to the grape production costs, we obtained the following total production cost, per bottle: 6.86 euros for Armacìa IGT; 12 euros for the wine of Vigna Lorenzo; 12.74 euros for Traibo; 14 euros for Antico Lamole Chianti Classico DOCG. Note that the 12-euro value for the wine of Vigna San Lorenzo must be regarded as an approximate estimate because the marketing and advertising strategy of the Cantina Montevibiano winery for the wine coming from its “image vineyard” differs from that of other operators. For the sake of consistency, the financial results of the Cantina di Montevibiano will therefore not be considered here but in a specific part of section five. Our analysis shows a variation of the incidence of specific items on the total production cost (Tab. 4). The cost of grape production is the highest single cost in all cases, amounting to 42% of the total for Armacìa IGT, 33% for Chianti Classico DOCG, and also 33% for Traibo. The second highest cost is that of vinification, which ranges from 21% for Traibo to 26% for Armacìa IGT. Other costs show the following variations: the cost of bottling and packaging ranges from 4% for Armacìa IGT to 10% for Traibo; general costs range from 4% for Armacìa IGT to 10% for Traibo; the cost of land rent and passive interests ranges from 4% for Armacìa IGT to 8% for Traibo; the cost of advertising and distribution ranges from 10% for Armacìa IGT and Chianti Classico to 10% for Traibo. 112


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MarkeTab. production was estimated hypothesizing that the entire wine production of traditional vineyards was sold, and assuming the average price per bottle sold on the farm premises in 2011, which was 11 euros for Armacìa IGT, 18 for Traibo and 25 for Chianti Classico DOGC (Tab. 4 ). The calculation of the final balances faced us with the difficult problem of choosing an interest rate. As we know, interest rates tend to vary from year to year and are also dependent on the duration of the investment and the risks it poses. In the absence of a more reliable criterion, we decided to base the calculation on two hypothetical interest rates: a minimum one of 2% and a maximum one of 6%. The final balance was calculated applying formula [3] and using both the 2% interest and the 6% rate. n (1 + r) n-j . r Final balance = PV – C = Σ (PVj – Cj) . ------------------- [3] J=1 (1 + r ) n - 1 The results, presented in Tab. 5, indicate the average annual yield for traditional vineyards. Assuming a 6% interest, the average annual yield is +46,205 euros per hectare of terraced vineyard for Fattoria di Lamole, +13,353 euros per hectare of vite maritata vineyard for Cantina Novelli, and +11,077 euros per hectare of terraced vineyard for the Enopolis Costa Viola cooperative. The results highlight the profitability of the investments measured in terms of constant annual revenue. It must be noted, however, that Fattoria di Lamole and the Enopolis cooperative do not employ their whole grape production for the Chianti Classico DOCG and Armacìa IGT. Fattoria di Lamole makes wine only from 38% of the grapes from Vigna Grospoli and sells the remaining 62% at 0.9 euros per kilo. As to the Enopolis cooperative, it makes wine from only 40% of the grapes from the terraced vineyard, the remaining 60% being kept by members for self-consumption (in this case we estimated the value of the grapes at 0.7 euros per kilo). Based on the above data, the balances still show a profit, but a very low one: only 104 euros for the Enopolis cooperative (2,668 assuming a 2% interest rate), and 2,742 euros for the Fattoria di Lamole (7,795 assuming a 2% interest rate) (Tab. 5). 4.4 Evaluation of business plans We carried out an economic-financial evaluation using a net present value method. This method allows one to establish whether the net present value generated by an investment is higher than the cost of capital; to do this, future cash flows generated by the investment are considered (Torquati, 2003). To perform the evaluation, we have first considered, as in the case of our analysis of the balances, both the cost of establishing of the traditional vineyards and the costs and the markeTab. production of the following years. We then proceeded to carry out the evaluation by calculating: the Net Present Value (NPV) using formula [4]; the Internal Rate of Return (IRR), i.e. the rate at which the net present value of costs equals the net present value of positive cash flows generated by markeTab. production (NPV = 0); the break-even point of the investment, which delimits the period necessary for the capital required for the investment (total costs including initial investment) to equal the benefits generated by the activity (total markeTab. production). n1 VAN = Σ (PVj – Cj) . ------------ [4] J=0 (1 + i) j Where: j = 0 indicates the year in which the investment was made i = the present cost of capital 113


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The results of our analysis, assuming an estimated capital cost of 6%, confirms the economic profitability of the investment in the “image vineyards”. Since the profitability of an investment is in direct relation to its net present value, the most convenient investment appears to be the one made by the Fattoria di Lamole in the Chianti area, followed by that of the Cantina Novelli in Umbria, and the one of the Enopolis cooperative in Costa Viola. The values of the respective Internal Rates of Return, besides indicating the profitability of the investment, allow one to evaluate the economic attractiveness of the investment as a function of the difference between this rate and the rate of interest on capital borrowed for the investment (Tab. 6). The difference for the traditional vineyard ranges from 21.5% for the Fattoria di Lamole to 12% for the Enopolis cooperative. The break-even is achieved in the sixth year by the Fattoria di Lamole, the seventh by Cantina Novelli, and the eighth by Enopolis. The results change substantially when we consider the amount of grapes from the traditional vineyards of Fattoria di Lamole and Enopolis actually used to produce wine. NPV values are still positive, confirming the profitability of the investments, but the situation seem much more precarious, with final revenues very close to the cost of capital and break-evens reached only after the 10th year of the production cycle. 5. Discussion of the results Each case has its own peculiarities in relation to the nature of the vineyards and the entrepreneurial strategy adopted. In the case of the Fattoria di Lamole, a central goal of the restoration was the hydrogeological management of the land and the reconstruction of a microclimate suiTab. to the production of the wine. The Cantina Novelli case is important not only for the restoration of the traditional vine training system (vite maritata), but also for the use of ungrafted historical vines dating to the pre-phylloxera period. In the other two cases, the undertaken actions were broader in scope. At the Montevibiano Vecchio winery, the establishing of the vineyard was part of a more general environmental project aimed at cutting down CO2 emissions in winemaking processes. At to the Enopolis cooperative, its restoration of the historical landscape was intended as a means to promote local development and social cohesion by founding a cooperative for the production and marketing of the product. The social motivations that have led these operators to restore elements of the landscape, internalizing it as a resource and promoting it as a productive factor, divided into two categories (environment protection and local development) and two types of effects (direct and indirect) (fig. 9). The Enopolis cooperative is the only one whose intervention serves both to directly protect the environment, through the prevention of hydrogeological problems and the protection of biodiversity, and to directly promote local development, thanks to the role taken by the cooperative as coordinator and organizer of initiatives concerning the local community. The three other operators, instead, promote local development indirectly, by attracting enotourists and serving as a model for other operators in the winemaking business. All four operators exercise a direct positive effect on the environment, through reduction of CO2 in the case of the Cantina di Montevibiano, the preservation of biodiversity in the case of Cantina Novelli, and the protection from hydrogeological risk and of biodiversity in the case of Fattoria di Lamole. All operators have sought to valorize their wine by focusing on specific qualities: the very high quality of the product in the case of Fattoria di Lamole; the adoption of an historical pre-phylloxera wine and the charm of the traditional vite maritata system in the case of Cantina Novelli; the connection between wine and the local context in the case of the Enopolis cooperative; the idea of “improving the environment” through viticulture in the case of Cantina di Montevibiano Vecchio. The marketing and communication strategy of Cantina di Montevibiano for its image vineyard is informed by the more general company philosophy centered on the protection of the environment. The wine from the Vigna Lorenzo image vineyard is an advertisement for the farm as a whole, because it is associated with the quality of the natural environment, the beauty of the scenery, and the histori114


B. Torquati, G. Giacché Entrepreneurial Models And The Promotion Of Historical Italian Vineyard Landscapes

cal and cultural importance of the locality and the farm itself. The owner of the farm intends to further pursue this environmental philosophy, which has already won the winery a “0 greenhouse emission” certificate, by improving the farm’s environmental performance and using Vigna Lorenzo in a massive communication campaign. The wine produced in the vineyard is reserved for the 4,500 oenotourists who by “espousing an idea”, in the words of the owner, come here every year to taste the wine on site. In the above cases, agricultural entrepreneurs are active subjects in a trend originating in towns, where a growing number of citizens are interested in consuming products on site, visiting their places of origin, and discovering their history and tradition. In these cases, reconstructing the historical landscape has not limited agriculture but rather enriched it, while helping protect the environment and stimulating recreational tourist development. Indeed, all these farms double as restaurants and farmhouses for tourists. The economic results, which we have assessed by our calculation of the added value coming from the wine of the image vineyard, are encouraging, suggesting that reconstructing the historical agricultural landscape can be profiTab. for farmers even in the absence of public financing (not considered in the present financial analysis). Obviously, financial success depends on the operator’s ability to effectively communicate the value of the product and elude the limitations imposed by large food companies and major distributors. The use of only part of the entire grape production for winemaking, in the case of Fattoria di Lamole and Enopolis, is not an indication of a difficulty in reaching the market but rather of the amount of time normally required to market a quality wine through direct and exclusive channels. This is confirmed by the growing sales of both the Chianti Classico DOCG and of the Armacìa IGT, which are sold directly (30% and 20% respectively), through restaurants and farmhouses (30% and 40%), and through wine stores and other specialized stores (40% and 35%). 6. Conclusion Our analysis of these cases of restoration of historical Italian vineyard landscapes by farmers, and of their motivations and respective financial results, suggests a number of general considerations. First of all, the above cases bear witness to the fact that changes in society require agriculture to take on new functions, increasingly oriented towards a new integration of the values of the rural world (environment, landscape, rural traditions and culture) and the requirements of the urban world (enjoyment of the countryside, improving quality of life, rediscovering cultural roots). Sereni (1961, p. 52) states that a “law of inertia” applies to rural landscapes, according to which “once it is fixed in certain forms, it tends to perpetuate itself – event after the disappearance of the technical, productive and social relations that conditioned its origin – until a new and more decisive development of those relations destroy those forms.” In this case, it is our opinion that new demands coming from the urban world have instead created a social and economic interest in the historical forms of Italian viticulture, such as terraced vineyards with dry-stone walls or vineyards trained on maples, which have survived out of inertia in some areas and are being rediscovered today thanks to the emergence of new technical, productive and social relations. The positive financial results achieved by the above farms, located in different parts of Italy, suggest that the financial success or failure of an investment in the landscape is not determined by the socioeconomic context but by the capacity of the farm to differentiate its product, obtaining a competitive advantage by offering customers greater value. This means ensuring that consumers have a greater interest in a wine coming from a traditional vineyard compared to one coming from a more anonymous agricultural landscape, an interest that will be greater when the value of the wine is associated not only with the value of the landscape but the more general value of the context, and when customers have a chance to experience them directly. The case-study method requires the following conditions: a) focusing on a contemporary phenomenon in a real-life context (Yin, 2009); b) investigating “how” 115


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

and “why� businesses invest in the landscape; c) quantifying the financial results. Our results have confirmed the validity of the method. It is our belief that, in the present rapidly changing situation, it is essential to continue to conduct empirical studies in order to nourish the theoretical reflection required to identify the correct modes and scale of intervention for a future landscape policy aspiring to go beyond mere conservation.

116


Alto Douro Wine Region Lina Lourenço Gomes Department of Economics, Sociology and Management (DESG) and Centre for Transdisciplinary Development Studies (CETRAD), University of Trás-os-Montes and Alto Douro (UTAD) Lígia Costa Pinto Department of Economics, NIMA, School of Economics and Management (EEG), University of Minho

The Alto Douro Wine Region (ADW) is a living and evolving cultural landscape located in the northeast Portugal, spreads over 13 municipalities embracing a total area of approximately 24600 hectares. It represents 10% of the Demarcated Douro Region, the first controlled wine-producing region of the world (dating back 1756). The central physical element of the classified area is the Douro river, and its tributaries Varosa, Corgo, Tavora, Torto and Pinhão. The cultural landscape of ADW is the product of humanization of an adverse nature, characterized by harsh climate, low rainfall, rocky soils and steep slopes. It’s an exceptional work between nature and man, where the latter has interpreted the production of wine (namely the worldwide recognized Port wine) as a viable solution to the ADW. The activities related with wine producing and the long tradition of viticulture gave rise to a landscape of unique beauty, being a reference for the social, economic and historic evolution of this activity. Beyond the vines, olive grove stands out, followed by other crops such as orchards and orange groves. In addition to these cultural forms, the pattern of the landscape is also determined by natural woods and forests. This form of land use occupation defines the ADW as a mosaic, as expressed by the Fig. 1.

Fig. 1. ADW landscape. Il paesaggio della RVAD. 117


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Although there are traces of earlier human occupation, most important vestiges of viticulture go back to the Roman era (3rd and 4rd centuries AD). Romans redefined the use of land in the Douro Valley and from the first century, boosted the cultivation of vines, olive trees and cereals. Over time the Douro valley was home to several people: Suevi (5th century), Visigoths (6th century) and the Moors (8th-11th Centuries). From the middle of the 12th century, the viticulture was streamlined and expanded by the presence of religious orders in the region. In the late Middle Ages, the growth of the long-distance trade and of the demand for wine led to a further expansion of the vineyards. From the 16th century, wine production began to be commercially oriented and during the 17th century the vineyard activity continued to grow as a result of the production techniques improvements and due the increased wine commercialization for the European markets, especially for England. In 1703 the treaty of Methuen formalized and strengthened the trade relations between Portugal and England, but during the 18th century there were conflicts of interest among British wine merchants and the Douro farmers leading the State to regulate the trade and production of wine, creating the Companhia Geral da Agricultura das Vinhas do Alto Douro (1756) from which resulted the first demarcation of the productive area. Until the 20th century, the region has been subject to several regulatory models (FRAH, 2000). 1. Cultural landscape World heritage site The ADW was inscribed as UNESCO world heritage site on December 2001 according to the following criteria attesting its universal value: Criterion (iii) - The Alto Douro Region has been producing wine for nearly two thousand years and its landscape has been moulded by human activities; Criterion (iv) - The components of the Alto Douro landscape are representative of the full range of activities associated with winemaking - terraces, quintas (wine-producing farm complexes), villages, chapels, and roads; Criterion (v) - The cultural landscape of the Alto Douro is an outstanding example of a traditional European wine-producing region, reflecting the evolution of this human activity over time. (UNESCO, 2001) The cultural landscape of ADW is an outstanding example of a region of mountain and traditional European wine-producing, reflecting the evolution of this human activity over time (Andresen et al., (2004)). In the landscape are visible and coexist various techniques of vine growing from the most ancient, pre-phylloxera terraced vineyards or socalcos (until 1860) and post-phylloxera terraced vineyards (end of the 19th century until the 30s of the 20th century) to the more recent techniques since the 1970s, including vineyards in patamares, vineyards on vertical planting (the last decades of the 20th century) and natural sloping planted vineyards (FRAH, 2000). The pre-phylloxera socalcos, supported by low walls built of schist stones, are narrow and irregular, often only comprising a row of bards or vines. Supports 3000-3500 vines /hectare. In midnineteenth century, these vineyards were destroyed by phylloxera disease and, in many cases, gave rise to the designated mort贸rios (or dead vines) covering approximately 3488 hectares, 63% occupied by olive groves and 37% by woods (top left corner of Fig. 2). After the crisis caused by the phylloxera, the vine was planted in continuous and regular terraces, being wider and slightly inclined, favoring its exposure to the sun. These post-terraces phylloxera exhibit higher walls and, due to its width, support a superior number of rows of vines (4, 5 or more), corresponding to 60006600 vines /hectare, favoring the mechanization. The post-philloxera terraces represents an important change on the landscape conFig.tion, as can be seen in Fig. 2. 118


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Alto Douro Wine Region

Fig. 2. The post-philloxera terraces. I terrazzamenti post-filossera.

More recently, the demand for more efficient solutions, to facilitate the mechanization and to overcome the increasing lack of manpower, has led to different ways to plant the vine that don’t require the presence of terraces and/or the schist walls supporting the land. This constitutes a significant change in the conFig.tion of the traditional landscape, in which the vast kilometers of schist walls are a landmark. Since the 1970s, the patamares are planted on a horizontal platform supported by earth-banked land and varying height according to the natural slope. The platform is dimensioned to support two bards of vines usually separated from each other, about two meters, enabling the mechanization (FRAH, 2000). Due the erosion caused by rainwater, presently the patamares are closer (micro-patamares), comprising only one row of vines (lower left corner of Fig. 2). In the 80’s, emerged the vertically planted vines, perpendicular to the curves of the countryside, increasing the use of land and allowing a more complete mechanization (lower right corner of Fig. 2). In lower sloping land, the natural sloping planted or non-terraced vineyards are also presented. Overall, in the ADW prevails the post-phylloxera socalcos (50%) and the terraces (35%). The more modern forms represent 12% (of which 5% is vertically planted vines and is 7% natural sloping planted vineyards or others). The traditional pre-phylloxera socalcos only represents 2% (FRAH, 2000). Influenced by the winemaking activities, other cultural elements testify the lifestyle of several generations that have passed by ADV: the villages, accessibility, and religious heritage. In ADW there are 72 small settlements (villages), ranging from 150 to 900 buildings. The quintas constitute a reference landmark. Structurally, the quintas are constituted by the dwelling house and sometimes integrates a chapel, garden, a set of adjacent buildings to support the wine making activity and extensions of land occupied by vineyards and olive groves. The evolution of its organizational structure reflects the development of Port wine trade. Initially, the first floor of the house was used for housing and the inferior floor was the wine cellar. At the back, using the land slope, were placed mills, allowing the direct discharge of grape. In a second phase, the wine structures were separated from the 119


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

house, having its own building. In some quintas are also visible buildings and instruments related to the production of oil: the oil mill, bins, chirp, press and furnace (FRAH, 2000). As the way of inhabiting, also the accessibility of the region reflects the landholders’ style of life, the territory and its adaptation to the evolution of production and trade of Port wine. The Douro river is regarded as the “structural element of the whole ADW” (Aguiar et al., 2001: 26), and was the principal form of transport by the end of the nineteenth century. Rabelo boats sailed carrying wine barrels, people and other commodities. In 1887, the Douro railway line improved the accessibility of the region. Currently, Pinhão station is one of the most emblematic of this line due its building and tiles (Andresen and Curado, 2003 in addition to describing the landscape and history of the Douro also describes the importance of railways in Douro). The religion and its assets were usually associated with nature and its powers. The relationship between religion/nature promoted the development of a “spirit of place”, witnessing the hard work of the winemakers and their experiences in the landscape construction. Additionally, the presence of various religious orders in the region, including the Cistercian since the XI century, had a very important role in the viticulture development, wine commercialization from the Douro and in the creation of built monuments (churches, convents, chapels and monasteries). 2. Safeguard and management Sustainability of word heritage sites rest, according to Landorf (2009), on two fundamental pillars: planning and wide participation of all stakeholders. As a result of the world heritage denomination, the Intermunicipal Plan for the Alto Douro Wine Region (PIOT) was defined as a tool of territorial management, as well as the administrative supporting structures, namely the Structure of Mission for the Demarcated Region of Douro (council of ministers, resolution of August 31, 2006) and the League of friends of World Heritage Douro (December 14, 2002), representative of civil society. The guidelines of the PIOT to ensure the safeguard of the classified area are handed on to the Municipal Master Plans, the principal local land management instruments. Part of PIOT was published by the council of ministers (resolution 150/2003), namely the strategic guidelines (substantive guidelines, an action plan and an organic structure). The substantive guidelines define rules regarding the land use, paying particular attention to the viticulture and olive growing regulation, and the continuity of the landscape mosaic. In the normative guidelines, the PIOT defines prohibited acts and establishes parameters and constraints regarding the planting and replanting of vines, taking into account the size of the plot, the slope, the existing systems of the land terracing, the soil and the existence or proximity of heritage assets. The Structure of Mission was created to overcome the inexistence of an agency to promote regional development actions among the municipalities and to articulate central and local public entities. One of the responsibilities of the Structure of Mission is the monitoring and controlling of the actions and guidelines laid down in PIOT, in an attempt to safeguard the landscape and the cultural values. The League of Friends of World Heritage Douro is a cultural association, intending to arrange and oversee the preservation and safeguarding of the landscape, its promotion and valorization. This association has carried out several actions of training and information regarding the ADW. 3. Impact on local economy Having received the denomination of world heritage more than 10 years ago, it is important to assess its impact on local population and economy. Following, we review the impacts in three areas: demographics, employment and income, and tourism. The analysis is focused in Douro as a region, and not only on the area within the denomination of World heritage. The initial intent was to compare 2001 with 2011, however in many circumstances we consider other years, as data is not available. All data was obtained from INE -the regional statistical yearbook for the years 2000 through 2010. 120


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Alto Douro Wine Region

(i) Population Population in Douro have decreased in the last years, population density decreased from 54 in 2001 inhabitants per square Km (km2), to 50 inhabitants per Km2, in 2010. This movement is not particular to Douro, as most regions in the interior lost population in the last decade. However, there is considerable variation among municipalities as is clear from Tab. 1. As with respect to the distribution of population by age, Tab. 2 shows an aging population, both in Douro and the North region, however, the percentage of population over 65 years grew more in Douro than in the North, representing approximately 20%.

/ Nord

Tab. 1. Population growth rate 2010/2000. Tasso di crescita della popolazione 2010/2000.

Tab. 2. Distribution by age group. Distribuzione per gruppi di età.

/ Nord

Distribution by age group. Distribuzione per gruppi di età. 2010

Distribution by age group. Distribuzione per gruppi di età. 2000 121


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

ii) Economy The economic performance of Douro has not been very different than the activity in the North, the regional PNB (national gross product) represented 1.4% of the national product in 2003, and in 2010 it represents 1.3%. However, the product per capita in Douro was 67% of national product per capita in 2003, but 2010 it represents only 63%, thus the region became relatively less productive (these values are in nominal values, if we correct for inflation the difference is even sharper). Tab. 3. Employment distribution by sector. North / Nord

Employment distribution / Distribuzione occupazionale

Douro

2004

2008

%

2004

2008

10

12

Agriculture, forest and fishing Agricoltura, foreste e pesca

37

40

41

37

Mining, industry and construction Miniere, industria ed edilizia

15

15

49

51

Services / Servizi

48

45

The distribution of employment by sector of activity, Tab. 3, shows a movement of population from the services sector to the agricultural sector. In 2010, the agricultural production comes from farms with an average size lower than the average in the North (4.8 hectares), mostly explored by the owner (92%) and with very few mechanical aids (only 31% of farms have agricultural vehicles). Most of the workers are within the family (approximately 1/3) or are temporary workers. However, the average value of production per hectare is higher in Douro (1512.8) than in the North (1440.4). Wine is a major production in the region and the production has been increasing, as Tab. 4 shows, mostly in table doc wine, where annual growth rates are above 20%, significantly higher than the growth rates observed in the North. Tab. 4. Average growth rate of wine production from 2003 to 2010..

Tab. (DOC) / Vino da tavola (DOC)

Other / Altro

Tot.

Sweet (DOC) Dolce (DOC)

White / Bianco

Red/Rose Rosso/Rosé

White / Bianco

Red/Rose Rosso/Rosé

North Nord

15.1

10.9

16.0

18.3

17.7

18.5

Douro

16.9

11.5

20.6

22.0

27.8

39.3

Thus far we conclude that except for a significant increase in the wine production, the Douro region has registered an evolutionary pattern similar to the North region where it is integrated. In this respect it should be stressed that wine production in the area is done mostly in post-phylloxera socalcos and terraces which have sustained the increasing quality and quantity of the wine production both the traditional sweet Oporto Wine and the increasingly known Douro Tab. wine. (iii) Tourism As previously mentioned the most probable effect of the denomination of the ADW as a world heritage site is on tourism, which is now the focus of the analysis. The plan for managing ADW identified two major limitations, the reduced occupancy rate and the reduced average stay. Regarding the supply side, the number of units and number of rooms in Douro grew just below the growth registered in the North region, as Tab. 5 shows. However, most units and rooms are concentrated in Lamego and Vila Real (about 30% of the rooms each); Peso da Régua and Alijó (15% each). In total, the Douro only represents 5% of the total number of units and rooms in the North (Tab. 6). 122


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Alto Douro Wine Region

Tab. 5. Average annual growth in Touristic Units and rooms (2001/2010). Crescita media annuale delle unità turistiche e delle stanze (2001/2010).

Total number of units Numero totale di unità

Total number of hotels Numero totale di alberghi

Total number of rooms Numero totale di stanze

Total number of rooms in hotels Numero totale di stanze in alberghi

North

13

18

31

37

Douro

11

17

23

26

Tab. 6. Distribution of units, hotels and rooms (2010). Distribuzione di unità, alberghi e stanze (2010).

N Units Unità Nord N Hotels Alberghi Nord Total rooms Totale stanze Hotel rooms Stanze alberghi

The average stay did not change significantly from 2001 to 2010 (Tab. 7), and the occupancy rate actually decreased. This leads us to conclude that the expected increase in occupancy rate and average stay did not take place. Note however, that the number and capacity of units increased significantly, so a decrease in average stay and occupancy rate was to be expected in the context of economic crisis that Europe is living in the past decade. Tab. 7. Average stay and occupancy rate. Media del numero dei pernottamenti e delle presenze.

2001 Avrg stay / Soggiorno medio

2010 Occupancy rate / Tasso di presenze

Avrg stay / Soggiorno medio

Occupancy rate / Tasso di presenze

Tot.

Hotels / Albeerghi

Tot.

Hotels / Albeerghi

Tot.

Hotels / Albeerghi

Tot.

Hotels / Albeerghi

North / Nord

1.8

1.9

29.6

35.4

1.7

1.8

32.4

35.8

Douro

1.6

1.8

28

35

1.6

1.6

26.7

32.3 123


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

However, as Tab. 8 shows, the number of guests increased by 8.05% per year, and the number of nights decreased slightly. Notice that the North region had a growth rate of 14% in number of tourists in this period and 4.57% in number of nights. It is possible that some of the increase in the overnight tourists in the North, is due to an increase in day trips to ADW, unfortunately we have no data to confirm this hypothesis, except that the number of tourists in river cruises has been increasing steadily in the last years. Tab. 8. Average growth rate of number of nights and guests (2001/2010). Tasso medio di crescita del numero dei pernottamenti e delle presenze. Total nights Totale notti

Total hotel nights Tot. notti in albergo

Total nights in other units Tot. notti in altre unità

Total guests Tot. ospiti

Total hotel guests Tot. ospiti in albergo

Other units guests Ospiti in altre unità

North / Nord

4.57

6.42

1.34

14.45

7.35

1.90

Douro

-0.43

0.82

-2.28

8.05

3.24

-3.79

Tab. 9. Distribution of nights by country residence 2001. Distribuzione dei pernottamenti per nazionalità 2001.

Foreign Stranieri 19%

Altro

Tab. 10. Distribution of nights by country residence 2010. Distribuzione dei pernottamenti per nazionalità 2010.

Foreign Stranieri 23%

Altro

Most overnight tourists in Douro are nationals, though the relative weight is decreasing (81% in 2001 and 77% in 2010), which indicates a very low internationalization (Tabs. 9 and 10). Within foreign visitors, the most frequent are British, French and Spanish, although we can see a slight decrease in English tourists and a slight increase in Spanish tourists between 2001 and 2010. 124


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Alto Douro Wine Region

4. Concluding Remarks The analysis presented is limited to the information available and it does not reflect all impacts that the denomination of world heritage produced, namely those that are intangible (very few studies attempted to value the benefits of landscape preservation (Lourenço-Gomes, 2009). Although the effects reflected above are small and sometimes not encouraging namely with respect to the effects on overnight tourists, we should stress that one very important effect is the actual preservation of the landscape, without compromising the area’s economic sustainability namely with respect to its still most important activity – wine and agricultural production. In addition, as previously referred, one possible effect is the increase in one-day trips originating in Oporto. According to PDTVD 20072013, the number of passengers on cruise ships increased 29% annually between 1995 and 2005 (from 13.658 to 177.272 tourists). Another interesting development in the last few years is the appearance of touristic residences in rural space. In addition, there are some initiatives to develop SPA units related to the theme of wine. One important question that is urgent to investigate is whether in fact the number of one-day trips increased significantly. If this hypothesis has empirical support it is important to have other municipalities participating in the management of the area so that a sustainable tourism approach can be developed. Sustainable tourism assumes the participation of all the stakeholders.

References Aguiar, F. et al. (coord.) (2001), PIOT-ADV, Relatório, Vol. I - Diagnóstico da situação, UTAD, Vila Real Andresen, T., Aguiar, B., Curado, M.J. (2004), The Alto Douro Wine Region Greenway, Landscape and Urban Planning, n. 68, pp. 289-303 Andresen, T. and Curado, MJ (2003), Shaping the future of cultural landscape: the Douro valley, in Landscape interfaces: cultural heritage in changing landscapes, Palang and Fry (eds), Kluwer Academic Publishers FRAH (2000), Candidatura do Alto Douro Vinhateiro a Património Mundial, Marca Artes Gráficas, Porto Landorf, C. (2009), Managing for sustainable tourism: a review of six cultural World Heritage Sites, Journal of Sustainable Tourism, vol. 17, n. 1, pp. 53–70 Loureço-Gomes, L. (2009), Valoração Económica de Património Cultural: Aplicação da Técnica de Escolhas Discretas ao Alto Douro Vinhateiro Património da Humanidade, Tese de Doutoramento em Ciências Económicas, Universidade do Minho UNESCO (2001), Alto Douro Wine Region. Available online at: http://whc.unesco.org/sites/1046.htm

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Lo sviluppo economico nella regione vitivinicola dell’Alto Douro Lina Lourenço Gomes Department of Economics, Sociology and Management (DESG) and Centre for Transdisciplinary Development Studies (CETRAD), University of Trás-os-Montes and Alto Douro (UTAD) Lígia Costa Pinto Department of Economics, NIMA, School of Economics and Management (EEG), University of Minho

La regione vinicola dell’Alto Douro (RVAD) è un paesaggio culturale vivo e in evoluzione del Portogallo nordorientale. Comprende 13 municipalità su un’area di circa 24.600 ettari, pari al 10% della superficie complessiva della Regione Demarcata del Douro, la prima regione vinicola controllata del mondo (dal 1756). L’elemento morfologico centrale di quest’area classificata è il fiume Douro con i suoi affluenti, Varosa, Corgo, Tavora, Torto e Pinhão. Il paesaggio culturale della RVAD è il risultato dell’antropizzazione di una natura ostile, caratterizzata da un clima impietoso, scarse piogge, terreni rocciosi e alte pendenze. Si tratta di un’eccezionale sintesi del lavoro della Natura e dell’uomo, il quale ha trovato nella produzione vinicola, in particolare del Porto, rinomato a livello mondiale, un modo per valorizzare le caratteristiche della zona. La lunga tradizione della produzione vinicola in questa zona ha generato un paesaggio di grande bellezza, punto di riferimento per l’evoluzione sociale, economica e storica di questa attività. Oltre alle vigne sono importanti gli uliveti, e poi altre coltivazioni come i frutteti e gli aranceti. Oltre che da queste forme di matrice culturale, il paesaggio deve la sua tessitura anche ai boschi e alle foreste naturali. Questi usi del suolo fanno della RVAD un mosaico paesaggistico, come mostra la Fig. 1. Anche se vi sono tracce di frequentazione umana ancora anteriore, le più importanti testimonianze di viticultura nella zona risalgono all’epoca romana (III e IV sec. d.C.). I Romani ridefinirono gli usi del suolo nella valle del Douro, promuovendo dal I sec. in poi la coltivazione di vite, ulivi e cereali. Col passare del tempo la valle di Douro ospitò varie popolazioni: gli Svevi (V secolo), i Visigoti (VI secolo) e i Mori (VIII-XI secolo). Dalla metà del XII secolo la viticoltura fu ottimizzata ed allargata su iniziativa degli ordini religiosi presenti nella regione. Nel tardo medioevo lo sviluppo del commercio a lunga distanza e l’aumento della domanda di vino portò a un ulteriore espansione dei vigneti. Dal XVI secolo in poi la produzione vinicola cominciò ad essere orientata a scopi commerciali, continuando a svilupparsi nel corso del XVII secolo grazie a miglioramenti tecnici e al crescere della domanda sui mercati europei, e specialmente in Inghilterra. Nel 1703 il trattato di Methuen formalizzò e rafforzò i rapporti commerciali fra Portogallo e Inghilterra, ma durante il XVIII secolo vi furono contrasti per motivi di interesse economico fra i commercianti di vino britannici e i contadini del Douro. Questi contrasti indussero lo Stato a regolare il commercio e la produzione del vino creando la Companhia Geral da Agricultura das Vinhas do Alto Douro (1756), a cui si deve la prima demarcazione della zona di produzione. Fino al ventesimo secolo la regione è stata soggetta a vari modelli regolatori (FRAH, 2000). 1. Il sito come paesaggio culturale patrimonio dell’umanità La RVAD è stata designata sito patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel dicembre del 2001 in base ai seguenti criteri attestanti il suo valore universale: 126


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Lo sviluppo economico nella regione vitivinicola dell’Alto Douro

Criterio (iii) – La Regione dell’Alto Douro produce vino da quasi duemila anni e il suo paesaggio è stato modellato dalle attività antropiche; Criterio (iv) – Le componenti del paesaggio dell’Alto Douro sono rappresentative dell’intera gamma di attività relative alla produzione vinicola: terrazzamenti, quintas (aziende agricole vinicole), villaggi, cappelle e strade; Criterio (v) – Il paesaggio culturale dell’Alto Douro è un esempio straordinario di regione tradizionale vinicola europea, che esemplifica l’evoluzione di questa attività umana nel tempo”. (UNESCO, 2001) Il paesaggio culturale dell’Alto Douro è un esempio straordinario di regione montuosa vinicola tradizionale europea, che esemplifica l’evoluzione di questa attività umana nel tempo (Andresen et al., 2004). Nel paesaggio sono visibili e coesistono varie tecniche di viticoltura, dalle più antiche, le vigne terrazzate o socalcos, pre-filossera (fino al 1860) e post-filossera (dalla fine del XIX secolo agli anni 30 del XX secolo), alle tecniche più recenti in uso dal 1970 in poi, fra cui le vigne in patamares, quelle a impianto verticale (ultimi decenni del XX secolo) e quelle piantate secondo il pendio naturale (FRAH, 2000). I socalcos pre-filossera, sostenuti da muretti di pietre scistose, sono stretti e irregolari, spesso con un unico filare di viti. Vi si possono coltivare 3000-3500 viti per ettaro. Intorno alla metà del XIX secolo queste vigne furono distrutte dalla filossera, spesso trasformandosi nei cosiddetti mortórios (o vigne morte), che hanno un’estensione di circa 3488 ettari, di cui 63% occupati da uliveti e 37% da boschi (Figura 2, angolo sinistro superiore). Dopo la crisi causata dalla filossera le viti furono piantate su terrazzamenti continui e regolari, più ampi e leggermente in pendenza per aumentarne l’esposizione al sole. Questi terrazzamenti post-filossera hanno muretti più alti e, essendo più larghi, possono ospitare un numero maggiore di filari (4, 5 o più, corrispondenti a 6000-6600 viti per ettaro), favorendone la meccanizzazione. I terrazzamenti post-filossera costituiscono un importante trasformazione della configurazione del paesaggio, come ci mostra la Fig. 2. In tempi più recenti la necessità di trovare soluzioni più efficienti per facilitare la meccanizzazione e ovviare alla crescente mancanza di manodopera ha portato alla diffusione di vari modi di piantare la vite che non richiedono l’uso di terrazzamenti e/o dei muretti di scisto che li sostengono. Ciò ha comportato una notevole trasformazione della configurazione del paesaggio tradizionale, dove i lunghi chilometri di muretti di scisto sono un tratto caratterizzante. Fin dagli anni Settanta sono stati introdotti i patamares, vigne piantate su una piattaforma orizzontale sostenuta da un terrapieno di altezza variabile a seconda della pendenza naturale. La piattaforma era di dimensioni tali da accogliere due filari di viti, di solito distanti circa due metri per permetterne la meccanizzazione (FRAH, 2000). A causa dell’erosione provocata dall’acqua piovana, oggi i patamares sono più ravvicinati (micro-patamares) e sostengono un unico filare di viti (Figura 2, angolo sinistro in basso). Gli anni Ottanta hanno visto l’affermarsi delle viti a impianto verticale, perpendicolare alle curve di livello, permettendo un’intensificazione dell’uso del suolo e una più completa meccanizzazione (Figura 2, angolo destro in basso). Sulle pendici più basse si trovano anche vigne non terrazzate piantate secondo il pendio naturale. Complessivamente nella RVAD si osserva una prevalenza di socalcos post-filossera (50%) e di terrazzamenti (35%). Le forme più moderne rappresentano il 12%, di cui il 5% è costituito da vigne a impianto verticale e 7% da vigne piantate secondo il pendio naturale e varie. I socalcos tradizionali pre-filossera rappresentano solo il 2% (FRAH, 2000). Le attività vinicole hanno influenzato altri aspetti della cultura e dello stile di vita delle varie generazioni che si sono susseguite nella RVAD: in particolare l’evoluzione dei villaggi, l’accessibilità della regione e la tradizione religiosa. Nella RVAD ci sono 72 villaggi comprendenti ciascuno da 150 a 900 edifici. Le quintas sono un importante punto di riferimento paesaggistico. Strutturalmente sono costituite da un’abitazione (a volte con annessi una cappella e un giardino), un insieme di edifici adiacenti per la produzione vinicola, e 127


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degli appezzamenti occupati da vigne e uliveti. L’evoluzione strutturale delle quintas è il riflesso dello sviluppo del commercio del Porto. Inizialmente il primo piano della casa era usato come abitazione e il piano terra come cantina. Dietro la casa, sfruttando il pendio naturale, si disponevano pigiatoi in cui si poteva scaricare l’uva direttamente. In una seconda fase le strutture per la vinificazione furono separate dalla casa e a ognuna fu assegnato il proprio edificio. In alcune quintas si vedono anche edifici e attrezzature per la produzione dell’olio: frantoi, contenitori, torchi e fornaci (FRAH, 2000). La storia dell’accessibilità della regione, che ha determinato lo stile di vita dei proprietari terrieri locali, ci mostra l’adattamento del territorio all’evoluzione della produzione e del commercio del Porto. Il fiume Douro è considerato “l’elemento strutturale dell’intera ADW” (Aguiar et al., 2001: 26), ed è stata la principale arteria di trasporto fino alla fine del diciannovesimo secolo. Le barche facevano vela da Rabelo portando persone, botti di vino e merci. Nel 1887 la costruzione della linea ferroviaria di Douro migliorò l’accessibilità della regione. Oggi la stazione di Pinhão è una delle più emblematiche di questa linea per la sua architettura e le sue piastrelle ceramiche (Andresen e Curado, 2003, oltre a descrivere il paesaggio e raccontare la storia del Douro fanno anche riferimento all’importanza delle ferrovie nella regione). La religione e i suoi simboli materiali erano di solito associati con la natura e i suoi poteri. Il rapporto fra religione e natura promosse lo sviluppo di uno “spirito del luogo” recante testimonianza del duro lavoro dei viticoltori e delle loro esperienze nella costruzione del paesaggio; inoltre la presenza di vari ordini religiosi nella regione, compreso quello cistercense fin dall’XI secolo, ha avuto un ruolo molto importante nello sviluppo della viticoltura, nella commercializzazione del vino del Douro e nella edificazione di monumenti (chiese, conventi, cappelle e monasteri). 2. Salvaguardia e gestione Secondo Landorf (2009) sono due i pilastri della sostenibilità per i siti del patrimonio mondiale: la pianificazione e l’ampia partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. A seguito dell’inclusione nel patrimonio mondiale, furono creati un Piano intermunicipale per la regione vinicola dell’Alto Douro (PIRVAD) come strumento di gestione territoriale, e due strutture di sostegno amministrativo: la Struttura di Missione per la Regione Demarcata del Douro (Consiglio dei Ministri, risoluzione del 31 agosto 2006), e la Lega degli Amici del Douro Patrimonio dell’Umanità (14 dicembre 2002) in rappresentanza della società civile. Le linee guida del PIRVAD per assicurare la salvaguardia dell’area classificata sono integrate nei Piani Generali Municipali, i principali strumenti locali di gestione territoriale. La parte del PIRVAD comprendente le linee guida strategiche (cioè le linee guida sostantive, un piano di azione e una struttura organica) è stata pubblicata dal Consiglio dei Ministri (Risoluzione 150/2003). Le linee guida sostantive definiscono regole per gli usi del suolo, rivolgendo particolare attenzione alla regolamentazione della viticoltura e dell’ulivicoltura, e alla continuità del mosaico paesaggistico. Nelle linee guida normative il PIRVAD definisce le azioni proibite e stabilisce parametri e limiti per l’impianto e il reimpianto delle viti, tenendo conto delle dimensioni dell’appezzamento, la pendenza, i sistemi di terrazzamento esistenti, il suolo e la presenza in loco o la prossimità di beni culturali. La Struttura di Missione è stata creata per ovviare all’inesistenza di un’agenzia che promuovesse interventi di sviluppo regionale presso le municipalità e facesse da collegamento fra le istituzioni pubbliche centrali e quelle locali. Una delle responsabilità della Struttura di Missione è il monitoraggio e il controllo degli interventi e delle linee guida previsti nel PIRVAD, nel tentativo di salvaguardare il paesaggio e i valori culturali. La Lega degli Amici di Douro Patrimonio dell’Umanità è un’associazione culturale che intende organizzare e supervisionare la conservazione, la salvaguardia, la promozione e la valorizzazione del paesaggio. Questa associazione ha intrapreso varie iniziative di formazione e informazione riguardanti la RVAD. 128


L. Lourenço Gomes, L. Costa Pinto Lo sviluppo economico nella regione vitivinicola dell’Alto Douro

3. L’impatto sull’economia locale Poiché la designazione dell’area come patrimonio mondiale risale ormai a più di 10 anni fa, è importante valutare oggi i suoi effetti sulla popolazione locale e sull’economia. In quanto segue passiamo in rassegna gli effetti riscontrabili in tre settori: la demografia, l’occupazione e il reddito, e il turismo. La nostra analisi non riguarda solo l’area designata patrimonio dell’umanità, ma la regione del Douro nel suo complesso. L’intento originale era di confrontare il 2001 con il 2010, ma in molti casi per mancanza di dati abbiamo preso in considerazione altre annate. Tutti i dati sono tratti dall’INE, l’annuario statistico regionale per gli anni dal 2000 fino al 2010. (i) Demografia La popolazione del Douro è diminuita negli ultimi anni, con un calo della densità da 54 a 50 abitanti per km2 fra il 2001 e il 2010. Questa tendenza non è una particolarità del Douro, in quanto la maggior parte delle regioni dell’interno hanno visto calare la popolazione nell’ultimo decennio. In ogni caso vi è una considerevole variazione di tendenza fra le varie municipalità, come mostra chiaramente la Figura 1. Quanto alla distribuzione della popolazione per età, la Figura 2 mostra un invecchiamento della popolazione sia nel Douro che nel Nord del Portogallo nel suo complesso, anche se la percentuale della popolazione di età superiore a 65 anni è cresciuta maggiormente nel Douro che nel Nord, arrivando approssimativamente al 20%. (ii) Economia La performance economica della regione del Douro non è stata molto diversa da quella del Nord nel suo complesso. Il prodotto lordo della ragione ha raggiunto l’1,4% del prodotto nazionale lordo nel 2003, l’1,3% nel 2010. Il prodotto pro capite del Douro è stato però il 67% di quello nazionale nel 2003, ma solo il 63% nel 2010, per cui la regione è diventata relativamente meno produttiva (questi sono valori nominali, se teniamo conto dell’inflazione lo scarto è ancora più netto). La distribuzione occupazionale per settori di attività, Tabella 1, indica un movimento della popolazione dal settore dei servizi a quello agricolo. Nel 2010 la produzione agricola è provenuta da aziende con dimensioni medie inferiori che nel Nord (4,8 ettari), per lo più coltivate direttamente dai proprietari (92%) con pochi ausili meccanici (solo il 31% delle aziende possiedono veicoli agricoli), e con la maggior parte della manodopera costituita da familiari (circa 1/3) o lavoratori temporanei. Il valore medio della produzione per ettaro è però più alto nel Douro (1512,8) che nel Nord (1440,4). Il vino è uno dei principali prodotti della regione, e la produzione è aumentata, come mostra la Tabella 2, soprattutto per quanto riguarda il vino DOC da tavola, per il quale i tassi di crescita annuali sono al di sopra del 20%, notevolmente più alti che nel Nord. Fin qui possiamo concludere che, a parte un significativo aumento della produzione del vino, la regione del Douro ha avuto un’evoluzione simile a quella della regione Nord in cui è integrata. A questo riguardo va sottolineato che la produzione di vino nell’area proviene per lo più dai socalcos post-filossera e dai terrazzamenti, che hanno sostenuto la crescita qualitativa e quantitativa della produzione sia del tradizionale vino dolce di Oporto che del sempre più rinomato vino da tavola del Douro. (iii) Il turismo Come osservato sopra, è probabile che la designazione della RVAD come patrimonio dell’umanità abbia i suoi effetti maggiori sul turismo. 129


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Il piano per la gestione della RVAD identificava due problemi principali, il basso tasso di presenze e la brevità dei soggiorni. Per quanto riguarda la domanda, il numero di unità e stanze disponibili nel Douro ha avuto una crescita appena al di sotto di quella registrata nella regione del Nord, come mostra la Tavola 3. La maggior parte delle unità e delle stanze sono però concentrate a Lamego e Vila Real (ciascuno con circa il 30% del totale complessivo), e a Peso da Régua e Alijó (15% ciascuno). In totale nel Douro vi sono solo il 5% del numero totale di unità e stanze nel Nord (Figure 3). La durata media del soggiorno non è cambiata in modo significativo dal 2001 al 2010 (Tabella 4) e il tasso di presenze è addirittura diminuito. Questo ci porta a concludere che l’atteso aumento del tasso di presenze e della durata media del soggiorno non ha avuto luogo. Bisogna però notare che il numero e la capacità delle unità è aumentato in misura significativa, è che c’era comunque da aspettarsi una diminuzione della durata media del soggiorno e del numero delle presenze nel contesto di una crisi economica come quella che l’Europa sta vivendo da un decennio a questa parte. In ogni caso, come si vede dalla Tavola 5 il numero di ospiti è aumentato dell’8,05% all’anno, mentre è diminuito leggermente il numero dei pernottamenti. Va notato però che in questo periodo il Nord nel suo complesso ha visto crescere il numero dei turisti del 14% e il numero dei pernottamenti del 4.57%. È possibile che una parte dell’aumento dei pernottamenti nel Nord sia dovuto a un aumento di escursioni giornaliere nella RDAV, ma sfortunatamente non abbiamo dati che confermino questa ipotesi, eccetto per il fatto che il numero dei turisti delle crociere fluviali è aumentato costantemente negli ultimi anni. La maggior parte dei turisti pernottanti nel Douro sono portoghesi, anche se il loro peso relativo sta diminuendo (da 81% nel 2001 a 77% nel 2010), indice di una bassissima internazionalizzazione (Figure 4 e 5). Fra gli stranieri, la maggioranza sono britannici, francesi e spagnoli, anche se l’aumento di turisti britannici e spagnoli è stato minimo fra il 2001 e il 2010. 4. Osservazioni conclusive L’analisi qui presentata si limita a prendere in considerazione i dati disponibili e non aspira a rendere conto di tutti gli effetti della designazione come patrimonio mondiale della zona, e in particolare di quelli intangibili; pochissimi sono del resto gli studi che hanno tentato di valutare i benefici della conservazione del paesaggio (Lourenço-Gomes, 2009). Anche se gli effetti notati sopra sono di piccola portata e in qualche caso poco incoraggianti, soprattutto per quel che riguarda il turismo pernottante, bisogna sottolineare che un effetto molto importante della designazione è stata la conservazione del paesaggio senza compromettere la redditività economica della zona, in particolare per quanto riguarda quella che è ancora la sua attività più importante: la viticoltura e, più in generale, la produzione agricola. Inoltre, come osservato sopra, è possibile che fra gli effetti in questione vi sia l’aumento di escursioni giornaliere da Oporto. Secondo il PDTVD 2007-2013, il numero di crocieristi in visita alla zona è infatti aumentato annualmente del 29% dal 1995 al 2005 (da 13.658 a 177.272 turisti). Un altro sviluppo interessante degli ultimi anni è l’apparizione di strutture ricettive turistiche nello spazio rurale. Sono inoltre in corso delle iniziative per sviluppare degli stabilimenti termali in connessione con il tema del vino. Un’altra importante questione che è urgente approfondire è se il numero di escursioni giornaliere sia effettivamente aumentato. Se questa ipotesi dovesse trovare un conforto empirico è importante che altre municipalità siano coinvolte nella gestione dell’area per promuovere un approccio sostenibile allo sviluppo turistico. Il turismo sostenibile richiede la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti.

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Nuovi paesaggi rurali: idee progettuali per il Castello di Verrazzano Mauro Agnoletti, Giorgio Giraldi Cultlab - Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali Facoltà di Agraria Università di Firenze

1. Introduzione Uno dei problemi per lo sviluppo di iniziative efficaci in difesa del paesaggio è legato ad un ancora insufficiente chiarimento del suo contributo allo sviluppo economico. A fronte di indagini che hanno indicato la prevalenza dei valori paesaggistici nel valore di mercato di alcuni prodotti tipici, non è ancora stato messo in chiaro il suo ruolo nel settore dei servizi e l’indotto da esso generato. La mancata presa di coscienza delle opportunità offerte per lo sviluppo delle aree rurali, pone dei dubbi su scenari quali la competizione internazionale per molti prodotti tipici fondamentali se non si potrà trarre vantaggio dal potenziale offerto dal valore aggiunto “paesaggio”, vero elemento competitivo non riproducibile del sistema italiano. In tal senso non sono incoraggianti le difficoltà emerse in zone quali il distretto del Chianti, per l’inclusione nella lista dei siti protetti del patrimonio mondiale (UNESCO – World Heritage List), rispetto ad altre zone che hanno con successo approfittato della possibilità di trarre un profitto in termini commerciali da tale opportunità, né le frequenti resistenze di alcuni settori produttivi ad accettare di puntare in modo più deciso su questa risorsa, accettando di rivedere criticamente alcuni orientamenti produttivi. Si nota poi un certo scollamento fra l’immagine del paesaggio italiano diffusa in importanti mercati esteri, che tanto contribuisce al successo commerciale dei prodotti agricoli italiani e la poca consapevolezza di tale realtà, che sembra riguardare in modo trasversale non solo il pubblico, ma anche non pochi imprenditori e amministratori. A tale proposito è bene ricordare che settori sicuramente innovativi ed importanti come l’agricoltura biologica, di per se non assicurano il mantenimento del paesaggio, mentre sarebbe il caso di chiudere finalmente il cerchio “prodotti tipici-paesaggio tipico”, sviluppando sistemi di certificazione specifici, aumentando notevolmente il potenziale delle produzioni tipiche e dei servizi del paesaggio. Vi è quindi la necessità di ripensare il concetto di sviluppo rurale, non solo rivedendo le tradizionali classificazioni delle attività economiche attinenti al mondo rurale, che spesso non considerano una vasta gamma di prodotti e servizi ad esso legati, ma anche prendendo atto della crisi di molte produzioni industriali le quali, oltre ad essere state largamente sussidiate dalle PAC ed utilizzare tecnologie spesso dannose per l’ambiente, non offrono grandi possibilità di lavoro, contribuendo inoltre a degradare il paesaggio. In questo senso una seria azione di conservazione, riqualificazione e valorizzazione delle risorse paesaggistiche costituisce oggi un punto fondamentale. Come già accennato la carenza di iniziative importanti è anche legata alla volontà di difendere gli interessi, peraltro legittimi, di attività economiche che interpretano come un limite o un possibile danno alla loro attività le regolamentazioni sul paesaggio. Vi è però anche una questione di sensibilità culturale che deve ancora essere stimolata per una piena comprensione del problema, sia da parte degli amministratori sia del pubblico. Accade ancora di sentire descrivere il paesaggio come una categoria percettiva di se non oggettivabile, quasi che i suoi valori fossero esclusivamente immateriali e non possano trovare una loro concreta rappresentazione nella struttura del territorio, oltre a critiche riguar131


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danti l’impossibilità di mantenere un assetto del territorio legato a diversi contesti socioeconomici. Il limite di tale concezione è chiaramente individuabile nel parallelo con alcuni aspetti delle tematiche urbane, dove in un passato non troppo remoto non era dato per scontato che la conservazione della struttura di un centro storico, nei caratteri del suo impianto e dei suoi manufatti edilizi dovesse rappresentare un obiettivo prioritario. Il riconoscimento dei valori legati ai caratteri delle tipologie edilizie e della morfologia urbana è stato anch’esso il prodotto di una maturazione culturale, che ha individuato nella loro struttura e stratificazione storica un valore da preservare, non diverso concettualmente da quello rappresentato da una terrazzamento, da un filare di aceri e viti, o da un castagneto da frutto. Si tratta poi comprendere che da tempo è in corso una evoluzione del ruolo dell’agricoltore, che da meramente produttivo è divenuto anche di conservazione del territorio, e di prendere atto che anche altre categorie sociali possono contribuire positivamente alla conservazione e valorizzazione del paesaggio, non solo glia agricoltori in senso stretto. È un processo di maturazione necessario se si condivide l’idea che le risorse paesaggistiche siano un patrimonio della collettività e che la loro valorizzazione può anche non avere una funzione produttiva, ed è suscettibile di influenzare il benessere di tutti gli individui. Nel quadro delle correnti attività di valorizzazione del paesaggio rurale in Italia si delineano due tendenze principali, diverse ma complementari. La prima è quella rivolta alla conservazione dei paesaggi storici, attività che prevede l’individuazione nel territorio nazionale di aree di particolare pregio storico e la messa in atto di misure per la loro conservazione. Si tratta di una attività già in corso da parte del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, tramite il catalogo nazionale del paesaggio rurale storico (Agnoletti 2010) e i piani di sviluppo rurale, rivolta ad assicurare al conservazione di un vasto patrimonio storico fatto di luoghi ma anche di conoscenze tradizionali. La seconda attività riguarda la progettazione di nuovi paesaggi, cioè la creazione di indirizzi progettuali rivolti a consentire la produzione ma tenendo presente la necessità di valorizzare l’azienda agricola ed i suoi prodotti anche dal punto di vista paesaggistico. Questo implica non solo una accurata progettazione dei fabbricati e dei resedi, ma anche la disposizione delle diverse colture agricole nel territorio, l’architettura degli impianti (es. seminativi, boschi e colture arboree) e le tecniche di allevamento delle specie coltivate. Tutto ciò con il duplice obiettivo di creare un luogo di produzione ma anche attrattivo dal punto di vista estetico e che permetta all’eventuale cliente, sia che si tratta di degustare ed acquistare prodotti tipici, sia di soggiornare nell’azienda a scopo turistico, di fruire dell’intero territorio aziendale. In altre parole se fino ad oggi ci si è limitati a ripristinare i fabbricati rurali ed i resedi, aggiungendo una piscina ad uso turistico, ora si deve puntare a fare apprezzare al visitatore anche il resto dell’azienda, consentendo di percorrerla e di apprezzare la componente agricola tanto quanto quella insediativa. L’attenzione agli aspetti estetici non rappresenta, come qualcuno paventa, una deriva estetizzante di una società sazia (Berque 1993), rappresenta invece il tentativo di recuperare un elemento intrinseco alla storia di gran parte dell’agricoltura italiana, cioè la creazione della bellezza, riallacciando al contempo i legami della nostra società con la terra, che la modernità ha quasi dissolto. Tutto questo prendendo atto che il valore odierno dell’agricoltura, incluso il valore economico, è fatto di molti valori, ugualmente, l’attrattività di un territorio si basa anche sulla sua immagine, ed una immagine si può costruire anche attraverso scelte tecniche. Normalmente invece si tende a realizzare gli ordinamenti colturali dell’azienda tenendo presente solo aspetti legati alla efficienza produttiva e ai costi, delegando al processo produttivo la costruzione della “qualità” che non può che essere legate ai caratteri organolettici. È la storia di molti territori vitivinicoli, anche di quelli di grande qualità i quali hanno dato spesso notorietà ad un luogo di produzione ma non creando qualità del paesaggio (Agnoletti 2009). Si tratta di una visione restrittiva delle potenzialità dell’agricoltura e dell’agricoltore, che pur limitando l’investimento economico può comunque tenere conto della qualità come risultato complessivo di una gamma di scelte che possono contribuire alla costruzione di una identità competitiva del luogo di produzione utile allo sviluppo di un branding territoriale (Anholt 2007). 132


M. Agnoletti, G. Giraldi Nuovi paesaggi rurali: idee progettuali per il Castello di Verrazzano

2. Percezione e valore del paesaggio1 Come scrive Tiziano Tempesta (2010), per comprendere quali sono i fattori che rendono attraente e piacevole un paesaggio è necessario ricordare preliminarmente che, nel corso dell’evoluzione dell’uomo, la percezione visiva ha svolto una funzione fondamentale dal punto di vista ecologico: nell’ambiente in cui l’uomo ha trascorso la maggior parte della sua fase evolutiva, la savana africana, solo una precisa percezione dell’ambiente esterno poteva consentire all’individuo di sopravvivere. Ne consegue che le modalità di percepire visivamente l’ambiente, e quindi il paesaggio, sono una parte essenziale del patrimonio genetico così com’è stato selezionato nel corso di milioni di anni. Al riguardo Appleton (1975) indicò che gli elementi che rendono piacevole un paesaggio sono quelli che rendono un dato ambiente favorevole alla sopravvivenza. Da tale punto di vista il comportamento umano è da considerare simile a quello di tutti gli animali. D’altro canto, una parte notevole del comportamento dell’uomo deriva dall’apprendimento e dall’esperienza. Secondo Bourassa (1990) possiamo distinguere tre componenti della percezione dell’ambiente: innata (o istintiva), sociale e individuale. La componente innata è legata al nostro patrimonio genetico ed è comune a tutti gli individui. Le componenti sociale e individuale derivano invece dall’apprendimento e sono da porre in relazione alle diverse fasi dello sviluppo di una persona. Nel primo periodo, che corrisponde alla prima infanzia, il rapporto con l’ambiente è mediato dagli adulti che trasmettono la cultura (anche ambientale e paesaggistica) del gruppo sociale d’appartenenza. Successivamente, il rapporto con l’ambiente ed il territorio assumerà una dimensione totalmente personale e dipenderà essenzialmente dai processi cognitivi individuali. Per quanto riguarda la percezione istintiva, come testimoniato da numerose ricerche (Kaplan R. e Kaplan S., 1989; Parsons e Daniel, 2002) sono in genere preferiti tutti gli elementi che richiamano in qualche modo il paesaggio della savana (l’ambiente in cui l’uomo ha trascorso la maggior parte della sua fase evolutiva), paesaggi, quindi, caratterizzati da alberi sparsi, boschi, praterie, piccoli corsi d’acqua e profili curvilinei del suolo. All’opposto i fattori sociali che determinano il valore percettivo sono assai più variabili, poiché sono in stretta relazione al gruppo di appartenenza e ai cambiamenti che la cultura subisce nel tempo. La trasformazione dell’ambiente è, come osservato, uno dei processi attraverso i quali un gruppo sociale cerca di affermare la propria identità. Secondo Costonis (1982) ogni paesaggio antropico contiene al suo interno elementi identitari che hanno la funzione di favorire la stabilità culturale e sociale della collettività o del gruppo che l’ha realizzato e, a livello individuale, vi è la tendenza a preferire il paesaggio che riporta al suo interno i segni (simboli) del gruppo stesso. La trasmissione dei valori identitari del paesaggio avviene durante la prima infanzia ed è profondamente radicata nell’individuo, operando prevalentemente a livello inconscio ed emotivo. Da ultimo, la componente più strettamente individuale, dipende da una pluralità di fattori quali l’istruzione ricevuta, il lavoro svolto, lo status sociale, ecc. In generale, comunque, essa è riconducibile ad alcuni elementi tipici della cultura occidentale che sono trasmessi tramite l’educazione superiore. I canoni del “bello” in questo caso sono il frutto delle elaborazioni concettuali delle elite più colte e, benché mutevoli nel tempo, hanno mantenuto al loro interno alcuni punti fermi, per molti versi riconducibili alla cultura classica. In estrema sintesi si può affermare che vi sono due componenti di base di tale sistema di preferenze. La prima tende a privilegiare i paesaggi naturali che, in qualche modo, sono riconducibili a quello della savana (ad esempio il paesaggio dell’Arcadia, il giardino all’inglese, ecc.) (Appleton, 1975). La seconda, al contrario, privilegia elementi quali l’armonia, il rapporto tra le proporzioni, o, più in generale, la capacità dell’uomo di modificare l’ambiente naturale in modo equilibrato. Questo secondo elemento tende perciò a favorire l’apprezzamento dei paesaggi culturali, la loro peculiarità e integrità. Mentre i benefici delle prime due componenti (istintiva e sociale) sono riconducibili al senso di sicurezza che deriva dal trovarsi in un ambiente conosciuto, la terza può essere ricondotta al bisogno di bello

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Questo paragrafo è ripreso dal lavoro di Tiziano Tempesta (2010), cit. 133


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Fig. 1. Il castello di Verrazzano con il vigneto antistante il castello oggetto del progetto. The object of our project: the Verrazzano castle with the vineyard in front of it.

che l’uomo ha manifestato da una certa fase del suo sviluppo in avanti, testimoniata dall’emergere delle prime forme artistiche e dall’attenzione posta non solo alla funzione, ma anche alla forma dei manufatti realizzati fin dalle epoche più antiche. 3. Dalla percezione alla progettazione Il riconoscimento del genius loci e la progettazione creativa funzionale rivestono un ruolo centrale nella creazione di un nuovo paesaggio. In termini di pianificazione, la creatività consiste nel riconoscimento di nuove relazioni fra elementi esistenti in modo da rinnovare senza sconvolgere, per produrre reddito nel rispetto dell’ambiente, delle risorse umane e dei valori storici, ma soprattutto per fornire un quadro d’insieme che renda altamente funzionali e armoniose tali relazioni. È grazie a questa visione che l’imprenditore agricolo diviene l’artefice della produttività, della cura e della bellezza del paesaggio. Il paesaggio non è semplicemente un’immagine, ma la sua elaborazione da parte dell’osservatore. Un bel paesaggio è qualcosa che risulta immediatamente decodificabile per il cervello visivo perché ricalca la sua architettura retinica, il suo ordine topografico, il suo modo di estrarre informazioni essenziali compiendo il minimo sforzo, in osservanza del principio di economicità che del resto si ritrova in tutti i processi evolutivi. Il cervello infatti, non avvertendo alcun conflitto in un’immagine che ne ripete l’architettura, la preferisce immediatamente e istintivamente ad altre (Fiorentini e Maffei 2001). Non meraviglia quindi che il concetto di paesaggio nasca dalla rappresentazione pittorica e colpisca in questa forma più di quello reale perché «proprio come l’arte, il cervello cerca ciò che è costante ed essenziale» (Zeki 2003). La rappresentazione artistica può quindi servire a determinare i principi guida necessari ad agire con successo sul paesaggio e a mettere la pianificazione in grado di rendere reale in maniera estesa e sistematica quello che finora è stato solo dominio dell’arte. La rappresentazione artistica suggerisce le 134


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modalità con le quali i vari elementi del paesaggio devono essere progettati perché in accordo con il funzionamento del cervello visivo. L’osservatore trova facile confrontare la visione pittorica con quelle già contenute nel suo archivio mnemonico proprio perché, secondo quanto emerso negli studi di neurobiologia, le immagini che il suo cervello elabora sono registrate in una forma molto simile a quella pittorica. Infatti il cervello visivo riesce ad identificare direttamente solo le linee orizzontali e verticali, mentre per quelle curve, che sono di gran lunga prevalenti, soprattutto in un paesaggio naturale, deve ricorrere alla loro ricostruzione attraverso una serie di rette tangenti. Ne segue che una rappresentazione artistica eseguita con la tecnica del tratteggio è già una decodificazione della realtà in una forma direttamente percepibile dal cervello visivo ed è perciò di più facile lettura ed interpretazione. Le tangenti, non solo sono già pronte, ma sono anche già orientate e presenti nei punti giusti. È per questo che esaminando un disegno ci si accorge molto più facilmente di possibili errori o imperfezioni nella progettazione e si riesce con meno sforzo ad elaborare possibili soluzioni. Produrre un disegno manuale è certo molto più impegnativo che realizzarne uno digitale, ma permette di raggiungere un livello rappresentativo ottimale, di facilitare la revisione del progetto e una sua eventuale rielaborazione. Questo è tanto più vero quanto più ampia è la porzione di territorio da progettare, infatti i disegni devono essere abbastanza grandi da poter annotare tutti i particolari caratterizzanti nella misura percepibile dal cervello visivo. Non si tratta infatti di realizzare un’immagine simbolica, come normalmente accade nell’arte, ma di realizzare un progetto tecnico che non può essere sintetizzato oltre ad una certa misura perché deve possedere determinati requisiti. “Osservare meglio per fare meno: è il paradosso pratico della survey” (Ferraro 1998) della pianificazione geddesiana e sembra adattarsi perfettamente alla rappresentazione artistica come base di una progettazione che non si basa esclusivamente su prerequisiti tecnici, quanto sull’«educazione di nuovi occhi capaci di risvegliarsi dal sonno dell’abitudine e della passività per vedere la bellezza che ancora sopravvive» (Geddes 1916). Un altro elemento molto importante che contribuisce a determinare la precisione della percezione spaziale è il colore infatti «la così detta prospettiva aerea, descritta per la prima volta da Leonardo, produce un gradiente di colore attraverso la resa degli oggetti vieppiù sbiaditi con l’aumentare della distanza. In natura questo fenomeno è dovuto all’aumento della massa d’aria attraverso la quale gli oggetti sono visti» (Arnheim 1962). Contrariamente a quanto forse si potrebbe pensare, ciò costituisce la parte più difficile della rappresentazione, perché non si tratta solo di una scelta di colore, ma anche della sua tonalità che deve essere tale da garantire quel senso di profondità capace di far “entrare” l’osservatore nel paesaggio. Ma il metodo artistico interessa alla scienza anche perché ha capacità anticipatorie: la continua ricerca di un’interpretazione sempre più profonda e completa porta inevitabilmente verso il futuro e solo riuscendo ad anticipare le richieste della mente e della sua continua evoluzione, l’utente potrà essere attratto dai prodotti e dal paesaggio che li produce. La rappresentazione artistica funge così da starter della progettazione e l’opera cui da vita, si configura come “non finita” in quanto in continua evoluzione, attribuibile non più al singolo artista, ma ad una collettività e autenticamente al servizio di essa. Inoltre, poiché l’arte è per sua natura incline ad operare con i principi della percezione, è più facile che essa possa condurre ad un risultato estetico in grado di costituire una rilevante risorsa economica. In termini metodologici è necessario determinare quale sia l’estensione territoriale ideale da pianificare, ovvero quella che permette di raggiungere una coerenza all’interno della progettazione al fine di esprimere la singolarità del luogo. Riconoscere lo spirito del luogo è un atto creativo perché consiste nell’intuire appieno le potenzialità delle risorse di un territorio. Ci si trova di fronte ad esso come uno scultore di fronte ad un blocco di marmo: un colpo di scalpello sbagliato potrebbe compromettere l’intero lavoro. Se infatti è vero che altri avevano tentato di ricavare una statua dal pezzo di marmo dal quale poi Michelangelo estrasse il David, egli ci riuscì perché fu capace di capire quale figura era possibile scolpire e solo in seconda istanza perché era tecnicamente in grado di farlo. Il concetto è per altro identificabile anche nel principio geddesiano del «riconoscimento dell’unità come fondamento di ogni realtà e come obiettivo di ogni conoscenza». In questo senso si può parlare di un valore estetico correlato all’identità del paesaggio: un paesaggio appare tanto più esteticamente degno di considera135


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zione quanto più esso dimostra di possedere un’identità, una coerenza che lo renda leggibile perché prima di percepire le cose nella loro separatezza, noi le percepiamo nella loro unitarietà. Dal metodo artistico si mutua quindi anche lo spirito unitario con il quale considerare i cinque elementi già individuati da Kevin Lynch (2006) ne l’Immagine della città, applicabili come egli stesso afferma anche ad altre immagini ambientali: - i margini hanno la funzione di individuare il confine fra diverse entità. Sono elementi lineari che segnano limiti (sentieri o aree inutilizzate fra diversi usi del suolo, recinzioni). All’interno dell’area devono avere una valenza informativa e connettiva e proprio per questo devono essere facilmente individuabili. La loro marcatura agisce sul senso di sicurezza perché aumenta la sensazione di ordine e la facilità di percezione dello spazio; - i nodi, ovvero quei luoghi che costituiscono l’obiettivo dell’osservatore e verso i quali e dai quali egli si muove. Sono spesso luoghi a valenza simbolica, fortemente caratterizzanti che perciò devono essere facilmente accessibili tramite adeguati percorsi; - i percorsi: è importante che questi ultimi siano fluidi e funzionali, dato che mettono in relazione gli elementi ambientali, le immagini, le informazioni e la memoria. Per mezzo delle visuali devono permettere a chi li utilizza di orientarsi e monitorare l’ambiente circostante; - i riferimenti: il paesaggio deve possedere un numero adeguato di elementi puntuali che servono a migliorare la capacità orientativa dell’osservatore e a facilitarne i processi di memorizzazione; - le aree dotate di una certa caratteristica individuante o di una funzione unitaria (uso del suolo o caratteristiche tipologiche): devono essere disposte in maniera adeguata le une rispetto alle altre, sia dal punto di vista funzionale che dal punto di vista ambientale. A livello quantitativo sono in genere l’elemento dominante del paesaggio.

Fig. 2. In primo piano il vigneto posto sotto il castello, oggetto di intervento. Il paesaggio osservabile dalla terrazza panoramica mostra evidenti tracce delle modificazioni imposte dagli ultimi decenni di specializzazione produttiva, con estese monocolture a vigneto che hanno omogeneizzato e semplificato il mosaico. In the foreground, the vineyard below the castle, the object of our plan. The landscape observable from the panoramic terrace of the castle shows clear traces of the modifications imposed on it by the last few decades of agricultural specialization, with extensive grapevine monocultures that have homogenized and simplified the land mosaic. 136


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4. Il castello di Verrazzano Il castello di Verrazzano sorge tra i rilievi collinari che si snodano tra l’alta val di Greve e la Val di Pesa dove i frequenti ritrovamenti archeologici, soprattutto di materiali ceramici, rivelano un’antichità di insediamento che risale almeno al periodo etrusco - romano. La toponomastica testimonia, attraverso i numerosi toponimi di natura prediale, l’esistenza in tutta l’area, almeno in epoca romana, di una fitta rete di stanziamenti: secondo la pratica fiscale e amministrativa dell’epoca imperiale ai fondi veniva attribuito il nome del proprietario aggettivato che, con l’iscrizione delle proprietà terriere al censo, si legava durevolmente alle località stesse. Allo stesso modo il toponimo Verrazzano, riscontrabile anche in Casentino e Valdarno, è da rapportare al personale latino Veratius. La permanenza di questo nucleo insediativo è testimoniata da una pergamena della metà del XII secolo facente parte dell’archivio dell’abbazia di Passignano in cui due coniugi dettero in pegno al monastero un orcio di olio, un vigneto e le sue pertinenze. Dette proprietà erano ubicate a Verrazzano, i cui prodotti principali, già allora, erano rappresentati dal vino e dall’olio. All’epoca probabilmente l’abitato di Verrazzano era costituito da un semplice villaggio, senza chiesa parrocchiale; alla metà del XIII secolo, però, l’insediamento rurale crebbe d’importanza tanto da dare il nome alla chiesa (Vicchio ad Varazzanum), nonostante questa fosse ubicata a Vicchiomaggiore e da cognominare un proprietario fiorentino, quel Clari da Verrazzano nel quale è stato riconosciuto uno dei progenitori della famiglia che darà i natali al celebre navigatore. I Verrazzano, che tenevano ad affermare la loro origine longobarda, fecero parte di quel ceto borghese di mercanti, banchieri, giudici e notai che costituì il fulcro della classe politica della repubblica fiorentina. La famiglia si distinse per avere ottenuto numerose cariche come il Gonfalonierato di Giustizia e il Priorato. Nel 1751 i Lorena conferirono alla famiglia da Verrazzano il titolo nobiliare. Le proprietà possedute nel luogo d’origine, nonostante le varie ramificazioni della famiglia, non verranno mai alienate; anzi, proprio grazie lasciti testamentari pervenuti dai rami della famiglia estintesi o da imparentamenti con altre casate, come gli Albizi e i Martelli, la tenuta di Verrazzano si accrebbe progressivamente sino a formare una grossa fattoria composta da dodici poderi. Come nel resto della Toscana, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, anche nella proprietà dei da Verrazzano si attuò quella trasformazione della struttura produttiva che porterà alla nascita del cosiddetto “sistema di fattoria” che cercava di razionalizzare il lavoro nei vari poderi lasciandogli autonomia produttiva ma organizzata intorno ad un centro direzionale. La fattoria era sede, infatti, della raccolta della parte padronale e della trasformazione e conservazione dei prodotti. A livello edilizio, invece, questa si esprimeva in un complesso dove, accanto alla residenza padronale, si dislocavano magazzini, cantine, orciai, frantoi. Lo stesso processo si verificò anche per la fattoria di Verrazzano alla fine del Seicento quando il nucleo abitativo più antico, costituito da una casa-torre merlata dalle forme duecentesche, fu contornato da un articolato sistema di costruzioni destinati alla lavorazione e conservazione dei prodotti mentre la casa padronale fu dotata di un giardino all’italiana con fontana ottagonale, una grande vasca e una cappella in cui sono ancora oggi custodite un’opera del Ghirlandaio e due tele realizzate dalla bottega di Andrea del Sarto. Così, nel 1832 descrisse la fattoria di Verrazzano Repetti: “Villa signorile con tenuta annessa nel popolo di San Martino a Valle, a circa due miglia a maestrale di Greve, Diocesi di Fiesole, Compartimento di Firenze. Questo resedio con fattoria annessa è noto per essere stata costà la culla dei Nobili da Verrazzano, i di cui discendenti conservarono fino all’ultimo fiato cotesto luogo in venerazione, forse, di aver dato il Casato alla prosapia fiorentina alla quale appartenne lo scopritore della Luigiana nell’America Settentrionale”. Agli inizi del XIX secolo la famiglia da Verrazzano si estinse e la tenuta passò alla nobil casa Vaj di Prato, dalla quale pervenne ai fiorentini marchesi Ridolfi che la vendettero all’attuale proprietario. Come in altre fattorie toscane fino agli anni del secondo dopoguerra gran parte degli ordinamenti colturali conservavano le caratteristiche dell’agricoltura tradizionale, con colture promiscue, terrazzamenti, campi di piccola dimensione, che hanno subito profonde trasformazioni nei decenni successivi. 137


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5. La proposta progettuale L’opportunità di prendere il Castello di Verrazzano come caso di studio per proporre un nuovo paesaggio agricolo è legata anche alla disponibilità del proprietario, Pierluigi Cappellini e alle condizioni dell’azienda, che accanto alla produzioni vitivinicola ed olivicola, presenta un’importante attività agrituristica. Tutto questo, oltre alla necessità di rinnovare i vigneti offre le condizioni per proporre una nuova architettura degli impianti con l’obiettivo di rendere fruibile al pubblico una porzione maggiore del paesaggio dell’azienda, aumentandone il pregio estetico nel rispetto delle esigenze produttive. La collocazione strategica del Castello, posta nella parte alta del versante, consente di apprezzare una vasta porzione di territorio posta sia a valle che a monte dell’immobile. La zona negli ultimi cinquant’anni è stata oggetto di profonde trasformazioni che hanno notevolmente alterato il mosaico paesaggistico tradizionale. Mentre nel vicino territorio di Lamole (Baldeschi 2010), il valore degli interventi realizzati è dato dal ripristino dei terrazzamenti e del sistema di regimazione idraulica nel rispetto di un assetto storico del paesaggio (Agnoletti 2010), a Verrazzano il progetto non si è posto il problema di una ricostruzione storica, ma ha invece scelto di produrre un nuovo paesaggio che è in parte il prodotto di una rielaborazione di valori lentamente sedimentati nel passato, come avviene in qualunque processo di innovazione. Questo si esprime non solo nella reinterpretazione del terrazzamento, ma anche nella scelta di materiali e tecniche in linea con le “regole” alla base della costruzione di una qualità del paesaggio posto nel territorio chiantigiano. La proposta riguarda il versante nord della pendice collinare dove si trova l’azienda, lungo il quale si snoda la strada di accesso che dal fondo valle (SS322) sale verso il castello. Il vigneto e l’oliveto oggetto dell’intervento rappresentano la “porta d’ingresso” all’azienda perché tale accesso offre al visitatore la veduta principale dal punto di vista scenico (vedi fig.4). Il territorio si sviluppa per un totale di circa 35 ettari, dal crinale collinare, a quota 410 m s.l.m., sino a valle, presso il letto del fiume Greve, a quota 200 m s.l.m., con una pendenza media del 25% circa. Dopo un attento esame del luogo, si sono rilevati diversi problemi, alcuni di natura tecnica e altri di natura percettiva. Essi possono essere riassunti nei seguenti punti: - un vigneto disposto a rittochino che inoltre non offre una vista paesaggisticamente gradevole a valle del castello e dei locali adibiti alla degustazione dei vini e dell’olio: la regolarità e la monotonia dei filari posti in un unico grande spazio (circa 20 ha) non offre “movimento” all’insieme e soprattutto nessuna “attrattiva”, risultando quasi una parte staccata dell’azienda; - il castello appare “confuso” tra il vigneto, l’oliveto e una parte del versante destinata a un uso del suolo improduttivo. Infatti la mancanza di una gerarchia visiva penalizza l’impatto estetico, soprattutto in casi come questo, nei quali l’immobile ha una valenza simbolica e deve fungere da riferimento; - la necessità di eseguire interventi migliorativi alle colture correnti prima di effettuare la riconversione al biologico; - la mancanza di una passeggiata che motivi un percorso attraverso il vigneto con funzioni ricreative e di promozione commerciale; - la presenza di un parcheggio per gli ospiti, situato proprio davanti al castello, impedisce loro di accostarsi ai luoghi con un approccio più profondo che colleghi indissolubilmente la qualità del paesaggio a quella del prodotto. Il progetto si è posto quindi l’obiettivo di dare movimento al vigneto con una diversa architettura, intervenendo anche sulla parte sommitale posta accanto al castello, proponendo una viabilità pedonale interna con piazzole di sosta e rimodellando la pendice. Per quanto riguarda il vigneto, osservando l’andamento naturale del terreno e l’abbondante presenza in loco di pietre (Alberese), si è optato per la progettazione di terrazzamenti a scogliera, con un’altezza di 2,00 m, disposti lungo le curve di livello ad una distanza di circa 16 m l’uno dall’altro. Questo aspetto é importante in quanto la possibilità di riproporre un terrazzamento intende tener presente le esigenze dell’azienda permettendo l’uso dei mezzi meccanici. Al fine di facilitare la meccanizzazione dei filari (sesto d’impianto approssimativamente di 2,50 x 0,90 con una pendenza trasversale del 10-15%) si è scelto di abbassare ulteriormente 138


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la pendenza della terrazza effettuando un gradino dopo il filare di circa 10-40 cm. La scelta proposta consegue anche lo scopo di ridurre la velocità di scorrimento superficiale delle acque ed i fenomeni erosivi riducendo la perdita di suolo che nel Chianti può arrivare a 230-300 t/ha anno (Zanchi e Zanchi 2008). Inoltre, è stato progettato un canale di scolo superficiale delle acque che segue l’andamento della viabilità pedonale e che, oltre a servire per lo smaltimento delle acque in eccesso dei terrazzamenti, ha la funzione di animare ulteriormente il paesaggio. Grazie alla particolare morfologia concava del versante del Castello di Verrazzano i terrazzamenti, oltre a contenere l’erosione, creano un effetto visivo “ad anfiteatro” che permette di apprezzare a pieno il vigneto e l’oliveto che si fanno espressione della bellezza del paesaggio collinare del Chianti. Inoltre i terrazzamenti, che vanno dal crinale a valle, proseguono anche intorno al castello in modo da valorizzarlo ristabilendo la gerarchia visiva. Da un punto di vista architettonico l’utilizzo dei terrazzamenti intorno al castello ha permesso di sottolinearlo inserendolo in un contesto paesaggistico più controllato. In riferimento al parcheggio si è optato per il suo trasferimento in un’area più lontana dal castello e facilmente raggiungibile percorrendo un breve tratto a piedi. L’area precedentemente destinata al parcheggio, situata lungo un terrazzamento, è stata impreziosita con olivi e aiuole a scopo ornamentale. Da essa partono due possibili percorsi pedonali: uno si dirige verso valle attraverso i vigneti, mente l’altro sale verso il crinale attraverso l’oliveto. Per la viabilità pedonale è stato privilegiato un approccio pittorico-paesaggistico per la valorizzazione delle visuali riferendosi al concetto di giardino-paradiso caratterizzato da spirito geometrico, profumi e colori per accompagnare il percorso. Il primo ha la funzione di rassicurare il visitatore tramite il concetto di ordine e i secondi di ricordare le cose belle e buone che può produrre la terra. La viabilità pedonale verso valle si presenta come un percorso alberato con olivi o alberi da frutto. In prossimità dei terrazzamenti è prevista la piantumazione di filari di vite maritata con olivo o acero nel segno della tradizione dei vigneti storici e, ove possibile, anche di erbe aromatiche rustiche, eventualmente in grado di dare origine a un effetto cromatico e olfattivo tramite un’appropriata disposizione di diverse varietà di una stessa specie. Tali erbe hanno anche lo scopo di servire per il miele prodotto in azienda. A terrazzamenti alterni è stata inserita un’area per la sosta dalla forma semicircolare che, oltre a riecheggiare la morfologia “ad anfiteatro” del paesaggio, permette di apprezzare lo spettacolo del paesaggio in un luogo che viene percepito come rassicurante in quanto spazio controllabile e allo stesso tempo riservato grazie alla presenza della vegetazione arborea circostante (vedi figg.7 e 9). L’area consente di fruire di uno spazio multifunzionale per vivere il vigneto come se fosse un giardino. A metà percorso è stato ideato un punto ristoro dall’estetica architettonicamente semplice ma elegante, con aiuole, coltivate ad erbe aromatiche e disposte in maniera simmetrica a semicerchio lungo dei piccoli terrazzamenti. Al centro invece è stata progettata una piazzola con una fontana che richiama quella rinascimentale situata nel giardino del castello. Il punto ristoro serve per la degustazione dei prodotti aziendali, similmente alla “Cantinetta dei Verrazzano” che si trova nel centro di Firenze. Il punto ristoro realizzato a valle di un naturale dislivello del terreno, costituisce una terrazza panoramica in grado di offrire sia una visuale sui filari di vite terrazzati e sul castello a monte, che sul giardino di spezie sottostante e sugli altri vigneti a valle. Esso diventa così il fulcro di uno scenario incantevole, ecologicamente sostenibile e perciò in grado di contribuire alla qualità complessiva del paesaggio che assicura il luogo ed i prodotti. La viabilità pedonale prosegue verso il bosco fino al fiume Greve riallacciandosi ad un nuovo percorso lungo il fondovalle che si dirige verso le foresterie dell’agriturismo. La viabilità verso il crinale attraversa invece i terrazzamenti coltivati ad oliveto e offre un panorama dell’azienda e del castello verso il fondovalle. Anche qui una piazzola funge da meta e da sosta per i visitatori. Nell’insieme della progettazione è stato considerato fondamentale l’inserimento armonioso delle forme architettoniche nella morfologia naturale del paesaggio, in modo da sottolinearne ed amplificarne gli elementi significativi e caratterizzanti. In questo caso la valorizzazione si ottiene trovando il punto di equilibrio tra gli elementi architettonici e il contesto paesaggistico, attraverso la semplicità e la naturalezza nelle disposizioni, nella scelta delle morfologie e dei materiali. 139


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Fig. 3. Pianta attuale dell’azienda del Castello di Verrazzano. The present plan of the Verrazzano Castle farm. 140


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Fig. 4. Visuale del vigneto attuale. Il vigneto non offre una vista paesaggisticamente gradevole a valle del castello e dei locali adibiti alla degustazione dei vini e dell’olio. L’impatto estetico del castello è penalizzato dal trovarsi presso un’area destinata ad un uso del suolo improduttivo. Inoltre manca una passeggiata che motivi un percorso attraverso il vigneto e l’oliveto con la funzione di estendere la fruizione del paesaggio al resto dell’azienda. A view of the present vineyard. The vineyard does not afford a pleasant view of the area downhill from the castle and of the buildings where wine and oil are tasted. The aesthetical impact of the castle is diminished by its nearness to an area used for non-agricultural purposes. Furthermore, there is no path inviting visitors to stroll through the vineyard and the olive grove, and thus enjoy the whole of the farm landscape. 141


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Fig. 5. Pianta del progetto. Si è scelto di realizzare dei terrazzamenti i quali, oltre a contenere l’erosione e scambiare calore creano un effetto visivo ad anfiteatro che permette di apprezzare appieno il vigneto e la bellezza del paesaggio collinare. I terrazzamenti, adibiti a oliveto, o a frutteto, proseguono anche nelle aree adiacenti gli immobili storici valorizzandoli. Project map. We decided to build terraces, since these, besides controlling erosion and absorbing and giving back heat, will create a theater-like visual effect allowing guests to fully appreciate the vineyard and the beauty of the hill landscape. The terraces, which support olive or fruit orchards, extend to the areas adjoining the historical buildings and thus enhance the building themselves. 142


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Fig. 6. Visuale del progetto. Il percorso che dal crinale attraversa la nuova sistemazione dell’oliveto e del vigneto e raggiunge a valle una terrazza panoramica che permette di apprezzare la bellezza del paesaggio agrario e del castello. General view of the project. The path leading down from the ridgeline goes through the rearranged olive orchard and vineyard to a panoramic terrace affording a splendid view of the rural landscape and the castle. 143


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Fig. 7. Visuale dell’area di sosta. Lungo la passeggiata attraverso il vigneto sono state previste diverse aree di sosta progettate secondo il criterio della valorizzazione delle visuali, in modo da permettere all’osservatore di orientarsi e apprezzare l’ambiente circostante. La vista del castello serve a migliorare la capacità orientativa e a fungere da riferimento nella mappa cognitiva. L’area consente di fruire di uno spazio multifunzionale per vivere il vigneto come se fosse un giardino. La scelta delle specie arboree riprende le specie impiegate nell’agricoltura tradizionale toscana, con particolare riguardo all’acero, ricreando alcuni filari di vite maritata. View of a resting nook. We planned several resting nooks along the path through the vineyard, planned so as to make the most of the view, in order to help visitors to orient themselves and appreciate their surroundings. The view of the castle helps orientation and serves as a landmark in visitors’ cognitive map. The whole area is conceived as a multifunctional space to allow the vineyard to be enjoyed as a garden. Our choice of tree species is based on those employed in Tuscan traditional agriculture, notably maple, which will be used to recreate some rows of grapevine trained onto trees (vite maritata). 144


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Fig. 8. Sezione tipo. Data l’abbondante presenza in loco di pietre, si è optato per la progettazione di terrazzamenti a scogliera, con un’altezza di 2,0 m, disposti lungo le curve di livello ad una distanza di circa 16,0 m l’uno dall’altro. Al fine di ottimizzare la meccanizzazione dei filari si è scelto di abbassare ulteriormente la pendenza della terrazza effettuando un gradino dopo il filare di circa 20 cm al fine di evitare una pendenza trasversale del 10%. Sample section. Given the abundance of rock on the site, we opted for 2 meter high a scogliera terraces arranged along contour lines about 16 m apart. To facilitate the mechanization of the vineyard, we decided to add a ca. 20 cm high step after each row to reduce the current 10% transversal acclivity of the terrace.

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New landscapes: planning ideas for the Verrazzano Castle Mauro Agnoletti, Giorgio Giraldi Cultlab - Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali Facoltà di Agraria Università di Firenze 1. Introduction One of the problems in coming up with effective actions to protect the landscape is that the nature of landscape’s contribution to economic development is still unclear. While some investigations have highlighted the importance of the landscape factor in the market value of certain typical products, sufficient light has not yet been shed on the role of landscape in the service sector and the income it generates. This lack of awareness of the opportunities for economic development offered by rural areas raises doubts about the competitiveness of many fundamental typical products, since the true non-reproducible competitive advantage of the Italian system, the “landscape” added value, is not being adequately exploited. It is not encouraging in this regard that areas such as the Chianti district have encountered difficulties in obtaining inclusion in the UNESCO World Heritage List, whereas other areas that were granted inclusion have been able to benefit commercially from this opportunity. It is also not encouraging that some productive sectors are often reluctant to set their stakes more determinedly on the landscape resource and, accordingly, accept to critically revise certain production orientations. One also observes a discrepancy between the image of the Italian landscape on important foreign markets, which contributes greatly to the commercial success of Italian commercial products, and the scarce awareness of the importance of this image not only among the Italian general public, but even among quite a few entrepreneurs and managers. In this regard, it is worth remembering that sectors such as biological agriculture, although certainly important and innovative, by themselves do not guarantee landscape conservation. What we need, instead, is the final closing of the “typical products-typical landscape” circle through the institution of specific certification systems. Such a measure would considerably enhance the potential of typical agricultural productions and landscape services. We need to rethink the concept of rural development. To do so, we need to revise the traditional classifications of economic activities in the rural world, which often take no account of the vast range of products and services the rural world generates. But we also to acknowledge the crisis of many industrial productions that have been largely subsidized with CAP funds, often use environmentally harmful technologies, do not offer significant job opportunities, and contribute to the deterioration of the landscape. The undertaking of serious action to conserve, improve and promote landscape resources is hence a crucial priority today. As we observed above, the present lack of such action partially depends from a wish to defend the undoubtedly legitimate interests of economic concerns that view landscape restrictions as limiting or undermining their activities. There is, however, also an issue of cultural awareness among both administrators and the general public, which will need further stimulation before a full understanding of the issue is achieved. Landscape is sometimes still described today as a non-objective perceptual category, as if it had only immaterial value that is not concretely manifested in land structure. It is also argued that a land-management system based on different socioeconomic contexts is impossible to maintain. That this is a myopic conception can be shown with a parallel with certain aspects of the debate on urban themes. In a not too distant past, it was not given for granted, as it is today, that the conservation of the structure of a historical town center and its buildings should be a priority. The present awareness of the values of building types and urban morphology is the result of a cultural maturation that recog147


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nized the historical structure and stratification of towns as a value to be preserved. Now, this value is not conceptually different from that of a terrace, a row of maple trees with grapevine trained on them, or a chestnut grove. Furthermore, we need to understand that for a considerable time now the role of farmers has been evolving from that of mere producers to that of land conservers, and that other social categories besides farmers in the strict sense can positively contribute to the conservation and promotion of the landscape. This maturation is necessary if we share the idea that landscape resources are a collective heritage, and that their promotion does not necessarily need to have a productive function, and can positively influence the well-being of the whole collectivity. Two main trends, different but complementary, can be discerned in current actions being undertaken to promote the rural landscape in Italy. The first one addresses the conservation historical landscapes. It involves the singling out of areas of special historical significance within the national territory and enacting measures to conserve them. This is an already ongoing activity of the Ministry of Agricultural, Food and Forest Policies, through the national catalogue of the historical rural landscape (Agnoletti 2010) and rural development plans. The aim is to ensure the conservation of a vast historical heritage, made up of places but also of traditional knowledge. The second trend is the planning of new landscapes, that is, the creation of planning guidelines that will allow agricultural production, but taking account of the need to improve farms and their products from a landscape standpoint. This involves not only accurate planning of farm buildings and their curtilages, but also planning the arrangement of the various cultivations—ploughed fields, woods, orchards, etc., and the farming techniques to be employed for the cultivated species. All this with the dual objective of creating places for production that are also aesthetically attractive and make the whole farm area available for clients’ enjoyment, whether they are tasting and buying typical products or spending their holidays at the farm. In other words, while so far work on holiday farms has been limited to the renovation of rural buildings and their curtilages, with the mere addition of a swimming pool for the tourists, today our aim must be to allow visitors to access the whole farm area and appreciate its agricultural components as much as its buildings. Attention to aesthetic aspects is not, as some fear, an aestheticizing drift of a replete society (Berque 1993), but an attempt to retrieve something that is intrinsic to the history of much of Italian agriculture, namely, the creation of beauty, while renewing at the same time the bonds between our society and the land that modernity has almost dissolved. In doing so, we should acknowledge that the present value of agriculture, including its economic value, is constituted of many different values. The attractiveness of an area is also based on its image, and an image can be constructed through technical decisions. The usual trend, instead, is to arrange crops on the farm only according to the criteria of productivity and cost minimization, devolving the construction of “quality” to the production process. “Quality” can then reside in nothing but the organoleptic characteristics of local food products. This is true of many winegrowing areas, even superior ones, which have often achieved fame, but without creating landscape quality (Agnoletti 2009). This is the result of a restrictive vision of the potential of agriculture and farmers. It only takes a limited economic investment to develop an approach based on an understanding of quality as the final result of a range of decisions that can contribute to build a competitive identity for a production area, an identity that is useful as a means to develop local branding (Anholt 2007). 2. Landscape perception and value1 As Tiziano Tempesta (2010) argues, to understand what the factors are that make a landscape attractive and pleasant we first need to remember that visual perception has played a fundamental ecological role in the course of human evolution. In the habitat where human beings spent most of their evolutionary phase, the African savannah, only a clear visual awareness of their environment allowed individuals to survive. Hence, a visual awareness of our environment, and hence of the landscape, is 1

This paragraph is part of the work of Tiziano Tempesta (2010), cit.

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an essential part of our genetic heritage, the result of millions of years of natural selection. Appleton (1975) affirms that the elements that make a landscape pleasant are the same ones that make a given environment favorable to survival. Under this regard, human behavior resembles that of any other animal. On the other hand, much of human behavior is based on learning and experience. According to Bourassa (1990), we can distinguish three components in human beings’ perception of their environment: an innate (or instinctive) one, a social one, and an individual one. The innate component is part of our genetic heritage and is common to all individuals. The social and individual components, instead, are based on learning acquired by individuals in the different stages of the development of their personality. In early childhood, one’s relationship with the environment is mediated by adults who will transmit the environmental and landscape culture of their specific social group. Subsequently, a person’s relationship with his or her environment will assume a totally personal dimension essentially depending on individual cognitive processes. As regards innate perception, as many investigations have shown (Kaplan R. and Kaplan S., 1989; Parsons and Daniel, 2002), human beings usually have a preference for any elements somehow recalling the savannah landscape (the environment where human beings spent most of their evolutionary phase); landscapes characterized, that is, by scattered trees, woods, prairies, small streams, and curvilinear ground profiles. The social components of visual preferences are much more variable, because they largely depend on the social community the individual belongs to and the evolution of its culture over time. The transformation of its environment, as some scholars have observed, is one of the processes whereby a social group strives to affirm its identity. According to Costonis (1982), every anthropic landscape contains identitarian elements, whose function is to favor the cultural and social stability of the collectivity or group that created them. On the individual level, there is a tendency to prefer landscapes that include signs or symbols of one’s social group. The transmission of identitarian landscape values occurs in early childhood and is deeply rooted in individuals, operating primarily at the subconscious and emotional level. Finally, the more strictly individual component depends on a variety of factors such as a person’s education, profession, social status, etc. Usually, however, it is shaped by some typical elements of Western culture that are conveyed through higher education. Aesthetic values, in this case, are the result of a conceptual elaboration by the more cultivated elites and, although they are mutable through time, some core aspects, largely traceable to classical culture, have remained unchanged. In a nutshell, one could say that there are two basic components in this preference system. One prefers natural landscapes that are somehow remindful of the African savannah (such as an Arcadian landscape, an English garden, etc.) (Appleton, 1975). The second, instead, emphasizes elements such as harmony and proportion, or, more in general, human beings’ ability to modify the natural world in a balanced way. This second component thus tends to favor the appreciation of cultural landscapes, their peculiarity and their integrity. While the first component (based on innate and social factors) expresses human beings’ yearning for the sense of security derived from finding themselves in a well-known environment, the second reflects the need for aesthetical pleasure, which human beings have manifested ever since a certain stage in their evolution, as attested by the emergence of the first forms of art and of attention not only to the function, but also to the shape of artifacts made even in remote times. 3. From perception to planning Recognizing the genius loci of a place and creative functional planning have a central role in the creation of a new landscape. In this kind of planning, creativity consists in recognizing new relations between existing elements so as to renovate without disrupting, in order to produce an income while respecting the environment, human resources and historical values, and especially in order to provide an overarching framework capable of making these relations highly functional and harmonious. It is thanks to such a vision that a farmer makes the landscape productive, takes care of it and enhances its beauty. Landscape is not simply an image, but something that the observer constructs in his or her 149


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mind. A beautiful landscape is immediately decodable for the visual brain because it matches its retinal architecture, its topographical order, its way of extracting essential information with the least effort, in accordance with the principle of economy that is found in all evolutionary processes. The brain, not perceiving any conflict in an image matching its architecture, immediately and instinctively prefers it to other images (Fiorentini and Maffei 2001). It is thus hardly surprising that the concept of landscape originates from pictorial representation and is even more striking in the latter form than in the real one because “just like art, the brain looks for what is constant and essential” (Zeki 2003). Artistic representation can thus help to determine the guiding principles for successful action on the landscape, allowing planners to grant reality, in an extensive and systematic way, to what so far has been the exclusive province of art. Artistic representation suggests the lines along which the various landscape elements must be planned to match the workings of the visual brain. Observers find it easy to compare painted images with those already contained in their mnemonic archive, because, as neurobiological studies have shown, the brain stores images in a form very similar to painted images. The visual brain can only directly identify horizontal and vertical lines, whereas to recognize curved ones, which are largely prevalent, especially in a natural landscape, it must reconstruct them by drawing a series of tangential straight lines. It follows that an image constructed using the hatching technique is already a decoding of reality in a form that is immediately decipherable by the visual brain and hence easier for it to interpret. Tangential lines are not only already there, but are also already oriented and present in the right places. This is why it becomes a lot easier to recognize possible planning mistakes or shortcomings, and find possible solutions, when looking at a drawing than when looking at the real thing. Producing a hand drawing is certainly a lot more demanding than computer-generating it, but it allows one to reach an optimal level of representation, facilitating project revision and, if needed, reformulation. This is all the more true when the planning concerns a large area, since the drawings must be large enough to show all significant details in such a way as to be perceivable to the visual brain. The purpose in this case is not to draw a symbolic image, as is usually the case with art, but to graphically render a technical plan that cannot be synthesized beyond a certain limit, as it needs to possess certain requisites. “The more accurately you observe, the less you need to do: this is the practical paradox of the survey” (Ferraro 1998) in Geddesian planning. This principle seems perfectly suited to artistic representation as a basis for planning, as such a representation is not based exclusively on technical prerequisites, but also on the “education of new eyes, capable of awakening from the sleep of habit and passivity to behold what beauty still survives” (Geddes 1916). Another very important element that contributes to the precision of spatial perception is color, since “the so-called aerial perspective, first described by Leonardo, produces a gradation of color by rendering objects increasingly dim as the distance increases. In nature this phenomenon is due to the increase of the mass of air through which objects are seen” (Arnheim 1962). Unlike what one may think, this is the most difficult part of representation, as it involves not only choosing the right colors, but also applying them in hues such as to convey a sense of depth capable, so to speak, of drawing the observer into the landscape. But the artistic approach is interesting to science because it has predictive capabilities. The continuous quest for an ever deeper and more complete interpretation inevitably leads towards the future. Only by anticipating the demands of the mind and its continuous evolution can we get users to be attracted by products and the landscape that produces them. The pictorial representation thus serves as the point of departure of planning, which in its turn produces a work that remains unfinished, as it is in constant evolution, and as such is no longer ascribable to a single artist, but to a whole collectivity, in whose service it authentically is. Besides, since it is the nature of art to tend to follow the principles of perception, art is more likely to achieve an aesthetic result capable of constituting a significant economic resource. In methodological terms, it is necessary to determine the ideal land extension, the extension, that is, best suited for consistent planning to enhance the singularity of a place. Recognizing the spirit of a place is a creative act, because it consists in intuiting the full potential of the resources of an area. One 150


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confronts the place to be designed like a sculptor a block of marble: a wrong blow of the chisel could compromise the whole work. Though others had tried to fashion a statue from the piece of marble from which Michelangelo later extracted his David, he succeeded because he was able to understand what kind of figure could be drawn from it, and only secondarily because he was technically able to do it. This concept finds a parallel in the Geddesian principle of “recognizing unity as the foundation of all reality and the object of all knowledge”. Under this regard, one could speak of an aesthetic value that correlates to landscape identity: the more a landscape shows an identity, a consistency that makes it interpretable as a whole, the more it appears aesthetically worthy of consideration, because before perceiving things in their separateness we perceive them as a unity. The artistic method thus teaches us to see as a whole the five elements singled out by Kevin Lynch (2006) in L’immagine della città, which, he argues, are also applicable to other environments than cities: - Edges have the function of tracing the boundaries between different entities. They are linear elements that mark limits—paths, unused areas between different land uses, fences. Within an area they serve an informative and connective purpose, and should hence be easy to detect. They enhance our sense of security because they increase the sensation of order and facilitate spatial perception. - Nodes are places that constitute the observer’s objective, places towards and from which he or she moves. They are often strongly characterized places, imbued with symbolic value, and paths should hence be provided to make them easily accessible. - Paths: these need to be fluid and functional, as they connect environmental elements, images, information, and memory. They should offer views allowing their users to orient themselves and monitor the surrounding environment. - Landmarks: The landscape should possess an adequate number of landmarks to make it easier for users to orient themselves and facilitate memorization. - Areas with distinctive characteristics or that are uniform as regards their land-use or typological characteristics should be arranged appropriately one with respect to the other, both from a functional standpoint and from an environmental one. On a quantitative level, these last are usually the dominant element in any landscape. 4. The Verrazzano Castle The Verrazzano Castle lies on the hilly range extending from the upper Greve valley to the Val di Pesa, where frequent archaeological finds, especially of pottery, indicate that human settlement goes at least as far back as the Etrusco-Roman period. Many toponyms of predial origin bear witness to the existence in the area of a close-knit web of settlements as early as Roman times. In the fiscal and administrative practice of the Imperial age, holdings were given the name of the owner in an adjectival form. When the holdings were inscribed in the census, this name became durably associated with the places themselves. Such is the case for the toponym Verrazzano, also found in Casentino and Valdarno, which derives from the Latin personal name Veratius. The permanence of this settlement in history is attested by a mid-twelfth century parchment in the archive of the abbey of Passignano, registering that a married couple gave as a pledge to the monastery a jar of oil and a vineyard with all that was on it. This property was located in Verrazzano, whose main products were clearly, even back then, wine and oil. At the time the settlement of Verrazzano was probably a mere hamlet, without a parish church. In the mid-thirteenth century, however, the rural settlement grew so much in importance that the local church was named after it (Vicchio ad Varazzanum) notwithstanding the fact that it lay in Vicchiomaggiore, as was a Florentine landowner, Clari da Verrazzano, who has been recognized as an ancestor of the celebrated seaman. The Verrazzanos, who proudly emphasized their Lombard origin, were part of that bourgeois class of merchants, bankers, judges and notaries that formed the political core of the Florentine republic. The family distinguished itself by often holding prestigious offices such 151


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as the Gonfalonierato di Giustizia and the Priorato. In 1751, the Lorena conferred the title of nobility on the da Verrazzano family. In spite of the families’ many ramifications, they never sold their properties in their place of origin. On the contrary, through testamentary bequests from extinct branches of the family or from marriage unions with other families, such as the Albizi and the Martelli, the Verrazzano holding gradually expanded into a large farm composed of twelve holdings. As in the rest of Tuscany, from the second half of the 1500s onward the productive structure of the Verrazzano property evolved towards the so-called “farm system”, which attempted to rationalize work in individual holdings by granting each one autonomy in production, while still being managed from the center. In this system, the farm building was where the owners’ share was gathered and produce was processed and stored. This typically involved transformations in the structure of the farmhouse itself, with the erection of barns, cellars and oil mills alongside the family residence. Such a transformation was undertaken at the Verrazzano farmhouse at the end of the 1600s. The earliest building core, constituted by a thirteenth-century-style crenelated tower-house, was surrounded with a series of buildings for the processing and storage of produce. The family house was expanded with an Italian garden with an octagonal fountain, a large basin, and a chapel that still houses a work by Ghirlandaio and two canvases painted at the workshop of Andrea del Sarto. In 1832, Repetti described the farm of Verrazzano Repetti in the following terms: “An aristocratic villa with its property, included in the popolo of San Martino a Valle, about two miles north of Greve, in the Diocese of Fiesole, Compartment of Florence. This residence with its annexed farm is known for having been the cradle of the da Verrazzano nobles, whose descendants kept this place to their last breath, possibly in celebration of the fact that they were the progenitors of the Florentine family of the discoverer of Luigiana in North America”. At the beginning of the nineteenth century, the Verrazzano family died out and the property was acquired by the Vaj noble family from Prato, and through them by the Florentine marquises Ridolfi, who sold it to the present owner. As on other Tuscan farms, until the second postwar period much of the crop fabric retained the features of traditional agriculture, with mixed cultivation, terraces, and small plots, but it underwent deep transformations in the following decades. 5. The project proposal We were given the opportunity to use the Verrazzano Castle as a case study to design a new agricultural landscape thanks to the willingness of the owner, Pierluigi Cappellini. Another important consideration was that the farm, besides producing wine and oil, functions intensively as a holiday farm. All this, along with the fact that the vineyards were in need of renovation, created the conditions for proposing a new organization of cultivations, allowing visitors to enjoy a larger portion of the farm and increasing its aesthetic value without detracting from the needs of production. Thanks to its strategic position on the upper part of the versant, the castle commands a view of a broad portion of the area, both uphill and downhill of the building. Over the last fifty years, the area has undergone deep changes that have remarkably altered the traditional land mosaic. In the nearby area of Lamole (Baldeschi 2010), a significant action had recently been carried out to restore the terracing and water management system in ways respectful of the historical organization of the landscape (Agnoletti 2010). At Verrazzano, however, our project did not raise the issue of historical reconstruction; we decided, instead, to produce a new landscape, although one that would be in part the result of a reformulation of values that have slowly accreted over time, as is true of any innovative process. This is reflected not only in our reinterpretation of terracing, but also in our choice of materials and building methods conforming with the “rules” that form the basis of landscape quality in the Chianti area. Our proposal regards the northern versant of the hill slope where the farm lies, along which the SS322 road leading up to the farm winds its way. The vineyard and olive grove that are the object of our action are the “gateway” to the farm, as they offer visitors the main scenic view (see Fig. 4). 152


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The area extends over about 35 hectares from the hilltop ridge at 410 m.s.l. down to the bed of the Greve river in the valley at 200 m.s.l., with an average acclivity of about 25%. A careful examination of the area highlighted several problems, some technical, others perceptual. These can be summarized as follows: - The vineyard is arranged slope-wise; furthermore, it does not allow a pleasant view of the area downhill from the castle and of the structures where wine and oil are tasted. The regularity and monotony of the rows of vines in a single large space (about 20 ha) lacks “movement” and is unattractive, appearing almost as a detached part of the farm. - The castle is not adequately highlighted by its position between the vineyard, the olive grove and a sector of the slope used for non-productive purposes. The absence of a visual hierarchy undermines its aesthetical impact, especially in a case like this, where the building has a symbolic significance and should serve as a landmark. - The current cultivations need to be improved before they are converted to biological agriculture. - There is no pedestrian path through the vineyard for the recreation of visitors and the commercial promotion of the farm’s products. - The guests’ parking lot lies right in front of the castle, and this denies the guests a more inspiring approach to the place, an approach indissolubly connecting landscape quality with product quality. We thus set ourselves the objective of livening up the vineyard by changing its architecture, including that of the upper part near the castle. We proposed the creation of a pedestrian path with resting nooks through the vineyard, and a remodeling of the slope. As to the vineyard, taking account of the natural morphology of the ground and the abundance of rock (Alberese), we opted for 2 meter high a scogliera terraces arranged along contour lines, about 16 m apart. It was important that the terraces be far enough apart to be accessible by farm motor vehicles. To facilitate the mechanization of the vineyard—which has a vine spacing of 2.50 m between rows and 0.90 between vines, with a transversal acclivity of about 10-15%—we decided to further reduce the acclivity of the terrace by adding a 10-40 cm step after each row. We also did this to reduce the speed of surface runoff and consequent soil erosion, which in Chianti can be as high as 230-300 t/ha per year (Zanchi e Zanchi 2008). We also planned a surface drainage runnel alongside the pedestrian path, which besides serving the purpose of draining away the excess water from the terraces also has the function of further animating the landscape. Because of the peculiar concave morphology of the slope of the Verrazzano Castle, the terraces, besides controlling erosion, create a theater-like visual effect that highlights the vineyard and olive grove, making them into a typical manifestation of the beauty of the Chianti hill landscape. Furthermore, the terracing, which extends from the ridgeline all the way down to the valley, also continues around the castle, helping to reestablish its preeminence in the visual hierarchy. From an architectural standpoint, building terraces around the castle is a means to highlight it, inserting it into a more controlled landscape context. As to the parking lot, we opted to move it to an area further away from the castle, but only a short walk from it. We decorated the former parking lot area, which lies along a terrace, with olive trees and flowerbeds. Two pedestrian paths lead out from here, one down into the valley through the vineyards, the other upward towards the ridgeline through the olive grove. For the pedestrian paths, we opted for a landscape-painting approach emphasizing views and based on the concept of the paradise-garden, characterized by a geometrical layout and scents and colors to accompany visitors along the way. The former has the function of reassuring the visitor by communicating a sense of order, the latter are a reminded of the beautiful and good things that the earth can produce. The path leading down into the valley is bordered with olive or fruit trees. Near the terraces we intend to plant rows of grapevine trained on olive or maple trees, as in traditional historical vineyards, and, wherever possible, rustic aromatic herbs, with a view to obtaining chromatic and olfactory effects by appropriately combining different varieties of the same species. These herbs should also be of use 153


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for the farm’s honey production. We have planned semicircular resting nooks with views onto the landscape on alternate terraces. These nooks are perceived as controllable and, hence, reassuring spaces, and, at the same time, as secluded ones, thanks to the surrounding trees (see Figs. 7 and 9). The whole area is conceived as a multifunctional space to allow the vineyard to be enjoyed as a garden. Midway along the path we have planned a refreshment kiosk with a simple but elegant architecture, with herb beds laid out symmetrically in a semicircular arrangement on small terraces. In the middle we planned an open space with a fountain patterned after the Renaissance fountain in the castle’s garden. The refreshment kiosk is to be used for the tasting of the farm’s products, just like the “Cantinetta dei Verrazzano” in the center of Florence. The kiosk will lie downhill of a natural drop, on a panoramic terrace offering a view both of the terraced vineyards and the castle uphill, and of the underlying herb garden and the other vineyards downhill. It is thus intended as the hub of an enchanted and ecologically sustainable scenario, contributing to the overall quality of the landscape. From here, the pedestrian path leads further down into the woods and to the Greve river, connecting to a new path along the valley bottom that leads to the holiday farm’s guesthouses. The path going up to the ridgeline, instead, goes through terraced olive groves and affords a view of the farm and the castle downhill. Here, too, there is an open space serving as a destination and halting place for visitors. Overall, our plan prioritizes the harmonious inclusion of architectural forms in the natural morphology of the landscape, so as to highlight and enhance its significant and characterizing elements. In this case, improvement is achieved by finding a point of balance between architectural elements and the landscape through simple and natural layouts and by choosing appropriate forms and materials.

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AGRICOLTURA URBANA: IL PAESAGGIO RURALE DI FIRENZE NEGLI ULTIMI DUE SECOLI Mauro Agnoletti, Valentina Marinai Cultlab - Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali Facoltà di Agraria Università di Firenze Introduzione Una delle più importanti peculiarità che contraddistinguono la città di Firenze è la presenza di una fascia periurbana che ha mantenuto una forte impronta agricola caratterizzata da straordinari valori paesaggistici. Questi sono il risultato della combinazione di colture agricole e sistemi insediativi di grande persistenza storica, esaltati da una morfologia caratterizzata da aree collinari con valori scenici assolutamente unici nel panorama nazionale ed internazionale, oltre a mosaici agrari dotati di grande diversità bioculturale. Il complesso dei valori espressi dal paesaggio periurbano potrebbe giustificare una candidatura per il patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, a cui appartiene già il centro cittadino, integrando così un sistema paesistico la cui costruzione storica è il prodotto di un rapporto funzionale fra la città e la sua campagna che nel tempo è profondamente mutato, ma è stato in grado di conservare molti dei suoi valori. A questo mancato riconoscimento ha peraltro posto parziale rimedio il Ministero dell’Agricoltura ponendo la collina fra Fiesole e Firenze, all’interno delle aree proposte per il catalogo Nazionale del Paesaggio Rurale Storico, nell’ambito delle attività previste dal Piano Nazionale di Sviluppo Rurale e delle nuove competenze in materia di paesaggio rurale assunte dal Ministero stesso (Agnoletti 2010), ma agendo in parallelo con l’ISTAT che ha recentemente incluso la qualità del paesaggio rurale, specialmente quello tradizionale, fra gli indicatori di benessere della popolazione. Il piano strutturale di Firenze recentemente realizzato pone particolare attenzione alla porzione collinare del territorio rurale, indicandola come “invariante strutturale”, ma non approfondisce le caratteristiche del paesaggio agrario nel dettaglio delle sue dinamiche evolutive e della sua struttura per definirne integrità e vulnerabilità. D’altra parte il paesaggio agrario non è stato oggetto di particolare attenzione nell’ampio dibattito suscitato sul Piano Strutturale che ha coinvolto la città ed i suoi amministratori, se non riguardo al mantenimento della destinazione rurale, specialmente nella piana ad ovest della città. Ci sembrava quindi utile approfondire questo aspetto anche per uscire da una certa genericità con cui viene valutato il paesaggio, quasi sempre visto come opposizione fra città e campagna, con molte attenzioni per la qualità urbana e poche attenzioni per quella rurale, o per il suo valore storico oggi sempre più valorizzato anche nell’ambito della pianificazione territoriale (Magnaghi 2010). La seconda viene spesso risolta con la considerazione che la semplice conservazione di una attività agricola, di qualunque tipo, sia sufficiente ad assicurare una buona qualità del paesaggio. Per fortuna, non solo di Firenze o della Toscana, ma anche dell’Italia, non è così. Il paesaggio rurale fiorentino conserva peculiarità che è necessario evidenziare, per informare i cittadini ed i decisori pubblici dei suoi valori e delle sue criticità, per questo motivo l’indagine non ha approfondito gli aspetti insediativi, socioeconomici e demografici, che sono già stati esaminati in varie pubblicazioni, ma si è dedicata soprattutto alle componenti agrosilvopastorali. Dal punto di vista metodologico abbiamo utilizzato una scala temporale di circa due secoli, utile a meglio cogliere le trasformazioni e le persistenze, partendo da un momento storico in cui il paesaggio toscano si avvia ad assumere la sua maggiore complessità e quindi diversità anche a livello spaziale (Baudry J., Baudry-Burel F. 1982). Le fasi operative si sono articolate attraverso le fasi procedurali previste dal protocollo AVAS, “approccio di valutazione storico culturale”, basato sulla determinazione delle identità paesaggistiche attraverso un confronto multitemporale degli assetti di uso del suolo ricostruiti a tre date diverse: 1832, 1954 e l’attualità (Agnoletti 2002; 2006) e messo a punto con indagini iniziate 155


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alla fine degli anni ’90 con le quali è stata realizzato un sistema fisso di aree di studio per monitorare il paesaggio toscano. Nella ricerca sono state prese in considerazione anche date intermedie fra il 1832 ed il 1954, che per ragioni di spazio non possiamo riportare, così come non vengono riportate molte altre elaborazioni che saranno incluse in una monografia di prossima pubblicazione. L’area di studio considerata si estende su tutto il territorio comunale attuale ad eccezione del centro storico, incluso entro la cerchia dei viali. La scelta è stata effettuata considerando come agli inizi dell’800 il paesaggio agrario fosse rappresentato proprio dal territorio al di fuori della cinta muraria, ed è in questo ambito, compreso fra la città ottocentesca ed i limiti attuali del territorio comunale che si è concentrata l’indagine. L’area di studio ha quindi compreso tutti i 102 Kmq della superficie comunale, considerando il nucleo urbano ottocentesco entro la categoria generale di uso del suolo afferente alle superfici antropizzate1. 1. Il paesaggio fiorentino ai primi dell’800 La ricostruzione degli assetti paesistici della metà del XIX secolo, attraverso l’analisi delle fonti catastali disponibili, ha messo in evidenza un paesaggio agricolo, organizzato attorno al nucleo cittadino centrale, già strutturatosi nel corso dei secoli precedenti, con un sistema insediativo che inizia a punteggiare la campagna in modo via via più marcato già dal XII secolo. Il particolare sistema di conduzione mezzadrile, struttura agraria predominante nell’Italia centrale, subisce una evoluzione a partire dal

Fig. 1. (Sopra) Grafico relativo alla distribuzione percentuale della superficie tra le categorie di uso del suolo presenti all’inizio dell’800. (Above) Graph showing the percentage distribution of surface among land-use categories at the beginning of the 1800s. One notices the clear-cut prevalence of mixed and bare arable land. Fig. 2. (A fianco). Carta dell’uso del suolo presente all’inizio dell’800 all’interno dei limiti comunali attuali. Map of land-uses in the early nineteenth century in the present municipal territory. (Opposite page) The image highlights the remarkable extension of mixed cultivation with grapevine even in the plain, while monocultural olive groves and vineyards were not widespread, even in the hills. The gray area in the middle is the town area. Non è stato possibile includere nello studio anche i comuni limitrofi: si ringrazia il Dott. Giovanni Malin, a suo tempo Direttore della Direzione Ambiente del Comune di Firenze, per avere finanziato una parte di questa indagine.

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XV secolo quando, a seguito del notevole aumento demografico successivo alla peste nera del 1348, che aumenta la richiesta e quindi il valore dei prodotti agricoli. Con gli investimenti nelle campagne toscane che caratterizzano il rinascimento e lo sviluppo del sistema delle Ville che si collocano sia nelle colline che nella piana ad ovest della città (Poli 1999), si realizza il “bel paesaggio” raffigurato in molteplici raffigurazioni pittoriche di questo periodo ormai strutturato nella sua valenza agricola all’inizio dell’800. Secondo i dati catastali, del 1832 sono le aree coltivate ad occupare la maggiore frazione di territorio, 6.940,67 ettari pari al 68% circa del territorio attuale. Le aree urbanizzate, cioè la città, pur essendo la seconda classe maggiormente rappresentativa si estendono solo su 1.050,04 ettari (10,25% del territorio) con una popolazione di 150.864 abitanti. Sono seguite dalle aree boscate 521,72 ettari (5%) e da quelle destinate ai prati e pascoli 195,22 ettari (1,91%). Osservando in dettaglio la configurazione territoriale così come emerge dalla riclassificazione delle classi di coltura catastali (Fig.1), si nota come il territorio agricolo sia quasi equamente ripartito tra le aree coltivate in coltura promiscua (3.500 ettari rappresentanti il 34,39%) e quelle occupate dalla produzione cerealicola dei seminativi nudi (3.415 ettari ovvero il 33,35%), mentre solo una piccola superficie è destinata alle coltivazioni arboree specializzate (0,03%). La coltura promiscua prevedeva la componente arborea unita alla vite, assieme ai seminativi, creando un paesaggio più complesso anche dal punto di vista estetico, oltre che più ricco di biodiversità. Nella coltura promiscua la biodiversità si manifesta elevata a livello specifico per la presenza di numerose specie animali che caratterizzano questi habitat (Lomou e Giurga, 2003), richiamate da una grande disponibilità di risorse alimentari. Oltre a questo consentiva di avere più prodotti sulla stessa unità di superficie, utilizzando quindi estensioni minori di terreno rispetto alle monocolture. Risulta evidente una netta demarcazione territoriale tra le superfici agricole con seminativi nudi e zone interessate da seminativi promiscui, nella piana occidentale sulla riva destra dell’Arno su terreni con caratteristiche affini si concentrano sia seminativi alberati che seminativi nudi, una coltivazione che persiste ininterrotta dal periodo etrusco, passando attraverso la centuriazione romana (Poli 1999). Le due categorie si presentavano nettamente separate le prime sulla porzione più occidentale della piana le seconde in quelle più orientali in corrispondenza della Comunità del Pellegrino. Le altre coltivazioni promiscue si concentrano poi sulla riva sinistra dell’Arno in corrispondenza dei borghi sud occidentali di Mantignano e Ugnano, e quelli più orientali in direzione di Bagno a Ripoli. Sulla riva destra dell’Arno oltre alle già citate aree si ritrovano le zone agricole a nord della cinta muraria a destra ed a sinistra del Mugnone, ed a quelle orientali oltre porta alla croce lungo la direttrice verso Rovezzano. L’estensione del “lavorativo vitato pioppato”, che supera da solo il 13% dell’intera superficie comunale, suggerisce di individuare in questa tipologia la forma maggiormente diffusa di coltura promiscua, identificando probabilmente in tale descrizione la cosiddetta alberata tosco-umbro-marchigiana (Sereni 1961), sistema distintivo della mezzadria toscana e definito dalla sistemazione idraulica estensiva delle “porche” con filari paralleli di vite maritata a “pioppi” disposti lungo fossi laterali, di origine etrusca. Le caratteristiche dimensionali associate alle “prode”, lunghe e strette, sono decisive per la cognizione della grandezza della trama paesistica associata. Purtroppo non è possibile dare una chiara rappresentazione delle sistemazioni idrauliche, dei fossi e delle alberate in quanto lo studio delle mappe catastali fa riferimento alle particelle legate principalmente all’attribuzione della proprietà. È quindi presumibile immaginare il paesaggio dei seminativi promiscui nell’area metropolitana fiorentina costituito da un mosaico di piccoli appezzamenti, stretti e lunghi disposti secondo geometrie quasi costanti e regolari, definite dalla viabilità poderale e da un’elevata concentrazione di filari alberati. L’elemento più caratterizzante del paesaggio agricolo è risultato la coltivazione della vite in coltura promiscua, essa infatti risulta presente sul 50% dell’area periurbana fiorentina, il 73% dell’intera superficie coltivata, come peraltro in altre parti della provincia di Firenze (Biagioli 1975). Gli impianti specializzati di vite sono estesi solo su due ettari, mentre la tecnica colturale della vite promiscua è sicuramente la più diffusa nella prima metà dell’800, come dimostrano le statistiche catastali dove circa il 69% delle vigne viene classificato come “pioppato”. Può sorprendere una distribuzione della vite che privilegia la pianura e specialmente la piana fiorentina che rispetto alla collina presentava caratteristiche di umidità dei 158


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suoli notevolmente superiori ed teoricamente inospitali per la vite. In realtà la vite maritata alla pianta arborea consentiva di avviare verso l’alto e quindi più vicino al sole e lontano dal suolo umido i tralci della vite, si tratta di una tecnica tradizionale che rivela una conoscenza profonda delle caratteristiche dell’ambiente, consentendo di produrre anche foglie e legna da fuoco, oltre a permettere il raccolto del grano. Nel caso della piana fiorentina è probabile inoltre venisse scelto il pioppo come supporto vivo per la vite, rispetto all’acero campestre, essendo più adatto alle zone umide, anche se l’uso del termine “seminativo pioppato” nei catasti lascia pensare un utilizzo indistinto dell’acero, mentre è la pianta che fa da “pioppo” cioè da sostegno per la vite. D’altra parte, le stesse “porche” contribuivano all’ulteriore drenaggio dell’umidità del suolo, una tecnica particolarmente importante per le pianure toscane spesso impaludate, ma che scompare definitivamente verso gli anni ’50 dello scorso secolo, soppiantata da lavorazioni meccaniche. La presenza dell’olivo, come specie associata alla vite appare secondaria rispetto al pioppo estendendosi per poco più del 17% dell’aree coltivate, si accompagna sempre alla forma promiscua, non esistendo praticamente oliveti specializzati. Le difficoltà tecniche che la consociazione di queste due piante sicuramente comportava, per le diverse esigenze produttive, non ne scoraggiava l’applicazione, considerando come a Firenze il 98% degli olivi si trovasse in coltura promiscua con la vite, secondo una modalità estesa a tutte le comunità limitrofe (De’ Ricci 1830). La produzione olivicola rimane inoltre associata alle coltivazioni collinari localizzandosi prevalentemente a nord in corrispondenza dei rilievi lungo la valle del Mugnone, e nell’area di Castello risalendo lungo le pendici di Monte Morello; a sud sulle colline da monte Uliveto e Bellosguardo fino a Soffiano e Marignolle; verso est in direzione di Bagno a Ripoli. A tale proposito si segnala una singolare diffusione dell’olivo in pianura proprio nella piana di Ripoli dove veniva utilizzato in filari all’estremità dei campi (ASF Catasto Toscano). La presenza degli alberi da frutta, estesi su quasi il 5% delle aree agricole, è stata rilevata quasi esclusivamente in coltura promiscua prevalentemente in corrispondenza dei distretti orientali della città lungo la riva sinistra dell’Arno verso Bagno a Ripoli esprimendo già una chiara identificazione territoriale del paesaggio agricolo di un’area conosciuta ancora oggi con il nome di frutteto di Firenze, al tempo caratterizzato per la presenza del pesco.

Fig. 3. Un tratto di coltura promiscua con vite, olivo e seminativo, nella zona di Serpiolle. Si tratta di tipologie colturali ormai in via di sparizione nel paesaggio toscano (Foto Agnoletti) ma ancora presenti sulle colline fiorentine. A stretch of mixed cultivation with grape, olive and arable land in the Serpiolle area. This kind of cultivation is in the process of disappearing from the Tuscan landscape (photograph by Agnoletti) but is still found on the hills of Florence. 159


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Interessante la presenza del gelso, testimoniata su 107 ettari, di cui l’87% risulta associata alla coltivazione della vite e del pioppo. In effetti la riduzione della larghezza e della lunghezza dei seminativi promiscui che accompagnò la crisi del prezzo del grano tra 1820 ed 1830, coincise, in alcuni casi con l’inserimento di 2 filari di gelso all’interno dei campi. Il fenomeno sembra marginale nell’area fiorentina se si considera come la presenza del gelso rimanga limitata. Il dato potrebbe comunque portare ad una sottostima della diffusione del gelso considerando come tenga conto presumibilmente solo dei casi di una effettiva rilevanza numerica o di una manifesta sistematicità colturale dello stesso. Per quanto riguarda la diffusione della coltura del gelso si nota nuovamente una netta dislocazione dei “gelsati” nelle aree occidentali della piana Fiorentina, privilegiando le zone di Brozzi, Quaracchi e Peretola. Un altro aspetto significativo dell’assetto agricolo fiorentino sono sicuramente le coltivazioni orticole, scarsamente incidenti in termini superficiali, ma abbondantemente diffuse intorno ai nuclei urbanizzati disposti lungo le direttrici viarie principali (via Pistoiese, via Pisana e via Aretina). L’organizzazione ottocentesca del paesaggio agrario così incentrata sugli spazi coltivati, relega in secondo piano i prati e dei pascoli che non rappresentano più del 2% dell’intera superficie esaminata. L’elaborazione di forme sempre più raffinate del paesaggio della mezzadria e delle coltivazioni promiscue, aveva significato fin dalla fine del XVIII secolo l’introduzione di sistemi a rotazione fissa che avevano rimpiazzato ormai del tutto i sistemi a maggese e del pascolo libero sulle aree a riposo. Il paesaggio silvo-pastorale non può essere quindi considerato come storicamente caratterizzante l’area fiorentina definendosi qui piuttosto in una serie di forme marginali alla grande coltivazione agricola, oppure residuali nelle aree più periferiche e boscose. Sono piuttosto le aree lungo i corsi d’acqua ad essere destinate al pascolo degli animali, laddove erano difficoltose le pratiche colturali. I prati ed i pascoli alberati e/cespugliati scarsamente estesi occupano solo il 10% del paesaggio pastorale, evidenziando prevalentemente il persistere di elementi arborei tipici delle aree agricole (gelsi, olivi ed anche viti) oppure delle aree riparie come suggerito dalla presenza degli “alberi” (Populus spp.) oppure dai canneti e salici. L’analisi del paesaggio forestale dell’area fiorentina nella prima metà dell’Ottocento pone il bosco in un ruolo assai subordinato, se si considera la sua estensione superficiale pari a solo il 5% del territorio studiato. Si coglie una netta predominanza delle latifoglie rispetto alle conifere, potendo attribuire alla prima categoria quasi l’86% delle aree boscate, ed alla seconda solo il 3,38%. Il dato è ancora più significativo se si considera come la categoria più rappresentata tra quelle definite nella classe “boschi” sia il “bosco ceduo”, pari al 38% delle aree boscate, in sintonia quindi con la tendenza rilevata per la regione nel corso del secolo. Si tratta di un bosco ”basso” sottoposto a tagli piuttosto ravvicinati, rivolti a produrre pali di varia dimensione e legna da fuoco, integrandosi perfettamente con le attività agricole. Nei cabrei settecenteschi e nei catasti delle fattorie collinari fiorentine viene infatti spesso denominato “bosco da pali” identificando la forma colturale con l’impiego dei suoi prodotti. Nonostante il paesaggio forestale si caratterizzi per le formazioni di latifoglie non va sottovalutata la presenza, delle conifere (circa 17 ettari) ugualmente censite ed identificabili nelle cipressete. Già elemento permeante, se non distintivo, del paesaggio collinare toscano fin dall’età comunale, il cipresso si inserisce nel disegno e nelle trame del mosaico paesistico principalmente come albero isolato oppure in filare. Considerando tutte le qualità catastali che annoverano la presenza di questa specie si calcola una superficie di circa 21 ettari, articolata in appezzamenti di superficie media di circa 0,79 ettari, legata quindi a superfici puntiformi associabili alla presenza di un villa, oppure di un cimitero come Trespiano, ma anche di un viale alberato come si può notare nella viabilità per il Poggio Imperiale. Le formazioni forestali più consistenti si localizzano nella zona Nord in prossimità delle aree di Serpiolle, oppure a sud nell’area boscata adiacente alla Certosa di Firenze. 2. Il paesaggio fiorentino nel secondo dopoguerra L’utilizzo delle foto aree del volo GAI del 1954 ha permesso di ricostruire la struttura del paesaggio caratteristica degli anni Cinquanta. Analizzando i dati appare significativa la ripartizione del paesaggio 160


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Fig. 4. Grafico relativo alla distribuzione percentuale delle categorie di uso del suolo nel 1954. Graph showing the percentage distribution of categories of land use in 1954. Olive groves have become the main crop, while mixed cultivation is on the decline.

fra i vari usi del suolo. Sul 30% del territorio insistono i seminativi semplici, a cui si contrappongono le aree urbanizzate, con il 24% circa, e gli oliveti con quasi il 20% (Fig. 4). Dall’esame della cartografia tematica di uso del suolo relativa al 1954 si rileva come il paesaggio si organizzi attorno ad centro cittadino relativamente compatto che si sviluppa principalmente lungo gli assi viari occidentali verso aree di conurbazione come Rifredi, lungo l’asse Firenze-Sesto, e Peretola seguendo la direzione della via Pistoiese, frutto di uno sviluppo già iniziatosi verso gli anni ’30 e che porta la popolazione a 374.625 abitanti. Il paesaggio agricolo si dispone in modo eterogeneo attorno alle aree urbanizzate mostrando una maggiore semplicità strutturale nelle aree pianeggianti occidentali rispetto al secolo precedente, dove predomina il seminativo, mentre si fa più complesso nella porzione sud orientale dei limiti comunali, dove la matrice paesistica degli oliveti ed in parte dei vigneti impone più frammentata (Fig. 5, pagina seguente). Nonostante la crescita dell’industria manifatturiera e l’espansione urbana, seppur minima e confusa, che ha interessato l’area fiorentina dall’inizio del XX secolo, è ancora l’aspetto profondamente agricolo del territorio che colpisce; le aree coltivate si estendono infatti sul 64,26% del territorio, contro il 24,52% di urbanizzato. La gerarchia interna alle aree coltivate individua nei seminativi semplici la classe più estesa (47,51% delle aree coltivate) a cui fanno seguito gli oliveti (31% circa). I processi di specializzazione colturale che hanno investito il modo agricolo toscano nel secondo dopoguerra e la progressiva meccanizzazione hanno implementato i processi di disgregazione delle forme mezzadrili che per secoli hanno caratterizzato l’intera regione. Gli anni Cinquanta costituiscono un punto nodale nella storia del territorio fiorentino, in quanto ha inizio quel rapido processo che porterà Firenze da

Fig. 5. (Pagina. seguente) Carta dell’uso del suolo del 1954. Si osserva la presenza di estesi oliveti nella porzione collinare e dei vigneti. (Following page) Land-use map for 1954. One notices the increase of the urbanized area and the presence of extensive olive groves and vineyards, especially on the hills, along with the disappearance of mixed cultivation. 161


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punto di riferimento di un “contado” strutturato sulla conduzione mezzadrile, a “metropoli terziaria, centro di commercializzazione della produzione diffusa” (Fei, Gobbi Sica, Sica 1995). Il complesso mosaico degli appezzamenti agricoli è d’altronde ancor ben visibile dalle foto aeree del 1954, e nella trama minuta delle forme del paesaggio agrario, a volte addirittura coincidente con le particelle del 1832. Parallelamente all’abbandono delle colture promiscue si assiste alla comparsa degli impianti specializzati di olivo e vite. La grande espansione dell’olivo in monocoltura, rispetto all’800 che non lo registra, è piuttosto rilevante attestandosi ora sul 24.13% dell’intera area di studio, riflettendo un processo di generale espansione a livello toscano. Il paesaggio dell’olivo, il più esteso tra i due (20% del territorio), viene a coincidere con quello dei rilievi collinari risultandone la matrice paesaggistica identificativa, ma mantenendo una varietà di forme. Proprio negli anni Cinquanta Morettini (1950) sottolineava il carattere policolturale dell’olivicoltura toscana: “l’olivo si coltiva in filari; negli interfilari si praticano, in avvicendamento, le comuni colture erbacee da granella, da foraggio ed ortive. Lungo il filare, all’olivo si associa ordinariamente la vite, più raramente alberi da frutto a varie specie. Indicativa è la diffusione della coltura della vite, estesa quasi sul 7% del territorio e concentrata nei settori meridionali ed orientali dell’area comunale. La diffusione della coltura specializzata della vite è ancora da ritenere nel 1954 piuttosto limitata nell’ambito fiorentino, quanto meno in confronto alle forme che caratterizzano oggi le aree di produzione vitivinicola. Dalle misurazioni effettuate in alcune aree campione poste fra Settignano e Firenze (Elmi 2011) risulta una densità ad ettaro di olivi pari a 134 piante ad ettaro, mentre la densità totale delle alberature è pari a 168 esemplari arborei ad ettaro palesando un alto grado di biodiversità legata ad una molteplicità di specie arboree, non solo all’olivo in monocoltura, seppure con la densità ad ettaro degli olivi è inferiore a quanto si osserva in oliveti specializzati in altre parti d’Italia dove può arrivare a diverse centinaia. Le formazioni lineari invece, quali siepi e filari, sono pari a 83 metri lineari ad ettaro, un numero non particolarmente elevato ma indicativo di una rete di “corridoi ecologici” associata al paesaggio tradizionale utile alla biodiversità delle specie animali e vegetali. Il paesaggio specifico dei prati e dei pascoli è legato nel quadro del 1954 ad un ruolo minoritario. Gli spazi aperti effettivamente legati all’esercizio delle attività pastorali si ritrovano lungo le pendici dei rilievi settentrionali laddove la complementarietà spaziale con le aree boscate è più forte. In questo caso sono i pascoli cespugliati ed arborati i più estesi, indicatori di quei processi di successione secondaria e ricolonizzazione vegetazionale associati ai fenomeni di abbandono colturale. All’interno del quadro territoriale fino ad ora descritto si inseriscono le superfici boscate, limitate ad una estensione del 5,83% e rappresentate dai boschi veri e propri (4,71%) e dagli arbusteti (1,12%). Alla consistenza numerica ed alla distribuzione geografica di questo elemento si associa in genere la valutazione dei fenomeni di abbandono delle coltivazioni e dei pascoli e quindi della rilevanza dei processi riforestazione in atto rispetto all’800. 3. Il paesaggio periurbano moderno La situazione del paesaggio fiorentino all’inizio del XXI secolo, vede un ribaltamento delle gerarchie frutto di una accelerazione dei processi industriali ed insediativi che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra. La distribuzione e la consistenza numerica delle superfici urbanizzate, insistenti su più del 50% del territorio comunale, esprimono ora una subordinazione funzionale dello scenario rurale nei confronti della città, che vede però una popolazione simile in termini quantitativi a quella del 1954, con 375.041 abitanti. Il processo di conurbazione, soprattutto nel suo irregolare ed incerto sviluppo lungo la direttrice est-ovest (fig. 6), ha di fatti segnato, sul territorio comunale, una separazione più o meno marcata delle aree agro-forestali, influenzando la definizione di paesaggi diversi. L’assetto territoriale denota quindi l’assenza di una significativa continuità spaziale della fascia periurbana verde, risultato di una saldatura verso ovest con i comuni limitrofi di Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio. Considerando le macrocategorie di uso del suolo, emerge come il 29,46% del territorio sia comunque interessato da coltivazioni agricole, mentre l’11,92% è attribuito a superfici forestali. Meno signi163


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Fig. 6. Lo sviluppo dell’are urbana lungo la direttrice est-ovest ha determinato la saldatura con gli abitati limitrofi di Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio. Nell’area comunale le aree rurali residue sono localizzate nella piana occidentale in località Castello. Today Florence has expanded so far eastward and westward that it has merged with the neighboring towns. The residual rural areas within the municipal boundaries lie west of the city, in the Castello district.

Fig. 7. Grafico a torta relativo alla distribuzione percentuale della superficie tra le categorie di uso del suolo nel paesaggio attuale. Si osserva che la metà del territorio è ora urbanizzato. Graph showing the percentage distribution of land-use categories in the current landscape. As one can see, today half of the municipal territory is urbanized. 164


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ficativo sembra essere il contributo dei prati e dei pascoli relegati su 6,38% del territorio comunale. Le aree coltivate constano per più del 50% di impianti specializzati di olivo estesi su 1.531,47 ettari, mentre scarsa è l’incisività dei vigneti in monocoltura estesi su 72 ettari. Gli altri elementi strutturali del paesaggio agrario fiorentino sono i seminativi promiscui ed i seminativi nudi rappresentanti rispettivamente il 19% ed il 29% del territorio agricolo (Fig. 7, pagina a fianco). La frutticoltura fiorentina pur vantando nobili ed antiche tradizioni, rimane anche oggi un elemento poco rappresentativo tra le coltivazioni legnose, estese su 105 ettari, pari al 3% circa del territorio agricolo. I seminativi nudi mostrano un’estensione pressoché uguale a quella dei seminativi promiscui che rivendicano all’interno del mosaico paesaggistico un ruolo quanto meno da comprimario. Le “colture promiscue” sono rappresentate dalle seguenti classi: gli orti e le piccole coltivazioni orticole (36% delle colture promiscue), i seminativi alberati (19%), i seminativi con olivi (16%), e seminativi con vigneti (14%). Il processo di deruralizzazione degli spazi periurbani e l’incremento delle superfici di frizione tra il mondo delle coltivazioni agricole e gli spazi urbanizzati ha generato una notevole diffusione di piccole coltivazioni orticole che, estese complessivamente per circa 166 ettari, si contraddistinguono per un alto grado di promiscuità con altre coltivazioni arboree (frutti, viti, olivi). I seminativi arborati sono la seconda categoria più rappresentativa del raggruppamento. Si tratta di coltivazioni variegate per tipologie dimensionali essendo legati sia alle piccole coltivazioni “domestiche”, che agli spazi agricoli più consistenti, mostrando una superficie media tra le più elevate (circa 6000 mq), oscillando tra i 9 ettari della superficie più estesa ed i 1000 mq della minima. I seminativi in coltura promiscua con l’olivo presentano una distribuzione chiaramente più collinare rispetto ai seminativi arborati, questa sottocategoria caratterizza in particolar modo le aree settentrionali del territorio comunale, e mostra rispetto all’altra una maggiore diffusione in termini di frequenza statistica e dimensioni inferiori. Un altro aspetto qualificativo del paesaggio dei seminativi promiscui è sicuramente quello che vede la presenza della vigna. Considerando come gran parte di questi appezzamenti comprenda lungo il filare di vite anche altri alberi, è chiaro come il raffronto storico con le tipologie colturali della mezzadria toscana renda questa sottocategoria particolarmente importante, nonostante la sua scarsa diffusione nello scenario moderno, occupando appena lo 0,63% del territorio comunale. La distribuzione geografica rivela una presenza territoriale più consistente nella porzione meridionale del comune, dove occupa spazi collinari ed aree pianeggianti, mostrando quella variabilità dimensionale precedentemente osservata anche per i seminativi arborati. Il paesaggio della viticoltura industriale, costituito dai grandi accorpamenti monoculturali, non appartiene al contesto periurbano fiorentino, dove la monocoltura, pur rappresentativa nell’ambito ristretto del paesaggio vitivinicolo (72,89 ettari), rimane circoscritta in appezzamenti relativamente numerosi ma piuttosto piccoli, mediamente di 3.500 mq e mai superiori ai 2 ettari. L’oliveto costituisce invece la matrice colturale e l’elemento culturale caratterizzante dell’assetto paesaggistico collinare, sia in termini quantitativi che qualitativi (fig. 8). Il percorso evolutivo dell’olivicoltura toscana che ha visto nell’intensivizzazione e nella specializzazione tecnica moderna il punto d’arrivo, si è riflesso sul territorio imponendo il prevalere degli impianti specializzati estesi complessivamente su circa 1.408 ettari, corrispondenti a quasi il 15% del territorio comunale ed all’89% delle aree coltivate con olivo. Gli impianti specializzati mostrano diversi gradi di meccanizzazione che si traducono prevalentemente in termini paesaggistici nella regolarità delle distanze e dei sesti d’impianto, rispetto ai sesti di impianto irregolari che però sono ancora presenti nelle pendici collinari. Nell’area campione fra Settignano e Firenze si osserva che la percentuale media di olivi ad ettaro si colloca adesso intorno alle 70 piante, un numero non particolarmente elevato rispetto ad oliveti specializzati che in altre zone arrivano quasi a 1000 piante ad ettaro, questa bassa densità contribuisce ad una buona qualità del paesaggio. Più in generale il numero totale delle piante ad ettaro, oltre agli olivi, è pari a circa 100 esemplari ad ettaro, ciò conferma un alto grado di biodiversità del paesaggio legata alle componenti arboree. Per quanto riguarda invece le formazioni lineari, quali siepi e filari, esse mostrano una densità di 75 metri lineari ad ettaro, confermando un ruolo importante dal punto di vista delle pratiche agricole. 165


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Nel tempo si è assistito ad un incremento del numero di piante di olivo ad ettaro con una riduzione progressiva delle distanze d’impianto dal sesto di 6x8 m, 7x7m della tecnica a “vaso”, a distanze di 6x8m, 6x6m di quella a vaso cespugliato, oppure a quella del “monocono” di 6x2 m. Si tratta di forme piuttosto intensive che per fortuna insistono su superfici spesso ridotte. Gli oliveti abbandonati rappresentano una piccola percentuale dello scenario sintetizzato dalla cartografica tematica, 1,19% della superficie “olivata”. Come già osservato la presenza dell’olivo non è solo limitata agli impianti specializzati, caratterizzando anche buona parte delle coltivazioni promiscue. La consociazione più estesa è quella con i seminativi consistente in 74 ettari circa pari al 4,40% degli oliveti; seguita da quella con i seminativi e la vigna in filare, che con i sui 34 ettari ne rappresenta il 2%. Piuttosto rilevante risulta ancora l’associazione dell’olivo con la vite, che nel caso specifico degli oliveti, interessa complessivamente in tutte le sue forme il 4,53%, pari cioè a circa il 50% degli oliveti in coltura promiscua. Le categorie di uso del suolo dei prati e dei pascoli nudi o cespugliati o arborati rappresentano una frazione importante del paesaggio periurbano, estendendosi su più del 6% del territorio comunale. La distribuzione rilevata si presenta omogenea, nelle aree di pianura come in quelle collinari, sebbene una leggera prevalenza territoriale sia individuabile nelle zone occidentali, lungo le sponde dell’Arno. È interessante notare la distribuzione dei prati e dei pascoli. Si tratta infatti spesso di praterie semi-naturali

Fig. 8. (A fianco) Carta dell’uso del suolo relativa all’attualità. Si osserva che la superficie urbana ha saturato le aree poste in pianura, mentre le colline a nord e a sud presentano ancora una prevalente matrice agricola. (Opposite page) Map of current land-uses. The urbanized surface has doubled, saturating areas lying in the plain, while the hills to the north and south still display a prevalently agricultural matrix. In spite of this expansion, the population is almost the same as in 1954. Fig. 9. (Sopra) L’elemento caratteristico delle zone collinari di Firenze è la notevole presenza di alberi, sia in forma di oliveti con diversa architettura degli impianti, sia con altre specie arboree, con una densità media di circa 100 piante ad ettaro. Insieme alla varietà spaziale del mosaico paesistico ciò conferisce un’elevata diversità bioculturale al paesaggio. (Foto Agnoletti). (Above) The distinguishing feature of the hills of Florence is an abundance of trees, including variously spaced olive groves and other tree species, with an average density of about 100 trees per hectare. This combines with the spatial variety of the whole landscape mosaic to generate a high biocultural diversity (Photograph Agnoletti). 167


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ancora sottoposte al pascolo o allo sfalcio periodico, o con un grado di ricolonizzazione vegetazionale contenuto, comunque associabili ai paesaggi dell’abbandono colturale delle aree agricole più marginali. Queste aree si ritrovano in collina come in pianura, dove risultano connesse o ai processi di ricolonizzazione arborea ed arbustiva, oppure a spazi in via di edificazione. Talvolta, specie nelle aree periferiche di pianura (Peretola, Brozzi, la piana di Castello), dove i coltivi abbandonati pur essendo più o meno destinati all’edificazione, vengono regolarmente pascolate da greggi ovine, definendo un paesaggio pastorale moderno piuttosto singolare, ma importante per mediare l’intensità delle dinamiche urbane, specie quando abbiamo casi quali una ridottissima porzione di filari di gelso accanto ad un campo pascolato posto vicino alla pista di atterraggio dell’aeroporto di Peretola, un piccolo frammento del paesaggio ottocentesco. I boschi occupano una posizione importante nello scenario paesaggistico attuale, estendendosi su circa 1.220 ettari corrispondenti a circa il 12% della superficie comunale. Le aree boscate si estendono lungo tutto l’arco collinare settentrionale e meridionale, ma caratterizzano soprattutto lo scenario collinare nord-occidentale dove si ritrovano le formazioni forestali più significative. Una componente significativa delle superfici forestali sono le aree in evoluzione, ovvero superfici con un grado di copertura arborea non ascrivibile ancora ad un bosco ed uno strato arbustivo diffuso. L’interpretazione della consistenza dei fenomeni evolutivi connessi all’abbandono delle coltivazioni e dei pascoli e l’avanzamento del bosco si esplica nella valutazione dell’incidenza percentuale di queste formazioni dinamiche, estese su ben 175 ettari corrispondenti a quasi il 2% dell’intero territorio comunale. Gran parte dei boschi sono ascrivibili alla categoria dei “boschi a prevalenza di latifoglie”, rilevati su 608 ettari, corrispondenti a circa la metà delle formazioni forestali che interessano il territorio fiorentino. Si tratta di cedui più o meno intensamente matricinati oppure cedui abbandonati. I “boschi misti” di conifere e latifoglie rappresentano la seconda categoria più rappresentata, costituendo il 19% delle superfici boscate. Le formazioni miste sono il risultato di processi evolutivi convergenti che coinvolgono le formazioni di latifoglie e conifere, soprattutto nella direzione della rinaturalizzazione spontanea delle pinete di pino domestico o marittimo, o più frequentemente delle cipressete. I rimboschimenti di Cupressus sempervirens, si presentano spesso su suoli degradati o cedui degradati di roverella, e pur riuscendo a rinnovarsi,

Fig. 10. Contrariamente a quanto spesso si pensa il paesaggio periurbano è ricco di biodiversità anche di specie animali. Questo martin pescatore è un cliente fisso delle sponde dell’Arno nel suo percorso cittadino (Foto Calvani). Contrarily to what one may normally think, the periurban landscape is rich not only in biodiversity, but also in animal species. This kingfisher is a habitué of the urban stretch of the banks of the Arno (photograph Calvani). 168


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danno origine a strutture stratificate con roverella appunto , ma anche orniello e leccio. I processi di ricolonizzazione forestale si sviluppano anche in corrispondenza di importanti formazioni artificiali a carattere ornamentale come è il caso delle ville e dei parchi storici. La distribuzione del verde artificiale associa più del 50% dei “boschi misti” a soprassuoli di origine ornamentale dove la promiscuità delle specie non è frutto di processi di rinaturalizzazione bensì di un preciso disegno paesaggistico (fig. 10). Il diffondersi di un paesaggio dei “boschi a prevalenza di conifere” è legato alla storia dei rimboschimenti degli ultimi 70-80 anni, fenomeno che nell’area fiorentina sembra incidere solo marginalmente. I boschi di conifere rappresentano solo l’8% del paesaggio forestale, pur denotando un estensione maggiore se si considerano anche le formazioni miste (27%). Sebbene il territorio annoveri rimboschimenti di pino domestico, di pino marittimo ed in minor parte di pino nero, è la presenza delle cipressete ad imprimere un segno distintivo del territorio fiorentino. Il cipresso è associato all’identità culturale del territorio (Romby 2002), proprio in virtù della sua diffusione sia come singolo albero ornamentale, che in gruppi, boschetti o formazioni più consistenti, come quelle che si delineano lungo i versanti ed i crinali boscati delle aree settentrionali del comune. Purtroppo la realizzazione di grandi rimboschimenti spesso trasforma il ruolo di alberi normalmente presenti nel paesaggio. Nel caso del cipresso i rimboschimenti densi e con schemi regolari, hanno poco valore estetico, come è possibile osservare sul versante sud del Monte Morello, un’area visibile da due terzi dell’orizzonte dell’area fiorentina, ma dove il valore estetico non sono certo in linea con la qualità del resto del paesaggio collinare. 4. Il paesaggio dei terrazzamenti e delle sistemazioni collinari Uno degli elementi che caratterizzano le colline Toscane, e nel caso specifico quelle fiorentine, sono senza dubbio le innumerevoli opere di sistemazione del terreno che ne rimodellano le pendici. L’elaborazione di un paesaggio agrario collinare complesso si sviluppa negli ambiti periurbani fiorentini già a partire dall’età comunale. Ed è proprio attribuibile ad un paesaggio suburbano la descrizione didascalica del “buon governo” dell’Italia comunale, dove la sistemazione delle pendici collinare si elabora nelle forme più raffinate delle sistemazioni trasversali, di contro alla larga diffusione delle lavorazioni a “rittochino” delle aree più periferiche dei domini comunali. È probabilmente dalla seconda metà del XVIII secolo che le sistemazioni a “tagliapoggio” cominciano ad entrare nella pratica agronomica comune e nel paesaggio collinare, sia attraverso le sistemazioni a superficie unita che a superficie divisa dei ciglionamenti, insieme con i muretti a secco che vanno configurandosi come prerogativa distintiva dello scenario fiorentino, ma sono tratto comune a molti paesaggi italiani (Barbera et al 2010). La collocazione delle sistemazioni odierne rispetto alla cartografia di uso del suolo prodotta sui dati ottocenteschi suggerisce come i terrazzi si dispongano in aree precedentemente boscate o di pertinenza dei pascoli, suggerendo come l’opera di rimodellamento delle pendici collinari si sia prolungata anche oltre la seconda metà dell’Ottocento. Al contrario osservandone la sovrapposizione con l’uso del suolo del 1954, non si nota nessuna concomitanza delle sistemazioni con aree boschive, presenti in quel periodo, è quindi verosimile individuare nel paesaggio del 1954 la massima espansione delle sistemazioni collinari. Il permanere dei rapporti produttivi delle mezzadria fino all’inizio degli anni ’50 del XX secolo, ha preservato la quasi totalità delle opere e dei manufatti connessi alle sistemazioni collinari sviluppatesi nel corso dei secoli, articolandosi in ciglionamenti in corrispondenza dei terreni sabbiosi ed in terrazzamenti in quelli rocciosi (Desplanques 1977). All’attualità gran parte del territorio terrazzato (67,65%) risulta interessato dalla coltivazione dell’olivo, in parte anche con disposizione irregolare, mentre tutte le altre colture, tranne i boschi pari al 5% sono presenti in percentuali minime non superiori al 3% ciascuna, ma con un numero totale pari a 22 usi del suolo diversi, il che conferma la complessità del paesaggio terrazzato collinare. L’interesse attuale per i terrazzamenti delle colline fiorentine è senz’altro legato al loro significato storico, produttivo ed estetico, ma anche alla particolare situazione fondiaria nella quale i proprietari non hanno modificato, ne abbandonato, i modelli colturali storici conservando questi elementi nel loro stato originario. C’è però un altro ruolo fondamentale 169


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svolto dai terrazzamenti che è quello di contribuire a prevenire i fenomeni di dissesto idrogeologico, che potrebbero interessare la città sottostante con gravi danni alle cose e alle persone. In questo senso e come nel caso delle Cinque Terre, il costo delle opere di ripristino dai possibili danni dei fenomeni di dissesto sarebbe senz’altro superiore al costo della loro manutenzione (Preti 2001, Preti 2002). 5. Sintesi delle trasformazioni del paesaggio fiorentino fra ‘800 ed attualità Il confronto tra il paesaggio attuale e quello ottocentesco, ha permesso di identificare le dinamiche paesaggistiche. Il grafico delle dinamiche generali mostra chiaramente come l’arco temporale racchiuda una ampia varietà di trasformazioni che riducono la percentuale rimasta invariata al solo 17% del territorio (Fig.11). Il processo più significativo è evidentemente quello di antropizzazione/urbanizzazione del territorio, che vede un primo raddoppio dell’area urbanizzata che si verifica in periodo di poco più di un secolo, mentre il secondo raddoppiamento dell’area urbana avviene in un arco temporale di solo mezzo secolo, evidenziando una maggiore velocità ed intensità delle sviluppo urbano avvenuto nel secondo dopoguerra. L’espansione urbanistica in questo secondo periodo storico satura gli spazi a disposizione nella pianura circostante, attraverso una dinamica di conurbazione che coinvolge soprattutto i centri periferici disposti lungo tre direttrici dell’asse principale della piana: la prima in direzione Rifredi-Castello, la seconda in direzione Peretola-Brozzi, la terza verso Mantignano, Scandicci. Non si può non porre in grande rilievo il fatto che la popolazione fiorentina attuale, dopo un picco registrato nel 1971, con 457.803 abitanti, è ormai ritornata alla stessa valore del 1954, ma con una dotazione di superfici urbane doppia. Sebbene negli ultimi dieci anni il trend sia in crescita, essendo passati da 356.118 a 375.041 abitanti, è evidente la sproporzione fra incremento urbanistico e demografico. La crescita metropolitana ha interessato la connotazione agricola del paesaggio periurbano innescando da una

Fig. 11. Nel grafico sono sintetizzati i più importanti processi di trasformazione avvenuti fra l’800 e l’attualità. Il processo dominante è l’urbanizzazione. La percentuale di “non identificato” (in arancione) si riferisce a quelle aree non classificate nell’uso del suolo del 1832, per le quali non è stato possibile definirne le dinamiche. The graph summarizes the most important landscape changes from the nineteenth century to the present day. The most dramatic was urbanization. The areas designated as “unidentified” (in orange) are those whose dynamics cannot be ascertained because their land-uses are not classified in the 1832 records. 170


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parte fenomeni di abbandono colturale e dall’altro fenomeni di intensivizzazione. L’abbandono dell’assetto mezzadrile della campagna fiorentina, insieme alla meccanizzazione della produzione agricola si realizza in una specializzazione delle colture, che si sostituiscono al paesaggio dei seminativi promiscui passati dai 3.520 ettari dell’ottocento ai 472 ettari attuali. L’intensivizzazione si estende sul 17% dell’area, sebbene la portata del fenomeno sia superiore nel confronto temporale tra l’800 ed 1954 (Fig. 11). Nel paesaggio collinare l’intensivizzazione agricola significa soprattutto la diffusione degli impianti specializzati di olivo, sebbene, soprattutto in pianura, si assista anche alla progressiva diffusione dei seminativi nudi e dei frutteti specializzati. Insignificante è invece l’apporto dei vigneti in monocoltura al processo di specializzazione. Il paesaggio olivicolo assume pertanto un maggiore valore nel contesto fiorentino nel periodo analizzato, come parte del valore del paesaggio olivicolo toscano e che Fernand Braudel (1986) definisce “la più commovente campagna che esiste”. Non sempre la distinzione dell’area occupata dalle piante arboree e dalle erbacee è ben netta, essendo in genere la coltura di quest’ultime estesa uniformemente su tutta l’area. Nei dintorni di Firenze si riscontrano i tipi più complessi ed intricati di consociazione dell’olivo con altre piante arboree ed in pari tempo con l’erbacee. Infatti, all’olivo si consociano, oltre che le piante erbacee, la vite, i peschi, i peri, i meli, i gelsi ecc. con una promiscuità spinta al massimo”, oltre ad essere presente in monocoltura con disposizione irregolare delle piante, come riportato per il resto della Toscana (Agnoletti 2004, Ballerini 1991) e per altre regioni d’Italia (Inglese e Calabrò 2002). Appare comunque di fondamentale importanza la permanenza di una importante dotazione di piante arboree e di formazioni lineari nel paesaggio. Sebbene gli olivi siano diminuiti del 49% nell’area campione studiata, il complesso degli esemplari ancora presenti è diminuito solo del 5% fra il 1954 e l’attualità. Le formazioni lineari invece sono diminuite solo del 10% per quanto riguarda la densità di metri lineari ad ettaro. Tutto questo palesa un ruolo ancora importante dal punto di vista agronomico, un alto grado di biodiversità del paesaggio agrario storico (Cevasco e Moreno 2010, Cevasco 2007)), nonché una importante funzione estetica delle alberature. Se da una parte il distendersi del tessuto urbano segna o la scomparsa o la specializzazione delle colture agrarie residue, dall’altra direttamente o indirettamente implementa meccanismi opposti di estensivizzazione

Fig. 12. Confronto fra le categorie generali di uso del suolo presenti nei tre periodi analizzati. A comparison between general categories of land use in the three periods under analysis. 171


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colturale. La città si sostituisce alla campagna non solo con l’edificazione, ma anche indirettamente innescando fenomeni di abbandono colturale che determinano una crescita esponenziale dei prati e degli incolti pascolati (Petrocelli, Bianchi, Paci 2003). Lo spostamento del baricentro produttivo dalle attività agricole alle attività connesse al settore terziario e dell’industria manifatturiera, causa l’abbandono delle aree coltivate più periferiche sia in collina, dove subentrano processi di successione secondaria e forestazione, che in pianura dove proliferano gli incolti (Fig. 12). L’estensivizzazione, diffusa sul 7% dell’area di studio, è caratterizzata anche dal proliferare delle piccole coltivazioni orticole che identificano le aree di confine e frizione tra l’edificato ed il non edificato, entrando in alcuni casi a far parte del tessuto urbano stesso con un sistema diffuso di orti urbani e periurbani (Fig. 13).

Fig. 13. Gli orti sociali sono una delle componenti storicamente più importanti del paesaggio cittadino (Località Isolotto, foto Agnoletti). Social vegetable gardens are one of the most important historical components of the cityscape (Area of Isolotto, photograph Agnoletti).

Al pari dell’estensivizzazione si collocano le dinamiche di forestazione altrettanto implicate nella determinazione dell’assetto paesaggistico collinare. Nel passaggio analizzato si evidenzia una variazione del significato funzionale del bosco, da elemento subalterno ma complementare ad una marcata connotazione agricola del territorio a elemento di disgregazione dell’assetto produttivo tradizionale delle aree collinari. Le statistiche generali riferite ai tre diversi usi del suolo, pur non consistendo in una valutazione puntuale della trama paesaggistica, possono essere indicative del suo ordine di grandezza, nonostante la sensibilità di queste alla metodologie di indagine utilizzata nello studio dei tre diversi paesaggi. Emerge in primo luogo una marcata distinzione in termini di numeri di tessere, dove per tessere si intendono aree contigue omogenee per uso del suolo che compongono il mosaico paesaggistico , passando da 6913 a 8884. Il paesaggio moderno appare più frammentato rispetto al passato, mostrando una differenza che si fa sostanziale nel confronto con il 1954, dove incide di più 172


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l’accuratezza analitica, ma a questa frammentazione non contribuiscono le categorie agricole come nell’800 quindi non si può parlare di maggiore biodiversità. La distanza con il mosaico ottocentesco è invece piuttosto breve se si considera come la superficie media delle singole tessere risulti per entrambi i periodi inferiore ai 2 ettari, sebbene ancora una volta sia il paesaggio attuale a mostrare un valore più basso. È invece molto indicativo riportare come il territorio ottocentesco presenti una superficie distribuita in ben 108 categorie catastali, quasi tutte agricole, mentre più povera risulta la differenziazione del paesaggio odierno suddiviso in 37 sottocategorie di uso del suolo. Il paesaggio dell’800, pur caratterizzandosi per una variabilità eccezionale, si esprime però nella dominanza superficiale di solo alcune categorie catastali, che plasmano il mosaico. Basti pensare all’estensione del “lavorativo” e del “lavorativo vitato pioppato” che complessivamente si estendono su più del 50% del territorio. Riguardo alle tendenze caratteristiche dei due intervalli temporali analizzati, l’andamento del primo periodo individua nella grande espansione della coltura dell’olivo l’elemento permeante le dinamiche paesaggistiche seguito dai processi di urbanizzazione. Gli indici misurati esprimono la drastica riduzione dei seminativi promiscui quale contropartita alle suddette dinamiche di incremento superficiale. La tendenza negativa si ripresenta anche dal secondo dopoguerra all’attualità, sebbene l’intensità della regressione sia più marcata nella diminuzione dei seminativi semplici non più promiscui ma in realtà diffusa su tutte le categorie di uso del suolo relative allo sfruttamento agricolo del territorio. Di contro si assiste ad un rapido incremento delle superfici urbanizzate a cui si accompagnano i già evidenziati fenomeni di abbandono colturale con l’avanzamento dei boschi. Per quanto riguarda le “emergenze” paesaggistiche, in termini di usi del suolo che tendono a svanire dal paesaggio, l’uso del suolo in maggiore emergenza è la coltura promiscua, con un valore doppio dell’indice utilizzato per questa valutazione rispetto ai seminativi semplici. Si tratta di un generale processo di riduzione della complessità del paesaggio già riscontrato dall’800 ad oggi in tutte le altre aree del sistema di monitoraggio del paesaggio toscano, in cui si registra la perdita di circa un uso del suolo ogni due anni, con una perdita della diversità complessiva del paesaggio in questo periodo pari a circa il 45%.

Fig. 14. A Firenze agricoltura e città si integrano, risultando ugualmente importanti per l’unicità e la bellezza di una paesaggio storico con pochi confronti nel panorama internazionale. Questo suggerisce strumenti di pianificazione e programmazione integrati (Foto Calvani). The widespread presence of terraces on the hills of Florence is not only aesthetically pleasing and agriculturally productive, but also helps to prevent hydrogeological risk. The abandonment of terraced cropland leads to the deterioration of terraces and thus threatens to increase risks for the urban population. 173


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Nonostante la riduzione delle attività agricole, le attività economiche legate a questo settore vedono ancora impegnate più di 700 aziende, delle quali 110 prettamente agricole, con un valore dei prodotti superiore a 15.000.000 di euro2. La loro permanenza, assieme all’attività di privati non direttamente coinvolti in attività agricole, ma che hanno conservato molte delle loro forme storiche, sono la migliore garanzia della possibilità di mantenere il complesso di valori associati al paesaggio. 6. Conclusioni Le trasformazioni paesaggistiche che hanno interessato il territorio fiorentino nel periodo studiato riflettono il cambiamento dei rapporti che hanno legato la città alla campagna per molti secoli. Tali trasformazioni sono state determinate dall’agire sinergico di tre fenomeni dinamici: l’urbanizzazione, l’intensivizzazione e l’abbandono colturale. La crescita metropolitana ha generato nel tempo non solo una riduzione delle aree agricole, fenomeno comune a tutte le grandi aree urbane, ma anche l’intensivizzazione dell’agricoltura e nelle aree più marginali fenomeni di abbandono colturale. In questo mutato rapporto fra città e campagna assumono particolare rilievo le relazioni fra dinamiche insediative e demografiche, visto che oggi una superficie urbana doppia rispetto al 1954 e tripla rispetto al 1832, ospita una popolazione poco più che doppia rispetto all’800, ma quasi identica rispetto al 1954. Questo propone una riflessione non solo sulle esigenze abitative e le dotazioni infrastrutturali del modello di sviluppo attuale, ma anche sugli indirizzi e il ruolo della pianificazione urbanistica in rapporto alle risorse paesaggistiche. Per quanto attiene il paesaggio agrario la drastica riduzione della coltura promiscua conferma la progressiva scomparsa di uno dei più importanti paesaggi storici europei (Meuus et al., 1990, Agnoletti 2010). La permanenza di aree con questa tipo di coltura è quindi fondamentale per conservare uno degli aspetti più importanti della diversità biocolturale espressa dal paesaggio rurale. Gli oliveti e le sistemazioni idraulico agrarie collinari ad esse associati rivestono grande importanza nel paesaggio attuale, anche per la riduzione dei fenomeni di dissesto idrogeologico. Le colture olivicole, pur nella loro relativa modernità, presentano una notevole varietà di forme e combinano architetture e tecniche di allevamento diverse, quasi sempre su piccole superfici, esprimendo una importante funzione culturale, estetica ed etica (Barbera 2003, Imberciadori 1980). Se la collina appare ancora ben conservata, così come parte della zona ad est, la piana ad ovest della città caratterizzata dai seminativi, è in piena emergenza. Si tratta ormai di un’isola posta al centro delle aree urbane di Firenze e dei comuni limitrofi in continua espansione, con il rischio della definitiva costituzione di un’unica grande area urbanizzata con caratteri di continuità territoriale. In questo contesto sembrano delinearsi convergenze interessanti fra i comuni di Fiesole e Firenze, per la costituzione di un parco rurale che incorpori anche le aree naturali protette di interesse locale già presenti sulle colline settentrionali (Agnoletti e Maggiari 2004). Appare evidente dai dati dello studio che la denominazione di “aree naturali” è assai lontana dalla realtà storica di un territorio da secoli modellato dall’uomo, ed anche negli amministratori è chiaro come tali aree non possono che rappresentare e salvaguardare un valore prodotto della storia. Molto più problematico appare invece il dibattito sulla piana posta ad ovest, dove l’ipotesi di parco rurale trova notevoli difficoltà specialmente nell’ambito dei settori di programmazione dello sviluppo rurale. Una proposta di parco rurale intorno a Firenze era già stata avanzata alcuni anni fa e le politiche nazionali in materia di agricoltura hanno già scelto di porre attenzione non solo all’agricoltura periurbana, ma anche ai paesaggi rurali di interesse storico (Agnoletti 2010). Certamente il sostegno ad un parco da cui l’uomo non è escluso, come nel caso delle aree naturali, ma di cui è protagonista, esprime uno dei più importanti contenuti che il concetto di paesaggio propone per il nostro modello di sviluppo, richiedendo però una integrazione fra pianificazione e sviluppo rurale (Fanfani 2008). Una sinergia fra valori culturali, ambientali, estetici e produttivi è oggi la chiave per un’efficace politica di valorizzazione del paesaggio rurale; è però necessario che i settori legati allo svi2

Valore del 2007, Piano Strutturale di Firenze.

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luppo rurale diventino soggetti attivi e non passivi di un processo di trasformazione del ruolo del territorio rurale, non solo dell’agricoltura, già avvenuto nella realtà economica e sociale del paese, ma che stenta ancora ad affermarsi. Così come una agricoltura lasciata in balia delle solo forze che agiscono sul mercato dei prodotti agricoli non potrebbe che soccombere, come purtroppo sta avvenendo da alcuni anni, operazioni che la estrapolino completamente dalla sua matrice economica assegnando funzioni e valori su un base esclusivamente di “progetto del territorio” non riuscirebbero a salvare i suoi valori paesaggistici. Se questo è vero per le aree rurali tradizionali lo è anche per l’agricoltura urbana, che per uscire da uno schema che la vede eternamente subalterna al mercato immobiliare, deve proporsi come garante di una nuova qualità urbana intesa e quindi fondamento indispensabile per assicurare la qualità della vita dei cittadini.

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URBAN AGRICULTURE: THE RURAL LANDSCAPE OF FLORENCE OVER THE LAST TWO CENTURIES Mauro Agnoletti, Valentina Marinai Cultlab - Laboratorio per il Paesaggio ed i Beni Culturali Facoltà di Agraria Università di Firenze Introduction One of the most distinctive peculiarities of the city of Florence is its periurban area, which has retained to this day a strong agricultural character with exceptional landscape values. Here an agricultural mosaic endowed with great biocultural diversity and very old historical settlements enhanced by their position of the hills combine to produce a scenery that is unparalleled in Italy and internationally. The set of values manifested in this periurban landscape could very well warrant an application for the UNESCO World Heritage listing, which already includes the urban center of Florence. The inclusion of the periurban landscape in the listing would help to promote the integration of the city with its landscape system, whose historical construction is the result of a functional relationship between town and country which has deeply changed over time, but has nevertheless retained many of its assets. The Ministry of Agriculture has partially made up for this lack of recognition by including the hills between Fiesole and Florence among the areas designated for listing in the National Catalogue of Historical Rural Landscape. This action was undertaken as part of the implementation of the National Plan for Rural Development and in the context of the new responsibilities in the rural landscape sector assumed by the Ministry of Agriculture (Agnoletti 2010). ISTAT, the Italian national statistics institute, has recently acknowledged the principles informing the National Plan by including the quality of rural landscape among indicators of the population’s well-being. The recently implemented structural plan for Florence devotes special attention to the hilly part of the city’s countryside, defining it as a “structural invariant”, but does not go into an in-depth analysis of the evolutionary dynamics and structure of the city’s agricultural landscape to define its integrity and vulnerabilities. The agricultural landscape has been largely overlooked in the broader debate on the Structural Plan that involved the citizens and the city administration, apart from the expressed intent to maintain the rural destination of the city’s countryside, especially in the plain extending to the west of the city. I hence thought it useful to take a closer look at this aspect, especially to counter the vagueness with which the issue of landscape is usually approached. Landscape is almost always seen as an opposition between town and country, and much emphasis is placed on urban quality, but very little on rural quality or on the historical value of landscape, which today is being increasingly emphasized in land planning (Magnaghi 2010). The rural landscape, the second pole of the opposition, is often dismissed with the consideration that the simple fact of maintaining an agricultural activity of any kind is a sufficient condition to guarantee good landscape quality. Fortunately, not only for Florence and Tuscany, but for Italy in general, this is not the case. The Florentine rural landscape retains peculiarities that need to be highlighted to inform the public and decision-makers of its assets and weaknesses. This is why the present study, rather than focusing on settlement-related, socioeconomic and demographic aspects, which have already received ample attention in a number of publications, is mainly devoted to the much less well-known agrosilvopastoral components of the Florentine countryside. I decided to use a time frame of about two centuries as the most suitable to record transformation and persistence, starting from a historical time when the Tuscan landscape was beginning to attain its highest complexity and diversity, at the spatial level as well as in other ways (Baudry J., BaudryBurel F. 1982). The operative stages of my investigation followed the procedure set down in the HCAA protocol, “Historico-Cultural Assessment Approach”, based on the determination of landscape identi177


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ties through a multitemporal comparison of land-use patterns in three different years: 1832, 1954 and today (Agnoletti 2002; 2006), and on investigations I had begun in the late 1990s on a fixed number of sample areas for the monitoring of the Tuscan landscape. In my research I also looked at some dates between 1832 and 1954, but here for reasons of space I cannot present either these data or many others, which are to be included in a forthcoming monograph. The study area comprises the whole current town area within the road loop, with the exception of the historical center. This decision was based on the consideration that at the beginning of the nineteenth century the agricultural landscape extended all the way to the town walls. I therefore focused on the area extending from the limits of nineteenth-century Florence to the current limits of the municipal territory. The study area thus encompasses all of the 102 square kilometers of the town area, including the nineteenth century urban area in the general land-use category including all anthropized surfaces. 1. The Florentine landscape in the early nineteenth century My reconstruction of land-use patterns in the mid-nineteenth century, based on available cadastral sources, shows that the city’s agricultural landscape, extending around the central urban core, had already developed its structure in the course of the previous centuries: a dotted settlement pattern that had begun to expand across the countryside from the twelfth century onward. The sharecropping system, the prevalent agrarian structure in central Italy, began to change from the fifteenth century onward, when, following a remarkable demographic increase in the wake of the Black Plague of 1348, the demand for agricultural products increased and, as a consequence, their prices. Investments in the Tuscan countryside made in the Renaissance led to the rise of a villa system with mansions on the hilltops and in the plain west of the city (Poli 1999), forging the bel paesaggio, the “beautiful landscape” depicted in a multitude of paintings from this period. By the early nineteenth century, the eminently agricultural vocation of this landscape was well established. According to cadastral data, in 1832 most of the area under study was occupied by cultivations, 6940.67 hectares, or 68% of the total area. Urbanized areas, that is, the city itself, although the second largest landuse class, only extended over 1050.04 hectares (10.25% of the area), with a population of 150,864 inhabitants, followed by wooded areas, 521.72 hectares (5%), and meadows and pastures, 195.22 hectares (1.91%). If we take a detailed look at the land-use pattern revealed by this reclassification of cadastral crop classes (Fig. 1), we will notice that farmland is almost equally divided between mixed cultivation (3500 hectares or 34.39%) and bare cereal fields (3415 hectares or 33.35%), while only a small surface is devoted to specialized orchards (0.03%). Mixed cultivation involved the combination of vines trained on trees and ploughed fields, creating an aesthetically more complex landscape, as well as one richer in biodiversity. Mixed cultivation has high specific biodiversity thanks to the presence of many animal species attracted by the great availability of food resources (Lomou and Giurga, 2003). Furthermore, it allowed the growing of several crops on the same plot, and hence used less land than monocultures. There is a clear-cut difference in distribution between bare arable land and mixed cultivations. In the western plain on the right bank of the Arno, both treed fields and bare ones were concentrated on land with similar characteristics. This kind of agriculture had actually existed here since the time of the Etruscans and Roman centuriation (Poli 1999). The two categories, however, occupied different areas, the former in the westernmost portion of the plain, the second to the east, near the Comunità del Pellegrino. Other mixed cultivations were concentrated on the left bank of the Arno, in the area of the southwestern districts of Mantignano and Ugnano, and further east towards Bagno a Ripoli. On the right bank of the Arno, besides the abovementioned areas, were agricultural areas lying north of the city walls on the left and right sides of the Mugnone, and east of the city beyond Porta alla Croce going out towards Rovezzano. The extension of the lavorativo vitato pioppato (farmland with vines trained on poplars), accounting by itself for 13% of the whole surface of the study area, suggests that this was the most widespread form of mixed cultivation. The definition probably designates the so-called alberata of Tuscany, Umbria and Marche (Sereni 1961), 178


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the typical farming system of Tuscan sharecroppers, defined by the extensive hydraulic arrangement of porche with parallel rows of vines trained on “poplars” lined alongside ditches. The system is Etruscan in origin. The size of prode and their elongated shape are a decisive element for an estimation of the dimensions of the rural fabric they were associated with. Unfortunately it is impossible to provide a detailed representation of irrigation works, ditches and tree rows, as cadastral maps are mainly about plot ownership. We will have to imagine the mixed arable land in what is today the Florentine metropolitan area. It was divided up in a mosaic of small plots, long and narrow, arranged in a fairly constant geometrical grid defined by paths between holdings and a high concentration of tree rows. My study indicates that the most characterizing element of the agricultural landscape was grape growing in a mixed-cultivation context, extending over 50% of the Florentine periurban area, 73% of the total cultivated surface, a prevalence that is also observable in other areas in the Province of Florence (Biagioli 1975). Monocultural vineyards accounted for only two hectares overall, whereas mixed grape cultivation was certainly the most widespread in the first half of the 1800s, as shown by cadastral statistics, where 69% of the vineyards are classified as pioppati (“poplared”). It may be surprising that grape cultivation was so widespread in the plains, especially in the Florentine plain, which was a lot more humid than the hills and thus theoretically unsuited to grapevine; but training vines onto trees raised the sprays closer to the sun and further away from the humid ground. This traditional technique, based on a deep understanding of the environment, also supplemented viticulture with the production of leaves and wood for fuel, as well as allowing grain to be harvested in the same plot. In the case of the Florentine plain, the poplar was probably preferred to field maple as a support for vines because it is better suited to humid zones, although the use of the expression “seminativo pioppato” in cadasters does not rule out that maples were also used, because pioppo (poplar) had become synonymous with “vine support”, whatever the species used for the purpose. Besides, the porche helped to drain away the humidity from the soil and thus played an especially important role in the often marshy Tuscan plains, until they were replaced by mechanized systems in the 1950s. Olive trees were not as frequently associated with grapevine as poplars. It was found on just over 17% of cultivated areas, and always in mixed cultivation, as there were practically no monocultural olive groves. The technical difficulties involved in the joint cultivation of olive and grape did not discourage farmers: 98% of Florentine olive trees were grown in association with grapevine, as they were in all the neighboring areas (De’ Ricci 1830). Olive growing was also widespread in the hills, especially to the north along the Mugnone valley; in the Castello area going up the slopes of Monte Morello; to the south on the hills extending from Monte Uliveto and Bellosguardo to Soffiano and Marignolle; and eastward towards Bagno a Ripoli. Unusually extensive flatland olive growing is observable in the Ripoli plain, where olive trees lined field edges (ASF Catasto Toscano). Fruit trees, found on almost 5% of farmland, were almost exclusively grown in mixed cultivation. They were prevalently found in the east districts of the city, along the left bank of the Arno towards Bagno a Ripoli, an area still known today as the Fruit Orchard of Florence, where peach trees were grown at the time. It is interesting that mulberry trees were grown on 107 hectares, on 87% of which it was associated with vines and poplars. In fact, the reduction of the width and length of mixed arable plots following the grain price crisis between 1820 and 1830 in some cases coincided with the addition of two rows of mulberry trees within the plot. Still, the spread of mulberry in the Florentine area appears to have been limited. We may however be underestimating its actual spread, since the cadastral documentation may only report cases where the species was significantly represented or systematically grown. As regards the distribution of mulberry cultivations, they appear to be concentrated in the west area of the Florentine plain, and especially in Brozzi, Quaracchi and Peretola. Another significant aspect of the Florentine agricultural fabric are horticultural crops, which, while not especially significant in terms of surface occupation, were commonly found around the urbanized clusters along the main roads (Via Pistoiese, Via Pisana and Via Aretina). The nineteenth-century organization of the agrarian landscape, so centered on cultivated spaces, relegated meadows and pastures to a marginal role. They accounted for no more than 2% of the whole surface. Ever since the late eighteenth century, as the sharecropping landscape and mixed cultivation became increasingly refined, fixed rotation systems were introduced, 179


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completely replacing the system based on fallow land and free grazing on fields during their resting period. The silvopastoral landscape thus cannot be regarded as a historically characteristic feature of the Florentine area. It was only found in marginal form at the edges of cultivations, or residually in the most peripheral and wooded areas. Animals were mostly grazed in riparian areas where growing crops was difficult. Meadows and small pastures with trees or shrubs account for only 10% of the pastoral landscape. They show a prevalence of species also found on farmland in the area (mulberry, olive and vine) or along river banks, such as alberi (Populus spp.), reed and willow. Woods were also very limited in extension, only 5% of the Florentine area. They show a clear prevalence of broadleaf over conifers, 86% vs. 3.38%. This datum is even more significant when we consider that the most abundant category in the “woodland” land-use category is “coppices”, accounting for 38% of wooded areas, a similar percentage to those reported for the rest of Tuscany in the course of the century. A coppice is a “low” wood, cut at quite frequent intervals to produce poles of various sizes and firewood, integrating perfectly with farming activities. In eighteenth-century cabrei and in the cadasters of Florentine hill farms they are indeed often referred to as “pole woods”, using the function to denote the form. Although the forest landscape is dominated by broadleaf trees, there is also a significant presence of conifers (about 17 hectares) in the form of cypress groves. A pervasive, if not distinctive, element of the Tuscan hill landscape until the communal age, the cypress appears in the fabric of the land mosaic mainly as an isolated tree or in rows. Considering all the cadaster entries mentioning the presence of this species, it can be estimated to have extended over 21 hectares divided into small plots with an average area of 0,79 hectares, in association with villas, cemeteries, as at Trespiano, or tree-lined roads like Poggio Imperiale. The largest woods are in the north zone, near Serpiolle, and south of the wooded area adjoining the Certosa of Florence. 2. The Florentine landscape in the second postwar period I used 1954 GAI aerial photographs to reconstruct the landscape structure of the area in the 1950s. The distribution of land-uses appears significant. 30% of the area was covered with bare arable land, 24% with urbanized areas, and almost 20% with olive groves (Fig. 4). An examination of the thematic maps of land uses for 1954 indicates that the landscape was arranged around the relatively compact urban center, which mainly extended along the western road axes leading to conurbation areas such as Rifredi, along the Firenze-Sesto road, and Peretola on Via Pistoiese. This is the result of development that had been going on since the 1930s, which brought the population up to 374,625. The agricultural landscape was arranged heterogeneously around the urbanized areas, showing a higher structural simplicity in the western plain areas, with a prevalence of arable land, whereas the landscape became more complex in the southeast portion of the municipal territory, where the land mosaic of olive groves and, in part, vineyards appears to have been more fragmented. In spite of the growth of the manufacturing industry and urban expansion, although minimal and confused, from the early twentieth century onward, agriculture is still the most striking aspect of the area. Cultivated areas extend over 64.26% of the Florentine territory, vs. 24.52% of urbanization. In the internal hierarchy of cultivated areas, bare arable land is the most extensive class (47.51%), followed by olive groves (ca. 31%). The specialization of Tuscan agriculture in the second postwar period and its gradual mechanization had led to the decline of sharecropping in the Florentine area, which for centuries had characterized the whole region. The Fifties constitute a nodal point in the history of the Florentine area, as they mark the onset of a rapid process that was to transform Florence from the center of a countryside founded on sharecropping to a “tertiary metropolis, a center of commercialization for diffuse production” (Fei, Gobbi Sica, Sica 1995). The elaborate mosaic of agricultural plots is still clearly recognizable in aerial photographs from 1954. The minute fabric of the forms of the agrarian landscape sometimes still coincides with that of 1832, but mixed cultivation has given way to olive and grape monocultures. The expansion of olive monoculture, not recorded in the nineteenth century, was especially significant in the 1950s, when it extended over 24.13% of the whole study area, reflecting a trend documented over all of Tuscany. Olive groves became 180


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the distinctive landscape features, although occurring in a variety of forms. In the same period, Morettini (1950) stressed the polycultural character of Tuscan olive-growing: “Olive is grown in rows. Between rows, common grain, fodder and horticultural crops are grown in rotation. Along the row, the olive tree is usually associated with the vine, more rarely with various species of fruit tree. Another significant aspect is the abundance of vineyards, which extended over almost 7% of the area, with a concentration in the south and east districts of the municipal territory. The spread of specialized viticulture appears to have been still rather limited in the Florence area in 1954, at least compared to the current modern forms. Some counts taken in sample areas between Settignano and Firenze (Elmi 2011) indicate an average per hectare density of 134 olive trees, while the total tree density is of 168 trees per hectare, a datum revealing a high degree of biodiversity with a variety of tree species, rather than olive monoculture; although the per hectare density of olive trees is lower than in monocultural olive groves elsewhere in Italy, where it can reach several hundreds. In the same areas, linear plant arrangements, such as hedges or tree rows, measure a total of 83 linear meters per hectare, not an especially high figure, but nevertheless pointing to the presence of a network of “ecological corridors”, a traditional landscape feature that is useful to the biodiversity of animal and plant species. In the 1954 landscape, meadows and pastures played a minor role. Open spaces where pastoralism was actually practiced were found on the slopes of the northern hills, where the spatial complementarity with the wooded areas was strongest. Here the more extensive pastures were the ones with bushes and trees, a result of secondary succession and colonization following the abandonment of cultivation. The extension of woodland was limited to 5.83% of the surface, including actual woods (4.71%) and shrubbery (1.12%). The extension and geographical distribution of woodland is an important indicator of crop and pasture abandonment and hence of the significance of ongoing reforestation processes compared to the nineteenth century. 3. The modern periurban landscape The situation of the Florentine landscape at the beginning of the twenty-first century shows a reversal of hierarchies as a result of the industrial and urban revolution of the second postwar period. The present distribution and extension of urbanized surfaces, accounting for more than 50% of the municipal territory, indicates a functional subordination of the countryside to the city, although the population is practically the same as in 1954: 375,041. The urbanization process, and especially its irregular and undefined east-west expansion (Fig. 6) has led to a more or less clear-cut separation of agroforestal areas, encouraging the formation of different landscapes. The expansion of the urban area of Florence all the way to the neighboring towns of Sesto Fiorentino and Campi Bisenzio has resulted in the loss of the spatial continuity of the periurban green area. In terms of macrocategories of land-use, I found that 29.46% is nevertheless still occupied by farmland and 11.92% by woodland. Meadows and pastures are less extensive, occupying only 6.38% of the municipal territory. More than 50% of cultivated areas consist of specialized olive monocultures extending over 1531.47 hectares, while the total surface of monocultural vineyards is only 72 hectares. The remaining structural elements of the Florentine agricultural landscape are mixed arable land and bare arable land, respectively accounting for 19% and 29% of farmland. Florentine fruit growing, although it boasts an ancient and noble tradition, today, as in the past, accounts for only a small part of ligneous crops, extending over only 105 hectares, or about 3% of farmland. Bare arable land has about the same extension as mixed arable land, which can claim at least a supporting role within the landscape mosaic. “Mixed cultivation” is represented by the following classes: vegetable fields and vegetable gardens (36% of mixed cultivations), treed arable land (19%), arable land with olive trees (16%), and arable land with vineyards (14%). The deruralization of periurban spaces and the increase of friction surfaces between farmland and urbanized spaces has resulted in a considerable spread of small vegetable plots, which extend over about 166 hectares and are regularly associated with ligneous crops (fruit and olive orchards, and vineyards). Treed arable land is the second largest agricultural land181


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use category. The plots are of various sizes, ranging from small “domestic� patches to more substantial spaces, showing one of the highest average fields surfaces (about 6000 sq. m), with a range from a minimum of 1000 sq. m to a maximum of 9 hectares. Arable land with olive trees is more widespread in the hills compared to treed arable land. This subcategory is found especially in the northern part of the municipal territory and is statistically more frequent than the other, but with smaller-sized plots. Among the different types of mixed arable land, that combined with vineyards is especially distinctive. Since many of the plots falling under this heading include other tree species planted alongside the vine row, they invite a historical comparison with the typical cultivations of Tuscan sharecroppers. This makes the subcategory especially important, in spite of the scarcity of its occurrence in the current scenario, where it occupies only 0.63% of the town area. This kind of cultivation is more abundant in the southern part of the municipal territory, where it is found on hills and level areas, showing the same variability in plot extension that we have observed above for treed arable land. The transition to industrial viticulture based on vast monocultures did not affect Florence’s periurban countryside, where monoculture, although well represented in the viticultural landscape (72.89 hectares), is subdivided into many small plots, 3500 sq. m on average and never larger than 2 hectares. As to olive groves, they constitute the (agri)cultural matrix of the local hill landscape, both in quantitative and qualitative terms (Fig. 8). The evolution of Tuscan olive growing, whose point of arrival has been modern intensification and specialization, has reflected on the area, imposing a prevalence of monocultural groves extending over a total of 1408 hectares, or almost 15% of the municipal territory and 89% of olive groves. These monocultural groves show different degrees of mechanization, which in landscape terms translates to a regularity of tree spacing, while irregular spacing is still observable on hill slopes. In the sample area between Settignano and Florence, the average number of olive trees per hectare is about 70. This is not especially high compared to typical specialized olive groves, which in other areas can have almost 1000 trees per hectare. This low density contributes to good landscape quality. The total number of trees per hectare is about 100, bearing witness to a high degree of biodiversity of arboreal landscape components. As regards linear arrangements such as hedges and tree rows, their average density is 75 linear meters per hectare, indicating their enduring importance in farming practices. Over time, the density of olive trees has increased, with a concomitant reduction of tree spacing to 6x8 or 7x7 for the vase system, 6x8 or 6x6 for the vasebush system, and 6x2 for the central-leader system. These are rather intensive systems that are fortunately often used in small areas. Abandoned olive groves account for only a small percentage of the scenario summarized in my thematic map, about 1.19% of the total olivegrove surface. As observed above, besides being grown in monoculture, olive trees also occur on much of the mixed arable land. Their most recurrent association is with arable land, on about 74 hectares, or 4.40% of olive groves, followed by arable land with rows of vines, on 34 hectares or 2%. The association of olive trees with vines is still significant, occurring in its various forms in 4.53% of olive groves, that is, ca. 50% of mixed olive groves. The meadows and pastures land-use category, bare or with shrubbery or trees, is a significant component of the Florentine periurban landscape, extending over more than 6% of the municipal territory. It appears to be homogeneously distributed in level and hilly areas, although with a slight prevalence in the area to the west of the city along the banks of the Arno. The distribution of meadows and pastures is interesting. They often occur as semi-natural prairies that are still grazed upon or periodically mown, or with limited secondary successions in the more marginal agricultural areas as a result of the abandonment of cultivation. Meadows and pastures are found both in the hills and in the plain, in association with tree and shrub colonization or areas under development. Sometimes, especially in peripheral plain areas (such as Peretola, Brozzi and the plain of Castello), abandoned farmland, although largely destined for urbanization, is regularly grazed by sheep, constituting a rather unusual modern pastoral landscape, but one that is important as a means to attenuate the effects of urbanization, especially in cases such as the grazed meadow bordered with scanty mulberry rows near the landing strip of the Peretola airport, a small fragment of nineteenth-century landscape. Woods are a significant feature in the current landscape, occupying about 1220 hectares, or 12% of the municipal territory. Wooded areas extend all over the north and south hill ranges, but especially on 182


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the northwest hills, where the most significant woodland formations are found. A significant part of the wooded surface is constituted by evolving areas, that is, surfaces with a degree of arboreal cover that is not yet comparable with that of a wood with dense underbrush. These dynamic formations, extending over all of 175 hectares or almost 2% of the municipal territory, are a gauge of the magnitude of changes due to crop and pasture abandonment and the concomitant expansion of woodland. Most of the woods fall under the “prevalently broadleaf” category, observed over 608 hectares, about half of the total woodland in the area. These are more or less intensively selected coppices, or abandoned coppices. “Mixed woods” of conifers and broadleaf are the second largest category, constituting 19% of the wooded surface. Mixed formations are the result of converging evolutionary processes involving broadleaf and conifers, especially in the form of spontaneous renaturalization of pinewoods of stone pine or maritime pine or, more frequently, of cypress woods. Cupressus sempervirens reforestation is often found on degraded land or degraded downy oak coppices. Although the cypress woods manage to renew themselves, they form stratified structures with manna ash and holm oak as well as downy oak. Colonization by trees also occurs in important artificial formations planted for ornamental purposes, notably on the grounds of historic villas and parks. Artificial green areas account for more than 50% of “mixed woods” associated with ornamental plants; here the mixing of species is not the result of renaturalization processes but of an intentional landscaping plan (Fig. 10). The spread of a landscape of “prevalently coniferous woods” is a consequence of the reforestation of the last 70-80 years, which however appears to have only marginally affected the Florentine area. Here conifer woods account for only 8% of the wooded surface, although their extension is larger if we also include mixed formations (27%). Although there are some areas reforested with stone pine, maritime pine and, to a lesser degree, black pine, it is the cypress groves that put their distinctive stamp on the Florentine countryside. Cypress is so widespread in the area that it is an integral part of its cultural identity (Romby 2002). It occurs as an isolated ornamental tree, and in clusters, groves and more or less extensive woods, such as those found along the slopes and ridgelines of the hills north of the city. Unfortunately, large-scale reforestation often changes the role of trees commonly found in a landscape. In the case of the cypress, the dense, regularly spaced reforestations employing this species have scarce aesthetical value, as one will notice looking at the south slope of Monte Morello, an area visible from two thirds of the Florence area, whose quality is undeniably inferior to that of the rest of the hilly landscape. 4. The terraced hill landscape One of the elements distinguishing the hills of Florence, as well as those of Tuscany in general, are the innumerable agricultural earthworks that have remodeled their slopes. The creation of the complex agrarian hill landscape in the Florentine periurban area began as early as the communal age. A didactic description of “good husbandry” in communal Italy clearly refers to a suburban landscape, where the more sophisticated cross-slope farming is used on hillsides rather than the a rittochino (slopewise) farming commonly found in the more peripheral areas of communal territories. It is probably in the second half of the eighteenth century that a tagliapoggio (cross-slope) farming was eventually adopted into common agronomic practice and incorporated into the hill landscape, both on continuous slope surfaces and on terraces. Dry-stone terrace walls thus became a distinctive feature of the Florentine landscape, and one it shares with many other Italian landscapes (Barbera et al. 2010). A comparison of the present situation with my land-use map for the nineteenth century suggests that today terraces extend over former woodlands or pastures, and that the remodeling of hill slopes was carried on even after the second half of the nineteenth century. On the contrary, compared to the map of 1954 the current map shows no superimposition of modern terracing on wooded areas from that period. It is hence reasonable to assume that by 1954 hill terracing had reached its maximum expansion. Since the sharecropping system endured until the early 1950s of the twentieth century, almost all of the hillside earthworks built over the centuries are still preserved. These include ciglioni (earth walled terraces) on sandy soils 183


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and terraces on rocky ones (Desplanques 1977). Today olive is grown over most of the terraced areas (67.65%), in irregularly as well as regularly spaced groves. All other crops, except for woodland (5%), are present in minimal percentages, not exceeding 3% each, but totaling 22 different land uses, a datum that bears witness to the complexity of terraced hill landscapes. The current interest in the terraces of the Florentine hills is undoubtedly prompted by their historical, productive and aesthetical significance, but also by the fact that their owners have never changed or given up their historical farming practices. Furthermore, terraces play a fundamental role in preventing hydrogeological disasters that could affect the city below, with serious harm to people and property. As in Cinque Terre, the damage repair costs would undoubtedly be higher than those of terrace maintenance (Preti 2001, Preti 2002). 5. A summary of changes in the Florentine landscape from the 1800s to the present day My comparison between the current landscape and that of the nineteenth century highlights their landscape dynamics. The “general dynamics” graph clearly shows that a broad range of transformations took place within this time span, leaving only 17% of the area unchanged (Fig. 11). The most significant of these transformations is obviously the anthropization/urbanization of the area. A first doubling of the urbanized area occurred over a little more than a century, while the second doubling took place in just half a century under the impulse of the acceleration and intensification of urbanization in the second postwar period. In this second historical period, urban expansion saturated the available spaces in the surrounding plain, mainly along the axes connecting Florence to three peripheral urban centers in the plain: Rifredi-Castello, Peretola-Brozzi, and Mantignano, Scandicci. It is highly significant that the current population of Florence, after peaking at 457,803 in 1971, today has gone back to the same figure as in 1954, but with double the urban surface. Although the population trend over the last ten years has been upward, going from 356,118 to 375,041, the disproportion between urban expansion and demographic growth is glaring. Metropolitan growth has impacted the agricultural character of the periurban landscape, encouraging, on the one hand, the abandonment of cultivation and, on the other, intensification. The decline of the sharecropping-based organization of the Florentine countryside, along with the mechanization of agricultural production, has resulted in monocultures gradually replacing mixed ploughed fields, which have shrunk from 3520 hectares in the nineteenth century to the current 472 hectares. This shift to intensive farming is observable on 17% of the area. However, a comparison with the nineteenth century situation shows that most of it occurred before 1954. In the hilly landscapes of the area, agricultural intensification mainly occurred in the form of a spread of monocultural olive groves, although there also was a gradual increase of bare arable land and specialized fruit orchards, especially in the plain. The contribution of monocultural vineyards to this specialization process, instead, was negligible. The olive-growing landscape thus dominates the Florentine area in the period under analysis, and is thus a valuable component of the olive-growing landscape of Tuscany as a whole, which Fernand Braudel (1986) called “the most moving countryside in the world”. The distinction between treed areas and areas with herbaceous crops is not always clear cut, as the latter are usually grown uniformly all over the area. In the countryside of Florence one finds some of the most complex and intricate cases of association of olive trees with other arboreal plants and herbaceous crops. Besides herbaceous crops, olive trees are associated with grape, peach, pear, apple, mulberry, etc., in extreme promiscuity, as well as being grown in monocultures with irregularly spaced trees, as in the rest of Tuscany (Agnoletti 2004, Ballerini 1991) and in other Italian regions (Inglese and Calabrò 2002). In any case, the permanence of an abundance of arboreal plants and linear formations in the landscape appears to be of fundamental importance. Although olive trees have decreased by 49% in the sample area, the total number of specimens have only decreased by 5% from 1954 to the present day. As to linear formations, they have only decreased by 10% in terms of linear meters per hectare. All this bears witness to the area’s enduring importance from an agronomic standpoint, and to the high biodiversity of its historical agrarian landscape (Cevasco and Moreno 2010, Cevasco 2007), as 184


M. Agnoletti, V. Marinai Urban Agriculture: The Rural Landscape Of Florence Over The Last Two Centuries

well as the important aesthetical function of tree rows. If, on the one hand, the expansion of the urban fabric is leading to the disappearance or specialization of residual cultivations, on the other it is directly or indirectly stimulating an opposite trend to crop “extensivization”. The city is replacing the countryside not only through urbanization, but also indirectly by triggering crop abandonment processes. This results in an exponential growth of meadows and grazed-on uncultivated fields (Petrocelli, Bianchi, Paci 2003). The moving of the productive center of gravity from agriculture to the tertiary sector and the manufacturing industry is causing the abandonment of the more peripheral cultivated areas, both on the hills, where processes of reforestation and secondary succession are setting in, and in the plain, where uncultivated land proliferates. “Extensivization”, observable on 7% of the study area, is also marked by a proliferation of small horticultural cultivations along border and friction zones between urbanized and non-urbanized areas, sometime becoming an integral part of the urban fabric in the form of a diffuse system of urban and periurban vegetable gardens (Fig. 13). The effect of reforestation dynamics on the hill landscape is similar to that of “extensivization” in the plain. We observe a variation of the functional significance of woodland, which is turning from a marginal element, but one that complements the strong agricultural vocation of the area, into an element that disrupts the traditional productive organization of the hills. The available general statistics for the three periods under consideration, although not allowing a detailed assessment of the landscape fabric, can help to determine the order of magnitude of this process, in spite of their sensitivity to the different methods of investigation used for each of the three periods. What emerges first of all is a clear distinction in terms of numbers of patches, from 6913 to 8884 (by patches I mean the contiguous homogeneous land-use areas that compose the landscape mosaic). The modern landscape thus appears to be more fragmented than in the past. The difference from 1954 is substantial, but this fragmentation is not a result of an increase in the number of agricultural patches, and we hence cannot speak of higher biodiversity. There is little difference, instead, from the nineteenth century mosaic, if we consider that for both periods the average surface of individual patches is inferior to two hectares, although once again it is the modern landscape that shows the lower value. It is revealing instead to consider that the nineteenth-century landscape shows a surface distributed over all of 108 cadastral categories, almost all of them agricultural, whereas the modern landscape displays much lower diversity, with only 37 subcategories of land use. In spite of the exceptional diversity of the nineteenth-century landscape, most of its surface is taken up by only a few cadastral categories, which put their stamp on the land mosaic. We only need to think of the extension of lavorativo (arable land) and lavorativo vitato pioppato (arable land with poplars), which account for more than 50% of the total area. As to the trends characterizing the two analyzed time intervals, the prevalent landscape dynamics in the first period is the great expansion of olive growing, followed by urbanization. The measured indexes show that this dynamics was offset by a drastic reduction of mixed arable land. This negative trend continued from the second postwar period to the present day. The intensity of the regression is more marked for the bare (formerly mixed) arable land, but actually extends to all agricultural land-use categories. Conversely, urbanized surfaces rapidly increased, with the concomitant abandonment of cultivations and woodland expansion discussed above. As regards landscape “emergencies”, the disappearance, that is, of certain land uses from the landscape, the highest emergency regards mixed cultivation, which is twice as much at risk as bare arable land. This is part of a more general trend towards the decline of landscape complexity observable in all the other areas under observation by the Tuscan landscape monitoring system. From the nineteenth century to the present day there has been a loss of one land use every two years and a ca. 45% decline of landscape diversity. In spite of the decline of agriculture, there are still over 700 businesses working in this sector—including 110 prevalently agricultural ones—with an overall revenue exceeding 15,000,000 euros. Their permanence—along with the activities of private operators who are not directly involved in agricultural activities but have preserved many of the historical forms of these activities—is our best hope for the survival of the set of values associated with the Florentine landscape. 185


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

6. Conclusions The transformations of the Florentine landscape in the period under study reflect changes in the relationship of the city with its countryside over many centuries. These changes where determined by the synergy of three dynamic phenomena: urbanization, intensification, and cultivation abandonment. Over time, metropolitan growth has generated not only a shrinking of agricultural areas—a phenomenon common to all major urban areas—but also an intensification of agriculture, and cultivation abandonment in the more marginal areas. In the context of this change in the relationship between the city and its countryside, the relationship between settlement dynamics and demographic trends are especially significant. Today, an urban surface that is twice as large as in 1954 and three times as large as in 1832 houses a population that it is a little more than twice as large as in 1832, but almost the same as in 1954. This datum calls for a reflection not only on housing needs and available infrastructure in the current development model, but also on the objectives and role of urban planning in landscape resource management. As regards the agricultural landscape, the drastic decline of mixed cultivation confirms the gradual disappearance of one of the most important European historical landscapes (Meuus et al., 1990, Agnoletti 2010). The permanence of mixed cultivation areas is essential if we wish to preserve one of the most important aspects of the biocultural diversity expressed by the rural landscape. The olive groves and the hillside earthworks they are associated with hold great importance in the current landscape, partly because they help to prevent hydrogeological disasters. Olive growing, although relatively recent, show a great varieties of forms and combines different architectures and cultivation systems, almost always on small surfaces. It thus has an important cultural, aesthetic and ethical function (Barbera 2003, Imberciadori 1980). While the hills appear to be still well preserved, as does part of the east zone, the plain east of the city, characterized by a prevalence of arable land, is facing an emergency. It is now hemmed in by the constantly expanding urban areas of Florence and its neighboring towns, which threaten to coalesce into a single continuous urbanized area. In this situation, there seems to be an interesting convergence of the town administrations of Fiesole and Florence on a plan to establish a rural park here, also incorporating the protected natural areas of local interest already established on the northern hills (Agnoletti and Maggiari 2004). The data presented in this study clearly show that the concept of “natural areas” falls short of capturing the historical reality of a landscape modeled by human beings over centuries. The administration has also realized that these areas must necessarily represent and safeguard a value that is the product of history. The debate on the plain extending west of the city is much more thorny. Here the hypothesis of a natural park encounters more difficulties than elsewhere. The proposal to constitute a park around Florence had already been put forward a few years ago, and today national agricultural politics are promoting not only periurban agriculture, but also rural landscapes of historical interest (Agnoletti 2010). Certainly a park where human beings are not banned, as in natural areas, but are protagonists expresses one of the most important contents that the concept of landscape proposes for our development model. This, however, requires an integration of planning and rural development (Fanfani 2008). A permanent qualitative difference between aesthetically valuable hills and a plain abandoned to its destiny as an infrastructural platform is unacceptable. Today, a synergy between cultural, environmental, aesthetical and productive values is the key to effective rural landscape improvement policies. But for success to be achieved, the sectors responsible for rural development should become active rather than passive subjects of the transformation of the role of farmland in our country. This transformation is already ongoing today in the economy and society, and not only in agriculture, but is still struggling for recognition. Just as an agriculture left at the mercy of international market forces can do nothing but succumb, which is what it unfortunately has been doing for some years now, policy actions completely ignoring the economic essence of agriculture and conceiving its function exclusively in terms of “land planning” would fail to safeguard all of its values. If this is true for traditional rural areas, it is equally true for urban agriculture, which should strive to break free from its eternal subordination to the real estate market by finally asserting its leading role in the promotion of a new model of urban sustainability. 186


TOURISM INDUCED URBAN SPRAWL IN ANTALYA AND KEMER AT SOUTHWESTERN COASTS OF TURKEY Veli Ortacesme, Meryem Atik Akdeniz University, Faculty of Agriculture, Department of Landscape Architecture, Antalya, Turkey

Introduction Urban landscapes are characterised by complex systems of relatively large and permanent settlements, high number of inhabitants and dense built-up areas, commercial and industrial sites (Atik et al., 2011). Sprawl refers to the spread of real estate development into a more country area on the edge of a city. Urban sprawl is the spreading urban texture outwards of the city or its outskirts often in low density but gradually becomes dense segregation of urban uses and infrastructure. Evidence suggests that where unplanned, decentralized development prevails, sprawl would occur in a mechanistic way and consequently sprawling cities face a variety of environmental, social and economic problems such as consumption of land, soil and energy, environmental pollution and reduced quality of life in cities. However to understand the nature and dynamics of urban sprawl and driving forces behind as well as social and environmental consequences has been greater issue and subject to research interest and policy domain. Urban sprawl was reported a common phenomenon across Europe and defined as ‘“the physical pattern of low-density expansion of large urban areas, under market conditions, mainly into the surrounding agricultural areas” (EEA, 2006). Occurs in rapidly growing urban fringes, urban sprawl has been an inherently dynamic spatial phenomenon that generates landscape change which referred to differentiation in the form, status, appearance, structure and perception of the landscape. It is also regarded a synonymous with unplanned incremental urban development, characterised by a low density mix of land uses on the urban fringe (Ji et al., 2006). Hasse and Lathrop (2003) confirmed sprawl is broadly dispersed and multi faceted with a tinge of irony which regarded as dispersed, low densities development on the edges of urban areas, characterized by fragmented and ribbon developments (Bel et al., 2011) Urban sprawl has become a remarkable characteristic of urban development worldwide. Consequently Mediterranean urban areas are experiencing a change towards more dispersed and horizontal rather than vertical growth at the expense of farming and forested areas, semi-natural environments and wetlands (Catalan et al., 2008). Traditional Mediterranean model of the dense and compact city has been subsumed into more diffuse urban sprawl by economic factor, increasing population, housing preferences, inner-city problems, transportation and regulatory issues (Munoz, 2003). Spatial manifestations of urban sprawl indicate characteristics of local city development patterns and planning practices. In Turkey, the first phase of urban development and planning coincide after the establishment of the Republic in 1923. Early initiatives were based on the development of capital city of Ankara and other main cities in 1930s. The decade 1950-1960 witnessed a momentous progress in economic development with industrial investments and modernization in agriculture. Urban development was paralyzed by unexpected population growth and changed into spontaneous form which eventually led to urban sprawl in the form of squatter’s housing where social pattern of new urban inhabitants did not differ much from their rural origin lifestyle in other word transformation of rural life styles into urban-like ones. Turkey entered into “planned period” by 1960s on national, regional and local levels with new institutions and more societal concerns in urban planning took place. Due to outgrowing size of urban ar187


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

eas, Istanbul, Ankara and other 14 cities became metropolis with multi-municipal urban management system. Urban sprawl between 1950 and 1970 based mainly on immigration from rural areas into cities to get employment facilities as well as better education possibilities and industrialization with increasing environmental problems including air pollution. Urbanization after 1980s gained another face by population flows between cities. Economic activities such as mining, commerce, agriculture, shipping that specific to certain parts in Turkey played important role in urban sprawl. Particularly tourism developments in southern and western parts of Turkey generated new employment facilities around the country with regard to high hotel capacities and improving local infrastructure. Major driving forces in urbanization in Turkey and of urban sprawl in particular have been population growth, migration, economic activities, market conditions and consequently economic development and in some cases political issues. Although the regulatory framework for urban planning is well defined, there have been implication and management problems, lack of horizontal and vertical coordination of planning legislation, poor implication of land use plans and most critically obscurity in the planning authority accelerate urban sprawl. Consequences of urban sprawl in Turkey can be outlined as illegal and unattractive building structures, squatter’s housing, overexploitation of natural areas, low environmental quality and lack of green spaces, exploitation of natural areas within the urban periphery, inner city problems as air and noise pollution, traffic and lack of better infrastructure facilities. Social pattern stands on weakening societal communications, consuming cultural identity and possessing urban lifestyle, contradictions between social groups and transition of a lifestyle between urban and rural. Urban sprawl can naturally occur in different ways and it varies between different countries and regions (Christiansen and Loftsgarden, 2011). Coastal Mediterranean has been the scene for the tourism movements on account of its history and natural and cultural richness. A major incentive for much of the urbanization along the Mediterranean coastline is mass tourism. This lucrative industry has been the driving force of economic development in the Mediterranean since at least the 1960s and in many areas, it is also the engine that spurs demand in other relevant sectors of the economy, such as the construction and fishing industries (Johnsen and Lavigne, 1999). In 2005, Mediterranean countries received 246 million international tourists representing 30.5% of global international tourism. Over the last decade, some Mediterranean countries including Turkey reported a quite high average annual growth in international arrivals. By 2025, national and international tourism visits would be about 637 million in Mediterranean countries, of which 312 million in the Mediterranean coastal zones alone (UNEP, 2008). Salvati and Zitti (2012) indicate that little is known of how small, semi-natural landscape elements are evolving and how the ecological functioning of the landscape has been affected by urban sprawl in the Mediterranean region. Tourism has been one of the largest industries in Turkey for the last 40 years. According to the Turkish Tourism Strategy for 2023, the vision of Turkey is to bring tourism and travel industry to a leading position for leveraging rates of employment and regional development with the adoption of a sustainable tourism approach. It is also targeted to ensure that Turkey becomes a world brand in tourism and a major destination in the list of the top five countries receiving the highest number of tourist and highest tourism revenues by 2023 (Ministry of Culture and Tourism, 2007). Antalya is the most popular tourism destination in Turkey, and one of the top destinations in the Mediterranean basin. Tourism activities and development have been the most important driving force in urban sprawl and ultimately landscape change. In this study, urban sprawl in Turkish Mediterranean is discussed in the case of coastal Antalya in general and tourism induced urban sprawl is evaluated in Kemer district with as a particular example from south-western coast of Turkey. Urbanization and Emerging Urban Sprawl Phenomenon in Antalya City The coastal Mediterranean Turkey has been attracting people for centuries and providing opportunities for settlement, trade, shipping, logging, agriculture, fishing, mining etc. Due to its easy access 188


V. Ortacesme, M. Atik Tourism Induced Urban Sprawl In Antalya

and abundance of natural resources, many ancient civilisations built their cities along the coast. Today human settlements, transportation networks, agriculture, industrial activities, particularly tourism, characterize the coasts and, define the form and appearance of coastal towns and cities. The province of Antalya is located in the Mediterranean Region of Turkey. The province’s total surface area is 20,909 km2 representing 2.7% land of Turkey. With this size, it is the 6th largest province of the country. The population in 2011 is 2.043.482 and it is again the 6th biggest province of the country in terms of population. The city has 640 km coasts representing 7.7% of the total coastline of Turkey. Main economic activities are tourism and agriculture which takes part in Antalya city itself and in coastal urban areas in the region. Antalya has been the primary tourist destination in Turkey since 1970s and having half of the visitor influx of the country. Main tourism centres in the region are Antalya centre, Alanya, Kemer, Manavgat and Kaş respectively. Finike and Kumluca are rather agriculture oriented coastal settlements mainly greenhouse production on coastal plains (Fig. 1).

Fig. 1. Location of Antalya and main coastal tourist destinations in the province. Posizione di Antalia e delle principali località turistiche della provincia.

The history of settlement in the Antalya region goes back to the Prehistoric Times. The foundation of a city in Antalya dates back to 159-138 BC when Attalos II, the Second king of Pergamon, founded a city with his own name “Attaleia”. The city was one of the most important trade ports in the Eastern Mediterranean. Its ownership changed continuously between the Romans, Byzantines, Turks and Arabs from the beginning of the 12th century. Seljuk Turks took over Antalya in 1207 and later Ottomans in 1390 (Güner, 1967; Güçlü, 1997). After the establishment of the Republic in 1923, Antalya became one of the 81 provinces of Turkey. Antalya region was dependent on agriculture until the 1980s. Due to the Tourism Incentives Law in 1982, Antalya has become central attraction for investors and a big tourism site owing to its rich natural and cultural assets, historical heritage, clean and beautiful coastal areas and mild climate. Many large hotels and holiday villages were constructed along Antalya’s coastline. Increasing employment opportunities gave rise to the immigration from rural regions and other parts of Turkey to Antalya. As the infrastructure improved in conjunction with tourism investments, Antalya has become a favourite place to live for Turkish citizens as well Europeans and a popular destination for foreign tourists (Tab. 1). Antalya has been the primary tourist destination in Turkey since 1970s and having half of the visitor influx of the country holding approximately 40% share in the total accommodation capacity of Turkey (ATS, 2006). Turkey’s total bed capacity in 2001 was 595.027 in 3220 accommodation facilities. This Fig. rose to 1.205.000 beds in 6.459 accommodation facilities in 2011. The improvement of Antalya’s accommodation capacity in the last decade shows an increase of 327%. It reached from 160.344 in 2001 to 525.140 hotel beds in 2011. The total number of accommodation facilities in Antalya was 629 in 2001 and this Fig. rose to 2201 in 2011 with an increase rate of 350%. 189


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

So there has been a tremendous increase in the number of accommodation facilities and bed capacities as well in the last decade. In 2010, Antalya was the fourth mostly visited city in the world after Paris, London and New York with 10 million tourists. Antalya is regarded as “the capital city of tourism in Turkey” (Ortacesme and Atik, 2012). Tourism investments and developments has been major force in the urbanisation in coastal Antalya Region. Hence Antipolis (2001) noted that the very considerable phenomena of coastalisation in other words concentration of population and economic activities on coastal spaces and tourist urbanisation adds to a demographic growth that is especially severe in the southern and eastern areas of the Mediterranean countries. Urban development has started in Antalya by 1950s as parallel to the urbanisation process in Turkey. Erdem (1996) remarked that Antalya has become city of immigration after 1960’s from rural areas to urban. Economy of the city and surroundings were based on agriculture until 1980s. The city was a medium sized at that time. In 1982, the Tourism Incentives Law passed through the Turkish Parliament and Antalya was dedicated as an important tourism development location. Free land assignments, credits and low tax offers advanced wide scale tourism infrastructure in regional coastal landscapes but also led sprawling cities and towns along the coast due to need for high number labour in tourism construction and relevantly services in tourist accommodation. Today besides small local hotels and hotel there are more than 2.000 high capacity hotel accommodations in Antalya Region. As the local employees are not enough, majority of personnel has been employed from Antalya and periphery areas who are the inhabitants of the city. Tab. 1. Tourist numbers and income from tourism in the last ten years. Numero di turisti e introiti da turismo nel 2001-2011 (AIKTM, 2012).

Turkey

Antalya

Share of Antalya (%) % del turismo nazionale ad Antalia

2001

11 619 909

4 211 901

36.2

10.1

6.9

2002

13 248 176

4 747 581

35.8

11.9

6.5

2003

13 956 405

4 682 170

33.5

13.2

5.5

2004

17 548 384

6 047 297

34.5

15.9

5.2

2005

21 124 886

6 884 636

32.6

18.2

5.0

2006

19 819 833

6 011 183

30,3

16.9

4.3

2007

23 340 911

7 696 970

33,0

18.5

4.5

2008

26 336 677

8 564 513

32.5

22.0

4.2

2009

27 077 114

8 350 869

30.8

21.2

4.3

2010

28 632 204

9 334 171

32.6

20.8

4.2

2011

31 456 076

10 900 914

34.7

25.0

n/a

Year Anno

Number of tourists arriving to - Numero di turisti

Tourism income (billion USD) Introiti da turismo (miliardi di USD)

Share in GNP Percentuale del PIL (%)

By mid 1980’s and 1990’s tourism has become macro-economic factor based on grounded economic growth not only in Antalya Region but in Turkey. Demand for both specialised personnel and available work force brought more space and housing for people. As the employment opportunities increased, immigration flow from in and around rural Antalya and other regions in Turkey raised. Population dynamics are one of the main indicators in urban sprawl which are eventually associated with the number of residential units and city quarters. According to population growth population increase gained rapid boost after 1990’s (Tab. 2). Because of such rapid development, Antalya was given the metropolitan city status in 1994 and five districts administered by five sub-municipalities were defined in addition to the metropolitan municipality (Ortacesme and Atik, 2012). In 2000 and onwards, Antalya was the fastest growing city in Turkey. Hereby earthquakes in Marmara and Gölcük in 1999 made people to move Antalya which regarded as one of the safest place in the country. Thus gave rise to urban sprawl towards west and east coasts of the city periphery (Fig. 2). 190


V. Ortacesme, M. Atik Tourism Induced Urban Sprawl In Antalya

Tab. 2. Population growth in Antalya Region. Andamento demografico nella provincia di Antalia (Atik, 2003; TÜİK, 2011). Census Year Population Census Year Population Anno Abitanti Anno Abitanti 1927

206.270

1975

669.357

1935

242.609

1980

748.706

1945

278.178

1985

891.149

1950

311.442

1990

1.132.211

1955

357.568

2000

1.719.751

1960

416.130

2007

1.789.295

1965

486.910

2010

1.978.333

1970

577.334

Fig. 2. Examples of landscape change with regard to urban sprawl in Antalya city. Esempi di cambiamento nel paesaggio determinati dallo sprawl urbano nella città di Antalia.

Main coastal urban areas in Antalya Region and their population dynamics between 1970 and 2010 are given in Tab. 3. Population of some of the urban areas grew two or three times in Finike, Kumluca, Manavgat and Gazipaşa which may be regarded as medium-scale urban areas. However population increase was five to six times higher in Kemer and Alanya. Hereby Kemer, Kaş and Alanya has been popular tourist destinations while Kumluca and Finike have the largest greenhouse production systems on coastal plains which in way a kind of rural sprawl based on agricultural activities. Tab. 3. Population dynamics in coastal urban areas in Antalya Region (DİE, 2000; Anonim, 2012; TÜİK, 2012). Dinamiche demografiche nelle aree urbane costiere della provincia di Antalia Census Year

Kaş

Finike

Kumluca

Kemer

Manavgat

Alanya

Gazipaşa

1970

43.962

22.835

25.468

6.069

60.741

53.552

25.302

1980

50.640

25.641

29.146

9.704

73.511

74.148

31.461

1990

40.245

34.576

44.834

23.268

118.897

129.396

40.840

2000

47.519

42.087

61.370

-

199.385

252.671

44.541

2007

49.629

45.296

65.904

33.153

165.114

226.236

47.699

2010

54.145

46.138

65.652

36.010

185.134

248.286

48.525 191


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Tourism induced urban sprawl in Kemer District at South Antalya Urban sprawl often puts high negative pressure on the surrounding natural environments of the cities. As the urban areas grow and sprawl around environmental problems occur. Loosing forest, marshlands, agricultural lands and particularly important coastal ecosystems may be ineviTab. as a matter of course. South Antalya Region was dedicated to first integrated tourism development project in 1970’s with the legal standpoint aiming at the protection of forests and preserving agricultural lands where Kemer was chosen as a resort providing services and social facilities to other sub-quarters in the region (Fig. 3). Kemer was first found in 1910 and was a small coastal village with 1500 people in the beginning of 1950’s which became municipality in 1986’s and district in 1990’s. Today Kemer is fastest growing district with the population of 36.000 people in Antalya Region. South Antalya Tourism Development Project was started by 1974’s but soon after the Tourism Incentives Law put in force in 1982, revisions took place in 1988, 1990 and 1996 in the project. As a result number of tourist accommodation increased 22 times more between 1985 and 2011 in Kemer (Tab. 4). The same course of sprawl has been experiences in South Antalya District for more employees and housing sites and new urban areas that attached to existing ones.

Fig. 3. Location of Kemer District in south western Antalya. Il Distretto di Kemer nella provincia sud-occidentale di Antalia.

Years Anno

Antalya

South Antalya - Kemer

Number of hotels Numero di alberghi

Bed capacity Posti letto

Number of Hotel Numero di alberghi

Bed capacity Posti letto

1985

170

26.650

16

4.583

1990

456

99.805

94

26.708

2000

518

149.603

150

36.150

2005

943

303.614

252

57.557

2011

2.246

489.173

357

78.000

Tab. 4. Touristic capacities of Antalya and South Antalya. La capacità ricettiva ad Antalia e nella Provincia Meridionale di Antalia (Atik, 2003; Turizm İl Müdürlüğü, 2005; Turizm İl Müdürlüğü, 2011).

Urban sprawl is commonly used to describe physically expanding urban areas where sprawl-driven landscape changes have caused the depletion of habitat values and natural resources. Atik et all. (2010) 192


V. Ortacesme, M. Atik Tourism Induced Urban Sprawl In Antalya

wrote that demand for tourism exaggerated the pressure on coastal areas of high natural and cultural value in South Antalya Region. Process of urban sprawl in Kemer is quite recent. Extension of urban texture was most evident between 1981 and 2005 mainly on natural and agricultural lands (Fig. 4). KizilĂśz (2001) confirmed that agriculture was the main livelihood activity in Kemer in 1980s and high demands for tourism induced land use and increasing land prices led to pressures on agricultural land which reciprocally boosted urban sprawl. Tourism developments and its impact peripheries were given in Fig. 5. Here urban extension has been taken place on coastal areas and sprawls into rural and agricultural and areas and natural wetlands and likely to stretch towards remote rural areas and natural forests. Tourism has been receiving close scrutiny in environmental terms owing to its impacts on natural landscapes. Habitat loss due to tourism developments and their relative impacts are most evident in South Antalya with the loss of 101,6 hectares of sand dunes, 212, 7 hectares of coastal forest, 191,1 hectares of inland forest, 138,2 hectares of reed beds and 13,4 hectares of wetlands (Tab. 5).

Fig. 4. Extension of the urban texture in Kemer between 1981 and 2005 and a view from Kemer urban area in 2012. L’estendersi del tessuto urbano a Kemer tra il 1981 e il 2005, e una foto del 2012 dell’area urbana di Kemer.

Tab. 5. Habitat loss in South Antalya Region between 1975-2003 (in hectares) Perdita di habitat naturale in ettari nella Provincia Meridionale di Antalia nel periodo 1975-2003 (Atik, 2003). Habitat Type - Tipologia di habitat

1975

2003

Habitat Loss - Perdita di habitat

Sand dunes - Dune di sabbia

190,7

89,1

101,6

Coastal Forest - Foresta costiera

256,7

44

212,7

./.. 193


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Forest areas - Foreste

3.932

3.640,9

191,1

River beds - Letti di fiumi

267,4

191,4

76

Reed beds / Temporary wetlands - Canneti / Zone umide

329,4

191,2

138,2

Wetlands / Marshland - Zone umide, paludi

24,1

10,7

13,4

Fig. 5. Tourism and its impact periphery in case of South Antalya Region. Il turismo e il suo impatto sulle zone periferiche della Provincia Meridionale di Antalia (Atik et al., 2008).

Conclusions Landscape change associated with urbanization, particularly urban sprawl, has been significant during the last half century and is expected to continue through the next decades (Su et al., 2010). A large number of policy measures at national, regional and local levels have been undertaken to counteract sprawl in European cities. But urban sprawl process has been wide-spread worrying issue in the Mediterranean region (Antipolis, 2001). Therefore it is critically important to properly characterize urban sprawl in order to develop a comprehensive understanding of the causes and effects of urbanization processes circumstances (Ji et al., 2006). Urban sprawl brings over-densification of central districts, but at the same time fosters the homogenization of urban environments and the standardization of the landscape. However there have been different attempts and measures to characterise sprawl. Dispersed form of urban extension or “urban sprawl�, has become a very a remarkable characteristic of urban development. Coasts are being urbanised at an accelerating rate, and resident communities are being transformed in order to accommodate these new economies. As a result, coasts are becoming increasingly intertwined with the hinterland and more dependent on tourism and secondary homes (EEA, 2006). Phenomena of urbanisation and coastalisation are now especially relevant in Turkey and in other countries on the southern and eastern sides of the Mediterranean (Antipolis (2001). Growing tourism demands in the Mediterranean basin have been the global/regional motivation behind the tourism related developments in Antalya. The Turkish governments have targeted a share from the international tourism demand. In all National Development Plans and also in the Tourism Strategy 2023, tourism has been one of the main sectors to be supported. Tourism-induced landscape changes have started in Antalya in 1980s. Rapid internal migrations contributed to the negative chang194


V. Ortacesme, M. Atik Tourism Induced Urban Sprawl In Antalya

es on the regional landscape, particularly in the form of second homes along the coasts. The lack of an efficient spatial planning mechanism and the economic priorities of a developing country have led to negative impacts and major landscape changes on the coastal areas. Most of the today’s negative changes on regional landscapes coming from the non-rational use of land are due to the lack of an efficient planning mechanism, legal loopholes, overlapping responsibilities and inefficient management and control mechanisms in land use management. Local governments, municipalities, several ministries and some special authorities all had some kind of planning and management competences over the same territories. This has led to conflicts between them and to non-rational use of the land (Ortacesme et al, 2008). However, there are positive initiatives for the sustainable use of natural resources in Turkey in general and in Antalya, in particular. Recently, Special Provincial Administrations, in which local governments and municipalities are represented, have been authorized to make Environmental Master Plans of provincial lands. This competence belonged to various institutions in the past. Also, strategic planning studies were started in a number of provinces, including Antalya, in accordance with the EU Urban Thematic Strategy initiative. The membership perspective of Turkey to the European Union is also contributing positively to the sustainable use of natural and cultural resources with many respective legal arrangements. The Council of Europe’s European Landscape Convention, signed and ratified by Turkey too, is also a good opportunity towards the better protection of Turkish landscapes. Tourism-induced landscape changes in Antalya will be continuing as it is one of the top tourist destinations in the Mediterranean. We hope that the changes in the regional landscapes would be in a more sustainable way in the coming years.

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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

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196


SPRAWL URBANO E TURISMO AD ANTALIA E KEMER SULLA COSTA SUD-OCCIDENTALE DELLA TURCHIA Veli Ortacesme, Meryem Atik Akdeniz University, Facoltà di Agraria, Dipartimento di Architettura del Paesaggio, Antalia, Turkey

Introduzione I paesaggi urbani sono sistemi complessi comprendenti insediamenti estesi e permanenti, un alto numero di abitanti, aree intensamente edificate, e zone commerciali e industriali. La parola inglese sprawl viene qui usata per indicare lo sviluppo edilizio in ex-zone rurali alla periferia di una città. Lo sprawl urbano è spesso caratterizzato inizialmente da una bassa densità abitativa, ma con tendenza all’addensamento. I dati suggeriscono che laddove si abbia un sviluppo decentralizzato e non pianificato, lo sprawl si verifica in modo meccanico causando una serie di problemi ambientali, sociali ed economici, quali il consumo di spazio, terreno e energia, l’inquinamento ambientale e la riduzione della qualità della vita. La comprensione della natura e delle dinamiche dello sprawl urbano e delle forze che lo determinano, così come delle sue conseguenze sociali ed ambientali, è stato oggetto di grande interesse sia nella ricerca che in ambito politico-amministrativo. Lo sprawl urbano viene descritto come un fenomeno presente in tutta l’Europa e definito come “l’assetto fisico assunto dall’espansione di grandi aree urbane, in condizioni di libero mercato, principalmente nelle zone agricole circostanti” (EEA, 2006). Fenomeno tipico delle frange urbane a rapida crescita, lo sprawling urbano è un processo intrinsecamente spaziale, che genera cambiamenti nel paesaggio in termini di forma, statuto, aspetto, struttura e percezione. Viene anche considerato come sinonimo di uno sviluppo urbano incrementale non pianificato, caratterizzato da un uso del suolo misto e a bassa densità, che ha luogo nelle frange urbane (Ji et al., 2006). Hasse e Lathrop (2003) vedono anche loro lo sprawl come un fenomeno disperso e sfaccettato, che si verifica alla periferia delle aree urbane ed è caratterizzato da uno sviluppo frammentario o a fasce (Bel et al., 2011). Più in generale, lo sprawl urbano sta diventando un fenomeno tipico dello sviluppo urbano mondiale. Le aree urbane del Mediterraneo, in particolare, si stanno orientando verso una crescita dispersa e orizzontale piuttosto che verticale, con un maggior consumo di aree agricole, foreste, ambienti seminaturali e zone umide (Catalan et al. 2008). Il modello urbano tradizionale del Mediterraneo, la città densa e compatta, sta cedendo il passo al modello dello sprawl urbano. Fra le cause vi sono i fattori economici, l’aumento della popolazione, le preferenze abitative, la difficoltà dei centri cittadini, la regolamentazione dei trasporti (Munoz, 2003). Le manifestazioni spaziali dello sprawl urbano sono anche determinate dagli schemi di sviluppo delle città e dalle regolamentazioni urbane. In Turchia la prima fase di progettazione e sviluppo urbano si ebbe dopo la creazione della Repubblica, nel 1923. Le prime iniziative riguardavano principalmente lo sviluppo della capitale Ankara e di altri grandi città negli anni 1930. Il periodo 1950-1960 vide un enorme sviluppo economico, caratterizzato da crescita industriale e modernizzazione dell’agricoltura. I legislatori non riuscirono a gestire questa imprevista crescita della popolazione e lo sviluppo urbano assunse un carattere spontaneo, prendendo la forma di sprawl, spesso caratterizzato da occupazioni abusive di edifici, in cui le abitudini dei nuovi cittadini urbanizzati non si discostavano molto dal loro precedente stile di vita rurale. Negli anni Sessanta la Turchia entrò in un’epoca di pianificazione a livello nazionale, regionale e locale, caratterizzato da nuove istituzioni e da nuove preoccupazioni sociali. A causa della loro crescente espansione, Istanbul, Ankara e 14 altre città vennero suddivise in municipi. Lo sprawl urbano del perio197


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

do 1950-1970 fu dovuto principalmente all’arrivo dalle aree rurali di gente alla ricerca di opportunità di lavoro e scuole migliori. L’industrializzazione portò anche crescenti problemi ambientali, a cominciare dall’inquinamento atmosferico. Negli anni Ottanta a questo flusso di popolazione si aggiunse la migrazione tra città. Attività economiche quali l’industria mineraria, il commercio, l’agricoltura, l’industria marittima nelle varie aree della Turchia hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo dello sprawl urbano. Lo sviluppo turistico nel sud e nell’ovest della Turchia, in particolare, ha creato nuove opportunità di lavoro, legate al grande aumento della capacità ricettiva e al miglioramento delle infrastrutture. Le cause principali dell’urbanizzazione in Turchia ed in particolare dello sviluppo dello sprawl urbano sono state quindi la crescita della popolazione, la migrazione, le attività economiche, le condizioni del mercato, lo sviluppo economico e, in alcuni casi, le motivazioni politiche. Anche se il quadro legislativo per la pianificazione dello sviluppo urbano è ben definito, vi sono stati problemi di cattiva gestione e mancato rispetto delle leggi, carenze di coordinamento orizzontale e verticale nella legislazione, scarso rispetto dei piani per la gestione del territorio, e, soprattutto, una scarsa trasparenza delle autorità responsabili della gestione dello sviluppo urbano. Le conseguenze negative dello sprawl urbano sono lo sviluppo di edilizia abusiva o poco attraente, l’occupazione abusiva di abitazioni, lo sfruttamento eccessivo di aree naturali, la bassa qualità ambientale, la scarsezza di aree verdi, l’aggravarsi dei problemi dei centri delle metropoli, quali l’inquinamento atmosferico e acustico, l’aumento del traffico, l’insufficienza di infrastrutture. Le relazioni sociali sono caratterizzate da un indebolimento della comunicazione sociale, da una perdita di identità culturale, da tensioni tra classi sociali e dalla brusca transizione da stili di vita rurali a stili di vita urbani. Lo sprawl urbano può naturalmente avere caratteristiche differenti a seconda dei paesi e delle regioni (Christiansen e Loftsgarden, 2011). La costa del Mediterraneo è sempre più esposta a massicci afflussi turistici per le sue attrattive naturali e culturali. Il turismo di massa è in effetti uno dei motori dell’urbanizzazione lungo le coste del Mediterraneo. Gli alti profitti dell’industria turistica, più in generale, sono stati uno dei fattori dello sviluppo del Mediterraneo, almeno a partire dagli anni 1960, e, in molte aree, il turismo fa da volano ad altri importanti settori dell’economia, come quello dell’edilizia e della pesca (Johnsen e Lavigne, 1999). Nel 2005 i paesi del Mediterraneo sono stati visitati da 246 milioni di turisti esteri, pari al 30,5% di tutto il turismo internazionale mondiale. Negli ultimi dieci anni, in particolare, i paesi del Mediterraneo, e in particolare la Turchia, registrano ogni anno una significativa crescita nel numero di turisti provenienti dall’estero. Il numero di visitatori nazionali e internazionali previsto per il 2025 è di 637 milioni per i paesi del Mediterraneo, di cui 312 nelle sole zone costiere del Mediterraneo (UNEP, 2008). Salvati e Zitti (2012) affermano che poco si sa di come gli elementi del paesaggio rurale e semi-naturale stanno cambiando e di quanto il paesaggio e la sua ecologia siano stati influenzati dal fenomeno dello sprawl urbano nell’area del Mediterraneo. Negli ultimi 40 anni, l’industria turistica è diventata una delle industrie principali della Turchia. Stando al Turkish Tourism Strategy for 2023, l’obiettivo della Turchia deve essere di raggiungere una posizione leader nel settore turistico e della industria dei trasporti per generare impiego e sviluppo, all’interno però di un’ottica di turismo sostenibile. Più in particolare, uno degli obiettivi è di trasformare la Turchia in uno dei brand più apprezzati facendola rientrare entro il 2023 nella lista dei primi cinque paesi per numero di turisti e introiti generati dal turismo, (Ministero della Cultura e del Turismo, 2007). Antalia è una località turistica molto conosciuta in Turchia e una delle località di punta del bacino del Mediterraneo. Il turismo e lo sviluppo economico sono stati il motore principale dello sviluppo dello sprawl urbano e del cambiamento del paesaggio. In questo studio, discuteremo il fenomeno dello sprawl urbano nelle zone costiere della provincia di Antalia e in particolare nel distretto di Kemer, una località a sud-ovest della città di Antalia. L’urbanizzazione e l’emergere del fenomeno dello sprawl urbano nella città di Antalia Da secoli sulla costa mediterranea della Turchia si stabiliscono popolazioni per dedicarsi al commercio, la navigazione, la produzione di legname da costruzione, la pesca, le attività minerarie. Grazie alla 198


V. Ortacesme, M. Atik Sprawl urbano e turismo ad Antalia e Kemer

facilità di accesso e all’abbondanza di risorse naturali, molte antiche civiltà hanno eretto città lungo la costa. Oggigiorno, le reti di trasporto, l’agricoltura, le attività industriali, e soprattutto il turismo, sono i principali fattori che determinano la struttura dei paesi e delle città costiere in Turchia. La provincia di Antalia si estende lungo la costa della Turchia. La sua area totale è di 20.909 km2, pari al 2,7% della Turchia. Per dimensioni, è la sesta provincia della nazione. Nel 2011, la provincia era sesta per popolazione, con 2.043.482 abitanti. La città comprende 640 km di costa, pari al 7,7% della costa di tutta la Turchia. Le attività economiche sono il turismo e l’agricoltura, nella città di Antalia e in altre aree urbane costiere della provincia. A partire dagli anni Settanta Antalia è diventata una delle località turistiche principali della Turchia, che ogni anno ospita circa metà dei turisti stranieri che visitano il paese. I principali centri turistici sono Antalia città, Alanya, Kemer, Manavgat e Kas. Finike e Kumluca sono invece insediamenti costieri dediti all’agricoltura, principalmente in serra (Fig. 1). La presenza umana nella provincia di Antalia risale al periodo preistorico. La fondazione della città di Antalia invece può essere datata al 159-138 a.C., quando Attalo II, secondo re di Pergamo, fondò una città di nome “Attalea”. La città era uno dei più importanti porti commerciali del Mediterraneo orientale. Successivamente passò sotto il controllo dei Romani, e poi di Bizantini, Turchi e Arabi, nel dodicesimo secolo. Nel 1207 fu conquistata dai turchi selgiuchidi e nel 1390 dagli ottomani (Güner, 1967; Güçlü, 1997). Dopo l’istituzione della Repubblica Turca nel 1923, Antalia divenne capoluogo della provincia omonima, una delle 81 province della Turchia. Fino agli anni 1980, la principale attività della provincia rimase l’agricoltura. Grazie anche a una legge di incentivazione del turismo emanata nel 1982, la provincia di Antalia divenne oggetto di ingenti investimenti in ambito turistico diventando rapidamente una località molto frequentata, grazie alle sue bellezze naturali, tradizioni, patrimonio storico, e soprattutto al suo clima mite e alle sue stupende coste. Lungo le coste si svilupparono numerosi grandi alberghi e villaggi turistici. Le crescenti opportunità lavorative determinarono un flusso migratorio dalle aree rurali e altre zone della Turchia. Man mano che le infrastrutture miglioravano grazie agli investimenti per il turismo, Antalia venne sempre più scelta anche come luogo di residenza permanente da turchi e stranieri (Tab. 1). A partire dagli anni 1970, la provincia di Antalia è diventata una delle mete turistiche principali della Turchia. Ogni anno ospita circa metà dei turisti stranieri in Turchia e detiene il 40% dell’intera capacità ricettiva della Turchia (ATS, 2006). In Turchia, il numero di posti letti nel 2001 era di 595.027 per 3.220 strutture ricettive. Nel 2011, il numero è salito a 1.205.000 posti letto per 6.459 strutture ricettive, con un incremento del 327%. In particolare, il numero di posti letto in strutture alberghiere è aumentato da 160.344 nel 2001 a 525.140 nel 2011. Il numero di alberghi è passato da 629 nel 2001 a 2.201 nel 2011, con un aumento del 350% . Nel 2010 Antalia è stata la città più visitata al mondo, dopo Parigi, Londra e New York, con un totale di 10 milioni di turisti. Antalia è considerata “la capitale del turismo in Turchia” (Ortacesme and Atik, 2012). Gli investimenti e lo sviluppo turistico sono stati il motore principale dell’urbanizzazione nelle zone costiere della provincia. Come osserva Antipolis (2001), gli effetti della “costalizzazione”, vale a dire dello spostamento della popolazione e delle attività economiche sulla costa, si sommano a quelli dell’urbanizzazione turistica e della crescita demografica, particolarmente rapida nei paesi mediterranei meridionali e orientali. Lo sviluppo urbano di Antalia è iniziato negli anni 1950, in linea con l’andamento generale del paese. Erdem (1996) osserva che negli anni 1960 Antalia divenne una città di immigrati provenienti dalle campagne. Fino agli anni 1980, l’economia della città e dei suoi dintorni rimase principalmente basata sull’agricoltura. In questo periodo la città era ancora di medie dimensioni. Nel 1982 fu approvata una legge di incentivazione al turismo in cui Antalia era individuata come area strategica per il futuro sviluppo turistico. La cessione gratuita di terreni e la concessione di prestiti a basso costo e incentivi fiscali permisero un rapido sviluppo delle infrastrutture turistiche, ma determinarono parimenti uno sviluppo urbano incontrollato delle città e dei paesi costieri, volto a soddisfare le esigenze abitative dell’alto numero di lavoratori del turismo e dei turisti stessi. Oltre alle strutture ricettive di dimensioni minori, vi 199


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

sono oggi più di 2.000 hotel ad alta capacità nella provincia di Antalia. Poiché la manodopera in molte zone è insufficiente, vengono impiegata persone residenti ad Antalia e nelle sue zone periferiche. Alla metà degli anni Ottanta il turismo era ormai diventato un fattore macroeconomico di sviluppo non solo nella provincia di Antalia, ma in tutta la Turchia. La domanda di personale specializzato e generico determinò una crescente richiesta abitativa. Mentre crescevano le opportunità di lavoro, crescevano anche i flussi migratori verso Antalia dalle zone rurali circostanti e da altre zone della Turchia. L’aumento demografico è uno dei maggiori fattori dello sprawl urbano e dello sviluppo edilizio in generale. La popolazione cominciò ad aumentare rapidamente dopo gli anni Novanta (Tab. 2). A causa di questo rapido sviluppo, nel 1994 ad Antalia venne conferito lo statuto di città metropolitana e furono istituiti al suo interno cinque distretti municipali (Otracesme e Atik, 2012). Dal 2000 ad oggi Antalia è stata la città che è cresciuta più rapidamente di tutta la Turchia. Un fattore di sviluppo aggiuntivo sono stati i terremoti di Marmara e Gölcük nel 1999, che hanno determinato un ulteriore flusso migratorio verso Antalia, una delle aree meno sismiche del paese, con la conseguente estensione dello sprawl urbano lungo le coste a ovest ed est della città (Fig. 2). Le principali aree costiere urbane nella provincia di Antalia e i rispettivi andamenti demografici tra il 1970 e il 2010 sono indicati nella Tab. 3. In alcune di queste aree urbane di medie dimensioni, quali Finike, Kumluca, Manavgat e Gazipaşa, la popolazione è raddoppiata o triplicata. A Kemer e Alanya è aumentata da cinque a sei volte. Kemer, Kaş e Alanya sono località turistiche rinomate, mentre Kumluca e Finike hanno la più grande area di produzione in serra delle pianure costiere, quello si potrebbe definire uno sprawl rurale legato all’agricoltura. Sprawl urbano da turismo nel distretto di Kemer Lo sprawl urbano ha spesso un impatto fortemente negativo sull’ambiente naturale delle città. La crescita urbanistica, e lo sprawl in particolare, determinano una serie di problemi, fra cui la perdita di foreste, zone umide e terreno agricolo, e l’alterazione degli ecosistemi costieri. La provincia meridionale di Antalia è stata la prima ad approvare un piano di sviluppo turistico integrato negli anni 1970, con l’obiettivo di proteggere le foreste e le zone agricole, quando Kemer venne scelta come località destinata a fornire servizi alle altre aree della provincia. Kemer è stata fondata nel 1910 e fino agli anni 1950 era un piccolo villaggio costiero di 1500 abitanti. Nel 1986 divenne una municipalità e negli anni 1990 un distretto. Oggi Kemer ha una popolazione di 36.000 abitanti ed è il distretto in più rapida crescita di tutta la provincia di Antalia. Il Piano di Sviluppo Turistico della Provincia Meridionale di Antalia è stato approvato nel 1974. A seguito dell’approvazione della Legge per gli Incentivi al Turismo del 1982, il piano è stato rivisto nel 1988, 1990 e 1996. Anche grazie al Piano, la capacità ricettiva turistica di Kemer è aumentata di 22 volte tra il 1958 e il 2011 (Tab. 4). Anche nel distretto meridionale della provincia si è creato un analogo fenomeno di sprawl, con la costruzione di case per la crescente forza lavoro e la creazione di nuove aree urbane confinanti con le precedenti. L’espressione sprawl urbano viene comunemente usata per descrivere aree urbane in espansione dove i cambiamenti del paesaggio causati dall’espansione determinano un deperimento dei valori ambientali e delle risorse naturali. Atik et al. (2010) osservano che lo sviluppo del turismo ha aumentato la pressione sulle zone costiere ad alto interesse naturale e culturale della Provincia Meridionale di Antalia. Il processo di sprawl urbano di Kemer è piuttosto recente. L’estendersi del tessuto urbano è stato particolarmente pronunciato tra il 1981 e il 2005, sottraendo spazio principalmente a zone agricole o naturali (Fig. 4). Kızılöz (2001) scrive che l’agricoltura era l’attività principale a Kemer negli anni 1980. Le nuove esigenze hanno portato all’uso di terreni per scopi turistici e un aumento dei prezzi dei terreni, disincentivando l’agricoltura e incrementando lo sprawl urbano. 200


V. Ortacesme, M. Atik Sprawl urbano e turismo ad Antalia e Kemer

Lo sviluppo del turismo e il suo impatto sulle periferie è dato in Fig. 5. Qui lo sprawl urbano si è esteso fino alle zone costiere, occupando aree rurali e agricole, zone umide e foreste. È probabile una sua ulteriore estensione verso le aree rurali e le foreste più remote. In tempi recenti vi è stata molta attenzione all’impatto ambientale del turismo. La perdita di habitat naturali causata dal turismo è particolarmente evidente nella Provincia Meridionale di Antalia, dove sono spariti 101,6 ettari di dune di sabbia, 212,7 ettari di foresta costiera, 191,1 ettari di foresta nell’entroterra, 138,2 ettari di canneto e 13,4 ettari di zone umide (Tab. 5). Conclusioni Il cambiamento del paesaggio determinato dalla urbanizzazione e dallo sprawl urbano in particolare sono un fenomeno significativo degli ultimi 50 anni che si ritiene destinato a continuare nei prossimi decenni (Su et al., 2010) Sono state prese numerose misure legislative a livello, nazionale, regionale e locale per contrastare lo sprawl nelle città europee. Ciononostante, lo sprawl urbano continua ad essere una minaccia, in particolare nelle zone costiere del Mediterraneo (Antipolis, 2001). È pertanto importante analizzare correttamente il fenomeno dello sprawl urbano, al fine di sviluppare una comprensione esauriente delle cause e degli effetti dei processi di urbanizzazione (Ji et. al., 2006). Lo sprawl urbano porta a un addensamento delle zone più centrali, una omogeneizzazione degli ambienti urbani e la standardizzazione del paesaggio. Vi sono stati in passato diversi tentativi di caratterizzare lo sprawl. Forme di sviluppo urbano dispersivo o di sprawl urbano sono diventate una caratteristica significativa dello sviluppo urbano. Le coste sono state urbanizzate a un ritmo crescente e le comunità residenziali vengono trasformate per fare posto a queste nuove esigenze economiche. Come risultato, le coste stanno diventando sempre più interconnesse con il retroterra e sempre più dipendenti economicamente dal turismo e dalle seconde case (EEA, 2006). Fenomeni di urbanizzazione e di sviluppo costiero sono particolarmente presenti in Turchia e in altri paesi del Mediterraneo meridionale e orientale (Antipolis, 2001). Le crescenti esigenze del turismo nel bacino del Mediterraneo sono il fattore determinante dello sviluppo turistico di Antalia. I governi turchi si sono posti l’obiettivo di intercettare un’alta percentuale della domanda turistica mondiale. In tutti i Piani Nazionali di Sviluppo e anche nel piano Strategia per il Turismo 2023, il settore turistico è uno dei principali beneficiari del finanziamento pubblico. I cambiamenti del paesaggio indotti dal turismo sono iniziati nella provincia di Antalia negli anni 1980. Il rapido sviluppo di flussi immigratori ha avuto anch’esso un impatto negativo sul paesaggio della zona, in particolare sotto forma di seconde case lungo la costa. L’assenza di uno strumento di pianificazione edilizia efficiente e le priorità economiche caratteristiche di un paese in via di sviluppo, hanno determinato grossi cambiamenti in peggio del paesaggio delle aree costiere. Molti dei cambiamenti negativi del paesaggio sono legati all’uso non razionale del territorio, dovuto alla assenza di adeguati strumenti di pianificazione, scappatoie legali, sovrapposizione di responsabilità, e gestioni e meccanismo di controllo inefficienti nell’uso del territorio. I governi locali, i municipi, diversi ministeri e alcuni enti hanno competenze relative alla pianificazione e gestione dello stesso territorio, e questo ha portato a conflitti e all’uso non razionale del territorio in questione (Ortacesme et al., 2008). Tuttavia sono in corso delle iniziative positive per l’uso sostenibile delle risorse naturali, sia ad Antalia che in Turchia in generale. Recentemente le Amministrazioni Provinciali Speciali, in cui sono rappresentati sia i governi che i comuni, sono state autorizzate ad elaborare dei Piani Generali Ambientali per il territorio provinciale. Questa competenza in passato era condivisa da diverse istituzioni. Inoltre sono stati avviati in una serie di province, compresa quella di Antalia, degli studi di pianificazione strategica, in linea con l’inizia201


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

tiva Urban Thematic Strategy della Unione Europea. La possibilità che la Turchia diventi membro UE ha anch’essa un effetto positivo sull’uso sostenibile delle risorse naturali e culturali, che determinano una serie di ricadute legali. La European Landscape Convention del Consiglio di Europa, firmata e ratificata anche dalla Turchia, è un ulteriore ottimo strumento per il miglioramento della gestione del paesaggio turco. I cambiamenti del paesaggio indotti dal turismo nella provincia di Antalia continueranno inevitabilmente, visto che si tratta di una delle mete turistiche più popolari del Mediterraneo. È nostro augurio che tali cambiamenti avvengano nel segno di uno sviluppo sostenibile.

202


Creating Livable Cities: The Story of Portland, Oregon Connie P. Ozawa Portland State University

Portland, Oregon sits between the beloved “city on a hill”, San Francisco, CA, and “sleepless” Seattle, WA, another west coast city that rose to notoriety and became the 15th largest metropolitan area in the U.S. as the home of Microsoft, Boeing, and Starbucks, and the setting of a popular Hollywood movie. Portland would seem to be unremarkable, but it isn’t. Over the past decade, Portland has repeatedly topped lists compiled by groups as varied as Sustainlane, Forbes, and POPSCI magazine that rank cities for eco-friendliness, health, livability and quality of life. Portland boasts a 6,000-acre Forest Park, 247 parks and recreational areas sprinkled throughout the city and a 40-mile loop bike and pedestrian trail that encircles it. The city intrigues young bike enthusiasts as well as transportation planners as the city tops the list of bike-commuting cities. (League of American Bicyclists, 2011) Portland is also at the front of the pack for good food, farmers markets, micro-breweries and Indie music. (Clark 2007; Gold 2010; Hess 2012) A cable television show, Portlandia, has entered its third season portraying life here with Portlanders’ obsessions with environmental consciousness and quirky politics. For students of cities, Portland offers a fascinating case of the interaction between people and place, with institutions and the field of planning at its core. In many ways, Portland has evolved as a product of its context. It is at the center of a region that has an exceptional history and one that continues down a path that continues to be exceptional in many ways. This chapter attempts to set the development of Portland in the institutional context of its region and state, reflecting the fact that Portland is part of a larger region and cannot be assessed in isolation of what has occurred around it. Institutions alone do not act, of course, and much of what has helped to produce today’s Portland is not in laws or procedures, but in its people and culture. Background The Portland metropolitan region is located at the northern edge of the state of Oregon in the Pacific Northwest of the United States, just across the Columbia River from Washington State. Oregon is divided north to south by two mountain ranges. The Cascade Mountains separate the arid “high desert” to the east from the wetter west side. The Coastal Range Mountains demarcate the rugged, drenched coastal areas from the lush and fertile Willamette Valley. The Willamette Valley takes its name from a south to north flowing river, which empties into the mighty Columbia River, the fourth largest flowing river in the U.S. and one that has been vital for fisheries, hydropower, agricultural irrigation, shipping and recreation. At the confluence of the Columbia and Willamette rivers and at the center of a vibrant urban metropolis sits the city of Portland. Historically, Oregon has relied on natural resource industries, with agriculture, timber and fisheries products leading exports. Although the city reputedly gained its name not from its function but from a coin toss (Abbott 1983), Portland is indeed a port, serving as the main outlet to the Pacific Ocean for much of the products shipped down the Columbia River from eastern Oregon, eastern Washington, Idaho and Montana. A major east-west rail line also ends in Portland, and the docks are a major point of entry for products such as automobiles from Japan and Korea. While its role as a major west coast port continued, national controversies such as the protection of endangered species such as the spotted owl and salmon in the 1980s and 1990s pushed the state to transition to greater reliance on manufacturing and services. High tech industries took off with the 203


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

construction of chip making facilities in Willamette Valley cities. Today, the Portland region hosts Intel’s largest manufacturing facilities in the country and Intel is the largest private employer in the state. Established firms including Hewlett Packard, Tektronix and Intel spun off a number of start-up firms, giving rise to the moniker “Silicon Forest” to the Portland region’s west side (Mayer, 2003). The state as a whole has enjoyed strong and steady growth rates, experiencing its historic boom years during World War 2, when war time shipbuilding and repair was a major activity and drew huge numbers of workers from the eastern and southern U.S. The City of Portland is the largest city in the state, and the Portland metropolitan region has gradually gained a larger proportion of the state’s population, inching from 36% in 1980, to 41% in 2010. The region grew by 26.5 percent from 1990 to 2000, and another 15.5 percent in the latest decade, reaching a population of more than 2.2 million in 2010. Meanwhile, the City of Portland grew at a slightly slower pace over the past two decades.

Fig. 1. (Above, left) Location of Portland. (Sopra, a sinistra) Posizione di Portland. Fig. 2. (Above, right) Skyline of Portland. (Sopra, a destra) Veduta di Portland. Tab. 1. Population change 1940-2010 - Crescita demografica 1940-2010 State of Oregon* Stato dell’Oregon

City of Portland* Città di Portland

Year Anno

Population Popolazione

% change crescita %

Population Popolazione

1940

1,089,684

14.2

305,394

1.2

1950

1,521,341

39.6

373,628

22.3

1960

1,768,687

16.3

372,676

-0.3

% change crescita %

Inside Metro UGB** Population Popolazione

Portland MSA***

% change crescita %

Population Popolazione

1,523,741

% change crescita %

1970

2,091,533

18.3

382,619

2.7

1980

2,633,156

25.9

366,383

-4.2

940,600

1990

2,842,321

7.9

437,319

19.4

1,053,800

12.0

2000

3,421,399

20.4

529,121

21.0

1,305,570

23.9

1,927,881

26.5

2010

3,831,074

12.0

583,776

10.3

1,556,300

19.2

2,226,009

15.5

* Source: U.S. Census - Fonte: Censimento U.S. ** Source: U.S. Census and Metro Research Center - Fonte: Censimento U.S. e Metro Research Center *** The OMB defines a Metropolitan Statistical Area (MSA) as one or more adjacent counties or county equivalents that have at least one urban core area of at least 50,000 population. In Portland, this is the area of Clackamas, Columbia, Multnomah, Washington and Yamhill counties in Oregon and Clark County and Skamania County in Washington. Secondo la definizione dell’Office of Management and Budget, un’Area Statistica Metropolitana (ASM) è costituita da una o più contee o equiparate comprendenti almeno un nucleo urbano di almeno 50.000 abitanti. A Portland, le aree che rispondono a questa definizione sono le contee di Clackamas, Columbia, Multnomah, Washington e Yamhill nell’Oregon, e le contee di Clark e Skamania nel Washington. 204


C.P. Ozawa Creating Livable Cities: The Story Of Portland, Oregon

Living in metropolitan Portland has its down sides. One can expect that about two of every three days will be cloudy, compared to our sunnier neighbors to the south, the San Francisco Bay Area, where residents enjoy only about 100 days of cloudiness each year. Portland suffers a challenging housing scene with a severe lack of affordable housing. And, unlike older, industrial cities of the eastern and mid-western U.S., the region lacks financially generous benefactors and suffers low potential for regional philanthropy with only a handful of Fortune 500 firms calling Oregon home. But it also has up sides. Portland is located in an exquisite area of natural beauty. It is a comfortable 75-minute drive from the spectacular rugged coastline, an hour from breathtaking views of the Columbia River Gorge (a national scenic area), and an hour from the ski slopes of Mt. Hood, which boasts year-round skiing. Beyond its natural endowments, however, the region has developed a distinct urban character. As mentioned earlier, the City of Portland is known for its ample parks and open space and trails. It hosts a world-class, rose test garden in Washington Park, a brisk 30-minute walk from City Hall, earning it the nickname, the City of Roses. It is a favorite among biking enthusiasts, is popular for its proliferating ethnic food carts and creative cuisine featuring locally-grown products and, increasingly, for its craft beers and pinot noirs from the nearby Willamette Valley. Notably, it was ranked # 4 healthiest cities by Forbes magazine, (http://www.forbes.com/sites/melaniehaiken/2011/09/13/americas-top-10-healthiest-cities/), and among the top U.S. cities for the elderly population. And a growing artisan economy indicates the strength of local shoppers’ preferences for buying from their neighbors a quality product made with the pride of a craftsperson. (Heying 2011) The annual Rose Parade held each June complete with a Rose Queen selected from graduating high school seniors creates a “small town” feel to the metropolis. Lifestyle issues aside, Portland also scores high in sustainability. Sustainlane is a non-profit that has ranked the 50 largest U.S. cities along 16 dimensions of sustainability, and the organization has placed Portland first on the list. Portland ranks particularly high in energy and climate change policy, city innovation, a green economy, land use and planning and air and water quality. Unlike other U.S. cities of its age, Portland started investing early in alternatives to automobile travel with major accomplishments. In the 1970s, as did many cities across the United States, Portlanders stopped the construction of a highway through its downtown core. However, going a step further, they transformed a major thoroughfare into a waterfront park, which is popular today among daily joggers and bike commuters and for music concerts, cultural events and the Saturday Market, which features only locally-produced crafts. An even splashier headline was made when Portlanders asked the federal government for permission to transfer funds earmarked for the construction of an east-west highway to the laying of light rail tracks instead. The transit system,Trimet, now operates 130 km of light rail lines with construction of an 11.8 km extension underway and targeted for opening in 2015. Today, Portland continues to win accolades for its multi-modal transportation system. The city snagged the top spot in Biking Magazine again in 2012, (having occupied the spot in 2010, but getting edged out by Minneapolis in 2011). Construction of “bicycle boulevards” to connect residential areas with the downtown, innovating with “cycle tracks” and “bike boxes” to increase safety, and removing on-street auto parking spaces with bike racks are the sorts of investments that warrant kudos. The small blocks and gridded street patterns of the downtown and east side neighborhoods add to the ease of bike commuting. In terms of sustainability, due to the use of transit, biking and land use planning, Portland has been showing a slowing and declining trend in VKT’s (vehicle kilometers traveled) per capita, despite population and economic growth. On a per person basis, the average resident in the Portland region travels 6.4 fewer kilometers per day in a private automobile compared with those in other U.S. metropoli. Not only does lower vehicle use mean lower emissions and less-congested streets, a local economist has calculated the estimated out-of-pocket cost savings to residents. Using a conservative estimate of vehicle costs for fuel, insurance, wear and tear, he contends the region as a whole saves the equivalent of 1.5 percent of personal income or more than $1 billion per year, not to speak of less easily quantified savings that accrue from reduced carbon emissions, less time spent on the road for the traveler, and more general environmental benefits. (Cortright 2007) 205


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

What Makes Portland Different from Other U.S. cities?

Urban development in the U.S. is largely the prerogative of local decision making. There is no national land use plan or planning law. The influence of the federal government on privately-held land is indirect and ad hoc, such as through the Federal Highway Administration and various national environmental laws. The FHWA, for example, allocates funding for highway construction. Though indirect, the routing of highways and the location of interchanges can create a powerful stimulus for urbanization especially at junctions with local roads. As another example, the National Environmental Policy Act addresses only private actions that require a federal permit or funds, and forces the consideration of adverse impacts by a proposed action, but is ultimately only advisory not prescriptive or declarative. Moreover, natural resources management sharply distinguishes between public and private land, and property rights are carefully respected. For their part, the 50 states handle urbanization in varying ways but the dominant model is to simply delegate land use planning to local authorities. Therefore, how states approach environmental protection and land management has varied considerably, and the impact of state or federal policy on city development itself is quite idiosyncratic. In Oregon, decision making about the use of land and other natural resources looks different than in other parts of the country. The state of Oregon made U.S. land use history in 1973, when it passed one of the first and most prescriptive state-level, land use planning laws (Adler 2012; Sullivan 2012). The 1973 legislation was advocated by an interesting coalition of political interests. Oregon was still a largely agricultural economy then, and amid the rise of the environmental movement and an intellectual climate that incubated the Club of Rome’s 1973 Limits to Growth study, then-governor Tom McCall and state legislators negotiated an agreement to contain urbanization to protect the state’s agricultural lands from the thoughtless flood of asphalt and concrete. Senate Bill 100 (the pre-approval form of the law), required all Oregon cities create a comprehensive land use plan designed to address state goals (an original list of 14 was later expanded to 19), which would be subject to review and approval by a new state commission, the Land Conservation and Development Commission, which in turn would be supported by a new state agency, the Department of Land Conservation and Development. The 19 goals can be found on the DLCD’s website, (http://www. lcd.state.or.us). One of the most significant goals and by now certainly the most well-known is Goal 14: Urbanization. It requires each city in the state draw an imaginary line around its current jurisdictional boundary. The city must ensure that this “urban growth boundary”, or “UGB”, contains sufficient land to accommodate projected growth for the next 20 years. Very limited development is permitted outside the UGB, thus protecting agricultural lands from the threat of rampant suburbanization. In the Portland metropolitan region, another unique feature of the planning system is Metro, the only regionally-elected land use planning authority in the United States. Created by voters in 1978, Metro is led by six councilors elected respectively by voters in six districts, and one president, elected at-large by all voters in the region. Metro has responsibilities in a number of areas including managing the region’s solid waste system, regional convention and visitor facilities, the Oregon zoo, and maintaining a regional data resource center. But, its primary role, sanctioned by the state, has been to coordinate the transportation, land use and growth management decisions of the region’s 25 cities and three counties. Metro presides over a land area of about 104,265 hectares or 1,036 km2, and is home to more than 1.5 million Oregon residents (Table 1). Metro has assumed leadership by administering the urban growth boundary, setting forth a regional vision for infrastructure investments to shape the urban form, and developing a regional approach to the protection and preservation of natural areas. Metro has been a cautious gatekeeper of the region’s urban growth boundary. The Portland metropolitan UGB was first drawn in the late 1970s, and has been modified many times, but primarily to accommodate only minor adjustments (of less than 20 acres) in boundary lines. Table 2 shows the dates and magnitudes of major additions. Maps of changes in the urban growth boundary can be found on Metro’s website, http://www.oregonmetro.gov/. For comparison, Denver, CO, another growing metropolis which also has an urban growth boundary, moved its boundary to include an additional 206


C.P. Ozawa Creating Livable Cities: The Story Of Portland, Oregon

21,237 ha. in the years between 2000 and 2006. A non-profit research center has estimated that the amount of developed land in the U.S. overall increased 48 percent between 1982 and 2003, compared to the less than 10 percent increase in the Portland region (Center for Sustainable Systems 2011). Tab. 2. Major expansions of the Portland Metropolitan Urban Growth Boundary (Source Metro). Principali espansioni del confine di crescita urbana dell’area metropolitana di Portland (Fonte: Metro). Year - Anno

Land (hectares) Superficie (ettari)

Intended land use Destinazione di uso del suolo

1998

1,416

Housing and employment - Edilizia residenziale e occupazione

1999

154

Jobs and housing - Creazione di posti di lavoro ed edilizia residenziale

2002

7,635

Housing and employment - Edilizia residenziale e occupazione

2004

792

Industrial lands - Area industriale

2005

140

Industrial lands - Area industriale

2011

803

Housing and jobs - Edilizia residenziale e creazione di posti di lavoro.

Total

10,940

In the early-1990s, Metro leaders initiated an ambitious regional planning effort that produced the 2040 Growth Concept, a framework for guiding future development decisions. Based on an impressive public outreach plan, the agency asked the public (through extensive mail surveys and public meetings) how they preferred to see the region manage projected population growth. What resulted was a general framework that underscored a commitment to a vibrant central city core, a network of transit options, rivers and parks, and a hierarchy of main streets and town centers to provide various levels of services. Although cities and counties retain responsibility for their own comprehensive plans and zoning authority, the Concept remains a powerful expression of a common view of the form of regional growth and development, and regional transportation investments are carefully aligned to support it. A map illustrating the concept can be found on Metro’s website at http://www.oregonmetro.gov. Another area in which Metro has been active is in open space acquisition. The voters in the metro region have demonstrated their strong preference for open space and natural area protection by agreeing to tax themselves to raise funds for land acquisition, first in 1995 to the tune of a $135 million bond measure, and then again in 2006 with a bond measure for $227 million. To date, the agency has purchased more than 4,452 ha. to protect water quality, wildlife habitat and outdoor recreational opportunities. Most recently, Metro took a bold step forward in revising its land use and growth management strategy by proposing to complement the UGB tool by developing a second innovative planning tool – urban and rural reserves. Essentially, the Metro councilors working with the leadership of the three Oregon counties in its jurisdiction set about a two-year process to classify more than 20,234 ha surrounding the current UGB into three groups: urban reserves, rural reserves, and undesignated areas. Urban reserves would be those lands that may be considered in future urban growth boundary expansions; rural reserves are those lands that will definitely not be considered, and undesignated areas are those properties which would have to be reconsidered in a specific context. This leadership team, which came to be known as the Core 4, together with input from the public through an elaborate series of public meetings and advisory committees, based their decision making on natural characteristics such as soil type, water resources and wildlife habitats, as well as on other factors that make a good city, such as access to existing urban areas, infrastructure, and schools. This system of reserves planning is intended to provide greater predictability for land owners and farmers, as well as for land developers and municipalities planning future services and infrastructure. The urban growth boundary is a technical land use planning tool, but the broad public involvement efforts major decisions require and coverage by the mainstream and less mainstream media has meant 207


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that land use decisions are discussed by a surprisingly broad swath of the public. Leaving Powell’s Bookstore, the largest independent book seller in the U.S. and a local landmark, a young 20-something-year-old hipster distributing pamphlets for a music event was overheard discussing the region’s “UGB”, and he was talking about the urban growth boundary. Portland Initiatives As the major population center in the region, Portland has benefited enormously from state and Metro policies and plans that have bolstered its role as the region’s central city. However, to acknowledge its context should not detract from the City’s own energetic, self-conscious, and innovative leadership. City leaders have been deliberate and deliberative about the city’s future for more than four decades (Abbott 2004). The Downtown Plan of 1972 included the north-south bus mall that is now the downtown north-south spine of the region’s light rail and bus system, design reviews to ensure a pedestrian-friendly streetscape, a waterfront park and other dedicated public spaces, and special districts such as the university district and the historic district. A 1988 Central City Plan reinforced concepts laid out in the previous plan, but also extended the planning area across the Willamette River to the eastside, thus acknowledging a vision to connect the west and east side districts and neighborhoods. In the 1990s, the City engaged in an extensive series of public-private partnerships to encourage the transformation of a rail and warehouse area adjacent to the downtown. Called the “Pearl District”, this area now hosts more than 5,000 housing units (many high-end condominiums but also senior housing units and a sprinkling of affordable units), a multitude of restaurants and shops, a performing arts theater (housed in a renovated armory built to green-building LEED platinum standards), and one of the city’s most popular parks, Jamison Square, which features a fountain whose water ebbs and flows like the ocean tides. A decade later, the City focused its efforts on the south waterfront, which at the time still hosted a ship-building facility and many abandoned lots. This area now has a number of Vancouver (Canada)-style high-rise residential buildings, an affordable housing complex and an outpatient treatment center of the Oregon Health Sciences University (OHSU). The OHSU facility is connected to OHSU’s massive main campus that teeters above on a rugged hilltop by an aerial tram. Visually and functionally, the city of Portland has been intentional in directing growth to its downtown and adjacent neighborhoods while striving to maintain residences in the central core. But it has also been attentive to changes in its other neighborhoods. Indeed, Portland has been called a “city of neighborhoods”. In these, mixed-use development is one of its hallmarks as well as the more recent “20-minute neighborhood” concept in which the City aims to ensure that all daily needs can be satisfied within a 20-minute walk of all residences. In contrast to many other U.S. cities, Portland resisted pressure to consolidate small lots into superblocks, a popular practice in the U.S. during the mid-20th century, retaining in much of the eastside neighborhoods a fine-grained street grid that maximizes connectivity, especially for bicyclists and pedestrians. Investment in light rail and buses is necessarily a regional responsibility, but the City has concurrently invested in creating bike-friendly and pedestrianfriendly streets, developing its first “Bike Master Plan” in 1996 and updating it in 2010. This, too, has paid off handsomely, with accolades from the national and international press, as noted above. The City is also a leader in addressing natural resources and physical environmental management. In 1993, the City passed one of the nation’s first carbon emission reduction plans, which was revised in 2009. The federal Environmental Protection Agency’s (EPA) webpage, http://cfpub.epa.gov/npdes/stormwater/municroads/transportprojects.cfm features Portland on its pages on “best practices” in storm water management. In the 1990s, when forced by the EPA to install a $1.4 billion “Big Pipe” to treat storm water before it flowed into and degraded nearby salmon-bearing streams and rivers, the city concurrently began an ambitious program to implement “green” strategies, such as disconnecting downspouts from rooftop gutters and promoting ecoroofs, bioswales and rain gardens. But perhaps more impressively, the City has moved effectively to address multiple objectives through its 208


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programs by working collaboratively with others. This is particularly valuable for a city like Portland, which must rely on a limited budget to get its work done. The 2005 Portland Watershed Management Plan highlights a strategy to work with public and private partners to restore water quality, wildlife habitat and flood protection. For example, the City Bureau of Environmental Services offers grants to encourage an active network of watershed stewardship organizations that inspire volunteers to help pull out invasive species, replant the banks of degraded urban streams, and to conduct educational programs in the schools and neighborhoods. When private landowners apply for building permits on their property, they are required to manage all storm water on site with bioswales, rain gardens and other green technologies. Portland’s “green streets” represent a partnership between two city bureaus, transportation (PBOT) and environmental services (BES). City crews line streets with trees and vegetation and bump out curbs to both slow traffic and enhance the pedestrian and bicycling environment, while also providing space for BES crews to construct bioswales to filter storm water from the streets. In spring 2012, the city had about 3,000 green storm water facilities on public and private properties. Very simply, Portland plans and Portlanders work together.

Fig. 2. (Above, left) Downtown Portland’s “transit mall” with dedicated bus lanes and rail tracks. (Sopra, a sinistra) Zona di transito (“transit mall”) nel centro di Portland con piste per autobus e binari per tram. Fig. 3. (Above, right) Green Storm Water Facility: Street runoff is directed into bioswales, where vegetation filters the stormwater before entering the water table. (Sopra, a destra) Green Storm Water Facility: L’acqua piovana viene drenata dalla strada in bacini di fitodepurazione dove la vegetazione la filtra prima che penetri nella falda.

The Portland Governance Culture Goal #1 of Oregon’s statewide planning goals and guidelines is citizen involvement, and prescribes that governing bodies “shall adopt and publicize a program for citizen involvement that clearly defines the procedures by which the general public will be involved in the on-going land-use planning process”. It would be difficult to separate the origins and contributing factors that distinguish Portland’s physical form and conditions from the larger metropolitan context, or its culture from the culture of the region. Still, many would point out correctly that the city of Portland residents consistently vote significantly more liberally than their neighbors in the surrounding 24 cities and that voters in the Metro region are more liberal than rural voters. Whatever its origins, what is true is that decision making in the Rose City is unusually participatory and progressive. Public agencies undertake a wide range of activities to seek public input and to gain feedback about public problems before solutions are selected. Portland challenges Robert Putnam’s “Bowling Alone” thesis about the decline of social capital in U.S. communities (Putnam 2000, 2003). In contrast to other American cities, attendance at public meetings has remained strong in Portland for the past 40 years, especially for topics relating to neighborhoods, public schools and environmental amenities. (Johnson 2004) Portlanders volunteer at a rate nearly ten percentage points higher than the national average, according to the Corporation for National & Com209


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munity Service (http://www.volunteeringinamerica.gov/rankings/Large-Cities/Volunteer-Rates/2010). However, public participation in shaping urban environments is about more than attending meetings or volunteering. A couple of anecdotes are illustrative. In Portland in the 1990s, teenage skateboarders asked cement truck operators to dump their excess loads on a vacant city block under a bridge in a derelict industrial area and used the cement to carve out a daring skate board park. Rather than shut down their initiative, the city and neighboring property owners agreed to allow the youth to complete their project and the park is now world famous among skate boarders (and two of the teenage activists founded a leading northwest skate park construction firm). At about the same time, in another part of the city, a group calling itself City Repair sought to bring public gathering spaces and piazzas back into neighborhoods where the street grid created only intersections. Again, before gaining city permission, the group blocked off the streets, and built small structures to shelter and encourage neighborly interactions. Rather than penalize the perpetrators, city leaders adopted a few years later in 2000, a provision specifically allowing for such community-building activities into city policy (Ozawa, 2004). But city administrators don’t just wait for rules to be broken before gaining substantive help from community residents. Around the same period, the City purchased a 130-hectare farm on the eastside of the city in a neighborhood that suffered from recurrent flooding from the nearby Johnson Creek. Within a few years, residents formed “Friends of Zenger Farm”, authored a master plan for the land, and gained approval from the city to develop a non-profit, working farm. Today Zenger Farm is one of the city’s gems, serving as an outdoor classroom and laboratory on “sustainable agriculture, wetland ecology, food security, healthy eating and local economic development” (http://zengerfarm.org/about-the-farm). These are examples of Portland’s style of governance at its best, one in which officials are responsive to public demands, where planners and other technical experts, administrators and elected officials recognize and value the motivation and action of community members working for the collective good. There’s a culture of mutual respect. Although decisions don’t always go smoothly or end up well, Portland’s history suggests that the public policy making process is arguably as important as the policies themselves. Conclusion The evolution of a city is the product of the interplay of institutions in a place with people. Over the past decades, Portland has done well in achieving high marks on measurable indicators of sustainability and livability. Much is attributable to the unique institutions that frame land use, transportation and other critical components of urban systems. Much can be attributed to the plans that serve as well-used guides to coordinate actions. Perhaps a large part of the reason for Portland’s history is embedded in the culture of the people here. However, institutions, plans and culture are all social products and they are continually subject to creation and re-creation. Neither institutions, people nor culture are static. What is presented as Portland’s successes are, of course, only part of the story. Portland is not nirvana. The city faces many challenges common in urban areas around the U.S., such as social equity, racial tensions, housing affordability, and homelessness. Other unresolved issues and hotly contested controversies more distinct to the region include the appropriateness of agriculture within the urban area, light rail route extensions, and the clean-up of highly contaminated “Superfund” sites in the Willamette River. At the regional and state level, the land use law itself has been challenged periodically albeit unsuccessfully until the most recent efforts in 2004 and 2006. The outcome of these two ballot initiatives ultimately loosened restrictions on properties located outside the urban growth boundaries to allow for very modest construction. However, although the changes did not radically alter the intent of the law, the experience is a clear reminder that institutions are not immutable. Clearly, much work is yet to be done. 210


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Portland and the region will continue to evolve and transform. Today by many measures as described here, Portland is a pleasant, livable city. Its history holds lessons for the development and redevelopment of urban areas around the world as well as its own, but whether those lessons are identified, transferable and acted upon by Portlanders and others, only the future will tell. Selected References Abbott, C., (1983) Portland: Planning, Politics and Growth in a Twentieth Centure City. Lincoln, University of Nebraska Press (2004) Centers and Edges: Reshaping Downtown Portland, in Connie P. Ozawa, ed., The Portland Edge: Challenges and Successes in Growing Communities. Washington, Covelo, London, Island Press Adler, S., (2012) Oregon Plans: The Unquiet Revolution. Corvallis, OR, Oregon State University Press Asimov, E., In Portland, a Golden Age of Dining and Drinking, The New York Times, 26.09.2007, http://www.nytimes. com/2007/09/26/dining/26port.html?pagewanted=all, accessed on 18.06.2012 Center for Sustainable Systems. Factsheets. Pub. No. CSS09-06, http://css.snre.umich.edu/css_doc/CSS09-06.pdf , 2011. Accessed on 21/06/2012. Clark, T., (2007) The Indie City: Why Portland is the Indie Rock Mecca, Slate.com, http://www.slate.com/articles/arts/ music_box/2007/09/the_indie_city.html, accessed 18.06.2012 Cortright, J., (2007) The Green Dividend, a white paper for CEO for Cities, http://www.impresaconsulting.com/ node/42, accessed 23.06.2012 Gold, S., (2010) America’s Best Farmers’ Markets, Travel and Leisure Magazine, april 2010, http://www.travelandleisure.com/articles/americas-best-farmers-markets, accessed 21.06.2012 Hess, E., (2012) Freeing Food Carts, Sightline Daily, http://daily.sightline.org/2012/03/15/freeing-food-carts/, accessed 21.06.2012 Heying, C., (2011) Brew to Bikes: Portland’s Artisan Economy, Portland, OR, Ooligan Press Gross, M., Portland’s Food Cart Scene, The New York Times, video, http://video.nytimes.com/video/2009/05/08/travel/1194840085440/portland-s-food-cart-scene.html, accessed 18.06.2012 Johnson, Steven R., (2001) The Transformation of Civic Institutions and Practices in Portland, OR, 1960-1999. Toulan School of Urban Studies and Planning, Portland State University League of American Bicyclists, (2011) http://public.sheet.zoho.com/public/bikeleague/2000-to-2010-bike-commuters-largest-70-2-1, accessed 18.06.2012 Manning, I., Patrick A.C. and Crain L., Portland’s Food Rules, Cooking Light, http://www.cookinglight.com/healthyliving/travel/portland-food-scene-00412000071132/, accessed 18.06.2012 Mayer, H., (2003) Taking Root in the Silicon Forest, Toulan School of Urban Studies and Planning, Portland State University Ozawa, C.P., (ed.), (2004) The Portland Edge: Challenges and Successes in Growing Communities. Washington, Covelo, London, Island Press Putnam, R., (2000) Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community. New York: Simon & Schuster. (2003) Better Together: Restoring the American Community. New York, Simon & Schuster Sullivan, E.J., (2012) The Quiet Revolution Goes West: The Oregon Planning Program, 1961-2011, John Marshall Law Review, 45, pp. 357-395

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Creare città vivibili: Il caso di Portland, Oregon Connie P. Ozawa Portland State University

Portland, Oregon è situata fra la beneamata “città sulla collina”, San Francisco, e l’”insonne” Seattle, un’altra città della costa ovest che ha raggiunto la notorietà ed è diventata la quindicesima più grande area metropolitana degli Stati Uniti, sede di Microsoft, Boeing, e Starbucks e luogo prescelto per l’ambientazione di un noto film hollywoodiano. Portland potrebbe sembrare insignificante, ma non lo è. Nell’ultimo decennio, la città ha più volte occupato le primi posizioni nelle classifiche stilate da varie organizzazioni, da Sustainlane a Forbes alla rivista POPSCI, che valutano le città in base a criteri di ecosostenibilita, salute, vivibilità e qualità della vita. Portland ha un Parco Forestale di 2400 ettari e 247 fra parchi e aree ricreative sparsi in tutta la città, ed è circondata da un raccordo anulare ciclabile e pedonale di 40 miglia. Portland affascina sia i giovani appassionati di ciclismo che i pianificatori del trasporto pubblico, in quanto è ai primi posti fra le città americane per il pendolarismo ciclabile (League of American Bicyclists, 2011). La città è all’avanguardia anche per quanto riguarda la qualità del cibo, i mercati dei contadini, le mini fabbriche di birra e la musica indipendente (Clark 2007; Gold 2010; Hess 2012). Una serie televisiva via cavo, Portlandia, giunta ormai alla terza stagione, rappresenta la vita dei portlandesi con la loro tipica ossessione per l’ambientalismo e le politiche strambe. Per chi studia le città, Portland rappresenta un affascinante caso di interazione fra la popolazione e il luogo, con al centro le istituzioni e la pianificazione. Sotto molti aspetti, l’evoluzione della città è un prodotto del suo contesto. Si trova infatti al centro di una regione che ha una storia eccezionale e che sta continuando lungo una strada che è essa stessa tuttora eccezionale. Questo capitolo vuole esaminare lo sviluppo di Portland nel contesto istituzionale della sua regione e del suo Stato, nella consapevolezza che Portland è parte integrante di una più vasta area e non può essere pertanto analizzata senza tenere conto di quanto le è accaduto attorno. Le istituzioni naturalmente non agiscono da sole: non sono tanto le leggi e le procedure che hanno fatto di Portland quello che è oggi, ma la sua gente e la sua cultura. Lo sfondo La regione metropolitana di Portland è situata al limite settentrionale dello Stato dell’Oregon, lungo la costa del Pacifico negli Stati Uniti nordoccidentali, al confine con lo stato di Washington aldilà del fiume Columbia. Due catene montuose dividono l’Oregon da nord a sud: le Cascade Mountains, che separano l’arido “deserto alto” ad est dalla più umida zona occidentale, e le Coastal Range Mountains, che delimitano le zone costiere frastagliate e piovose dalla fertile e lussureggiante Willamette Valley. Quest’ultima deriva il suo nome dal fiume che scorre da sud a nord, sfociando nel possente fiume Columbia, il quarto per capacità negli Stati Uniti, fondamentale per la pesca, la produzione di energia idroelettrica, l’irrigazione, la navigazione e gli usi ricreativi. La città di Portland si trova proprio alla confluenza del Columbia e del Willamette, al centro di una vivace area metropolitana. Storicamente l’industria dell’Oregon si è basata sulle risorse naturali locali, esportando soprattutto prodotti agricoli, legname e pesce. Per quanto si racconta che Portland derivi il suo nome non dalla sua funzione ma dal lancio di una monetina (Abbott 1983), la città è davvero un porto, principale sbocco verso l’Oceano Pacifico per gran parte dei prodotti che viaggiano lungo il fiume Colombia dall’Oregon 212


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orientale, il Washington orientale, l’Idaho e il Montana. Portland è anche il punto di arrivo di una importante linea ferroviaria est-ovest, e i suoi moli sono uno dei principali punti di ingresso per prodotti come le automobili provenienti dal Giappone e dalla Corea. Mentre la città continuava ad avere un ruolo di primo piano come porto sulla costa occidentale, le controversie a livello nazionale degli anni Ottanta e Novanta su temi come la protezione di specie in pericolo quali il gufo maculato e il salmone spinsero lo Stato a una transizione verso una maggiore dipendenza dalla manifattura e dai servizi. Le industrie ad alta tecnologia decollarono con la costruzione di fabbriche di chip nelle città della Willamette Valley. Oggi la regione di Portland ospita le più grandi fabbriche di Intel in tutto il paese, e la società è il maggiore datore di lavoro privato nello Stato. Da società consolidate, fra cui Hewlett Packard, Tektronix e la stessa Intel, si sono poi distaccate varie società spinoff, dando origine al soprannome di “Silicon Forest” per la zona occidentale della regione di Portland (Mayer, 2003). Lo Stato nel suo complesso ha goduto di tassi di crescita alti e costanti. I suoi anni storici di boom economico sono quelli della Seconda Guerra Mondiale, quando la cantieristica acquistò grande importanza attirando enormi masse di lavoratori dagli Stati Uniti orientali e meridionali. Il comune di Portland è il più grande dell’Oregon, e l’area metropolitana della città ha gradualmente attirato gran parte della popolazione dello Stato, crescendo da 36% nel 1980 a 41% nel 2010. La regione è cresciuta del 26,5% dal 1990 al 2000, e di un altro 15,5% nell’ultimo decennio, raggiungendo una popolazione di oltre 2,2 milioni nel 2010, mentre negli ultimi vent’anni il comune di Portland è cresciuto a un tasso leggermente inferiore. Vivere nella zona metropolitana di Portland ha i suoi svantaggi. All’incirca due giorni su tre sono nuvolosi, mentre per i nostri vicini meridionali che abitano nella San Francisco Bay Area i giorni nuvolosi sono solo circa 100 all’anno. Portland ha inoltre una situazione abitativa difficile per la carenza di alloggi a prezzi abbordabili. Per giunta, a differenza delle città industriali di più lunga storia degli Stati Uniti orientali e centro-occidentali, la regione manca di benefattori finanziariamente generosi e risente di un basso tasso di filantropia locale: ben poche delle ditte di Fortune 500 hanno infatti sede nell’Oregon. Ci sono però anche i vantaggi: Portland è situata infatti in un’area di grande bellezza naturale, a solo 75 minuti in automobile dalla spettacolare costa scoscesa, un’ora dalle vedute mozzafiato del Columbia River Gorge (una zona panoramica nazionale), e un’ora dalle piste sciistiche di Mount Hood, attive tutto l’anno. Ma al di là delle sue qualità naturali, la regione ha anche sviluppato una distinta fisionomia urbana. Come osservavamo sopra, il comune di Portland è noto per i suoi vasti parchi, i suoi spazi aperti e le sue piste naturali. Vanta un giardino di rose sperimentale di livello mondiale situato a Washington Park, a mezz’ora di cammino a passo svelto dal municipio, che le è valso l’appellativo di Città delle Rose. È una meta di elezione dei ciclisti, ed è famosa per il proliferare di chioschi di cucina etnica ambulanti e per la sua cucina creativa basata su prodotti locali, e sempre di più anche per le sue birre artigianali e i suoi Pinot Noirs dalla vicina Willamette Valley. Soprattutto, è al quarto posto nella classifica di Forbes delle città più salutari (http://www.forbes.com/sites/melaniehaiken/2011/09/13/americas-top-10healthiest-cities/), ed è fra le città statunitensi più vivibili per la popolazione anziana. Inoltre la crescita del suo artigianato è indicativa della preferenza accordata dai consumatori locali all’acquisto dai loro vicini di un prodotto di qualità realizzato con l’orgoglio dell’artigiano. (Heying 2011). La Rose Parade, che si tiene ogni anno, con tanto di elezione della Reginetta delle Rose fra le studentesse dell’ultimo anno di scuola superiore, conferisce alla metropoli un senso di “paese”. Oltre che nello stile di vita, Portland svetta anche nelle classifiche sulla sostenibilità. Sustainlane, un’organizzazione non a scopo di lucro che ha stilato una classifica delle 50 più grandi città degli Stati Uniti sulla base di 16 parametri di sostenibilità, ha messo Portland al primo posto. La città ha punteggi particolarmente alti per le politiche energetiche e climatiche, e per l’innovazione urbana, l’economia verde, l’uso e la pianificazione del territorio e la qualità dell’aria e dell’acqua. A differenza di altre città statunitensi della stessa età, Portland ha iniziato a investire precocemente nelle alternative al trasporto automobilistico, ottenendo notevoli successi. Nel 1970, come è avvenuto in molte altre città in varie parti degli Stati Uniti, la popolazione impedì la costruzione di un’autostrada attraverso il centro. Ma i 213


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portlandesi sono andati anche oltre, trasformando una strada principale in un parco sull’acqua oggi frequentato dai jogger e dai pendolari in bicicletta, e sede di concerti ed eventi culturali, nonché del mercatino del sabato, dove si vendono solo prodotti locali. L’attenzione mediatica fu ancora maggiore quando i portlandesi chiesero al governo federale il permesso di trasferire dei fondi destinati alla costruzione di un’autostrada est-ovest per costruire invece una ferrovia leggera. Questo sistema di trasporto, Trimet, oggi ha 130 km di binari. Un’estensione di 11,8 km è in fase di costruzione con apertura prevista nel 2015. Oggi Portland continua a ricevere riconoscimenti per il suo sistema di trasporto multimodale: la città ha ottenuto di nuovo il primo posto nella classifica di Biking Magazine nel 2012, dopo averlo già avuto nel 2010 per essere scalzata da Minneapolis nel 2011. Fra gli investimenti più lodevoli vi sono la costruzione di “boulevard ciclabili” che collegano le aree residenziali con il centro, con innovazioni come le piste ciclabili separate e “bike boxes” (spazi riservati per la fermata delle biciclette agli incroci), e l’installazione di rastrelliere per biciclette al posto degli spazi di parcheggio per le automobili lungo le strade. Il pendolarismo ciclistico è ulteriormente facilitato dalle piccole dimensioni degli isolati e il reticolo stradale a scacchiera del centro e dei quartieri della zona est. Per quanto riguarda la sostenibilità, grazie alla ferrovia, alle biciclette e alla pianificazione territoriale Portland ha registrato una progressiva diminuzione dei chilometri percorsi in auto (VKT) pro capite, nonostante la crescita demografica ed economica. In media il residente della regione di Portland percorre in automobile 6,4 chilometri in meno al giorno di un cittadino di altre aree metropolitane degli Stati Uniti. Un minore uso dell’automobile non significa solo meno emissioni e strade meno congestionate: un economista locale ha calcolato infatti anche il risparmio per la popolazione. In base a una stima prudente dei costi di combustibile, assicurazione e logorio, egli calcola che la regione nel suo complesso risparmia l’equivalente dell’1,5 per cento del reddito dei suoi cittadini, ovvero più di un miliardo di dollari l’anno, per non parlare di risparmi meno agevolmente quantificabili derivanti dalla riduzione delle emissioni di carbonio, dal minore tempo trascorso sulla strada, e da altri benefici ambientali di carattere più generale (Cortright 2007). Cosa rende Portland diversa da altre città degli Stati Uniti? Lo sviluppo urbano degli Stati Uniti dipende in buona misura da decisioni prese a livello locale. Non esiste una pianificazione o una legislazione territoriale a livello nazionale. L’influenza del governo federale sulla proprietà terriera privata è indiretta e ad hoc, esercitandosi, ad esempio, attraverso la Federal Highway Administration, FHWA e varie leggi nazionali a tutela dell’ambiente. La FHWA, per esempio, stanzia fondi per la costruzione di autostrade. Per quanto indirettamente, i percorsi seguiti dalle autostrade e la posizione degli interscambi possono essere un potente stimolo all’urbanizzazione, specialmente agli incroci con la viabilità locale. Per fare un altro esempio, il National Environmental Policy Act riguarda solo iniziative private per le quali è richiesto un permesso o finanziamento federale, e mentre obbliga a tenere conto di eventuali impatti ambientali negativi in ultima analisi non ha carattere prescrittivo, ma solo consultivo. Inoltre la gestione delle risorse naturali distingue nettamente fra proprietà terriera pubblica e privata, e il diritto di proprietà è scrupolosamente rispettato. Da parte loro, i 50 Stati gestiscono l’urbanizzazione in vari modi, ma il modello dominante è quello che si limita a delegare la pianificazione territoriale alle autorità locali. Vi è stata dunque una notevole variabilità nel modo in cui gli Stati si sono fatti carico della salvaguardia dell’ambiente e della gestione territoriale, e per lo stesso sviluppo urbano l’impatto delle politiche statali o federali è molto diverso da un caso all’altro. Nell’Oregon, le scelte di gestione del territorio e delle altre risorse naturali appaiono diverse da quelle adottate in altre parti del paese. Lo Stato dell’Oregon ha fatto storia nella legislazione territoriale statunitense nel 1973, quando approvò la prima e la più prescrittiva delle sue leggi di pianificazione territoriale (Adler 2012; Sullivan 2012). La legislazione del 1973 fu sostenuta da una interessante coalizione di interessi politici. L’economia dell’Oregon all’epoca era ancora per la maggior parte agricola, e 214


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nel contesto dell’emergere del movimento ambientalista e in un clima intellettuale che stava incubando lo studio sui limiti della crescita del Club di Roma (Limits of Growth, 1973) l’allora governatore Tom McCall e i legislatori dello Stato negoziarono un accordo per contenere l’urbanizzazione e proteggere così il demanio agricolo dall’insensata fiumana di asfalto e cemento. La proposta di legge 100 del Senato imponeva che tutte le città dell’Oregon si dotassero di un piano territoriale complessivo che rispondesse a specifici obiettivi statali (un elenco di 14 successivamente espanso a 19), che sarebbero stati soggetti a revisione e approvazione da una nuova commissione statale, la Land Conservation and Development Commission, che a sua volta sarebbe stata coadiuvata da una nuova agenzia statale, il Department of Land Conservation and Development. I 19 obiettivi sono reperibili sul sito web del DLCD, (http://www.lcd.state.or.us). Uno dei più significativi, e oggi senz’altro il più noto, è il numero 14: Urbanizzazione. Esso impone a ogni città dello Stato di disegnare una linea immaginaria intorno al suo attuale confine giurisdizionale, e verificare poi se all’interno di questo “confine di crescita urbana” (Urban Growth Boundary, UGB) vi sia abbastanza terra da sostenere le proiezioni di crescita per i prossimi 20 anni. Al di fuori dell’UGB è permesso costruire solo in misura molto limitata, e così si proteggono le terre agricole dalla minaccia della suburbanizzazione rampante. Un altro aspetto unico del sistema di pianificazione della regione metropolitana di Portland è la Metro, la sola autorità di pianificazione locale di tutti gli Stati Uniti che sia eletta a livello regionale. Istituita dagli elettori nel 1978, la Metro è diretta da sei consiglieri eletti, rispettivamente, dagli elettori di sei distretti, e da un presidente eletto da tutti gli elettori della regione. La Metro ha responsabilità in vari settori, compresa la gestione del sistema di smaltimento dei rifiuti solidi della regione, le strutture congressuali e le foresterie regionali, lo zoo dell’Oregon, e la gestione di un centro dati regionale. Ma il suo ruolo primario, sancito dallo Stato, è di coordinare le scelte delle 25 città e 3 contee della regione in materia di trasporto pubblico, uso del suolo e gestione dello sviluppo. La Metro gestisce un’area di circa 104.265 ettari, ovvero 1036 km2, in cui abitano più di 1,5 milioni di residenti dell’Oregon (Vedi Tabella 1). La Metro ha preso la guida della gestione del “confine di crescita urbana” (UGB, Urban Growth Boundary), propugnando una visione regionale per gli investimenti infrastrutturali volti a modellare la forma urbana e sviluppando un approccio regionale alla protezione e conservazione delle aree naturali. La Metro è stata un’attenta custode del confine di crescita urbana della regione. L’UGB dell’area metropolitana di Portland fu tracciato per la prima volta nei tardi anni Settanta e da allora è stato spostato molte volte, ma si è trattato principalmente solo di modeste espansioni (meno di 20 acri). La tavola 2 mostra le date e le dimensioni delle principali espansioni. Le mappe degli spostamenti del confine di crescita urbana sono disponibili sul sito web di Metro, http://www.oregonmetro.gov/. Per avere un termine di confronto, Denver, CO, un’altra metropoli in espansione che ha anch’essa un confine di crescita urbana, fra il 2000 e il 2006 ha effettuato espansioni del confine per un totale di 21.237 ha. Un centro di ricerca non a scopo di lucro ha calcolato che fra il 1982 e il 2003 l’urbanizzazione è cresciuta complessivamente del 48 per cento in tutti gli Stati Uniti, a fronte di un aumento inferiore al 10 per cento nella regione di Portland (Center for Sustainable Systems 2011). All’inizio degli anni Novanta, i capi di Metro intrapresero un ambizioso sforzo di pianificazione regionale da cui nacque il 2040 Growth Concept, una direttiva per guidare le future scelte di sviluppo. Sulla base di un ambizioso progetto di coinvolgimento del pubblico, l’agenzia ha chiesto alla gente (attraverso ampi sondaggi via posta e incontri pubblici) come avrebbe preferito che la regione gestisse il previsto aumento demografico. Il risultato è stato una direttiva generale che sancisce l’impegno per un centro urbano pieno di vita, una rete di opzioni di trasporto, fiumi e parchi, e una gerarchia di strade principali e centri urbani per fornire servizi a vari livelli. Anche se le città e le contee restano responsabili dei propri piani regolatori e delle proprie autorità di zona, il Concept resta una potente espressione di una visione condivisa della forma della crescita e dello sviluppo regionale, e si sta badando a indirizzare gli investimenti regionali nei trasporti in modo da sostenerlo. Una mappa che illustra il Concept è disponibile sul sito web della Metro, http://www.oregonmetro.gov/. Un’altro campo in cui la Metro è stata attiva è l’acquisizione degli spazi aperti. Gli elettori della regione metropolitana hanno mostrato una decisa preferenza per la protezione degli spazi aperti e delle 215


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aree naturali, accettando di autotassarsi per ricavare fondi per l’acquisto di terre, prima nel 1995 con un’asta di buoni da 135 milioni di dollari, e poi di nuovo nel 2006 con un’asta da 227 milioni. Ad oggi l’agenzia ha acquistato più di 4452 ha per proteggere la qualità dell’acqua, l’habitat faunistico e le opportunità ricreative all’aperto. Recentemente la Metro ha fatto un ardito passo in avanti rivedendo il suo utilizzo del suolo e la sua strategia di gestione della crescita tramite la proposta di integrare lo strumento UGB con un secondo innovativo strumento di pianificazione: le riserve urbane e rurali. In sostanza, i consiglieri della Metro che lavorano in collaborazione con le amministrazioni delle tre contee dell’Oregon che ricadono nella sua giurisdizione hanno avviato un processo biennale per classificare più di 20.234 ha intorno all’attuale UGB, dividendoli in tre categorie: riserve urbane, riserve rurali e aree non designate. Le riserve urbane sono quelle terre che potrebbero essere prese in considerazione per future estensioni del confine di crescita urbana; le riserve rurali sono quelle terre che sicuramente non saranno prese in considerazione; e le aree non designate sono quelle proprietà che andrebbero riconsiderate in un contesto specifico. Questa squadra di punta, conosciuta col nome di Core 4, ha basato le proprie scelte, con il contributo del pubblico tramite una complessa serie di incontri pubblici e comitati consultivi, su caratteri naturali come tipologia del suolo, risorse idriche e ambienti faunistici, e su altri fattori caratteristici della “città virtuosa”, come l’accessibilità delle zone urbane esistenti, le infrastrutture e le scuole. Lo scopo del sistema di pianificazione delle zone riservate è di offrire una maggiore capacità di predizione ai proprietari terrieri e ai contadini, nonché ai costruttori edilizi e alle municipalità per la pianificazione di servizi e infrastrutture futuri. Il confine di crescita urbana è uno strumento tecnico per la pianificazione dell’uso del suolo, ma i grandi sforzi di coinvolgimento del pubblico richiesti da decisioni di grande portata e la copertura mediatica dei media grandi e piccoli hanno fatto sì che queste decisioni sull’uso del suolo siano state discusse da una fetta sorprendentemente grande della collettività. Uscendo da Powell’s Bookstore, la più grande libreria indipendente degli Stati Uniti e un importante punto di riferimento locale, qualcuno ha sentito uno hipster di vent’anni o poco più che distribuiva volantini per un evento musicale fare riferimento all’”UGB” della regione, ed è proprio del confine di crescita urbana che stava parlando. Le iniziative di Portland Essendo il principale centro demografico della regione, Portland ha tratto immensi benefici dalle politiche statali e della Metro e dai piani che hanno accentuato la sua centralità nella regione. Tuttavia il riconoscimento dell’importanza del suo contesto territoriale non deve far passare in secondo piano il ruolo dell’amministrazione comunale, che è stata energico e innovativa, e sensibile al giudizio dei cittadini. Per più di quattro decenni gli amministratori comunali sono stati decisi e propositivi nel deliberare il futuro della città (Abbott 2004). Il Downtown Plan del 1972 comprendeva il parcheggio di autobus nord-sud che costituisce oggi l’asse nord-sud del sistema di treni leggeri e autobus della regione, la riprogettazione del sistema viario per adattarlo alle esigenze dei pedoni, un parco sul lungofiume e altri spazi pubblici dedicati, e distretti speciali come quello universitario e quello storico. Il Central City Plan del 1988 ribadiva concetti introdotti dal piano precedente ma estendeva l’area di pianificazione verso est, oltre il fiume Willamette, facendo sua una visione che auspicava un collegamento fra i distretti e quartieri occidentali e orientali. Nel corso degli anni Novanta l’amministrazione comunale si è impegnata in una lunga serie di partenariati pubblico-privati per promuovere la riconversione di un’area ferroviaria e di stoccaggio vicina al centro cittadino. L’area in questione, il “Pearl District”, oggi ospita più di 5000 unità abitative (molti condomini di alto livello ma anche case per anziani e qualche unità abitativa a prezzi abbordabili), una moltitudine di ristoranti e negozi, un teatro (in un’armeria ristrutturata secondo le specifiche LEED per l’edilizia verde) e uno dei parchi più frequentati della città, Jamison Square, dotato di una fontana la cui acqua monta e si ritrae come le maree oceaniche. Un decennio dopo l’amministrazione cittadina ha rivolto i suoi sforzi alla sponda meridionale, dove all’epoca si trovavano ancora un cantiere navale e molti lotti abbandonati. In quest’area sorgono oggi 216


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svariati grattacieli residenziali in stile Vancouver (Canada), un complesso residenziale a prezzi contenuti, e un ambulatorio della Oregon Health Sciences University (OHSU). Una funivia collega l’edificio della OHSU al grande campus principale della OHSU, che si estende sulla sommità scoscesa della collina sovrastante. Sia dal punto di vista visivo che da quello funzionale, la città di Portland ha puntato a concentrare la crescita nei suoi quartieri centrali e in quelli adiacenti al centro, cercando allo stesso tempo a mantenere le aree residenziali nel nucleo centrale. È stata però anche attenta ai cambiamenti in altri quartieri. Portland è stata infatti definita una “città di quartieri”. Fra i loro tratti distintivi vi sono l’edilizia a uso misto e il recente concetto del “quartiere di 20 minuti”, tramite il quale l’amministrazione comunale punta a far sì che tutte le necessità giornaliere possano essere soddisfatte nel raggio di venti minuti a piedi da qualsiasi abitazione. Al contrario di molte altre città degli Stati Uniti, Portland ha resistito alla tendenza verso l’unione di vari piccoli isolati in un unico mega-isolato (affermatasi negli Stati Uniti negli anni centrali del ventesimo secolo), mantenendo in buona parte dei quartieri della zona est una griglia urbana a maglia fine che massimizza la connettività, specialmente per i ciclisti e i pedoni. L’investimento in ferrovie leggere e autobus è per forza di cose di competenza regionale, ma l’amministrazione cittadina ha, dal canto suo, investito nella creazione di strade adatte alla circolazione di ciclisti e pedoni, elaborando il suo primo “Bike Master Plan” nel 1996 e aggiornandolo nel 2010. Anche questa iniziativa ha dato ottimi frutti ed è stata elogiata dalla stampa nazionale e internazionale, come abbiamo notato sopra. L’amministrazione cittadina è anche all’avanguardia nella gestione delle risorse naturali e dell’ambiente fisico. Nel 1993 ha approvato uno dei primi piani per la riduzione delle emissioni di carbonio negli Stati Uniti, successivamente rivisto nel 2009. Portland è menzionata sulla pagina web della Environmental Protection Agency’s (EPA) federale, http://cfpub.epa.gov/npdes/stormwater/municroads/transportprojects.cfm, dedicata alle “pratiche ottimali” nella gestione delle acque piovane. Negli anni Novanta, costretta dall’EPA ad installare una condotta gigante (la “Big Pipe”) da 1,4 milioni di dollari per la bonifica delle acque pluviali a monte della loro infiltrazione nei vicini corsi d’acqua e nei fiumi frequentati dai salmoni, l’amministrazione cittadina avviò al contempo un ambizioso programma di implementazione di strategie “verdi” quali la disconnessione delle pluviali dalle grondaie e la promozione di tetti “verdi”, bacini di fitodepurazione e giardini pluviali. Quello che forse colpisce ancora di più è che l’amministrazione ha saputo muoversi efficacemente per perseguire molteplici obiettivi lavorando in collaborazione con altri soggetti. Questo è un aspetto di particolare valore in una città come Portland, che dispone di un bilancio limitato. Il 2005 Portland Watershed Management Plan mette al centro una strategia per la collaborazione fra partner pubblici e privati per ristabilire la qualità dell’acqua e degli habitat faunistici, e per la protezione dalle inondazioni. Per esempio, il City Bureau of Environmental Services offre sovvenzioni per promuovere una rete attiva di organizzazioni per la manutenzione degli spartiacque che raccolgano volontari per rimuovere le specie invasive, ripiantare la vegetazione rivierasca dei corsi d’acqua degradati e svolgere programmi educativi nelle scuole e nei quartieri. Quando un privato fa richiesta di un permesso di costruzione sulla sua proprietà, è tenuto a gestire tutta l’acqua pluviale con bacini di fitodepurazione, “giardini pluviali” (rain gardens) e altre tecnologie verdi. Le “strade verdi” di Portland sono il risultato della collaborazione fra due uffici cittadini, quello del trasporto (PBOT) e quello dei servizi ambientali (BES). Le squadre del comune piantano alberi e altra vegetazione lungo le strade ed espandono i marciapiedi per rallentare il traffico e migliorare la viabilità pedonale e ciclistica, facendo al contempo spazio per i bacini di fitodepurazione costruiti dalle squadre del BES per filtrare l’acqua piovana proveniente dalle strade. Nella primavera del 2012 le strutture per la gestione delle acque pluviali su proprietà pubbliche e private erano ormai 3000. Per dirla in due parole, i piani di Portland e i portlandesi sono in sinergia. La cultura portlandese della governance L’Obiettivo 1 delle linee guida di pianificazione dello Stato dell’Oregon è il coinvolgimento dei cittadini. Esso recita che gli organi di governo “adotteranno e pubblicizzeranno un programma per il 217


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coinvolgimento dei cittadini che definisca chiaramente le procedure attraverso le quali il pubblico sarà coinvolto nel processo di pianificazione territoriale in corso”. Sarebbe difficile tentare di isolare i fattori che contribuiscono a distinguere la struttura fisica e la situazione di Portland da quelle del suo più ampio contesto metropolitano, o la sua cultura da quella della regione. Tuttavia molti sottolineerebbero, a ragione, che i residenti della città di Portland votano sistematicamente più a sinistra dei loro vicini delle 24 città circostanti, e che gli elettori della regione metropolitana sono più di sinistra di quelli delle zone rurali. Qualunque siano le origini di questo fenomeno, quello che è certo è che nella “Rose City” il processo deliberativo è insolitamente partecipativo e progressista. Gli enti pubblici intraprendono una vasta gamma di attività per consultare i cittadini e sollecitare la loro opinione sui problemi pubblici prima di optare per l’una o l’altra soluzione. Portland contraddice la tesi del “Bowling Alone” di Robert Putnam riguardo al declino del capitale sociale nelle comunità statunitensi (Putnam 2000, 2003). A differenza che in altre città americane, negli ultimi quarant’anni la partecipazione agli incontri pubblici è rimasta alta a Portland, specialmente quando gli argomenti riguardano i quartieri, la scuola pubblica o le risorse ambientali (Johnson 2004). Secondo la Corporation for National & Community Service, Portland ha un tasso di volontariato di quasi dieci punti superiore alla media nazionale (http://www.volunteeringinamerica.gov/rankings/ Large-Cities/Volunteer-Rates/2010). La partecipazione pubblica dei portlandesi alla trasformazione dell’ambiente urbano va però al di là degli incontri pubblici o del volontariato, come mostrano i seguenti due aneddoti. Negli anni Novanta, alcuni skateboardisti adolescenti chiesero a degli autisti di betoniere di scaricare i loro residui di carico in un isolato cittadino vuoto sotto un ponte in un’area industriale abbandonata, e usarono il cemento per modellare un’audace parco da skateboard. Piuttosto che bloccare l’iniziativa, la città e i proprietari delle aree confinanti permisero ai giovani di completare il progetto, e oggi il parco gode di fama mondiale fra gli skateboarders (e due degli attivisti adolescenti hanno fondato una ditta per la costruzione di parchi da skateboard che è all’avanguardia negli Stati Uniti nordoccidentali). Nello stesso periodo, in un’altra zona della città, un gruppo autodenominatosi “City Repair” tentava di rintrodurre spazi di incontro e piazzali in quartieri in cui gli unici spazi previsti nell’impianto viario erano gli incroci. Prima di ottenere il permesso della città, il gruppo bloccava le strade e costruiva piccole strutture per ospitare e promuovere gli incontri nel vicinato. Piuttosto che sanzionare i responsabili, pochi anni più tardi, nel 2000, le autorità approvarono una clausola che integrava attività comunitarie di questo tipo nelle politiche cittadine (Ozawa, 2004). Ma l’amministrazione non si limita certo ad aspettare che si contravvenga alle regole per cercare l’aiuto concreto delle comunità. All’incirca nello stesso periodo il comune acquistò un’azienda agricola di 130 ettari nella zona est della città, in un quartiere vessato dalle ricorrenti esondazioni del vicino Johnson Creek. Entro pochi anni i residenti fondarono l’associazione “Friends of Zenger Farm”, stilarono un piano generale per il territorio e ottennero l’approvazione del comune per la creazione di un’azienda agricola non a scopo di lucro. Oggi Zenger Farm è uno dei gioielli della città, utilizzato come scuola e laboratorio all’aperto per “l’agricoltura sostenibile, l’ecologia delle zone paludose, la sicurezza alimentare, l’alimentazione sana e lo sviluppo economico locale” (http://zengerfarm.org/about-the-farm). Questi esempi ci mostrano il meglio dello stile amministrativo di Portland, in cui i funzionari sono attenti ai bisogni dei cittadini, e i pianificatori e altri consulenti, gli amministratori e i funzionari eletti riconoscono e valorizzano le motivazioni e le azioni dei membri della comunità che lavorano per il bene comune. È una cultura del rispetto reciproco. Anche se le cose non sempre filano lisce e non sempre le decisioni vanno a buon fine, la storia di Portland sembra indicare che il processo di coinvolgimento del pubblico nelle politiche cittadine è importante quanto le politiche stesse. Conclusione L’evoluzione di una città è il prodotto della sinergia di varie istituzioni in un luogo abitato. Negli ultimi decenni Portland ha ottenuto punteggi elevati in classifiche basate su indici misurabili di soste218


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nibilità e vivibilità. Ciò è dovuto in buona parte alle sue singolari istituzioni che gestiscono l’uso del suolo, i trasporti ed altre componenti critiche del sistema urbano. Importante è anche il ruolo dei suoi piani regolatori, che servono da guide collaudate per iniziative coordinate. Forse la ragione di questa particolare storia cittadina va ricercata nella cultura della gente di Portland. In ogni caso, le istituzioni, i piani regolatori e la cultura sono tutti prodotti sociali, continuamente soggetti a essere creati e ricreati. Le istituzioni, la gente e la cultura non sono qualcosa di statico. Quelli che sono presentati come i successi di Portland sono ovviamente solo una parte della storia. Portland non è il nirvana. La città si trova ad affrontare gli stessi problemi di altre aree urbane degli Stati Uniti, come l’equità sociale, le tensioni razziali, il costo degli alloggi e il problema dei senzacasa. Altre questioni non risolte e oggetto di aspre controversie sono invece specifiche alla regione, e comprendono l’ammissibilità dell’agricoltura all’interno dell’area urbana, l’estensione dei percorsi ferroviari leggeri e la bonifica dei siti “Superfund” fortemente inquinati nel fiume Willamette. A livello regionale e statale, la legge sugli usi del suolo è stata oggetto di periodiche contestazioni, per quanto senza successo fino a quelle più recenti del 2004 e 2006; i risultati di queste ultime due consultazioni popolari hanno finito con l’allentare i vincoli per le proprietà poste al di fuori dei confini di crescita urbana, permettendo un’espansione edilizia di portata molto modesta. Tuttavia, anche se queste modifiche non hanno cambiato radicalmente l’intento della legge, la vicenda ci ricorda che le istituzioni non sono immutabili. Ovviamente c’è tanto lavoro ancora da fare. Portland e la sua regione continueranno ad evolversi e trasformarsi. Oggi, grazie a molte iniziative come quelle qui descritte, Portland è una città piacevole e vivibile. La sua storia è di insegnamento per l’urbanizzazione e la riurbanizzazione delle aree urbane anche nel resto del mondo, ma solo il futuro potrà dirci se queste lezioni saranno comprese, trasferite e applicate dai portlandesi e da altri.

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CONSERVAZIONE E VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI CONSERVATION AND ENHANCEMENT OF CULTURAL HERITAGE



Introduzione

In questa crisi economica, politica e culturale gravissima manca una politica della cultura. In una società post-industriale, dove i servizi svolgono un ruolo preminente e non soggetto a concorrenza internazionale, la cultura intesa come patrimonio e area produttiva non può che svolgere un ruolo centrale, fino ad ora totalmente disconosciuto. Cultura e turismo compongono il settore che meglio ha retto alla crisi. Inoltre il patrimonio culturale italiano illustra il ruolo cardine svolto dalla Penisola in Occidente, con primato assoluto e ininterrotto tra IX secolo a. C. e XVII d. C., quando venne il turno di altri luoghi del mondo. Se un indiano o un cinese vuole capire i caratteri dell’Occidente – utili per intendere l’Asia per contrasto – deve visitare il nostro paese. Ma quando vi atterra poco capisce della nostra storia, perché pochissimo spieghiamo. Per avviare un progetto della cultura organico occorrono competenze allargate alla produzione culturale, sia artistica sia imprenditoriale, e al turismo culturale. Il nostro patrimonio e la nostra creatività sono le fonti dell’identità dei popoli e della stessa capacità di essere cittadini pensanti e sono anche le fonti necessarie per consentire agli “altri” di capire radici e ragioni delle diverse civiltà. Ma siamo preparati al Global Tour? Occorre conservare per narrare arte, letteratura, istituzioni, vita quotidiana, ma anche scontri e conflitti. Occorrono luoghi ed edifici della memoria, come all’estero, dove si possa avere rapidamente l’idea di ciò che un Paese è stato ed ha rappresentato nei secoli. Dove si possa avere l’esperienza visiva ed emotiva della straordinaria molteplicità delle forme di vita storica, artistica, culturale, che esso ha generato e ospitato. Dove si possano conoscere i tanti e diversi modi della quotidianità quale si è manifestata nel tempo e nei luoghi. In Italia sono molti i musei dedicati alle antichità. Si tratta prevalentemente di raccolte di oggetti, riuniti in collezioni storiche o esposti per contesti. Esistono anche pochi musei o allestimenti specifici dedicati a quartieri della città o a complessi monumentali antichi, quali ad esempio a Roma il Museo della Crypta Balbi, il Museo dei Fori Imperiali o l’area archeologica di Palazzo Valentini. Manca tuttavia un luogo dove si possa narrare, spiegare e comprendere la città antica nel suo complesso, dalle origini alla sua definitiva destrutturazione, come successione di paesaggi, architetture, contesti e sistemi di contesti. I musei di antichità e le aree archeologiche aperte al pubblico non raccontano storie. In un passato recente non ce n’era bisogno. Le elite europee erano intrise di cultura classica. Esisteva dunque un dialogo a priori tra visitatori e oggetti o monumenti. Questo dialogo, che peraltro nasceva e si fortificava a distanza, non aveva bisogno di altro supporto se non quello di un luogo fisico dove le cose fossero protette, conservate e offerte alla curiosità culturale dei singoli. Questa realtà oggi non esiste più. Inoltre i monumenti che da sempre sono stati riusati e abitati, ad un certo momento sono stati “scarnificati e museificati” come rovine dagli archeologi. Da qui la necessità ancora maggiore al giorno d’oggi di coglierli sia nel dettaglio sia nel loro insieme nel tempo non solo antico. Almeno nel panorama italiano, non è facile trovare musei o aree archeologiche che spieghino sé stesse ai visitatori (il più delle volte esse infatti risultano incomprensibili anche a studiosi che non se ne siano occupati direttamente). La Storia e le storie degli uomini si sviluppano e si intrecciano con il passare del tempo. Restano, tangibili per noi, una serie di resti che costituiscono il corrispettivo materiale degli avvenimenti: il paesaggio, le architetture e gli spazi che compongono la trama del paesaggio, gli oggetti che le architetture contengono. Siamo abituati a percepire le cose – dalla più piccola alla più grande – come elementi statici e immutabili, come una quinta che fa da sfondo al nostro agire. Ma esse non sono solo questo. Si tratta piuttosto di tracce solide di processi, di testimonianza dell’identità delle persone – gruppi o singoli individui – che hanno vissuto e agito. Quasi pagine di un testo: materia che contiene e racconta 223


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una storia. Tuttavia, il tempo tende progressivamente ad usurare le cose, a rendere meno nitidi i nessi tra di esse e, di conseguenza, la successione degli avvenimenti, fino a cancellarne del tutto la testimonianza materiale. Il passato non è solo un’epoca che ci precede. È anche qualcosa non più visibile, non percepibile nella sua forma originaria. Se vogliamo conoscere e conservare il passato dobbiamo allora anche cercare e ricostruire. A questa ricerca e a queste ricostruzione può contribuire, per sua natura, l’archeologia. Un’archeologia che non selezioni a priori le proprie fonti di informazione, che non distingua tra cose belle e brutte, importanti e meno importanti, che aspiri a conoscere il passato attraverso contesti e sistemi di contesti, che non si arresti all’esame o alla classificazione delle poche testimonianze note ma faccia emergere anche ciò che è poco o mal noto. Un’archeologia capace di comprendere tutti gli indizi conservati in una nuova unità e di proporre procedure per integrare, ove possibile, le parti mancanti e proporre immagini che restituiscano realtà materiali scomparse e che ne illustrino trasformazioni e vita. Per narrare la storia di edifici, città e territori antichi, così come medioevali e moderni, bisogna conoscere, interpretare e ricostruire. Non è sufficiente aggiornare le tradizionali e fondamentali carte archeologiche. Bisogna creare immagini nuove per rappresentare l’aspetto fisico del paesaggio e le sue trasformazioni nel corso del tempo utilizzando non solo strutture e/o oggetti antichi, ma tutte le informazioni potenzialmente disponibili quali: le notizie contenute nelle fonti letterarie, l’iconografia antica e moderna, le carte storiche, ecc. La tecnologia ci offre strumenti potentissimi, in grado di gestire questa massa di documenti in sistemi informativi di notevole complessità. Strumenti in grado di aiutarci ad affrontare «nodi di problemi» attraverso la ricontestualizzazione di tutte le fonti di informazione disponibili nelle dimensioni spaziali, geografiche e temporali. Siamo convinti che la memoria di tutte le città possa essere ordinata nello spazio e nel tempo - grazie a sistemi informativi archeologici globali della città e del territorio - ricostruita e narrata. Abbiamo tentato di raccogliere questa sfida a Roma dove mancava uno strumento efficace per gestire tutte le informazioni necessarie a conoscere e ricostruire il paesaggio urbano. La scelta, tra le tante possibili, è caduta sul monte Palatino, cuore della città e “dimora dei potenti”. Inoltre abbiamo tentato di replicare lo stesso approccio metodologico a Pompei, caso di studio emblematico per la progettazione di modelli di gestione e conoscenza di aree archeologiche complesse e pluristratificate. Nel progetto di conservazione e fruizione del patrimonio archeologico del centro vesuviano recentemente presentato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la necessità di un presidio critico per la conoscenza e la “manutenzione programmata” del centro vesuviano è stata indicata come indispensabile. Manca ancora uno strumento informatico, già disponibile invece a Roma (vedi sopra), che consenta di gestire tutti i dati relativi ad un isolato, inclusi tutti i dettagli ricavabili da un’analisi stratigrafica sistematica e da una documentazione realizzata con le più avanzate tecnologie. I contenuti di questo sistema informativo in grado di assicurare il raggiungimento di tale obiettivo potrebbero essere opportunamente elaborati e modificati per creare un modello di attività con applicazioni pratiche, atto a formare un prototipo di gestione per un parco archeologico complesso e pluristratificato, inclusa la sperimentazione di tecnologie innovative per la tutela e la gestione dei Beni Culturali e la specializzazione di manodopera e imprese del settore. Andrea Carandini Paolo Carafa

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Introduction

In the current extremely serious economic, political and cultural crisis, we lack a politics of culture. In a post-industrial society where services play a preeminent role and one that is not subject to international competition, culture intended both as heritage and as an economic resource cannot but play a central role. So far, however, this role has gone completely unrecognized in our country. Culture and tourism are the sector that has best withstood the crisis. Besides, the Italian cultural heritage is the living memory of the key role played by Italy in the West, with an absolute and uninterrupted primacy from the ninth to the seventeenth century, when other places in the world took the lead. Today, if an Indian or a Chinese wishes to understand the West—and thus Asia by contrast—he must visit our country. But when he lands here he will understand very little about our history, because we explain very little. To get an organic cultural project under way, we need to extend available competences to include cultural production, both artistic and entrepreneurial, and cultural tourism. Our heritage and creativity are the sources of the identity of other peoples and of our very ability to be thinking citizens. They are also the sources that can help Others to understand the roots and raisons d’être of different civilizations. But are we really ready for the Global Tour? To narrate art, literature, institutions, everyday life, as well as clashes and conflicts, we need to preserve. We need places and buildings devoted to preserving memory, as are found in other countries, where one can quickly form an idea of what a country has been and has stood for over the centuries. Places providing a visual and emotional experience of the extraordinary multiplicity of forms of historical, artistic and cultural life that this country has generated and hosted. Places where one can learn about the many and diverse modes of everyday life, as it has manifested itself over time and space. In Italy there are many museums devoted to antiquities. They mainly house assemblages of objects reunited as historical collections or displayed by context. There are also a few museums or displays devoted to specific city neighborhoods or specific ancient monumental complexes, such as the Museum of the Crypta Balbi, the Museo dei Fori Imperiali, and the archaeological area of Palazzo Valentini, all in Rome. Rome lacks, however, a place narrating and explaining the ancient city as a whole, from its origins to its decline, as a succession of landscapes, architectures, contexts and systems of contexts. Archaeological museums and archaeological areas open to the public do not tell stories. Until not long ago, this was not a problem. The European elites where steeped in classical culture. There thus existed an a priori dialogue between visitors and artifacts or monuments. This dialogue— which, by the way, arose and flourished at a distance—did not need any other prop than that of a physical place where the objects were protected, conserved and offered to the cultural curiosity of individuals. Today this reality no longer exists. Furthermore, monuments that had been reused and inhabited since remote times were eventually “stripped down and made into museums”, into ruins, by archaeologists. Hence the even greater need today to understand these monuments both in their detail and as a whole, and in the context of modern as well as ancient time. It is not easy, at least in Italy, to find museums or archaeological areas that “explain themselves” to visitors—indeed, more often than not they are even incomprehensible for scholars who have not studied them directly. History and the stories of human beings evolve and intertwine over time. What remains that is tangible for us is a number of vestiges that constitute the material counterpart of events, landscapes, buildings and spaces that make up the fabric of landscapes, and the objects contained in the build225


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

ings. We are used to perceive things, from the smallest to the largest, as static and immutable, as a theater wing that provides a background for our actions. But they are not just that. Rather, they are material traces of processes, testimonies of the identity of people—groups or individuals—who lived and acted. They are almost like the pages of a text, matter that contains and tells a story. However, time tends to progressively wear down things, to dim the connections between them and, consequently, the succession of events, until it completely erases material testimonies. The past is not just an epoch that comes before us. It is also something that is no longer visible, no longer perceivable in its original form. If we wish to know and preserve the past, we also need to search and reconstruct. By its very nature, archaeology can contribute to this search and reconstruction. It should be an archaeology that does not select its sources of information a priori, that makes no distinction between beautiful and ugly things, or important and less important ones, an archaeology that aspires to learn about the past through contexts and context systems, but does not stop at the examination or classification of the few known testimonies, but also brings to the surface what is little known or poorly understood. An archaeology capable of interpreting all the clues preserved in a new unit and propose methods to integrate missing parts, whenever possible, and propose images bringing back to life lost material realities, and illustrating their transformations and life. To tell the story of buildings, cities and landscapes in antiquity, as well as in the Middle Ages and in modern times, we need to learn, interpret and reconstruct. It is not enough to update our traditional and fundamental archaeological maps. We need to create new images to represent the physical appearance of the landscape and its transformation in the course of time, using not only ancient structures and/or objects, but all potentially available information, such as literary sources, ancient and modern images, historical maps, etc. Technology offers very powerful tools, capable of managing this mass of documents in highly complex information systems. These tools can help us to deal with “problematic nodes” by recontextualizing all available sources of information in the spatial, geographical and temporal dimension. It is our firm belief that global archaeological information systems can order the memory of all cities in space and time, and reconstruct and narrate it. We have tried to take up this challenge in Rome, which lacked an effective tool for the management of all the information required to understand and reconstruct its urban landscape. Our choice, among many possibilities, fell on the Palatine Hill, the heart of the city and the “dwelling place of the powerful”. We have also tried to apply the same methodological approach to Pompeii, an emblematic case-study for the planning of models for the management and interpretation of complex and multi-stratified archaeological areas. In the project for the conservation and public accessibility of the archaeological heritage of Pompeii we recently submitted to the Ministry for Cultural Heritage and Activities, we stress the need for an observatory for the study and “programmed maintenance” of the Vesuvian town. We still lack a computer tool, which is instead already available for Rome (see above), capable of managing all the data regarding a building block in Pompeii, including the information obtainable from systematic stratigraphic analysis and a documentation put together using the latest technologies. The data stored in such an information system could be processed and modified to generate an activity model with practical applications, a suitable prototype of a system for the management of a complex and multi-stratified archaeological park, including the experimenting with innovative technologies for the conservation and management of cultural heritage and specialized training for workers and companies active in the sector. Andrea Carandini Paolo Carafa

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Palatium. Il Palatino, dimora dei potenti Daniela Bruno

Introduzione Il cuore di Roma è un monte chiamato Palatium, Palatino. Per gli antichi esso coincideva con la prima città, cinta da mura e benedetta dagli dèi, fondata da Romolo otto secoli prima di Cristo; anche per i moderni si tratta di un luogo dal valore storico inestimabile, un’area archeologica in cui si addensano le testimonianze di un lontano passato, scampate all’urbanizzazione post antica e pertanto in alcuni punti straordinariamente conservate. La città moderna, infatti, non ha mai occupato questo angolo dell’antica Roma, la cui vita sembra essersi spenta con il declino dell’impero. Tra V e VIII secolo d.C. tutti gli edifici palatini furono abbandonati, alcuni finirono sepolti da cumuli di detriti, altri lasciarono spazio a cimiteri o piccoli luoghi di culto, altri ancora, esposti alla rovina del tempo, subirono crolli e ruberie; orti e vigne a poco a poco ricoprirono l’intero monte fino a che, a partire dal XV-XVI secolo, si diede

Fig. 1. Il Palatino oggi, con evidenziate le aree occupate dai quattro nuclei edilizi che componevano il sistema dei palazzi imperiali. (Tutte le immagini sono ricostruzioni ed elaborazioni grafiche di D. Bruno). The Palatine today, showing the areas occupied by the four building units creating the system of imperial palaces. (All images are reconstructions and graphics by D. Bruno). 227


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inizio agli scavi archeologici, dapprima finalizzati al recupero di materiale prezioso, poi sempre più a scopo conoscitivo, e il paesaggio cambiò di nuovo, fino a divenire quello odierno (fig.1) *. Le mastodontiche rovine dei palazzi imperiali dominano il Palatino che oggi si visita. È qui, infatti, che tra I e IV secolo d.C. gli imperatori stabilirono la dimora ufficiale, dando vita ad una tipologia edilizia innovativa, il palazzo, che avrebbe avuto largo seguito nelle province e nei secoli a venire. Non si trattava solo di un’abitazione, per quanto grande e lussuosa, ma di un complesso edilizio in grado di ospitare funzioni private e pubbliche, residenziali, di rappresentanza e perfino religiose, in relazione allo status speciale dell’imperatore. La reggia, sempre più grandiosa ed articolata, finì con il tempo per identificarsi con il monte Palatino, e fu così che il toponimo Palatium cominciò ad essere adoperato per indicare il palazzo imperiale che su di esso sorgeva, e poi il palazzo in genere, dovunque fosse1. Vi era in questo slittamento semantico un principio di semplificazione, ma anche l’idea che il palazzo imperiale rappresentasse e sintetizzasse l’intero paesaggio palatino di epoca imperiale. Alla luce dell’analisi archeologica e della ricostruzione topografica condotta sull’intero Palatino, nelle due dimensioni spaziale e cronologica, il palazzo imperiale ci appare oggi ancora più significativo dell’intero paesaggio: la sua nascita, infatti, è l’esito di una lunga tradizione che ha visto i capi, i re, i potenti e infine gli imperatori fissare qui la propria dimora; le sue caratteristiche, le soluzioni architettoniche, le funzioni degli spazi o le valenze simboliche di alcune sue parti, che appaiono innovative rispetto al resto di Roma e del mondo romano, trovano invece confronto e spiegazione nelle precedenti esperienze residenziali sul Palatino, conoscere le quali, pertanto, si è rivelato indispensabile. Raccontare il palazzo imperiale diviene così l’occasione per delineare la storia del paesaggio di questo angolo di città, visto alla luce della sua vocazione residenziale di altissimo rango. Dietro al moderno termine “palazzo”, del resto, non si nasconde solo un importante monumento della Roma antica, il palazzo imperiale, ma l’intero Palatino, distintosi fin dai primordi come sede del potere. Le case dei re Secondo gli autori antichi, ancor prima che la città fosse fondata, in un’epoca sospesa tra mito e storia, avrebbe abitato sul Palatino il malvagio brigante Caco (dal greco kakòs, “il cattivo”), re dei Siculi e capo del villaggio di pastori che occupavano allora il sito di Roma. La sua abitazione sarebbe sorta al termine di ripide scale che salivano dall’angolo sud-occidentale del monte e che proprio da lui avrebbero preso il nome di scalae Caci2. In un periodo che lo storico Dionigi di Alicarnasso faceva risalire alla metà del XIII secolo a.C.3, secondo la leggenda al mitico Caco sarebbe successo Evandro4 (dal greco eu-andròs, “l’uomo buono”), re degli Arcadi, capo di una spedizione di coloni provenienti dalla Grecia, fondatore di un abitato sul Palatino denominato Pallantion5 e di una serie di culti che avrebbero avuto lunga fortuna presso i Romani: Vittoria, Fauno Luperco, Conso e Cerere. Il poeta Virgilio, raccontando l’arrivo dell’eroe Enea in quegli stessi anni nel sito di Roma6, immaginava che ad accoglierlo ci fosse stato proprio Evandro e che la sua reggia fosse situata alle pendici settentrionali del monte, dove sarebbero stati il Foro e il santuario di Vesta e le dimore dei re di epoca urbana; ma era solo una fantasia, o meglio l’erudita ricostruzione di un intellettuale.

Dione Cassio, 53.16.5-6. Diodoro Siculo, 4.21. 3 La data è fissata a “sessant’anni prima della guerra di Troia” in Dionigi di Alicarnasso, 1.31.1-1.32.3. 4 Narra la leggenda che Caco, all’arrivo di Evandro, dovette trasferirsi in una buia grotta ai piedi dell’Aventino, monte alternativo al Palatino per posizione, carattere e fortuna. Fu l’eroe Ercole, che nel suo lungo peregrinare fece tappa nel sito di Roma nel 1235 a.C., a risolvere definitivamente il conflitto tra nuovo e vecchio capo, Evandro e Caco, uccidendo quest’ultimo nel crollo della stessa grotta. Solino, 1.7; Properzio, 4.9.10-15; Ovidio, Fasti, 1.555; Virgilio, Eneide, 8.193, 231, Dionigi di Alicarnasso, 1.34. 5 Dalla città omonima in Arcadia, nella madrepatria, pochi chilometri a sud dell’odierna Tripoli, nel cuore del Peloponneso. 6 Virgilio, Eneide, 8.102 ss. 1 2

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Prima che la città nascesse, infatti, e il Foro divenisse il suo fulcro, dominavano questa parte dell’esteso abitato di epoca proto-urbana, denominato Septimontium, le rocche naturalmente fortificate di Palatium, Velia e Cermalus. La Velia era un monte a sé, mentre Palatium e Cermalus erano le due cime dell’altura del Palatino, oggi non più percepibili perché intaccate dalle costruzioni antiche: la prima occupava il centro del pianoro superiore del monte, mentre la seconda dominava l’angolo sud-occidentale. Si trattava dei tre monti di più antica abitazione, su cui erano insediamenti almeno fin dall’XI-X secolo a.C., attestati da rinvenimenti ceramici sporadici databili all’età del Bronzo finale (Periodo Laziale I). Entrambe le cime del Palatino ospitavano intorno al X secolo a.C. (Periodo Laziale II, Fase A) villaggi di capanne, alcune delle quali messe in luce dagli scavi, costruite con legno e muri di argilla e paglia e con tetto di rami. Vi abitavano pastori, ma anche personaggi di spicco della comunità come il guerriero o sacerdote che fu sepolto con un ricchissimo corredo ai margini dei due abitati e la cui tomba è venuta alla luce scavando la cosiddetta Casa di Livia7. Era forse la dimora di un capo villaggio la grande capanna ovale che nel IX secolo a.C. circa occupava il ciglio meridionale del Cermalus, costruita su un terrazzamento naturale posto al termine delle c.d. scale di Caco e della quale sono ancora visibili i solchi per le fondazioni dei muri e i buchi per i pali di legno scavati nel morbido tufo del monte. Intorno all’VIII secolo a.C. al suo posto furono elevate due capanne più piccole e tangenti; nello spazio antistante quella minore, inoltre, gli scavi dell’inizio del 1900 hanno messo in luce una fossa e un primitivo altare di pietra, destinati a durare, attraverso vari rifacimenti, fino alla fine dell’età antica8 (fig.2).

Fig. 2. Capanne sul Cermalus identificate con le case di Faustolo e del fondatore Romolo. Huts on Cermalus identified with the houses of Faustulus and of Romulus the founder.

Proprio qui, secondo la leggenda, sarebbe stata la modesta abitazione (tugurium) del pastore Faustolo9 e della moglie Acca Larenzia, l’umile famiglia che avrebbe allevato Romolo e Remo abbandonati in fasce in una cesta trasportata dal Tevere in piena fortunosamente arenatasi alle pendici del Palatino, presso il santuario di Fauno Luperco o Lupercale, alla base delle suddette scalae Caci10. Proprio qui, inolE. Gjerstad, Early Rome, III, Lund, 1960, pp. 63-71. Le strutture furono messe in luce da D. Vaglieri nel 1907 (D. Vaglieri, Scavi al Palatino, in Notizia degli Scavi di Antichità,1907, p. 185 ss. e 529 ss.). Per un’analisi dei dati si veda P. Brocato, Dalle capanne dei Cermalus alla Roma Quadrata, in A. Carandini, R. Cappelli, a cura di, Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Milano, 2000, pp. 284-287; per un ulteriore e più recente contributo, arricchito da nuove scoperte: F. Coletti, S. Falzone, F. Caprioli, Nuove acquisizioni sul villaggio capannicolo del Cermalus, in Scienze dell’Antichità, 13, Roma, 2006, pp. 357-387. 9 Solino 1.8; Zonara 7.3.9. 10 Varrone in Solino, 1.18.

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tre, gli autori antichi localizzavano la successiva casa o aedes Romuli, la dimora di Romolo ormai adulto e re, e l’adiacente curia Saliorum o sacrario di Marte e Ops, le divinità garanti della regalità11. Proprio qui, infine, la tradizione ambientava lo scavo di una fossa e l’accensione del primo focolare regio, due dei riti di fondazione che avrebbero coinvolto l’intero Palatino destinato a divenire urbs inaugurata, cioè benedetta dagli dèi, con il nome di Roma Quadrata12. A partire dalla prima generazione di re, forse da Romolo, e certamente da Numa ad Anco Marcio, sappiamo che la dimora regia con il focolare e l’annesso culto di Marte e Ops, pur rimanendo sul Palatino, furono traslati dal Cermalus, rocca dell’abitato proto-urbano, alle pendici settentrionali, all’interno del nuovo santuario cittadino dedicato a Vesta, ai margini del Foro. Anche qui, come sul Cermalus, si trova una sorprendente coincidenza di fonti letterarie e dati archeologici: in questo lotto, infatti, gli scavi hanno messo in luce una serie ininterrotta di residenze, la più antica delle quali risale proprio al 750 a.C. circa13. Costruita con muri di argilla e paglia, con tetto di rami e con un piccolo portico sostenuto da grandi pali di legno, questa domus Regia fu ampliata nel corso della seconda metà dell’VIII secolo, fino ad assumere forma e dimensioni che trovano confronti ad oggi solo con le regge etrusco-laziali, sebbene di poco più recenti14. La seconda generazione di re, i Tarquini, in nome di un’impostazione laica dello Stato che derivava loro dalla tradizione tirannica greca, separarono la reggia dai suoi culti15: destinarono l’antica domus Regia al rex sacrorum, un re-sacerdote che incarnava i poteri in materia religiosa prima detenuti dallo stesso re, e trasferirono la loro residenza appena fuori dal limite del santuario di Vesta. La domus Tarquiniorum, che con la proclamazione della Repubblica sarebbe divenuta la domus Publica, la sede del pontefice massimo, è stata anch’essa oggetto di indagini archeologiche: grazie ad esse, peraltro ancora in corso, sappiamo che aveva muri in blocchi di tufo e che, forse già dalla fine del VI secolo a.C., possedeva un impianto planimetrico compatibile con l’adozione di un atrio cruciforme16. A pochi metri di distanza da questa dimora, sulle stesse pendici settentrionali del Palatino, gli scavi hanno portato alla luce i resti di un intero isolato costituito da quattro grandi abitazioni, ugualmente in opera quadrata di tufo, con pavimenti in scaglie di pietra e fognature e cisterne per la raccolta dell’acqua; sono datate per via stratigrafica al 530 a.C. e la più conservata delle quattro mostra con maggiore affidabilità una planimetria ad atrio. Si tratta molto probabilmente delle abitazioni di uomini di rango, di aristocratici che scelsero di risiedere vicino al re e forse ne imitarono la dimora, dando seguito ad un modello di domus centrata sull’ambiente dell’atrio, che avrebbe caratterizzato per sempre l’edilizia privata romana17 (fig. 3). A partire dalla metà dell’VIII secolo a.C., dunque, i re e i più alti dignitari occuparono le pendici settentrionali del monte, una fascia di terreno in pendio, compresa tra la cinta muraria dell’epoca romulea e il ruscello naturale che solcava la valle tra Palatino e Velia, affiancato nel tempo da un percorso che conduceva al Foro e al Campidoglio, la Sacra via. Intorno alla metà del VI secolo a.C., demolite le mura palatine ormai obsolete (ma conservate simbolicamente le porte), e riempito il ruscello, già trasformato in un fossato, in quest’area prese piede un vero e proprio quartiere di residenze di élite, che traevano Varrone Della lingua latina, 5.54; Dionigi di Alicarnasso, 1.79.11; Plutarco, Vita di Romolo, 20.5-6; Dione Cassio, 53.16.5; Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 19.1.11.75. 12 Ovidio, Fasti, 4.820. 13 Per una sintesi aggiornata sui dati di scavo e per le planimetrie archeologiche e ricostruttive, si rimanda al contributo di Dunia Filippi, in A. Carandini, a cura di, Atlante di Roma antica, I, Milano, 2012, Regione VIII, pp. 150-156 e tavole relative. 14 Si fa riferimento, ad esempio, alle regge di Murlo o Acquarossa, scoperte in Toscana e Umbria, datate al VII secolo a.C. 15 Anche i culti di Marte e Ops furono trasferiti in un edificio creato appositamente alla fine del VII secolo a.C., vicino al santuario, ma al di là del vicus Vestae, noto in seguito come Regia. 16 Si tratterebbe di un’attestazione assai precoce di questo tipo di abitazione finora noto solo a partire dal III secolo a.C. Eppure, se si esce dall’ambito romano e laziale, nei centri etruschi di Regae, il porto di Vulci (oggi Montalto di Castro) e Roselle, si trovano case ad atrio cruciforme della fine del VI secolo a.C., cui seguono, alla metà del V secolo a.C., edifici analoghi scavati a Marzabotto. 17 Sull’origine della casa ad atrio a partire dagli esempi palatini, con bibliografia e confronti, si veda P. Carafa, Le domus della Sacra via e l’origine della casa italica da atrio, in A. Carandini, P. Carafa (a c. di), Palatium e Sacra via, I, Bollettino di Archeologia, 31-33, Roma, 1995, pp. 266-274. 11

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Fig. 3. Case ad atrio alle pendici settentrionali del Palatino, 530 a.C. circa. Atrium houses on the northern slopes of the Palatine, around 530 BC.

prestigio dalla posizione, nel cuore pulsante della città, vicino al Foro e al centro sacrale dello Stato, il santuario di Vesta, dove un tempo si trovavano le case dei re. Le case dei potenti Nel corso dell’età repubblicana la vocazione residenziale si estese all’intero Palatino18 (fig. 4), scelto come dimora dai nuovi potenti, consoli e magistrati, aristocratici di sangue e homines novi. Fonti epigrafiche e letterarie permettono di localizzare sul monte le domus di gran parte dei protagonisti della scena pubblica cittadina, da M. Valerius Volusius, console nel 505 a.C., ad Ottaviano Augusto, iniziatore della forma politica del principato19. I resti archeologici relativi a quest’epoca, d’altro canto, dove riUniche aree sacre di antichissima istituzione che mai scomparvero dal paesaggio palatino erano il santuario di Victoria e Magna Mater, all’angolo sud-occidentale del monte, quello di Fortuna Respiciens, sul versante orientale, e l’area sacra delle curiae Veteres, all’angolo nord-orientale. Vi era inoltre un tempio, sorto forse in coincidenza di un più antico luogo di culto, forse dedicato a Luna Noctiluca, sulla cima del Palatium. 19 Si elencano in ordine alfabetico i personaggi di cui sono documentate proprietà sul Palatino: Aelii Tuberones, M. Aemilius Scaurus (cos. 115 a.C.), M. Aemilius Scaurus (aed. 58 a.C.), T. Annius Milo (pr. 55 a.C.), M. Antonius (triumvir 43-38 a.C.), P. Autronius Paeto (cos. des. 65 a.C.), Caecilia Metella, Q. Caecilius Metellus Celer (cos. 60 a.C.), Q. Caecilius Metellus Numidicus (cos. 109 a.C.), C. Caecina Largus, M. Caelius Rufus (pr. 48 a.C.), P. Caesetius Rufus, Calpurnia, L. Calpurnius Piso Caesoninus (cos. 58 a.C.), L. Calpurnius Piso Pontifex, M. Claudius Marcellus (cos. 222, 215, 214, 210, 208 a.C.), M. Claudius Marcellus (cos. 51 a.C.), Ti. Claudius Nero, A. Claudius Pulcher, Clodia, P. Clodius Pulcher, L. Cornelius Chrysogonus, P. Cornelius Lentulus Spinther (cos. 57 a.C.), P. Cornelius Scipio Nasica, P. Cornelius Silla (cos. 66 a.C.), M. Fadius Gallus, Fulvia, M. Fulvius Flaccus (cos. 125 a.C.), Hortensia, Q. Hortensius Hortalus, Q. Hortensius Hortalus, Iulia, C. Iulius Caesar, C. Iulius Caesar Octavianus Augustus, Licinia, C. Licinius Macer Calvus, L. Licinius Crassus (cos. 95 a.C.), M. Licinius Crassus (cos. 70 a.C.), P. Licinius Crassus, Livia, M. Livius Drusus (tr.pl. 91 a.C.), Q. Lucretius Vespillo, Q. Lutatius Catulus (cos. 102 a.C.), Q. Lutatius Catulus (cos. 78 a.C.), Marcia, L. Marcius Censorinus (cos. 39 a.C.), Q. Marcius Rex (cos. 68 a.C.), C. Marius, Mucia, C. Octavius, Cn. Octavius (cos. 165 a.C.), L. Octavius (cos. 75 a.C.), Pacilii, Q. Pompeius (cos. 141 a.C.), M. Porcius Cato Uticensis, Publilia, Roius Hila18

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Fig. 4. Palatium e Cermalus, 111-36 a.C. Palatium and Cermalus, 111-36 BC.

sparmiati dalle costruzioni imperiali, hanno confermato la continuità e la densità di questo fenomeno abitativo, offrendo anche stavolta suggestive coincidenze con quanto narrato dagli autori antichi. A favorire una simile concentrazione di illustri proprietari, che nell’ultimo secolo della Repubblica divenne un vero e proprio affollamento, non era più solo la vicinanza del quartiere con il fulcro della vita pubblica della città, ma anche la bellezza del luogo, che offriva panoramici affacci sul paesaggio urbano, per non dire della sua storia, che rimandava alla nascita di Roma e affondava in un passato tanto lontano quanto leggendario. Il motivo principale che spingeva gli aristocratici a cercare casa sul Palatino, tuttavia, era proprio la fama che esso aveva di dimora dei potenti, che risaliva a sua volta alla tradizione sulle case dei re che da sempre qui sorgevano, prima fra tutte quella del fondatore Romolo. Vi era infine un fenomeno di imitazione, una moda, per cui abitare sul Palatino costituiva il simbolo di uno status economico, sociale e politico ormai raggiunto, o il mezzo per tentare di raggiungerlo. Alla fine del IV secolo a.C. da qualche parte sul Palatino abitava M. Vitruvius Vaccus, aristocratico di Fundi, leader di una rivolta fallita contro Roma, che gli costò la confisca di tutti i beni compresa la casa; il Senato scelse di demolirla e di lasciare un vuoto al suo posto, i Vacci prata, perché fossero evidenti le conseguenze di simili ribellioni20. Lo stesso avvenne nel 121 a.C. con M. Fulvius Flaccus: al posto della rio, L. Roius Auctus, Rubellia Bassa, Rutilia, P. Rutilius Nudus, Q. Seius Postumus, C. Sempronius Gracchus (tr. pl. 123 a.C.), Ti. Sempronius Gracchus (cos. 177, 163 a.C.), Ti. Sempronius Gracchus (tr. pl. 133 a.C.), T. Statilius Sisenna, T. Statilius Taurus, Terentia, Tettius Damion, C. Trebatius Testa, Tullia, M. Tullius Cicero (cos. 63 a.C.), Q. Tullius Cicero, M. Valerius Messala Corvinus, M. Vipsanius Agrippa. Le fonti letterarie relative ai personaggi citati sono raccolte in Lexicon Topographicum Urbis Romae, ad v. domus, vol. II, Roma, 1995. 20 Livio, 8.19.4; Cicerone, La casa, 38. 232


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sua domus, situata probabilmente sul ciglio occidentale del monte, fu lasciato uno spazio libero, l’area Flacciana, da non destinare più ad abitazione, ma semmai a monumento pubblico: venticinque anni dopo, infatti, vi sarebbe sorta la porticus Catuli21. Simili provvedimenti dovevano la loro efficacia alla visibilità che offriva il possedere una casa sul Palatino, nel bene e nel male. La domus del famoso oratore M. Tullius Cicero, che doveva occupare l’angolo nord-occidentale del Palatino, sorgeva a suo dire nel posto più bello di Roma, con vista su Foro, Campidoglio e Velia, in una posizione soprelevata tale che l’intera città da lassù pareva offrirsi allo sguardo; tuttavia, era motivo di vanto anche il contrario, ovvero che la casa fosse sotto gli occhi dell’intera città, in conspectu prope totius urbis22: questo chiese M. Livius Drusus, tribuno della plebe nel 91 a.C., all’architetto che costruiva la sua abitazione, che un giorno sarebbe appartenuta allo stesso Cicerone: “se hai un po’ di talento disponila in modo che qualunque cosa io faccia possa essere veduta da tutti”23. L’esposizione che conferiva l’abitare qui giocava un ruolo nella carriera politica, era uno strumento di propaganda. C’era chi sosteneva che il bel palazzo in cui abitava Cn. Octavius, alle pendici settentrionali del Palatino, gli fosse valso il consolato nel 165 a.C.24; oppure chi, come C. Sempronius Gracchus, decise di trasferire la propria dimora dal Palatino al popolare quartiere del Foro, sbandierando così la rinuncia ai privilegi aristocratici e l’adesione alla causa della plebe di cui nel 121 a.C. era tribuno25. Anche il generale C. Marius intravide nel prendere casa sul Palatino la possibilità di partecipare alla vita politica, da cui le lunghe campagne militari e un carattere non propenso alle relazioni sociali lo avevano allontanato26. E lo stesso pensò Cicerone quando con un grande sforzo economico acquistò la domus di un certo P. Crassus, forse il figlio di M. Licinius Crassus27, che si trovava a breve distanza dalla domus Publica28, cioè sul versante nord-occidentale del Palatino: clienti e amici, che frequentavano quotidianamente il vicino Foro, con poco sforzo avrebbero raggiunto la sua casa. La presenza di Cicerone attirò a sua volta nuovi abitanti nel quartiere: ad esempio il giovane rampante M. Caelius Rufus, che prese un appartamento in affitto nel vicino isolato, dov’era la casa di P. Clodius Pulcher, per restare vicino all’oratore e al suo circolo di conoscenti29, oppure M. Fadius Gallus, un amico dello stesso Cicerone, procuratore per lui di opere d’arte, impaziente di acquistare una proprietà adiacente alla sua, che quasi consentisse ai due di vivere insieme30. Accanto agli homines novi che vedevano nel risiedere sul Palatino l’occasione di un’ascesa, vi era una serie di famiglie radicate sul monte da generazioni, che annoveravano nobili antenati e il cui prestigio si rifletteva sull’intero quartiere. Alle pendici settentrionali, ad esempio, avevano abitato nel corso del I secolo a.C. almeno otto esponenti della famiglia dei Licinii31; le loro proprietà si distribuivano attorno al Cicerone, La casa, 102. Cicerone, La casa, 100, 103, 132. 23 Velleio Patercolo 2.14. 24 Cicerone, I doveri, 1.138. 25 Plutarco, Caio Gracco, 12.1. 26 Plutarco, Mario, 32. 27 Pseudo Sallustio, Invettiva contro Cicerone, 3; Pseudo Cicerone, Invettiva contro Sallustio, 14.20. Sulla ricostruzione dei passaggi di proprietà di questa casa si vedano i contributi di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 96-97. 28 Cicerone, Lettere ad Attico, 2.24.3. 29 Cicerone, Difesa di Celio, 7.17-18. 30 Cicerone, Lettere ai familiari, 7.23. 31 C. Licinius Macer Calvus, uno storico di fama, e il figlio C. Licinius Calvus, un poeta amico di Catullo, abitavano tra gli anni 70 e il 47 a.C. in cima alle scalae Anulariae, all’angolo nord-occidentale del monte. Un Licinius Crassus, forse il futuro triumviro Marcus, risedette tra 78 e 62 a.C. nella domus che sarebbe stata di Cicerone. Una Licinia, sposata con un certo Dexius, deteneva la proprietà adiacente a quella dello stesso oratore negli anni 51-46 a.C. Una seconda Licinia, moglie invece di Rutilius Nudus, aveva ereditato una dimora storicamente appartenuta alla famiglia, soprannominata domus Liciniana, piccola ma incastonata nel prestigioso isolato adiacente al lucus Vestae. L’oratore L. Licinius Crassus, inoltre, console nel 95 a.C., risiedeva qui in una abitazione adiacente a quella di M. Aemilius Scaurus, nell’isolato all’angolo tra Sacra via e c.d. clivo Palatino (vedi infra); entrambe le case sono state identificate con i resti di lussuose abitazioni coeve messi in luce da estesi scavi, per i quali si veda: A. Carandini, E. Papi (a c. di), Palatium e Sacra via, II, in Bollettino di Archeologia, 59-60, 1999, Roma, 2005. Anche la figlia di quest’ultimo Licinio, potrebbe aver vissuto qui, con il marito C. Marius, figlio del famoso generale (Plutarco, Mario, 35.9-12). Infine, è possibile che la casa di C. Sempronius Gracchus, tribuno della plebe nel 121 a.C., appartenesse in realtà a sua moglie Licinia e dunque si trovasse in questa stessa zona del Palatino (Plutarco, Caio Gracco, 12.1, 15.5, 17.5). 21 22

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santuario di Vesta, cui la gens era in qualche modo legata32. Anche i Claudii avevano storicamente sede sul Palatino, e in particolare sul Cermalus, nell’area retrostante il santuario di Victoria e Magna Mater33; la loro devozione nei confronti di quest’ultima divinità, che forse li spinse a cercare casa in zona, affondava le radici nel mitico racconto dell’arrivo di Cibele a Roma, trainata a mano dalla matrona Claudia Quinta, di cui una statua campeggiò per secoli nel vestibolo del tempio34. Infine, sul versante del monte rivolto al Circo Massimo, si trovavano almeno tre abitazioni di membri della gens Cornelia35. La presenza di questi addensamenti, non casuali, cela forse la volontà di costituire attorno ad alcune abitazioni nuclei di aggregazione gentilizia, forse in parte finalizzati alla costruzione e al mantenimento di utili alleanze politiche. Del resto, a partire dal II secolo a.C., lo spazio privato della domus aveva mutato carattere qualificandosi come luogo di attività politica alternativo a quelli istituzionali: tra le pareti di casa gli uomini più influenti, per lo più residenti sul Palatino, stringevano alleanze e macchinavano congiure, radunavano bande o dirigevano agguati, difendevano e alimentavano i poteri personali che avrebbero minato la solidità dello Stato repubblicano. Eserciti di clienti e sostenitori affollavano le strade circostanti le abitazioni di alcuni personaggi: tre o quattro mila cittadini seguivano Ti. Sempronius Gracchus quando usciva dalla sua dimora palatina36; la stessa casa era protetta da molti che vi bivaccavano intorno, trascorrendovi la notte, temendo assedi come ad un fortino37. Il termine arx, roccaforte, usava Cicerone a proposito della casa di P. Cornelius Silla, scelta come quartier generale da P. Clodius per sferrare un violento attacco alla dimora del suo nemico T. Annius Milo, che si trovava sul Cermalus: nel mezzo della giornata, all’ora quinta, fiaccole incendiarie e assalti di uomini armati, avevano trasformato il ricco quartiere residenziale del Palatino in un campo di battaglia38. Dato l’affollamento sul monte, poteva accadere che non solo gli amici, ma anche i nemici fossero vicini di casa, confinanti o dirimpettai, come M. Livius Drusus e M. Fulvius Flaccus, ma soprattutto come M. Tullius Cicero e P. Clodius, che mezzo secolo dopo avrebbero abitato nelle loro stesse case e curiosamente perpetuato lo stesso odio39. Nello scontro tra gli ultimi due, destinato a restare alla storia grazie ai racconti dello stesso Cicerone, alle ragioni di natura politica si sommarono le ambizioni personali di Clodio, che per la prima volta in maniera del tutto inconsueta trovarono sfogo nella realizzazione di un megalomane progetto edilizio (fig. 5). Tra 58 e 57 a.C., infatti, Clodio si impadronì con prepotenza40 delle proprietà confinanti con la sua, compresi un monumento pubblico, la porticus Catuli, e la casa di Cicerone, che una legge ad personam da lui ideata condannò all’esilio e alla confisca dei beni. Su una superficie straordinaria di oltre 6000 mq, diede così avvio ad un impianto architettonico basato su un peristilio lungo 300 piedi (m 88,63),

Causa o effetto di tale legame potrebbe essere il fatto che molti pontefici massimi appartenevano a questa gens. Abitavano certamente qui il tribuno della plebe P. Clodius, aristocratico di nascita, figlio di Ap. Claudius Pulcher e di Metella, e sua sorella Clodia, moglie di Q. Caecilius Metellus Celer, ma anche amante del giovane vicino di casa M. Caelius Rufus, oltre che amata da Catullo con lo pseudonimo di Lesbia. Sullo stesso versante del monte, inoltre, vicina a quella di Cicerone, era stata la casa di M. Claudius Marcellus, console nel 51 a.C. Un terzo ramo di questa gens, infine, possedeva una abitazione in questo gruppo di isolati, i Claudii Nerones: capostipite era Ti. Claudius Nero, primo marito di Livia, padre naturale del futuro imperatore Tiberio. 34 Ovidio, Fasti, 4.247-372; Valerio Massimo, 1.8.11; Tacito, Annali, 4.64.3. 35 Si trattava di P. Cornelius Lentulus Spinther, figlio dell’omonimo console nel 57 a.C., di L. Cornelius Chrysogonus, ricchissimo liberto del dittatore Silla (Cicerone, Difesa di Sestio Roscio, 133), e di P. Cornelius Silla, console nel 66 a.C. (Cicerone, Lettere ad Attico, 4.3.3). 36 Aulo Gellio, Notti Attiche, 2.13.4. 37 Plutarco, Ti. Gracco, 16.3. 38 Cicerone, Lettere ad Attico, 4.3.3. 39 Per un racconto dello scontro tra Cicerone e Clodio, sostanziato da fonti archeologiche e letterarie, si veda il contributo di D. Bruno, in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 128-138. 40 Appoggiato dalla moglie Fulvia, si spinse perfino all’omicidio del vicino Q. Seius Postumus, che si era rifiutato di vendere alla coppia la propria abitazione (Cicerone, La casa, 115; Cicerone, Il responso degli aruspici, 30). 32 33

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Fig. 5. Il fronte del Palatino rivolto al Velabro, dov’erano le case di Cicerone e Clodio. The front of the Palatine turned to Velabro, where were the houses of Cicero and Clodius.

che avrebbe cambiato per sempre l’assetto urbanistico di questa parte del quartiere (fig. 5). Del progetto di Clodio, recenti indagini hanno messo probabilmente in luce le tracce: muri in opera reticolata tipica dell’epoca e massicce fondazioni che definiscono una gigantesca costruzione rettangolare affacciata sul Velabro41, difficilmente non riferibile a quanto descritto da Cicerone a proposito della porticus agognata da Clodio. La particolarità dell’impianto, che forse ispirò il progetto della futura domus Tiberiana, era il fatto di essere pensile, ovvero sorretto da concamerazioni voltate e percorso da gallerie che mantenevano in funzione la viabilità del quartiere, altrimenti compromessa da una costruzione tanto estesa, quanto l’intero versante occidentale del monte. Il desiderio di ampliare la propria abitazione a discapito di quelle vicine è un fenomeno che sul Palatino vide protagonista anche M. Aemilius Scaurus, edile nel 58 a.C., figlio dell’omonimo console nel 115 a.C., della cui casa conosciamo l’esatto indirizzo: all’angolo tra Sacra via e c.d. clivo Palatino42 (fig. 6). Sappiamo che Scauro accorpò alla sua le domus confinanti di L. Octavius e L. Licinius Crassus e che nel 58 a.C., all’apice della sua carriera, intraprese una ristrutturazione destinata a restare nella storia: fece trasportare in casa sua, infatti, quattro colonne di marmo nero, alte 38 piedi (m 11,2), smontate dalla Si vedano in proposito i contributi di F. Carbone, F. Sforza, E. Monaco, M. Maietta in M.A. Tomei, M.G. Filetici (a c. di), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 137-175. 42 Asconio, Pro Scauro, 27C. Per un approfondimento sull’intero isolato a carattere residenziale si veda il contributo di D. Bruno in, A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 98-111. 41

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Fig. 6. L’isolato all’angolo tra Sacra via e c.d. clivo Palatino (B), con la casa di M. Emilio Scauro caratterizzata da un gigantesco atrio, post 58 a.C. The block at the corner of the Sacred Way and C.D. clivo Palatine (B), with the house of M. Emilio Scauro characterized by a giant atrium, post 58 BC. 236


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scena di un teatro da lui stesso allestito in Campo Marzio, affinché sostenessero un gigantesco atrio tetrastilo43 (mq 459). Gli scavi, che hanno interessato l’intero isolato e dai quali si è appresa l’esistenza di tre case confinanti con quella supposta di Scauro, hanno portato alla luce i resti di questo straordinario atrio, ovvero il suo basamento sostruttivo costituito da 62 cellette voltate, probabilmente adibite ad alloggi degli schiavi al servizio nella casa44. Gli autori antichi ricordavano simili episodi come segni di progresso, ma anche dell’inizio di una inesorabile corruzione dei costumi: “hanno taciuto”, scriveva Plinio45, “di fronte al fatto che moli tanto smisurate siano state introdotte in una casa privata, passando di fronte a statue degli dèi che erano ancora di argilla”; l’impegno per il lusso privato, insomma, rischiava di superare di gran lunga quello per il bene dello Stato. Se i valorosi esponenti della gens degli Aelii Tuberones, tra II e I secolo a.C. vincevano battaglie e dividevano in 16 una domuncula situata sul versante settentrionale del Palatino46, nello stesso periodo e nello stesso quartiere L. Licinius Crassus, console nel 95 a.C., stabiliva un primato di lusso decorando l’atrio della sua casa con colonne di marmo straniero47, come allora nemmeno si usava nei monumenti pubblici. Nelle altre stanze il padrone di casa aveva voluto triclini di bronzo e suppellettili di costoso artigianato artistico, mentre il giardino era ombreggiato da 6 o 10 querce o bagolari, che da sole facevano salire il valore della proprietà di milioni di sesterzi48. A partire dal II secolo a.C., del resto, il lusso era penetrato nelle dimore dei potenti e sul Palatino se ne dava mostra. Le fonti letterarie raccontano di atri e peristili smisurati, come quello di Scauro e quello di Clodio, e di apprestamenti tali che Cicerone, ad esempio, poteva affermare della sua proprietà: “la mia casa, nulla ha da invidiare alle mie ville”. L’oratore, d’altro canto, disponeva nel cuore della città dello spazio sufficiente per una palestra alla greca, con portico a colonne e preziose statue di Platone e di Minerva, per una passeggiata pensile panoramica lunga mezzo stadio (m 90 circa), denominata xystus o ambulatio, per una biblioteca privata, per un impianto termale (balneum) e per giardini vari alla cui manutenzione prestava grande attenzione. Di questa casa, soppiantata dalla futura domus Tiberiana, si sono messi in luce ad oggi solo alcuni ambienti seminterrati destinati al balneum, situati proprio all’angolo del monte; data la loro posizione e la planimetria è possibile tentare di ricostruire al di sopra di essi la famosa palestra di Cicerone (fig.5). Un tenore simile avevano le altre case del quartiere, di cui ci raccontano i dati archeologici (figg. 4, 10). Una delle domus messe in luce dagli scavi lungo la Sacra via, di cui ignoriamo il proprietario, possedeva ad esempio un giardino porticato con pozzi, fontana e due ninfei a parete, che occupava circa la metà della superficie totale (fig. 6). Nello stesso isolato, poco più a monte, una seconda abitazione era dotata di peristilio con piscina rivestita in marmo. Lo stesso tipo di vasca con fontana decorava, sullo scorcio del I secolo a.C., il cortile della casa in cima alle scalae Anulariae appartenuta un tempo a C. Licinius Calvus, mentre due bacini uguali con fondo dipinto di blu rinfrescavano il peristilio di una grande casa con balneum costruita in età augustea sulla cima del Palatium (fig. 10). Nel giardino di una piccola abitazione sul Cermalus, invece, il proprietario aveva voluto addirittura un vivaio per l’allevamento di murenae, di cui si conserva parte di una vasca con caratteristiche anfore incassate nel bordo, a fare da rifugio per le anguille.

Plinio, Storia naturale, 36.7-8, 36.114-115. Secondo una differente ipotesi questi piccoli ambienti sarebbero appartenuti a un lupanare: M.A. Tomei, C. Pavolini, Domus oppure Lupanar? I materiali dallo scavo Boni della “Casa Repubblicana” a ovest dell’arco di Tito, in MEFRA, 107, 2, Roma, 1995, pp. 549-619. 45 Plinio, Storia naturale, 36.7-8. 46 Valerio Massimo, 4.4.8. La casa si trovava dove sarebbero sorti i Monumenta Mariana, ovvero il santuario con tempio dedicato a Honos e Virtus commissionato da C. Marius all’indomani della vittoria su Cimbri e Teutoni nel 101 a.C. Sulla localizzazione di quest’area sacra sappiamo solo che essa intercettava l’asse della visione augurale che congiungeva l’Auguratorium sull’Arx del Campidoglio con il Monte Albano; per maggiori dettagli si rimanda al contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 111-113). 47 Plinio, Storia naturale, 17.3, 36.7-8. Si trattava di 6 colonne di marmo greco dell’Imetto, di colore azzurrognolo, alte 12 piedi (m 3,5), smontate dalla scena di un teatro provvisorio allestito dallo stesso proprietario di casa durante la sua carica di edile. 48 Plinio, Storia naturale, 17.3. 43 44

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Al servizio dei ricchi abitanti di questo quartiere si sperimentarono soluzioni architettoniche innovative e stili decorativi d’avanguardia che da Roma si sarebbero diffusi nel mondo romano. Furono molto adoperati, ad esempio, sistemi di sostruzioni voltate e opere di contenimento delle pareti tufacee, che permettessero lo sfruttamento dei versanti del monte: parlando di Roma, e forse proprio del Palatino, Cicerone si stupiva del disordine e della densità di costruzioni, dovuta al fatto che le case si ergevano su più piani a ridosso delle colline, che quasi sembrava fossero sospese in aria49. Divenne una pratica comune, inoltre, dato l’affollamento di costruzioni sul monte, ricavare spazio elevando le abitazioni su più piani o scavando il sottosuolo per ottenere livelli seminterrati in cui sistemare non solo servitori e servizi, come nella suddetta casa di Scauro o nella domus sul Cermalus c.d. di Livia, ma anche ambienti di soggiorno, come in un edificio da poco scoperto sul ciglio del versante occidentale del monte50, o nell’antica domus c.d. “dei grifi”, che occupava la cima del Palatium, o ancora nella vicina casa “dell’aula Isiaca”51. Negli ultimi tre casi gli ambienti ipogei conservano intatti apparati decorativi di grande valore artistico e documentario. Il primo edificio, costruito in opera quasi reticolata e databile all’inizio del I secolo a.C., possiede una decorazione pittorica cosiddetta di II stile iniziale, caratterizzata da grandi campiture di colore ad imitazione di un rivestimento in marmi colorati. La domus c.d. “dei grifi”, invece, affine per tecnica edilizia, mostra nello stesso periodo il precoce passaggio ad una successiva fase stilistica in cui, tra stucchi e finte specchiature marmoree, compare un’architettura a plinti e colonne avente lo scopo di dare profondità alla parete. Nella cosiddetta “aula Isiaca”, infine, databile ad età augustea, gli affreschi, che invadono anche la volta, mostrano di appartenere ad un momento assai maturo della stessa fase stilistica, in cui l’elemento architettonico perde solidità traducendosi piuttosto in decorazione, minuziosa e ridondante, incentrata in questo caso sul tema dell’Egitto, con i suoi paesaggi esotici e i simboli della religione. Sullo scorcio dell’età repubblicana, dunque, architetture e decorazioni delle case dei potenti davano espressione, per la prima volta in maniera esplicita, alla personalità del proprietario, alla sua sensibilità per le mode, come quella proveniente dall’Egitto, ai suoi interessi, come quello di Cicerone per i ginnasi greci, o alle sue stravaganze, come quella di allevare pesci nel cuore di Roma. Ricostruire le vicende edilizie e l’aspetto di queste abitazioni, grazie alle fonti letterarie e all’analisi dei loro resti archeologici, offre la possibilità, pertanto, di arricchire il racconto storico sulla società dell’epoca o su determinati personaggi, come Clodio o Ottaviano Augusto: la loro politica immobiliare, infatti, pare descrivere con ancor più nitidezza di un passo letterario ambizioni nascoste e progetti politici. Le case del principe Sappiamo da fonti epigrafiche che il palazzo imperiale del Palatino, già a partire dall’età neroniana, si chiamava domus Augustiana52; è probabile, alla luce di quanto ad oggi si conosce della storia di questo monumento, che tale nome scaturisse dal primato dell’adiacente domus Augusti: un proto-palazzo. Prima di approdare a questo singolare e fortunato esperimento Ottavio, poi Ottaviano, poi Augusto, aveva posseduto altre case sul Palatino, dapprima in linea con le dimore aristocratiche sopra descritte, poi sempre più appropriate al potere da lui acquisito e infine al suo ruolo di princeps.

Cicerone, La legge agraria, 2.96. Si veda il contributo di F. Carboni e F. Sforza in M.A. Tomei, M.G. Filetici, a cura di, Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 138-140. 51 Per un approfondimento in merito al fenomeno palatino dell’abitare sottoterra si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 113-128. 52 La più antica attestazione di questo nome compare nell’iscrizione di un liberto di Nerone addetto al sollevamento dei tendaggi tra una stanza e l’altra (praepositus velariorum): S. Panciera, Domus Augustana, in A. Leone, D. Palombi, S. Walker (a c. di), Res bene gestae: ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Lexicon topographicum urbis Romae, Suppl. IV, Roma, 2007, pp. 293-308. 49 50

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Fig. 7. Le vicende edilizie della domus di Ortensio, poi di Ottaviano, 90 circa-36 a.C. The events of the domus building of Hortensius, then of Octavian, about 90 BC-36.

Se la nomina di Ottaviano ad Augusto nel 27 a.C. fu l’ultimo atto di un’ascesa politica durata un ventennio, allo stesso modo l’inaugurazione nel 28 a.C. del complesso monumentale realizzato attorno alla sua domus privata sul Cermalus può essere considerata l’ultima tappa di una scalata immobiliare di cui il Palatino fu teatro. Nel caso di Ottaviano, più che in ogni altro precedente (ad esempio Clodio o Scauro), la casa seguì di pari passo le ambizioni crescenti del personaggio conformandosi alle valenze ideologiche della sua innovativa politica, ed anzi diventandone un simbolo. Ciò appare evidente se si analizza quanto rimane delle abitazioni attribuite ad Augusto in base alle indicazioni degli autori antichi (figg. 7-9); l’archeologia, in questo caso, si è rivelata la fonte più diretta e affidabile, alla luce della quale rileggere le notizie della tradizione, utilissime ma concise, oltre che viziate dal punto di vista dell’autore. 239


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Fig. 8. Domus Augusti, 36-12 a.C. Domus Augusti, 36-12 BC.

Ottavio nacque il 23 settembre del 63 a.C. all’angolo nord-orientale del Palatino (fig. 4), nel quartiere chiamato “Capita bubula” (Teste taurine), in una casa di proprietà del padre, C. Octavius, un ricco cavaliere di Velletri, pretore nel 61 a.C., nobilitatosi grazie al matrimonio con Atia, nipote di Cesare53. Nel 58 a.C., morto Ottavio, Azia sposò in seconde nozze L. Marcius Philippus e la casa fu venduta54. Molti anni più tardi, intorno al 20 d.C., su parte della proprietà originaria, che apparteneva ora ad un certo C. Laetorius, sarebbe sorto un sacrarium dedicato alla memoria del principe; di questo piccolo tempio gli scavi nell’area dell’antico santuario delle curiae Veteres hanno messo il luce i resti: proprio qui, pertanto, doveva trovarsi la casa natale del futuro Augusto55. Tra 51 e 49 e tra 47 e 45 a.C. Ottavio fu ospite nella casa della madre e del patrigno, nel vicino quartiere delle Carinae, sul versante settentrionale della Velia56. Nel 44 a.C., dopo la morte di Cesare, tornò a vivere sul Palatino, tuttavia ad un altro angolo del monte, in cima alle scalae Anulariae (ovvero “dei gioiellieri”), che conducevano dal Foro alla porta Romanula, residuo della cinta muraria romulea57 (fig. 4). Acquistò la casa del poeta C. Licinius Calvus, che sappiamo era vicina a quella di Cicerone58. La posizione della casa era dunque assai prestigiosa: vi si entrava probabilmente dalla rampa in prosecuzione delle scale, dove si conservano relativamente a quest’epoca alcuni gradini e parte di un muro che Svetonio, Augusto, 5; Velleio Patercolo, 2.59. Il futuro Ottaviano fu mandato allora dalla madre a vivere con la nonna Iulia, in una villa suburbana, fino alla morte di lei, nel 51 a.C. (Nicola di Damasco, Vita di Augusto, 5). 55 Sul tempietto identificato come sacrarium Augusti scoperto nell’area delle curiae Veteres si veda C. Panella, a cura di, Meta Sudans, I, Roma, 1996, pp. 27-91. 56 Nicola di Damasco, Vita di Augusto, 4-5; Servio, Commento a Virgilio, Eneide, 8.361. 57 Svetonio, Augusto, 72. 58 Nel 43 a.C., poco prima di fuggire da Roma per poi essere assassinato, l’oratore meditava di suicidarsi proprio nella vicina dimora di Ottaviano, per attirare su di essa un demone maligno: Plutarco, Vita di Cicerone, 47.6. 53 54

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Fig. 9. Domus Augusti, l’intero complesso edilizio dalla cima del monte alla valle del Circo Massimo, 36-12 a.C. Domus Augusti, the whole building from the top of the mountain to the valley of the Circus Maximus, 36-12 BC.

costeggiava l’isolato59. L’abitazione, a cui appartengono muri e fondazioni messi in luce dagli scavi, si sviluppava poi su un terrazzamento artificiale contenuto da un lungo muro in opera reticolata a cui si addossava a quota inferiore una fila di tabernae. Al centro della proprietà, dove un cinquantennio dopo sarebbe stata realizzata una fontana rivestita in marmo, c’era probabilmente fin d’ora un peristilio, rivolto al lucus Vestae e, ancora oltre, alla Velia60. Tra 43 e 42 a.C., Ottavio, assunto il nome di C. Iulius Caesar Octavianus e ormai consapevole del suo destino di erede legittimo di Cesare, intraprese un più ambizioso investimento immobiliare: comprò la casa sul Cermalus dell’oratore Q. Hortensius Hortalus61 (fig. 4). Il pregio maggiore di questo immobile era l’indirizzo62: si trovava, infatti, in cima al clivo che conduceva dalla Sacra via, attraverso la porta Mugonia, al luogo dove Roma era stata fondata63; i suoi battenti aprivano dirimpetto alla cosiddetta aedes Romuli, luogo di culto delle memorie romulee che aveva sostituito nel tempo l’originaria capanna del fondatore o casa Romuli. La scelta di questo luogo era dunque molto significativa, soprattutto alla luce delle aspirazioni di Ottaviano al ruolo di rifondatore e all’appellativo di Romolo, al quale infine avrebbe preferito quello apparentemente meno superbo di Augusto64. Nel punto indicato dalle fonti letterarie si trovano effettivamente i cospicui resti di un’abitazione, dalla cui analisi archeologica è possibile trarre almeno tre fasi edilizie consistenti in ampliamenti e modifiche apportati nel corso del I secolo a.C.65 (fig. 7). Sappiamo da Svetonio che la dimora appartenuta ad Ortensio era modesta, per dimensioni e lusso, e che questo ben si confaceva ai costumi morigerati

Su questi resti si veda: H. Hurst, The scalae (ex-grecae) above the Nova via, in Papers of the British School at Rome, 74, 2006, pp. 237-291. 60 Sui suddetti scavi si vedano da ultimi i contributi di F. Carboni, E. Monaco, M.A. Tomei in M.A. Tomei, M.G. Filetici (a c. di), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 40-85. 61 Svetonio, Augusto, 72. 62 Sull’indirizzo della domus Augusti si veda A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 162-165. 63 Ovidio, Tristezze, 3.1.29-68. Non conosciamo il nome antico di questo clivo; lo abbiamo denominato A per identificarlo e indicarne la priorità rispetto a quello meglio noto che ancora oggi sale al Palatino dalla Sacra via, che abbiamo pertanto denominato B. Si trattava di un percorso abbastanza rettilineo, di cui gli scavi alle pendici settentrionali del Palatino hanno messo in luce qualche metro di lastricato, appena prima che la strada passasse attraverso una porta, nota anch’essa dalle indagini archeologiche, identificabile con la porta Mugonia della cinta romulea, nella sua versione di II secolo a.C. Per la topografia di questa zona, ricostruibile in base ai suddetti scavi, si veda A. Carandini, Palatino, Velia e Sacra via. Paesaggi urbani attraverso il tempo, Workshop di Archeologia Classica, Quaderni, 1, Roma, 2005. 64 Cassio Dione, 53.16.4-6. 65 Per una descrizione delle fasi edilizie si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, RomaBari, 2010, pp. 189-225. 59

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del suo nuovo proprietario che l’avrebbe abitata così com’era per oltre quarant’anni66. I dati archeologici, tuttavia, raccontano un’altra storia, che ben si adatta invece all’ascesa di Ottaviano di cui sappiamo dalla totalità delle fonti documentarie. Il nucleo più antico della casa, costruito in opera quadrata di tufo, risaliva probabilmente all’inizio del I secolo a.C. e quindi a Q. Hortensius Hortalus famoso oratore, nato nel 114 a.C. Dall’analisi della planimetria dei resti si è dedotto che la casa era probabilmente il risultato dell’accorpamento di due lotti abitativi che occupavano in origine questo terrazzamento del Cermalus rivolto al Circo Massimo e i cui ingressi aprivano sul percorso delle scalae Caci. Grazie a questo primo ampliamento la casa disponeva di un settore occupato da appartamenti su due piani (uno dei quali seminterrato, data la posizione di versante della proprietà), affacciati su un peristilio panoramico esteso fino al ciglio del monte. Piccole modifiche e alcune aggiunte di ambienti con muri in opera reticolata sembrerebbero, invece, iniziativa del figlio omonimo del suddetto Ortensio, che ereditò la domus nel 50 a.C. e morì nel 42 a.C. a Filippi, insieme al cesaricida Bruto67. Ottaviano abitò per qualche anno in questa casa che somiglia a quella descritta da Svetonio: non troppo grande, con portici brevi, pilastri in tufo e stanze prive di marmi68. Tra 40 e 36 a.C., però, forte del ruolo di unico padrone dell’Occidente di fronte ad Antonio padrone dell’Oriente, dovette sentire l’esigenza di una dimora più adatta al suo rango e diede avvio ad un progetto di ristrutturazione e ampliamento che è evidente dai dati archeologici, ma di cui tacciono, invece, gli autori antichi69. Il nucleo più antico della casa fu solo ridecorato all’insegna del lusso, con rivestimenti in marmo su pavimenti e arredi fissi e con affreschi nel II stile tipico dell’epoca, caratterizzato però da picchi di tecnica e raffinatezza (nel c.d. studiolo al primo piano) o dall’uso di soggetti particolari (ad esempio il betilo bronzeo, simbolo apollineo caro ad Ottaviano, dipinto nella stanza c.d. delle maschere). Il peristilio originario fu invece ricostruito, più grande e di forma quadrata, con colonne e con una decorazione architettonica di grande impegno artistico di cui si conservano lastre in terracotta dipinta con soggetti di carattere mitico-sacrale. Grazie all’acquisto di alcuni lotti adiacenti, infine, l’originaria domus di Ortensio, che misurava mq 2800 circa, fu ampliata fino a raggiungere una superficie totale di oltre 8100 mq. Nello spazio aggiunto fu realizzato un secondo peristilio, ad oggi ancora parzialmente interrato, identico all’altro ma circondato da sale più grandi (tra cui un oecus Corinthius e uno Cyzicenus), e forse un atrio situato al centro dell’intero complesso (fig. 7). Narra la tradizione che nel 36 a.C. un fulmine mandato da Apollo cadde su questa dimora manifestando al proprietario la volontà del dio di risiedere lì70. Il prodigio spinse Ottaviano ad interrompere i lavori di ristrutturazione, il che risulta dai resti della casa, completata nelle murature ma non nelle rifiniture e nelle decorazioni della parte aggiunta. Lo convinse, inoltre, ad abbandonare l’idea di una dimora gigantesca, inconsueta per Roma, simile piuttosto alla reggia di un dinasta ellenistico (e pertanto perfino pericolosamente megalomane), per avviare invece una svolta politico-religiosa di cui la nuova domus sarebbe stata simbolo ed espressione.

Svetonio, Augusto, 72. Svetonio, che scrive poco meno di due secoli dopo Augusto, non vide mai la casa di Ortensio, sepolta dalle costruzioni della più tarda età augustea; ricostruì pertanto un paesaggio suggeritogli dalle sue fonti, condizionato per di più dalla volontà di esaltare le virtù di frugalità e parsimonia di Ottaviano. Lo storico vide invece la domus privata del principe ricostruita nell’ambito del complesso santuariale di Apollo: anche questa gli apparve modesta, con un mobilio appena conveniente per un privato; anche stavolta la sua impressione non può essere considerata: era passato molto tempo, infatti, da quando vi aveva abitato Augusto e la casa, sostituita nella funzione dalla nuova domus Auguitiana, era ormai una reliquia del passato cristallizzata in un’aura sacrale. 67 Per un approfondimento e le fonti letterarie relative ai personaggi citati si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 209-210. 68 In realtà questa casa poteva risultare modesta a Svetonio e alla sua fonte, nel II secolo d.C., ma non doveva esserlo affatto nella prima metà del I secolo a.C., quando vi abitava Ortensio padre, che gli autori antichi descrivono peraltro come uno stravagante aristocratico amante del lusso. Ad Ottaviano poteva apparire normale, eppure talmente pregevole per via del valore simbolico della sua posizione, da tollerare di viverci qualche anno prima di ristrutturarla. 69 Il silenzio è spiegabile con il fatto che questo progetto, come appare dai dati archeologici, non fu mai completato: vedi infra. 70 Dione Cassio, 49.15.5; Svetonio, Augusto, 29.3. 66

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Sulle macerie e sull’interro della casa a due peristili, datato in base ai reperti ceramici in esso contenuti proprio all’età augustea, e su molti altri lotti abitativi acquisiti allo scopo71, fu realizzato ad una quota di 8-9 m superiore un complesso edilizio ancora più grandioso72 (oltre 20000 mq; fig. 8). Il suo fulcro era l’aedes Apollinis, di cui rimangono il podio e diversi elementi architettonici; il tempio era posto sull’asse mediano dell’intero sistema e affacciava su una piazza porticata ricostruibile grazie a massicce fondazioni e a frammenti delle sue numerose colonne, forse cento, in marmi colorati. Su un lato di questo portico apriva una biblioteca a pianta absidata, usata anche come curia. Ai lati del tempio, invece, doveva estendersi la parte residenziale del complesso. A ovest si trovava la domus privata, a cui appartengono i resti di un piccolo peristilio e di alcuni ambienti aperti su di esso, ma soprattutto il corpo edilizio dell’atrio, tradizionalmente noto come “casa di Livia”, ereditato da una precedente abitazione appartenuta probabilmente a Q. Lutatius Catulus73. A est, in uno spazio identico, ma mai indagato nei livelli relativi a quest’epoca, poteva trovarsi invece la domus Publica, ovvero la casa aperta al pubblico che spettava al pontefice massimo e che Augusto, in questa veste dal 12 a.C., sappiamo aveva trasferito nell’ambito della sua nuova residenza sul Cermalus insieme ad un piccolo duplicato del tempio di Vesta74. Completava il progetto, infine, un secondo portico realizzato su un terrazzamento artificiale rivolto al Circo, sorretto da concamerazioni voltate in serie, alcune delle quali ancora visibili alle pendici del monte75, che possiamo forse immaginare frequentate dal personale al servizio del principe o forse addirittura da una prima burocrazia imperiale (fig. 9). A dispetto del nome, la domus Augusti era un complesso edilizio somigliante più a un santuario che a una casa. Questa ambiguità si risolveva però alla luce dello status del tutto particolare ormai acquisito del principe, a cui spettava il titolo di Augusto, significativo di una condizione superiore a quella umana, ovvero quasi divina. Del resto, la percezione degli antichi emerge chiara dalle parole di Ovidio, quando afferma che nella casa di Augusto risiedevano tre dèi eterni: in una parte Apollo, nella seconda Vesta, e nella terza lo stesso Augusto76. Vi era inoltre una somiglianza tra questo complesso domestico-santuariale e le regge d’Asia Minore, come Pergamo. In entrambi i casi, infatti, se si esclude la parte privata, il resto dello spazio era aperto al pubblico: vi si svolgevano cerimonie religiose che coinvolgevano l’intera comunità, come i ludi Saeculares, ma anche attività politiche, come le riunioni del Senato, e la biblioteca era un polo culturale per intellettuali e letterati. La domus Augusti, in questo senso come una reggia, costituiva un microcosmo cittadino concepito per attirare alcune funzioni pubbliche dai luoghi istituzionali a quelli privati, in cui maggiore si sarebbe sentito il peso dell’autorità del principe. Altri elementi come questo, insiti nel complesso augusteo, prefiguravano il palazzo imperiale. La presenza, ad esempio, nella parte residenziale del complesso di una distinzione netta tra parte pubblica e parte privata, tradotta nella duplicazione di spazi uguali: nella domus di Ottaviano vi erano due peristili, nella domus Augusti c’erano una domus privata e una domus Publica, mentre nella domus Augustiana vi sarebbero stati due corpi edilizi affiancati. Nella casa di Augusto, inoltre, avevano grande rilievo le facciate del complesso edilizio, e lo stesso sarebbe stato per il successivo palazzo imperiale. La più monumentale era quella rivolta al Circo Massimo: il principe, come poi l’imperatore, da qui osservava le corse e le cerimonie che si svolgevano sull’arena, ma soprattutto da qui si mostrava alla folla del popolo assiepato sugli spalti, stabilendo con esso una comunicazione diretta e verificando così il proprio consenso. Velleio Patercolo, 2.81.3. Per un approfondimento e le fonti letterarie relative alle varie parti di questo complesso si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 211-225. 73 La domus Augusti possedeva un atrio appartenuto in origine alla Catulina domus: Svetonio, I grammatici, 17. 74 La domus Publica si trovava dal V secolo a.C. alle pendici settentrionali del monte, nell’isolato del santuario di Vesta. I suoi resti, identificati dagli scavi, confermano il trasferimento operato da Augusto e noto dalle fonti letterarie: sugli ambienti dell’antica casa, infatti, proprio intorno al 10 a.C. si impiantò un horreum, un mercato. Per un approfondimento si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 138-143. 75 Questa seconda piazza porticata compare con il nome di Area Apollinis su i frammenti 20, e,f e g della Forma Urbis marmorea di età severiana. 76 Ovidio, Fasti, 4.952 ss. 71 72

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La facciata principale della domus Augusti, però, era quella rivolta dalla parte opposta, che introduceva all’atrio della casa privata. Non ne rimane più nulla, eppure possiamo ricostruirla fin nei minimi dettagli grazie ai racconti degli autori antichi e ad alcune rappresentazioni su rilievi o monete di epoca augustea. La porta si apriva entro un vestibolo inquadrato da allori e trofei militari, inserito a sua volta tra le colonne ioniche di un portico, sormontato da un frontone con iscrizione dedicatoria e impreziosito dalla corona di quercia e dall’iscrizione pater patriae; l’ingresso si raggiungeva al culmine di una scalinata dominata dalle statue di Marte e Venere, progenitori divini della gens Iulia, e del genius Augusti, a cui era dedicato un altare sistemato invece alla base dei gradini77. Racconta Ovidio che questa monumentale facciata compariva all’improvviso al culmine del clivo Palatino più antico (A); la sua vista lasciava stupiti perché, rispetto alle altre case dei massimi esponenti della nobiltà cittadina che si aprivano a destra e a sinistra della strada, questa spiccava per la sua somiglianza con un tempio, ovvero con la casa di un dio. Nelle metafore adulatorie del poeta, del resto, Augusto era Giove o il Sole, la sua casa era una reggia divina, il clivo Palatino era la via Lattea e l’intero Palatino era la sede celeste del concilio degli dèi78. In conclusione, nel progetto generale, nelle architetture e negli apparati decorativi, densi di valenze simboliche, la domus Augusti manifestava il nuovo ruolo del principe, futuro imperatore: la sua natura sostanzialmente monarchica, pervasa da un’aura divina, ben si accompagnava con l’abitare in questo santuario-reggia, primo esperimento di palazzo imperiale. I palazzi imperiali 79 L’età giulio-claudia A partire dalla morte del principe la domus Augusti cominciò a perdere la funzione residenziale e a guadagnare il ruolo di nucleo sacrale legato alla memoria del divo Augusto. Non subì più, infatti, alcun rifacimento o ricostruzione, come calata in un’immobilità sacrale caratteristica, del resto, di altri luoghi legati alla vita privata del principe che dopo la sua morte divennero sacraria, come la casa natale ad Capita Bubula o la villa di Nola in cui Augusto esalò l’ultimo respiro80. Fino al 29 d.C. vi abitò Livia, nominata da Tiberio Iulia Augusta e sacerdotessa dei Sodales Augustales, un collegio di nuova istituzione dedito al culto del divo Augusto, che aveva stabilito qui, forse, la sua sede81. La domus Augusti, avviata a divenire un monumento pubblico, non si prestava del resto ad ampliamenti o profondi interventi, stretta com’era tra le maglie del tessuto urbano circostante. Fu così che in epoca giulio-claudia furono apportate alcune modifiche solo all’interno dell’area che abbiamo attribuito alla domus Publica: un criptoportico, una piscina a nicchie mistilinee e forse una sala aperta sul portico del tempio di Apollo, destinata anch’essa al culto imperiale, forse identificabile con la prima aedes Caesarum82. Per il resto il complesso rimase integro e isolato fino alla prima età neroniana.

Per un’aggiornata ricostruzione della facciata della domus Augusti si veda A. Carandini (a c. di), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2011, tav. 72. Gli elementi architettonici e decorativi pertinenti alla facciata della casa di Augusto si ricavano dall’iconografia antica: dal rilievo su un lato della cosiddetta Base di Sorrento, da uno con suovetaurile conservato al Louvre (collezione Grimani), e da un aureo coniato da Caninio Gallo nel 12 a.C. Altre informazioni si desumono dalle fonti letterarie: Ovidio, Tristezze, 3.1.2968; Ovidio, Metamorfosi, 1.168-176; Ovidio, Fasti, 4.952; Dione Cassio, 53.16.4; Svetonio, Augusto, 100; Svetonio, Claudio, 17; Le imprese del divino Augusto, 34.35. Per una trattazione più approfondita si veda il contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 221-224. 78 Ovidio, Tristezze, 3.1.29-68; Ovidio, Metamorfosi, 1. 168-176, 2.1-46. 79 Per un approfondimento e per la bibliografia relativa agli argomenti che saranno affrontati nei seguenti capitoli si veda, dove non specificato, il contributo di D. Bruno in A. Carandini, a cura di, Atlante di Roma antica, I, Milano, 2011, pp. 232-265. 80 Svetonio, Augusto, 100; Dione Cassio, 56.46.3. 81 Si veda a questo proposito il significativo confronto tra l’atrio della casa privata di Augusto e la coeva sede degli Augustali di Ercolano, che potrebbe averne imitato la planimetria. 82 Vedi infra, L’età neroniana. 77

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Fig. 10. Palatium e Cermalus, 36 a.C.-64 d.C. Palatium and Cermalus, 36 B.C.-64 A.D.

Intorno alla metà del I secolo d.C., sulla cima del Palatium, nello spazio adiacente a est della domus Augusti comparve un nuovo edificio, di cui restano pochi ma significativi lacerti (fig. 10): alcune fondazioni, pavimenti in opus sectile e una grande sala o un cortile, decorato con semicolonne. Apparteneva forse alla stessa costruzione un criptoportico a due navate situato quasi sul ciglio del monte; con essa, infatti, condivideva l’orientamento, obliquo rispetto alla domus Augusti ma coerente con la trama degli edifici precedenti e soprattutto con il secondo clivo Palatino (B), che dalla Sacra via saliva diretto proprio alla facciata di questo nuovo edificio. Le strutture descritte insistevano sugli ambienti sotterranei delle domus c.d. “dei grifi” e “dell’aula Isiaca” e su altri lotti abitativi privati che possiamo supporre e che evidentemente una forte autorità, come quella imperiale, aveva acquisito. Di qui a poco, del resto, i pochi privati rimasti a vivere sul Palatino, come C. Caecina Largus nella dimora che era stata di Scauro, L. Statilius Sisenna in quella che era stata di Cicerone, o il ricco funzionario che abitava nella casa messa in luce dagli scavi nella Vigna Barberini, sarebbero stati inglobati nella corte imperiale e le loro case fagocitate dagli ampliamenti dei palazzi. Data la posizione dell’edificio sulla cima del Palatium, la sua dimensione e il tipo di allestimenti di cui è rimasta traccia, si avanza la possibilità che fosse questa la prima domus Augustiana, cioè il primo palazzo nato dall’esperimento della domus Augusti, concepito quasi come una sua espansione, come il nome, del resto, starebbe ad indicare. Proprio su di esso, dopo l’incendio del 64 d.C., sarebbe sorto il palazzo neroniano, aderente alla nuova sistemazione urbanistica di questa parte del centro di Roma, già articolato come il successivo e meglio noto palazzo flavio, e pertanto un suo sicuro antecedente. 245


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Fig. 11. Palatium e Cermalus, l’età flavia, 69-96 d.C. Palatium and Cermalus, the Flavian, A.D. 69-96.

Il ritardo nell’impianto della prima domus Augustiana accanto alla domus Augusti, nasce forse dal fatto che, dopo la morte di Augusto, gli imperatori giulio-claudi trascurarono quel nucleo residenziale legato alla figura impegnativa del principe, preferendo inaugurare una dimora alternativa che meglio 246


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rappresentasse il ramo claudio della dinastia a cui appartenevano, la futura domus Tiberiana. Come emerge chiaramente dal nome, l’iniziativa dovette essere di Tiberio e forse come nucleo originario della nuova dimora fu scelta la casa palatina in cui l’imperatore era nato il 16 novembre nel 42 a.C. da Livia e Ti. Claudius Nero, suo padre naturale83. Non è nota la localizzazione precisa di questa casa, ma è lecito immaginarla nello spazio della futura domus Tiberiana (figg. 10-11): del resto, come all’origine della domus Augustiana vi era la domus Augusti, così da una domus Tiberii sarebbe nata la domus Tiberiana. A favorire questa linea interpretativa sono i dati di recente pubblicazione relativi alle fasi edilizie di quest’ultimo palazzo84. Nella prima età giulio-claudia, al culmine del più antico clivo Palatino (A), alle spalle del santuario di Victoria e Magna Mater, l’acropoli sacrale del Cermalus, e proprio dirimpetto alla facciata della domus Augusti, fu ristrutturata una grande dimora, in questa ipotesi la domus Tiberii. Lungo un lato dell’edificio furono aperte alcune tabernae, mentre in fondo alla proprietà, sul ciglio del versante rivolto al Velabro, fu realizzato un peristilio circondato da stanze, sorretto da concamerazioni voltate su tre piani connesse da un sistema di scale e rampe. Quasi contemporaneamente, a contatto con questa notevole abitazione, nel lotto appartenuto un tempo a Clodio e già da lui profondamente modificato, furono gettate le fondazioni di un complesso edilizio delle proporzioni e delle caratteristiche di un palazzo, la prima domus Tiberiana (fig. 10). Appartengono alla fase edilizia tiberiana le strutture situate al centro del più tardo complesso (fig. 12), per lo più fondazioni e una maglia di gallerie sotterranee e concamerazioni voltate tra cui un criptoportico a tre bracci. Il progetto, forse suggerito dall’impianto sostruttivo già esistente e in quest’ipotesi ideato da Clodio, prevedeva la realizzazione di un ampio basamento entro il quale sarebbero stati sistemati percorsi e servizi, e di al di sopra del quale sarebbe sorto il palazzo vero e proprio. Metà dello spazio al piano superiore era occupata da un giardino panoramico rivolto al Campidoglio al centro del quale era una piscina rivestita in marmo; l’altra metà del basamento, invece, ospitava l’edificio residenziale, di cui possiamo intuire la pianta solo grazie alle fondazioni: era di forma rettangolare e costituito da grandi sale organizzate in maniera simmetrica attorno ad un peristilio corrispondente al sottostante criptoportico. In una cripta, con tutta probabilità una delle gallerie che solcavano questo basamento, il 24 gennaio del 41 d.C. fu assassinato il successore di Tiberio, Caligola, sorpreso mentre percorreva una scorciatoia che l’avrebbe condotto dal santuario di Magna Mater, dove stava assistendo ai ludi Palatini, all’angolo del Foro dove sorgeva il suo stravagante palazzo85. La domus Gai è il terzo nucleo edilizio connesso al sistema dei palazzi imperiali del Palatino; era forse nato anch’esso dall’estensione di una più antica dimora di famiglia, la casa di Germanico, il padre di Caligola, che sappiamo era ad esso contigua e per la quale pertanto si può proporre l’identificazione con la casa supra scalas Anularias, appartenuta un tempo ad Ottaviano e da quel momento entrata nel patrimonio della famiglia regnante86. Il carattere e le ambizioni di Caligola lo avevano spinto a distinguersi dalla tradizione, mostrando di svalutarla – mettendo all’asta, ad esempio, tutto l’arredamento della vecchia corte, cioè della domus Augusti87 – e di volerla sovvertire. La sua nuova reggia88 sorgeva nel cuore del popolare quartiere commerciale attraversato dal vicus Tuscus, sfruttava come vestibolo il tempio dei Castori e tramite un funambolico ponte era collegata con il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio; inoltre, vantava un tempio al suo interno in cui nel progetto originario avrebbe dovuto sedere la statua di Giove Svetonio, Tiberio, 5. M.A. Tomei, M.G. Filetici, a cura di, Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011. 85 Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, 19.103-105, 117; Svetonio, Caligola, 58; Svetonio, Claudio, 10. 86 Dopo il trasferimento di Ottaviano sul Cermalus vi aveva abitato probabilmente sua sorella Ottavia con i figli, dopo essere stata ripudiata dal marito M. Antonio nel 32 a.C. e costretta a cambiare casa (Plutarco, Vita di Antonio, 54.2, 57.4-5). Uno di questi figli, Antonia minore, potrebbe avervi continuato a risiedere una volta adulta, divenuta moglie di Druso Maggiore e madre a sua volta di Germanico. Quest’ultimo, infine, vi avrebbe abitato con la moglie Agrippina Maggiore e i loro sei figli, tra cui Caligola. 87 Svetonio, Caligola, 39. 88 Per un approfondimento su questa dimora si rimanda al contributo di D. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 266-271; per una ricostruzione aggiornata si veda invece A. Carandini (a c. di), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 47. 83 84

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Fig. 12. Domus Tiberiana, età domizianea, 81-96 d.C. Domus Tiberiana Domitian, A.D. 81-96.

Olimpio trasferita dalla Grecia, sostituita invece da una statua d’oro del numen di sé stesso, vestita ogni giorno come lui; la casa possedeva anche un balneum, stalle rivestite in marmo per il suo adorato cavallo Incitatus e appartamenti destinati ad un lupanare di cui raccoglieva i guadagni. Il palazzo ricostruibile in base ai resti archeologici presenta alcune analogie con quanto narrato dalle fonti letterarie a proposito della dimora di Caligola. Si sviluppava su due piani: al livello della strada si trovavano ambienti di servizio pavimentati in opus spicatum e massicce fondazioni funzionali a sostenere le strutture al piano superiore, soprelevato ad una quota compatibile con quella del vicino podio dell’aedes Castoris; al centro dell’edificio alcune di queste fondazioni definivano una struttura quadrangolare paragonabile per forma e dimensioni ad un tempietto, forse quello del numen; tra questo spazio e la parete del monte, infine, si trovava un peristilio con piscina a nicchie mistilinee e rivestimento in marmo, attorno al quale possiamo immaginare gli appartamenti privati. L’imperatore Claudio tornò a risiedere sulla cima del Palatino. Da bambino aveva trascorso un breve periodo nella domus Augusti, con il fratello Germanico e la madre Antonia Minore, rimasta vedova nel 9 248


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a.C.89 Si era stabilito poi nella casa di famiglia che si è proposto di identificare con quella situata in cima alle scalae Anulariae; abitava ancora qui, o in una casa comunque non lontana dal luogo dell’assassinio di Caligola, quando nel 41 d.C. i pretoriani vennero a scovarlo nascosto dietro una tenda, in una sala decorata da erme, per acclamarlo imperatore90. Diversamente dal suo dissennato predecessore, Claudio dimostrò di tenere in gran conto i luoghi e i simboli della dinastia giulio-claudia: trionfante sulla Britannia fece apporre tra i trofei militari che decoravano il vestibolo della domus Augusti una corona navale91, accanto a quella civica concessa ad Augusto dal Senato nel 27 a.C. È probabile tuttavia che non vi abitò, preferendo la vicina domus Tiberiana (figg. 10, 12). Risalgono all’epoca di Claudio, infatti, consistenti interventi in quel palazzo. Nel corpo residenziale le sale più grandi che affacciavano sul giardino pensile furono sostituite da una specie di basilica: ne è traccia la fondazione ad angolo di un colonnato che taglia i precedenti muri. All’interno del basamento, invece, il criptoportico fu mantenuto ed anzi rinforzato tramite una fodera interna in muratura a ridosso della quale fu posata nel pavimento una conduttura plumbea iscritta proprio con il nome dell’imperatore Claudio. Probabilmente nell’ambito degli stessi lavori, infine, fu allestita una piscina con bordo a nicchie mistilinee al centro del soprastante peristilio. L’età neroniana Dell’attività di Nerone nei palazzi del Palatino abbiamo poche notizie e molti dati archeologici. Dalle fonti letterarie sappiamo che nel 65 d.C. dedicò statue onorarie nell’area Apollinis92, ovvero nel portico antistante il tempio che dominava il complesso augusteo, e che nel 67 d.C., nello stesso luogo, celebrò trionfalmente il suo ritorno dalla Grecia93; è ben noto, inoltre, che all’indomani dell’incendio del 64 d.C. intraprese i lavori della favolosa domus Aurea. Con questo termine gli antichi intendevano esclusivamente le fabbriche situate tra Palatino ed Esquilino94; la reggia neroniana nel suo insieme, tuttavia, includeva anche questi due monti, su cui già sorgevano edifici destinati a residenza imperiale. Nerone intervenne dapprima sulla parte “pubblica” della domus Augusti. Si data agli anni del suo impero, infatti, un sontuoso pavimento in opus sectile a motivi geometrici e floreali che decorava una sala colonnata, lunga cento piedi (m 29,6) e forse absidata, aperta sul portico del tempio di Apollo. Si trattava forse di un triclinio o più probabilmente di una basilica, molto simile per forma e dimensione a quella del più tardo palazzo domizianeo. Scriveva Vitruvio, intorno al 30 a.C., che nelle case dei ricchi era facile trovare una basilica simile a quelle pubbliche95; nel contesto della casa di Augusto la sua presenza stupiva ancora meno poiché la sala era aperta al pubblico che frequentava il santuario e non è escluso che, come le basiliche forensi ospitavano l’aedes Augusti, anche questo fosse uno spazio destinato al culto imperiale, forse l’aedes Caesarum. Un edificio con questo nome e destinato a questa funzione sorgeva infatti sul Palatino e sappiamo che vi erano esposte le statue degli imperatori della dinastia giulio-claudia96: proprio nel criptoportico sottostante questa sala colonnata sono stati scoperti due ritratti di Nerone e uno di Agrippina e una conduttura plumbea con l’iscrizione CAESARUM97.

Valerio Massimo, 4.3.3; Dione Cassio, 60.2. Svetonio, Claudio, 10; Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 19.162. 91 Svetonio, Claudio, 17. 92 Tacito, Annali, 15.72. 93 Dione Cassio, 63.20; Svetonio, Nerone, 25. 94 Svetonio, Nerone, 31; Tacito, Annali, 15.39.1. 95 Vitruvio, Architettura, 6.5.1-2. 96 Svetonio, Galba, 1. 97 Per un approfondimento su questi dati e sulla loro interpretazione si veda D. Bruno, Una basilica sul Portico delle Danaidi, in Workshop di Archeologia Classica, 6, Pisa-Roma, 2009, pp. 137-156. Per una ricostruzione più aggiornata si veda invece A. Carandini, a cura di, Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 75. 89 90

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Accanto a questo edificio, sulla cima del Palatium, al di sopra della dimora che probabilmente lui stesso aveva commissionato e che abbiamo identificato con la prima domus Augustiana98, Nerone diede impulso alla costruzione di un nuovo palazzo. Il suo impianto, in termini di dimensione, orientamento e articolazione degli spazi, avrebbe condizionato le successive realizzazioni di epoca flavia che appaiono, alla luce di questo, molto meno innovative di quanto la tradizione ricordasse attribuendone l’ideazione al geniale architetto Rabirio99. Il progetto risentiva di un generale riassetto urbanistico favorito dalle distruzioni causate dall’incendio del 64 d.C. e che aveva coinvolto le pendici settentrionali del Palatino incluse nel complesso della domus Aurea. La Sacra via, che ora conduceva al vestibolo di quella reggia, era stata rialzata sulle macerie, rettificata e ampliata. Anche gli isolati che attraversava avevano cambiato radicalmente aspetto: il santuario di Vesta, il mercato sorto sulla vecchia domus Publica, o il luogo di culto delle curiae Veteres, erano ora inseriti in una maglia ordinata e razionale che faceva di questa parte del centro di Roma un unico nucleo monumentale100. La domus Augustiana di Nerone nacque pertanto in accordo con il nuovo impianto generale. Un clivo Palatino largo 20 metri (prima del 64 d.C. ne misurava appena 5), costeggiato da portici in prosecuzione di quelli che bordavano la Sacra via, conduceva dritto all’ingresso del nuovo palazzo che apriva su una piazza denominata area Palatina. Ad accogliere i numerosi aristocratici, che qui attendevano ogni mattina di essere ricevuti dall’imperatore per il rito della salutatio matutina, era probabilmente un vestibolo porticato e poi una specie di atrio con colonne su due lati, di cui rimangono le fondazioni esattamente al centro della c.d. aula Regia del successivo palazzo flavio, che aveva, del resto, la medesima funzione. Seguiva probabilmente un peristilio e in sequenza, sullo stesso asse, il palazzo disponeva di un particolare tipo di triclinio seminterrato, fresco d’estate e assai scenografico per via di un ninfeo a parete con nicchie e colonnine in marmi colorati e bronzo dorato che imitavano la scena di un teatro101. Si godeva della sua vista, e della frescura che procurava, pasteggiando sdraiati su triclini sistemati attorno ad un’ulteriore fontana all’ombra di un padiglione posto al centro di una corte scoperta; su di essa affacciavano due appartamenti con cubicoli e ulteriori triclini anch’essi rivestiti in pregiati marmi su pavimenti e pareti e con affreschi sulle volte impreziositi addirittura da inserti in oro e pietre dure. Di tutto questo sappiamo dai resti archeologici poiché il triclinio fu scoperto intorno al 1724 in eccezionale stato di conservazione. La sua vita, del resto, dovette essere breve: i bolli laterizi individuati nel pavimento datano la sua costruzione al 67 d.C., eppure già nel 69 d.C. un incendio ne dovette sancire l’abbandono: in quella data, infatti, i muri (anch’essi con bolli) di un nuovo impianto ne invasero gli ambienti. Affiancato al corpo di fabbrica fin qui descritto ve ne era un secondo, forse destinato alla vita privata della famiglia imperiale, come sarebbe stato nel successivo palazzo flavio. Ne possediamo pochi resti, tuttavia si intuisce che vi si entrava dalla cima del monte e che, superata una specie di corte o vestibolo, si incontrava un secondo peristilio circondato da sale triclinari. Da qui si scendeva poi ad un livello seminterrato, ricavato tramite un profondo taglio nel tufo del monte contenuto da muri databili a quest’epoca per tecnica edilizia: a questa quota, come sarebbe stato in seguito, si trovavano probabilmente i cubicoli e gli ambienti più intimi e protetti. Una delle stanze da letto di Nerone affacciava sul Circo Massimo: da lì, sdraiato, l’imperatore poteva assistere alle corse nell’arena sottostante. Questo cubicolo – racconta Tacito102 – un volta scoperchiato, sarebbe diventato per sua stessa iniziativa un podio all’aperto, una tribuna panoramica, come il cosiddetto maenianum ricostruibile sul fronte della domus Augusti. Del resto, avanzi di sostruzioni databili a quest’epoca, assicurano che il palazzo raggiungeva il ciglio del monte rivolto al circo, e anzi ne aveva regolarizzato e avanzato il profilo naturale. Vedi, supra, L’età giulio-claudia. Marziale, 7.56, 10.31. Per una ricostruzione del complesso della reggia neroniana si veda A. Carandini (a c. di), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 110. 101 Per una ricostruzione di questo triclinio si veda A. Carandini (a c. di), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 75. 102 Tacito, Annali, 15.53.1; Svetonio, Nerone, 12.2; Plinio, Panegirico, 51.3-5. 98 99

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Se si escludono le pendici, ancora in parte destinate ad attività commerciali e servizi, il Palatino già in quest’epoca era dominato dal palatium. Nessun privato dopo il 64 d.C. abitava più qui. Le acquisizioni regolari o coatte, favorite peraltro dal disastroso incendio, e l’assorbimento nella corte di gran parte dell’aristocrazia, avevano permesso alla proprietà imperiale di estendersi a dismisura. L’angolo sudorientale, corrispondente alle c.d. Arcate Severiane, fu terrazzato e ospitava forse un esteso giardino; stessa destinazione aveva probabilmente il quadrante nord-orientale del monte, oggi Vigna Barberini, dove gli scavi non hanno individuato costruzioni relative a quest’epoca, fatta eccezione per la recente scoperta di una torre circolare a tre piani situata proprio all’angolo, la cui interpretazione è al centro di un acceso dibattito. Si è pensato di riconoscervi, infatti, la cenatio rotunda descritta da Svetonio come il più lussuoso e stravagante allestimento della domus Aurea; la sua posizione, tuttavia, ai margini di quella reggia, potrebbe suggerire di vedervi piuttosto una di quelle torri panoramiche che punteggiavano gli horti romani e che figuravano nelle coeve pitture di paesaggio. Anche la domus Tiberiana fu coinvolta nella rivoluzione urbanistica iniziata da Nerone. Senza intaccare il palazzo vero e proprio, né il nucleo residenziale più antico, in cui abbiamo identificato la domus Tiberii, il basamento sostruito che caratterizzava questo complesso fu notevolmente esteso. Da un lato raggiunse l’area Palatina inglobando una serie di isolati e il più antico clivo Palatino (A), la cui funzione fu probabilmente ereditata dalle gallerie interne al basamento stesso. Dall’altro conquistò l’angolo più panoramico del monte, un tempo occupato dalla domus di Cicerone. Al di sopra di nuove concamerazioni voltate su più piani, attrezzate con sistemi di areazione e intercapedini isolanti (da cui provengono mattoni bollati nell’età di Nerone), fu realizzato un giardino che cingeva il fabbricato principale e che a sua volta era bordato da un portico a L, un’ambulatio pensile rivolta al Foro, al Campidoglio e alla Velia. A questo portico conduceva una scalinata monumentale, protesa verso la Sacra via, che offriva l’accesso principale al palazzo dalla via rettilinea che nel nuovo impianto urbanistico aveva sostituito il primo tratto del più antico clivo Palatino (A). L’età flavia Vespasiano, e soprattutto Domiziano, portarono a compimento e al massimo sviluppo i progetti avviati da Nerone: negli anni del loro impero il Palatino assunse la forma definitiva che ancora oggi, seppur in rovina, conserva. Gli interventi edilizi promossi da questa dinastia coinvolsero tutti e quattro i nuclei residenziali che componevano il complesso dei palazzi imperiali: la domus Augusti, la domus Augustiana, la domus Tiberiana e la domus Gai (fig. 16). L’unico corpo di fabbrica, ancora una volta simbolicamente risparmiato per via del suo alto valore sacrale, fu la parte privata della domus Augusti. Intorno all’80 d.C. il poeta Marziale103, immaginando di condurvi un suo libro, destinato alla bibliotheca Apollinis, di fronte alla facciata di quella dimora provava lo stesso stupore manifestato anni prima da Ovidio104: un ingresso così lussuoso e splendente da intimorire, che conduceva ad una dimora dai nobili Penati, amata sopra ogni altra dal dio Apollo. Ciò che era cambiato, tuttavia, era il contesto (fig. 11): emerge dall’itinerario tracciato da Marziale, infatti, il paesaggio modificato dalla ricostruzione successiva all’incendio del 64 d.C. Per salire alla domus Augusti non si imboccava più il clivo Palatino più antico (A) che passava sotto alla porta Mugonia, ma, superata la casa delle Vestali, bisognava proseguire per il clivus Sacer, ovvero la via porticata voluta da Nerone, e poi salire sul monte percorrendo il secondo clivo Palatino (B), che menava dritto alla domus Augustiana; da lì, infine, girando a destra e poi volgendo lo sguardo a sinistra, sarebbe apparsa la domus Augusti. Nel resto del complesso augusteo qualcosa, invece, cambiò. L’avancorpo rivolto al Circo Massimo, ad esempio, fu ricostruito con orientamento normale al circo stesso e così avanzato da frapporre solo 60 metri tra gli spalti e la tribuna imperiale (fig. 11). Anche la biblioteca fu ricostruita e al suo posto ne 103 104

Marziale, 1.70. Il poeta Ovidio, peraltro, aveva usato lo stesso espediente letterario (Tristezze, 3.1.29-68); vedi, supra, Le case del principe. 251


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Fig. 13. Domus Augustiana, etĂ antonina, post 123 d.C. Domus Augustiana, Antonine, post 123 A.D.

sorsero due, uguali, di cui restano ampi lacerti murari e la rappresentazione su un frammento della Forma Urbis severiana105; entrambe erano decorate da un colonnato interno che inquadrava le nicchie o armadi per i volumina e che rivestiva anche le absidi, ulteriormente movimentate da edicole per statue, forse di Apollo e di Minerva (figg. 13, 15). L’area che abbiamo attribuito alla domus Publica, infine, dap105

FUM, fr. 20 b.

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Fig. 14. Domus Augustiana, corpo edilizio “pubblico”, età antonina, post 123 d.C. Domus Augustiana, “public” basement, Antonine, post 123 AD.

prima fu toccata da interventi databili all’età di Vespasiano. La basilica fu ingrandita e dotata di sette grandi basi per statue, forse destinate ai Cesari divinizzati, come suggerirebbe la sua identificazione con l’aedes Caesarum106. Il lussuoso triclinio con ninfeo, invece, bruciò, forse in occasione di un incendio causato da un fulmine che sappiamo penetrò proprio nel 68 d.C. nell’aedes Caesarum107, e al suo posto furono gettate le fondamenta di una curiosa struttura circolare, forse una stravagante cenatio posta al centro di uno specchio d’acqua. In seguito, questa stessa area finì inglobata nella domus Augustiana di Domiziano che, proprio tramite questo settore, si connetteva alla domus Augusti mantenendo con essa un contatto che ne manifestava l’origine, la natura e il significato: la domus Augustiana appariva cioè come una spropositata estensione della domus Augusti. Nel corso dell’epoca flavia la domus Augustiana fu oggetto di due fasi edilizie che potremmo attribuire l’una a Vespasiano e l’altra a Domiziano; sappiamo dagli autori antichi, però, che il primo non amava risiedere sul Palatino, ma piuttosto negli horti Sallustiani108, e che invece fin dal 69 d.C. il PaVedi, supra, L’età neroniana. Svetonio, Galba, 1. 108 Dione Cassio 66.10.4. 106 107

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Fig. 15. Domus Augustiana, corpi edilizi “pubblico” e “privato”, età antonina, post 123 d.C. Domus Augustiana, the “public” and “private” buildings, Antonine, post 123 AD.

latium fu certamente la sede ufficiale del giovane Domiziano109, forse responsabile, pertanto, anche della prima fase edilizia, magari coadiuvato dal potente generale C. Licinius Mucianus, che in assenza di Vespasiano faceva le sue veci. a Roma Risalgono a questa prima fase le fondazioni di un salone d’ingresso aperto sull’area Palatina, diverso da quello ricostruibile sui resti neroniani e molto simile, invece, a quello della fase edilizia successiva: era decorato anch’esso, infatti, da colonne che inquadravano sei nicchie per altrettante statue, forse le stesse statue colossali che avrebbero ornato la sala domizianea. Alla stessa fase, inoltre, appartengono alcuni interventi che interessarono il corpo edilizio affiancato a questo: nello spazio seminterrato ricavato già all’epoca di Nerone, furono realizzati ora appartamenti organizzati in maniera simmetrica e disposti su due lati di un peristilio: c’erano, ad esempio, due sale a pianta ottagonale movimentate da nicchie per letti triclinari e per statue, tutte rivestite in marmi colorati e coperte da cupole affrescate; oppure salottini rettangolari illuminati da due chiostrine che funzionavano da pozzi di luce; o ancora stanze piccole, con tutta probabilità cubicoli, come le tre rivolte su una terza chiostrina adiacente alla scala che scendeva a questo livello seminterrato (fig. 13). In questa parte privata della domus possiamo immaginare il giovane Domiziano, oppure suo fratello Tito, che abitò per un periodo sul Palatino e dal 75 al 79 d.C. vi ospitò la sua aspirante consorte, la princi109

Tacito, Storie, 4.2.

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Fig. 16. Il sistema dei palazzi imperiali del Palatino, 180 d.C. circa. The system of imperial palaces on the Palatine, around 180 AD. 255


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pessa giudaica Berenice110, o ancora Vespasiano, con l’amata concubina Cenide111. Nella parte pubblica del palazzo, al piano superiore di cui quasi nulla conosciamo, possiamo ambientare, invece, i banchetti che lo stesso Vespasiano dava quotidianamente, così come faceva Tito112. Nei sotterranei, infine, così come avveniva un tempo nelle domus tardo-repubblicane, gallerie e concamerazioni voltate ospitavano i servizi, come una grande latrina messa in luce dagli scavi rifornita da condutture plumbee su cui si è trovato iscritto il nome di Vespasiano. A partire dall’81 d.C. e fino al 91/92 d.C. Domiziano, divenuto imperatore, promosse la seconda fase edilizia (figg. 11, 13). Il palazzo fu totalmente ricostruito, anche se sulla base di uno schema planimetrico già impostato all’epoca di Nerone. Stando alle parole dei poeti di corte, Marziale e Stazio, il progetto dell’architetto Rabirio trasformò la domus Augustiana in una sede celeste in cui Domiziano, che si autodefiniva dominus et deus, abitava come fosse Giove Tonante. Rispetto alle impressioni che aveva suscitato nei contemporanei la domus Augusti, in questo caso non erano solo il lusso e la magnificenza a stupire, e nemmeno i riferimenti alla natura divina dell’imperatore, ma soprattutto le proporzioni di questo complesso edilizio, definite dagli autori antichi con curiose iperboli: la reggia era così estesa che gli occhi si stancavano a guardarla, come l’infinita volta celeste, ma dorata, con tante colonne che potevano sostenere l’universo intero e così alta che al suo confronto le piramidi d’Egitto erano ridicole, come se i sette colli di Roma fossero stati messi uno sull’altro, fino a raggiungere le stelle al di là delle nuvole113. I mastodontici resti di questo palazzo palatino meravigliano ancora oggi. Si estendeva su un superficie di circa 49.000 mq e la sua facciata raggiungeva i 30 m di altezza, come un edificio moderno di 10 piani. Spiccava da una specie di podio accessibile tramite una gradinata dall’area Palatina, che si estendeva al culmine della salita dalla Sacra via, superato un arco monumentale d’ingresso dedicato probabilmente allo stesso Domiziano. Sulla facciata si aprivano tre ingressi per altrettanti ambienti (fig. 14): dei due laterali, uno immetteva in una basilica absidata lunga cento piedi (m 29,6) usata forse per amministrare la giustizia, l’altro conduceva ad un ambiente con tribunal sul fondo, forse destinato a Lararium della casa imperiale o a sede del colossus Palatinus, una statua colossale dell’imperatore114. La porta centrale, invece, apriva su una sala dalle dimensioni e dall’allestimento straordinari, la c.d. aula Regia, un magnifico atrio d’ingresso oppure la sala del trono. Misurava da sola 1286 mq e si elevava su tre ordini per circa 30 m di altezza, nelle sue pareti si aprivano otto nicchie per statue colossali (m 3,9), due delle quali, in basalto verde, furono qui scoperte; le nicchie erano inquadrate da un colonnato interno molto aggettante, ricostruibile grazie agli elementi di decorazione architettonica scoperti in situ: colonne in giallo antico, capitelli corinzi, basi lavorate in marmo bianco e frammenti di un fregio con Vittorie e cataste di armi che mirava ad esaltare le vittorie di Domiziano in Germania. Il coronamento di questa sala lasciava ancora più stupiti: lo si ricava stavolta da una moneta del 95/96 d.C. su cui è rappresentato un edificio in tutto analogo a quello fin qui descritto. Una fitta peristasi di colonne tra cui si intravedevano statue spiccava al di sopra della muratura della sala e sosteneva un tetto a doppia falda con acroteri: una specie di tempio decastilo, insomma, si ergeva in cima alla c.d. aula Regia. Superate le sale all’ingresso principale del palazzo, si incontrava un peristilio a due piani, anch’esso ricostruibile grazie agli elementi ancora oggi conservati: colonne in marmo portasanta e pavonazzetto e capitelli compositi in marmo bianco. Su di esso aprivano numerose sale di forme e dimensioni diverse aventi funzione di triclini, a giudicare dagli incassi rettangolari nelle pareti, entro cui si alloggiavano i letti. Da un lato del peristilio vi era una sequenza di salotti con absidi contrapposte, dall’altro le sale erano rettangolari e più grandi e organizzate in modo speculare, ovvero rivolte a questo ma anche al secondo peristilio, identico, che si estendeva nel corpo edilizio affiancato a questo115. Svetonio, Tito, 2; Dione Cassio, 66.15.3-4. Dione Cassio, 66.14. Dione Cassio, 66.10.6; Svetonio, Vespasiano, 22; Svetonio, Tito, 7.1-2, 9.2. 113 Stazio, Le selve, 4.2.18-31; Marziale, 8.36. 114 Marziale, 8.44, 8.60. 115 In questo settore in cui è evidente la fusione tra i due corpi di fabbrica, che hanno peraltro la medesima tecnica edilizia, si coglie non solo la contemporaneità della loro costruzione, ma anche l’appartenenza ad un unico progetto che prevedeva questo sdoppiamento di spazi e forse di funzioni. Vi è dunque una sola domus Augustiana, unico nome antico noto di questo palazzo palatino, e non una domus Flavia e una domus Augustiana, come la tradizione degli studi su questo monumento ha finora affermato. 110 111 112

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Al fondo di questa sequenza di spazi, simile in un certo senso a quella che tradizionalmente improntava l’architettura domestica privata (atrio-peristilio-triclinio), si trovava un secondo gigantesco salone, poco più piccolo dell’aula d’ingresso (figg. 13-15). Qui colonne di granito rosa scandivano l’ingresso e le pareti, che si innalzavano decorate da ulteriori ordini di paraste, e il pavimento era in opus sectile, di cui si conserva un lacerto, riposizionato, nell’abside in fondo alla sala. Si trattava probabilmente di un triclinio, o meglio di un oecus (salone) del tipo Cyzicenus, con finestre che aprivano ai lati su due cortili porticati simmetrici. Era denominato cenatio Iovis116, per via dell’assimilazione di Domiziano con Giove e probabilmente per la sua grandiosità che faceva dire a Marziale che solo ora, finalmente, il palazzo palatino era degno di ospitare i convivi imperiali e le superbe vivande che vi si consumavano117. A partire dalla prima età imperiale, e in particolar modo con gli imperatori flavi, i banchetti a corte divennero sempre più frequenti, assumendo i connotati di un rito dal valore simbolico e dal significato politico, tanto quanto le salutationes matutinae. Erano occasioni per gli ospiti di frequentare la corte, ma anche per l’imperatore di guadagnare consenso presso l’aristocrazia sempre pronta alla congiura118. Il numero eccezionale di spazi riservati a triclini, che emerge dall’analisi della planimetria del palazzo, suggerisce di ambientarvi gli immensi banchetti a cui sappiamo che Domiziano invitava anche mille persone119; la loro estrema varietà, invece, lascia immaginare che gli ospiti fossero suddivisi in base al rango e alla consuetudine con la famiglia imperiale e che, in base a ciò, spettasse loro un salotto piuttosto che un altro. Se nella parte del palazzo fin qui descritta possiamo dunque ambientare le attività pubbliche dell’imperatore, desideroso di rappresentare sé stesso come un dio che riceve e soggiorna in saloni di proporzioni straordinarie, nel secondo corpo edilizio, affiancato e tangente, dotato di stanze più a misura d’uomo, possiamo immaginare la sua vita privata. Una corte cinta da mastodontiche colonne120 costituiva una specie di atrio d’ingresso (fig. 11); recenti scavi hanno dimostrato che si trattava di una piazza o di un giardino libero da costruzioni, ad eccezione di un basamento quadrangolare, probabilmente per un tempietto. Dalla gran messe di fonti letterarie che riguardano la domus Augustiana si è tratta l’ipotesi di identificare questo luogo con l’aulé Adonidis, o corte di Adone, un giardino di palazzo dai richiami orientali, dove si coltivavano piante in vaso. Qui, racconta Filostrato, Domiziano ricevette il filosofo Apollonio di Tiana121; intento a sacrificare a Minerva, alla quale era pertanto dedicato un tempietto in questo luogo, si accorse all’improvviso della sua presenza, forse riflessa nel marmo che rivestiva il muro dietro alle colonne: uno dei portici di palazzo, infatti, e forse proprio questo, aveva pareti rivestite in alabastro trasparente (fenghite) perché Domiziano, ossessionato dagli agguati, potesse vedere cosa accadeva alle sue spalle122. Seguiva, in una sequenza analoga a quella del corpo edilizio affiancato a questo, un peristilio circondato da sale triclinari su tre lati (fig. 13). Il terzo lato, rivolto a sud, ospitava gli appartamenti più articolati, simmetrici e speculari, con piccoli chiostri, stanze adibite a ninfei, triclini e cubicoli. Di questi ultimi, in particolare, ricaviamo l’esistenza dal piano inferiore, già costruito all’epoca di Vespasiano, oltre che dalla ricostruzione di età antonina di cui si conservano i resti (fig. 16). In questo settore del palazzo affacciato su un ulteriore peristilio a due piani, di cui quello inferiore illuminava gli ambienti seminterrati, si trovava un balneum, di cui rimangono alcune strutture, forse una specie di studiolo con luogo di culto di Minerva, in cui sappiamo che l’imperatore amava rifugiarsi per scrivere123, e probabilNon è escluso, tuttavia, che oltre ad ospitare i sontuosi pranzi della corte, questa sala avesse ereditato la funzione di sede del culto imperiale che rivestiva l’aedes Caesarum che qui sorgeva fino al 68 d.C.: vi era nel palazzo, del resto, una aedes Divorum, che sembrerebbe un suo duplicato. 117 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Pertinace, 11.6; Marziale, 8.39, 9.91. 118 Dione Cassio, 65.16.3. 119 Dione Cassio, 67.9. 120 Si conservano le imponenti fondazioni di questo portico, con i vuoti lasciati dall’asporto dei blocchi di travertino che sostenevano le colonne. Architettura e proporzioni sono confrontabili con quelle del Foro Transitorio realizzato, del resto, proprio da Domiziano. 121 Filostrato, Vita di Apollonio, 7.32. 122 Svetonio, Domiziano, 14.4-6. 123 Marziale 5.5. 116

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mente le stanze private di Domiziano e di Domizia Longina, sua moglie, che vissero a corte dal 70 al 96 d.C. Completava il palazzo, affacciato sul Circo Massimo, un sistema di sale con esedre panoramiche ai lati di un grande ambiente, forse il cubiculum da cui possiamo immaginare che l’imperatore assistesse alle corse nell’arena sottostante124. In questo corpo edilizio vi era, infine, un settore ancora più intimo, riservato e protetto, situato al livello seminterrato e raggiungibile tramite due soli, forse sorvegliatissimi, ingressi: una scala che scendeva qui dal cuore del palazzo e una rampa, entrambe rivestite in preziosi marmi colorati e affrescate nelle volte (figg. 13-15). Erano questi, probabilmente, i penetralia Palatii, gli appartamenti in cui Domiziano si ritirava in solitudine125. Qui erano lussuosi ambienti di soggiorno decorati con statue, ma anche un ninfeo e una latrina, proprio accanto a tre stanze delle dimensioni di cubicola. Qui, del resto, doveva trovarsi il vero e proprio cubicolo dell’imperatore in cui, circondato da servitori e vegliato da una statua Minerva in armi, sua divinità protettrice che campeggiava in un piccolo sacrarium o addirittura accanto al suo letto126, Domiziano passava le notti tormentato dagli incubi sulla sua morte violenta. Proprio in questo cubicolo, del resto, le sue paure si sarebbero concretizzate: il 18 settembre del 96 d.C. alcuni inservienti addetti alla sua camera da letto lo tradirono trafiggendolo con sette pugnalate127. La domus Augustiana non si esauriva nei due corpi edilizi fin qui descritti. Adiacente ad essi, sul versante del Palatino rivolto a Celio, si estendeva, infatti, un giardino porticato a forma di ippodromo, lungo oltre 140 m, decorato con statue, altari e forse una tholos (fig. 13). Portico e giardino giacevano al livello seminterrato del palazzo, ma un terrazzo soprastante il portico, in cui si apriva una gigantesca esedra a semicupola decorata da nicchie e colonne, comunicava con il piano nobile. Vi erano, infine, a ridosso di questo giardino, un padiglione a nord caratterizzato da una sala da pranzo sistemata dentro un ninfeo, e un edificio a sud-est, con panoramico peristilio pensile, sorretto da due piani di concamerazioni voltate (la prima versione delle c.d. Arcate Severiane). Il secondo palazzo palatino, la domus Tiberiana, molto poco menzionato dagli autori antichi rispetto al primo, fu invece al centro delle cronache dell’anno 69 d.C. Gli imperatori Otone e Galba vi passarono attraverso per raggiungere il Foro dalla domus Augustiana, sfruttando probabilmente il sistema di gallerie che ne solcavano il basamento. Vitellio, invece, scelse di banchettare qui per meglio godersi lo spettacolo del tempio di Giove Ottimo Massimo che bruciava a causa dell’incendio da lui stesso appiccato. Quanto a Vespasiano e Domiziano, non sappiamo se abitarono nella domus Tiberiana, ma certamente si dedicarono a modificarne l’impianto (fig. 12). All’epoca del primo imperatore della dinastia flavia, infatti, la monumentale scalinata rivolta alla Sacra via lasciò spazio ad un fronte di nuove concamerazioni entro cui furono sistemati un balneum e una latrina decorata con affreschi ancora oggi ben conservati, ad uso del personale al servizio nel palazzo; per la corte, invece, al livello superiore del basamento, fu realizzato un padiglione termale ad un angolo e una vasca ellittica all’altro. Negli anni dell’impero di Domiziano le modifiche furono ancora più consistenti. Innanzitutto, solo ora, l’antico nucleo residenziale in cui abbiamo identificato la domus Tiberii fu abbandonato e sepolto da un interro unitario, e al di sopra si estese la domus Tiberiana con i suoi giardini. Da questa parte fu addossata al basamento una lunga fila di ambienti comunicanti con i sotterranei del palazzo, in cui alcuni graffiti suggeriscono di localizzare gli alloggi del corpo di guardia. Dalla parte opposta, invece, rivolta alla Velia, il balneum vespasianeo fu abolito in nome di un ampliamento delle sostruzioni costituite da concamerazioni voltate su due piani, di cui gli stucchi che decorano le volte e i mosaici che rivestono i pavimenti denunciano un utilizzo nient’affatto di servizio, ma piuttosto forse già una funzione amministrativa. Dalla parte del Velabro, infine, ulteriori sostruzioni avanzarono artificialmente il ciglio del monte creando una facciata monumentale caratterizzata dalle arcate, decorate da semicolonne, di un portico panoramico accessibile dall’interno del basamento (fig. 12).

Plinio, Panegirico, 51.3-5. Plinio, Panegirico, 48; Svetonio, Domiziano, 21. 126 Svetonio, Domiziano, 15.2-3; Dione Cassio, 67.16.1. 127 Svetonio, Domiziano, 16-17; Dione Cassio, 67.15.1, 67.17.1. 124 125

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Grazie a quanto si conserva al livello superiore del basamento, e a quanto invece si può dedurre dai livelli inferiori, si può tentare di ricostruire l’aspetto della domus Tiberiana nell’epoca di Domiziano (fig. 12). Il palazzo vero e proprio fu intaccato nel suo cuore, il peristilio, che fu di poco spostato per fare spazio ad un nuovo ambiente absidato aperto su uno dei lati corti; si dovette ricostruire, pertanto, anche la piscina al centro del giardino, analoga alla precedente. Al posto del padiglione termale realizzato da Vespasiano, poi, fu costruito un più grande impianto con la stessa funzione, curiosamente orientato sui punti cardinali e con lunga piscina o natatio. Accanto ad esso sorse un nuovo nucleo edilizio costituito da appartamenti, con sale riscaldate, e un piccolo peristilio centrale. Il resto del basamento fu lasciato a giardino, cinto su tre lati da un portico panoramico che consentiva di passeggiare per oltre 260 m. Il quarto nucleo palaziale del Palatino, infine, la domus Gai, fu anch’esso oggetto nell’età di Domiziano di una completa ricostruzione, di cui rimangono cospicui resti (fig. 16). Dov’era una residenza, seppur stravagante come quella di Caligola, sorgevano ora un’aula di spropositata grandezza aperta verso il Foro, paragonabile per dimensione e forse allestimento alla c.d. aula Regia della domus Augustiana; alle sue spalle erano due sale minori, una delle quali forse destinata a luogo di culto di Minerva (qui sarà impiantata nel V secolo d.C. la chiesa di S. Maria Antiqua), mentre ancora dietro si trovava un’opera ingegneristica di grande efficacia e funzionalità, una rampa che con sei tornanti superava un dislivello di 35 metri consentendo di raggiungere la cima del Palatino e la domus Tiberiana dalle bassure del Foro e del Velabro. L’età antonina Nulla apparentemente cambiò nella domus Augusti durante l’età antonina; dati archeologici e fonti letterarie permettono di risalire alle notevoli modifiche che interessarono invece la domus Augustiana nello stesso periodo (figg. 13-15). Innanzitutto le due facciate del palazzo cambiarono aspetto. Quella rivolta al Circo Massimo fu avanzata verso valle e ricostruita sotto forma di terrazza porticata dal profilo semicircolare, su cui affacciavano nuove esedre e salette per ospitare la corte in occasione delle gare nell’arena sottostante. Quella rivolta all’area Palatina, invece, fu dotata di un portico a colonne, di cui si conservano alcuni fusti in cipollino e frammenti di trabeazione in marmo bianco, che seguiva il profilo di tre avancorpi (addossati all’originario podio) funzionali a dare risalto ai tre ingressi che caratterizzavano l’originaria facciata. Con l’aggiunta del colonnato la facciata era ancor più sontuosa e monumentale, ma anche più solida, sorretta da questo portico e da una serie di pilastri e contrafforti costruiti in quest’epoca in altri punti del fabbricato d’ingresso: evidentemente, a distanza di trent’anni circa dalla sua costruzione, il corpo di fabbrica della c.d. aula Regia, troppo elevato, o forse costruito troppo in fretta su un terreno incerto, dava segni di un pericoloso cedimento. Le strutture di rinforzo sono databili, per via della tecnica edilizia e dei bolli rinvenuti nelle murature, all’età di Adriano che, sebbene per brevi periodi dovette risiedere qui con la moglie Vibia Sabina. Ancor prima vi avevano abitato Nerva, che aveva fatto affiggere sulla facciata la scritta “palazzo pubblico”, e Traiano con la moglie Plotina, entrata a palazzo dalla scalinata rivolta all’area Palatina nel 99 d.C.128 Nel resto del corpo edilizio “pubblico” si trovano le tracce di ulteriori interventi databili a quest’epoca ma di lieve entità, finalizzati ad abbellire gli spazi verdi - allestendovi articolate fontane, una delle quali a labirinto -, oppure mirati ad aumentare il comfort del palazzo: sotto il pavimento della cenatio Iovis, ad esempio, fu impiantato un sistema di riscaldamento ad ipocausto. Nel corpo edilizio “privato”, invece, gli interventi furono più invasivi. Nella corte che abbiamo identificato con l’aulé Adonidis, grazie a recenti indagini si è scoperto che il livello del giardino fu scavato al di sotto delle fondazioni per ricavare corridoi e ambienti al piano sotterraneo, da destinare ai servizi; alla quota superiore furono realizzati invece due appartamenti triclinari che occuparono parte dell’originario giardino. Il peristilio adiacente, progettato da Rabirio identico a quello situato nel corpo edilizio “pubblico”, fu differenziato 128

Plinio, Panegirico, 47.4; Dione Cassio 68.5.5. 259


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rendendone curvo un lato: una piscina fu allestita inoltre al centro dello spazio aperto, che riprendeva anch’essa il medesimo motivo curvilineo. Gli appartamenti che affacciavano sul terzo peristilio del palazzo furono in buona parte ricostruiti, e ancora se ne conservano i muri. Al livello seminterrato, invece, si pensò a vasche e fontane da sistemare nelle tre chiostrine, o pozzi di luce, e nel cortile principale dove, al centro del bacino, l’originario podio fu ritagliato in modo da creare un complicato motivo decorativo a pelte. Dal 137 d.C. la domus Augustiana fu eclissata dalla domus Tiberiana, che divenne residenza ufficiale del nuovo imperatore Antonino Pio129. Abitarono con lui nel secondo palazzo del Palatino la moglie Faustina Maggiore, le due figlie e i due figli adottivi Lucio e Marco Vero, che qui furono educati dai migliori precettori130, intellettuali come lo scrittore Aulo Gellio che frequentavano la corte e la famosa bibliotheca domus Tiberianae131. Nel 161 d.C. Antonino Pio si spense, e sia Marco che Lucio Vero divennero Augusti, dando vita per otto anni ad un eccezionale regime di “diarchia adottiva” stabilito molto tempo prima dalla illuminata volontà di Adriano. Due imperatori necessitavano di due palazzi, e infatti, dopo 23 anni nella domus Tiberiana132, sappiamo che Marco Aurelio si trasferì, mentre Lucio Vero rimase nella casa paterna. Marco, sua moglie Faustina Minore e i loro figli, tra cui il futuro imperatore Commodo, andarono a vivere nella domus Augustiana. Lucio Vero, invece, abitò fino alla morte, nel 169 d.C., con Lucilla e i figli, abbandonandosi ad una vita dissoluta che le fonti letterarie descrivono proprio sullo sfondo della domus Tiberiana. Tra i suoi vizi c’erano il gioco, il cibo e le corse: amava le gare nel Circo Massimo e faceva il tifo per la fazione dei Verdi, e in particolare per un cavallo, di nome Volucer, che si fece portare a palazzo133. Proprio quest’ultima passione sembra trovare una curiosa conferma in una serie di modifiche che interessarono il secondo palazzo palatino proprio in quest’epoca, e di cui possediamo tracce archeologiche. Dalle strutture rinvenute, infatti, si deduce la volontà di trasformare le aree verdi sul basamento della domus Tiberiana in un giardino a forma di circo, identico a quello della domus Augustiana nella forma, nella dimensione e perfino nell’orientamento (fig. 16): chissà che l’intenzione non fosse una semplice imitazione di schemi architettonici tipici di una residenza imperiale, ma quasi una concorrenza tra i due imperatori e le loro due residenze. Perché i portici di questo giardino fossero lunghi abbastanza fu necessario aggiungere nuove sostruzioni sul fronte del palazzo rivolto alla Velia, che inglobarono parte della strada che correva a mezza costa ai piedi del basamento trasformandola in vicus tectus. In questi numerosi ambienti, grazie ad alcuni graffiti e a un’iscrizione, si possono immaginare gli uffici della cancelleria imperiale, la sede del ministro delle finanze (procurator a rationibus), e gran parte degli archivi dello Stato134. L’età severiana Nel 204 d.C. la domus Augusti fu teatro delle celebrazioni dei Ludi Saeculares135, istituiti da Augusto 220 anni prima, nel 17 a.C. Per tre giorni in città si susseguirono processioni e spettacoli, improntati all’augurio di un nuovo periodo di prosperità, una specie di rifondazione che infatti pescava riti e simboli dalla memoria delle origini: Settimio Severo, allora in carica, mostrava la volontà di identificarsi con un rifondatore, come Augusto e addirittura come Romolo. Il complesso edilizio subì in quest’epoca piccole modifiche, attestate dall’analisi archeologica: una fontana fu allestita nel terrazzamento superiore e l’avancorpo sostruito, che abbiamo denominato maenianum, fu ulteriormente avanzato in direzione del Circo Massimo. Scrittori della Storia Augusta, Vita di Antonino Pio, 10.4. Scrittori della Storia Augusta, Vita di Lucio Vero, 2.3, 2.6. 131 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Antonino Pio, 10.4; Gellio, Notti Attiche, 13.20.1. 132 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Aureliano, 7.2. 133 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Lucio Vero, 4.4-5.1, 6.4. 134 Dione Cassio, 73.24.2. 135 CIL, VI 32327. 129 130

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Nella domus Augustiana, nel 192 d.C., all’indomani della morte di Commodo, che ai palazzi del Palatino aveva preferito le aedes Vectilianae sul Celio, entrò Pertinace, primo di una serie di imperatori destinati ad un regno brevissimo, acclamati dall’esercito, pronto a deporli con la stessa rapidità e con metodi violenti. In questo periodo il palazzo non fu più oggetto di ristrutturazioni o abbellimenti, ma anzi fu trascurato, se non sfruttato come una risorsa per fare cassa: lo stesso Pertinace fu costretto, ad esempio, a tagliare le spese per i banchetti a corte e a bandire un’asta per le costose suppellettili e il personale di servizio, troppo numeroso136. I frequenti agguati che preparavano le rapide successioni imperiali causarono l’instaurarsi a palazzo di un clima di terrore. Nel racconto degli autori antichi, gli ambienti, fin qui descritti per il loro lusso e la magnificenza delle occasioni che ospitavano, divennero lo sfondo di agguati e di inseguimenti, e si macchiarono del sangue degli omicidi. Pertinace, ad esempio, sorpreso dai soldati nella cenatio Iovis, provò a riparare nei vicini appartamenti al piano seminterrato, denominati interiora, ma fu raggiunto e trafitto da un’asta in pieno petto proprio nnel cubicolo imperiale137, dove era morto anche Domiziano; il successore Didio Giuliano, invece, fu decapitato mentre era in uno dei balnea di palazzo138. Unico periodo di splendore della domus, e di tutto il complesso dei palazzi imperiali nel corso del III secolo, fu il regno di Settimio Severo che, sebbene residente a Roma per soli quattro anni, dal 200 al 204 d.C., lasciò una forte impronta sulle costruzioni palatine. Abitò qui con la moglie Iulia Domna, di origini orientali, e con i figli, Geta e il futuro imperatore Caracalla. Nel corpo edilizio “pubblico”fece rinnovare l’apparato decorativo: furono dipinte, ad esempio, le volte delle due sale ai lati della c.d. aula Regia, usate per amministrare la giustizia: l’imperatore vi fece dipingere il cielo stellato di Leptis Magna, sua città natale139. Fece ricostruire il portico del giardino a forma di ippodromo, rinnovando i rivestimenti e la decorazione architettonica. Commissionò, inoltre, l’ampliamento delle sostruzioni oggi note come Arcate Severiane, su cui volle impiantare un balneum e un padiglione di appartamenti, dotato di comfort e privacy, in cui forse possiamo immaginare l’imperatrice che, raccontano gli autori, era donna influente, colta e soprattutto indipendente. A questa parte periferica del palazzo, infine, che prediligeva, diede una facciata monumentale che nelle intenzioni doveva stupire chi, come lui, proveniva a Roma dall’Africa percorrendo pertanto la via Appia: si trattava del Septizodium, una quinta scenografica a tre ordini di colonne, alla cui base zampillavano fontane. Alla morte di Settimio Severo, nel 211 a.C., il palazzo piombò nuovamente in un clima di terrore. Vi abitarono insieme140 i correggenti Caracalla e Geta, fino a che il primo non fece assassinare il secondo, tra le braccia di Iulia Domna nel suo appartamento periferico, forse quello al di là del giardino a forma di circo141. Con l’ingresso di Elagabalo nel 219 d.C., invece, si aprì un periodo improntato alle stravaganze di quel sovrano-sacerdote di origini orientali, di cui la reggia divenne scenario. Nei portici e nei triclini furono ambientate feste a tema, sontuose cene e messinscene a sfondo erotico; in alcuni ambienti fu aperto un bagno pubblico e in altri un lupanare142; dalle fontane sgorgavano vino e assenzio e petali di fiori cadevano dal soffitto fino a soffocare gli ospiti; nei cortili della reggia, infine, rivestiti in marmo colorato e battezzati plateae Antoninanae, Elagabalo scorazzava con un cocchio come in un’arena143. Dall’analisi dei resti archeologici sappiamo che effettivamente in quest’epoca i pavimenti dei peristili furono riallestiti; quello nel settore “pubblico” della casa, in particolare, si estese su parte della piscina coprendola, ma risparmiando la fontana ottagonale a labirinto. Accanto ad essa fu realizzato un basamento, di cui restano alcuni muri, forse per un tempietto dedicato a Serapide, a cui rimanderebbero alcuni oggetti rinvenuti in zona. A questi si sommano altri indizi di nuovi culti impiantati nel palazzo Scrittori della Storia Augusta, Vita di Pertinace, 7.8-11. Scrittori della Storia Augusta, Vita di Pertinace, 11. 138 Dione Cassio 73.17.5; Scrittori della Storia Augusta, Vita di Didio Giuliano, 8.6; Eutropio, 8.17; Aurelio Vittore, I Cesari, 19.3-4. 139 Dione Cassio, 77.1.1; Scrittori della Storia Augusta, Vita di Severo Alessandro, 2.8-9. 140 Dividendo la domus in due metà, murando le porte di comunicazione, ma mantenendo un ingresso comune: Erodiano, 4.1.1-5. 141 Dione Cassio 78.2.1-6; Scrittori della Storia Augusta, Vita di Caracalla, 2.4. 142 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Elagabalo, 8.6, 24.2. 143 Scrittori della Storia Augusta, Vita di Elagabalo, 24.6; Scrittori della Storia Augusta, Vita di Severo Alessandro, 25.7. 136 137

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imperiale: un’iscrizione e due teste di statue di dadofori scoperte al piano seminterrato suggeriscono di localizzarvi un mitreo; nello stesso luogo, definito da un passo letterario in penetralibus palatii, erano anche altari per il dio siriaco Eliogabalo144. Possediamo molte notizie, infine, della vita che condusse nella domus Augustiana il successore di Elagabalo, Severo Alessandro. Il suo regno e la sua condotta a corte, proprio in reazione ai precedenti, furono ispirati a giustizia e modestia; unico eccesso dell’imperatore era la pietas nei confronti di antenati, filosofi e letterati e perfino personaggi mitici o mistici religiosi come Orfeo, Abramo e Cristo, di cui collezionava statuette nei Lararia di palazzo e a cui rivolgeva quotidiani sacrifici. Era anche assai devoto nei confronti della madre, Iulia Mamaea, nipote di Iulia Domna, per la quale fece costruire nuovi appartamenti denominati diaetae Mamaeae145 e forse identificabili con quelli sopra alle c.d. Arcate Severiane, effettivamente databili per via dei bolli laterizi a questo ultimo scorcio dell’età severiana. Sappiamo, infine, che Severo Alessandro usava bere ogni giorno l’acqua delle piscine, portata sul Palatino dall’acquedotto Claudio, e che tra i suoi passatempi c’era l’allevamento degli uccelli che teneva in numero e in varietà eccezionali in apposite gabbie o aviaria. Solo grazie a recenti indagini archeologiche sappiamo che alcuni interventi edilizi interessarono nel corso dell’età severiana anche la domus Tiberiana, altrimenti assente, per questo periodo, dal racconto degli autori antichi. Nel fabbricato principale, al centro del basamento, fu modificata la piscina e furono piantati arbusti nel peristilio, mentre una nuova pavimentazione in opus sectile fu posata sotto i portici. Le sostruzioni rivolte alla Sacra via, inoltre, furono rinforzate con alcune arcate a cavallo del vicus tectus che le solcava e con altre gettate rivolto all’adiacente casa delle Vestali, forse collegata in quest’epoca con il palazzo imperiale. L’età costantiniana Per dare un primo e forte segnale di cristianizzazione della città Costantino scelse proprio la domus Augusti, il complesso palaziale del Palatino in cui erano più forti e radicati i valori fondanti di Roma, dell’impero e della religione di Stato, il paganesimo. Nel primo quarto del IV secolo d.C., infatti, sull’avancorpo prospiciente il Circo Massimo, ovvero nel punto di massima visibilità in cui tradizionalmente si instaurava la relazione tra imperatore e popolo, sorse una piccola chiesa cruciforme, con abside e transetto in opera vittata, il titulus Anastasiae (fig. 1). La tecnica edilizia e un documento epigrafico permettono di attribuirla alle fondazioni costantiniane a Roma; il suo nome, poi, rimanda ad Anastasia, sorellastra di Costantino sposata con Bassiano, Cesare d’Italia, probabilmente residente sul Palatino. La sua posizione, infine, su suolo di proprietà imperiale, e i privilegi che a distanza di secoli avrebbe mantenuto, pur trattandosi di una piccola chiesa, permettono di identificarla con la cappella palatina, la chiesa di palazzo, in cui Costantino diede probabilmente ordine di celebrare la prima messa di Natale il 25 dicembre del 326 d.C. La domus Augustiana, trascurata da Diocleziano e dai suoi colleghi tetrarchi che inaugurarono palazzi imperiali nelle nuove capitali dell’impero, tornò ad essere la residenza dell’imperatore Massenzio che, diversamente, fece del vivere a Roma e a palazzo un elemento di forza della sua politica. Nel regno di Massenzio, tra 307 e 312 d.C., possiamo datare, pertanto, alcuni interventi costruttivi e restauri che interessarono la domus e che l’analisi archeologica (tecnica edilizia, bolli laterizi, rapporti stratigrafici) daterebbe proprio agli inizi del IV secolo d.C. Fu ristrutturato, ad esempio, il grande triclinio noto come cenatio Iovis: le finestre laterali furono chiuse e i rivestimenti in marmo furono sostituiti, compreso il pavimento in opus sectile a grandi moduli di marmi colorati, di cui tuttora si conserva una larga parte. Nella corte all’ingresso del corpo edilizio “privato” furono attuati maggiori interventi, di cui abbiamo indicazione da recenti scavi: il giardino, infatti, fu ulteriormente ristretto e al centro dello spazio furono innalzati i muri di una grande aula absidata, lunga 200 piedi (m 59 circa), che trova confronto con le 144 145

Aurelio Vittore, I Cesari, 23.1. Scrittori della Storia Augusta, Vita di Severo Alessandro, 26.9.

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sale che caratterizzavano i palazzi imperiali sparsi nelle province, per esempio la maestosa c.d. aula Palatina di Treviri, ancora oggi integra. Sulla base del cerimoniale dell’epoca, noto dalle fonti letterarie, possiamo identificare questa basilica con il consistorium principis, il luogo in cui si celebravano solenni adunate di carattere politico, ma anche banchetti ufficiali che avevano come protagonisti l’imperatore, sul trono al centro dell’abside, e l’apparato di alti dignitari seduti al suo fianco. Fronteggiava Massenzio, o comunque colui che occupava il fulcro di questa sala, un tempietto realizzato in questa stessa epoca in mezzo alla piscina del peristilio adiacente, collegato da un ponticello con il portico, modificato contemporaneamente per fare da vestibolo, o meglio da nartece, all’aula basilicale suddetta. Opera di Massenzio, infine, fu un nuovo impianto termale realizzato sulle sostruzioni rivolte al circo, di cui ancora oggi si conservano cospicui resti al di sopra delle c.d. Arcate Severiane. Il 29 ottobre del 312 d.C. Costantino vinse Massenzio nella celebre battaglia di Ponte Milvio. All’indomani entrò nel palazzo palatino, dove rimase tuttavia per pochi giorni, preferendo per i suoi soggiorni romani il periferico Sessorium, una residenza alternativa in stretta vicinanza con la Basilica del Laterano. Costantino fece la sua ultima comparsa a Roma nell’estate del 326 d.C., ormai inviso all’aristocrazia pagana, contrario alle cerimonie tradizionali che avrebbero dovuto accompagnare il suo adventus, a disagio nei palazzi palatini e nell’intera città che faticava ad abbracciare la nuova religione cristiana. Il 26 novembre dello stesso anno avrebbe posato la prima pietra di Costantinopoli, una seconda Roma ma cristiana, in cui avrebbe abitato tra le mura di un nuovo palazzo straordinariamente simile a quello Palatino, ineludibile modello di dimora imperiale.

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The Palatium. The Palatine Hill, home of the powerful Daniela Bruno

Introduction The heart of Rome is a hill called Palatium, the Palatine Hill. For the ancients it coincided with the first city, girdled with walls and blessed by the gods, founded by Romulus eight centuries before Christ. Even for the moderns it is a place of inestimable historical value, an archaeological area dense with testimonies of a distant past, which have been spared by post-ancient urbanization and are hence exceptionally well preserved in some points. Indeed, the modern city has never occupied this corner of ancient Rome, whose life appears to have come to an end with the decline of the Empire. Between the fifth and eighth century AD, all the buildings on the Palatine Hill were abandoned. Some were buried under mounds of debris, others gave way to graveyards or small cult places, other still, exposed to the ravages of time, suffered collapses and plundering. Vegetable gardens and vineyards soon covered the whole hill. Eventually, from the fifteenth-sixteenth century onward, archaeological excavations began. Their initial intent was to recover valuable materials, but as time went by they were increasingly prompted by scientific interest. The landscape thus changed again, until it became the present one (Fig. 1). The monumental ruins of the imperial palaces dominate the Palatine Hill we visit today. It is indeed here that the emperors established their official residence from the first to the fourth century AD, creating an innovative building type, the palace, which was to be widely imitated in the provinces and in the subsequent centuries. The palace was not a mere residence, however large and luxurious. It was a building complex combining private and public, residential, official, and even religious functions, in connection with the emperor’s special status. The increasingly grandiose and elaborate imperial palace eventually came to be identified with the Palatine Hill itself. This is how the toponym Palatium came to be used as a designation for the imperial palace that stood on it and, later on, palaces in general, wherever they were.1 In this semantic glide there was a principle of simplification, but also the idea that the imperial palace represented and synthesized in itself the whole palatine landscape of the imperial age. In the light of the diachronic and synchronic archaeological studies and topographical reconstructions carried out on the whole Palatine Hill so far, today the imperial palace appears to us as even more representative of the landscape as a whole. It is the result of a long tradition that saw community leaders, kings, the elite, and finally the emperors making their home here. The characteristics and architecture of the imperial palace, the function of its spaces, and the symbolic meaning of some of its parts, which appear innovative compared to the rest of Rome or the Roman world in general, find parallels and their explanation in earlier residential experiences on the Palatine Hill, whose investigation is hence of paramount importance. Telling the story of the imperial palace thus becomes an occasion to outline the whole history of the landscape of this area of the city, seen in the light of its vocation as a residence for very high-ranking people. Behind the modern term “palace� there is not only an important monument of ancient Rome, the imperial palace, but the Palatine Hill as a whole, which stood as the seat of power from the earliest times.

1

Dio Cassius, 53.16.5-6.

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D. Bruno The Palatium. The Palatine Hill, Home Of The Powerful

The houses of the kings According to ancient writers, even before the city was founded, in a time suspended between myth and history, the wicked bandit Cacus (from the Greek kakós, “the bad one”) lived on Palatine Hill. He was king of the Siculi and chief of a shepherd village that stood on the future site of Rome. His house was said to lie at the top of a steep stairway going up the southwest corner of the hill, which was named after him, the scalae Caci.2 At a time that the historian Dionysius of Halicarnassus placed around the middle of the thirteenth century BC,3 the legend has it that the mythical Cacus was succeeded by Evander4 (from the Greek eu-andrós, “the good man”), king of the Arcadians. Evander led an expedition of colonists from Greece and founded a settlement on the hill called Pallantion.5 He established a number of cults that enjoyed enduring popularity among the Romans: those of Victory, Faunus Lupercus, Consus, and Ceres. In telling the story of the arrival of the hero Aeneas to the future site of Rome in those same years,6 the poet Virgil imagined that he was greeted by Evander himself, and that his royal residence was located on the north slopes of the hill, where the Forum, the sanctuary of Vesta and the residences of the kings were later to stand; but this is only a fiction, or rather, an erudite reconstruction by an intellectual. Before the city was born and the Forum became its fulcrum, this part of the extensive proto-urban settlement, called Septimontium, was dominated by the naturally fortified hills of Palatium, Velia and Cermalus. The Velia was its own hill, while the Palatium and Cermalus were the two peaks of the Palatine Hill, which today are no longer distinguishable because they were altered by ancient building works. The former stood in the center of the upper plateau of the hill, while the second dominated its southwest corner. The Velia and the Palatium were the earliest of the hills of Rome to be settled. Sporadic pottery finds datable to the Final Bronze (Latial Period I) indicate that there were settlements on them as early as the eleventh or tenth century BC. Around the tenth century BC (Latial Period II, Phase A), there were hut villages on both peaks of the Palatine Hill. Archaeological digs have revealed some of these huts, which had walls of wood, clay and straw, and roofs made of branches. Shepherds lived here, as well as prominent members of the community such as the warrior or priest buried with very rich grave-goods at the edge of the two settlements, whose tomb came to light in the excavation of the so-called House of Livia.7 A large oval hut, roughly datable within the ninth century BC, was found on the south slope of the Cermalus. It stood on a natural terrace at the top of the so-called Stairway of Cacus. One can still see the foundation trenches of its walls and the holes for its wooden poles cut into the soft native tuff of the hill. Around the eighth century BC, two smaller, tangential huts were built in its stead. In the space in front of the smaller one, early 1900s excavations brought to light a pit and a primitive stone altar, which were destined to live on, through several renovations, until the end of antiquity (Fig. 2).8

Diodorus Siculus, 4.21. “Sixty years before the Trojan war”, Dionysius of Halicarnassus, 1.31.1-1.32.3. 4 Legend has it that Cacus, on Evander’s arrival, was forced to move to a dark cave at the foot of the Aventinus, a hill that was alternative to the Palatine Hill in position, character and fortune. It was the hero Hercules, who during in his long peregrinations stopped at the future site of Rome in 1235 BC, who definitively put an end to the conflict between the new and the old leaders, Evander and Cacus, by killing the latter in the collapse of his own cave. Solinus, 1.7; Propertius, 4.9.10-15; Ovid, Fasti, 1.555; Virgil, Aeneid, 8.193, 231, Dionysus of Halicarnassus, 1.34. 5 From the homonymous city in Arcadia, in the motherland, a few kilometers south of present-day Tripoli, in the heart of the Peloponnese. 6 Virgil, Aeneid, 8.102 ff. 7 E. Gjerstad, Early Rome, III, Lund, 1960, pp. 63-71. 8 Excavations by D. Vaglieri in 1907 (D. Vaglieri, Scavi al Palatino, in Notizia degli Scavi di Antichità,1907, p. 185 ff. and 529 ff.). For a study of the data, see P. Brocato, Dalle capanne dei Cermalus alla Roma Quadrata, in A. Carandini, R. Cappelli (eds), Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, Milano, 2000, pp. 284-287; for a further and more recent contribution, enriched by new findings, see F. Coletti, S. Falzone, F. Caprioli, Nuove acquisizioni sul villaggio capannicolo del Cermalus, in Scienze dell’Antichità, 13, Roma, 2006, pp. 357-387. 2 3

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The legend has it that this was the location of the modest house (tugurium) of the shepherd Faustulus9 and his wife Acca Laurentia, the humble family who allegedly raised Romulus and Remus after they had been abandoned, still swaddled, in a basket carried by the Tiber flood, which had washed it aground at the Palatine Hill, near the sanctuary of Faunus Lupercus or Lupercal, right at the foot of the scalae Caci.10 It is here that ancient authors place the later casa or aedes Romuli, the residence of Romulus when he later became king, and the adjacent curia Saliorum, the sanctuary of Mars and Ops, the deities that granted regality.11 Tradition also placed here the excavation of a pit and the lighting of the first royal fireplace, two of the foundation rites by which the whole Palatine Hill was eventually transformed into an inaugurata urbs, that is, a city blessed by the gods, under the name of Roma Quadrata.12 During the first generation of kings, possibly as early as Romulus himself, and certainly from Numa to Ancus Marcius, the royal residence with the fireplace and the annexed cult of Mars and Ops, although they stayed on Palatine Hill, where moved north to the Cermalus, the acropolis of the protourban settlement, within the new city sanctuary dedicated to Vesta at the edge of the Forum. Here, too, the testimony of literary sources is surprisingly confirmed by the archaeological data. Excavations carried out here have revealed an uninterrupted series of residences, the earliest of which goes right back to ca. 750 BC.13 This domus regia had clay and straw walls, a roof of branches, and a small portico supported by large wooden poles. It was expanded during the second half of the eighth century BC, eventually assuming a structure and attaining a size that have so far found parallels only in EtruscanLatial royal residences, although these are slightly later.14 The second generation of kings, the Tarquinii, in the name of a lay organization of the State they derived from the Greek tyrannic tradition, separated the royal residence from its cults.15 They assigned the ancient domus regia to the rex sacrorum, a priest-king embodying the religious authority that had been the king’s, and moved their own residence just outside the limits of the sanctuary of Vesta. The domus Tarquiniorum, which after the proclamation of the Republic became the domus publica, where the pontifex maximus resided, has also been investigated by archaeologists. Thanks to these still ongoing excavations, we know that it had walls of tuff blocks and, possibly as early as the late sixth century BC, a plan that would be compatible with a cruciform atrium.16 A few meters from this building, on the same northern slope of the Palatine Hill, the diggers brought to light the remains of a whole city block composed of four large houses, also of tuff opus quadratum, with rock chip floors, sewers, and cisterns for collecting rainwater. Stratigraphic evidence dates these houses to 530 BC. The best preserved of the four appears more clearly than the others to have had an atrium plan. These were probably the houses of high-ranking men, aristocrats who chose to live near their king and possibly imitated the architecture of his residence in their own, furthering a model of domus centered around an atrium that was to remain a constant of private architecture for the whole history of Rome17 (Fig. 3). Solinus 1.8; Zonara 7.3.9. Varro in Solinus, 1.18. 11 Varro, On the Latin language, 5.54; Dionysus of Halicarnassus, 1.79.11; Plutarch, Life of Romulus, 20.5-6; Dio Cassius, 53.16.5; Josephus, Judaic Antiquities, 19.1.11.75. 12 Ovid, Fasti, 4.820. 13 For an up-to-date overview of the archaeological evidence, and archaeological and reconstructive maps, see Dunia Filippi’s essay in A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, I, Milano, 2012, Regione VIII, pp. 150-156, with plates. 14 Notably, the royal palaces of Murlo and Acquarossa, found respectively in Tuscany and Umbria, and dating from the seventh century BC. 15 At the end of the seventh century BC, the cults of Mars and Ops were moved to an appositely erected building near the sanctuary, but beyond the vicus Vestae. This building was later known as the Regia. 16 This would be a very early testimony of this type of dwelling, so far only attested from the third century BC onward. However, outside of the Roman and Latial milieu, in the Etruscan centers of Regae (the port of Vulci, present-day Montalto di Castro) and Roselle, houses with cruciform atria as early as the sixth century BC were found. Others, dating from the mid fifth century BC, were excavated at Marzabotto. 17 On the origin of the atrium house from models built on the Palatine Hill, with bibliography and parallels, see P. Carafa, Le domus della Sacra via e l’origine della casa italica da atrio, in A. Carandini and P. Carafa (eds), Palatium e Sacra via, I, Bollettino di Archeologia, 31-33, Roma, 1995, pp. 266-274. 9

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Thus, from the mid-eighth century BC onward the king and his highest dignitaries resided on the north side of the hill, on a sloping strip of land between the walls of the time of Romulus and a natural creek that ran across the valley between Palatine Hill and the Velia. Eventually a path leading to the Forum and the Capitolium, the Sacra Via, ran alongside this creek. Around the mid-sixth century, the now obsolete palace walls were demolished (but symbolically preserving the gate) and the creek, which had previously been converted into a moat, was filled up. The area became a true neighborhood of elite residences owing their prestige to their position in the throbbing heart of the city, near the Forum and the sanctuary of Vesta, the holy shrine of the State, where the houses of the kings had once stood. The houses of the powerful During the Republican age, the whole Palatine Hill became residential (Fig. 4).18 The new powerful, consuls and magistrates, old-blood aristocrats and homines novi, made their homes here. Epigraphic and literary sources indicate the hill as the location of the domus of many of the protagonists of the urban public scene, from M. Valerius Volusius, consul in 505 BC, to Octavian Augustus, the initiator of the political form of the principate.19 Archaeological remains, insofar as they have been spared by later imperial buildings, have confirmed the continuity and density of habitation on the hill in this period, again showing intriguing coincidence with the accounts of ancient writers. It is not only the nearness of the neighborhood to the hub of the city’s public life that favored such a concentration of illustrious owners—leading to overcrowding by the last century of the Republic; it was also the beauty of the place, which offered panoramic views of the city, not to mention its history, which connected back to the origins of Rome and plunged back into a past that was just as legendary as it was remote. The main reason that led aristocrats to look for a house on the Palatine Hill, however, was its fame as the place of residence of the powerful, which went all the way back to the tradition about the kings’ houses that had always stood here, beginning from that of the founder Romulus himself. Finally, there was an imitative phenomenon involved as well, a fashion, since living on the Palatine Hill had become the symbol of the achievement of a certain economic, social and political status, or a means of trying to achieve it. In the late fourth century BC, a M. Vitruvius Vaccus, an aristocrat from Fundi, lived somewhere on the Palatine Hill. Vaccus was the leader of a failed revolt against Rome, which cost him the confiscation of all his property, including his house. The Senate decided to have it demolished and leave an empty lot in its place, the Vacci prata, to show what the consequences of such rebellions would be.20 The same Of the very early sacred areas, the only ones that never disappeared from the landscape of the Palatine Hill were the sanctuary of Victoria and Magna Mater at the southwest corner of the hill, that of Fortuna Respiciens on its eastern slope, and the sacred area of the curiae Veteres at the northeast corner. There also was a temple on the top of the Palatium that may have been dedicated to Luna Noctiluca and had possibly been built onto an earlier cult place. 19 The following is an alphabetical list of the individuals reported to have owned properties on the Palatine Hill: Aelii Tuberones, M. Aemilius Scaurus (cos. 115 a.C.), M. Aemilius Scaurus (aed. 58 a.C.), T. Annius Milo (pr. 55 a.C.), M. Antonius (triumvir 43-38 a.C.), P. Autronius Paeto (cos. des. 65 a.C.), Caecilia Metella, Q. Caecilius Metellus Celer (cos. 60 a.C.), Q. Caecilius Metellus Numidicus (cos. 109 a.C.), C. Caecina Largus, M. Caelius Rufus (pr. 48 a.C.), P. Caesetius Rufus, Calpurnia, L. Calpurnius Piso Caesoninus (cos. 58 a.C.), L. Calpurnius Piso Pontifex, M. Claudius Marcellus (cos. 222, 215, 214, 210, 208 a.C.), M. Claudius Marcellus (cos. 51 a.C.), Ti. Claudius Nero, A. Claudius Pulcher, Clodia, P. Clodius Pulcher, L. Cornelius Chrysogonus, P. Cornelius Lentulus Spinther (cos. 57 a.C.), P. Cornelius Scipio Nasica, P. Cornelius Silla (cos. 66 a.C.), M. Fadius Gallus, Fulvia, M. Fulvius Flaccus (cos. 125 a.C.), Hortensia, Q. Hortensius Hortalus, Q. Hortensius Hortalus, Iulia, C. Iulius Caesar, C. Iulius Caesar Octavianus Augustus, Licinia, C. Licinius Macer Calvus, L. Licinius Crassus (cos. 95 a.C.), M. Licinius Crassus (cos. 70 a.C.), P. Licinius Crassus, Livia, M. Livius Drusus (tr.pl. 91 a.C.), Q. Lucretius Vespillo, Q. Lutatius Catulus (cos. 102 a.C.), Q. Lutatius Catulus (cos. 78 a.C.), Marcia, L. Marcius Censorinus (cos. 39 a.C.), Q. Marcius Rex (cos. 68 a.C.), C. Marius, Mucia, C. Octavius, Cn. Octavius (cos. 165 a.C.), L. Octavius (cos. 75 a.C.), Pacilii, Q. Pompeius (cos. 141 a.C.), M. Porcius Cato Uticensis, Publilia, Roius Hilario, L. Roius Auctus, Rubellia Bassa, Rutilia, P. Rutilius Nudus, Q. Seius Postumus, C. Sempronius Gracchus (tr. pl. 123 a.C.), Ti. Sempronius Gracchus (cos. 177, 163 a.C.), Ti. Sempronius Gracchus (tr. pl. 133 a.C.), T. Statilius Sisenna, T. Statilius Taurus, Terentia, Tettius Damion, C. Trebatius Testa, Tullia, M. Tullius Cicero (cos. 63 a.C.), Q. Tullius Cicero, M. Valerius Messala Corvinus, M. Vipsanius Agrippa. The mentions of the cited individuals in the literary sources are collected in Lexicon Topographicum Urbis Romae, ad v. domus, vol. II, Roma, 1995. 20 Livy, 8.19.4; Cicero, De domo sua, 38. 18

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thing happened in 121 BC with M. Fulvius Flaccus. His domus, which probably stood on the west slope of the hill, was replaced by an open space, the area Flacciana, no more to be destined for private habitation, only for public monuments; indeed, twenty-five years later the porticus Catuli was built here.21 Similar measures owed their effectiveness to the visibility, for good or bad, granted by ownership of a house on the Palatine Hill. The famous orator M. Tullius Cicero, whose domus must have stood at the northwest corner of the Palatine Hill, claimed that this was the most beautiful spot in Rome, offering a view of the Forum, the Capitolium and the Velia; its position was so lofty, he said, that from up there the whole city seemed to offer itself to the gaze of the beholder. But Cicero also boasted about the reverse, that is, that the house was under the eyes of the whole city, in conspectu prope totius urbis;22 which is what M. Livius Drusus, tribune of the plebs in 91 BC, had asked of the architect who was building his house, which was later to belong to Cicero: “If you have got a bit of talent, arrange it so that whatever I do may be seen by all.”23 The visibility granted by living here played a role in political careers. It was an instrument of propaganda. Some claimed that the splendid mansion where Cn. Octavius lived, on the northern slope of the Palatine Hill, had earned him the consulate in 165 BC.24 C. Sempronius Gracchus decided to move his home from the Palatine Hill to the lower-class Forum neighborhood to flaunt his renunciation of aristocratic privileges and adhesion to the cause of the plebs, whose tribune he was in 121 BC.25 The general C. Marius also saw taking residence on the Palatine Hill as an opportunity to participate in political life, after having been drawn away from it by his long military campaigns and lack of propensity for social relations.26 Cicero was reasoning along the same lines when, putting a great strain on his finances, he purchased the domus of a P. Crassus, possibly the son of M. Licinius Crassus,27 which was not far from the domus publica,28 which is to say that it stood on the northwest slope of the Palatine Hill. His clients and friends, who daily frequented the nearby Forum, would have been able to visit him with little effort. Cicero’s presence, in its turn, drew new residents to the neighborhood, such as the young social climber M. Caelius Rufus, who rented an apartment in a nearby block, where the house of P. Clodius Pulcher was, to be near the orator and his circle of acquaintances,29 and M. Fadius Gallus, a friend of Cicero and a procurer of works of art for him, who could not wait to purchase a property adjacent to Cicero’s own, which would almost allow the two, as it were, to live in the same house.30 Along with the homines novi who saw residence on Palatine Hill as an opportunity for social ascent, there were a number of families who had been living on the hill for generations. These families had noble ancestors and their prestige reflected on the whole neighborhood. For example, at least eight exponents of the Licinii had lived on the north slopes in the course of the first century BC.31 Their Cicero, De domo sua, 102. Cicero, De domo sua, 100, 103, 132. 23 Velleius Paterculus 2.14. 24 Cicero, De officiis, 1.138. 25 Plutarch, Caius Gracchus, 12.1. 26 Plutarch, Marius, 32. 27 Pseudo-Sallust, Invective against Cicero, 3; Pseudo Cicero, Invective against Sallust, 14.20. For the ownership history of this house, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 96-97. 28 Cicero, Letters to Atticus, 2.24.3. 29 Cicero, Pro Caelio, 7.17-18. 30 Cicero, Letters to his family, 7.23. 31 C. Licinius Macer Calvus, a historian of renown, and his son C. Licinius Calvus, a poet and a friend of Catullus’, lived at the top of the scalae Anulariae, at the northwest corner of the hill, between 70 and 47 BC. A Licinius Crassus, possibly the future triumvir Marcus, resided in Cicero’s future domus between 78 and 62 BC. A Licinia, married to a Dexius, owned the house adjoining Cicero’s from 51 to 46 BC. A second Licinia, the wife of a Rutilius Nudus, inherited a house that had historically belonged to the family, nicknamed domus Liciniana, small, but located in the prestigious block adjoining the lucus Vestae. The orator L. Licinius Crassus, consul in 95 AD, resided here in a house adjoining that of M. Aemilius Scaurus, on the block at the corner between the Sacra Via and the so-called Clivus Palatinus (see below). Both houses have been recognized in the remains of sumptuous residences brought to light by extensive excavations; see A. Carandini and E. Papi (eds), Palatium e Sacra via, II, in Bollettino di Archeologia, 59-60, 1999, Roma, 2005. The daughter of this last Licinius may have also lived here with her husband C. Marius, the daughter of the famous general (Plutarch, Marius, 35.9-12). Finally, the house of C. Sempronius Gracchus, tribune of the plebs in 121 BC, may have actually belonged to his wife Licinia and hence stood in the same part of the Palatine Hill (Plutarch, Caius Gracchus, 12.1, 15.5, 17.5). 21 22

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houses were arranged around the sanctuary of Vesta, to whom the gens was somehow connected.32 The Claudii also had a long history of residing on the Palatine Hill, and especially on the Cermalus, in the area at the back of the sanctuary of Victoria and Magna Mater.33 Their devotion for the latter deity, which may have induced them to look for a house in the vicinity, was rooted in the mythical story of the arrival of Cibele in Rome, drawn by hand by the matron Claudia Quinta, a statue of whom stood for centuries in the vestibule of the temple.34 Finally, on the hill slope facing the Circus Maximus were at least three houses of members of the gens Cornelia.35 Such clustering did not occur randomly. It may reflect a will to create gentilitial housing aggregations, partially as a means to forge and maintain useful political alliances. Indeed, from the second century BC onward, the private space of the domus had taken on a new character as a place for political activity, as an alternative to institutional places. It is within the walls of private homes that the most influential Romans, mostly residing on the Palatine Hill, made alliances or conspired, gathered gangs or laid ambushes, and defended and nourished personal powers that were to eventually undermine the solidity of the Republican State. Armies of clients and supporters crowded the streets around the houses of some individuals. Three or four thousand citizens would follow Ti. Sempronius Gracchus when he came out of his house on the Palatine Hill.36 His house was protected by many who camped around it, who spent the night there in fear of sieges, as if they were guarding a fort.37 Cicero used the term arx, “stronghold”, to refer to the house of P. Cornelius Silla, which was chosen by P. Clodius as his headquarters to launch a violent attack against the house of his enemy, T. Annius Milo, which stood on the Cermalus. In the middle of the day, at the fifth hour, incendiary torches and assaults by armed men had turned the rich residential neighborhood of the Palatine Hill into a battlefield.38 The hill was so crowded that enemies, as well as friends, could very well be neighbors living next door or across the street, like M. Livius Drusus and M. Fulvius Flaccus, and above all M. Tullius Cicero and P. Clodius, who half a century later lived in the same houses as the previous two and, strangely enough, perpetuated their hatred.39 In the conflict between the latter two—which has gone down in history thanks to Cicero’s own accounts of it—political reasons were compounded by Clodius’ personal ambitions, which for the first time, in a totally unusual fashion, were vented in a megalomaniac building project (fig. 5). Between 58 and 57 BC, Clodius arrogantly gained possession40 of the properties adjoining his own, including a public monument, the porticus Catuli, and Cicero’s own house through an ad personam law of his own devising, which sentenced Cicero to exile and the confiscation of his property. On this immense surface of over 6000 square meters, Clodius laid out a residence centered on a 300-foot (88.63 m) peristyle, thus changing forever the layout of this part of the neighborhood (Fig. 5). Recent investigations have revealed what are probably vestiges of Clodius’ building, including walls in opus reticulatum masonry typical for the period and massive foundations outlining a huge rectangular building that The cause or effect of this connection may have been the fact that many pontifices maximi belonged to this gens. The tribune of the plebs P. Clodius, an aristocrat by birth, the son of Ap. Claudius Pulcher and Metella, certainly lived here with his sister Clodia, wife of Q. Caecilius Metellus Celer, as well as lover of their young neighbor M. Caelius Rufus, besides being loved by Catullus under the pseudonym of “Lesbia”. On the same side of the hill, near Cicero’s house, was the house of M. Claudius Marcellus, consul in 51 BC. A third branch of this gens, the Claudii Nerones, owned a house in this group of blocks. Their forefather was Ti. Claudius Nero, Livy’s first husband and the biological father of the future emperor Tiberius. 34 Ovid, Fasti, 4.247-372; Valerius Maximus, 1.8.11; Tacitus, Annals, 4.64.3. 35 P. Cornelius Lentulus Spinther, son of the like-named consul in 57 BC; L. Cornelius Chrysogonus, a very wealthy freedman of the dictator Sulla’s (Cicero, For Sextus Roscius, 133), and P. Cornelius Sulla, consul in 66 BC (Cicero, Letters to Atticus, 4.3.3). 36 Aulius Gellius, Attic Nights, 2.13.4. 37 Plutarch, Ti. Gracchus, 16.3. 38 Cicero, Letters to Atticus, 4.3.3. 39 For an account of the conflict between Cicero and Clodius, as evidenced by archaeological and literary sources, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 128-138. 40 With the support of his wife Fulvia, he even went so far as murdering his neighbor Q. Seius Postumus, who had refused to sell his house to the couple (Cicero, De domo sua, 115; Cicero, On the Responses of the Haruspices, 30). 32 33

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looked out onto the Velabrum.41 This building is unlikely to be anything else but the porticus described by Cicero as what Clodius wished to erect in his house. The peculiarity of the architecture of Clodius’ house, which may have provided the inspiration for the plan of the future domus Tiberiana, was that it was pensile, that is, supported by vaulted concamerations. The building was so large—it extended over the whole west slope of the hill—that to allow circulation to continue on the same streets, these ran in tunnels crossing the building. Another Palatine Hill resident who expanded his house at the detriment of its neighbors was M. Aemilius Scaurus, aedile in 58 BC, the son of the homonymous consul in 115 BC, whose exact house address we know: it stood at the intersection of the Sacra Via and the so-called Clivus Palatinus42 (fig. 6). We know that Scaurus incorporated in his house two adjacent domus, those of L. Octavius and L. Licinius Crassus, and that in 58 BC, at the peak of his career, he undertook a renovation destined to go down in history: he had four black marble columns, 38 feet tall (11.2 m), removed from the scene of a theater he himself had had erected on the Campus Martius and transported to his house to support the roof of a colossal tetrastyle atrium (459 sq. m).43 Archaeological excavations conducted in the whole block—which have also revealed the existence of three houses adjoining the one supposed to be Scaurus’—have unearthed the remains of this extraordinary atrium, or rather, of the basement supporting it, constituted by 62 small vaulted rooms, probably the quarters of the slaves in the service of the house.44 Ancient authors saw this kind of thing as a sign of progress, but also as the beginning of an unstoppable moral corruption: “They kept their silence,” wrote Pliny,45 “about the fact that objects of such immense size had been introduced in a private house, passing in front of statues of gods that were still of clay;” in sum, the expense for private luxury was threatening to far surpass the expense for the good of the State. While between the second and first century BC brave exponents of the gens of the Aelii Tuberones were winning battles and living as a family of sixteen in a domuncula on the north slope of the Palatine Hill,46 in the same period and in the same neighborhood L. Licinius Crassus, consul in 95 BC, established a record in luxury by gracing the atrium of his house with columns of foreign marble,47 which at the time were not even found in public monuments. For the other rooms, Crassus had commissioned bronze triclinia and expensive ornamental furniture. The garden was shaded by 6 or 10 oaks or European hackberry trees, which by themselves boosted the value of the property by millions of sesterces.48 In fact, since the second century BC luxury had entered the houses of the powerful and was put on display on the Palatine Hill. Literary sources mention immense atria and peristyles, such as those of Scaurus and Clodius, and such lavish appointments that Cicero, for example, said of his house that “it has nothing to envy to my villas.” Although the house it was in the heart of the city center, the orator had room enough for a Greek-style gymnasium with a columned portico and precious statues

On this subject, see the essays by F. Carbone, F. Sforza, E. Monaco, M. Maietta in M.A. Tomei and M.G. Filetici (eds), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 137-175. 42 Asconius, Pro Scauro, 27C. For a more in-depth examination of the whole residential block, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 98-111. 43 Pliny, Natural History, 36.7-8, 36.114-115. 44 According to another hypothesis, these small rooms belonged to a brothel; see M.A.Tomei, C. Pavolini, Domus oppure Lupanar? I materiali dallo scavo Boni della “Casa Repubblicana” a ovest dell’arco di Tito, in MEFRA, 107, 2, Roma, 1995, pp. 549-619. 45 Pliny, Natural History, 36.7-8, 46 Valerius Maximus, 4.4.8. The house stood in the future location of the Monumenta Mariana, that is, the sanctuary with a temple dedicated to Honos and Virtus commissioned by C. Marius on the morrow of his victory over the Cimbri and the Teutons in 101 BC. The only thing we known about the location of this sacred area was that it stood along the axis of the augural vision that connected the Auguratorium on the Arx of the Capitol with the Monte Albano. for further details, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 111-113). 47 Pliny, Natural History, 17.3, 36.7-8. More precisely, six columns of Greek marble from the Himettus, bluish in color, 12 ft tall (3.5 m), taken from the scene of a temporary theater built by Crassus during his aedileship. 48 Pliny, Natural History, 17.3. 41

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of Plato and Minerva, a stadium-long (180 m) pensile panoramic promenade—called a xystus or ambulatio—, a private library, a thermal facility (balneum), and several gardens to whose maintenance he devoted great care. Only a few rooms in the basement of this house—which was later replaced by the domus Tiberiana—have been brought to light so far. They were part of the balneum and lie right at the corner of the hill. Their position and plan indicates that Cicero’s famous gymnasium must have stood above them (Fig. 5). The other houses in the neighborhood were similar in style, as the archeological evidence bears out (Figs. 4, 10). For example, one of the domus brought to light in excavations along the Sacra Via, whose owner’s name we do not know, had a porticoed garden with wells, a fountain and two nymphaea. This garden took up half of the house’s surface (fig. 6). In the same block, a little further uphill, was a second house that included a peristyle with a marble paved pool. A similar pool with a fountain graced the courtyard of a late first century BC house at the top of the scalae Anulariae, which had once belonged to C. Licinius Calvus. Two identical basins with blue-painted bottoms cooled the peristyle of a large house with a balneum built in the time of Augustus on the top of the Palatium (Fig. 10). The owner of a small house on the Cermalus had even installed a pool for the raising of moray eels. This pool, part of which is preserved, has amphorae built into the edge where the eels could hole up, a characteristic of such pools. The rich residents of the neighborhood experimented with innovative architectural approaches and decorative styles that spread from Rome to the rest of the Roman world. For example, much use was made of vaulted substruction systems and retaining walls along the tuff cliffs to allow building to expand along all sides of the hill. Speaking of Rome—and the Palatine Hill is possibly what he is actually referring to—Cicero states his amazement at the disorder and density of buildings, a result of the fact that houses rose in several stories along hill slopes, almost as if they were suspended in the air.49 Due to the density of buildings on the hill, it became common practice to obtain further space by building up houses in several stories or digging basements into the ground. These basements did not house only servants and facilities, as in the house of Scaurus mentioned above or the so-called House of Livia on the Cermalus; there were also living rooms in them, as in a recently discovered building at the edge of the west side of the hill,50 in an ancient domus, the so-called House of the Griffins, on the top of the Palatium, and in the nearby house of the “Isiac Hall”.51 In all three cases, the underground rooms still retain wall decorations of great artistic and documentary value. The first building, built of opus quasi reticulatum and datable to the early first century BC, has a painted decoration in the so-called First Style, characterized by large painted rectangles imitating a colored marble facing. The so-called domus “of the Griffins”, instead, built of the same masonry and dating from the same period, shows an early transition to the subsequent wall-painting style, with architectures with plinths and columns painted in-between stuccos and faux marble to give a sense of depth to the wall. Finally, in the so-called Aula Isiaca, datable to the Augustan age, the frescoes, which extend all the way to the vault, belong to an advanced stage of the same stylistic phase, where the architectural elements lose their solidity and morph into a detailed and redundant decoration, centered, in this case, on the theme of Egypt with its exotic landscapes and religious symbols. Thus, in the last years of the Republican age, the architecture and decoration of the houses of the powerful had begun for the first time to explicitly manifest the personality of the owner, his awareness of fashions, such as that coming from Egypt, his interests, such as that of Cicero in Greek gymnasia, or his extravagancies, such as that of raising fish in the heart of Rome. Reconstructing the building history and appearance of these houses through literary sources and the study of archaeological remains allows us to flesh out the historical narrative about the society of the time, or about specific Cicero, De lege agraria, 2.96. See F. Carboni and F. Sforza’s essay in M.A. Tomei, M.G. Filetici (eds), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 138-140. 51 For a more detailed examination of the palatine phenomenon of living underground, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma, 2010, pp. 113-128. 49 50

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individuals such as Clodius or Octavian Augustus, whose real estate politics seem to describe their hidden ambitions and political projects even more clearly than a written account. The houses of the princeps We know from epigraphic sources that, as early as the time of Nero, the imperial palace on the Palatine Hill was called domus Augustiana.52 In the light of what we know today about the history of this monument, it is likely that it was thus named to distinguish it from the adjacent domus Augusti: a proto-palace. Before undertaking this singular and successful experiment, Octavius, later Octavian, later Augustus, had owned other houses on the Palatine Hill, initially similar to the above-described aristocratic residences, but later increasingly befitting his growing power and, eventually, his role as princeps. Just as the nomination of Octavian to Augustus in 27 BC was the final stage of a twenty-yearlong political ascent, the inauguration in 28 BC of the monumental complex built around his private domus on the Cermalus can be regarded as the last act of a real-estate ascent whose stage was the Palatine Hill. Octavian’s house, more than those of any of his predecessors, such as Clodius or Scaurus, evolved to match its owner’s growing ambitions, conforming with the ideology of his innovative politics, and indeed becoming one of its symbols. This is evident when we look at the remains of the houses ascribed to Augustus on the basis of information provided by ancient writers (Figs. 7-9). In this case, archaeology has turned out to be the more direct and trustworthy source, in the light of which we should read the information supplied by written tradition, which is very useful but concise, and reflects the author’s biases. Octavius was born on 23 September 63 BC at the northeast corner of the Palatine Hill (Fig. 4), in the neighborhood known as Capita Bubula (Bull’s Heads), in a house owned by his father, C. Octavius, a rich Roman knight from Velitrae, who had been praetor in 61 BC and had elevated his station through his marriage with Atia, a niece of Caesar’s.53 In 58 BC, after Octavius’ death, Atia remarried to L. Marcius Philippus, and the house was sold.54 Many years later, around 20 AD, a sacrarium devoted to the memory of Augustus was built on part of the original property, which now belonged to a C. Laetorius. Excavations in the area of the old sanctuary of the curiae Veteres have brought to light the remains of this small temple; so this is where the native home of the future Augustus must have been.55 From 51 to 49 and from 47 to 45, Octavius lived in his mother and stepfather’s house in the nearby neighborhood of Carinae on the north slope of the Velia.56 In 44 BC, after Caesar’s death, he went back to living on the Palatine Hill, but in another spot, at the top of the scalae Anulariae (the “Stairway of the Jewellers”), which led from the Forum to the porta Romanula, a vestige of the town walls of the time of Romulus57 (Fig. 4). He purchased the house of the poet C. Licinius Calvus, which, as we know, was close to Cicero’s.58 This house was thus in a very prestigious location. Its main door was probably accessed by a ramp that was an extension of the staircase. Some of the steps of the staircase from this period are still preserved, along with part of a wall that ran along the edge of the block.59 The house, some The earliest attestation of this name appears in an inscription by a freedman of Nero’s whose task was to lift the curtains between one room and the next (praepositus velariorum): S.Panciera, Domus Augustana, in A. Leone, D. Palombi, S. Walker (eds), Res bene gestae: ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Lexicon topographicum urbis Romae, Suppl. IV, Roma, 2007, pp. 293-308. 53 Suetonius, Augustus, 5; Velleius Paterculus, 2.59. 54 The future Octavian’s mother then sent him to live with his grandmother Iulia in a suburban villa until the latter’s death in 51 BC. (Nicholas of Damascus, Life of Augustus, 5). 55 On the small temple identified as a sacrarium Augusti discovered in the area of the curiae veteres, see C. Panella (ed.), Meta Sudans, I, Roma, 1996, pp. 27-91. 56 Nicholas of Damascus, Life of Augustus, 4-5; Servius, Commentary to Virgil, Aeneid, 8.361. 57 Suetonius, Augustus, 72. 58 In 43 BC, shortly before his flight to Rome and subsequent assassination, the orator was considering committing suicide in Octavian’s nearby residence to draw an evil spirit onto it: Plutarch, Life of Cicero, 47.6. 59 On these remains, see H. Hurst, The scalae (ex-grecae) above the Nova via, in Papers of the British School at Rome, 74, 2006, pp. 237-291. 52

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walls and foundations have come out to light in archaeological digs, extended onto an artificial terrace retained by a long opus reticulatum wall against which a row of tabernae leaned at a lower level. In the center of the house, where fifty years later a marble fountain was erected, there was probably already a peristyle, facing towards the lucus Vestae and the Velia beyond it.60 Between 43 and 42 BC, Octavius, who had changed his name to C. Iulius Caesar Octavianus and was by then conscious of his destiny as legitimate heir of Caesar, undertook a more ambitious real estate investment: he purchased the house of the orator Q. Hortensius Hortalus on the Cermalus (Fig. 4).61 The greatest asset of this property was its location.62 It stood at the top of the clivus leading up from the Sacra Via through the porta Mugonia to the spot where Rome had been founded.63 Its main door faced the so-called aedes Romuli, the shrine of the memories of Romulus that over time had replaced the original hut of the founder, the casa Romuli. This choice of location was thus highly significant, especially in the light of Octavian’s aspiration to assume the role of new founder of the city, and his intention to adopt the very name of Romulus, to which in the end he preferred the apparently less arrogant one of Augustus.64 In the spot indicated by literary sources there are indeed conspicuous remains of a house, whose archaeological analysis has revealed at least three building phases consisting in expansions and modifications, all in the course of the first century BC65 (Fig. 7). Suetonius says that Hortensius’ house had been modest in size and luxury, and that this suited the sober lifestyle of its new owner, who was to live in it for over forty years without making any changes.66 The archaeological evidence, however, tells a different story, and one that matches what we know about the ascent of Octavian from all available documentary sources. The oldest part of the house, built of tuff opus quadratum, probably dated back to the early first century BC, and hence to the time of Q. Hortensius Hortalus, a famous orator born in 114 BC. A study of the plan of the vestiges of the building suggests that the house was the result of the merging of two separate residences that had originally stood on this artificial terrace on the slope of the Cermalus facing towards the Circus Maximus. Their main doors opened towards the scalae Caci. Thanks to this first expansion, the house now included a sector with apartments on two floors (one of which was a basement, since the building stood on a slope). These two floors looked out onto a panoramic peristyle extending all the way to the brow of the hill. Some subsequent small modifications and the addition of some opus reticulatum walls, instead, would seem to have been undertaken by the like-named son of Hortensius, who inherited the villa in 50 BC and died in 42 BC at Philippi, along with the Caesaricide

On these excavations, see most recently the essays by F. Carboni, E. Monaco, and M.A. Tomei in M.A. Tomei and M.G. Filetici (eds), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011, pp. 40-85. 61 Suetonius, Augustus, 72. 62 On the address of the domus Augusti, see A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 162-165. 63 Ovid, Tristia, 3.1.29-68. We do not know the ancient name of this clivus; I have called it A to identify it and indicate its priority to the better known one that still goes up the Palatine Hill from the Sacra Via today, which I have hence called B. Clivus A was fairly rectilinear. Excavations on the northern slope of the Palatine Hill have revealed a few meters of its paving, just before the street went through a gate also detected by archaeological investigations, which is identifiable as the Porta Mugonia of the Romulian walls in its second century BC version. For a reconstruction of the topography of this area based on the data from these excavations, see A. Carandini, Palatino, Velia e Sacra via. Paesaggi urbani attraverso il tempo, Workshop di Archeologia Classica, Quaderni, 1, Roma, 2005. 64 Cassius Dio, 53.16.4-6. 65 For a description of these building phases, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 189-225. 66 Suetonius, Augustus, 72. Suetonius, who was writing almost two centuries later than Augustus, never saw Hortensius’ house, which was buried under constructions from the later Augustan age. His reconstruction of that urban landscape is hence based on the indications available in his sources, and further biased by his wish to exalt Octavian’s virtues of frugality and parsimony. The historian, however, did see the prince’s private domus rebuilt within the sanctuary of Apollo. He found this one humble, too, with furniture barely suitable for a private individual. In this case, too, his impression is misleading, since a long time had gone by since Augustus had lived here, and the house, replaced in its original function by the new domus Augustiana, at the time had become a relic of the past crystallized in a sacral aura. 60

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Brutus.67 For a few years, Octavian lived in this house, which resembles the one described by Suetonius: not too large, with short porticos, tuff pillars, and rooms lacking marble decoration.68 Between 40 and 36 BC, however, having become the sole ruler of the West, while Antony ruled the East, he must have felt the need for a residence more worthy of his station. He thus began a renovation and expansion plan that is clearly documented by the archaeological evidence, but about which ancient writers are silent.69 The oldest part of the house was merely redecorated, in a luxurious style with marble floors and marble facings on fixed furniture elements, and with the Second Style frescoes typical of the period. These frescoes display peaks of technical achievement and sophistication (notably in the so-called studiolo on the first floor) and depict unusual subjects, such as the bronze baetyl, an Apollinean symbol dear to Octavian, which appears in the so-called Room of the Masks. The original peristyle, instead, was replaced by a larger one with a square plan, graced by an exquisite architectural decoration of which some painted terracotta slabs with mythical and religious subjects are preserved. Finally, some adjacent lots were purchased, and Hortensius’ original domus, which had an area of about 2800 sq m, was expanded to a total surface of over 8100 sq m. A second peristyle was built within this new space, which today is still partially underground. It was identical to the other, but surrounded by larger rooms (including an oecus Corinthius and an oecus Cyzicenus). An atrium was possibly also built in the middle of the whole complex (Fig. 7). Tradition has it that in 36 BC a lightning bolt hurled by Apollo fell on this house, manifesting to the owner the god’s will to reside there.70 The portent induced Octavian to break off the renovation work. This is confirmed by the remains of the house, where the walls had been completed, but not the finishing touches and the decorations in the added part. The portent also induced Octavian to give up his plan for a colossal residence. This, at any rate, would have been unusual for Rome and would have rather resembled the palace of a Hellenistic dynast, and might hence have been seen as dangerously megalomaniac. He opted instead for a politico-religious change of direction of which his new domus was to be the symbol and expression. The two-peristyle house, whose date in the Augustan age is confirmed by pottery finds, was demolished. Onto its buried remains and debris, and onto many other building lots acquired for the purpose,71 an even grander building complex (over 20,000 sq. m; Fig. 8) was erected,72 8 or 9 meters above the earlier level. Its hub was the aedes Apollinis, of which the podium and several architectural elements survive. This temple stood along the middle axis of the building. It looked out onto a porticoed square, which can be reconstructed thanks to its still preserved massive foundations and fragments of its numerous colored-marble columns, possibly as many as 100. On one side of this portico was a library with an apsed plan, also used as a curia. The residential part of the complex must have extended on either side of the temple. To the west was the private domus, whose surviving vestiges include the remains of a small peristyle and some rooms opening onto it, and especially the atrium, traditionally known as the “House of Livia”, inherited from an earlier residence that had probably belonged to Q. Lutatius Catulus.73 To the east, in an identical space, but whose levels from this period have never

67 For more detailed information and the literary sources on these individuals, see D. Bruno’s contribution in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 209-210. 68 Actually this house may have appeared modest to Suetonius and his source in the second century AD, but must not have been so at all in the first half of the first century BC, when Hortensius pater lived here, whom ancient authors describe as an extravagant aristocrat who loved luxury. While Octavian may have found it not quite adequate, the symbolism of its position was of such value to him that he accepted to live here for several years before having it renovated. 69 This silence is explainable with the fact that this project, as the archaeological evidence shows, was never completed; see below. 70 Dio Cassius, 49.15.5; Suetonius, Augustus, 29.3. 71 Velleius Paterculus, 2.81.3. 72 For more detailed information and the references to various parts of this complex in literary sources, see D. Bruno’s contribution in A. Bruno in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 211-225. 73 The domus Augusti included an atrium that had once belonged to the Catulina domus: Suetonius, On Grammarians, 17.

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been investigated, the domus publica may have stood. This was a house open to the public that was reserved to the pontifex maximus. We know that Augustus, having assumed this capacity in 12 BC, had transferred the domus publica within his own residence on the Cermalus, along with a small duplicate of the temple of Vesta.74 The plan was completed by a second portico on an artificial terrace facing towards the circus, supported by a series of vaulted concamerations, some of which are still visible on the slopes of the hill.75 These may have housed the prince’s service personnel or possibly even an early imperial bureaucracy (Fig. 9). In spite of its name, the domus Augusti resembled more a sanctuary than a house. This ambiguity was however justified by the very special status the princeps had taken on by assuming the title of Augustus, signifying a condition superior to that of human beings, and hence almost divine. That this was the perception of his contemporaries is clear from Ovid’s words, when he affirms that three eternal gods resided in the house of Augustus: Apollo in one part, Vesta in another, and in the third one Augustus himself.76 Besides, there was a certain resemblance between this at once domestic and religious complex and the royal palaces of Asia Minor, like the one in Pergamon. In both cases, the whole building was open to the public, except for a private part. Religious ceremonies involving the whole community were held in the house of Augustus, such as the ludi Saeculares, but also civil activities, such as Senate meetings, and the library was a gathering place for intellectuals and men of letters. In this capacity as a royal palace, the domus Augusti constituted a civic microcosm whose purpose was to shift certain public functions from their official sites to a private one, where the authority of the princeps would make itself more felt. Other elements like this anticipated the future imperial palace. For example, there was the sharp distinction between the public and the private sector of the residential part of the complex, which was reflected in the duplication of spaces. Thus, in the domus of Octavian there were two peristyles, in the domus Augusti a private domus and a public one, while the later domus Augustiana had two separate building sectors side by side. Furthermore, in the house of Augustus much emphasis was placed on the façades, and the same was to be true for the later imperial palace. The most monumental front was the one facing the Circus Maximus. From here the princeps, like the emperor after him, watched the races and ceremonies staged in the arena. Above all, it is from here that he showed himself to the people crowding the stands, establishing a direct contact and thus testing his consensus. The main façade of the domus Augusti, however, was the one that faced in the opposite direction, from which one accessed the atrium of the private sector of the house. Nothing remains of it, but we can nevertheless reconstruct it in detail thanks to the accounts of ancient authors and some reproductions in reliefs and on coins of the Augustan period. The door opened into a vestibule framed by laurels and military trophies, inserted between the Ionic columns of a portico, and surmounted by a pediment graced by an oak wreath and the inscription pater patriae. This door stood at the top of a staircase dominated by statues of Mars and Venus, the divine progenitors of the gens Iulia, and the genius Augusti, to whom an altar at the foot of the staircase was dedicated.77

The domus Publica had stood since the fifth century BC on the north slope of the hill, in the same block as the temple of Vesta. Its archaeological remains confirm Augustus’ moving of it to his own residence, as related by literary sources, since precisely around 10 BC, an horreum (marketplace) was built over the rooms of the old house. For a more in-depth account, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 138-143. 75 This second porticoed square appears as Area Apollinis on fragments 20, e, f and g of the marble Forma Urbis of the Severan age. 76 Ovid, Fasti, 4.952 ff. 77 For an up-to-date reconstruction of the façade of the domus Augusti, see A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2011, Pl. 72. The architectural and decorative elements of the façade of the house of Augustus can be reconstructed from ancient iconographical sources, including a relief on one side of the so-called “Base of Sorrento”, another relief with a suovetaurile in the Louvre (Grimani collection), and an aureus coined by Caninius Gallus in 12 BC. Further information can be found in literary sources, notably Ovid, Tristia, 3.1.29-68; Ovid, Metamorphoses, 1.168-176; Ovid, Fasti, 4.952; Dio Cassius, 53.16.4; Suetonius, Augustus, 100; Suetonius, Claudius, 17; The Deeds of the Divine Augustus, 34.35. For a more in-depth treatment, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 221-224. 74

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Ovid relates that this monumental façade suddenly came into view at the top of the older Clivus Palatinus (A). It was a surprising sight, because it stood out among the houses of the peak exponents of the city nobility that lined the street on the right and left for its resemblance to a temple, that is, the house of a god. Indeed, in the poet’s flattering metaphors, Augustus was Jupiter or the Sun, his house a divine royal palace, the path up the Palatine Hill the Milky Way, and the whole Palatine Hill the heavenly abode of the council of the gods.78 In conclusion, in its general plan and its symbolically charged architecture and decoration, the domus Augusti was manifesting the new role of the princeps, the future emperor. Residing in this sanctuarypalace, a first experimental version of the future imperial palace, befitted the essentially monarchic nature of this role and the divine aura that permeated it. The imperial palaces 79 The Julio-Claudian age After the death of the princeps, the domus Augusti began to lose its residential function and take on the role of a shrine of the memory of the divine Augustus. Accordingly, no further renovation was undertaken. The house remained congealed, as it were, in a sacral immobility, as did other places connected to the princeps’ private life, which became sacraria after his death, like his native home ad Capita Bubula or the villa in Nola where Augustus exhaled his last breath.80 Until 29 AD, Livia lived here, having been designated as Iulia Augusta by Tiberius and appointed to priestess of the Sodales Augustales, a newly instituted collegium performing the cult of the divine Augustus, which may have had its headquarters here.81 Besides being on its way to become a public monument, the domus Augusti was not suited to expansions or major renovations, as it was confined within the grid of the surrounding urban fabric. Thus, the only changes made during the Julio-Claudian period were in the area we have identified as the domus Publica, through the addition of a cryptoporticus, a pool with mixtilinear niches, and possibly a hall opening onto the portico of the temple of Apollo. This hall was also used for the imperial cult, and is possibly to be identified as the original aedes Caesarum.82 For the rest, the complex remained untouched and isolated until the early Neronian age. Around the middle of the first century AD, a new building appeared at the top of the Palatium, in the space adjoining the domus Augusti. This building has left few but significant vestiges (Fig. 10), including some foundations, opus sectile floors, and a large hall or courtyard decorated with half-columns. A twonave cryptoporticus standing almost on the brow of the hill possibly belonged to the same building, as it shares its orientation, which is oblique to the domus Augusti but aligned with the earlier buildings, and especially with the second clivus Palatinus (B), which went up from the Sacra Via right to the façade of this new building. The structures just described overlay the underground rooms of the so-called domus “of the Griffins” and of the “Isiac Hall”, as well as, we can assume, other private building lots that their owners had evidently had to give up, bowing to the authority of the emperor. In fact, the few private individuals still living on the Palatine Hill, like C. Caecina Largus in what had been Scaurus’ house and L. Statilius Sisenna in Cicero’s, or the wealthy official who inhabited the house brought to light in an archaeological dig in the Vigna Barberini, were absorbed into the imperial court, and their houses swallowed up by the expansion of the imperial palaces. Ovid, Tristia, 3.1.29-68; Ovid, Metamorphoses, 1.168-176, 2.1-46. For a more in-depth treatment and a bibliography of the subjects that I will be addressing in the next chapters, see D. Bruno’s essay in Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, I, Milano, 2011, pp. 232-265. 80 Suetonius, Augustus, 100; Dio Cassius, 56.46.3. 81 Significantly, the coeval building of the Augustales in Herculaneum resembles the atrium of Augustus’ private house, whose plan it may have imitated. 82 See below, “The age of Nero”. 78 79

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Given the position of the building at the top of the Palatium, its size and the character of its vestiges, I would suggest that this was the first domus Augustiana, that is, the first palace patterned after the experiment of the domus Augusti and conceived almost as its expansion, as the name indeed suggests. This is the building above which Nero’s palace was erected after the fire of 64 AD. Nero’s palace was aligned with the new urban grid of this part of the center of Rome, and was already laid out as the later and better known Flavian palace, of which it is hence certainly the antecedent. The delay in the building of the new domus Augustiana next to the domus Augusti is possibly due to the fact that, after Augustus’ death, the Julio-Claudian emperors had preferred to keep clear of that house and the cumbersome figure of its owner, and inaugurate instead another residence that would be more representative of the Claudian branch of their dynasty. This residence was the future domus Tiberiana. As the name indicates, it must have been originally planned by Tiberius. The core of the new residence may have been the house on the Palatine Hill that the emperor had been born in on 16 November 42 B.C., from Livia and Ti. Claudius Nero, his natural father.83 The exact location of this house is now known, but it is plausible that it stood on the same spot as the future domus Tiberiana (Figs. 10‑11). In fact, it stands to reason that if the domus Augustiana had its origin in the domus Augusti, the domus Tiberii would have spawned a domus Tiberiana. The recently published study of the building phases of this last palace provides further confirmation that this was indeed the case.84 In the early Julio-Claudian age, at the top of the earlier clivus Palatinus (A), at the back of the sanctuary of Victoria and Magna Mater (the religious acropolis of the Cermalus), and right across the street from the domus Augusti, a large residence was renovated. This was, according to my hypothesis, the domus Tiberii. Some tabernae were built along one side of the building. At the back of the property, on the brow of the slope facing towards the Velabrum, a peristyle surrounded with rooms was built onto vaulted concamerations on three floors connected by staircases and ramps. Almost around the same time, right next to this remarkable residence, in a building lot that had once belonged to Clodius and that he had already deeply modified, the foundations were laid of a new complex with the size and features of a palace. This was the first domus Tiberiana (Fig. 10). The structures belonging to this Tiberian building phase are those situated in the middle of the later complex (Fig. 12). They mostly consist of foundations and a web of underground tunnels and vaulted concamerations, including a cryptoporticus with three wings. The plan—possibly suggested by the layout of the substructions of the pre-existing building, which in the hypothesis proposed here may have been the work of Clodius—was to create a vast basement housing passages and facilities, and build the palace proper above this basement. Half of the space on the upper floor was taken up by a panoramic garden facing towards the Capitol. In the middle of this garden was a marble-faced pool. The other half of the basement housed the residential building, whose plan we can only surmise from its surviving foundations. It was rectangular and made up of large rooms symmetrically arranged around a peristyle corresponding to the underlying cryptoporticus. One of the underground passages running through this basement was probably the crypta where Tiberius’ successor, Caligula, was assassinated in 41 AD, as he was taking a shortcut from the sanctuary of Magna Mater, where he had been attending the ludi Palatini, to the corner of the Forum where his extravagant palace stood.85 The third sector of the imperial palace system on the Palatine Hill was the domus Gai. This was possibly itself an expansion of an earlier family home, the house of Germanicus, Caligula’s father, which we know stood next to the domus Gai and can hence be tentatively identified with the house supra scalas Anularias that had once belonged to Octavian and had thereafter become part of the estate of the ruling family.86 Suetonius, Tiberius, 5; M.A.Tomei and M.G. Filetici (eds), Domus Tiberiana. Scavi e restauri. 1990-2011, Milano, 2011. 85 Josephus, Antiquities of the Jews, 19.103-105, 117; Suetonius, Caligula, 58; Suetonius, Claudius, 10. 86 After Octavian’s move to the Cermalus, his sister Octavia probably lived here with her children after being repudiated by her husband Mark Antony in 32 BC and being forced to move (Plutarch, Life of Antony, 54.2, 57.4-5). One of these children, Antonia minor, may have continued to reside here in her adult age. She married Drusus Major and was the mother of Germanicus, who allegedly lived here with his wife Agrippina Major and their six children, including Caligula. 83 84

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Caligula’s character and ambitions had spurred him to distance himself from tradition, and even ostensibly downplaying it—for example, by auctioning away all the furniture of the old royal palace, the domus Augusti 87—and subverting it. The new royal residence88 stood in the heart of the popular commercial neighborhood crossed by the vicus Tuscus. It used the temple of the Castori as its vestibule and a dizzying bridge connected it to the temple of Jupiter Optimus Maximus on the Capitolium. It also contained a temple, which according to the original project was to house a statue of Jupiter Olympius brought over from Greece, replaced instead by a golden statue of the emperor’s own numen, clad day by day in the same clothes as the emperor. The house also included a balneum, marble-faced stables for his beloved horse Incitatus, and apartments housing a lupanar whose profits the emperor collected. The palace, as far as it can be reconstructed on the basis of its archaeological remains, shows indeed some analogies with what literary sources tell us about Caligula’s residence. It rose in two stories. At street level there were some service rooms paved with opus spicatum and massive foundations supporting the second floor, which stood at the same level as the nearby podium of the aedes Castoris. In the middle of the building, some of these foundations defined the outline of a square structure whose plan and size is compatible with that of a small temple, possibly that of the numen. Finally, between this space and the cliff was a peristyle with a pool with mixtilinear niches and a marble facing, around which the emperor’s private quarters must have stood. The emperor Claudius again resided on the top of the Palatine Hill. As a child he had spent a short period of time in the domus Augusti with his brother Germanicus and his mother Antonia Minor, widowed in 9 BC.89 He had then taken residence in his family house, which, as I said above, I would propose to identify as the house standing at the top of the scalae Anulariae. He was still living either here or in another house not far from the spot where Caligula was assassinated in 41 AD, when the praetorians came to look for him to acclaim him emperor and found him hiding behind a curtain in a room decorated with herms.90 Unlike his deranged predecessor, Claudius held the sites and symbols of the Julio-Claudian dynasty in great regard. After his triumph over Britannia, he had a naval crown91 hung up among the military trophies gracing the vestibule of the domus Augusti, alongside the civic crown that the Senate had granted to Augustus in 27 BC. He probably did not live there, however, but preferred the nearby domus Tiberiana (Figs. 10, 12). The evidence for this is that the latter palace was significantly renovated during his reign. In the residential quarters, the larger rooms facing onto the hanging garden were replaced by a basilica of sorts, on the evidence of the foundation of the corner of a colonnade that cuts into earlier walls. Inside the basement, instead, the cryptoporticus was maintained and, indeed, reinforced with an inner facing wall, dated to the reign of Claudius by a lead pipe built into its floor inscribed with the emperor’s name. A pool bordered with mixtilinear niches was set in the middle of the above-lying peristyle, probably in the context of the same renovation. The age of Nero As regard’s Nero’s work in the palaces on the Palatine Hill, we have little historical information but much archaeological evidence. Literary sources do inform us that in 65 AD he dedicated honorary

Suetonius, Caligula, 39. 88 For a more detailed examination of this residence, see D. Bruno’s essay in A. Carandini, Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari, 2010, pp. 266-271; for an up-to-date reconstruction, see A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 47. 89 Valerius Maximus, 4.3.3; Dio Cassius, 60.2. 90 Suetonius, Claudius, 10; Josephus, Antiquities of the Jews, 19.162. 91 Suetonius, Claudius, 17. 87

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statues in the area Apollinis,92 the portico in front of the temple that dominated the Augustan complex, and that in 67 AD he celebrated his return from Greece in great pomp in the same place.93 It is also well known that on the morrow of the fire of 64 AD he undertook the building of his fabulous domus Aurea. By this expression, the ancients designated exclusively the buildings lying between the Palatine Hill and the Esquiline Hill.94 Nero’s royal palace, however, also extended over both of these hills, where imperial residential buildings had already stood before. Nero began by renovating the “public” part of the domus Augusti. Here, a sumptuous opus sectile floor with geometric and floral motifs can be dated to his reign. It graced a hundred foot (29.6 m) long columned hall, possibly apsed, opening onto the portico of the temple of Apollo. This hall was a triclinium or, more probably, a basilica, as it closely resembled in its dimensions and layout the basilica of the later palace of Domitian. Vitruvius, writing around 30 BC, observes that in the houses of the wealthy it was easy to find basilicas resembling public ones.95 Its presence in the house of Augustus is even less surprising, since the hall was open to the public frequenting the sanctuary. It cannot be ruled out that, just as the basilicas in the forum housed the aedes Augusti, this one too was a space used for the imperial cult, possibly the aedes Caesarum that is reported to have stood on the Palatine Hill, where the statues of the emperors of the Julio-Claudian dynasty were displayed.96 Indeed, two portraits of Nero and one of Agrippina were found in the cryptoporticus underlying this columned hall, as well as a lead pipe with the inscription Caesarum.97 Alongside this building, at the top of the Palatium, above the residence he himself had probably commissioned and that I have identified here as the first domus Augustiana,98 Nero ordered the construction of a new palace. The size, orientation and layout of this new edifice were to influence the subsequent palaces of the Flavian age, which, in the light of what we now know about Nero’s building, appear much less innovative than tradition credits them with being, ascribing their ideation to the ingenuous architect Rabirius.99 The project was part of a general urban renovation favored by the destruction caused by the fire of 64 AD, which had also extended to the northern slopes of the Palatine Hill included within the complex of the domus Aurea. The Sacra Via, which now led to the vestibule of the domus Aurea, was rebuilt above the debris, realigned and expanded. The city blocks it went through were also radically renovated. Buildings such as the sanctuary of Vesta, the market built on the old domus Publica or the cult place of the curiae Veteres were now inserted into a well-ordered and rationally laid out grid that made this part of the center of Rome a single monumental unit.100 Nero’s domus Augustiana was thus aligned with this new urban layout. The clivus Palatinus, now 20 meters wide—only 5 before 64 AD—, bordered with porticoes that were an extension of those running alongside the Sacra Via, led straight to the entrance of the new palace, which opened onto a square called area Palatina. The many aristocrats who waited here every morning to be received by the emperor for the rite of the salutatio matutina were probably ushered into a porticoed vestibule and then into an atrium of sorts with columns on two sides, whose still surviving foundations lie exactly in the center of the so-called aula Regia in the later Flavian palace, which had indeed the same function. This atrium was probably followed by a peristyle, followed in its turn, on the same axis, by an unusual sunken triclinium. This was kept cool in the summer and made very scenic by a wall nymphaeum with niches and columns of colored marble and gilt bronze imitating a theater scene.101 Guests could Tacitus, Annals, 15.72. Dio Cassius, 63.20; Suetonius, Nero, 25. 94 Suetonius, Nero, 31; Tacitus, Annals, 15.39.1. 95 Vitruvius, De architectura, 6.5.1-2. 96 Suetonius, Galba, 1. 97 For a more in-depth examination of these data, see D. Bruno, Una basilica sul Portico delle Danaidi, in Workshop di Archeologia Classica, 6, Pisa-Roma, 2009, pp. 137-156. For a more up-to-date reconstruction, see A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, pl. 75. 98 See above, “The Julio-Claudian age”. 99 Martial, 7.56, 10.31. 100 For a reconstruction of Nero’s royal palace complex, see A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 110. 101 For a reconstruction of this triclinium, see A. Carandini (ed.), Atlante di Roma antica, II, Milano, 2012, tav. 75. 92 93

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enjoy the view of the nymphaeum and its cooling effect as they dined reclining on triclinia arranged around another fountain in the shade of a canopy built in the center of an open court. Facing out onto this courtyard were two apartments with cubicula and further triclinia, also paved and faced with marble. The frescoes on their vaults were enhanced with gold and gemstone inserts. We know all this from the archaeological evidence, since the triclinium was found around 1724 in an exceptional state of preservation. It must indeed have had a very short life: the stamps on its floor bricks date its construction to 67 AD, but it must have been abandoned following a fire as early as 69 AD, when it was replaced by new rooms with walls containing bricks stamped with that date. Alongside the sector described so far there was a second one that was possibly used as the imperial family’s living quarters, as it was to be in the later Flavian palace. Only scarce vestiges of it remain, but enough to infer that the entrance was at the top of the hill and, after passing through a court or vestibule of sorts, one entered a second peristyle surrounded with triclinium halls. From here one descended into a basement level obtained by cutting deeply into the native tuff of the hill. The masonry of the retaining walls of this level dated them to the time of Nero. This is where the most intimate and protected cubicula and rooms probably stood, as was to be the case in the later building. One of Nero’s bedrooms looked out onto the Circus Maximus, allowing the emperor to watch the races in the arena below as he lay on his bed. Tacitus102 informs us that the emperor later had the roof of this cubiculum removed and had the room converted into an open podium, a panoramic balcony, like the so-called maenianum that can be reconstructed to have existed in front of the domus Augusti. The remains of substructures datable to this period confirm indeed that the palace extended all the way to the brow of the slope facing the circus, regularizing and expanding its natural profile. Apart from the lower slopes, which were still partially occupied by commercial activities and by facilities, by this time the Palatine Hill was already dominated by the palatium. No private individuals lived here after 64 AD. Regular and forced acquisitions, favored by the disastrous fire, and the absorbing of much of the aristocracy into the court, had allowed imperial property to expand immeasurably. The southeast corner, corresponding to the so-called Severan Arcades, was terraced and possibly housed an extensive garden. The northeast quadrant of the hill, the present Vigna Barberini, was probably used in the same way, since excavations here have revealed no buildings from this period, except for a recently discovered three-story tower right at the corner of the area, whose interpretation is currently an object of heated debate. Some scholars have identified it as the cenatio rotunda described by Suetonius as the most luxurious and extravagant structure in the domus Aurea. Its position at the edge of the domus Aurea, however, rather suggests that it was one of those panoramic towers that dotted Roman horti and are shown in coeval landscape paintings. The domus Tiberiana was also involved in the urban revolution initiated by Nero. No changes were made either to the actual palace or to the earlier residential unit that I have identified here as the domus Tiberii, but the substructed basement of the complex was significantly expanded. On one side, it was extended to the area Palatina, incorporating a series of blocks and an earlier clivus Palatinus (A), whose function was probably inherited by passages within the basement itself. On the other side, it conquered the most panoramic corner of the hill, once occupied by Cicero’s domus. The new vaulted concamerations rose in several stories and were equipped with aeration systems and insulating air chambers (dated by stamped bricks from the time of Nero). Above them was a garden that went around the main building and was bordered, in its turn, by an L-shaped portico and a hanging ambulatio facing towards the Forum, the Capitolium and the Velia. A monumental staircase looking out towards the Sacra Via led to this portico, providing the main access to the palace from the rectilinear street that had replaced the first stretch of the earlier clivus Palatinus (A) in the new urban layout.

102 Tacitus, Annals, 15.53.1; Suetonius, Nero, 12.2; Pliny, Panegyric, 51.3-5. 280


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The Flavian age Vespasian, and especially Domitian, completed the projects set under way by Nero and elaborated greatly on them. During their empire, the Palatine Hill assumed its definitive form, which is the one it still retains today, although in a ruined state. The building work of this dynasty involved all four of the residential units that made up the imperial palace complex, that is, the domus Augusti, the domus Augustiana, the domus Tiberiana and the domus Gai (Fig. 16). The only building unit that was once again spared due to its high sacral value was the private part of the domus Augusti. Around 80 AD, the poet Martial,103 imagining himself taking a copy of one of his books there for the bibliotheca Apollinis, describes feeling the same astonishment standing in front of the façade of that residence as Ovid had felt years earlier.104 The entryway to this residence of noble Penates, cherished by Apollo above all others, was so sumptuous and resplendent that it inspired awe. What had changed, however, was the context (Fig. 11): The itinerary described by Martial bears witness to the changes made after the fire of 64 AD. To go up to the domus Augusti, one no longer took the earlier clivus Palatinus (A), going through the porta Mugonia; instead, after passing the House of the Vestals, one had to continue along the clivus sacer—a porticoed street built at Nero’s behest—and then go up the second clivus Palatinus (B), which led straight to the domus Augustiana; once there, if one made a right turn, the domus Augusti would come into sight on the left. Something did change, however, in the rest of the Augustan complex. The part facing out towards the Circus Maximus, for example, was rebuilt to align it with the circus itself, and was extended so far out that the imperial balcony was only 60 meters away from the stands (Fig. 11). Two identical libraries replaced the earlier one. Extensive vestiges of their walls survive, and they are also shown on a fragment of the Forma Urbis of the Severan age.105 Both were decorated with an internal colonnade that framed niches or closets for the volumina. The colonnade also ran in front of the apses, which were further animated by niches for statues, possibly of Apollo and Minerva (Figs. 13, 15). Finally, the area I have ascribed here to the domus publica was first renovated in the age of Vespasian. The basilica was enlarged and fitted with seven large statue bases, possibly for statues of the deified Caesars, as its identification as the aedes Caesarum would suggest.106 The sumptuous triclinium with its nymphaeum, instead, burned down, possibly after being hit by the lightning bolt that we know struck the aedes Caesarum in 68 AD.107 An unusual circular structure, whose foundations were found, was built in its place, possibly an extravagant cenatio placed at the center of a pool. The area was later incorporated in Domitian’s domus Augustiana, which was connected to the domus Augusti precisely through this sector. This connection is revealing of the origin, nature and significance of the domus Augustiana, which thus appeared as an immense extension of the domus Augusti. During the Flavian age, the domus Augustiana went through two renovation phases, which we can place, respectively, under Vespasian and Domitian. We know from ancient authors, however, that the former did not like to reside on the Palatine Hill, preferring the horti Sallustiani,108 whereas from 69 AD onward the palatium was certainly the official residence of the young Domitian,109 who may hence be responsible even for the first building phase, possibly with the assistance of the powerful general C. Licinius Mucianus, who substituted for Vespasian when the emperor was absent. The foundations of an entrance hall opening onto the area Palatina date back from this first phase. This hall is different from the one that can be reconstructed from the remains of the time of Nero, and very similar, instead, to that of the subsequent building phase. Like the latter, it was decorated with columns framing six Martial, 1.70. Ovid had used the same literary expedient (Tristia, 3.1.29-68); see above, “The houses of the princeps”. 105 FUM, fr. 20 b. 106 See above, “The age of Nero”. 107 Suetonius, Galba, 1. 108 Dio Cassius, 66.10.4. 109 Tacitus, Histories, 4.2.

103 104

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niches for as many statues, possibly the same colossal statues that would later grace the hall during the reign of Domitian. Some work done in the adjacent building unit dates from the same phase: here, in the basement built in the time of Nero, symmetrical apartments were created along two sides of a peristyle. They included two octagonal rooms with niches for triclinium couches and statues, all faced with colored marbles and roofed with frescoed domes; small rectangular sitting rooms illuminated by two lightwells; and several small rooms, probably cubicula, including three opening onto a third lightwell adjoining the staircase leading up from this basement (Fig. 13). This private part of the domus would have been used by Domitian, or by his brother Titus, who lived on the Palatine Hill for some time and hosted his would-be wife there, the Jewish princess Berenice,110 or again by Vespasian with his beloved concubine Caenis.111 As to the public part of the palace on the upper floor, almost nothing is known about it. It must have provided the setting for the banquets that Vespasian offered daily, as did Titus.112 Finally, in the underground part of the house, as in the late Republican domus of yore, tunnels and vaulted concamerations housed the facilities, such as a large latrine revealed by archaeological excavations, fed by lead pipes inscribed with Vespasian’s name. From 81 AD to 91/92 AD, Domitian, having become emperor, promoted the second building stage (Figs. 11, 13).The palace was totally rebuilt, although the basic plan was still that of the time of Nero. According to the testimony of the court poets, Martial and Statius, the project of the architect Rabirius transformed the domus Augustiana into a celestial palace, which Domitian, self-proclaimed dominus et deus, inhabited as if he were the thundering Jupiter. Compared to the impression made by the domus Augusti on Augustus’ contemporaries, Domitian’s palace astonished not only through its luxury and magnificence, or its allusions to the divine nature of the emperor, but also and especially through its sheer size, which ancient authors described with quaint hyperboles: the palace was so extensive that it tired the eyes to gaze upon it; it was like the infinite heavenly vault, but gilt, with so many columns that they could have supported the whole universe, and so high that the pyramids of Egypt appeared laughable in comparison, as if the seven hills of Rome had been piled one on top of the other until they reached the stars above the clouds.113 The colossal remains of this palace still amaze today. It extended over a surface of ca. 49,000 sq m. Its façade rose to a height of 30 m, like a modern 10-story building. It rose up from a podium accessible by a staircase from the area Palatina. This podium extended to the street leading up from the Sacra via. One came to it through a monumental arch probably dedicated to Domitian himself. The façade had three entrances leading into as many rooms (Fig. 14). Of the two side ones, one opened into a 100 foot (29.6 m) long apsed basilica, possibly used for the administration of justice, the other into a room with a tribunal at the back, possibly a lararium of the imperial house or the base of the colossus Palatinus, a colossal statue of the emperor.114 As to the central door, it opened into a hall of exceptional size and decoration, the so-called Aula Regia, either a magnificent entrance atrium or the throne room. This room alone measured all of 1286 sq m, and rose in three stories to a height of about 30 m. Eight niches for colossal statues (3.9 m tall) opened in its walls. Two of these statues, of green basalt, were actually discovered here. The niches were framed by a very jutting internal colonnade, whose appearance can be reconstructed thanks to the architectural decorative elements found in situ, which included giallo antico marble columns, Corinthian capitals, white marble bases, and fragments of a frieze with Victories and heaps of weapons exalting Domitian’s victories in Germania. The top part of this hall was even more astonishing. We know what it looked like from a coin of 95/96 AD showing a building that is in every way like the one just described. A dense peristasis of columns between which statues could be made out stood above the walls of the room and supported a pitched roof with acroteria; a decastyle temple of sorts rising above the so-called Aula Regia. Suetonius, Titus, 2; Dio Cassius, 66.15.3-4. Dio Cassius, 66.14. 112 Dio Cassius, 66.10.6; Suetonius, Vespasian, 22; Suetonius, Titus, 7.1-2, 9.2. 113 Statius, Silvae, 4.2.18-31; Martial, 8.36. 114 Martial, 8.44, 8.60. 110 111

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Beyond the rooms looking out onto the main entrance to the palace was a two-story peristyle, whose appearance can also be reconstructed on the basis of surviving evidence. The columns were of portasanta and pavonazzetto marble, with composite capitals of white marble. Several rooms of different sizes and plans opened onto it, which, judging from the rectangular recesses for couches in the walls, must have served as triclinia. On one side of the peristyle was a succession of living rooms with opposite apses, on the other the rooms were rectangular and larger, and arranged in a specular way, that is, facing towards this peristyle, but also towards the identical one in the adjoining building sector.115 At the back of this sequence of spaces, which is remindful of that found in traditional private houses (atrium-peristyle-triclinium), was a second colossal hall, only slightly smaller than the one at the entrance (Figs. 13-15).Here pink granite columns cadenced the entrance and the walls, which were also graced by rows of pilasters. The floor was of opus sectile, a repositioned patch of which is preserved in the apse at the back of the room. This was probably a triclinium, or rather, an oecus (hall) of the Cyzicenus type, with windows along either side opening onto two symmetrical porticoed courtyards. The room was called cenatio Iovis116 because of the assimilation of Domitian with Jupiter and, probably, its grandiosity, which caused Martial to affirm that only now the palace on the Palatine Hill had finally become suitable for hosting the imperial banquets and the delicacies served at them.117 From the early imperial age, and especially under the Flavian emperors, court banquets became increasingly more frequent, becoming a rite with as much symbolic value and political significance as the salutationes matutinae. They provided occasions for guests to frequent the court, but also for the emperor to earn the support of the aristocracy, always ready to conspire against him.118 The palace included in its plan an exceptional number of triclinia, making it the likely location of Domitian’s huge banquets, to which as many as a thousand people could be invited.119 The great variability in the size and position of these triclinia suggests that the guests were received in one or the other depending on rank and closeness to the imperial family. The part of the palace described so far must thus have been the setting for the emperor’s public activities, reflecting his wish to represent himself as a god that receives and dwells in halls of exceptional size. The second sector of the building, which lay right next to the first and was tangential to it, had rooms at a more human scale, and must hence be the part where the emperor led his private life. A court surrounded with colossal columns120 must have served as an entrance atrium of sorts (Fig. 11). Recent excavations have proved that it was a square or garden left free of constructions, except for a square podium, probably for a small temple. Scholars have drawn on the wealth of literary sources about the domus Augustiana to formulate the hypothesis that this space was the aulé Adonidis, the Court of Adonis, a palace garden with an oriental allure, where plants were grown in vases. It is here, Philostratus tells us, that Domitian received the philosopher Apollonius of Tyana.121 The emperor was intent on sacrificing to Minerva, a shrine of whom must have hence stood in this spot, when he suddenly became aware of the philosopher’s presence, possibly because he saw his reflection in the stone facing of the wall behind the columns. Indeed, one of the porticoes of the palace, and it may very

115 Here there is an evident merging of the two building sectors, which, furthermore, are built in the same masonry type; it is hence apparent not only that they are contemporaneous, but also that they were part of the same project, which provided for this reduplication of spaces and, possibly, functions. There is thus a single domus Augustiana, which is the only known ancient name for this palace, and not a domus Flavia and a domus Augustiana, as the tradition of studies on this monument has affirmed so far. 116 We cannot rule out, however, that besides hosting the court’s sumptuous banquets, this room had taken over the function of the aedes Caesarum, which had stood here until 68 AD, as the seat of the imperial cult; indeed, there was also an aedes Divorum in the palace, which would seem to have been its duplicate. 117 Scriptores Historiae Augustae, Life of Pertinax, 11.6; Martial, 8.39, 9.91. 118 Dio Cassius, 65.16.3. 119 Dio Cassius, 67.9. 120 The imposing foundations of this portico still exist, with the gaps left in them by the removal of the travertine blocks that supported the columns. Its architecture and dimensions are comparable with those of the Forum Transitorium, which was also built by Domitian. 121 Philostratus, Life of Apollonius, 7.32.

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well have been this one, had walls faced with transparent alabaster (phengite) to allow Domitian, who was obsessed with fear of an attempt on his life, could see what was going on behind him.122 This entrance space was followed, as in the adjacent sector, by a peristyle surrounded with triclinium rooms on three sides (Fig. 13). The third side, facing south, housed more elaborate apartments, symmetrical and specular, with small cloisters, rooms with nymphaea, triclinia and cubicula. As to the cubicula in particular, we can infer their existence here from the lower floor, which dates all the way back to the time of Vespasian, as well as from a renovation carried out in the Antonine age, vestiges of which are preserved (Fig. 16). In this sector of the palace—which looked out onto yet another peristyle, rising in two stories, the lower one of which gave light to the rooms in the basement—was a balneum some vestiges of which remain, possibly a small study with a shrine of Minerva where we know the emperor liked to retire to write,123 and probably the private rooms of Domitian and Domitia Longina, his wife. The two lived at court from 70 to 96 AD. The palace was completed by a series of rooms with panoramic exedras flanking a large room, possibly the cubiculum from which we can imagine that the emperor watched the races in the arena below.124 This building sector also included more intimate quarters, a reserved and protected apartment in the basement, which had only two accesses, possibly very well-guarded, one from a staircase descending here from the heart of the palace, the other from a ramp. Both were faced with precious colored marbles and had frescoed vaults (Figs. 13-15).These were probably the penetralia Palatii, the apartments to which Domitian withdrew when he wanted to be alone.125 Here were sumptuous living rooms decorated with statues, as well as a nymphaeum and a latrine right next to three rooms with the size of cubicula. Here must have been the emperor’s actual bedroom, where, surrounded by servants and under the watchful eye of a statue of the armed Minerva, his protector goddess, placed in a small sacrarium or even next to his bed,126 he would spend his nights consumed by nightmares about his violent death. And it is in this very cubiculum that his fears eventually became true: on 18 September 96 AD, some of his chamberlains stabbed him seven times.127 The domus Augustiana encompassed other building sectors besides the two I have just described. Adjacent to these, on the slope of the Palatine Hill facing towards the Celius, extended a porticoed garden shaped as a hippodrome, over 140 m long, graced with statues, altars, and possibly a tholos (Fig. 13). The portico and the garden stood at the level of the palace basement, but a terrace above the portico—on which a giant exedra stood, roofed with a half-dome and graced with niches and columns—communicated with the noble floor. Finally, adjoining this garden were a pavilion to the north, with a dining room built inside a nymphaeum, and a building to the southeast with a panoramic hanging peristyle supported by two stories of vaulted concamerations (the first version of the so-called “Severan Arcades”). The second palace on the Palatine Hill, the domus Tiberiana, while mentioned much less frequently than the first by ancient authors, was prominent in the chronicles of the year 69 AD. The emperors Octo and Galba went through it to reach the Forum from the domus Augustiana, probably using the passages that crisscrossed its basement. Vitellius chose to dine here the better to enjoy the spectacle of the burning of the temple of Jupiter Optimus Maximus after he himself had set fire to it. As to Vespasian and Domitian, we do not know if they ever lived in the domus Tiberiana, but they certainly had changes made to its layout (Fig. 12). In the time of the first emperor of the Flavian dynasty, the monumental staircase facing towards the Sacra Via was replaced by a series of new concamerations in which a balneum was built, as well as a latrine, whose frescoes are still well-preserved, for the use of the service personnel of the palace. At the upper level of the basement, a thermal pavilion was set up in a corner and an elliptical basin at the opposite one, both for the use of the court. During the rule of Suetonius, Domitian, 14.4-6. Martial, 5.5. Pliny, Panegyric, 51.3-5. 125 Pliny, Panegyric, 48; Suetonius, Domitian, 21. 126 Suetonius, Domitian, 15.2-3; Dio Cassius, 67.16.1. 127 Suetonius, Domitian, 16-17. Dio Cassius, 67.15.1, 67.17.1. 122 123 124

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Domitian, even more significant changes were made. Only now was the old residential sector I have identified above as the domus Tiberii abandoned and buried, and the domus Tiberiana with its gardens expanded over it. On this side, a long row of rooms communicating with the palace’s underground sector was built against the basement. Some graffiti found here suggest that these were the guards’ quarters. On the opposite side, facing towards the Velia, Vespasian’s balneum was demolished to make way to an expansion of the substructions, consisting of concamerations on two floors. Their stuccoed vaults and mosaic floors show that these were not service rooms, but probably already had an administrative function. Finally, on the Velabrum side, further substructions artificially extended the brow of the hill, creating a monumental facade with arcades decorated with half-columns forming a panoramic portico, which was also accessible from the interior of the basement (Fig. 12). Thanks to what remains of the upper level of the basement, and what can be deduced from its lower levels, we can try to reconstruct the appearance of the domus Tiberiana in the time of Domitian (Fig. 12). The heart of the actual palace, its peristyle, was moved slightly to create space for a new apsed room opening onto one of its short sides. The pool in the center of the garden was hence also rebuilt, just as it had been before. The thermal pavilion erected by Vespasian was replaced by a larger complex with the same function, strangely aligned with the cardinal points and fitted with a long piscina or natatio. Alongside it was erected a new building sector comprising apartments with heated rooms and a small central peristyle. The rest of the basement was left as a garden, which was surrounded on three sides by a panoramic portico that one could walk along for over 260 m. In the time of Domitian, the fourth palace on the Palatine Hill, the domus Gai, also underwent complete reconstruction, of which conspicuous vestiges remain (Fig. 16). What had been a residence, albeit an extravagant one, for Caligula was replaced by an immense hall facing towards the Forum, comparable in size and possibly in decoration with the so-called Aula Regia in the domus Augustiana. At the back of this hall were two smaller rooms, one of which was possibly used as a shrine of Minerva, and housed the church of S. Maria Antiqua in the fifth century AD. Beyond was an engineering work of remarkable usefulness: a six-stage ramp leading up 35 m from the Forum and the Velabrum to the top of the Palatine Hill and the domus Tiberiana. The Antonine age Nothing apparently changed in the domus Augusti during the Antonine age, whereas the archaeological evidence and literary sources bear witness to significant modifications made to the domus Augustiana in the same period (Figs. 13-15). First of all, the appearance of the two facades of the palace was completely changed. The one facing towards the Circus Maximus was rebuilt further downhill as a porticoed terrace with a semicircular profile, on which new exedras and small halls looked out to host the court when races were held in the arena below. The one facing towards the area Palatina, instead, was fitted with a columned portico, of which some stems of cipolin marble and fragments of white marble pediments survive. This portico followed the profile of three avant-corps built against the earlier podium to enhance the three doorways of the original façade. This portico and a series of pillars and bulwarks erected at this time along other points of the front of the building supported the façade, making it not only more sumptuous and monumental, but also more solid. Evidently, thirty years after its construction, the so-called Aula Regia, too tall, or possibly built too hastily on weak foundations, was showing dangerous signs of sag. These supporting structures can be dated, on the basis of their masonry and stamps on bricks, to the age of Hadrian, who must have resided here, albeit for short periods, with his wife Vibia Sabina. Before him, Nerva had lived here, who had had the inscription “Public Palace” affixed to the façade, and Trajan with his wife Plotina, who had entered the palace from the staircase facing towards the area Palatina in 99 AD.128 128

Pliny, Panegyric, 47.4; Dio Cassius, 68.5.5. 285


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In the rest of the “public” building sector we find traces of further renovation from this period, but minor in scope, such as new elaborate fountains, including a labyrinth-shaped one, in the gardens, and works to increase the comfort of the palace such as a hypocaust built under the floor of the cenatio Iovis. More invasive changes, however, were made to the “private” sector. In the court that I have identified above as the aulé Adonidis, recent investigations have revealed that the garden level was excavated under its foundations to build the corridors and rooms of an underground service floor. Above this, two triclinium apartments were built over part of the original garden. The adjacent peristyle, which in Rabirius’ plan had been identical to its twin in the “public” building sector, was differentiated by making one of its sides curved, and a pool, echoing the same curvilinear motif, was placed in the middle of the open space. The apartments that faced onto the third peristyle of the palace were largely rebuilt. Their walls are still preserved. In the basement, instead, basins and fountains were built in the three light wells, and in the main courtyard, where an elaborate decorative motif featuring peltai was carved into the podium in the middle of the basin. From 137 AD onward, the domus Augustiana was eclipsed by the domus Tiberiana, which became the official residence of the new emperor, Antoninus Pius.129 His wife Faustina Major, his two daughters, and his two adoptive children Lucius and Marcus Verus lived here with him. Lucius and Marcus were educated here by the best of teachers,130 intellectuals such as the writer Aulus Gellius, who frequented the court and the famous bibliotheca domus Tiberianae.131 In 161 AD, Antoninus Pius passed away, and both Marcus and Lucius Verus became Augusti, keeping up for eight years an exceptional “adoptive diarchy” that had been ordained long before by an enlightened Hadrian. Two emperors required two palaces; after having spent 23 years in the domus Tiberiana,132 Marcus Aurelius moved elsewhere, while Lucius Verus stayed on in his father’s house. Marcus, his wife Faustina Minor, and their children, including the future emperor Commodus, went to live in the domus Augustiana. Lucius Verus, instead, lived with Lucilla and his children until his death in 169 AD, abandoning himself to a dissolute life, whose accounts in literary sources are set indeed in the domus Tiberiana. His vices included gambling, food, and the races. He loved the races in the Circus Maximus and was a supporter of the Green faction, and especially of a horse named Volucer, which he ordered brought to palace.133 Oddly, this last passion finds confirmation in a number of modifications made to the second of the palaces on the Palatine Hill precisely around this time, of which archaeological traces survive. These remains suggest an intention to turn the green areas on the basement of the domus Tiberiana into a circus-shaped garden, identical to the one in the domus Augustiana in plan, size, and even orientation (Fig. 16). One wonders if this imitation of the architecture of the other imperial residence reflected the intent of the emperors to rival in splendor with one another. For the porticoes of this garden to be long enough, it was necessary to add new substructions along the front of the palace facing towards the Velia, which incorporated part of the street that ran at the foot of the basement half-way up the slope, turning it into a vicus tectus. Some graffiti and an inscription found in this new building sector suggest that it housed the bureau of the imperial chancellery, the office of the minister of finances (procurator a rationibus), and a large part of the state archives.134

Scriptores Historiae Augustae, Life of Antoninus Pius, 10.4; Scriptores Historiae Augustae, Life of Lucius Verus, 2.3, 2.6. Scriptores Historiae Augustae, Life of Antoninus Pius, 10.4; Aulus Gellius, Attic Nights, 13.20.1. 132 Scriptores Historiae Augustae, Life of Aurelian, 7.2. 133 Scriptores Historiae Augustae, Life of Pertinax, 4.4-5.1, 6.4. 134 Dio Cassius, 73.24.2. 129 130 131

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The Severan age In 204 AD, the domus Augusti hosted the celebration of the Ludi Saeculares,135 instituted by Augustus 220 years earlier, in 17 BC. For three days, procession and shows followed one another in the city to inaugurate a new period of prosperity, a new foundation of sorts, which as such revived rites and symbols from Rome’s origins. The ruling emperor, Septimius Severus, displayed a will to represent himself as a founder, like Augustus and even Romulus himself. In this period, the complex underwent some small modifications, as archaeological investigations have shown. A fountain was built on the upper terrace, and the substructed avant-corps, which I have defined as a maenianum, was further extended towards the Circus Maximus. In 192 AD, on the morrow of Commodus’ death, who had preferred the aedes Vectilianae on the Celius to the palaces of the Palatine Hill, the domus Augustiana was occupied by Pertinax, one of the first of a series of emperors destined to have a very short reign. These emperors were acclaimed by the army, who were however just as ready to depose them by violence. During this time, the palace was no longer renovated or decorated; on the contrary, it was neglected, or even used as a resource to raise money. Pertinax, for example, was forced to cut expenses for court banquets, and auction away part of the expensive furniture and too numerous service personnel.136 The assassinations that prepared the rapid imperial successions caused an atmosphere of terror to settle over the palace. In the accounts of ancient authors, the very rooms whose luxury and magnificence I have been illustrating so far became a stage for attacks and chases, and were stained with the blood of murders. Pertinax was caught by surprise by the soldiers in the cenatio Iovis; he fled into the nearby apartment in the basin, referred to as interiora, but they caught up with him and transfixed him with a spear in the chest in the same imperial cubiculum137 where Domitian had also died. His successor Didius Julianus, instead, was beheaded while he was in one of the balnea of the palace.138 The only period of splendor of the domus, and of the whole complex of imperial palaces, during the third century was the reign of Septimius Severus, who, although he resided in Rome for only four years, from 200 to 204 AD, placed a strong stamp on the palatine complex. Septimius, who lived here with his wife Iulia Domna, of oriental origin, and his sons, Geta and the future emperor Caracalla, had the “public” sector redecorated. For example, he had the vaults of the two rooms on either side of the socalled Aula Regia—where justice was administered— frescoed with the starry sky of Leptis Magna, his native city.139 He had the portico in the garden rebuilt as a hippodrome, with renovated wall decoration and architectural ornaments. He also commissioned an expansion of the substructions known today as the Severan Arcades. Onto these, he had a balneum built, and a comfortable and secluded apartment where we can imagine the empress to have spent her time, who, as ancient authors tell us, was an influential, highly educated and, above all, independent woman. Septimius gave this peripheral part of the palace, which he favored, a monumental façade intended to astonish those who, like he had, came to Rome from Africa, and hence along the Appian way. This façade was the Septizodium, a scenic theater wing with three tiers of columns, at whose base fountains gushed out. Following Septimius Severus’ death in 211 AD, the palace was plunged again in a climate of terror. The two coregents Caracalla and Geta lived there together,140 until the former had the latter killed,

CIL, VI 32327. Scriptores Historiae Augustae, Life of Pertinax, 7.8-11. 137 Scriptores Historiae Augustae, Life of Pertinax, 11. 138 Dio Cassius, 73.17.5; Scriptores Historiae Augustae, Life of Didius Julianus, 8.6. Eutropius, 8.17; Aurelius Victor, The Caesars, 19.3-4. 139 Dio Cassius, 77.1.1; Scriptores Historiae Augustae, Life of Severus Alexander, 2.8, 9. 140 By dividing the domus in two halves and walling up the doors between them, but maintaining a common entrance: Herodianus, 4.1.1-5. 135 136

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in the arms of Iulia Domna in her peripheral apartment, possibly the one beyond the circus-shaped garden.141 With the accession of Elagabalus in 219 AD, the palace became a stage for the extravagances of this priest-king of oriental origins. The porticoes and triclinia hosted theme parties, sumptuous dinners and erotic performances. Public baths were opened in some rooms, a brothel in others.142 Wine and absinthe gushed from the fountains, and flower petals fell from ceilings so densely that they smothered the guests. Finally, in the palace’s courtyards, paved with colored marbles and now called plateae Antoninanae, Elagabalus drove around in a carriage as if in an arena.143 The archaeological evidence indicates indeed that around this time the floors of the peristyles were renovated. The floor of the “public” sector of the house, in particular, was extended over part of the pool, covering it, but sparing the octagonal labyrinth fountain. Next to this fountain a podium was built, some walls of which survive, possibly for a small temple of Serapis, as suggested by some of the objects found in the area. To these we must add other clues indicating that new cults had been introduced in the imperial palace. An inscription and two heads of dadophores found on the basement floor suggest that a Mithraeum stood here. In the same basement, which a literary sources refers to as in penetralibus palatii, were also altars for the Syrian god Heliogabalus.144 Finally, we have a lot of information about the life led in the domus Augustiana by Elagabalus’ successor, Severus Alexander. As a reaction to his predecessors, his reign and conduct at court were informed by justice and soberness. The emperor’s only excess was his pietas towards his ancestors, and towards philosophers, writers, and even mythical or mystical religious figures such as Orpheus, Abraham and Christ, statuettes of whom he collected and displayed in the palace lararia, sacrificing to them daily. He was also very devoted to his mother, Iulia Mamaea, a niece of Iulia Domna’s, for whom he had a new apartment built, the diaetae Mamaeae.145 This is possibly to be identified as one built above the so-called Severan Arcades, which stamps on bricks date indeed to the close of the Severan age. We are also told that Severus Alexander used to drink the water of his pools every day, which the Claudian aqueduct conveyed up to the Palatine Hill, and that one of his pastimes was raising an immense variety of birds in cages or aviaria. Recent archaeological investigations have revealed that during the Antonine age some work was done on the domus Tiberiana as well, which is never mentioned in ancient authors’ accounts of this period. The pool in the middle of the main building was modified, shrubs were planted in the peristyle, and a new opus sectile floor was laid under the porticoes. Furthermore, the substructions facing towards the Sacra Via were reinforced with arcades spanning the vicus tectus, and with further outworks in the direction of the adjacent House of the Vestals, which may have been connected to the imperial palace at this time. The age of Constantine To send a first strong signal of the Christianization of the city, Constantine chose the domus Augusti, that is, the palatial complex on the Palatine Hill where the founding values of Rome, the empire, and its state religion, paganism, were most strongly rooted. Thus, in the first quarter of the fourth century BC, a small cruciform church, the titulus Anastasiae, was erected on the avant-corps looking out towards the Circus Maximus, the most visible point of the hill, where traditionally the relationship between the emperor and the people was established (Fig. 1). The apse and transept of this church were built of opus vittatum. The type of masonry and an inscription allow us to identify it as one of the churches founded by Constantine in Rome. Its name evokes indeed that of Anastasia, Constantine’s half-sister, Dio Cassius, 78.2.1-6. Scriptores Historiae Augustae, Life of Caracalla, 2.4. Scriptores Historiae Augustae, Life of Helagabalus, 8.6-24.2. 143 Scriptores Historiae Augustae, Life of Helagabalus, 24.6. Scriptores Historiae Augustae, Life of Severus Alexander, 25.7. 144 Aurelius Victor, The Caesars, 23.1. 145 Scriptores Historiae Augustae, Life of Severus Alexander, 26.9. 141 142

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the wife of Bassianus, Caesar of Italy, who probably resided on the Palatine Hill. Its position on imperial grounds and the privileges it was to maintain for centuries, in spite of being a small church, allow us to identify it as the palatine chapel, the palace church, where Constantine probably ordered the celebration of the first Christmas Mass on 25 December 326. The domus Augustiana, which had been neglected by Diocletian and his fellow tetrarchs, who had inaugurated imperial palaces in the new capitals of the empire, once again became the residence of the emperor under Maxentius, who made living in Rome one of the pillars of his policy. We can thus ascribe to Maxentius’ reign, between 307 and 312 BC, some building work and renovations of the domus dated by archaeological evidence—masonry, stamps on bricks, and stratigraphy—to the beginning of the fourth century AD. For example, the large triclinium known as cenatio Iovis was renovated. Its side windows were closed and the marble facings all replaced, including that of the floor, which was now repaved in opus sectile with large modules of colored marbles, much of which still survives. Recent excavations have shown that the most extensive renovation was carried out in the court at the entrance of the “private” sector. Here the garden was narrowed down even more. In the middle of it a large apsed hall was erected, 200 ft long (ca. 59 m), which finds parallels in similar halls in imperial palaces in the provinces, for example the imposing and still integrally preserved aula Palatina in Trier. The ceremonial of the time described in literary sources indicates that this basilica was the consistorium principis, the place, that is, where solemn political meetings were held, as well as official banquets hosted by the emperor sitting on a throne in the middle of the apse, with his high dignitaries sitting by his side. Opposite Maxentius, or whoever sat in the apse, was a small temple built in the same period in the middle of the pool in the adjacent peristyle. A small bridge connected it to the portico, which was modified to serve as the vestibule, or rather, the narthex of the basilica. Finally, Maxentius also had a new thermal facility built onto the arcades facing towards the circus. Significant remains of these baths can still be seen at the top of the so-called Severan Arcades. On 29 October 312, Constantine defeated Maxentius in the famous battle of the Milvian Bridge. The following day he entered the palace on the Palatine Hill, but only stayed there for a few days. When in Rome, he preferred to reside in the peripheral Sessorium, an alternative residence close to the Basilica of the Lateran. Constantine made his last appearance in Rome in the summer of 326 AD, by which time he had earned the hostility of the pagan aristocracy. The emperor resented the traditional ceremonies that should have accompanied his adventus, and felt ill at ease in the palaces on the Palatine Hill and in the whole city, which was reluctant to embrace the new Christian religion. On 26 November of the same year, he laid the first stone of Costantinople, a second Rome, but a Christian one, where he was to live in a new palace that was to remarkably resemble the one on the Palatine Hill, the ineludible model for any imperial residence.

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Analisi ed edizione di un’insula a Pompei Regio VI, insula 11 Maria Cristina Capanna, Fabio Cavallero, Saverio G. Malatesta

Premessa Una conoscenza articolata e approfondita per contesti e una finalità di ricostruzione scientifica consentono di progettare la comunicazione con il pubblico e la conservazione del patrimonio culturale. È auspicabile che anche nel caso di Pompei si adotti per la conoscenza e per la tutela un approccio basato non su classi di oggetti o singole unità architettoniche ma piuttosto su insiemi edilizi. L’esempio di analisi che qui si propone è stato sviluppato sulla base dell’esperienza acquisita nel corso di un ampio progetto di studio sull’antica città di Pompei, intrapreso nel 1994, condotto sotto la direzione scientifica dei professori Andrea Carandini e Paolo Carafa della Sapienza, Università di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Pompei. Nell’ambito di tale progetto sono stati condotti scavi stratigrafici, che hanno raggiunto il terreno vergine sull’intera superficie scavabile, in due settori interni della Regio VIII: la Casa di Giuseppe II o Casa di Fusco (VIII, 2, 38-39)1 e la piazza del Foro Triangolare (9 saggi)2. Un altro settore della città oggetto di indagini è costituito dalla fascia che si estende dall’estremità orientale del Foro fino al lato occidentale delle Terme Stabiane, corrispondente alle insulae 9, 10 e 11 della Regio VII. L’insula 9 è composta da due domus: la Casa delle Nozze di Ercole (VII, 9, 47), collocata immediatamente ad est del Tempio dei Lari Pubblici e che occupa più della metà dell’intero isolato3 e la Casa della Pescatrice (VII, 9, 63). Occupano l’insula anche alcune tabernae disposte sui fronti nord ed est dell’isolato che è stato quasi interamente scavato4. Nelle insulae 105 e 11 della stessa regio è stata condotta l’analisi stratigrafica degli elevati e dei rivestimenti, oltre che lo scavo stratigrafico della taberna VII, 11, 16-17, con ingresso sul vicolo del Lupanare (fig. 1). È stata infine realizzata la schedatura integrale dei capitelli dorici di Pompei ed è stata formulata una tipologia di questi elementi architettonici.

Fig. 1. Scavo stratigrafico (blu), stratigrafia (verde) e oggetto dell’indagine (rosso). Stratigraphic excavation (blu), stratigraphy (green) and case’s analysis (red). Carafa, D’Alessio1995-1996, pp. 137-140; Carafa 1997, pp. 15-20; Carafa 1999, pp. 20-23. Carafa, D’Alessio 1995-1996, pp. 137-138; Carafa 1997, pp. 20-21; Carafa 1999, pp. 23-24; D’Alessio 1999; Carandini et al. 2001. 3 Carafa 1997, pp. 21-24; D’Alessio 1998; Carafa 1999, pp. 25-33; Carandini et al. 2001; Carafa 2005. 4 Si sta attualmente lavorando sulla documentazione e sul materiale ceramico in vista della pubblicazione dei dati. 5 Amoroso 2007.

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Fig. 2. Mappatura delle tecniche edilizie e dei rivestimenti pavimentali utilizzati in tutta l’insula. Map of all masonry types and floors over the whole insula 292


M.C. Capanna, F. Cavallero, S.G. Malatesta Analisi ed edizione di un’insula a Pompei

1. Metodologia e impostazione della ricerca 1.1. L’analisi stratigrafica. (M.C. Capanna) Il procedimento di analisi dell’insula VI, 11 è quello proposto da A. Carandini6. Il metodo di ricerca si basa sull’identificazione delle unità più piccole che l’indagine archeologica sia in grado di individuare ovvero le singole azioni che hanno determinato la costruzione/distruzione delle strutture e dell’impianto decorativo. Tutti i rivestimenti, parietali e pavimentali, i rifacimenti e i restauri - compresi quelli moderni - sono stati schedati come singole azioni (Unita Stratigrafiche), alla pari delle strutture murarie e dei piccoli allestimenti interni7. Le decorazioni non sono state oggetto di analisi stilistica e iconografica, aspetti già approfonditi in precedenti studi sul contesto in esame8. È stata effettuata la mappatura delle tecniche edilizie e dei rivestimenti pavimentali utilizzati in tutta l’insula (fig. 2). Preliminare al lavoro sul campo è stato lo spoglio sistematico delle pubblicazioni e dei Giornali di Scavo, conservati presso l’Archivio della Soprintendenza, per la schedatura e ricontestualizzazione del materiale mobile rinvenuto nell’insula oltre che per l’individuazione degli elementi moderni (i restauri operati dalla Soprintendenza stessa), in modo da distinguerli da quelli antichi. Dall’esperienza delle ricerche condotte negli altri settori della città9 sono emersi alcuni elementi riscontrati anche nell’analisi di questo contesto. È ormai chiaro che materiali edilizi diversi e differenti tecniche costruttive possono essere utilizzate nello stesso periodo; che tecniche edilizie considerate particolarmente antiche (quale ad esempio l’opera quadrata) possono coesistere con altre considerate più recenti; che per la comprensione della sequenza stratigrafica sono risultate fondamentali le relazioni della stratigrafia verticale (gli alzati) e orizzontale (i pavimenti); che non sempre i rapporti stratigrafici tra gli alzati possono essere letti con chiarezza per la presenza dei rivestimenti parietali antichi che in alcune circostanze celano il punto di contatto tra due elevati10; che non sono rari i casi in cui un muro è costituito da più unità stratigrafiche, che testimoniano come questo abbia subito modifiche in età antica; che i rapporti stratigrafici tra le pareti andrebbero verificati anche a livello di fondazione: lo scavo stratigrafico ha mostrato che strutture che sembravano essere realizzate in epoche diverse, sono risultate invece coeve, poiché le rispettive fondazioni erano tra loro legate, dunque realizzate contestualmente. Individuate e documentate11 le singole Unità Stratigrafiche, sono stati realizzati i diagrammi (matrix) delle Unità Stratigrafiche, murarie e di rivestimento, positive e negative, basato sui rapporti fisici tra di esse esistenti e che ne stabiliscono la successione cronologica relativa. I matrix sono stati poi riletti e interpretati: le Unità Stratigrafiche sono state raggruppate in attività (ad esempio le murature che compongono un ambiente); queste in gruppi di attività (ad esempio la creazione di più ambienti pertinenti a un unico complesso edilizio)12. Questi ultimi compongono i periodi (la costruzione di uno più edifici

6 Carandini et al. 1996. Anche il recente studio di F. Coarelli e F. Pesando che hanno pubblicato i dati sull’analisi dell’insula VI, 10 (Coarelli, Pesando et al. 2006) segue la logica stratigrafica, ma viene messa in primo piano la “scheda di parete”, che ha significato funzionale, e non stratigrafico: la parete, infatti, non è una unità, ma la somma di varie Unità Stratigrafiche appartenenti a periodi diversi. 7 Il complesso monumentale è stato documentato attraverso la compilazione delle schede di Unità Stratigrafica, adottate dall’ICCD del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Parise-Badoni, Ruggeri-Giove 1984). Le Unità Stratigrafiche moderne (risarciture di muri e consolidamenti degli intonaci) sono state considerate e documentate come quelle antiche. 8 Strocka 1991; Id. 1994; Sampaolo 1994a; Id. 1994b con bibliografia precedente. 9 Si veda la Premessa con fig. 1. 10 Altri elementi che spesso nascondo le Unità Stratigrafiche Murarie e di Rivestimento, sono le intonacature e le risarciture moderne che spesso si rendono necessarie per la conservazione del monumento, ma impediscono una chiara lettura dei rapporti stratigrafici. In piccoli settori periferici dell’insula, infine, non è stato possibile procedere alla lettura delle stratigrafie murarie a causa della fitta vegetazione che ricopriva le pareti. 11 Sulla documentazione delle Unità Stratigrafiche si vedano i paragrafi seguenti. 12 Carandini 1991, pp. 135-153.

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dell’insula). La sintesi finale dell’elaborazione dei dati è costituita da un diagramma stratigrafico (matrix) dei Gruppi di Attività (vedi § 3) - composti dalle Unità Stratigrafiche riconducibili alla costruzione delle unità immobiliari e alla loro prima decorazione - e da una schematica sequenza di immagini in cui si mostra il progressivo popolamento dell’isolato (vedi figg. 27-38). Per i periodi è stata proposta una cronologia assoluta basata sulle cronologie delle decorazioni parietali o pavimentali più antiche documentate. Le ultime modifiche e gli ultimi restauri, realizzati nella maggior parte dei casi in opera laterizia e vittata, sono stati datati agli anni compresi tra il 62 d.C., anno del devastate terremoto che colpì la città vesuviana13, e il 79 d.C., anno dell’eruzione del vulcano che seppellì Pompei14. 1.2. Regio VI, insula 11. Dal rilievo alla pubblicazione dei dati sul web. (F. Cavallero) L’analisi complessiva e diretta dell’insula 11 della Regio VI ha rilevato incongruenze ed errori metrici presenti nella precedente documentazione. Le planimetrie edite si sono infatti rivelate in diversi punti e a diversi fattori di scala imprecise. Esse erano inoltre esclusivamente tracciate su supporto cartaceo. Questo avrebbe imposto scansioni dei documenti e digitalizzazioni degli stessi che inevitabilmente avrebbero accresciuto il margine di errore dovuto a distorsione ottica nel primo caso, imprecisione dell’operatore nel secondo. Date queste premesse si è deciso di eseguire un nuovo rilievo indiretto che rispettasse i moderni standard cartografici di precisione e consentisse l’elaborazione di piante, sezioni, prospetti e ortofotografie necessarie alla comprensione e al racconto delle diverse fasi di vita dell’insula. Oltre a ciò si è inoltre prestata particolare attenzione alla rapida divulgazione dei dati scientifici ottenuti. Tale scelta è stata dettata dalla necessità di rendere i dati immediatamente disponibili sia alla comunità scientifica, che potrà avvalersene per eventuali ulteriori studi o critiche alla ricostruzione ottenuta, sia al pubblico dei “non addetti ai lavori”, che potrà visualizzare contenuti tridimensionali utili alla visita virtuale da casa propria o tramite device mobile sul sito stesso. Troppe volte infatti le informazioni ricavate da ricerche sul campo sono state unico appannaggio di chi le aveva eseguite escludendo dalla conoscenza tutti gli altri. A ciò si aggiunga che si è reso pubblico un patrimonio per buona parte reso invisibile da cancellate serrate per motivi di sicurezza o mancanza di personale. Come progetto pilota è stata selezionata una delle domus che componevano l’insula VI: la Casa del Labirinto. Tale scelta è stata fatta tenendo conto sia della grandezza del complesso abitativo (circa mq 2000) sia delle difficoltà che esso presentava nel rilievo a laser scanner (numerosi ambienti da collegare tra loro, difficili punti di accesso, presenza di angoli nascosti). Il lavoro di acquisizione e di elaborazione post-survey (compresa la creazione del sito internet che ospita i dati acquisiti) è durato nel complesso due settimane circa15. Si vuole qui presentare la metodologia utilizzata nella ricerca per quel che riguarda la parte del rilievo, della creazione del sistema GIS e della pubblicazione dei dati sul web. Tutti i dati, i rilievi, le elaborazioni e le ricostruzioni sono presenti e consultabili sul sito www.arkeo3d. altervista.org/progetti/pompei.

In tutte le zone indagate della città, infatti, è risultato evidente che il terremoto del 62 d.C. arrecò gravi danni alle strutture che furono restaurate utilizzando la tecnica edilizia più diffusa nella prima età imperiale; contemporaneamente sono attestate ristrutturazioni e cambi d’uso degli ambienti, con la tendenza ad allestire impianti produttivi all’interno di domus. 14 I riferimenti cronologici proposti sono comunque subordinati al principio di successione stratigrafica, applicato ad ogni singolo elemento che è parte dell’insula, ma sono da verificare tramite scavi stratigrafici solo attraverso i quali è possibile datare in maniera assoluta, tramite la cronologia del materiale raccolto, le fondazioni delle strutture e i piani tagliati dalle fondazioni stesse. 15 Occupando due persone nelle indagini sul campo e in sede di elaborazione dei dati acquisiti. 13

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1.2.1. Il Rilievo topografico di appoggio e di inquadramento Prima di procedere al rilievo a laser scanner si è definito il sistema di riferimento assoluto (UTMWGS84) con la possibilità di trasformare lo stesso in uno o più sistemi di riferimento locali (Gauss-Boaga, fuso est). Sono quindi stati identificati 4 punti di orientamento che risultassero equamente distribuiti all’interno dell’edificio. Questo procedimento è stato eseguito con strumentazione GPS (Global Position System) Leica-Viva GS15. I quattro punti GPS identificati (nominati Pompei 1-4, vedi fig. 3) sono stati rilevati in modalità statica e di seguito si riportano i valori in coordinate WGS84 ottenute (in proiezione sul piano cartesiano). Il margine di errore tollerato è stato inferiore a m 0.01.

Fig. 3. Elaborazione del rilievo eseguito con strumentazione GPS. Processing GPS survey data.

Fig. 4. Proiezione dei punti topografici ottenuti tramite rilievo GPS su Google Earth. Projection of surveyed topographic points onto Google Earth.

Le coordinate dei quattro puniti rilevati sono state successivamente proiettate su piattaforma Google Earth rendendoli in questo modo immediatamente visualizzabili sul web e verificabili nella corretta posizione. A questo primo inquadramento topografico ne è seguito un secondo composto da due differenti fasi: a) Realizzazione di una poligonale topografica esterna all’edificio. b) Realizzazione di una poligonale topografica interna all’edificio. Entrambe le operazioni sono state eseguite attraverso l’utilizzo di una Stazione Totale Stonex a 1” (mgon 0.3) di precisione. La prima poligonale è stata necessaria per la georeferenziazione dell’opera e delle scansioni eseguite con laser scanner. Questa è stata tracciata seguendo i limiti esterni dell’edificio 295


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e chiudendo l’ultimo punto rilevato sul primo. Ciò ha consentito una compensazione della poligonale che ha permesso di distribuire eventuali errori dovuti ad imprecisioni dell’operatore su tutti i punti. La seconda è stata utile per avere punti di aggancio interni alla struttura da rilevare. Ad ogni punto sono state assegnate coordinate assolute calcolate tramite l’aggancio ai caposaldi GPS precedentemente rilevati. Calcolate le poligonali topografiche di aggancio, è stato eseguito un nuovo rilievo dell’intera insula. Tale rilievo è stato elaborato a “fil di ferro” ossia seguendo i punti di un muro che ne definiscono la forma. Il risultato è la pianta a fig. 5. Successivamente sono stati collocati alcuni target di riferimento (utili al collegamento tra laser scanner e strumentazione topografica) necessari alla georeferenziazione della nuvola di punti. Questi sono stati rilevati topograficamente mediante l’uso della Stazione Totale.

Fig. 5. Le due poligonali tracciate sovrapposte alla pianta elaborata in ambiente CAD. The two polygonal lines superimposed on a CAD plan.

Fig. 6. Impostazioni del Laser Scanner HDS 7000. Settings for the HDS 7000 Laser Scanner.

1.2.2. Acquisizione ed elaborazione delle nuvole di punti L’acquisizione delle nuvole di punti è stata eseguita tramite l’utilizzo del Laser Scanner Leica HDS 7000. Lo strumento ha restituito nuvole di punti in coordinate spaziali X,Y,Z con coefficienti di riflettanza e corredate dal valore RGB. Tutte le scansioni sono state eseguite con un passo a 3.1 mm alla distanza di 10 metri mentre la velocità di acquisizione è stata fissata a 1.000.000 di punti al secondo (vedi fig. 9). 296


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Durante il rilievo tridimensionale a laser scanner sono state effettuate 55 riprese che hanno coperto la totalità della domus. Esse sono state eseguite nelle seguenti modalità: a) Scansioni esterne a terra realizzate con HDS 7000 e fotocamera digitale ad alta risoluzione al fine di generare la nuvola di punti con valori RGB; b) Scansioni interne a terra; c) Scansioni interne degli ambienti aperti realizzate con HDS 7000 e fotocamera ad alta risoluzione; d) Scansioni interne delle stanze realizzate con HDS 7000 e fotocamera ad alta risoluzione. Una volta eseguite tutte le riprese le differenti nuvole di punti sono state importate all’interno del software Leica Cyclone ed elaborate per creare un’unica nuvola di punti necessaria alla generazione della pianta complessiva e delle orto-foto utili all’analisi delle unità stratigrafiche murarie. Le scansioni sono state allineate e legate tra loro tramite sovrapposizione delle superfici attraverso il riconoscimento di punti in comune tra le diverse riprese (vedi fig. 7). Tutte le sovrapposizioni si sono sempre tenute al di sotto dell’errore medio fissato in misura di m 0.005.

Fig. 7. (Sopra a sinistra) Allineamento delle scansioni tramite punti comuni alle superfici (in rosso i punti selezionati). (Above left) Alignment of scans using common points (highlighted in red). Fig. 8. (Sopra a destra) Sovrapposizione delle immagini scattate durante il rilievo alla nuvola di punti. I punti 13,14,15 sono quelli utilizzati per l’aggancio della nuvola di punti vicina. (Above right) Superimposition of photographs taken during the surveying of the dot cloud. Points 13, 14 and 15 are those used for alignment with the dot cloud.

Definite nello spazio le nuvole di punti, si è passato alla texturizzazione di esse al fine di restituire i valori RGB dei singoli punti: sono state sovrapposte le immagini scattate durante il rilievo alle nuvole di punti elaborate consentendo così la restituzione di un’immagine a colori (vedi fig. 8). Il metodo utilizzato è stato il medesimo adoperato per l’allineamento delle differenti nuvole di punti: a punti identificati sulle immagini sono corrisposti i medesimi riconosciuti nelle scansioni. Il processo si è attestato su un errore medio di 0.60 pixel. Elaborate in questo modo le scansioni, è stato possibile generare delle ortofotografie georeferite (fotografie che hanno subito una trasformazione proiettiva utile a correggere un’immagine di tipo fotografico dalle deformazioni subite nella fase di ripresa e da quelle connesse con la strumentazione utilizzata) della pianta e delle murature (vedi figg. 9, 10). Tramite questo procedimento l’immagine è stata riportata ad una prospettiva centrale dell’oggetto, con scala costante, esattamente come succede in una restituzione ortografica. Esse hanno consentito di analizzare e procedere al riconoscimento delle diverse unità stratigrafiche murarie. Per tale processo sono state utilizzate le varie riprese interessate e, creato un piano di taglio infinito e perpendicolare alla superficie da analizzare, si sono generati dei file .tiff accompagnati da un file di riferimento .tfw. Quest’ultimo contiene al suo interno i valori di scala, rotazione e posizione nello spazio dell’immagine. I dati vettoriali sono dunque stati importati all’interno di una piattaforma CAD, digitalizzati e associati, all’interno di un GIS, con le schede stratigrafiche murarie corrispondenti. 297


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Figg. 9, 10. Orto-fotografie di pareti della domus c.d. del Labirinto eseguite a partire da nuvole di punti senza e con valori RGB. Orthophotographs of the so-called domus of the Labyrinth based on dot clouds, with and without RGB values.

1.2.3. Elaborazione delle fotografie sferiche navigabili Per poter permettere la libera navigazione all’interno degli ambienti della domus si è scelto di creare per ogni singolo ambiente delle fotografie sferiche che permettessero di visitare virtualmente il complesso (vedi fig. 11). Queste sono state successivamente agganciate alla pianta interattiva rendendola navigabile e liberamente fruibile dal web. La procedura ha comportato l’esecuzione di una serie da 8 o 16 fotografie da cavalletto16 con fotocamera Nikon D9000 ad alta risoluzione e con obbiettivo grandan-

Fig. 11. Fotografia sferica navigabile con software Quick Time Player. Spherical photograph that can be navigated with the Quick Time Player software. Tutte le serie fotografiche sono state eseguite nella medesima posizione in cui è stato collocato il laser scanner. Questo ha consentito di utilizzare le medesime fotografie anche nella colorazione della nuvola di punti (vedi supra) 16

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golare, eseguite con un angolo di inclinazione di 0° (sull’asse z) nel caso in cui sia stata effettuata una serie da 8 fotografie, mentre con angoli di +30° e -25° di inclinazione nel caso in cui sia stata effettuata una serie da 16. La scelta tra le differenti serie è dipesa dalla grandezza e dall’altezza degli ambienti da acquisire. Ad un ambiente non troppo sviluppato in altezza è corrisposto un minor numero di prese fotografiche. Le riprese sono state effettuate a 360° corrispondendo dunque ad un incremento angolare di 45° per ogni fotografia. Tutte le fotografie sferiche sono state poi trattate per poterne permettere l’inserimento in un’interfaccia web. 1.2.4. Creazione e popolamento del GIS La pianta dell’intera insula elaborata grazie al rilievo a “fil di ferro” eseguito a stazione totale ha permesso di elaborare un sistema informativo archeologico che tenesse conto anche delle murature verticali del complesso (analizzate e schedate grazie alle scansioni laser). Per la creazione del GIS si è utilizzata una piattaforma Autodesk Autocad Map 3D. All’interno di questa si è importata la pianta elaborata e si sono nominati i layer che individuavano le unità stratigrafiche in modo univoco e progressivo. Sono inoltre stati posizionati tutti gli oggetti rinvenuti all’interno dell’insula. Di pari passo si è elaborato il database contenente la descrizione di tutte le unità stratigrafiche, le schede USM semplificate, tutti gli oggetti rinvenuti localizzati e non. Successivamente si è proceduto ad effettuare una join (unione di tabelle alfanumeriche con tabelle contenenti dati geo-spaziali) che avesse come campo in comune il nome layer per la parte grafica, il codice US per la parte alfanumerica. Il risultato è un sistema interrogabile che restituisce le parti grafiche richieste per esclusioni e/o associazioni alfanumeriche e/o geo-spaziali. 1.2.5. Pubblicazione e fruizione dei dati sul web Poiché il materiale raccolto rappresenta una preziosa fonte di informazione per numerosi studiosi ed è di notevole interesse per il grande pubblico di appassionati al sito archeologico, si è scelto di pubblicare tutti i dati raccolti e le successive lavorazioni in un sito internet17. Per la sua realizzazione, si è scelto di utilizzare un software open-source. La scelta è ricaduta sul Content Management System Joomla! 2.5, software che offre, grazie al fatto di poter contare su una vasta comunità di utenti, un ampio ventaglio di possibilità di personalizzazione e adattamento, tramite riscrittura di porzioni di codice PHP, di parti di esso. Prima intenzione è stata quella di rendere quanto più possibile accessibile il sito nelle sue sezioni, tramite l’ideazione di una interfaccia immediata e semplificata, ma al contempo elegante e professionale. Menù essenziali permettono da un lato di facilitare la presentazione delle idee e del progetto che animano il portale, dall’altro consentono all’utente di arrivare nella maniera più naturale alla consultazione dei contenuti. Di non minore importanza è la possibilità di ricevere feedback da parte di studiosi e non. Per questo è stato creato un apposito modulo di contatto che permette di segnalare eventuali errori o differenti ricostruzioni eseguite sulla base dei dati resi accessibili. Per non dire poi di eventuali suggerimenti o critiche. 1.2.5.1.Le ragioni di una scelta: la pubblicazione e la fruizione libera dei dati sul web. (Saverio Giulio Malatesta) Internet costituisce ormai un veicolo irrinunciabile di informazioni e mezzo per eccellenza nell’abbattere frontiere logistiche e cognitive tra gli interlocutori. All’interno dello spazio virtuale determinato dalla connessione di una pluralità di utenti, infatti, vengono meno quegli ostacoli che possono inficiare o rendere problematica la comunicazione tra due o più referenti: i sei famosi gradi di separazione che 17

Vedi paragrafo successivo. 299


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dividono una persona qualunque dal conoscere qualsiasi altro individuo estraneo, anche apparentemente irraggiungibile, si riduce, grazie alle potenzialità offerte dalla Rete, ad un contatto immediato. Internet, nella sua accezione più ampia, è esattamente questo: una serie di connessioni, virtualmente illimitate, tra poli. Lungo tali interconnessioni possono viaggiare i più disparati tipi di dati, veicolati nel modo ritenuto più opportuno affinché essi possano venire facilmente interpretati o esposti in maniera tale che, alterandone, integrandone o ampliandone la prospettiva, diano luogo a nuovi tipi di informazione. La nostra società appare sempre più affamata di quest’ultima risorsa, tanto da stanziare capitali crescenti per aumentarne la facilità di reperimento e rielaborazione. L’enorme flessibilità offerta dai mezzi informatici, che sono soltanto il veicolo e mai il fine di questo tipo di ricerca, consente inoltre una possibilità di manipolazione dei dati mai conosciuta prima, anche, purtroppo, in senso malevolo. Tenendo conto di queste considerazioni introduttive, traspare più chiaramente il perché dell’essere presenti su Internet. Vi è l’ovvia volontà di contribuire, sebbene con una particellare partecipazione, all’enorme calderone di conoscenza costituita dalla somma dei micro- e macrosaperi presenti sulla Rete; tuttavia ad essa si affianca la necessità di donare la propria esperienza in chiave scientifica, secondo la formazione professionale ricevuta e seguita. Non si tratta solo, dunque, di rendere disponibili via via i risultati delle proprie ricerche, o quantomeno darne una breve summa, come da tempo si sta facendo nel mondo delle scienze pure e, più recentemente, nel settore umanistico; si vuole invece dare la possibilità all’utente di comprendere pienamente il meccanismo della ricerca e degli effetti che essa può produrre – in tal senso vanno letti i dati e le immagini sferiche presenti sul sito Arkeo3D -introducendolo, dove possibile, nei meandri cognitivi percorsi dal ricercatore medesimo, nei dubbi sorti nella sua mente, nelle risposte che, in seguito ad attente analisi e processi di indagine, è riuscito a formulare, lì dove tale processo possa essersi compiuto felicemente. In quest’ottica, pertanto, ci si avvicina ad una mentalità vicina ad un movimento di opinione che va crescendo di giorno in giorno nei recessi di Internet: l’universo open. Si sentono sempre più spesso termini preceduti dalla parola ‘open’, che va ammantandosi di un alone di magia e contemporaneamente di senso di trasgressione. Basta dire ‘open’ o utilizzarlo davanti ad altri termini (open data, open access, open source) per sentirsi parte di un qualcosa di avanzato: come tutte le mode, però, spesso si cade nel fraintendimento o nella contraddizione. Non è sufficiente scrivere un riassunto delle proprie ricerche, per rilasciare “open data”, oppure è inutile pubblicare il proprio articolo, se censurato, gravato da restrizioni di utilizzo, privo di immagini. Non può esistere dato aperto se non supportato da mentalità “open”, capace di rendere di pubblico dominio quanto si è creato – mantenendone ovviamente la paternità – per discutere, in seno ad una comunità il più vasta possibile (e Internet rende reale tale eventualità come nessun altro mezzo prima d’ora), pregi e difetti, superando la prima versione per approdare a nuovi e più coinvolgenti e pertinenti risultati. Il mondo dell’archeologia è per costituzione d’essere il campo privilegiato del dibattito scientifico: eppure frequentemente si afferma la tendenza a trattenere i propri dati con maniacale accanimento, non scorgendo invece i vantaggi indubbi del metterli a disposizione per arrivare ad un superamento di essi. Fine della ricerca archeologica dovrebbe essere proprio la comunicazione di essi, meta cui si dovrebbe giungere dopo un processo che vede la volontà di rispondere alle domande insite nel percorso cognitivo stesso tenendo conto di tutti gli indizi noti, secondo il criterio della verosimiglianza – sappiamo che raggiungere la verità assoluta non è una possibilità offerta agli archeologi e agli scienziati in generale. Dibattere, comunicare, dibattere nuovamente per raggiungere una nuova comunicazione: Internet offre questa possibilità ermeneutica aggirando gli ostacoli posti dall’essere “umani troppo umani”, contando sulla statistica (dato un numero elevato di utenti, le probabilità di raggiungere un determinato risultato - di rispondere ad una determinata domanda, di notare particolari o ricevere suggerimenti, e così via – cresce esponenzialmente) anziché sugli umori del o dei singoli. Ecco che allora rendere disponibile i propri lavori sulla Rete, oltre a costituire indiscutibilmente una vetrina per le proprie capacità professionali, costituisce una tappa fondamentale del percorso dello studioso moderno, e dell’archeologo nel particolare, che trova nella comunicazione dei dati la meta del proprio studio e lo stimolo per intraprendere nuove ricerche, sull’onda di quella tensione conoscitiva, presupposto basilare per il raggiungimento di nuove mete del sapere. 300


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2. L’insula VI, 11 (M.C. Capanna) 2.1. Il contesto topografico L’insula VI, 11 sorge nel settore nord-occidentale della città. È delimitata a est dal vico del Fauno, a sud dal vico di Mercurio, a ovest dal vico del Labirinto; a nord è limitata dalla spazio non edificato tra la città e le mura, dove forse era esistito originariamente un percorso intramuraneo (fig. 12).

Fig. 12. L’insula VI. The insula VI.

L’isolato ha forma rettangolare, con orientamento NO-SE, come le altre della Regio VI, e occupa una superficie di circa 4400 mq (compresi i marciapiedi quasi 5000 mq). I lati lunghi misurano, a ovest m 137,33, a est 138,89; quelli brevi, a nord m 32,16 e a sud 32,33. La differenza nella lunghezza dei lati maggiori è dovuta alla necessità di rendere il fronte settentrionale parallelo all’andamento delle mura 301


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e a quello della strada che corre parallela a queste ultime. Come le altre insulae del settore nord della Regio VI, si imposta sul modulo rettangolare di 120 x 500 piedi osci, pari a 60,000 piedi quadrati18. Il piano di calpestio dell’isolato risulta in pendenza da nord a sud (il dislivello massimo è pari a m 3,90); nel settore settentrionale dell’insula le unità occidentali sono disposte a una quota più bassa rispetto a quelle orientali (il dislivello è compreso tra i cm 30/40 e i 120). Secondo una recente analisi metrologica condotta su tutta la Regio VI, l’insula 11 prevedeva originariamente una suddivisione in 20 lotti19. Da nord a sud, per quasi tutta la lunghezza, era la divisione principale, lungo una linea che corrisponde a quella della variazione di quota fra fronte est e fronte ovest. Le parti settentrionale e centrale dell’isolato erano ulteriormente suddivisi in direzione E-O, mentre quella meridionale avrebbe avuto solo la divisione longitudinale. Secondo A. V. Schoonhover, le successive modifiche attuate nel corso del tempo avrebbero causato collegamenti secondari tra lotti originariamente separati. Grazie ai risultati di questa ricerca, è possibile aggiungere che originariamente alcuni lotti erano liberi da costruzioni, adibiti a giardino o a piccoli spazi per la coltivazione. 2.2. Lo scavo e gli studi Gli scavi per liberare l’insula dalla cenere e dal lapillo si svolsero in più riprese, tra il 1834 il 184320. In particolare i lavori nella Casa del Labirinto si svolsero tra il 28 aprile del 1834 e il 12 settembre del 1835. Nelle unità centrali e settentrionali tra il 2 agosto del 1841 e il 22 maggio del 1843. I pochi contributi che hanno avuto per oggetto l’intero isolato, risalgono al 199421 e al 200622. Nel primo caso, nell’ambito della trattazione sulle case e sulla società pompeiana, vengono brevemente descritte le unità immobiliari dell’insula al 79 d.C. Nel secondo contributo la studiosa ha analizzato dal punto di vista metrologico, della tipologia edilizia e delle destinazioni d’uso tutte le insulae della Regio VI. Le altre pubblicazioni sono relative a singoli lotti, e di questi sono prese in considerazione quasi esclusivamente le decorazioni. Di tutta l’insula, la Casa del Labirinto, che occupa circa metà dell’intera superficie, è stata più volte oggetto di studio, soprattutto per quanto riguarda le decorazioni parietali e pavimentali23, ed è stata analizzata nell’ambito degli studi sulle case dell’aristocrazia pompeiana24. La Casa del Labirinto è inoltre presa in considerazione come confronto in problematiche specifiche, quale, ad esempio la presenza del doppio atrio25. Nella monografia di V.M. Strocka26, l’apparato decorativo è studiato approfonditamente nel suo complesso, proponendo ricostruzioni e nuove letture. In base all’analisi delle murature e delle decorazioni parietali e pavimentali, inoltre, V.M. Strocka ha proposto una ricostruzione diacronica delle modifiche della domus, ma non sono state proposte piante ricostruttive per i singoli periodi. Gli unici altri due settori dell’insula studiati, anche se in maniera assai meno approfondita, sono la domus ai civici 11 e 12 del vico del Labirinto, con la bottega al civico 7 del vico del Fauno27, e la piccola domus nell’angolo NE dell’insula, ai civici 18-20 del vico del Labirinto28. In entrambi i casi, si tratta di brevi descrizioni relative quasi esclusivamente ai lacerti delle decorazioni conservate. Schoonhover 2006, pp. 163-166. Il piede osco corrisponde a cm 27,6. Schoonhover 2006, pp. 163-166, fig. 3.72, pp. 90-101. 20 Fiorelli 1835, pp. 145 ss.; PAH II, pp. 292-294, 298-304, 306-310, 315-317; Bechi 1835, pp. 4-6; Id. 1839, pp. 4-7, 36-46; Avellino 1841, pp. 52-54; Id. 1843, pp. 65, 73. 21 Wallace-Hadrill 1994, pp. 208 ss. 22 Schoonhover 2006. 23 Mau 1882, pp. 80-85, 127, 133, 135-139, 141-156, 159-160, 162, 165, 179-183, 187-189, 236-237, 259-263; Pernice 1938, pp. 33, 35-38, 46, 50, 61, 124, 127, 135-136, 138, 140, 166, 175, 177, 179;Beyen 1938-60, I, pp. 254-267; Schefold 1957, pp. 125-127; PPP II, pp. 237-252; Laidlaw 1985, pp. 165-170; Hanoune, De Vos 1985, pp. 841 ss.; Strocka 1991; Id. 1994. 24 Tra i più recenti: Schoonhover 1999. 25 Maiuri 1954. 26 Strocka 1991. 27 Avellino 1843, pp. 66, 73; Fiorelli 1835, p. 150; Mau 1882, pp. 85, 425; Schefold 1957, p. 127; PPP II, p. 252; Laidlaw 1985, pp. 171-172; Sampaolo 1994a. 28 Avellino 1843, pp. 74-75; Fiorelli 1835, p. 152; Mau 1882, p. 423; Schefold 1957, p. 127; Laidlaw 1985, p. 172; PPP II, pp. 252-253; Sampaolo 1994b. 18 19

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Nel 2003 è stato realizzato. sotto la direzione scientifica dei prof. A. Carandini e P. Carafa, in collaborazione con Archeometra s.r.l., il rilievo laser scanner 3D integrato con moduli di rilievo limitatamente all’area dell’atrio principale e delle terme. Sono stati inoltre applicati i metodi del doppler-laser vibrometrico e termografico digitale ad alta risoluzione sulle decorazioni parietali; alcuni setti murari (perimetrali e interni) sono stati sottoposti ad analisi per la rilevazione di micro-lesioni. La campagna di monitoraggio era volta alla sperimentazione delle nuove tecnologie per la realizzazione di una mappatura del rischio delle decorazioni e delle strutture murarie, strumento per la progettazione di interventi di restauro e consolidamento. 2.3. I restauri e le altre attività della Soprintendenza all’interno dell’insula Problematica è l’individuazione delle parti murarie che hanno subito restauri, a cominciare dagli scavi dell’Ottocento. Non sempre è agevole distinguere tali interventi rispetto alle murature antiche. Il materiale da costruzione utilizzato è spesso composto da scapoli antichi di reimpiego, allettati con malta locale, ricca di pozzolana e di inclusi vulcanici. L’intento dei restauratori del tempo era quello di rendere indistinguibili gli interventi sulle murature antiche, imitate sin nei dettagli, rendendo oggi la lettura delle stratigrafie antiche spesso problematica. Numerosi furono, poi, gli interventi che seguirono i bombardamenti del 1943, che avevano arrecato ingenti danni. Lo spoglio sistematico dei Giornali di Scavo conservati presso l’archivio della Soprintendenza e ad alcune indicazioni edite29 sono state di supporto nel distinguere gli elementi moderni da quelli antichi. Al 1980 risale la casuale scoperta della cantina sotterranea nell’ambiente 2 della Casa del Labirinto, in occasione dei lavori di pulizia del pavimento30. Nel 2005-2006 sono stati condotti restauri nell’oecus corinzio della Casa del Labirinto (amb. 43), a seguito del cedimento della copertura in cemento realizzata nel 1925-1926. I danni alle colonne e agli affreschi sono stati notevoli e non è stato possibile ripristinare lo stato di conservazione delle colonne quale era arrivato fino a noi dopo l’eruzione del 79 d.C. (fig. 13: lo stato dell’oecus prima del crollo; fig. 14: lo stato dopo i restauri del 2005-2006). Con l’occasione sono state consolidate anche le murature settentrionali degli ambienti 44, 45 e 46 della Casa del Labirinto, confinanti con le strutture dell’unità al civico 11. I restauri hanno compromesso la lettura dei rapporti stratigrafici dei setti murari coinvolti, ma hanno messo in sicurezza questo settore dell’insula. 2.4. Le unità immobiliari al momento dell’eruzione del 79 d.C. Al momento dell’eruzione l’insula era suddivisa in 10 lotti (fig. 15). Segue un elenco delle unità immobiliari31 a partire dall’angolo NO dell’insula, in senso anti-orario. Nell’elenco e nelle descrizioni seguenti viene adottata la numerazione corrente dei numeri civici (in nero nella figura). La numerazione degli ambienti segue quella edita in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, 1994, pp. 1-79: 1) VI, 11, 1-2 2) VI, 11, 3

Bottega. Taberna. Ambienti che si affacciano su un hortus. Rooms looking out onto a hortus.

3) VI, 11, 4, 16-17

Officina (4) annessa alla domus che ha gli ingressi sul lato opposto dell’insula (16-17); nell’ultima fase in un settore potrebbe essersi installato lupanar. Workshop (4) annexed to the domus whose entrance is on the opposite side of the insula (16-17). In the last phase, a lupanar may have been installed in a sector of this house.

4) VI, 11, 5, 15

Bottega (forse con qualche ambiente destinato all’abitazione) e hortus. Taberna (possibly with some rooms used as living quarters) and hortus.

5) VI, 11, 6, 13

Officina (6) annessa alla domus che ha l’ingresso sul lato opposto dell’insula (13). Workshop (6), annexed to the domus whose entrance is on the opposite side of the insula (13).

6) VI, 11, 7, 11-12

Domus con ambienti di servizio o bottega. Domus with service rooms or a taberna.

./..

Garcìa y García 2006, p. 26, fig. 11 e p. 125. Strocka 1994. 31 Si veda anche Wallace-Hadrill 1994, pp. 208 ss. 29 30

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Fig. 13. (Sopra) Lo stato dell’oecus prima del crollo (Above) The oecus before its collapse; fig. 14 (Sotto) Lo stato dopo i restauri del 2005-2006.; fig. 14 (Under) The oecus after its restoration in 2005-2006. 304


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7) VI, 11, 8

Domus annessa al grande complesso della Casa del Labirinto, abitata dall’amministratore della grande casa (fig. 16). Domus annexed to the large complex of the House of the Labyrinth, where the household manager lived (Fig. 16).

8) VI, 11, 9-10 9) VI, 11, 14 10) VI, 11, 18-20

Casa del Labirinto (fig. 16). House of the Labyrinth (Fig. 16). Piccola domus. Small domus. Domus con sartoria o lavanderia. Domus including a tailor’s shop or a laundry.

Fig. 15. Suddivisione dell’insula. Subdivision of the insula. 305


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1) La bottega, posta nell’angolo nord-occidentale dell’insula, si estende su una superficie interna di appena 37 mq. Si tratta di tre ambienti, di cui due (1-2) con accesso diretto su vico del Fauno e comunicanti tra di loro; l’amb. 3 è posto alle spalle dell’amb. 1 ed è con questo comunicante. I muri sono in opera a telaio e in opera incerta di lava e calcare. Il nucleo originario dell’unità risale al primo periodo edilizio. Non si conservano intonaci né pavimenti. Non sono stati rinvenuti elementi in base ai quali poter stabile il tipo di attività commerciale vi si svolgesse. 2) L’unità al civico 332 si estende su una superficie di circa 325 mq. Dall’ingresso al civico 3 su vico del Fauno si accede, verso nord, a un ambiente quadrangolare (8) di dimensioni medio-piccole che comunica con un ulteriore vano analogo per forma e dimensione (7). Attraversato il vestibolo, si entra in un vasto hortus (4) sul quale si aprono altri ambienti: quello meridionale di dimensioni maggiori (2) e quello settentrionale (6) comunicante con un ulteriore vano (9). L’hortus si estende fino al limite settentrionale dell’isolato. Sul muro perimetrale nord sono i resti di una scala (6bis) che doveva condurre a un secondo piano, non conservato. A est l’unità confina con la domus che ha il suo ingresso ai civici 18-20 di vico del Labirinto. Rispetto a questa, il piano dell’unità 2 si trova a una quota di circa 1,10 m più in basso. In base a quanto oggi è possibile vedere, il limite occidentale dell’atrio dell’unità ai civici 18-20 era aperto verso l’hortus tramite un’ampia finestra. Il piano della parte settentrionale dell’hortus risulta leggermente rialzato rispetto al resto del giardino. 3) La terza unità, più vasta delle precedenti (circa 500 mq), è il risultato di accorpamenti progressivi di nuclei originariamente indipendenti. Le strutture più antiche, nella parte occidentale, risalgono alla prima occupazione dell’isolato. La proprietà si espande fino a raggiungere l’estensione massima nell’arco di un secolo. Il nucleo originario è composto da una domus di modeste dimensioni33, con ingresso al civico 16 di vico del Labirinto, con piccolo atrio (2) – la presenza dell’impluvio, oggi non più conservato, è rivelata da un avvallamento rettangolare al centro dell’ambiente – e quattro cubicola intorno a questo (3, 4, 9, 10); sul retro degli ambienti occidentali se ne dispongono altri di forma irregolare con funzioni di servizio (5, 6 e la cucina 7). Il nucleo a nord di questo appena descritto, con il suo ingresso dal civico 17 della stessa strada, viene dotato di un piccolo giardino limitato da un colonnato (11), in seguito chiuso da setti murari; di fronte, ma non perfettamente in asse, si apre un piccolo ambiente quadrangolare, con pavimento in cocciopesto mal conservato (7’). A nord delle fauci si dispongo alcuni ambienti (2’, 3’, 4’, 5’), di cui uno, piuttosto ampio (5’), può forse essere interpretato come triclinio. Gli ambienti a ovest, con ingresso dal civico 4 di vico del Labirinto si trovano a un livello più basso di quelli orientali: per colmare il dislivello fu realizzata una rampa (8, fig. 17), con pendenza da est verso ovest, rivestita in cocciopesto. In questo settore della proprietà, in un periodo successivo a quello dell’impianto originario, vengono realizzati alcuni apprestamenti di servizio (ambiente 8a, fig. 1834): due pozzi e una vasca rivestita di intonaco idraulico. A nord degli ambienti di lavoro è un ulteriore vano (7)35, senza alcuna caratterizzazione, che si affaccia su uno spazio scoperto (2). Su questo se ne apre un altro, quadrangolare, posto subito a sud dell’ingresso (3). Forse, nell’ultimo periodo, il piccolo nucleo con ingresso al civico 16 di vico del Labirinto, fu trasformato in lupanar, come attesterebbero i graffiti incisi sull’intonaco della parete esterna tra i civici 16 e 17. Nella parete che costituisce il limite occidentale di questa unità si apriva una finestra sul grande spazio hortus dell’unità 4.

Questa unità risulta essere stata danneggiata dai bombardamenti del ‘43: García y García 2006, p. 80. Nella planimetria edita in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, 1994, a p. 76 questa unità risulta aperta solo sul vico del Labirinto, per cui la numerazioni degli ambienti è autonoma. L’analisi autoptica ha permesso di verificare l’esistenza di un’apertura che mette in collegamento il suo ambiente 4 con il 10 dell’unità con ingresso al civico 17. 34 La vaschetta rettangolare non era documentata nelle precedenti pubblicazioni: è stata individuata dopo la rimozione dell’inerte nel corso di queste indagini. 35 Anche in questo caso la planimetria edita mostra un’errata apertura dell’ambiente 7 verso la rampa 8, mentre l’ambiente non risulterebbe accessibile dall’area scoperta 2. 32 33

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Fig. 16. Domus annessa alla Casa del Labirinto. Domus annexed to the House of the Labyrinth.

Fig. 17. Casa del Labirinto: la rampa. House of the Labyrinth: the ramp. Fig. 18. Casa del Labirinto: apprestamenti di servizio. House of the Labyrinth: service area. Fig. 19. Il nome del proprietario della Casa del Labirinto. The name of the owner of the House of the Labyrinth.

4) Il lotto, che supera i 325 mq, si estende in direzione E-O lungo l’asse breve dell’insula; ha un ingresso sul vico del Fauno, al civico 5, e uno sul lato opposto, su vico del Labirinto, al civico 1536. Come nei precedenti casi la planimetria edita non corrisponde alla situazione riscontrata durante l’analisi delle strutture: l’ampio spazio scoperto 3 risulta collegato con le due unità ai civici 15 e 14, ma dall’analisi autoptica risulta chiaramente che questa unità, nell’ultimo periodo, non ha alcuna apertura sul fronte occidentale. 36

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Si tratta di pochi e piccoli ambienti (4, 5, 6, 11 nella parte orientale) collegati a un ampio spazio libero sul quale si aprono due piccoli vani (2, 10), interpretabili forse come tabernae. La parte occidentale, ad una quota assai inferiore rispetto a quella orientale, doveva originariamente essere completamente libera e poteva essere una dipendenza del lotto 3. Rimane piuttosto difficile ipotizzare la destinazione d’uso dei singoli ambienti e dell’unità nel suo complesso. 5) Il nucleo originario di questa unità, con ingresso al civico 13 di vico del Labirinto, che si estende da est a ovest nella larghezza dell’isolato, è tra i più antichi. Abbiamo ipotizzato che originariamente nella parte occidentale esistesse uno spazio aperto, successivamente occupato da più ambienti (1-6; 13-17). È possibile, inoltre, che gli ambienti 7 e 12 abbiano sostituito dei vani più antichi forse disposti in maniera simmetrica rispetto ai due cubicola 9 e 11. Nel settore occidentale sono presenti ambienti, forse di servizio, disposti intorno a un’area scoperta (13) con pozzo. A sud dell’ingresso al civico 6 di vico del Fauno, si conserva la scala (4) che doveva condurre al secondo piano. 6) Anche questa unità, che supera i 460 mq di estensione abitabile, è l’esito di modifiche e espansioni di una delle domus più antiche dell’insula. La casa originaria, con ingresso al civico 12 di vico del Labirinto37, aveva pianta canonica con vestibolo (1) affiancato da cubicola (3, 16), atrio testudinato (2) con ali (17, 18), e, in asse con l’atrio, il tablino (5) con le due sale di rappresentanza ai lati (4, 6). Un giardino (7-9) si disponeva lungo il lato occidentale. A questo si poteva accedere sia dal tablino, tramite un ambiente di passaggio (19), che dalle stanze meridionali di servizio (1215) – tra cui è la cucina –, che avevano un ingresso autonomo al civico 11 di vico del Labirinto. In più ambienti della domus sono ancora presenti lacerti della decorazione in I stile (nel cubicolo 16, nel triclinio 6 e nel tablinio 5). Gli ambienti della casa furono decorati altre due volte: rimane la decorazione in III stile nelle sale di rappresentanza e nel tablino (5); in quest’ambiente e nell’ala settentrionale (18) sono presenti anche resti dell’ultima decorazione in IV stile. 7-8) La Casa del Labirinto (VI, 11, 9-10), con la piccola abitazione annessa al limite nord-ovest (VI, 11, 8), comunemente interpretata come la dimora dell’amministratore, si estende su una superficie di circa 2000 mq, quasi la metà dell’intera insula (4459 mq). Per grandezza, è la terza di tutta Pompei (dopo la Casa del Fauno e la Casa di Pansa). Il nucleo originario è costituito dagli ambienti che si affacciano intorno all’atrio tetrastilo (27). Inizialmente la zona ovest della domus era priva di costruzioni, ma forse già di pertinenza della domus. Nell’impianto originario non esistevano né il grande peristilio (36), né gli ambienti a nord di questo, che devono aver sostituito un più ridotto hortus e forse i resti di un edificio precedente. La zona occidentale, con ingresso al civico 9, fu successivamente occupata da un secondo atrio (3) con diversi ambienti lungo i lati meridionale (2, con cantina sotterranea38, e 5) e occidentale (4, 6, 7, 8, 9)39. Su questi, in un momento successivo – come dimostra la tamponatura di una finestra cui si appoggia l’ultimo gradino della scalinata - si doveva erigere il secondo piano, accessibile dalla scala costruita nell’ambiente 9. Seguono alcuni ambienti di servizio (11, 12) e la cucina (13). Numerose sono le decorazione originarie conservate: il pavimento dell’amb. 39, gli emblemata reimpiegati negli ambb. 44 e 45, le lesene in stucco sul muro O del peristilio. In base all’analisi stilistica effettuata da V.M. Strocka40, intorno al 70-60 a.C. la casa venne ristrutturata, forse a seguito di danni subiti durante gli attacchi militari dell’assedio dell’89 a.C., come dimostrerebbe il nuovo l’apparato decorativo in II stile. È a quest’epoca che risalgono le decorazioni dell’oecus corinzio 43, degli amb. 42 e 46 e dei primi due ambienti dei bagni (21, 22) che furono poi nuovamente decorati in III stile. Le ultime modifiche sono databili agli anni dopo il terremoto del 62 d.C., quando probabilmente il proprietario, Publius Sextilius,41 37 Sampaolo 1994a. La domus al civico 12 risulta nell’elenco di quelle che subirono danni nel corso dei bombardamenti del 1943: García y García 2006, p. 82. 38 Si veda anche Busana 2003, pp. 530-532. 39 Secondo la ricostruzione di V.M. Strocka, invece, la parte occidentale sarebbe sorta contemporaneamente a quella orientale. 40 Strocka 1991; Id. 1994. 41 Si tratta probabilmente di P. Sextilius P. f. Fal. Rufus che in età neroniana aveva rivestito a Pompei alcune cariche pubbliche: fu due volte edile e una volta duoviro quinquennale (CIL, X 1273), prima di trasferirsi a Nola nel 69 d.C.

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non viveva più in città. Il nome del proprietario è noto dall’iscrizione incisa su un peso (fig. 19). In questo periodo otto ambienti della casa (3, 6, 9, 27, 29, 30, 35, 37) vengono dotati di una nuova decorazione in IV stile di bassa qualità; viene istallato un panificio (amb. 19, 23, 55) con forno e quattro macine, a scapito degli ambienti termali. In base ad alcuni indizi rinvenuti al momento dello sterro della domus, è stato possibile ipotizzare che al momento dell’eruzione nella casa abitasse ormai solo l’amministratore. Si tratta di Ianuarius Fuficius il cui nome, seguito da “qui hic habitat” è graffito sull’intonaco di una delle colonne dell’ordine posteriore del peristilio. Un sigillo, trovato vicino allo scheletro di un uomo rinvenuto nel peristilio, con inciso il nome di Euty(chus), poteva invece appartenere al fornaio che, in via del tutto ipotetica, poteva risiedere alle spalle del suo laboratorio, nella casa che era stata dell’amministratore42. La Casa del Labirinto subì, insieme a quella dell’amministratore, danni durante il bombardamento del 16 settembre del 1943. In particolare furono danneggiati gli ambienti a sud dell’atrio della casa dell’amministratore e i secondi piani della stessa dimora43. 9) La piccola unità (circa 100 mq) al civico 14 di vico del Labirinto, dotata di ambienti di servizio nel settore occidentale, tra cui un uno con piano di cottura (7 bis), è interpretabile come piccola domus. 10) L’edificio posto nell’angolo NE dell’insula, con tre ingressi ai civici 18, 19, 20 di vico del Labirinto, la cui metà settentrionale è costituita da strutture riconducibili al primo periodo di occupazione dell’isolato - come testimoniano i pochi resti di muratura in opera quadrata di calcare e il pavimento (amb. 7) in cocciopesto con grosse tessere bianche, databile al II secolo a.C.44, occupa una superficie di circa 198 mq. Ha pianta inconsueta, ma comprensibile alla luce del dislivello esistente tra la metà orientale e quella occidentale dell’isolato. La parte orientale ha pianta canonica con vestibolo (1), con cubicola affiancati (3, 12), che conduce nell’atrio compluviato (2) sul quale si affacciano ambienti sui lati sud e nord: due oeci (5, 6) e l’ambiente 4. In questo era una scala, oggi non più visibile45; la scala conduceva al secondo piano che poteva estendersi anche sugli ambienti meridionali (7-11). In asse con vestibolo e atrio non è presente il tablino, ma un muro con ampia finestra che affacciava verso lo spazio aperto dell’unità 2. L’interpretazione della struttura come domus con annessa sartoria o lavanderia è dovuta alla presenza, sugli intonaci delle pareti esterne al civico 19, di alcuni graffiti in cui si menziona la data di consegna o di ricevuta di tuniche. 2.5. La ricontestualizzazione dei reperti mobili Nel corso delle attività di scavo si prestò particolare attenzione ai manufatti che venivano alla luce e che venivano segnalati nei diari di scavo in cui si forniva descrizione sintetica e aggiunta delle misure espresse in palmi46. Contemporaneamente ai diari di scavo venivano redatte le “librette”, in cui erano scrupolosamente elencati tutti i reperti. Per l’interpretazione dei lemmi “sciba” e “manecchioni” si è fatto riferimento al contributo di M. Annecchino edito nel 1979 nella pubblicazione dedicata all’instrumentum Domesticum di Pompei ed Ercolano47.

Per le decorazioni e le iscrizioni della domus vedi §§ 2.5-27. García y García 2006, pp. 80-82. 44 Sampaolo 1994b, p. 77 n. 3. 45 Nella pianta della domus edita in Sampaolo 1994b, p. 76 è rappresentata una scala tra l’ambiente 4 e l’ambiente 5. Di questa oggi non c’è più traccia. 46 Un palmo corrisponde a ca. 25 cm. 47 Annecchino 1977; si veda anche Amoroso 2007. “Sciba a meccioni”: con tale definizione viene probabilmente indicata la cerniera della porta, di lunghezza variabile, solitamente dotata di un elemento metallico associato ad una struttura lignea. 42 43

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I materiali rinvenuti e i graffiti sugli intonaci (218 elementi) sono stati da noi schedati in un data-base in formato Access. A ciascun oggetto/graffito, cui è stato attribuito un codice numerico univoco, corrisponde un record nella banca-dati. Per ciascun reperto sono specificati i seguenti dati: Numero identificativo / Data del rinvenimento / Quantità / Descrizione / Misure / Materiale / Stato di conservazione / Luogo del rinvenimento / Note / Bibliografia / Archivio. In tutti i casi possibili48, abbiamo segnalato in una pianta in formato vettoriale, la posizione del rinvenimento. Spesso la posizione degli oggetti ha permesso, insieme ad altri elementi, quali la decorazione, la forma e la disposizione all’interno della domus, di individuare la destinazione d’uso dei singoli ambienti e/o dei diversi lotti nell’ultima fase di vita dell’isolato. I dati vettoriali e quelli alfa-numerici sono gestiti dal sistema GIS consultabile on-line49. 2.6. Le testimonianze epigrafiche Sugli intonaci delle pareti, interne o perimetrali, e delle colonne dell’insula erano numerosi graffiti, oggi in gran parte quasi del tutto persi. I graffiti sono confluiti nel volume IV del Corpus Inscriptionum Latinarum50. I. CIL, IV 239. Vicoletto alle spalle del giardino della Casa del Fauno in continuazione di quello detto del Lupanare. Sull’intonaco dei muri del lato sinistro di questo vicoletto, i.e. sui muri della Casa del Labirinto. M. Cerrinium aed(ilem) / Miscenia rog(at) / Messenia (vel Messenio?) II. CIL, IV 240. M. Cerrinium. III. CIL, IV 240. 6 giugno 1834. Nel vico alle spalle del giardino della Casa del Fauno. Cn. Helvium aed(ilem) / Hermes colo[- - -] / cum gallinariis rog(at). IV. CIL, IV 1418. Sulla terza colonna da est dell’ordine anteriore del peristilio della Casa del Labirinto. Lettere capitali alte 1,5 cm. Quodveio / in [- - -] V. CIL, IV 1419. Sulla colonna nell’angolo occidentale dell’ordine anteriore del peristilio della Casa del Labirinto. Lettere della linea 1 alte 1,5 cm, della linea 2, 2 cm. SCHE / EROSVFA VI. CIL, IV 1420. Su una delle colonne del peristilio (?). Q. Lutilius VII. CIL, IV 1421. Sulla seconda colonna a partire da sud del colonnato occidentale del peristilio della Casa del Labirinto (con figure relative al mondo gladiatorio graffite sotto ogni nome). Faustus Itaci / Neronianus / Priscus N(---) / VI V Herennius / L XIIX P Ad ampitheatru[m] / Q VIII. CIL, IV 1422. Sulla stessa colonna del precedente graffito, sul lato meridionale. Asteropaeus / Ner CVII / V Oceaneanus / L VI / M IX. CIL, IV 1423. Su un’altra colonna del peristilio della Casa del Labirinto. [- - -]VETOTN [- - -] / [- - -]IUG [- - -] X. CIL, IV 1424. Sulla stessa colonna, o su un’altra del peristilio della Casa del Labirinto Cyrn[- - -] XI. CIL, IV 1425. Sulla colonna all’angolo tra l’ordine settentrionale e quello occidentale. In alcuni casi è data l’indicazione generica di rinvenimento nell’insula o nella singola unità abitativa ma senza indicare l’ambiente, o tantomeno la posizione dettagliata nell’ambiente. 49 Vedi §§ 1.2.4-5 e www.arkeo3d.altervista.org/progetti/pompei. 50 Vedi §§ 1.2.4-5, 2.5 e www.arkeo3d.altervista.org/progetti/pompei. 48

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Cl(i)ntius Cu++u[- - -] / lingit Dionusia (?) / lingit [- - -] XII. CIL, IV 1426. Sulla stessa colonna del precedente o su un’altra. La S è corsiva. Gentius. XIII. CIL, IV 1427. Sulla stessa colonna. Salvia Felatiantiocu / loscu[- - -]. XIV. CIL, IV 1428. Tra la precedente e la successiva. Xamae / Aimiane XV. CIL, IV 1429. Sulla settima colonna a partire da est dell’ordine posteriore del peristilio della Casa del Labirinto. Q. Sempronio Q. l. XVI. CIL, IV 1430. Sopra il precedente graffito. A. Veius M. f. Felix XVII. CIL, IV 1431. Sulla sesta colonna a partire da est dell’ordine posteriore del peristilio della Casa del Labirinto. VII k(alendas) febres. XVIII. CIL, IV 1432. Sopra a CIL, IV 1431. Murranus. XIX. CIL, IV 1433. Sulla stessa colonna del precedente. Ianuarius / Cresces (!) XX. CIL, IV 1435. Tra CIL, IV 1434 e CIL, IV 1439. [Feli]x [es]t. Ianuarius / Fuficius qui hic habitat. XXI. CIL, IV 1436. Sulla sesta colonna da est, davanti a CIL, IV 1437, tra CIL, IV 1433 e CIL, IV 1434, nell’ordine posteriore del peristilio della Casa del Labirinto. VII k(alendas) apr(ilis) (?). XXII. CIL, IV 1437. Vicino alla precedente. Fusus (!) / Fuscus / Fuscus / Fuscus. XXIII. CIL, IV 1438. Sulla quarta colonna da est nell’ordine posteriore del peristilio della Casa del Labirinto. Chres(imus?) XXIV. CIL, IV 1439. Sulla terza colonna da est nell’ordine posteriore del peristilio della Casa del Labirinto. C. Cratili XXV. CIL, IV 1440. Tra CIL, IV 1439 e CIL, IV 1441. M. Iunius XXVI. CIL, IV 1441. Sulla colonna all’angolo tra l’ordine orientale e quello settentrionale. Me. Me. / Mentulam / Linge[- - - ]. XXVII. CIL, IV 1442. Sulla stessa colonna del precedente. (Cfr. CIL, IV 2377, iscrizione sepolcrale di Pompei: Cn. Clovatio Cn. F.) [Cn.] Clovatius XXVIII. CIL, IV 1443. Sull’ottava colonna da sud dell’ordine orientale del peristilio della Casa del Labirinto. Terentius / Optatus / Martialis. XXIX. CIL, IV 1444. Sulla settima colonna da sud dell’ordine orientale del peristilio della Casa del Labirinto. Terentius. XXX. CIL, IV 1445. Sulla quinta colonna da sud dell’ordine orientale del peristilio della Casa del Labirinto. Gamus. XXXI. CIL, IV 1446. Sulla quarta colonna da sud dell’ordine orientale del peristilio della Casa del Labirinto. [- - -]neo heic / fuet. XXXII. CIL, IV 1447. Sulla terza colonna da sud dell’ordine orientale del peristilio della Casa del Labirinto. [- - -]MESC[- - -]. XXXIII. CIL, IV, p. 207. Da inserire dopo CIL, IV 1419, sulla stessa colonna. [- - -]SENOM[- - -] 311


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XXXIV. CIL, IV 4434. All’ingresso del civico 8. Methe fe(l)lat. XXXV. CIL, IV 4435. Ingresso al civico 15, sull’intonaco rosso. Amar[- - -] XXXVI. CIL, IV 4436. Ingresso al civico 16, sull’intonaco rosso. Ianui / [- - -]T[- - -] / T+aau[- - -] XXXVII. CIL, IV 4437. Nello stesso luogo del precedente. +++niais XXXVIII. CIL, IV 4438. Nello stesso luogo del precedente. Neptunus. XXXIX. CIL, IV 4439. Nello stesso luogo del precedente. Pitan(a)e / vici(ni) sal(utem) / aer(is) a(ssibus) tribus. XL. CIL, IV 4440. Sopra a CIL, IV 4439. Xustus / Xystus +ili[- - -]. XLI. CIL, IV 4441. Vicino a CIL, IV 4440. Isidorus / aeris (assibus) duobus XLII. CIL, IV 4442. Sotto a CIL, IV 4441. TI III II II +I+ XLIII. CIL, IV 4444. Vicino al precedente. [- - -]SPUS[- - -] [- - -]US[- - -] XLIV. CIL, IV 1373. Tra il terzo e il quarto ingresso da nord sul vico del Labirinto. Iuvenis / Menester va(le) XVII / XXI / CXXXX LXVII LXXX XLV. CIL, IV 1374. Nello stesso luogo del precedente. Restituta roga II XLVI. CIL, IV 1375. A destra del quarto ingresso. [- - -]Ole / Natalis / verpe / n / CUNHSRSICI / ait Secundu[s] / Domnae [- - -]/ cu[m - - -]ortili XLVII. CIL, IV 1376. Nello stesso luogo del precedente. Iucunde (!) Secunda (!) / Pangluc[i]ae XLVIII. CIL, IV 1377. Nello stesso luogo del precedente (fig. 20). Secunde / [- - - ]quiste / Catum exeneratui [- - -] / [- - -] / EINO+ expingebas / [- - -]nisicum +ECTIOMO[- -]/ [- - -]ESSETITAQUE NON[- - -]. XLIX. CIL, IV 1378. Nello stesso luogo del precedente. Timele L. CIL, IV 1379. Nello stesso luogo del precedente.

Fig. 20. XLVIII. CIL, IV 1377 312


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Iucunde / et Aucustiani S[- - -]. LI. CIL, IV 1380. Nello stesso luogo del precedente. Iucunde / Aucustiane / quiquiten quis III LII. CIL, IV 1381. Nello stesso luogo del precedente. Secunda /[- - -]lice Iucund[a] / [- - - ]la LIII. CIL, IV 1382. Nello stesso luogo del precedente. Afrodite / Aucustis+ LIV. CIL, IV 1382a. Nello stesso luogo del precedente. Purami va[- - -] LV. CIL, IV 1383. Nello stesso luogo del precedente. Isidorum aed(ilem) II+C / optimi CUNULINCET (?) IU[- - -] T LVI. CIL, IV 1384. Nello stesso luogo del precedente. Aprodite / Aucustia[- - -] / [- - -]etias Aucustiana LVII. CIL, IV 1385. Nello stesso luogo del precedente. Iucunde / Augustian[e] LVIII. CIL, IV 1385a. Nello stesso luogo del precedente. [- - -]SURUS[- - -] LIX. CIL, IV 1386, 1387. Nello stesso luogo del precedente. Timele [- - -]aris[- - -] LX. CIL, IV 1388. Nello stesso luogo del precedente. Timele Felatris /Timel[ - - -]. LXI. CIL, IV 1388a. Nello stesso luogo del precedente. Timele Extaliosa (Expallida?) LXII. CIL, IV 1389. Nello stesso luogo del precedente. Nympe Felatrix LXIII. CIL, IV 1390. Nello stesso luogo del precedente, non molto più in alto. Veneria / Maximo / Mentla / exmuccav(i)t / per vindemia a / tota [- - -] / ETRELNQUE / PUTR VENTRE / MUSCE[- - -] / CON SPLINU / CS LXIV. CIL, IV 1392. Parete settentrionale dell’atrio dell’unità cui si accede dal secondo ingresso da nord su vico del Labirinto. III idus aprilis / tunica + I / ++++ LXV. CIL, IV 1393. Sulle scale della stessa unità del precedente. K. XII maias tun(icam) pal(lium) /nonis mais fas(ciam) / VIII idus mais (!) / tunicas II (lavandas dedi o accepi). LXVI. CIL, IV 1394. Sopra a CIL, IV 1393. Iid[us] iul / VIII idus aug. LXVII. CIL, IV 1395. Insieme al precedente. [- - -] idbus [- - -]. LXVIII. CIL, IV 1396. Parete meridionale dell’atrio dell’unità cui si accede da secondo ingresso da nord su vico del Labirinto. Alexs (Alexander?) dixit / numen/ M E NA dixit /O+[-]OR II LXIX. CIL, IV 1397. Sotto CIL, IV 1396. Dinibales /Synoris /Spurius / Macer / Domitius / Alexander Caius / Casartio / sperat / primoc[- - -]VES Per omnia / fata / [- - -]o IBINEUS [- - -]II te Tebaldi / ame nec vis 7 eco solus LXX. CIL, IV 1434. Ianuari. LXI. CIL, X2 8057. Casa del Labirinto. [- - -]H[- - -] 313


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2.7. Rivestimenti parietali e pavimenti decorati I rivestimenti parietali e pavimenti decorati erano conservati nella Casa del Labirinto (VI, 11, 8-10), nella domus con ingresso al civico 12 di vico di Mercurio e in quella posta nell’angolo NE dell’isolato51. Lo stato degli intonaci parietali, esclusi pochi fortunati casi, è purtroppo pessimo: sono infatti oggi quasi completamente persi. Nel resto dell’isolato sono conservati intonaci grezzi e pavimenti in cocciopesto e lavapesta non decorati, schedati durante questo lavoro come Unità Stratigrafiche52. Per quanto riguarda i pavimenti, la semplice rimozione dell’inerte dal piano degli ambienti ha permesso di individuarne alcuni in cocciopesto o lavapesta che non risultavano documentati in nessuna pubblicazione precedente. Casa del Labirinto (vedi fig. 16) Ambiente 4. Resti di decorazione in II stile di cui rimane solo una cornice in stucco in alto e una lesena a destra. Ambiente 6. Si conserva parte della decorazione in IV stile databile ai lavori di ristrutturazione posteriori al 62 d.C. La parete nord aveva lo zoccolo a finto rivestimento marmoreo; la parte mediana era costituita da un corpo centrale giallo, incorniciato da un baldacchino e due lesene verdi. A sinistra: campo rosso cui a destra corrisponde la porta verso l’amb. 7. Il quadro centrale aveva come soggetto l’abbandono di Arianna, mentre sul lato sud era Europa sul toro (dei due quadri oggi rimane molto poco: fig. 21).

Fig. 21. (A sinistra) Ambiente 6. (Left) Room 6. Fig. 22a-b. (A destra) Ambiente 23. (Right) Room 23.

Ambiente 7. L’ambiente era decorato in II stile (70-60 a.C.). Oggi rimane solo la traccia della suddivisione degli elementi architettonici. Ambiente 23. Gli stipiti delle fauces erano decorati, in alto, con capitelli a sofà (cm 46 x 22) realizzati in stucco. Sul lato maggiore sono una fila di foglie di acanto e una di foglie lanceolate; dietro, due larghe volute con al centro un calice di acanto. Sul lato minore, sulle foglie è un calice formato da tre foglie di acanto e ai lati due steli ondulati. La decorazione è databile al 100 a.C. (fig. 22a-b). Per questa sezione si fa riferimento alle pubblicazioni più recenti: Strocka 1991; Id. 1994; Sampaolo 1994a; Id. 1994b, con bibliografia precedente. 52 In Amoroso 2007 è stata proposta una sintetica tipologia degli intonaci grezzi e dei pavimenti non decorati alla quale si è fatto riferimento. 51

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Ambiente 24. L’ambiente era decorato con stucco in I stile: sopra a ortostati e pianetto erano tre file di bugne, che seguivano uno schema ripetuto dei colori: rosso, ocra e verde. Atrio 27. L’ambiente era dotato di decorazione in I stile databile al 100 a.C. Dopo il terremoto del 62 d.C., le zone danneggiate furono restaurate con rozze imitazioni dell’originario rivestimento. Cubicolo 29. Nel corso dell’ultimo periodo edilizio, dopo il terremoto, l’ambiente venne interamente ridecorato in IV stile. Zoccolo e parte mediana era realizzati con pannelli alternati gialli e rossi, con zona superiore bianca. Sulla parete nord, il quadro centrale (fig. 23: acquarello non firmato conservato al Museo Nazionale di Napoli da Strocka 1994, fig. 36) rappresentava probabilmente Paride e Elena (Strocka). Dell’ambiente si conserva la pavimentazione in signino (databile al 100 a.C.), la stessa che prosegue nel corridoio 48: i due ambienti erano originariamente uniti. Ala 32. L’ala 32, la cui decorazione parietale è assai mal conservata, era dotata di un pavimento in signino, risalente al 100 a.C. Un bordo a menandri separava il tappeto centrale dal bordo punteggiato. Il tappeto centrale aveva due strisce di rombi. La decorazione del rombo centrale non è conservata, mentre negli spazi triangolari di risulta erano delle palmette. Tablino 33. L’originario rivestimento in stucchi di I stile fu in un secondo momento sostituito da una nuova decorazione in II stile. Il pavimento dell’ambiente era realizzato a mosaico; al centro era un emblema, già perso nel XIX secolo. Il mosaico venne realizzato tra il 70 e il 60 a.C. Esedra 37. L’ambiente 37, nel corso del tempo, fu ridecorato almeno due volte. Sono presenti: la soglia in I stile; il mosaico in II stile e resti di decorazione parietale in IV stile. Peristilio 36. Le pareti occidentale e orientale erano originariamente decorate con finte lesene di stucco in I stile, che trovano uno strettissimo confronto con quelle del secondo peristilio della Casa del Fauno (Inizio del I secolo a.C.). Triclinio 39. Nel triclinio era un pavimento in signino con soglia a mosaico, databile al primo decennio del I secolo a.C. Le pareti dell’ambiente erano decorate in II stile. Oecus 40. L’ambiente era decorato da un pavimento a mosaico policromo con menandro prospettico intorno al tappeto a rombi assonometrici. Il mosaico è databile al 70-60 a.C., come le decorazioni parietali in II stile, che sono oggi molto sbiadite. Cubicolo 42. In questo ambiente era il famoso mosaico che dà nome alla Casa con il labirinto che riquadra l’emblema con la raffigurazione della lotta tra Teseo e il Minotauro (fig. 24). Le decorazioni parietali in II stile, risalgono, come il mosaico, al 70-60 a.C. Oecus corinzio 43. Le pareti conservano in buono stato la decorazione costituita da vedute architettoniche di II stile tra cui la vista su un cortile di un tempio con tholos. Il pavimento dell’ambiente è rivestito da un mosaico di II stile al centro del quale, in età tiberiana, fu inserito un emblema di III stile (fig. 25, vedi anche figg. 13-14).

Fig. 23. (A sinistra) Casa del Labirinto, cubiculum 29. (Left) House of the Labyrinth, cubicle 29 Fig. 24. (A destra) Casa del Labirinto, cubiculum 42. (Right) House of the Labyrinth, cubicle 42 315


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Fig. 25. (A sinistra) Casa del Labirinto, oecus 43. (Left) House of the Labyrinth, oecus 43. Fig. 26. (A destra) Casa del Labirinto, cubiculum 46 / (Right) House of the Labyrinth, cubicle 46.

Cubicolo 45. Come gli altri ambienti che si aprono sull’ambulacro nord del peristilio, anche questo ha decorazione in II stile. La particolarità dell’ambiente è dovuta al fatto che, non appena terminata la decorazione, la parete est fu attaccata da forte umidità. Si foderò quindi la parete con tegulae mammatae e si procedette con la realizzazione di una nuova decorazione identica a quella appena terminata. Il pavimento aveva un bel mosaico con una colomba che estrae un gioiello da un cesto. Cubicolo 46 e alcova (fig. 26). Questo ambiente fu isolato, al momento della costruzione, dall’umidità con il sistema delle tegolae mammata. Le pareti sono decorate in II stile. Sullo zoccolo è una fila di archi attraverso i quali si intravede un paesaggio acquatico. Oltre alle vedute architettoniche sono rappresentate numerose divinità collegate al sesso e all’amore. Ambienti termali 20-21. L’impianto termale fu realizzato nel corso del penultimo periodo. Si data tra il 20 e il 30 d.C., in base alla cronologia delle decorazioni in III stile. Queste sono oggi piuttosto rovinate, mentre al momento della scoperta risultavano in buono stato, nonostante gli ambienti, dopo il terremoto del 62 d.C., fossero stati ridotti a magazzino del pistrinum. Domus VI, 11, 1 Tablino 5. Sulla parete S si conservano le tracce della decorazione originaria bianca di I stile sulla quale si stese il nuovo intonaco di III stile. Triclino 6. Anche in questo ambiente sono conservate tracce delle due fasi decorative: quella bianca in I stile, e la successiva, con pannelli riquadrati di rosso. La parete O conserva per intero la decorazione originaria. Cubicolo 16. I muri in opera quadrata di calcare erano rivestiti in I stile, con zoccolo giallo e pianetto rosso. Ala 7. L’ambiente era decorato in IV stile. Sulla parete est erano un quadro con paesaggio architettonico e un medaglione rosso su fondo bianco. 316


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Domus VI, 11, 19 Oecus 5. Restano lacerti di decorazione, non del tutto leggibili, sulla parete N. Lo zoccolo era verde; la zona mediana gialla aveva un’edicola centrale con quadro, mal conservato (III-IV stile). Triclinio 7. L’ambiente aveva pavimento in cocciopesto con grandi tessere bianche databile al II secolo a.C. e pareti decorate. In uno dei pannelli centrali erano raffigurate piante (III-IV stile). Cubicolo 9. Anche in questo ambiente sono presenti tracce di decorazione parietale, molto scolorita. Si intravedono zoccolo nero e zona centrale bianca con pannelli riquadrati di giallo e rosso (III-IV stile). 3. I periodi edilizi dell’insula L’analisi stratigrafica delle strutture esistenti ha consentito di individuare sei periodi edilizi. Ognuno di essi è illustrato da due planimetrie: una pianta di periodo e una pianta ricostruttiva. Nelle prime compaiono gli elementi stratigrafici “in fase”, in rosso, con l’indicazione del numero di Unità Stratigrafica, gli elementi riutilizzati, in blu, senza il numero di Unità Stratigrafica e, per conservare l’inquadramento delle strutture all’interno dei limiti dell’isolato, le Unità Stratigrafiche pertinenti ai periodi successivi, in grigio non campite. Nelle seconde, è presente l’ingombro dell’isolato, con i limiti dei lotti, le integrazioni alle strutture solo parzialmente conservate, le aree verdi e le ipotetiche estensioni dei secondi piani. Il matrix dei gruppi di attività, relativi agli impianti delle unità, illustra la sequenza della occupazione dell’isolato; i lotti sono stati numerati seguendo i criteri cronologico e topografico, da nord a sud.. Le cronologie proposte, basate su quelle delle decorazioni più antiche conservate in alcuni ambienti delle unità dell’isolato, rappresentano dei termini ante quem. In base ai rapporti di anteriorità e posteriorità tra le Unità Stratigrafiche databili si è tentato di agganciare alla cronologia assoluta le scansioni cronologiche relative che derivano dall’analisi stratigrafica.

Periodo/Period 6: 62-79 d.C. / AD Periodo/Period 5: tra il 70 a.C. e il 62 d.C. between 70 BC and 62 AD. Periodo/Period 4: 100-89 a.C. / BC. Periodo/Period 3: seconda metà del II sec. a.C. second half of the second century BC. Periodo/Period 2: metà del II sec. a.C. mid second century BC. Periodo/Period 1: II sec. a.C. second century BC.

Matrix dei gruppi di attività. Matrix of action groups. 317


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Quasi tutte le unità risultano edificate, a parte alcune piccole porzioni, nel corso dei primi tre periodi: nell’arco del II secolo a.C. si assiste dunque alla monumentalizzazione dell’isolato. Tra l’inizio del I secolo a.C. e il terremoto del 62 d.C. vengono edificati gli ultimi tre nuclei; tra questi, inoltre, si può forse ipotizzare che uno (il n. 15) sostituisca un complesso (9?), la cui costruzione potrebbe risalire al secondo periodo e di cui non sarebbe rimasta traccia in elevato, se non in un tratto del muro perimetrale orientale (US 843). Creati i periodi e ipotizzate le cronologie, si è potuto verificare, come in gran parte dei casi studiati a Pompei, che la micro-storia dei complessi edilizi privati e pubblici segue la medesima scansione della macro-storia della città vesuviana, a sua volta esito della storia delle conquiste e del potere di Roma. Il grande boom edilizio registrato in tutta Pompei nel corso del II secolo a.C. si manifesta anche nel nostro isolato. Dopo le conquiste di Roma in Campania nel corso del III secolo a.C., centri già attivi (come Capua e Nola) subirono conseguenze e danni molto più gravi dei centri minori, come doveva essere allora Pompei, che poterono approfittare delle situazione per sviluppare vivaci centri commerciali, e che saranno stati oggetto di grandi flussi di immigrati: l’insula VI, 11 tra il II secondo a.C. e l’inizio del secolo successivo risulta ormai quasi completamente monumentalizzata. Una nuova rinascita della città, dopo il periodo di crisi politica tra l’89 e l’80 a.C. coincide con la fondazione della Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum e anche nell’isolato si registrano numerosi rifacimenti e lavori di restauro. L’ultimo periodo edilizio, infine, corrisponde al breve arco di tempo intercorso tra due eventi naturali catastrofici: il terremoto del 62 d.C. e la definitiva distruzione della città a seguito dell’eruzione. 3.1. Periodo 1. La prima occupazione monumentale dell’isolato (II secolo a.C.). Figg. 27, 28 La prima occupazione dell’isolato risale almeno al II secolo a.C. La cronologia si basa su quella del pavimento in cocciopesto con grandi tessere bianche53 del triclinio di una delle unità più antiche. I primi lotti ad essere occupati si dispongono presso il limite settentrionale e al centro dell’isolato, che poteva essere già completamente limitato, se si può far risalire a questo momento l’allestimento delle crepidini in calcare – precedenti rispetto a quelli più tardi realizzati in lava – dei quali due tratti sono ancora visibili, e quindi ancora in uso al momento dell’eruzione del 79 d.C. (US 1641, 1642), lungo il limite occidentale, su vico del Fauno. Allo stato attuale questa ipotesi non può purtroppo essere verificata: sarebbero necessari saggi stratigrafici, non esistendo alcun rapporto fisico tra le crepidini e le strutture interne. Gli edifici vengono realizzati con muri perimetrali in opera quadrata di calcare o a telaio e setti interni in opera a telaio o in opera incerta, prevalentemente di calcare. Il lotto 1, del quale si conservano solo il muro perimetrale nord e pochi setti nell’angolo sud-ovest, poteva essere di forma rettangolare, di poco più di mq 120, allungato in senso est-ovest nella metà occidentale dell’insula. La planimetria ricostruttiva, con due ambienti aperti sulla strada e uno spazio aperto alle spalle dei vani, e le dimensioni ridotte dell’edificio inducono a ipotizzare che si trattasse di una bottega: non esistono infatti elementi per poter ipotizzare la presenza di ambienti ad uso abitativo. L’estensione e la forma originari del lotto sarebbero stati modificati già nel corso del periodo 2. Il lotto 2, immediatamente a sud del precedente, ampio circa mq 275, era caratterizzato dalla presenza di una fila di tre ambienti, due a nord e uno a sud dell’ingresso, alle spalle del quale si apriva una vasta area scoperta, interpretabile forse come hortus. Non è possibile stabilire se in questo periodo fosse dipendente dall’unità confinante a est (3). Successivamente, infatti, il varco tra il triclinio/ala 7 di questa domus e l’hortus fu chiuso, ma poiché il limite tra i due lotti (US 86) è in opera a telaio, non si può esclude che la tamponatura (US 1519) sia da leggere come restauro di uno dei pannelli in opera incerta tra due ortostati in calcare, più che come chiusura di una porta. Lo spazio all’angolo nord-est dell’isolato era invece occupato da una domus (3), di discrete dimensioni (mq 338), soprattutto se confrontate con quelle delle proprietà coeve. La parte settentrionale 53

Sampaolo 1994b, pp. 76-78.

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Fig. 27 (A sinistra) e fig. 28 (A destra) La prima occupazione dell’isolato. (Left and right) the first occupation of the block.

ha un impianto regolare con fauci e cubicola laterali, atrio tuscanico e ali; manca il tablino (si veda § 2.4, unità 10). Oltre la prima fila di ambienti a sud dell’atrio, è ben conservato solo un ambiente, con pavimento originario conservato, ma si intuisco chiaramente i resti, a est, di almeno altri due ambienti. Purtroppo, in questo settore, i danni del terremoto del 62 d.C. furono particolarmente gravi, per cui si rese necessaria la ricostruzione integrale degli ambienti. A sud di questi ambienti sembra se ne affiancassero altri tre, forse aperti su un giardino. Non si può escludere che questa fascia di ambienti, 319


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Fig. 29 (Sinistra) e fig. 30 (destra) La costruzione del nucleo originario della casa del Labirinto. / (Left and right) The building of the original core of the house of Labyrinth.

che verranno acquisiti dal lotto 12 nel corso del periodo successivo, facessero parte di una proprietà diversa, come sarà nell’ultimo periodo, dopo le ristrutturazioni post-terremoto. Dell’ultima unità 4 rimangono solo i limiti ovest, sud e pochissimi setti interni, sufficienti solo per ricostruire un edificio dalle dimensioni analoghe a quelle del lotto 2 (mq 210). All’interno dei tre lotti centrali (5, 6, 7, rispettivamente di mq 159, 217 e 161) furono realizzate tre piccole domus, per le quali è possibile ricostruire una planimetria canonica con atrio testudinato e 320


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quattro ambienti in corrispondenza degli angoli. Nel lotto 5 è ipotizzabile, a sud, la presenza di un piccolo giardino delimitato da quattro pilastri. 3.2. Periodo 2. La costruzione del nucleo originario della Casa del Labirinto e prime modifiche (Metà del II secolo a.C.). Figg. 29, 30 Alla metà del secolo risale la costruzione del nucleo originario della Casa del Labirinto. Si trattava originariamente di una grande domus (più di mq 820) con impianto canonico: fauces, atrio tetrastilo, cubicola aperti verso l’atrio, ali, tablino e oeci. Gli ambienti di rappresentanza (tablino e oeci) erano limitati a nord da muri alti circa m 154, che permettevano una vista scenografica sull’hortus, di notevoli dimensioni (poco più della metà dell’intera proprietà: mq 422). La domus aveva un ingresso principale a sud, sulla via di Mercurio dove si apriva anche un secondo ingresso nell’angolo sud-ovest, successivamente chiuso. A est, sul vico del Labirinto si apriva un ulteriore ingresso che immetteva direttamente nell’hortus e che fu chiuso in occasione della realizzazione del grande peristilio colonnato. La residenza risulta già in questo periodo di notevole entità, sia per le dimensioni che per le decorazioni in I stile di buon livello. Secondo la precedente ricostruzione55, la casa sarebbe stata dotata quasi fin dall’inizio di doppio atrio56, ma l’analisi e la raccolta di tutti gli elementi ha permesso di verificare che i limiti ovest degli ambienti occidentali della casa furono modificati, nel corso del terzo periodo, per la realizzazione di aperture verso il nuovo spazio acquisito e la chiusura dell’accesso secondario e che seguirono numerose altre modifiche che portarono alla radicale trasformazione del complesso. Il muro perimetrale est (US 843) è più lungo del limite orientale del lotto. Ciò indica, probabilmente, che a nord dell’unità 8 era un’altra proprietà (9?), i cui ambienti furono obliterati in occasione dell’ampliamento della domus e della realizzazione del peristilio. È plausibile che l’unità 9, di cui non rimane alcuna altra traccia, si estendesse a nord fino al limite con l’unità 6. A questo periodo sono riconducibili le prime modifiche interne e variazioni di limiti di proprietà delle unità settentrionali e centrali. In particolare nell’angolo NO, con la realizzazione di alcuni setti murari (US 1562, 1577, 1570) l’unità 1 venne ridotta a tre ambienti e lo spazio settentrionale venne acquisito dall’unità 2. Nel resto dell’isolato non si assiste a modifiche di grandi entità. 3.3. Periodo 3. Nuove proprietà e seconde modifiche (Seconda metà del II secolo a.C.). Figg. 31-32 Poco dopo la realizzazione del nucleo principale, la Casa del Labirinto si estese nella metà occidentale dell’insula, che fino a quel momento era rimasta libera, acquisendo mq 537. A ovest delle fauci era un vano piuttosto ampio, che nell’ultimo periodo sarà destinato al deposito degli attrezzi, e a nord di questo altri ambienti. In asse con le fauci e con l’atrio venne realizzato, accanto all’oecus ovest della casa principale, un altro ambiente, a raccordo con gli altri affacciati sull’hortus. La nuova ala occidentale della proprietà poteva essere destinata ad accogliere gli ospiti dell’aristocratico proprietario della residenza principale; in alternativa gli ambienti orientali del complesso della Casa del Labirinto avrebbero potuto costituire il quartiere femminile57. Nella parte settentrionale fu costruita una piccola domus (lotto 10: meno di mq 150), con ingresso dal vico del Labirinto. Il fronte breve occidentale supera la linea mediana dell’isolato e occupa un piccolo spazio che era stato del lotto 4. Sul suo lato lungo settentrionale è un’ampia apertura che dava accesso a un giardino, grande quasi come l’edificio. Sopra questi muri i nel corso del periodo 4 vennero alzati dei setti alti fino al soffitto che crearono grandi finestre: US 17281730. 55 Strocka 1991; Id. 1994. 56 Strocka 1991: nella ricostruzione dello studioso la zona dell’atrio secondario sarebbe stata costruita nella fase b del periodo 2, quindi quasi contemporaneamente al resto dell’edificio. 57 Maiuri 1954. 54

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Fig. 31 (A sinistra) e fig. 32 (A destra) Nuove proprietà e seconde modifiche della casa del Labirinto. (Left and right) New properties and second renovation period of the house of Labyrinth.

3.4. Periodo 4. Nuove proprietà e terze modifiche (Tra il 100 e l’89 a.C.). Figg. 33, 34 L’attività edilizia nell’isolato è particolarmente vivace all’inizio del I secolo a.C. Nell’arco di un trentennio, infatti, si assiste alla quasi completa edificazione dell’insula. L’area scoperta a nord dell’unità 10, fu dotata di un piccolo peristilio circondato da colonne. A questo periodo può risalire l’unione, sotto una unica proprietà, dei lotti 4, 10, 12, compresi i tre ambienti a 322


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Fig. 33 (A sinistra) e fig. 34 (A destra) Nuove proprietà e terze modifiche della casa del Labirinto. (Left and right) New properties and third renovation period of the house of Labyrinth.

nord del nuovo peristilio. A sud di questa grande proprietà, furono edificati altri due lotti che formavano una unica proprietà che attraversava da est a ovest l’isolato. La parte occidentale, con ingresso sul vico del Fauno, era costituita da due piccoli ambienti (con valenza commerciale?) e un grande hortus. Da qui, salendo due gradini, si accedeva agli ambienti della parte orientale della proprietà, che aveva a nord la zona residenziale e a sud quella di servizio. Grandi attività si registrano anche nel settore meridionale dell’isolato. La proprietà aristocratica si ingrandisce ulteriormente, occupando metà dell’intera 323


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Fig. 35 (A sinistra) e fig. 36 (A destra) quarte modifiche della casa del Labirinto. (Left and right) fourth renovation period of the house of Labyrinth.

superficie dell’isolato; numerose modifiche vennero apportate sia nel settore orientale che in quello occidentale. L’accesso all’hortus dal vico del Labirinto fu chiuso e il giardino sostituto da un grande peristilio di 8 x 9 colonne. Queste avevano nucleo laterizio58 e rivestimento di stucco scanalato. Il capitello era dorico. L’altezza delle colonne, alcune delle quali conservate interamente, superava i m 4. Sull’amSono documentate due tipi di tecnica che attestano il rifacimento di alcune colonne tra il 70 e il 60 a.C. A questo periodo risalgono numerosi rifacimenti in diversi settori della casa e dell’isolato. I danni diffusi possono essere stati causati o da eventi sismici o dall’assedio sillano della città. 58

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Fig. 37 (A sinistra) e fig. 38 (A destra) Modifiche e ristrutturazioni della Casa del Labirinto tra il terremoto e l’eruzione. / (Left and right) Modifications and renovations of the House of Labyrinth between the earthquake and the eruption.

bulacro nord vennero realizzati sette ambienti di rappresentanza. Il settore occidentale è trasformato in quartiere servile: furono realizzati una cucina e altri ambienti di servizio e costruita una scala che conduceva al secondo piano che si estendeva in corrispondenza dell’intero settore sud-occidentale. Nell’ambiente a est delle fauci, infine, viene ricavata una cantina sotterranea per la conservazione delle derrate alimentari. A questo periodo risale anche l’acquisizione della piccola domus che occupava il lotto 7, ora ristrutturato e destinato agli alloggi dell’amministratore della proprietà. A questo periodo può farsi risalire, per ragioni stratigrafiche, l’allestimento della crepidine in lava lungo i lati meridionale e orientale dell’isolato. 325


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3.5. Periodo 5. Creazione di ambienti di servizio nel settore centrale dell’isolato e quarte modifiche (Tra il 70 a.C. e il terremoto del 62 d.C.). Figg. 35, 36 Durante questo lungo periodo furono allestiti pochi ambienti di servizio nella parte settentrionale del lotto 16. L’edificio del lotto 14 fu dotato del secondo piano, come dimostra la scala (US 150, 151) incassata nel muro perimetrale est (US 147). Tra il 70 e il 60 a.C. la Casa del Labirinto viene nuovamente decorata (si veda anche § 2.7): gli ambienti che si aprono sull’ambulacro nord del peristilio furono rivestiti con pitture e pavimenti in II stile. È in questo periodo che viene realizzato, nel cubicolo occidentale, il famoso mosaico da cui la casa prende il nome. Il più grande di questi ambienti fu trasformato in oecus corinzio, il più antico del genere a Pompei, con dieci colonne in laterizio rivestite di stucco. Anche l’atrio secondario e alcuni degli ambienti occidentali furono decorati in II stile. A distanza di un cinquantennio dalle grandi modifiche del settore meridionale della proprietà, alle spalle della cucina nel quartiere di servizio, fu allestito un bagno con apodyterium, frigidarium e calidarium, anche questi riccamente decorati, ma in III stile. In questo periodo, o forse nel successivo, furono eretti due setti murari (US 1584, 1497) che chiudono a nord il vico del Labirinto e il vico del Fauno59. 3.6. Periodo 6. Modifiche e ristrutturazioni tra il terremoto e l’eruzione (62-79 d.C.). Figg. 37-39, vedi anche § 2.4. Al breve periodo che intercorre tra il violento terremoto del 62 d.C. e l’eruzione del 79 d.C. sono da attribuire i numerosi restauri e consolidamenti in laterizio e vittato documentati su tutta la superficie dell’insula. I maggiori danni sono registrati presso gli angoli sud-occidentale, sud-orientale e nord-orientale. Contemporaneamente furono realizzati il secondo piano nel lotto 2 e gli allestimenti di piccoli ambienti con funzioni di servizio nella parte meridionale del lotto 16, ora suddiviso in due proprietà distinte, e nell’ultimo spazio rimasto libero tra il lotto 6 e gli ambienti residenziali nord della Casa del Labirinto. Qui, subito a sud di quella che era stata la casa dell’amministratore, fu impiantato un pistrinum, nello spazio libero che era davanti alle terme, con pavimento rustico in basoli di lava, forno e quattro macine. Nella stessa occasione venne chiuso l’accesso dal vico del Fauno a questo settore della proprietà.

Fig. 39. Casa del Labirinto, 79 d.C. Pianta e sezioni ricostruttive. House of  the Labyrinth, 79 AD. Reconstructive plan and sections. 59

Il setto US 1497 copre il marciapiede est US 1444.

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Appendice 1. La gestione di un area archeologica complessa e pluristratificata: il caso di Pompei I) Impostazione del progetto, valutazione dello “stato dell’arte” e programmazione delle attività da intraprendere per una conoscenza sistematica 1. Conoscenza e conservazione Nell’area della città in cui la coltre di sedimento vulcanico è stata rimossa - escluse le due piazze principali (Foro Civile e Foro Triangolare), le tre terme pubbliche, la grande palestra di età augustea e l’anfiteatro - sono stati riportati alla luce 69 isolati (insulae) e 11 parti consistenti di isolati non interamente scoperti, per un totale di 80 insiemi edilizi. Di questi insiemi edilizi, circa dieci (8) fino ad oggi sono stati oggetto di una lettura analitica e diacronica il cui risultato è stato pubblicato. Si tratta di strutture esposte agli agenti atmosferici, ad un degrado potenzialmente rapido e, in ogni caso, irreversibile. In alcuni casi il rischio di distruzione a lungo, medio o breve termine è alto. Considerata l’estensione della superficie urbana da preservare, risulta difficile progettare forme di tutela integrale materiale del sito. Diversamente, sulla base delle ricerche più sistematiche condotte a Pompei negli ultimi quindici anni, è possibile prevedere tempi assai più rapidi per una efficace tutela conoscitiva (vedi oltre paragrafo 3). Le analisi degli insiemi edilizi dovrebbero essere necessariamente seguiti dall’edizione della ricerca, cartacea e/o on-line, corredata di linee guida per il restauro o di una valutazione dello stato del rischio e della conservazione dell’insieme stesso. 2. Coinvolgimento di Enti di Ricerca Per la progettazione, programmazione e realizzazione di un intervento di tutela conoscitiva esteso su scala urbana ovvero all’area compresa entro le mura, la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei potrebbe coinvolgere gli Enti Pubblici di Ricerca, in particolare le Università. 3. Valutazione dei tempi La valutazione dei tempi e dei costi necessari ad un intervento di tutela conoscitiva su scala urbana a Pompei si basa sul numero e sull’estensione delle insulae, sulle attività da realizzare, sul personale necessario. Le 80 insulae di Pompei sono distribuite nelle seguenti classi dimensionali classe / class A

sottoclasse / subclass B1 B2

B C

estensione / extension (mq.) oltre / over 6000 5000-6000 3000-4000 inferiore a / less than 3000

tot. 4 12 20 44 80

Sulla base della produttività media rilevata nelle ricerche condotte fino ad oggi su intere insulae da parte di equipes composte da due archeologici esperti di rilievo o da un archeologo coadiuvato da un rilevatore, si possono stabilire le seguenti relazioni tra classi di insulae, fasi del lavoro e tempi di realizzazione espressi in mesi (20 giorni lavorativi) per singola equipe. insulae

classe class

sottoclasse subclass

Studio preliminare; analisi documentazione edita e inedita Preliminary study; study of published and unpublished documents

Fasi del lavoro e durata delle attività in mesi/equipe work stages and duration of work (team months) Ricostruzione Analisi e redazione delle fasi della documentazione edilizie e in formato dello sviluppo magne­tico-digitale Rilievo dell’insula Studying the Survey Reconstruction documentation of building phases and of and transferring it the history of to electronic media the insula

Report finale ed edizione Final report and publication

Tot.

./.. 327


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches A B

1

2

5

4

3

B1

1

1

4

3

3

B2

1

1

4

3

3

1

1

3

3

2

C

15 12 10

Dai dati precedenti deriva la seguente proiezione finale: classe class

tot.

periodo previsto per analisi e edizione di un’insula estimated time for the study and publication of an insula

periodo previsto per analisi e edizione della classe estimated time for the study and publication of an insula

A

4

15 mesi/equipe - team months

60 mesi/equipe - team months

B

32

12 mesi/equipe - team months

384 mesi/equipe - team months

C

38

10 mesi/equipe - team months

380 mesi/equipe - team months 824 mesi/equipe - team months ovvero circa 70 anni/equipe - or 70 team years

Se almeno dieci Università accettassero di collaborare al progetto, dati i tempi medi di realizzazione dell’edizione di un’ínsula, in circa dieci anni (70 anni previsti o 80 insiemi edilizi in totale diviso dieci Università attive contemporaneamente sul sito) sarebbe possibile pubblicare tutte le insulae di Pompei. Considerato che potrebbero essere coinvolti nel progetto anche altre Università italiane e Istituti Stranieri si potrebbe avviare contemporaneamente l’analisi di un numero maggiore di insulae. Ipotizzando un numero massimo di 15 gruppi di ricerca, il tempo necessario a completare il progetto scenderebbe a cinque-sei anni. I costi non subirebbero variazioni. 4. Una metodologia comune Un intervento così sistematico ed esteso necessita di una metodologia unitaria e condivisa. Le migliori esperienze di analisi archeologica di ampie porzioni di abitati, pluristratificati e complessi, sviluppate a Roma, in altri centri dell’Italia antica e nello studio delle insulae pompeiane, offrono un valido supporto per individuare una linea di intervento comune. Una proposta per l’applicazione di tale metodologia allo studio di un insula è stata già messa a punto, pubblicata (Archeologia Classica XLVIII, 1996, pp. 321-327) ed utilizzata nell’edizione di alcune ricerche. Elementi imprescindibili di tale impostazione sono: lettura stratigrafica delle strutture; redazione di schede adottate dall’ICCD e diagramma stratigrafico per ordinare nel tempo lo sviluppo architettonico dell’insieme edilizio; alto standard qualitativo e tecnologico e redazione informatizzata della documentazione; redazione di proposte interpretative e ricostruttive, inclusa ipotesi di ricontestualizzazione di eventuali resti conservati dell’arredo e della decorazione originaria; rilievi tridimensionali a nuvole di punti. II) Portale delle aree archeologiche italiane. Pompei 1. Premessa: “Luoghi della Cultura” Nel sito internet del Ministero per i Beni e le Attività Culturali è attiva la sezione “Luoghi della Cultura”. Qui si trovano le informazioni di base e gli indirizzi di musei, monumenti, aree archeologiche, archi328


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vi, biblioteche e teatri, aggiornate dalle strutture territoriali periferiche del Ministero. Anche il Commissario delegato per le Aree Archeologiche di Roma e Ostia Antica ha dedicato una sezione del proprio sito web alla comunicazione verso un vasto pubblico e all’accesso al Sistema Informativo Territoriale Archeologico di Roma. Questi servizi possono essere ulteriormente sviluppati collegando ai “Luoghi della Cultura” un portale dedicato alle aree archeologiche italiane. 2. Il portale delle aree archeologiche italiane e i siti web ad esso collegati Il portale costituirà l’accesso ad una serie di siti web, ciascuno dedicato ad un’area archeologica aperta al pubblico. Ogni sito dovrà essere articolato nelle sezioni seguenti. a) Informazioni generali. – In questa sezione saranno pubblicate tutte le informazioni necessarie a raggiungere il sito e a organizzare una visita (orari, festività, prezzi, eventuali offerte didattiche, itinerari dedicati, ecc.) b) Museo virtuale dell’area archeologica. – Il nucleo principale del sito web dovrà essere dedicato alla ricostruzione della storia dell’insediamento antico. Il paesaggio urbano e le architetture principali e/o meglio conservate dovranno essere illustrati e spiegati al grande pubblico in un itinerario conoscitivo virtuale in tutto analogo ad un percorso narrativo museale. Questa sezione del sito potrà essere sviluppata utilizzando le più aggiornate tecnologie sviluppate dalle applicazioni Internet dei Sistemi Informativi (“web G.I.S.”). In questa sezione del sito potranno essere pubblicati materiali informativi di diverso genere (di carattere divulgativo o scientifico) scaricabili gratuitamente o a pagamento. c) Servizi per i visitatori. – Grazie alle informazioni e ai servizi offerti in questa sezione il visitatore potrà prenotare la visita, acquistare i biglietti, richiedere servizi di guide o itinerari particolari, prenotare pasti presso le strutture dedicate alla ristorazione eventualmente presenti nell’area archeologica. Con specifici accordi stipulati tra i gestori del servizio web e le società impegnate nell’offerta dei servizi aggiuntivi, in questa sezione del sito si potranno anche acquistare tutti gli oggetti in vendita nei bookshops o museumshops attivi nell’area archeologica. d) Servizi per ricercatori e studiosi. – Una sezione del sito dovrebbe essere dedicata alla relazione tra Amministrazione e comunità scientifica nazionale e internazionale. Qui si potrà: trovare informazioni riguardo gli archivi disponibili con il relativo indice, richiedere materiale scientifico (foto, planimetrie, riproduzioni digitali di documenti d’archivio, ecc.), dialogare con i funzionari competenti. Infine, da questa sezione del sito si potrebbe ottenere, con i dovuti controlli, l’accesso alla sezione del Sistema Informativo del Patrimonio Archeologico Nazionale dedicata all’area archeologica e al territorio di sua pertinenza. Tutte le sezioni dovrebbero essere tradotte nelle principali lingue europee e almeno una o due lingue asiatiche (giapponese e cinese). III) Ulteriori prospettive future Infine, i contenuti del sistema informatizzato per la conoscenza di Pompei potrebbero essere opportunamente elaborati e modificati per: 1. Creare un modello di attività con applicazioni pratiche, atto a formare un prototipo di intervento per un parco archeologico complesso e pluristratificato. 2. Progettare, sperimentare e collaudare tecnologie innovative per la tutela e gestione dei Beni Culturali e per interventi archeologici, che consentirebbero di sviluppare e brevettare nuovi prodotti e di specializzare manodopera e imprese del settore. In particolare potrebbero essere individuate: § soluzioni innovative relative all’utilizzo di materiali e a soluzioni tecniche per interventi specifici su pavimenti, coperture, strutture di vario genere, aree verdi e arredi; 329


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§ attività specifiche di monitoraggio del degrado dei complessi monumentali al fine di ottenere una costante valutazione del rischio a cui le strutture e gli apparati decorativi sono sottoposti. § protocolli di diagnostica e monitoraggio del degrado delle strutture e delle differenti tipologie decorative, con particolare attenzione per gli affreschi e alla sperimentazione di nuovi materiali per il restauro delle pitture parietali; § software per la gestione di banche-dati complesse di tipo archeologico, che prevedano l’interfaccia tra tracciati alfa­numerici, grafici e cartografici; § nuove tecnologie per le analisi di tipo archeometrico dei contesti archeologici (paleobotanica, diffrattometrie, spettrometrie, etc.). 3. Promuovere una più diffusa fruizione delle aree interne ai parchi archeologici complessi. 4. Realizzare una serie di prodotti di carattere scientifico e commerciale. 5. Sviluppare nuove formule di comunicazione per la diffusione dei dati, in forma multimediale e tramite la creazione di un sito Internet. 6. Organizzare corsi di formazione e aggiornamento professionale, aperti a tutti gli operatori coinvolti nel progetto o afferenti agli enti, pubblici e privati, attivi nel settore dei Beni Culturali. Di primaria importanza sarebbe la costituzione di un centro di eccellenza per lo scavo, l’analisi stratigrafica, il restauro e la fruizione di parchi archeologici complessi e pluristratificati. 7. Proporre dei parametri per una valutazione preventiva dei costi da sostenere per l’intervento su singole insulae e su tutta Pompei.

Bibliografia (le abbreviazioni bibliografiche relative a riviste e periodici sono tratte dall’Année Philologique.) Aa.vv., (1977) L’instrumentum domesticum di Ercolano e Pompei nella prima età imperiale, Quaderni di cultura materiale, 1, Roma Amoroso A., (2007), L’insula VII, 10 di Pompei. Analisi stratigrafica e proposte di ricostruzione, Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei, 22, Roma Annecchino M., (1977) Suppellettile fittile da cucina di Pompei, in AA.VV., (1977), pp. 105-120 Avellino F. M., (1841) Annali Civili delle Due Sicilie, XXVII, LIII Avellino F. M., (1843) Boll. Arch. Napol., I Bechi G., (1835) Relazione scavi, in MB 11 Bechi G., (1839) Relazione scavi, in MB 12 Beyen H.G. (1938-60) Die Pompejanisch Wanddekoration vom 2. bis 4. Stil, I, II, Denhaag Bragantini I., (1981) Tra il III e IV stile: ipotesi per l’identificazione di una fase della pittura pompeiana, in Aa.Vv., Pompei 1748-1980. I tempi della documentazione, Roma, pp. 106-118. Bragantini I., (1997) VII, 10, 3.14, Casa della Caccia nuova, in PPM VII, pp. 386-422 Busana, M.S., (2003) Gli ambienti produttivi, in P. Basso, F. Ghedini (a cura di), Subterraneae domus. Ambienti residenziali e di servizio nell’edilizia privata romana, Caselle di Sommacampagna, pp. 493-517 Carafa P., (1997) What was Pompeii before 200 BC? Excavations in the House of Joseph II, in the Triangular Forum and in the House of the Wedding of Hercules, in S.E. Bon, R. Jones (a cura di), Sequence and space in Pompeii, Oxford, pp. 13-31 Carafa P., (1999) Cercando la storia dei monumenti di Pompei. Le ricerche dell’Università di Roma “La Sapienza” nelle Regioni VII e VIII, in F. Senatore (a c. di), Pompei, il Vesuvio e la Penisola Sorrentina. Atti del Secondo ciclo di conferenze di geologia, storia e archeologia. Pompei, ottobre 1997-febbraio 1998, Roma, pp. 17-43 Carafa P., (2000) Le domus della Sacra Via e l’origine della casa italica ad atrio, in Carandini, Carafa, (2000) pp. 266-274 Carafa P., (2002) The investigations of the University of Rome “La Sapienza” in Regions VII and VIII: the ancient history of Pompeii, in AA. VV., Pompeian Brothels, Pompeii’s Ancinet History, Mirrors and Mysteries, Art and Nature at Oplontis e the Herculaneum Basilica, in JRA, supplementary series 47, pp. 47-61 330


M.C. Capanna, F. Cavallero, S.G. Malatesta Analisi ed edizione di un’insula a Pompei

Carafa P., (2005) Pubblicando la Casa di Giuseppe II (VIII 2, 38-39) e il Foro Triangolare, in Pompei, pp. 19-35 Carafa P., Carandini, A., (2000) Un sistema informatizzato per la gestione e l’analisi della documentazione dello scavo archeologico, in A. Carandini, Storie dalla terra. Manuale di scavo archeologico, Torino, pp. 293-297 Carafa P., D’Alessio M.T., (1995-1996) Lo scavo della Casa di Giuseppe II (VIII, 2, 38-39) e nel portico occidentale del Foro Triangolare a Pompei. Rapporto preliminare, in RSP VII, pp. 137-153 Carandini A., (1991) Storie dalla terra. Manuale di scavo archeologico, Torino Carandini A., et al., (1996) A. Carandini, P. Carafa, D. Manacorda, C. Panella, C. Pavolini, E. Papi, Per lo studio delle insulae di Pompei, in Arch. Class. XLVIII, pp. 321-327 Carandini A., et al., (2001) A. Carandini, P. Carafa, M. T. D’Alessio, Nuovi progetti, nuove domande, nuovi metodi, in Pompei, pp. 127-129; 209-210 Coarelli F., Pesando F. et al., (2006) F. Coarelli, F. Pesando, I. Rossi, M. Zampetti, C. Benedetti, D. Cannavina, F. Freda, A. Grassi, R. Tilotta, E. Tommasino, R. Cassetta, C. Costantino, B. Ruggiero, G. Spadafora, Rileggere Pompei. I. L’insula 10 della Regio VI, Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei, 12, Roma CTP Corpus Topograficum Pompeianum D’Alessio M.T., (1998) La nascita della casa ad atrio in un centro italico medio tirrenico: il caso di Pompei, in M. Tosi e M. Pearce (a c. di), Papers from the EAA Third Annual Meeting at Ravenna 1997, British Archaeological Reports, International Series 718, pp. 81-85 D’Alessio M.T., (1999) Il “santuario” del tempio dorico a Pompei alla luce dei nuovi rinvenimenti, in F. Senatore (a c. di), Pompei, il Vesuvio e la Penisola Sorrentina, Atti del secondo Ciclo di conferenze di geologia, storia e archeologia. Pompei, ottobre 1997-1998, Roma, pp. 34-39 Fiorelli G., (1873) Gli scavi di Pompei dal 1861 al 1872: relazione al Ministro della Istruzione pubblica, Napoli García y García L., (2006) Danni di guerra a Pompei. Una dolorosa vicenda quasi dimenticata, Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei, 15, Roma Hanoune R., De Vos M. e A., (1985) Gli acquarelli pompeiani di F. Boulanger, in MEFRA 97, pp. 841 e ss. Laidlaw A., (1985) The First Style in Pompeii: Painting and Architecture, Rome Maiuri A., (1954) Gineceo e “Hospitium” nelle case pompeiane, in Mem. Acc. Linc., 8, 5, pp. 449-467 Mau A., (1882) Geschichte der decorativen Wandmalerei in Pompeji, Berlin MB Real Museo Borbonico PAH G. Fiorelli, Pompeianarum Antiquitatum Historia, I-III, Napoli Parise Badoni F., Ruggeri Giove M., (1984) Norme per la redazione della scheda del saggio stratigrafico, Roma Pernice E., (1938) Die hellenistische Kunst in Pompeij, VI. Pavimente und figürliche Mosaiken, Berlin, p. 114 Pompei P.G., (2001) (a c. di), Pompei. Scienza e società. 250° Anniversario degli Scavi di Pompei. Convegno Internazionale, Napoli 25-27 novembre 1998, Milano Pompei, (2005) P. G. Guzzo, M. P. Guidobaldi (a c. di), Nuove ricerche archeologiche a Pompei ed Ercolano. Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei, 10. Atti del Convegno Internazionale, Roma 28-30 novembre 2002, Napoli PPM, (1990-1999) I. Baldassarre, V. Cappelletti, O. Ferrari, F. Parise Badoni, M. L. Polichetti, G. Pugliese Carratelli (a c. di), Pompei. Pitture e mosaici, voll. I-IX PPM, (1995) I. Baldassarre, V. Cappelletti, O. Ferrari, F. Parise Badoni, M. L. Polichetti, G. Pugliese Carratelli (a c. di), Pompei. Pitture e mosaici. La documentazione nell’opera dei disegnatori e pittori dei secoli XVIII e XIX, Roma PPP I. Bragantini, M. de Vos, F. Parise Badoni, V. Sampaolo (a c. di), Pitture e pavimenti di Pompei. Repertorio delle fotografie del Gabinetto Fotografico Nazionale, ICCD, Roma Schefold K., (1957) Die Wände Pompejis. Topographisches Verzeichnis der Bildmotive, Berlin Sampaolo V., (1994a) Regio VI 11, 12, in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, pp. 71-75 Sampaolo V., (1994b) Regio VI 11, 19, in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, pp. 76-79 Schoonhover A.V., (1999) Residences for the rich? Some observations on the alleged residential and elitist character of the Regio VI of Pompeii, in Babesch 74, pp. 219-246 Schoonhover A.V., (2006) Metrology and Meaning in Pompeii. Te Urban Arrangement of Regio VI, Studi della Soprintendenza Archeologica di Pompei, 20, Roma, pp. 77-160 Strocka V.M., (1991) Casa del Labirinto (VI, 11, 8-10), Häuser in Pompeji 4, München Strocka V.M., (1994) Regio VI 11, 8-10, Casa del Labirinto, in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, pp. 1-70 Strocka V.M., (1996) s.v. «Pompeiani stili», in EAA, IV, Suppl. II, Roma, pp. 414-425 Vuat F., (2000) La casa I, 11, 5-8 e le sue fasi edilizie, in RSP XI, pp. 133-151 Wallace-Hadrill A., (1994) Houses and Society in Pompeii and Herculaneum, Princeton 331


Study and publication of aN INSULA in Pompeii Regio VI, insula 11 Maria Cristina Capanna, Fabio Cavallero, Saverio G. Malatesta

Foreword In-depth knowledge of archaeological contexts aimed at scientific reconstruction allows scholars to plan communication with the public and the conservation of cultural heritage. In the case of Pompeii, the most desirable approach is one based, not on classes of artifacts or individual architectural units, but on building units. We conducted the case study presented here on the basis of experience acquired by participating in a large-scale project to study the ancient city of Pompeii undertaken in 1994 under the direction of Professors Andrea Carandini and Paolo Carafa of the “La Sapienza” University in Rome, in collaboration with the Archaeological Superintendency of Pompeii. As part of this project, stratigraphic digs were carried out all the way down to the virgin soil over the whole of the excavated surface in two inner sectors of Regio VIII, namely, the House of Giuseppe II or House of Fuscus (VIII, 2, 38-39)1 and the Triangular Forum (9 trials).2 Another investigated sector of the city was the strip extending from the east end of the Forum to the west side of the Stabian Baths, corresponding to insulae 9, 10 and 11 of Regio VII. Insula 9 comprises two domus: the House of the Wedding of Hercules (VII, 9, 47), which lies immediately east of the Temple of the Public Lares and takes up more than half of the insula,3 and the House of the Fisherwoman (VII, 9, 63). The insula, which is almost entirely excavated,4 also includes some tabernae along its north and east limits. In insulae 105 and 11 in the same regio, we carried out a stratigraphic analysis of above-the-ground structures, floors and wall facings, as well as a stratigraphic excavation of taberna VII, 11, 16-17, whose entrance is on the Vicolo del Lupanare (Fig. 1). Finally, we catalogued all the Doric capitals in Pompeii and drew up a typology of these architectural elements. 1. Research method and organization 1.1. Stratigraphic analysis. (M.C.Capanna) To analyze insula VI, 11, we used the method proposed by A. Carandini.6 This method is based on the identification of the smallest possible units detectable by archaeological investigation, that is, each distinct action that determined the construction or destruction of individual building structures and decorations. We catalogued all the floors and wall plaster and decorations, and all renovations and restorations—including modern ones—as individual actions (Stratigraphic Units); we did the same for Carafa, D’Alessio1995-1996, pp. 137-140; Carafa 1997, pp. 15-20; Carafa 1999, pp. 20-23. Carafa, D’Alessio 1995-1996, pp. 137-138; Carafa 1997, pp. 20-21; Carafa 1999, pp. 23-24; D’Alessio 1999; Carandini et alii 2001. 3 Carafa 1997, pp. 21-24; D’Alessio 1998; Carafa 1999, pp. 25-33; Carandini et alii 2001; Carafa 2005. 4 We are currently working on the documentation and the pottery in view of the publication of the data. 5 Amoroso 2007. 6 Carandini et alii 1996. F. Coarelli and F. Pesando’s recent study of insula VI, 10 (Coarelli, Pesando et alii 2006) uses a stratigraphic approach, but it is centered on “wall units”, which are functional units, not stratigraphic ones, since walls are not a unit, but the sum of various Stratigraphic Units from different periods. 1 2

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the walls and small inner structures.7 We did not perform a stylistic and iconographic analysis of the decorations, because this had already been done in earlier studies.8 We mapped all masonry types and floors over the whole insula (Fig. 2). We prepared for our field work by systematically going through the publications and excavation journals kept in the archive of the Superintendency, to the purpose of cataloguing and positioning the movable finds found in the insula and distinguish modern elements—the restorations conducted by the Superintendency itself—from ancient ones. Investigations carried out in other sectors in the city9 have highlighted certain aspects that we also observed in our study of this insula. Today it has become clear that different building materials and different masonry types could be used in the same period; that masonry types regarded as especially ancient, such as opus quadratum, can coexist with others regarded as more recent; that the relationships between vertical elements (above-the-ground structures) and horizontal ones (floors) are essential for an understanding of stratigraphic sequences; that stratigraphic relationships between above-theground structures cannot always be clearly discerned when ancient wall plaster conceals the point of contact;10 that it is not infrequent for a wall to comprise several stratigraphic units, bearing witness to modifications done in ancient times; that stratigraphic relationships between walls should also be verified at the foundation level, since stratigraphic excavations have sometimes shown structures that seemed to have been made at different times to be actually coeval, as their respective foundations were joined, and hence built at the same time. Once each Stratigraphic Unit had been distinguished and documented,11 we drew up matrixes of the Stratigraphic Units of walls, floors and wall plaster, both positive and negative, on the basis of the physical relationships between them, which allowed us to determine their relative chronological sequence. We then interpreted the matrixes. We grouped the Stratigraphic Units into “actions” (for example, the walls of a room); we then grouped the actions into groups of actions (for example, the coeval construction of several rooms in a single property).12 These groups of actions in their turn constitute building periods (the construction of one or more buildings in the insula). Our data is synthesized in a stratigraphic diagram (matrix) of Groups of Actions (see § 3)—composed of Stratigraphic Units ascribable to the construction of each property and its first decoration—and a schematic sequence of images illustrating the gradual growth of the insula (see Figs. 27-38).We also propose an absolute chronology based on the dating of the earliest documented wall or floor decorations. The last changes and restorations of the walls, mostly in opus latericium and opus vittatum, we date to the years between 62 AD, the year of the devastating earthquake that struck the Vesuvian city,13 and 79 AD, the year of the eruption that buried Pompeii.14

We documented the building complex using the Stratigraphic Unit forms adopted by the ICCD of the Ministry of Cultural Heritage and Activities (Parise-Badoni, Ruggeri-Giove 1984). We documented modern Stratigraphic Units (wall and wall plaster repairs) using the same criteria employed for ancient ones. 8 Strocka 1991; Id. 1994; Sampaolo 1994a; Id. 1994b with previous literature. 9 See also our Premise, with Fig. 1. 10 Other elements that often conceal Wall and Wall Facing Stratigraphic Units are modern applications of plaster or modern restored wall sections, which are often necessary for conservation purposes, but hinder the interpretation of stratigraphic relationships. Finally, in small peripheral sectors of the insula we were unable to interpret stratigraphic sequences because the walls were covered with thick vegetation. 11 On the description of Stratigraphic Units, see the following paragraphs. 12 Carandini 1991, pp. 135-153. 13 All the investigated areas in the city showed evident signs of the destructions caused by the earthquake of 62 AD. The buildings were restored using the most commonly employed masonry type of the early Empire. Renovations and changes of use of rooms are also attested for this period; notably, there is a trend to set up productive activities inside domus. 14 The chronology we propose is based on the principle of stratigraphic succession, applied to every single element of the insula, but only stratigraphic excavations can confirm it by dating wall foundations and the levels they cut into through the dates of the materials found in them. 7

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1.2. Regio VI, insula 11. From the survey to web publication. (F. Cavallero) Our overall and direct study of insula 11 of Regio VI revealed inconsistencies and measuring errors in the earlier documentation. The published plans turned out to be inaccurate in several details and at different scale factors. Furthermore, they were only available on paper. Scanning them and computer processing the scanned images would have inevitably increased the error margin, respectively as a result of optical distortion and human inaccuracy. We therefore decided to conduct a new indirect survey meeting current standards for cartographic accuracy, and allowing us to create plans, sections, prospects and orthophotographs shedding light on the stages of the insula’s history. We also took care to rapidly publish our data. We wanted to make our data immediately available both to the scientific community, to allow them to study them further or critique our reconstruction, and to the non-specialist public, offering 3D reconstructions for virtual visits from home, or on site through mobile devices. Too often the only people who can access the results of a field investigation are those who conducted it. We should also add that by publishing our data online we have granted public access to heritage that is largely off limits to the general public due to security reasons or lack of personnel. Our pilot project focused on one of the domus of insula VI, the House of the Labyrinth. We chose it because it is especially large (about 2000 sq m), and because of the challenges it posed to laser scanning—having to connect several rooms one with the other, hard to access points, and hidden corners. Our post-survey data capture and processing work (including the creation of the internet site where we uploaded our data) lasted a total of about two weeks.15 Here we would like to illustrate the methods we followed in our survey, to create our GIS, and to publish our data on the web. All the data, the surveys and the graphic reconstructions are available for consultation at www. arkeo3d.altervista.org/progetti/pompei. 1.2.1. Topographical survey Before beginning laser scanning, we established an absolute reference system (UTM-WGS84) that could be converted into one or more local reference systems (Gauss-Boaga, east zone). We then picked four orientation points, equally distributed within the insula. To do this we used Leica-Viva GS15 GPS equipment. We surveyed the four GPS points we (called Pompeii 1-4, see Fig. 3) in the static mode. The resulting WGS84 coordinates are detailed in Fig. 3 (as projections onto the Cartesian plane). The error tolerance was less than m 0.01 We subsequently projected the coordinates of our four points onto the Google Earth platform to make them immediately visible on the Web in their correct position. We followed this first topographic positioning with a second one comprising two different stages: a) establishing a polygonal topographic line along the outer perimeter of the insula; b) establishing a polygonal topographic line on the interior of the insula; We performed both of these operations employing a Stonex Total Station with an accuracy of 1” (mgon 0.3). The first polygonal line was needed for georeferencing and the laser scans. It followed the outer limits of the building. We closed the last surveyed point on the first. This allowed us to compensate the polygonal line by spreading out any errors due to inaccuracy of the operator among all the survey points. The second polygonal line provided useful internal controls for our survey of the building. To each of these points we assigned absolute coordinates calculated by anchoring them to the previously surveyed GPS mainstays. Having calculated the resulting topographic polygonal lines, we conducted a new survey of the whole insula. We used a “wireframe” approach, that is, we mapped all the points of each wall that define 15

Employing two people for the field investigations and the processing of the collected data.

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its shape. The result was the plan on Fig. 5. We subsequently established some targets to georeference the dot cloud. These targets helped to connect the laser scanners with the topographical equipment. We positioned the points of the polygonal lines using the Total Station. 1.2.2. Recording and processing of dot clouds We used a Leica HDS 7000 Laser Scanner to record dot clouds mapped with X, Y, Z spatial coordinates with reflectancy coefficients and RGB values. All scans were done with a 3.1 mm beam at a 10-meter distance, with a scanning speed of 1,000,000 points per second (see Fig. 9). We performed 55 three-dimensional laser scans covering the whole domus. We used the following modes: a) External ground scans with HDS 7000 and a high-res digital camera to generate the dot clouds with RGB values. b) Internal ground scans; c) Internal scans of open spaces employing the HDS 7000 and a high-res camera; d) Internal scans of rooms employing the HDS 7000 and a high-res camera; Having executed all the scans, we imported the dot clouds into the Leica Cyclone software to join them into a single dot cloud, and thereby generate an overall plan and orthophotographs usable to analyze the wall Stratigraphic Units. To align and connect the scans, we superimposed surfaces by identifying common points in different scans (see Fig. 7). None of these superimposition exceeded an average error margin of m 0.005. Once we had defined the dot clouds in space, we texturized them to restore the RGB values of each dot. We did this by superimposing the photographs taken during the surveying of the dot clouds. We thus produced a color image (Fig. 8). This was the same method we used to align different dot clouds. We matched points identified in the photographs with points recognized in the scans. The average error was 0.60 pixels. Having processed the scans as detailed above, we were able to generate georeferenced orthophotographs of the plans and walls (Figs. 9-10). (Orthophotographs are the result of a projective transformation of a photograph to correct the deformations produced in the shooting phase and those depending on the equipment used.) We thus realigned the image with a central and frontal view at a constant scale, exactly as is done in orthographic rendering. The images thus processed allowed us to distinguish individual Stratigraphic Units in walls. To do this we used the various scans and shots to create an infinite plane, perpendicular to the surface to be analyzed, generating some .tiff files accompanied by a .tfw reference file. The latter contains the values for the scale, rotation and position in space of the image. We then imported the vectorial data into a CAD platform and associated with the corresponding Wall Stratigraphic Units within a GIS. 1.2.3. Processing of navigable spherical photographs To allow free circulation within the domus, we decided to take spherical photographs of each room to allow virtual visits of the complex (Fig. 11). We then incorporated them into the interactive plan, which we made navigable and freely accessible from the Web. To produce the spherical photographs, we took series of 8 or 16 photographs16 with a D9000 high-res Nikon camera on a tripod, using a wideangle lens. We used 0° inclination (on the Z axis) for series of 8 photographs, and +30° and -25° angles for series of 16. The choice to use one or the other method depended on the extension and height of rooms. We took less shots in not very high rooms. We took the pictures around a 360° circumference, and hence turned the camera around in 45°-degree increments. We then processed all the spherical photographs to allow them to be included in our web interface. All the photographs were taken from the same position where the laser scanner was placed. This allowed us to also use the photographs to color the dot clouds (see above). 16

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1.2.4. Creation of the GIS and data entry We used the total station to conduct a “wireframe� survey of the whole insula. We entered the data into an archaeological database that also included a catalogue of the laser-scanned walls. We used an Autodesk Autocad Map 3D platform to create our GIS. We imported the processed plan of the insula into this platform, and gave the layers identifying the Stratigraphic Units unique and sequential numbers. We also positioned all the objects found in the insula. Concomitantly, we built a database containing a description of all the stratigraphic units, simplified versions of Wall Stratigraphic Unit descriptions, and descriptions of all the artifacts found in the insula, whether positioned or not. We subsequently joined the alphanumeric tables with those containing geo-spatial data, with the name layer as the shared field for the graphical part, the SU (Stratigraphic Unit) code for the alphanumeric part. The result is a searchable system that provides requested graphical presentations by alphanumerical and geo-spatial exclusions and/or associations. 1.2.5. Publication of the data on the Web Since the material we gathered is a valuable source of information for many scholars and very interesting for the large public of Pompeii enthusiasts, we decided to publish all our data and processing thereof on a website.17 We opted to use an open-source software to build the site. Our choice fell on Content Management System Joomla! 2.5, a software that, thanks to its large user community, offers wide scope for customization and adaptation by the rewriting of parts of its PHP code. Our primary intention was to make the site as accessible as possible by coming up with a simple, user-friendly interface, that would at the same time have an elegant and professional look. Essential menus facilitate the presentation of our ideas and of the project, and offer users the easiest possible access to content. An equally important consideration was receiving feedback from both scholars and non-specialists. We therefore created a contact form where visitors can point out mistakes in, or different interpretations of, the data provided on the site, as well as offer criticism and advice. 1.2.5.1. The reasons for our decision to publish our data on the Web and make it freely accessible. (S.G. Malatesta) Today Internet is an indispensable medium for the communication of information and a means to knock down logistic and cognitive barriers. In the virtual space resulting from the connection of many users, the obstacles that can hinder or make difficult communication between two or more individuals are overcome. The famous six degrees of separation that stand in the way of somebody getting to know a stranger, even an apparently unreachable one, have given way to easy opportunities for immediate contact. In its broadest sense, this is precisely what the Internet is: a series of virtually unlimited connections between nodes. The most disparate kinds of data can travel along these connections, and these data can be conveyed in what is regarded as the best way for them to be easily interpreted, or displayed in such a way that, by altering, integrating or broadening one’s perspective, they can give rise to new kinds of information. Our society, increasingly hungry for this resource, is investing more and more capital to increase the ease of finding and processing information over the Internet. The huge flexibility offered by computers, which are only the vehicle, never the end of this kind of research, also allows unprecedented opportunities to process data, unfortunately also in malevolent ways. In the light of these introductory considerations, it is now clearer why want to be present on the Internet. We want to contribute, within the limits of our possibilities, to the huge cauldron of knowl17

See the following paragraph.

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edge constituted by the sum of the micro and macro-knowledge offered by the Web. At the same time, we want our contribution to reflect our professional and scientific experience. Hence, we do not merely want to make available the results of our research, or at least a summary thereof, as has become customary for some time now in the realm of the hard sciences, and more recently in that of the humanities; we want the user to fully understand our research process and the effects it can produce. The data and spherical images uploaded on the Arkeo3D site are meant to draw users into the cognitive meanders followed by the researchers themselves, the doubts that arose in their minds, and the answers that after careful study and investigation they managed to formulate, in cases where this process came to a felicitous conclusion. This perspective brings us close to an opinion movement that has been taking increasing hold in the nooks and crannies of the Internet: the “open” universe movement. We increasingly hear terms preceded by the adjective “open”, which has been acquiring an aura of magic and, at the same time, transgression. It is enough to say “open” or use it to qualify other terms (“open data”, “open access”, “open source”) to feel part of something innovative. Like all fashions, however, it can easily lead to misconceptions or contradictions. A web-published summary of a scholar’s research is not enough to qualify as “open data”, and neither is an article if it is burdened with use restrictions or deprived of its images. There can be no open data if their publication is not supported by an “open” mentality. We must dare to make our creations public domain—although without needing to give up our authorship. It will allow us to discuss, within as broad a community as possible—and the Internet makes this possible more than any other medium before—the strengths and weaknesses of our work, allowing us to go beyond the first version to reach new, more convincing and appropriate results. Archaeology is a subject that by its nature invites debate more than many others; still, we often see scholars hanging on to their data obsessively, not realizing the potential advantage of making them publicly accessible to enrich and correct them. The purpose of archaeological research should be the communication of data, an objective the researcher should arrive at after striving to answer the questions implied in his or her cognitive path, taking all the known evidence into account, and using a probability criterion—since absolute truth is beyond the grasp of archaeologists, and of scientists in general. To debate, communicate, and debate again to communicate anew: Internet offers this hermeneutic possibility by bypassing the hurdle of being “human, too human”. Its strengths are not based on the mood of individuals, but on statistics: given the high number of users, there is an exponentially higher chance of achieving a certain result—finding an answer to a given question, noticing certain details, receiving advice, etc. Making one’s work available on the Internet, besides undeniably being a means of showcasing one’s professional abilities, constitutes a fundamental step in the work of modern scholars, and especially archaeologists, since the communication of data is the goal of their studies and a stimulus for new research, prompted by that urge to know that is the prerequisite for the reaching of new knowledge goals. 2. Insula VI, 11 (M.C. Capanna) 2.1. The topographical context Insula VI, 11 lies in the northwest sector of Pompeii. It is bordered to the east by the Vico del Fauno, to the south by the Vico di Mercurio, and to the West by the Vico del Labirinto. To the north it is delimited by a non-urbanized space between the city and its walls, where a path inside the walls may have once stood (Fig. 12). The insula is rectangular in plan, oriented NO-SE, like the others of Regio VI. It extends over a surface of ca. 4400 sq m (including the sidewalks, whose total area is almost 5000 sq m). The east and west long sides measure, respectively, 138.89 and 137.33 m; the north and south short sides, 32.16 and 32.33 m. The longer sides are of different length to align the north frontage of the insula with the town walls and the street running parallel to them. Like the other insulae in the north sector of Regio VI, this one 337


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is built according to a rectangular module of 500 x 120 Oscan feet, corresponding to an area of 60,000 square feet.18 The floor level of the block slopes down from north to south, with a maximum difference in height of 3.90 m. In the north sector of the insula, the westernmost units lie at a lower altitude than those to the east, with a difference in height between 30/40 and 120 cm. According to a recent metrological analysis carried out over the whole Regio VI, insula 11 was originally subdivided into 20 lots.19 The main subdivision went from north to south for almost the whole length of the block, along a line that runs along the change of altitude between the east and the west side. The north and central parts of the block were further subdivided in an E-W direction, while the south part appears to have had only a longitudinal subdivision. According to A.V. Schoonhover, in the course of time lots that were originally distinct were joined. Our research has also shown that some lots had been originally free of buildings, and must hence have been used as gardens or small farming patches. 2.2. Excavation and studies The excavations to free the insula from the ash and lapilli were carried out in several stages between 1834 and 1843.20 More specifically, the House of the Labyrinth was excavated between 28 April 1834 and 12 September 1835, the central and northern sectors between 2 August 1841 and 22 May 1843. The few studies of the whole insula were published in 199421 and 2006.22 The first of these publications briefly describes the properties the insula was subdivided in as of 79 AD in the framework of a general discussion about Pompeian houses and society. The second study is a metrological analysis of building types and uses in all the insulae in Regio VI. Some other published studies focus on individual lots in the insula, and almost exclusively focus on wall decorations. The House of the Labyrinth, which takes up almost half of the whole surface of the insula, has been studied several times, especially as regards its wall and floor decorations,23 and has been analyzed in studies on the houses of the Pompeian aristocracy.24 It has also drawn attention as an example of specific peculiarities, such as the presence of a double atrium.25 A monograph by V.M. Strocka26 analyzes the house’s decorative apparatus in depth, proposing reconstructions and new interpretations. On the basis of studies of masonry and floor and wall decoration, Strocka has proposed a diachronic reconstructions of changes made to the domus, but no reconstructive plans for individual periods. The only two other sectors of the insula that have been studied so far, although much less in depth, are the domus at numbers 11 and 12 of the vico del Labirinto, along with the taberna at no. 7 of the Vico del Fauno,27 and the small domus in the NE corner of the insula, at nos. 18-20 of the Vico del Labirinto.28 Both studies are mere brief descriptions focusing almost exclusively on the preserved vestiges of the decoration. In 2003 an integrated 3d scan has been carried out, under the direction of Professors A. Carandini e P. Carafa, in collaboration with Archeometra s.r.l., in the area of the main atrium and the baths. Vibrometric and high-res thermographic Doppler laser methods have been used to record wall paintings Schoonhover 2006, pp. 163-166. The Oscan foot measures 27,6 cm. Schoonhover 2006, pp. 163-166, fig. 3.72, pp. 90-101. Fiorelli 1835, pp. 145 ss.; PAH II, pp. 292-294, 298-304, 306-310, 315-317; Bechi 1835, pp. 4-6; Id. 1839, pp. 4-7, 36-46; Avellino 1841, pp. 52-54; Id. 1843, pp. 65, 73. 21 Wallace-Hadrill 1994, pp. 208 ss. 22 Schoonhover 2006. 23 Mau 1882, pp. 80-85, 127, 133, 135-139, 141-156, 159-160, 162, 165, 179-183, 187-189, 236-237, 259-263; Pernice 1938, pp. 33, 35-38, 46, 50, 61, 124, 127, 135-136, 138, 140, 166, 175, 177, 179; Beyen 1938-60, I, pp. 254-267; Schefold 1957, pp. 125-127; PPP II, pp. 237-252; Laidlaw 1985, pp. 165-170; Hanoune, De Vos 1985, pp. 841 ss.; Strocka 1991; Id. 1994. 24 See most recently Schoonhover 1999. 25 Maiuri 1954. 26 Strocka 1991. 27 Avellino 1843, pp. 66, 73; Fiorelli 1835, p. 150; Mau 1882, pp. 85, 425; Schefold 1957, p. 127; PPP II, p. 252; Laidlaw 1985, pp. 171-172; Sampaolo 1994a. 18 19 20

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in the insula. Some perimeter and internal walls have been analyzed to detect micro-lesions. The aim of this monitoring campaign was to experiment with new technologies to map risk to wall decoration and the walls themselves, as a preliminary to the planning of restoration and strengthening works. 2.3. Restoration and other activities conducted by the Superintendency in the insula Recognizing the parts of walls that have undergone restoration, beginning from the nineteenth century, can be a problem. The restored portions are not always easily distinguishable from the ancient ones. The restorers often used reused old stones bedded in local concrete, which is rich in pozzolana and volcanic inclusions. The intent of restorers at the time was indeed to make the rebuilt portions undistinguishable from the original ones, which they imitated in detail. This often makes stratigraphic interpretation problematic. Much restoration was done following the bombing of 1943, which had caused significant damage. Our systematic perusal of the Excavation Journals kept in the archives of the Superintendency, as well as some published information,29 have helped us to distinguish modern parts from ancient ones. In 1980 the cellar under Room 2 in the House of the Labyrinth was accidentally discovered during cleaning work being done on the floor of the room.30 In 2005-2006, restoration work was carried out in the Corinthian oecus of the House of the Labyrinth (Room 43), following the collapse of its concrete roof built in 1925-1926. The damage to the columns and frescoes had been significant. It was impossible to restore the columns to the state they had been found in when the house was excavated. (Fig. 13: the oecus before its collapse; Fig. 14: the oecus after its restoration in 2005-2006). The restoration provided an opportunity to reinforce the north walls of rooms 44, 45 and 46 of the House of the Labyrinth, which bordered on the property at no. 11. This concealed the stratigraphic relationships between the walls in question, but restored security in this sector of the insula. 2.4. Property divisions within the insula at the time of the eruption of 79 AD. At the time of the eruption, the insula was subdivided into 10 properties (Fig. 15). The following is a list of these properties,31 starting from the NW corner of the insula and moving counter clockwise. In the following list and descriptions, we have used the current door numbers (in black in the figure). The numbering of the rooms is the one used in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, 1994, pp. 1-79: 1) The taberna in the northwest corner of the insula extends over an internal surface of just 37 sq m. It comprises three rooms, of which two (1-2) open directly onto the Vico del Fauno and communicate, and the other lies behind room 1 and communicates with it. The walls are of opus africanum and opus incertum of lava and limestone. The original core of this property dates back to the first building period. No wall plaster or floors are preserved. No clues as to the commercial activity performed here were found. 2) The property at number 332 extends over a surface of about 325 sq m. From the entrance at no. 3 on the Vico del Fauno, one walks northward into a medium-small square room (8) communicating with another one of similar size and plan (7). Having passed through the vestibule, one enters a vast hortus (4) onto which other rooms open: a larger one to the south (2) and a northern one (6) communicating with yet another room (9). The hortus extends all the way to the northern limit of the block. Avellino 1843, pp. 74-75; Fiorelli 1835, p. 152; Mau 1882, p. 423; Schefold 1957, p. 127; Laidlaw 1985, p. 172; PPP II, pp. 252-253; Sampaolo 1994b. 29 Garcìa y García 2006, p. 26, fig. 11 e p. 125. 30 Strocka 1994. 31 See also Wallace-Hadrill 1994, pp. 208 ss. 32 Damaged by the bombing of 1943: García y García 2006, p. 80. 28

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On the north perimeter wall the vestiges of a staircase (6 bis) can be seen, which must have led up to a second floor that is not preserved. To the east, the property borders on the domus with its entrances at numbers 18-20 of the Vico del Labirinto. The floor of this domus lies about 1.10 m higher. Judging from what is visible today, the west side of the atrium of the domus at nos. 18-20 had a large window opening onto the hortus. The ground level of the northern part of the hortus is slightly raised above that of the rest of the garden. 3) The third property, which is larger than the previous ones (about 500 sq m), is the result of the gradual joining of originally independent units. The earliest structures, in the western part, date back to the first occupation of the insula. The property then expanded to reach its maximum extension within a century. The original core was a small domus33 entered from no. 16 on the Vico del Labirinto, with a small atrium (2)—the impluvium is no longer preserved, but it has left a rectangular depression in the middle of the room—surrounded with four cubicula (3, 4, 9, 10). At the back of the western rooms are other rooms, irregular in plan, with service functions (5, 6, and the kitchen, 7). The sector to the north of the one just described, accessed from no. 17 on the same street, had a small garden, delimited by a colonnade (11) which was later closed off with wall panels. Opposite, but not perfectly on axis, is a small square room with a poorly preserved cocciopesto floor (7’). North of the fauces are several rooms (2’, 3’, 4’, 5’), one of which (5’) is rather large and may thus have been a triclinium. The rooms to the west, with their entrance at no. 4 of the Vico del Labirinto, are at a lower level than the eastern ones; a cocciopesto-paved ramp sloping from east to west (8, Fig. 17) connected the two levels. In this sector of the property, at a later time than that of its original construction, some facilities were built (room 8a, Fig. 1834), namely, two wells and a basin faced with waterproof plaster. North of these rooms was another room (7),35 with no distinguishing features, facing onto an open space (2). Another room, square in plan and lying immediately south of entrance (3), opens onto the same space. The small sector with its doorway at no. 16 on the Vico del Labirinto may have been converted into a lupanar in the last period of life of the complex, as suggested by some graffiti scratched in the plaster of the outer wall between numbers 16 and 17. 4) This lot, which has an area of over 325 sq m, extends in an E-W direction along the short axis of the insula. It has an entrance on the Vico del Fauno, at no. 5, and another one at the opposite end, at no. 15 of the Vico del Labirinto.36 It is comprises of few and small rooms (4, 5, 6, 11, in its east part) connected to a vast open space onto which two more small rooms open (2, 10), which may have been tabernae. The west part, which was at a much lower level than the east part, must have originally been completely open, and may have belonged to lot 3. It is not clear what each of these rooms, and of the whole property, were used for. 5) The original core of this property, whose access was at no. 13 on the Vico del Labirinto, extends from east to west through the width of the block, and is one of the earliest buildings in it. We have hypothesized that originally there had been an open space on its west side, which was later occupied by several rooms (1-6; 13-17). It is also possible that rooms 7 and 12 replaced some earlier rooms that were possibly arranged symmetrically to cubicula 9 and 11. In the west sector are rooms, possibly housing services, arranged around an open area (13) with a well. South of the entrance at no. 6 of the Vico del Fauno, a staircase (4) is preserved, which must have led up to a second floor.

33 In the plan published in Pompei, pitture e pavimenti, VI, 2, 1994, on p. 76, this unit opens only onto the Vico del Labirinto, so we use an independent numbering for its rooms. Direct observation allowed us to ascertain the existence of an aperture connecting Room 4 with Room 10 of the unit with its entrance at no. 17. 34 This rectangular basin was not documented in earlier publications. We found it after removing the debris that covered it. 35 The published plan shows a non-existent opening of room 7 towards ramp 8, and no access from open area 2. 36 Again, the published plan does not correspond to what we observed: the large open area (3) appears in the plan as being connected with the two units at nos. 15 and 14, but our naked-eye examination clearly showed that in the last period this unit had no doorway on its west side.

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6) This unit, too, which has a surface of more than 460 sq m, is the result of modifications and expansions of one of the earliest domus in the insula. The original house, with its entrance at no. 12 on the Vico del Labirinto,37 had a standard plan, with a vestibule (1) flanked by cubicula (3, 16), a testudinate atrium (2) with alae (17, 18), and a tablinum (5) aligned with the atrium, with reception rooms on either side (4, 6). A garden (7-9) extended along the west side of the house. It could be accessed both from the tablinum, through a passage room (19), and from the service rooms to the south (12-15), which include a kitchen and had their own independent entrance at no. 11 on the Vico del Labirinto. Several rooms in the domus still retain vestiges of a First Style decoration (cubiculum 16, the triclinium, 6, and the tablinum, 5). The interior of the house was decorated two more times. Third Style decoration survives in the reception rooms and the tablinum (5). In the tablinum and in the northern ala (18) there are also remnants of the last decoration, in the Fourth Style. 7-8) The House of the Labyrinth (VI, 11, 9-10), together with the small dwelling annexed to its northwest limit (VI, 11, 8), commonly interpreted as the residence of the household manager, extended over a surface of about 2000 sq m, almost half that of the whole insula (4459 sq m). It is the third largest in Pompeii, after the House of the Faun and the House of Pansa. Its original core is constituted by the rooms facing onto its tetrastyle atrium (27). Initially the area west of the domus was unoccupied, but possibly already belonged to the domus. The original plan lacked the large peristyle (36) and the rooms north of it, which must have replaced a smaller hortus, and possibly the remains of an earlier building. The western sector, with its entrance at no. 9, was subsequently occupied by a second atrium (3) with several rooms along its south side (2, with the underground cellar,38 and 5) and its west side (4, 6, 7, 9).39 A second floor was built above these rooms, at a later date, as is proved by the closing of a window against which the first step of the staircase in Room 9 is built. Behind these rooms are service rooms (11, 12) and a kitchen (13). Much of the original decoration is preserved, including that of the floor of Room 39, the re-employed emblemata in rooms 44 and 45, and stucco pilasters on the west wall of the peristyle. Based on V.M. Strocka’s stylistic analysis,40 the house was renovated around 70-60 BC, possibly following damage caused by military attacks during the siege of 89 BC, as the new Second Style decoration seems to suggest. The decoration of the Corinthian oecus (43) and Rooms 42 and 46 dates from this time, as well as that of the first two rooms of the baths (21, 22), which were later redecorated in the Third Style. The last modifications date from the years following the earthquake of 62 AD, when the owner, Publius Sextilius,41 probably no longer lived in town. The name of the owner is known from an inscription incised on a weight (Fig. 19). In this period, eight rooms in the house (3, 6, 9, 27, 29, 30, 35, 37) were decorated with low-quality Fourth Style paintings, and a bakery with an oven and four mills was installed in the house (rooms 19, 23, 55), at the expense of the bath suite. Some clues found at the time of the excavation of the domus suggest that only the household manager lived there at the time of the eruption. His name, Ianuarius Fuficius, followed by “qui hic habitat”, is scratched on the plaster of one of the columns of the colonnade at the back of the peristyle. A seal found near the skeleton of a man found in the peristyle, with the name Euty(chus) incised on it, may have belonged to the baker, who might have lived at the back of the bakery, in the apartment where the household manager had once lived.42 The House of the Labyrinth, as well as that of the manager’s, was damaged by the bombing of 16 September 1943. There was especially serious damage to the rooms south of the atrium of the manager’s house and its second floor.43

37 Sampaolo 1994a. The domus at no. 12 appears in the list of those that were damaged by the 1943 bombing: García y García 2006, p. 82. 38 See also Busana 2003, pp. 530-532. 39 According to V.M. Strocka’s reconstruction, the western part was built at the same time as the east one. 40 Strocka 1991; Id. 1994. 41 This is probably the same individual as the P. Sextilius P. f. Fal. Rufus who held some public offices in Pompeii in the time of Nero. He was an aedile twice and a quinquennial duovir once (CIL, X 1273), before moving to Nola in 69 AD. 42 On the decorations and inscriptions in the domus, see §§ 2.5-27. 43 García y García 2006, pp. 80-82.

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9) The small property (about 100 sq m) at no. 14 of Vico del Labirinto, which had service rooms in its west sector, including one with a cooking surface (7 bis), is interpretable as a small domus. 10) The house at the NE corner of the insula, with three entrances at nos. 18, 19, and 20 on Vico del Labirinto, extends over a surface of about 198 sq m. Its northern half is made up of structures that must go back to the first phase of occupation of the block, as indicated by the few remains of a wall of limestone opus quadratum and a cocciopesto floor with large white tesserae in Room 7, which is datable to the second century BC.44 This house has an unusual plan, but one that can be explained by the difference in level between the east and west halves of the block. The east part has a standard plan with a vestibule (1) flanked by cubicula (3, 12) leading into a compluviate atrium (2) with rooms opening onto it on its south and north sides, two oeci (5, 6) and room 4, which had a staircase that is no longer visible today.45 This staircase led up to a second floor that may have also extended over the southern rooms (711). There is no tablinum on the axis of the vestibule and atrium, but a wall with a large window looking out towards the open space in unit 2. The interpretation of the building as a domus with a tailor’s shop or laundry annexed to it is based on the presence of graffiti on the outer wall of room 19 mentioning the date of delivery or collection of some tunics. 2.5. Repositioning movable finds During the excavation, special attention was paid to the artifacts that came to light. The excavation journals provide synthetic descriptions of each and their measurements in palmi.46 The excavation journals were supplemented with librette (registers) where all the finds were scrupulously listed. For the interpretation of the terms sciba and manecchioni, we referred to M. Annecchino’s 1979 essay published in the book on the instrumentum domesticum in Pompeii and Herculaneum.47 We catalogued the finds and the graffiti on wall plaster (218 items) in a database in Access format. We gave each artifact or graffito a unique number corresponding to a record in the database. For each record, we specified the following data: identification number / Date of discovery / Quantity / Description / Measurements / Material / State of preservation / Find spot / Notes / Bibliography-Archive documentation. Whenever possible,48 we marked the position of the find on a plan in a vectorial format. Often the position of objects, along with other elements, such as decoration, allowed us to determine the function of individual rooms or building lots in the last phase of the life of the insula. The vectorial and alphanumerical data are managed by a GIS system accessible online.49 2.6. Epigraphic evidence Many graffiti, almost all lost today, were found on the plaster of the inner and outer walls of the buildings, and on columns. They are recorded in volume IV of the Corpus Inscriptionum Latinarum.50

Sampaolo 1994b, p. 77 n. 3. The plan of the domus published by Sampaolo 1994b, p. 76, shows a staircase between Rooms 4 and 5, no trace of which survives today. 46 A palmo measures ca. 25 cm. 47 Annecchino 1977; See also Amoroso 2007. The expression sciba a meccioni probably designated the door hinge, which had a variable length and was usually composed of a metal element associated with a wooden structure. 48 In some cases, the object is only generically indicated as having been found in the insula or in a specific housing unit, but without specifying the room, not to mention the specific position in the room. 49 See §§ 1.2.4-5 and www.arkeo3d.altervista.org/progetti/pompei. 50 See §§ 1.2.4-5, 2.5 e www.arkeo3d.altervista.org/progetti/pompei. 44 45

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I. CIL, IV 239. In the alley at the back of the garden of the House of the Faun, continuing the Vico del Lupanare. On the wall plaster of the front of the House of the Labyrinth, on the left side of this alley. M. Cerrinium aed(ilem) / Miscenia rog(at) / Messenia (vel Messenio?) II. CIL, IV 240. M. Cerrinium. III. CIL, IV 240. 6 June 1834. In the alley at the back of the garden of the House of the Faun. Cn. Helvium aed(ilem) / Hermes colo[- - -] / cum gallinariis rog(at). IV. CIL, IV 1418. On the third column from the east in the front colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Capital letters, 1.5 cm high. Quodveio / in [- - -] V. CIL, IV 1419. On the column in the west corner of the front colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. The letters of lines 1 and 2 are 1.5 cm and 2.0 cm high, respectively. SCHE / EROSVFA VI. CIL, IV 1420. On one of the columns of the peristyle (?). Q. Lutilius VII. CIL, IV 1421. On the second column from the south in the west colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth (with figures from the gladiatorial world scratched under each name). Faustus Itaci / Neronianus / Priscus N(---) / VI V Herennius / L XIIX P Ad ampitheatru[m] / Q VIII. CIL, IV 1422. On the south side of the same column as the previous graffito. Asteropaeus / Ner CVII / V Oceaneanus / L VI / M IX. CIL, IV 1423. On another column of the peristyle of the House of the Labyrinth. [- - -]VETOTN [- - -] / [- - -]IUG [- - -] X. CIL, IV 1424. On the same column, or in another column of the peristyle of the House of the Labyrinth. Cyrn[- - -] XI. CIL, IV 1425. On the column at the corner of the north and west colonnades. Cl(i)ntius Cu++u[- - -] / lingit Dionusia (?) / lingit [- - -] XII. CIL, IV 1426. On the same column as the previous graffito, or on another one. The S is cursive. Gentius. XIII. CIL, IV 1427. On the same column. Salvia Felatiantiocu / loscu[- - -]. XIV. CIL, IV 1428. Between the previous and the following one. Xamae / Aimiane XV. CIL, IV 1429. On the seventh column from the east in the back colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Q. Sempronio Q. l. XVI. CIL, IV 1430. Above the previous graffito. A. Veius M. f. Felix XVII. CIL, IV 1431. On the sixth column from the east in the back colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. VII k(alendas) febres. XVIII. CIL, IV 1432. Above CIL, IV 1431. Murranus. XIX. CIL, IV 1433. On the same column as the previous one. Ianuarius / Cresces (!) XX. CIL, IV 1435. Between CIL, IV 1434 and CIL, IV 1439. [Feli]x [es]t. Ianuarius / Fuficius qui hic habitat. 343


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XXI. CIL, IV 1436. On the sixth column from the east, in front of CIL, IV 1437, between CIL, IV 1433 and CIL, IV 1434, in the back colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. VII k(alendas) apr(ilis) (?). XXII. CIL, IV 1437. Close to the previous one. Fusus (!) / Fuscus / Fuscus / Fuscus. XXIII. CIL, IV 1438. On the fourth column from the east in the back colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Chres(imus?) XXIV. CIL, IV 1439. On the third column from the east in the back colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. C. Cratili XXV. CIL, IV 1440. Tra CIL, IV 1439 e CIL, IV 1441. M. Iunius XXVI. CIL, IV 1441. On the column at the corner of the east and north colonnades. Me. Me. / Mentulam / Linge[- - - ]. XXVII. CIL, IV 1442. On the same column as the previous one. (Cf. CIL, IV 2377, funerary inscription from Pompeii: Cn. Clovatio Cn. F.) [Cn.] Clovatius XXVIII. CIL, IV 1443. On the eighth column from the south in the east colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Terentius / Optatus / Martialis. XXIX. CIL, IV 1444. On the seventh column from the south in the east colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Terentius. XXX. CIL, IV 1445. On the fifth column from the south in the east colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. Gamus. XXXI. CIL, IV 1446. On the fourth column from the south in the east colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. [- - -]neo heic / fuet. XXXII. CIL, IV 1447. On the third column from the south in the east colonnade of the peristyle of the House of the Labyrinth. [- - -]MESC[- - -]. XXXIII. CIL, IV, p. 207. To be inserted after CIL, IV 1419, on the same column. [- - -]SENOM[- - -] XXXIV. CIL, IV 4434. At entrance no. 8. Methe fe(l)lat.

XXXV. CIL, IV 4435. At entrance no. 15, on the red plaster. Amar[- - -] XXXVI. CIL, IV 4436. At entrance no. 16, on the red plaster. Ianui / [- - -]T[- - -] / T+aau[- - -] XXXVII. CIL, IV 4437. In the same place as the previous graffito. +++niais XXXVIII. CIL, IV 4438. In the same place as the previous graffito. Neptunus. XXXIX. CIL, IV 4439. In the same place as the previous graffito. Pitan(a)e / vici(ni) sal(utem) / aer(is) a(ssibus) tribus. XL. CIL, IV 4440. Above CIL, IV 4439. Xustus / Xystus +ili[- - -]. XLI. CIL, IV 4441. Near CIL, IV 4440. 344


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Isidorus / aeris (assibus) duobus XLII. CIL, IV 4442. Below CIL, IV 4441. TI III II II +I+ XLIII. CIL, IV 4444. Near the previous graffito. [- - -]SPUS[- - -] [- - -]US[- - -] XLIV. CIL, IV 1373. Between the third and fourth doorway from the north in the Vico del Labirinto. Iuvenis / Menester va(le) XVII / XXI / CXXXX LXVII LXXX XLV. CIL, IV 1374. In the same place as the previous graffito. Restituta roga II XLVI. CIL, IV 1375. On the right of the fourth doorway. [- - -]Ole / Natalis / verpe / n / CUNHSRSICI / ait Secundu[s] / Domnae [- - -]/ cu[m - - -]ortili XLVII. CIL, IV 1376. In the same place as the previous graffito. Iucunde (!) Secunda (!) / Pangluc[i]ae XLVIII. CIL, IV 1377. In the same place as the previous graffito (Fig. 20). Secunde / [- - - ]quiste / Catum exeneratui [- - -] / [- - -] / EINO+ expingebas / [- - -]nisicum +ECTIOMO[- - -]/ [- - -]ESSETITAQUE NON[- - -]. XLIX. CIL, IV 1378. In the same place as the previous graffito. Timele L. CIL, IV 1379. In the same place as the previous graffito. Iucunde / et Aucustiani S[- - -]. LI. CIL, IV 1380. In the same place as the previous graffito. Iucunde / Aucustiane / quiquiten quis III LII. CIL, IV 1381. In the same place as the previous graffito. Secunda /[- - -]lice Iucund[a] / [- - - ]la LIII. CIL, IV 1382. In the same place as the previous graffito. Afrodite / Aucustis+ LIV. CIL, IV 1382a. In the same place as the previous graffito. Purami va[- - -] LV. CIL, IV 1383. In the same place as the previous graffito. Isidorum aed(ilem) II+C / optimi CUNULINCET (?) IU[- - -] T LVI. CIL, IV 1384. In the same place as the previous graffito. Aprodite / Aucustia[- - -] / [- - -]etias Aucustiana LVII. CIL, IV 1385. In the same place as the previous graffito. Iucunde / Augustian[e] LVIII. CIL, IV 1385a. In the same place as the previous graffito. [- - -]SURUS[- - -] LIX. CIL, IV 1386, 1387. In the same place as the previous graffito. Timele [- - -]aris[- - -] LX. CIL, IV 1388. In the same place as the previous graffito. Timele Felatris /Timel[ - - -]. LXI. CIL, IV 1388a. In the same place as the previous graffito. Timele Extaliosa (Expallida?) LXII. CIL, IV 1389. In the same place as the previous graffito. Nympe Felatrix LXIII. CIL, IV 1390. In the same place as the previous graffito, not much higher up. Veneria / Maximo / Mentla / exmuccav(i)t / per vindemia a / tota [- - -] / ETRELNQUE / PUTR VENTRE / MUSCE[- - -] / CON SPLINU / CS LXIV. CIL, IV 1392. North wall of the atrium of the unit accessed from the second doorway from the north on Vico del Labirinto. 345


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III idus aprilis / tunica + I / ++++ LXV. CIL, IV 1393. On the staircase of the same unit. K. XII maias tun(icam) pal(lium) /nonis mais fas(ciam) / VIII idus mais (!) / tunicas II (lavandas dedi o accepi). LXVI. CIL, IV 1394. Above CIL, IV 1393. Iid[us] iul / VIII idus aug. LXVII. CIL, IV 13950. Next to the previous graffito. [- - -] idbus [- - -]. LXVIII. CIL, IV 1396. South wall of the atrium of the unit accessed from the second doorway from the north on Vico del Labirinto. Alexs (Alexander?) dixit / numen/ M E NA dixit /O+[-]OR II LXIX. CIL, IV 1397. Below CIL, IV 1396. Dinibales /Synoris /Spurius / Macer / Domitius / Alexander Caius / Casartio / sperat / primoc[- - -]VES Per omnia / fata / [- - -]o IBINEUS [- - -]II te Tebaldi / ame nec vis 7 eco solus LXX. CIL, IV 1434. Ianuari. LXX. CIL, X2 8057. House of the Labyrinth. [- - -]H[- - -] 2.7. Wall and floor decoration. The building phases of the insula Wall and floor decorations were preserved in the House of the Labyrinth (VI, 11, 8-10), in the domus with its entrance at no. 12 on the Vico di Mercurio, and in the domus in the NE corner of the insula.51 The condition of the wall plaster, except for a few fortunate cases, is regrettably very bad; indeed, it is almost totally lost today. In the rest of the block, some wall plaster and undecorated cocciopesto and lavapesta floors are still preserved, which we recorded as Stratigraphic Units.52 As to the floors, by simply removing the debris we found some cocciopesto or lavapesta ones that had not been documented in any previous publication. House of the Labyrinth (see Fig. 16) Room 4. Remains of a Second Style decoration of which only a stucco cornice above and a pilaster on the right survive. Room 6. Much of the Fourth Style decoration ascribable to the post-62 AD renovation. The north wall had a faux marble socle. The middle zone comprised a yellow central panel framed by a canopy and two green pilasters. On the left is a red panel opposite the door opening onto Room 7 on the right. The central picture showed the abandonment of Ariadne, the one on the south side Europa on the bull. Not much remains of either today (Fig. 21). Room 7. This room was decorated in the Second Style (70-60 BC). Today all that remains is traces of the outline of the architectural decoration. Room 23. The jambs of the fauces were topped with stucco sofa capitals (46 x 22 cm). On the larger side are a row of acanthus leaves and one of lanceolate leaves. Behind are two large volutes on either

For this section, we refer the reader to the most recent publications: Strocka 1991; Id. 1994; Sampaolo 1994a; Id. 1994b with previous literature. 52 Amoroso 2007 proposes a synthetic typology of wall plaster and non-decorated floors we refer to here. 51

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side of an acanthus chalice. On the smaller side, on the leaves, is a chalice formed of three leaves of acanthus and two undulated stems on the sides. These capitals are datable to 100 BC (Fig. 22a-b). Room 24. This room was graced with First Style stuccoes. Above orthostats and a pianetto were three rows of ashlars of alternating colors, red, ochre and green. Atrium 27. This room was graced with First Style decorations datable to 100 BC. After the earthquake of 62 AD, the damaged zones were restored with coarse imitations of the original decoration. Cubicle 29. In the last building phase, after the earthquake, the room was entirely decorated in the Fourth Style. The socle and middle zone featured alternating yellow and red panels, with an upper white zone. On the north wall, the central picture (Fig. 23: unsigned watercolor, Naples National Archaeological Museum, from Strocka 1994, Fig. 36) probably showed Paris and Helen (Strocka). The opus signinum floor of the room, datable to 100 BC, is still preserved; it is the same that is found in corridor 48, and indeed the two rooms were originally one. Ala 32. This room, whose wall decoration is very poorly preserved, had an opus signinum floor dating from 100 BC. A meander border set off the central carpet, which had a dotted edge and two rows of rhombs. The decoration of the central rhomb is not preserved. In the leftover triangular spaces were palmettes. Tablinum 33. The original First Style stucco facing was later replaced with a Second Style decoration. The room was floored with mosaic, with an emblema in the center that was already lost in the nineteenth century. The mosaic was made between 70 and 60 BC. Exedra 37. Room 37 was decorated at least two times in the course of time. The entrance is decorated in the First Style, the mosaic is Second Style, and the remains of wall decoration are in the Fourth Style. Peristyle 36. The west and east walls were originally decorated with faux pilasters of stucco in the First Style, which are very similar to those in the second peristyle of the House of the Faun (early first century BC). Triclinium 39. In the triclinium was an opus signinum floor with a mosaic doorstep, datable to the first decade of the first century BC. The walls of the room were decorated in the Second Style. Oecus 40. The room had a polychrome mosaic floor with a perspectival meander around a carpet of axonometric rhombs. The mosaic is datable to 70-60 BC, as are the Second Style wall paintings, which are very faded. Cubiculum 42. In this room was the famous mosaic that the House of the Labyrinth is named after, the emblema with the fight between Theseus and the Minotaur (Fig. 24). The Second Style wall paintings are datable to 70-60 BC, as is the mosaic. Corinthian oecus 43. The wall decoration is still well preserved. It consists of Second Style architectural views, including a view of a tholos temple in a courtyard. The room is floored with a Second Style mosaic in the middle of which a Third Style emblema was inserted in the age of Tiberius (Fig. 25, see also Figs. 13-14). Cubiculum 45. Like the other rooms opening onto the north ambulacrum of the peristyle, this one too has a Second Style decoration. The peculiarity of this room is that, as soon as the decoration was completed, the east wall was attacked by high humidity. It was hence immediately faced with tegulae mammatae and the new wall was given a new painted decoration, identical to the first. The floor was graced with a fine mosaic showing a dove extracting a jewel from a chest. Cubiculum 46 and alcove (Fig. 26). At the time of its construction, this room was isolated from humidity with tegulae mammatae. The walls of the room are decorated in the Second Style. The socle shows a row of arches through which an aquatic landscape can be made out. The decoration also features architectural views and many deities associated with sex and love. Thermal rooms 20-21. The bath suite was created during the next-to-last period. It is datable between 20 and 30 AD, based on its Third Style decorations. These are quite ruined today, while they were in good condition at the time of discovery, although after the earthquake of 62 AD the baths had been converted into storerooms for the new pistrinum. 347


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Domus VI, 11, 1 Tablinum 5. On the south wall are traces of the original First Style white decoration, over which Third Style frescoes were painted onto a new layer of plaster. Triclinium 6. In this room, too, traces are preserved of the two decorative phases, the white one in the First Style, and the subsequent one with red-framed panels. The whole decoration of the west wall is preserved. Cubiculum 16. The limestone opus quadratum walls were faced with First Style decorations with a yellow socle and a red pianetto. Ala 7. This room was decorated in the Fourth Style. On the east wall were an architectural landscape and a red medallion on a white background. Domus VI, 11, 19 Oecus 5. Remains of a not completely legible decoration survive on the north wall. The socle was green. In the yellow middle zone was an aedicule with a poorly preserved picture in the Third or Fourth Style. Triclinium 7. This room had a cocciopesto floor with large white tesserae, datable to the second century BC, and decorated walls. In one of the central panels, plants were depicted (Third or Fourth Style). Cubiculum 9. In this room, too, are traces of a very faded painted decoration. One can make out the black socle and white central zone with square yellow and red panels (Third or Fourth Style). 3. The building phases of the insula Our stratigraphic study of the existing structures has revealed six building phases. Each of these is illustrated by two plans: a period plan, and a reconstructive one. The period plans show the stratigraphic elements built in the illustrated phase in red, with their Stratigraphic Unit numbers, and the reused elements in blue, without their Stratigraphic Unit numbers. To highlight the position of these elements in the insula, the plan also shows the Stratigraphic Units from the later periods in gray with no filling. The reconstructive plans show the perimeter of the block with the limits of the lots, the integrations made to only partially preserved structures, the green areas, and the hypothetical extension of the second floors. The matrix diagram of the action groups illustrates the sequence of occupation of the block. We numbered the lots using chronological and topographical criteria, from north to south. The dates proposed, based on those of the earliest decorations preserved in some rooms, are to be regarded as termini ante quem. On the basis of relationships of anteriority and posteriority between datable Stratigraphical Units, we have tried to anchor the relative chronologies we derived from stratigraphic analysis to the absolute chronology of the site. Almost all the units, except for some small portions, appear to have been built during the first three periods. The buildings in the block were thus erected during the second century BC. The last three groups were built between the beginning of the first century BC and the earthquake of 62 AD. One of these (no. 15) may have replaced a complex (9?), which may have been built in the second period; if this is so, no traces of this complex survive above the ground, except for a stretch of a perimeter wall to the east (SU 843). Having defined the periods and proposed chronologies, we ascertained that, as in most cases studied in Pompeii, the micro-story of private and public building complexes followed the same stages as the macro-history of the Vesuvian city, which in its turn reflects the history of Rome’s conquests and power. The building boom recorded over all of Pompeii in the second century BC is also observable in this block. Rome’s conquests in Campania in the course of the third century BC damaged already pros348


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perous towns, such as Capua and Nola, much more than minor ones, as Pompeii must have been at the time. These minor towns thus took advantage of the situation to develop lively commercial centers, which must have drawn large flows of immigrants. By the late second or early first century BC, the insula VI, 11 was completely built up. After the political crisis that lasted from 89 to 80 BC, the foundation of the Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum marked a renaissance of the town. Much renovation and restoration work from this period is indeed observable in the insula. Finally, the last building period corresponds to the short time span between two catastrophic natural events, the earthquake of 62 AD and the definitive destruction of the town by the eruption. 3.1. Period 1. The original urbanization of the block (second century BC). Figs. 27, 28 Period 1. The first occupation of the block dates at least as far back as the second century BC. This date is based on that of the cocciopesto floor with large white tesserae53 in the triclinium of one of the earlier units. The first lots to be occupied lie along the north limit and in the middle of the block, whose perimeter may have already been defined back then, assuming that the limestone sidewaks—earlier than the later lava ones—date from this period. Two stretches of these earlier sidewalks were still visible, and hence in use, at the time of the eruption of 79 AD (US 1641, 1642), along the west edge of the block, on the Vico del Fauno. This hypothesis unfortunately cannot be tested without stratigraphic trials, since there is no physical relationship between the sidewalks and the internal structures. The perimeter walls of these early buildings were of limestone opus quadratum or opus africanum, with partition walls in opus africanum or opus incertum, mostly of limestone. Lot 1, of which only the north perimeter wall and a few partition walls in the southwest corner remain, may have been rectangular in plan and measured just above 120 sq m. It extended from east to west in the west half of the insula. Both the reconstructed plan--two rooms opening onto the street with an open space at the back—and the small size of the building suggest that it was a taberna. There are indeed no elements indicating the presence of residential quarters. The original extension and plan of this lot may have already been modified during Period 2. Lot 2, immediately south of the previous one, had an area of about 275 sq m. It had a row of three rooms, two north and one south of the entrance, behind which was a large open area possibly interpretable as a hortus. It is impossible to determine whether in this period it belonged to the unit it bordered on to the east (3). The doorway between triclinium/ala 7 of this domus and the hortus does appear to have been walled up, but since the wall between the two lots (SU 86) is of opus africanum, we cannot rule out that what looks like a door infill (SU 1519) is actually a restoration of one of the opus incertum panels between two limestone orthostats. The space at the northeast corner of the block was occupied, instead, by a domus (3), which was quite sizable (338 sq m), especially when compared with coeval houses. Its northern part has a typical plan: fauces with lateral cubicula, a Tuscanic atrium, and alae, but no tablinum (see § 2.4, unit 10). Beyond the first row of rooms south of the atrium, only one room is well preserved with its original floor, but one can clearly discern the remains of at least two more rooms to the east. Unfortunately, the damages from the earthquake of 62 AD were especially serious in this sector, so that the rooms had to be totally rebuilt. It appears that south of these rooms there were another three, possibly opening onto a garden. We cannot rule out that this last row of rooms, which were incorporated into Lot 12 in the subsequent period, were part of a different property, as they will be in the last period, after the post-earthquake reconstruction.

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Sampaolo 1994b, pp. 76-78. 349


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Of the last Unit, no. 4, all that remains are the west and south limits and very few partition walls, which allows us to do no more than reconstruct it as a building of the same size as the one in Lot 2, 210 sq m. Within the three central lots (5, 6, 7, respectively extending over 159, 217 and 161 sq m), three small domus were built, for which a standard plan can be reconstructed, with testudinate atria and four rooms at the corners. In Lot 5, to the south, there may have been a small garden delimited by four pillars. 3.2. Period 2. The building of the original core of the House of the Labyrinth and the first renovation period (mid-second century BC). Figs. 29, 30 The original core of the House of the Labyrinth was built in the mid-second century BC. The building was originally a large domus (more than 820 sq m) with a standard plan: fauces, a tetrastyle atrium, cubicula opening towards the atrium, alae, tablinum, and oeci. The reception rooms—the tablinum and the oeci—were delimited to the north by walls about 1 m high54 allowing a scenic view of the large hortus (422 sq m, more than half of the surface of the whole property). The domus had its main entrance to the south, on the Via di Mercurio, where it also had a secondary entrance in its southwest corner, which was later closed. To the east, on the Vico del Labirinto, was yet another entrance leading directly into the hortus, which was closed when the large peristyle was built. Even at this early stage, the house was already remarkable for its size and for its good quality First Style decoration. According to the earlier view,55 the house had a double atrium almost from the beginning,56 but our collection and study of all the data shows that the western limits of the western rooms were modified during the third period to open them towards the new space incorporated into the house and close the secondary entrance. Many modifications ensued that led to a radical transformation of the complex. The east perimeter wall (US 843) is longer than the east limit of the lot. This probably indicates that north of Unit 8 was another property (9?), whose rooms were obliterated when the domus was expanded and its peristyle was built. It is plausible that Unit 9, no traces of which remain, extended northward to its border with Unit 6. The first internal modifications and variations of property limits in the north and central units probably date from this period. Notably, in the NW corner, some new partition walls were raised (US 1562, 1577, 1570), reducing Unit 1 to three rooms and incorporating the space to the north of it into Unit 2. No major modifications are observable in the rest of the block during this period. 3.3. Period 3. New properties and second renovation period (second half of the second century BC). Figs. 31-32 Shortly after the building of its main core, the House of the Labyrinth extended into the western half of the insula, which up to then had remained unoccupied, and thus gained an additional 537 sq m. West of the fauces was a rather large room (used as a tool shed in the last period), north of which were other rooms. On the same axis as the fauces and the atrium, next to the west oecus of the main building, another room was built to connect to the other rooms looking out onto the hortus. The new wing to the west of the property may have been destined to receive the guests of the aristocratic owner of the main residence; an alternative hypothesis is that the eastern rooms of the complex of the House of the

During Period 4, high wall panels were raised above these walls all the way to the ceiling, creating large windows (SU 17281730). 55 Strocka 1991; Id. 1994. 56 Strocka 1991: in this scholar’s reconstruction, the sector of the secondary atrium was built in Phase B of Period 2, and is hence almost coeval with the rest of the building. 54

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Labyrinth constituted the women’s quarters.57 In the north sector, a small domus was built (Lot 10, less than 150 sq m), whose entrance was on Vico del Labirinto. Its short western front extends beyond the middle line of the block and occupies a small space that had belonged to Lot 4. On its northern long side is a large opening that led into a garden almost as large as the house itself. 3.4. Period 4. New properties and third renovation period (between 100 and 89 BC). Figs. 33, 34. Building activity in the block was especially lively at the beginning of the first century BC. Within three decades, the insula was almost entirely covered with buildings. A small peristyle was erected in the open area north of Unit 10. The joining of Lots 4, 10 and 12 into a single property, including the three rooms north of the this peristyle, may date from this period. To the south of this large house, another one was built onto two more lots, extending from east to west across the width of the block. The west sector of this house, whose entrance was on Vico del Fauno, comprised two small rooms (possibly commercial in function) and a large hortus. From here, going up two steps, one entered the eastern part of the property, with residential quarters to the north and a service area to the south. Much rebuilding is also observable in the south sector of the block in this period. The aristocratic mansion was further expanded, coming to occupy half of the whole surface of the block. Many changes were made both to the east and the west sectors. The access to the hortus from the Vico del Labirinto was closed, and the garden itself was replaced by a large peristyle of 8 by 9 Doric columns with brick cores and fluted stucco facings.58 These columns, some of which are fully preserved, were taller than 4 m. Seven reception rooms were built along the north ambulacrum. The western sector was transformed into a servile area with a kitchen and other service rooms, and a staircase leading up to the second floor, which covered the whole southwest sector. Finally, in the room east of the fauces, a small underground cellar was built to serve as a pantry. In the same period, the house also acquired the small domus on Lot 7, which was renovated to become the residence of the house manager. There are stratigraphic clues that the lava sidewalk along the south and east sides of the block dates from this period. 3.5. Period 5. Creation of service rooms in the central sector of the block and fourth renovation period (between 70 BC and the earthquake of 62 AD). Figs. 35, 36 During this long period, a few service rooms were created in the north part of Lot 16. The building on Lot 14 was given a second floor, as indicated by the staircase (SU 150, 151) abutting the east perimeter wall (SU 147). Between 70 and 60 BC, the House of the Labyrinth was redecorated (see also § 2.7). The rooms opening onto the north ambulacrum of the peristyle were decorated with Second Style paintings and floors. This is the time when the famous mosaic the house is named after was executed in the west cubiculum. The largest of the rooms of the north ambulacrum was transformed into a Corinthian oecus, the earliest known example in Pompeii, with ten stuccoed brick columns. The secondary atrium and some of the western rooms were also decorated in the Second Style. Fifty years after the major renovation of the south sector of the property, a bath suite with apodyterium, frigidarium e calidarium—also richly decorated, but in the Third Style—was installed behind the kitchen in the service quarter. In this period, or

Maiuri 1954. The columns show two different types of masonry, indicating that some were rebuilt between 70 and 60 BC, a period when various sectors of the house and the block were renovated. The widespread damage observed may have been caused by seismic events or Sulla’s siege of the city. 57 58

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possibly in the subsequent one, two partition walls (SU 1584 and 1497) were built that close the Vico del Labirinto and Vico del Fauno to the north.59 3.6. Period 6. Modifications and renovations between the earthquake and the eruption (62-79 AD). Figs. 37, 38, see also § 2.4 The many restorations and reinforcements in opus latericium and opus vittatum documented over the whole surface of the insula can be ascribed to the short period between the violent earthquake of 62 AD and the eruption of 79 AD. The worst damage occurred at the southwest, southeast and northeast corners. This was also the period when the second floor of Lot 2 was built, and two small service rooms were created, respectively in the south part of Lot 16—which was now subdivided into two distinct properties—and in the last space that had remained unoccupied between Lot 6 and the northern residential rooms of the House of the Labyrinth. Here, immediately south of what had been the manager’s house, a pistrinum was established in the free space in front of the bath suite, with a rustic lava stone floor, an oven, and four mills. Concomitantly, the access to this sector of the property from the Vico del Fauno was closed off. Appendix 1. The management of a complex and multi-stratified archaeological area: the case of Pompeii I) Project definition, assessment of the “state of the art”, and programming of activities to be undertaken to pursue systematic knowledge of the site 1. Knowledge and conservation In the area of Pompeii unearthed so far—not counting the two main squares (the Civil and Triangular Forums), the three public bathhouses, the large gymnasium of the time of Augustus, and the amphitheater—so far 69 blocks (insulae) have been brought to light, and 11 sizable portions of not entirely excavated blocks, so 80 blocks in total. Of these blocks, about ten (8) have so far undergone analytical and diachronic studies whose results have been published. These structures are exposed to weathering and a potentially rapid and, in any case, irreversible deterioration. In some cases, the risk of destruction in the long, middle or short term is high. Because of the extension of the urban surface to be preserved, it is hard to plan forms of integral protection of the site. However, judging from some of the more systematic researches conducted in Pompeii over the last fifteen years, it is expectable that a much shorter time would be required for a general conservative survey of the site (see below, Section 3). The study of each insula should be followed by publication, in book form and/or online, and include guidelines for restoration or an estimate of the conservation of the insula and possible threats. 2. Involving research institutions To plan and implement a general survey of the area of the site within the walls, the Archaeological Superintendency of Naples and Pompeii could seek the collaboration of public research institutions, especially universities. 3. Estimated time Our estimation of the time and costs of a general survey of Pompeii at the urban scale is based on the number and extension of the insulae, the actions to be performed, and the personnel required. 59

Wall SU 1497 overlies the east sidewalk, SU 1444.

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M.C. Capanna, F. Cavallero, S.G. Malatesta Study And Publication Of An Insula In Pompeii

The 80 insulae of Pompeii fall into size classes. On the basis of the average productivity observed in the investigations conducted so far on whole insulae by teams composed of two archaeologists with survey experience, or an archaeologist assisted by a surveyor, the following relationships can be established between classes of insulae, work stages, and the time required for their completion expressed in months (20 working days) per team. From the above data, we can draw a final projection. If at least 10 universities accepted to participate in the projects, considering the average times required for the publication of an insula, in about 10 years (70 years for 80 blocks, divided by the 10 universities active simultaneously on the site) it would be possible to publish all the insulae of Pompeii. If more than ten Italian universities and foreign institutions were involved in the project, an even larger number of blocks could be studied at the same time. Assuming a maximum number of 15 research groups, the time required to complete the project would be reduced to 5 or 6 years. The costs would remain the same. 4. A common methodology Such a systematic and extensive project would require a common methodology. The best experiences in the archaeological analysis of large, multilayered and complex portions of urban sites, carried out in Rome and other centers of ancient Italy, as well as in the study of the Pompeian insulae, offer useful guidelines for a common approach. A proposal for the application of a method for the study of an insula was published in Archeologia Classica 48 (1996), pp. 321-327, and has been applied in some investigations. The main pillars of this approach are the stratigraphic interpretation of structures; the use of ICCD data input forms and stratigraphic diagrams to put in sequence the architectural history of building complexes; high qualitative and technological standards, and a documentation in electronic format; formulating interpretive and reconstructive proposals, including hypotheses for the repositioning of surviving elements of the original furniture and decoration; three-dimensional dot-cloud surveys. II) For a portal of Italian archeological areas 1. Premise: “Luoghi della Cultura” On the internet site of the Italian Ministry of Cultural Heritage and Activities, there is a section entitled “Luoghi della Cultura” (Places of Culture). Here one finds the addresses of, and basic information about, museums, monuments, archaeological areas, archives, libraries and theaters, updated by the peripheral local organs of the Ministry. The office of the Delegate Commissioner for the Archaeological Areas of Rome and Ostia Antica has also devoted a section of its website to communication with the general public and access to the Archaeological Land Information System of Rome. These services could be further expanded by connecting the “Luoghi della Cultura” webpage with a portal devoted to Italian archaeological areas. 2. The portal of Italian archeological areas and the connected websites The portal will provide access to a number of websites, each devoted to an archaeological area open to the public. Each site should include the following sections. a) General information. This section will include all the information on how to get to a site and visit it (opening hours and days, admission fee, guided visits if available, itineraries, etc.). b) Virtual museum of the archaeological area. The main part of the website should be devoted to a reconstruction of the history of the ancient site. The urban landscape and the main or best-preserved 353


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buildings should be illustrated to the general public using a virtual learning path resembling a narrative itinerary in a museum. This section of the site should be created using web GIS applications. In this section, informative material, both for the general public and for specialists, will be available for free or at a cost. c) Visitor services. This section will allow visitors to purchase tickets, request guiding services or specific itineraries, and book meals at restaurants in the archaeological area, if there are any. Through agreements made between the website managers and the companies offering additional services, all the items being sold in the bookshops and museum shops in the archaeological area will also be offered for sale in this section of the site. d) Services for researchers and scholars. A section of the site should be devoted to the relationship between the State administration and the national and international scholarly community. This section will offer information about available archives, and allow scholars to request documentation (photographs, plans, scans of archive documents, etc.) and communicate with the staff. Finally, this section could offer controlled access to any section of the Informative System of the National Archaeological Heritage devoted to a specific archaeological area. All the sections should be translated into the main European languages and at least one or two Asiatic ones (Japanese and Chinese). III) Further future prospects The contents of the computer knowledge bank for Pompeii could be modified for these ends: 1. Creating a model of activities with practical applications, suitable for providing a prototype for action in a complex and multilayered archaeological park. 2. Planning and testing innovative technologies for cultural heritage management and conservation, and for archaeological investigation, as a means to develop new products and help to specialize workers and companies in the sector. Notably, the following could be implemented: ยง innovative approaches and materials for the restoration of floors, roofs, various kinds of structures, green areas and furniture; ยง specific monitoring of the deterioration of ancient buildings as a means to constantly assess threats to structures and decorations; ยง protocols for the diagnosis and monitoring of the deterioration of structures and of the various types of decoration, with a special focus on frescoes and the experimenting of new materials to restore them; ยง software to manage complex archaeological databases, including interfaces for alphanumeric, graphical and cartographic data; ยง new technologies for archaeometric analyses of archaeological contexts (paleobotany, diffractometry, spectrometry, etc.). 3. Promoting less well-known areas in complex archaeological parks. 4. Creating a series of scientific and commercial products. 5. Developing new formulas for the dissemination of data in multimedia formats and Internet. 6. Organizing training and professional refreshment courses open to all operators involved in the project or working for public and private institutions active in the cultural heritage sector; it would be highly desirable to create a center of excellence for the excavation, stratigraphic analysis, restoration and promotion of complex multilayered archaeological parks. 7. Proposing parameters for a preliminary cost assessment for work to be done on individual insulae and over all of Pompeii.

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atmosfere creative: TERRITORIO E PRODUZIONE DI CULTURA CREATIVE ATMOSPHERES: PLACE AND AND THE LOCAL PRODUCTION OF CULTURE



Cultura Arte e Sviluppo The Italian perspective * Walter Santagata, Enrico Bertacchini

Introduzione Questo studio è rivolto a illustrare l’eccellenza della produzione culturale italiana nel campo delle industrie creative della cultura materiale. Un nuovo paradigma sta emergendo nel mondo contemporaneo. Questo paradigma lega l’economia con la cultura e propone una nuova visione unitaria degli aspetti economici, culturali, tecnologici e sociali dello sviluppo, sia a livello micro e macroeconomico. Al centro del nuovo paradigma si trova la nozione delle industrie creative e culturali, un macrosettore in cui la creatività, la conoscenza e il valore simbolico di beni e servizi sono sempre più riconosciuti come potenti motori che favoriscono la crescita economica e promuovono lo sviluppo dei territori in un mondo globalizzato. Le industrie creative e culturali possono essere definite come quelle attività in cui il ciclo di creazione, produzione e distribuzione di beni e servizi utilizza la creatività e il capitale culturale come input primari. In Italia, il Libro Bianco sulla Creatività (Santagata, 2009) promosso nel 2008 dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha individuato tre settori principali di industrie creative e culturali: le attività connesse alla valorizzazione del patrimonio culturale (architettura, patrimonio, servizi efficienti e arti visive), le industrie del contenuto e dei media (editoria, cinema, musica, software e pubblicità) e le industrie della cultura materiale (moda, design industriale e artigianato, e industria del gusto). Queste rappresentano le tre principali sfere in cui la creatività entra nei processi economici e sociali di produzione culturale. Oggi, nei paesi più avanzati le industrie creative e culturali stanno emergendo come settori strategici per rilanciare la crescita economica, l’occupazione e la coesione sociale. In Italia le industrie creative ben rappresentano il meglio della presenza del nostro Paese sui mercati internazionali. Di seguito presenteremo tre ricerche che costituiscono casi emblematici: quello della moda e dell’industria del lusso, quello della gastronomia e della creatività nel cibo e infine quello del design industriale e dell’artigianato. Nell’insieme il messaggio che ne emerge è di grande rilevanza, sia per la dimensione economica di questi settori, sia per l’innovazione tecnologica e i contributi creativi che li caratterizzano. Il nostro punto di vista è principalmente di tipo analitico con riferimento alle articolazioni dei mercati in cui i tre tipi di beni e servizi vengono prodotti e scambiati. In altre parole, invece di ripetere dati ed esercizi noti di misurazione, ci interessano più le caratteristiche e le dinamiche interne dei tre campi che non i loro attributi meramente quantitativi. In questo senso largo spazio è dedicato allo studio di nuove tendenze e ai confronti internazionali, nel tentativo, speriamo riuscito, di delineare un modello italiano di produzione di cultura.

* Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la disponibilità e collaborazione di numerose persone, imprese e organizzazioni che nel corso delle ricerche e nei loro settori di competenza ci hanno fornito consigli, dati e informazioni. A loro va il nostro sentito rigraziamento. La responsabilità di quanto si afferma nel libro è esclusivamente degli autori. 357


Culture, Art and Development The Italian perspectiVE * Walter Santagata, Enrico Bertacchini

Introduction The purpose of this study is to illustrate the excellence of the Italian cultural production in creative industries dealing with material culture. A new paradigm is emerging in the world. This paradigm combines economy with culture and offers a new unitary vision of the economic, cultural, technological and social aspects of development, both on a micro- and macro-economic level. At the center of this new paradigm, lies the idea of creative and cultural industries, a macro-sector in which creativity, knowledge and the symbolic value of goods and services are increasingly acknowledged as powerful forces, which favor economic growth and promote development in the globalized world. Creative and cultural industries can be defined as the activities in which the cycle of invention, production and distribution of goods and services uses creativity and cultural capital as primary inputs. In Italy, the Libro Bianco sulla CreativitĂ (Santagata, 2009) promoted in 2008 by the Italian Ministry for Cultural Artifacts and Activities identified three main areas associated with creative and cultural industries: activities aimed at promoting the cultural heritage (architecture, efficient services and visual arts), content and media industries (books, cinema, music, software and advertising) and material culture industries (fashion, industrial and artisanal design, the industry of taste). These are the three main areas in which creativity becomes part of the economic and social processes of cultural production. Nowadays, in the more advanced countries, creative and cultural industries are rapidly emerging as strategic sectors for jump starting economic growth, employment and social cohesion. In Italy, creative industries represent the best of Italy on foreign markets. In the following pages, we will present three researches on three emblematic areas: the area of fashion and luxury industry, the area of food and creativity in food, and, finally, the area of industrial design and crafts. The results highlight the significance of these sectors, for their economic size, their innovative use of technology and their creativity. Our perspective is mainly analytical with a focus on the characteristics of the markets on which the three type of good and services are exchanged. In other words, instead of focusing on merely quantitative aspects, offering easily available data and traditional analyses of the same, we focus on the defining features and internal dynamics of the three sectors. Much room is devoted to the study of new tendencies and to international comparisons, in what we hope is a successful effort to outline an Italian model of cultural production.

* This work would not have seen the light without the help of many individuals, companies and organizations that provided advice and information during our research. We wish to extend to them our most heartfelt thanks. The authors take sole responsibility for all that is stated in this book.


INTERNATIONAL CHANGE AND TECHNOLOGICAL EVOLUTION IN THE FASHION INDUSTRY Andy Pratt, Paola Borrione, Mariangela Lavanga, Marianna D’Ovidio

The aim of this research is to sketch out the parameters of the fashion industry. Whilst, without doubt fashion is a means of personal and cultural expression, it is also an industry. The industrial and economic aspects have been relatively under-researched. We highlight the fact that the fashion industry is fast evolving, and growing. Traditional economic analyses have under-examined some of the crucial drivers of change in this sector but these are all important issues for a number of reasons. First, the local and global consequences of the transformation of the fashion industry help us to understand the challenges facing urban and regional economies, particularly in Europe. Second, the fashion industry, like the cultural industries more generally, is leading a new form of economic development that blends qualitative elements and quantitative forms, a culturalisation of economic action. In so doing we also raise three questions, one has already been alluded to: what is the ‘fashion industry’; and following this, a second: is the fashion industry the same, or different, to other cultural industries? Finally, in relation to the dynamics of change, we point to the role of situatedness: the importance of place and institutional embedding. More precisely, fashion generates symbolic goods which are characterized by the reference the place of origin and the evolution of the generations of creators (Santagata, 2005; Barrere and Santagata, 2005). Time and space, typically the two closest features of fashion, are expanding their scope: the time has accelerated its pace to become fast fashion and the space has expanded to the global. Finally, new technologies have effectively redefined the analytical framework enabling new physical and social innovations and a new re-centralization of production and control of distribution in the places of origin.

1. A global perspective of Fashion production systems Fashion is a system of bodily display, derived from around costume, and extends to jewellery, luggage and perfume shading into a broader definition of luxury goods. Fashion is normally characterised both as forms of everyday clothing and as luxury rather than utilitarian needs. A further defining characteristic, one which gives us the noun ‘fashion’, signifies a constant and shifting value system whereby items may be deemed in or out of fashion, and hence symbolic revaluing leads to their cultural and economic value being repeatedly and quickly transformed. Stated in these terms the focus is on the changing patterns of objects and their consumption: fashion being a particular case of all consumption. The question follows: is fashion an evocation of a trend, or an industry? The answer is both. In the former sense it is a contested and dynamic information stream that constitutes and defines value. Fashion is time-based and culturally situated in character; it is a combination of design and innovation and, as such, its qualities are context dependent and relationally, not absolutely, defined. In this sense fashion can be a constituent of any product. Some have argued that increasingly the design, or fashion component, of all products is expanding and hence this aspect is becoming an important part of explaining industrial growth and change. The critical aspect is not the proportion of a product that may be ‘design related’, but that of product differentiation through which the crucial buy/not buy decision is made primarily on the basis of design or fashion, not on price alone. This is what is referred to as the culturalisation, or we might say the fashioning of indus359


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try (Scott, 2000). In this sense it may be argued that all industries are becoming fashion industries. This has serious implications of the explanation and understanding of the practices of economic action that are normally based upon the (economic and cultural) values that are not so acutely time, or context, dependent. It may be exceptional, or an indication of things to come, but the dynamism of values and shifting product differentiation, and the production re-organisation that are required to sustain it, are the essence of the cultural and creative industries, and the fashion industry in particular. A second perspective we can regard fashion is as an industry in the conventional sense such that raw materials are transformed and worked upon, reproduced in large quantities, and exchanged in a market. Fashion clothing is the product of distinct skills, institutions and commodities in their unique combinations. In the past the higher value-added end of the fashion industry may have been relatively autonomous from the economy, and it was considered to be a discretionary item. However, now we are in an era where fashion has become a shaper, in some cases a driver, of other industries and whole local economies. The fashion industry is a combination of the textile and mass clothing industries, as well as those of fashion design and haute couture. This is an unwieldy amalgam, both unstable and subject to continual reformation, which is leading the evolution and dynamics of the contemporary fashion industry and the shifting boundaries of the mass and luxury markets. The shifting boundaries of the fashion industry In the past the fashion industry was commonly defined as a small subsection of the clothing industry; it was formerly simply associated with Haute Couture, or the elite design elements of fashion; mass production, and mass market goods were seen as separate (and considered to be ‘normal’ industrial goods). The slightly wider definition of ‘luxury goods’ has often been used to indicate a common concern with the horizontal marketing of associated goods via association, a lifestyle; but still focusing on goods that have a very high selling price to manufacturing cost ratio: the premium is the design. On one hand this makes the fashion industry very similar to other cultural industries: managing new properties and bringing them to market. On the other hand, the legal position is different between music and fashion, clothing is not protected by copyright, although logos are; hence, on one hand, the proliferation of logo as design as a means to protect clothing from copying; on the other hand, speed to market has often been sufficient protection for rapidly changing product lines. Whilst luxury rather than utilitarian clothing is our concern, this delimitation has some instability and permeability so we need to be aware of the industry as a totality. As noted, the current phase of capitalism has led to a culturalisation of all industries, hence giving import to the symbolic creators as well as to efficient manufacture; in this sense fashion is a classic cultural industry. Additionally, we can point to the fact that fashion products have benefited in many developed countries from the increase of income levels, which have turn into relative and absolute flow of cultural consumption. This expansion of existing markets has also been dwarfed by the growth in wealth and expenditure of the developing world, especially a growth dominated by young and aspirant middle class consumers. As a result, fashion is no longer confined to a North American-European elite. The future markets for fashion will be in the BRIC economies, and less in Europe and North America. Clearly, the market for all cultural goods, including fashion, is growing; however, this is only half of the story, as a significant shift has occurred in the organisation of the fashion industry, it has not simply expanded evenly to meet demand. Initially the industry was bifurcated between a very small elite haute couture and mass consumption; however changes in retailing in the mid 20th century increasingly drove the expansion of the ready to wear market (Breward, 2003). Along side, but in dynamic cultural tension to both, has been the growth of a distinct ‘youth market’ that has its own subdivisions of one off and mass production tied in closely to the cultural industries and popular culture, especially the music industry (McRobbie, 1989). All segments bear a close relation to one another. Finally, there is the mainstream fashion that blends into utilitarian clothing, the low cost, low margin ready to wear: it 360


A. Pratt, P. Borrione, M. Lavanga, M. D’Ovidio International Change And Technological Evolution In The Fashion Industry

is a continuum of markets rather than strict sub-division, the same goes for organisation. Haute couture has its main focus on the designer and the style leader, the mass clothing market on the low cost per item. In between is a complex space that has undergone change and growth; it is the strategic space that has been addressed by designers, makers and retailers/ distributors using various innovations of product and process. What is apparent is that whilst cost remains critical in this field, it is part of a mix rather than the final determinant; information (positioning, quality) is even more important in terms of eventual sales in the growing ready-to-wear markets. Varieties of Fast Fashion The fashion and luxury industry is currently experiencing a tension between the power of money, manufacture, or retail. The money dimension is where the power of a holding company to balance risks and to maintain an investment fund has sustained large entities that sustain brands and exploit horizontal and vertical integration (by associating other lifestyle co-brands that cover perfume and luggage). The LVHM and PPR groups are profound examples of such an approach, as the smaller focused companies of Armani and Gucci (Crane, 1997; Djelic & Ainamo, 1999). In many respects this is a normative industrial strategy built around design expertise and control of intellectual property via super-branding, and sustained by heavy investment, as well as advertising. The real battle, however, has been in the organisational space of manufacturers and retailers in the mid ready to wear market. European manufacturers have been severely threatened by low cost labour competition from Asia. The traditional low cost, mass market, slow fashion turnover market has more or less left Europe. Initially, there was much hope that the value added design and marketing, or even higher value, higher skill, ready to wear might be maintained in Europe in the 1970s based upon superior craft skills, this was not to be. In the 1980s the notable transformation of industrial districts in Northern Italy provided models of how these craft skills coupled with short and flexible production chains, and flexible production systems could respond and maintain a market niche with high quality fashion against the competition of low cost, low skill volume producers (Brusco, 1982; Dunford, 2006). The debate was about the ‘new competition’ based on quality (Best, 1990), which it was felt that European producers had a competitive advantage for (Zeitlin & Totterdill, 1989). Retail has always been an area of potential competitive advantage in the fashion industry. Since the growth of the ready to wear in the early 20th century retailers have grown in power, and in classic commodity chain fashion, they have used their purchasing power to define price and quality from producers. Thus, the power of retailers has been enormous, as they have sought to define and drive their fashion positioning with own label collections. Here initially the focus was on the buyer to acquire, and then drive (through production), what was to be in that season’s collection. Thus, products were, due to the long production chains and time lags, a distant echo of the cat-walks. Successful retails sought to manage such disadvantage by making a virtue of ‘standard’ and ‘basic’ fashion ranges. This generated fierce price competition amongst suppliers, with obvious implications for low pay at best, and exploitation at worst. The over extended supply chain, and lack of oversight of labour conditions has been a common consumer activist challenge for clothing retailers. In this context, retail is the field of Fast Fashion that contains the most striking of organisational innovation today (Tokatli, 2008). This has led to a blurring of the boundaries of manufacturer and retail. Whilst manufacturers were experimenting with flexible specialisation production, the retailers were concerned with stockholding. One early innovative strategy was pioneered by Benetton which was to link sales data directly with the ‘just in time’ dying of woollen goods (Belussi, 1997). Mass production could thus take place in a neutral colour, and items dyed more or less as trends shifted. This just in time system favoured short delivery times, and physical proximity; it was in effect a technological upgrade of the industrial district. This process linked production and consumption, not simply other producers (the industrial district model). 361


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Zara took a step further (Segre Reinach, 2005). They focused less on design and more on translating selected high fashion catwalk designs into mass production, quickly. They were able to use their productions systems to capitalise on speed and sufficient quality to stock stores. Those coming solely from retail, such as Top Shop, H and M, and Forever 21 have pushed the concept further still (Hauge, 2007). The notion of speed is not simply copying a design and putting it into mass production, but one of shortening the ‘season’. Traditionally, the fashion season echoed the annual cycle: spring and autumn. However, the new competition has driven the speed of fashion turnover to between 4-6 weeks, or less; this created huge logistical challenges: this means that production runs of clothes are shorter and change more often. In the internet shopping age retailers have sought and succeeded in retaining the focus of competition on the store. The current battle is to attract consumers to view shopping as an event, one that they must return to at regular intervals. Retailers now have plans for regular complete shop refits, and deliveries to store as often as twice a week. Moreover, inventories are not only lowered in warehouses, but are shortened to purposefully sell out of stock at stores. The trade off is that advertising is less. For example, Primark, a UK fast fashion operator, claimed to do no advertising the money being invested in logistical costs instead. The anticipation is of an instant decision to buy is not premeditated or prompted advertising but to create a frenzied atmosphere in store where if items are not purchased immediately they will be no longer obtainable. It was an early claim of Zara that the fast fashion model was one that would keep clothing production in Spain, and Europe as a whole. It is a sign of the times and an indication of yet another transformation that the European manufacture strategy of Zara is now international. However it is not simply a reversion to an earlier model of using low cost production. This is yet another iteration of hybrid production form where ‘low cost producers’ are themselves increasingly high skilled, and design initiators. Zara and similar companies seek to mobilise an international production chain as well as international design components innovated by manufacturing suppliers. The focus on the fast turn over of retail sales means that companies like Zara find it profitable to ship half full containers across the world, or support higher labour costs locally, to ensure a timely flow of stock turnover: A triumph of a product’s unique qualities over that of price alone . Clearly one of the tensions in these transformations is the investment – or lack of investment - in design. As we have noted copyright does not apply to fashion and hence under-investment in new design and innovation is a potential consequence of fast fashion, which cannibalises every new trend as quickly as it makes an appearance on the catwalk. A new niche has emerged: the ‘cool hunter’, or the ‘fashion blogger’. No longer are stylists researching in museums and libraries for past fashion inspiration, now style books are constructed from what (extra) ordinary people wear in the street and are blogged internationally, or sourced to fashion companies. However, despite the apparent outsourcing of design the ‘spotting’ skill still remains in the editorial process of the intermediary, or the designers’ skill in making up novel designs. These capabilities are the strategic weakness of fast fashion. A fixture of the last century has been the seasonal fashion displays highlighting future season’s collections. These are under threat from the retailers cutting of the fashion season. The fashion show performs multiple functions; in particular it is a way for the fashion production system to meet face to face. In fashion as in other cultural industries this temporary network form, that mobilises dispersed international flows and mixes them with local connections is a vital part of the tacit information exchange and trust relationship that underpin cultural production. Another function is for fashion shows to be a showpiece for the city, and a means of attracting tourists or foreign direct investment. An increasing number of city authorities are now sponsoring a fashion week in the hope of getting on the fashion map, and attracting publicity (Weller, 2008). So, there are future questions as to the precise role of the fashion week in this emergent system. Beyond this yet another flow of information - carried on backstage, that of fixing the colours and fabrics for next season but one. On one hand producers can react to the cat walk, on the other hand they need to ‘tool up’ with what will be the necessary materials so that they, and associated luxury producers, can lock step with the designers to keep a coherent trend going. The debates about fast 362


A. Pratt, P. Borrione, M. Lavanga, M. D’Ovidio International Change And Technological Evolution In The Fashion Industry

fashion, and the struggle between retailers and manufacturers should not lead us to forget the threads that literally bind the industry from cotton, silk or artificial fibre producer to finished clothing. The emergent picture of the fashion industry is one that is complex and swiftly changing. The most dynamic fields concern logistics, time and information. Paradoxically, the adopted strategies are working to neuter simple cost advantage. Arguably, the history of the last century of fashion has been the battle for control and expansion of the ready to wear, where a complex trade off between cost and qualities has taken place. As we have noted the latest iteration is ‘fast fashion’. However, all fashion is fast, and it is clear that there are multiple strategies within ‘fast fashion’, and neither time nor cost are the sole criteria. As a simple way of comprehending this complex field we propose here a new map of the fashion industry.

Fig. 1. The strategic challenges, and recent solutions, of the fashion industry. Le sfide strategiche e le recenti soluzioni dell’industria della moda.

The diagram seeks to summarise this space as characterised by three sets of tension between Low Cost, High risk, and Design intensity. The place-holders at the low cost end are the traditional subcontracted manufacture. The traditional product is simple, generic and low design and utilitarian fashion. The design intensive node is that of the couture provider, high cost, one off, and with lots of investment in design and innovation and governed by the fashion season. Traditionally, the ready to wear goods would lie on a continuum between these. Arguably, the new position, made possible by extreme logistics: it is a way of playing both ends off against one another, by using technologies to minimise risks. So, fast fashion is an example of low cost, design-selected product, which will have a very short shelf life, survives. In between there are a number of other possible spaces to occupy. Fashion brands reduce risk by wrapping new design in safe packages. Other strategies might be youth / street fashion that lies somewhere in the middle. As will be clear, any particular strategic position is a trade off between competing dimensions; the precise positioning of any company depends first upon their organisation (if they are a retailer, manufacturer, or designer, etc.). Second, the strategy has to be flexible and responsive to local circumstances. This ‘embedding’ is a fourth dimension of strategic positioning. Finally, another dimension, thus far ignored, is the recycling of clothing from the west to the global south. As well as providing a reuse for short used clothes, it is also building a demand for branded clothing in some of the worlds poorest markets such as West Africa. 363


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If this is the current state of the art in the global fashion, we have to move now to the analysis of the technological frontier. As we will see new technologies are a growing fields of action, appreciated both by consumers and fashion producers. This new trend is also emblematic of a new phase of recentralization to the western countries production, maily based on ICTs and on the green ideology. 2. Fashion and technology: innovation strategies in business models, brand communication and marketing. The field of fashion is nowadays rich of creative and innovative trends, which involve changes in business models, new communication strategies, emerging patterns of consumption and new production techniques and materials. Crucially, these new trends are mainly the result of the integration between the fashion system and current technological advances. Innovation in business models Technology and fashion have become an indissoluble combination. On one hand, the technology affects textile production and packaging, communication and distribution, transforming the entire production process, on the other technology has become an integral part of products. The recent technological and infrastructural evolution in e-commerce is leading to the development of new business online models in the fashion and luxury segment. Below, we present and describe the most innovative models, namely personal subscription, social merchandising/crowd-producing, mass customisation and collaborative consumption. Personal subscription Through Personal Subscription consumers join a monthly club and fill out a survey to identify their style preferences. Then the system shows them a selection of products each month that they can choose to buy for a flat rate. From the customer viewpoint this is a mean to select products according to their style and to choose a regular amount of money to be spent on clothes and accessories. In economic terms this model reduces search costs and transaction costs for consumers. From online retailers’ point of view, it generates more predictable revenue streams. Personal subscription is the natural evolution to the private sale push model like “Vente Privee” and “Saldiprivati”. Some examples of Personal Subscription models are: Shoedazzle (3 million members); StylistPick, Beachmint with its specialized clubs Jewelmint, Stylemint, Beautymint and Shoemint; Birchbox that has its Italian competitor in Beauty Box. Social merchandising and crowd-producing This second model is based on user-generated content, comments, reviews, posts on blogs, links, articles, made by non-expert contributors. Since there’s a growing segment of consumers search online about products before purchasing, user-generated content has become an important part of the data used in the decision-making process. People ask other people for advise about the best product to buy, the reliability of the online seller, on the use of products and services and the level of satisfaction. These contents could also be used by the online fashion shops and brands as feedback for social merchandising and for crowd-producing. In the first case they display ratings, likes, comments and (in some cases) purchases on their website or on social network like Facebook to grab the attention of prospective customers and influence his shopping experience based on the prior contacts of social network friends with the website. Secondly, 364


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they could use their most creative customers to produce high level content. For example Threadless, Polyvore and Macy’s Fashion Director let consumers share looks that combine several items and then promote them virally to drive sales. In this way they have new and creative content, increase customers’ loyalty through deeper engagement with the brand, increase sales through compelling new product ideas and could identify new trends before competitors. Mass customisation In the past, luxury goods used to be highly customized and expensive products based on the buyer’s personal preferences, tastes and budget. But as mass production began to replace craft production as the dominant form of economic activity, the opportunity and the economic viability of high customization and differentiation of products lost its strength. Today, the rise of a new business model, called “mass customisation”, enabled by technological innovations brings back individuality in the product design process. Mass customisation is a production model that combines elements of mass production with those of bespoke tailoring. The pioneer of this business model for fashion system is Levi Strauss, which in 1994 lauched its Original Spin jeans for women. Customers were measured in its stores and their details were sent electronically to Levi’s factory. The customised jeans were then cut electronically and mailed to the customer. The secret of this process is called modularity: the company creates a series of standardised production modules, which can then be assembled in a varied and innovative way. It is necessary to identify which key elements of a product could be customisable (according to production feasibility and costs) to offer the right degree of variability still ensuring manageable and scalable production. In fashion, mass customisation extends the promise of clothing that’s perfectly designed to fit the individual at low price. For the luxury fashion industry, this represents a significant opportunity for companies of differentiate themselves vis-à-vis competitors and build stronger, more engaged and loyal relationships with consumers. Furthermore, one of the elements of interest in mass customisation is the possibility of co-design of the product: customer could choose styles, colours, materials and give their measurements to get the exact products they want, given the proposed choice. This feature favors the reduction of what some authors define ‘the sacrifice of the consumer’, that is the cost of the necessary adjustment that a customer has to put in place when buying a standardised good. Furthermore, Mass Customization models enhance customers’ brand loyalty and provide the company valuable information about the colours and designs that come first in preference among their customers. Louis Vuitton with Mon Monogram, Prada with Customize, NikeiD and Burberry Bespoke are the most known examples of projects of mass customisation. Collaborative consumption Collaborative consumption refers to all the forms of peer-to-peer marketplaces and platforms, where people could swap, share, or rent products that normally are outside of their economic reach. Sellers can get rid of used or depreciating assets, while buyers can consume the items’ residual value at a price that is substantially cheaper than retail. This model includes also secondary market for preowned luxury goods, such as Covetique. Sellers send their products to the site, which holds them on consignment until they are sold and play the function of authentication of items and of their quality. This model is at its first steps: we can identify a key player – Rent the Runaway – with its 1 million members, but also several local groups using Facebook or other social network as exchange platform. Other platforms, like Lyst, help users keep track of the time when an item shown on the runway is available for purchase, aggregating all useful informations in one place. These platforms have also the 365


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function of “social filtering”: users can follow other people who have similar tastes and styles and this can help discover pieces that they might be interested in. Innovation in marketing and brand communication The shift of fashion models from being brand-centric to being consumer-centric is also evident in fashion communication. The traditional players -newspapers, magazines - are losing ground in favour of online communication, often created by a new category of “non professional” experts. While fashion has always been led by a small elité such as the top brands, a handful of celebrities and a few magazines,, nowadays, with fashion blogs the entire flow of information is changing. Fashion blogs and bloggers are emerging as key players in the fashion industry as new means of communication, new marketing tools and new form of professional career. Nowadays, “regular” people from all over the world are becoming the biggest voices in fashion via their blog. Fashion bloggers are becoming fashion influencers — a title, in the past, that was only given to celebrities. Even top designers and major labels are buying into this, requesting fashion bloggers to be at the front row of Fashion Week and other star studded events. Fashion blogs have some interesting characteristics as compared to traditional media: they have an advantage in time effectiveness compared to magazine publishing and they are also effective media for fashion forecast. Blogs have made it possible to have a direct line with the general public. Companies such as Mod Cloth, h&m, Birchbox and American Apparel are all starting to bypass the traditional press, talking directly with personal style, beauty and fashion bloggers. Product innovation Another aspect of the relationship between fashion and technology is the transformation of fashion goods in technological products. While the production of high-tech fabrics were traditionally directed to sportwear, to ensure maximum comfort and performance, in recent years we have indeed seen the prototype and the production of wearable technologies for leisure and luxury clothes, whose deployment is permitted by the development of research to make flexible the components of electronic systems, such as silicon. The new wave of wearable technologies and gadgets, from the Google Glass to the app Pebble watch, signals that wearable tech is ready to move out of science-fiction movie, onto our lives and bodies. One of the first technologies used was the OLED, organic materials capable of emitting light flexible if fed by electric current. The OLED technology allows the printing of such material on almost any media, including tissues, thus allowing the development of bright fabrics. Another technology that is having interesting developments is the integration of computer systems to textile fibers to capture and share information from the body and between people, either for medical and social purpose. Some applications are designed to measure the vital signs of individual who wear a particular dress or to charge the batteries of mobile phones or MP3 players via an integrated solar panel. Others, however, integrate in clothes devices that allow to connect to social networks and to exchange data (music, pictures, phone numbers), by touching, as AngelDevil Touch. In addition to the wearable technologies, applications also include smart materials such as phase change materials for active thermoregulation for sportswear or breathable membranes in memory shape polymer, which vary their permeability to vapour as a function of temperature. A further phase of the relationship between technology and fashion is represented by 3D printing capabilities. 3D printing, also called additive manufacturing, is the process of making three dimensional solid objects from a digital file. The items are obtained by a printing process adding one another, different levels of material. This process is faster than weaving textiles or making accessories, and opens up enormous possibilities for bespoke (custom made to order) clothing: using laser beams to fuse 366


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layers of recycled plastic powder into shape, fashion designers are now able to make seamless, perfectfitting clothing from 3D laser printers with virtually no waste. For example Iris van Herpen, one of the most prominent fashion designers (Lady Gaga and Björk are two clients of this 27-year-old Dutch fashion designer) realised some prototypes dresses with 3d printer, while Pauline van Dongen has made 3D-printed high heel shoes. Another project is the N12 bikini designed by Continuum Fashion. This is the world’s first ready-to-wear, completely 3D-printed article of clothing. All of the pieces, closures included, are made directly by 3D printing and snap together without any sewing. Among makers in Italy that have been working in the field of fashion we can mention: Riccardo Marchesi, a businessman in textile machinery who has reinvented his work with the project Plug and Wear and manufactures smart textiles with electronic sensors; Zoe Romano, media activist and co-founder of the collaborative fashion project Openwear; and Serpica Narothe the first open-licensed brand. Ethical, green and handmade fashion A final innovative trend in the fashion industry refers to ethical fashion and green fashion and a return to craftsmanship. These are three facets of the fashion system that share a common care for the environment, the sustainability of production, the respect of workers and resources. By selecting and certifying the materials and by investing in sustainable production systems, ethical and green fashion has been a growing phenomenon for about 15 years, as indicated by the research presented in the workshop of the International Trade Centre Ethical Fashion in Rome during fashion shows. The pioneering brands in this context have been Stella McCartney and NOIR, which were founded on the basis of ethical principles near the turn of the millennium. Now there are entire fashion exhibitions, blogs, websites, focused on so-called sustainable fashion. The use of biological tissues, of certified and sustainable chain of production, are all aspects linked to ethical fashion production, nonetheless every firm stress on of these aspects. Some emphasised a commitment to traditional techniques, others pointed to locally sourced materials, while still others mentioned the importance of reducing carbon footprint. There’s still a lot of confusion on the definition of ethic fashion. In recent years we can also observe a tendency to ethic luxury: cosmetics, accessories, high fashion clothes from renewable resources. For example, LVMH, the luxury group of Bernard Arnault, holds the 49 percent stake in Edun, the sustainable clothing label founded by Bono and Ali Hewson. Interestingly, while Italy is one of the most important markets and producers of biological food, the market of bio and ethical fashion products is still underdeveloped. In this context, leading success cases in the taste and food system could be taken as example to enhance the production and consumption of such fashion products. But is sustainability a positive differentiator in fashion demand? Environmental awareness amongst fashion consumers is rising, but in fashion, sustainability cannot drive sales without desirability. 3. The changing role of fashion fairs as intermediaries According to Caves (2000) intermediaries or gatekeepers (for example art dealers, book publishers, film distributors) can be defined as those who “decide whether the prospective value of [an artist’s] creative output warrants the cost of humdrum inputs needed to place it before final buyers” (p. 19). In other words, gatekeepers are legitimised to select, describe and evaluate cultural products and, at the end, decide what to put on the market. Gatekeepers are mediators between producers and consumers, but it is clearly not a one-way relation. Their role is not neutral (Towse, 2003). By selecting and deciding what consumers can buy, they have an active role in affecting both the cultural production and the cultural consumption. 367


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Each cultural industry has clearly its own sets of intermediaries that select and recognize a work as creative, promote and bring it to the market. Various intermediaries shaping the development of the designer fashion industries can be identified, ranging from “old” intermediaries such as stylists, models, photographers, magazine editors and journalists, sales agents, buyers, fashion forecasters, PR agents, fashion weeks and fairs, fashion-related educational institutions to a range of “new” intermediaries such as marketing and consumption websites, social networking websites, fashion bloggers. Those intermediaries determine what the consumer will see or hear. Less than a decade ago, the fashion world was exclusive and relied on scarcity of opinions and information. In recent years the fashion world has entered the new media revolution and new ways to be closer to consumers have been developed. Media reporting, be it online and offline, is an important part of the fashion distribution. More and more often, people want to buy what they see in magazines or on Facebook or in their favorite fashion blogger site, or wore by their favorite celebrities. That’s why we can see a rising in old and new media reporting on social events - from fashion runways shows, to celebrations of a fashion designer or maison, to opening of new flagship shops, to film festivals, galas and so on. They are fundamental in cultivating the buzz and awareness around this industry. Apart from media, other intermediaries have a special role in the fashion industries: stylists, buyers, showrooms and fashion fairs. In order to be seen in those media, online or offline, fashion items need to be first selected by stylists and buyers. The first ones are important for editorials in magazines or by choosing what celebrities wear, the latter are important in determining what will be in stores, so what will be at the end available to buy and wear. Stylists and buyers can be directly in contact with the fashion designers, but more often they choose what to shoot in their editorials or what to buy for their stores attending fashion weeks, fairs and showrooms. Buyers have to deal with a lot of issues related to their store, which included also working with finance, with interior architects, management and training. In addition they are also involved in the definition of the identity of the store. This is very relevant to position and differentiate themselves. Typical examples are shops like 10 Corso Como in Milan, L’Eclaireur in Paris, and Luisa Via Roma in Florence. Let’s not forget that fashion trends can be set by designers, trend forecasters, old and new fashion media, buyers and so on, but they can also and more often originate from urban subcultures. At the end the relation between what consumers demand and what suppliers offer is a dynamic one. They both are influenced by and influence each other in a complex and multi-dimensional way (Hauge, 2006). In conclusion, we argue that there is a complex intertwinement of roles among intermediaries, designers and consumers reflecting the complexity, fragmentation and segmentation of the fashion industry. History, evolution and role of fashion fairs As already highlighted in the previous paragraph, fashion fairs, together with fashion weeks and showrooms, constitute central intermediaries in how fashion reaches buyers and consumers. One of the few scholars who have analyzed the role of trade fairs in the global fashion business is Lise Skov (2006). She highlighted four main characteristics to define the type of fair: a) the type of clothing (e.g. women’s wear); b) the market segment (e.g. from high end to low-end); c) their place in the value chain (e.g. from upstream to downstream, that is from raw materials to consumer markets); d) the geographical dispersion of the fashion industry. Skov (2006) proposes the term “intermediary fairs” to distinguish the contemporary way in which fairs operate. She argues that fairs are not anymore attached to and showcasing the regional production base (what has been called “export fairs”), but they act as nodal points in geographically dispersed production systems. “Fairs are essential for the social organization of time and space in the territorially dispersed fashion business” (Skov, 2006: pg. 781). Those are special events in time and space that group together all the most relevant actors in a particular segment of the fashion industry; fairs help to hold 368


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economic network together rather than to spread them around. What is clear is that in order to remain important to the fashion business, fairs had to change their role and redefine themselves as global intermediaries with a cluster of new functions and services. Originally the production seasons were only two, winter and summer: in January the collection autumn-winter of the same year was presented, then two or three months of sales and in August the production started. At that time, fairs were the only place where buyers could see new clothes and make their orders. Fairs were mostly trade places. Today, the rise in number of production seasons (from only two to almost monthly delivery of new garments) has reduced the role of fairs as unique trading places. “We are present at Pitti, Tranoi, Première Classe in Paris. Fairs are certainly keeping an important role as a platform for enhancing visibility and for launching a new product, but they last for few days. Beyond fairs, we rely on a very good multi-brand showroom like Massimo Bonini for the entire sales period of three months and we are in well-known multi-brand stores such as Luisa Via Roma or Antonioli” (D. Mariniello, personal interview). With a short production cycle the risk that consumer tastes change is lowered; moreover providing new garments more frequently guarantees that consumers will return to the (online) shop regularly. Buyers, therefore, need to buy fashion items more than twice a year. This speeding up of the production system requires even stronger networks between designers and buyers, between production and distribution. This has also increased the importance of showrooms. While fairs and fashion weeks only last for a week, showrooms can keep the collection for three months. Moreover, few brands present their entire new collection in a fair; most of them do it during fashion weeks or in the showrooms. “When I was a buyer for my shop in Antwerp, I was going to a lot of fairs. Fairs were commercial events, to buy, to see your competitors but they were also social events, we were going together for dinner. In Paris you could stay more than a week. After the fashion week you could go to visit all the showrooms. Today it is a lot more commercial, it is too hectic, too expensive, you go for less days and you do not have time for social gathering“ (L. Loppa, director of Polimoda). “In the past buyers were actually writing orders during the fairs, they would seat and write down everything, there was a queue of them. Today the main reason to attend the fair is to see the different collections. In particular buyers from department stores don’t write the order, they just pass by the stand and pick up the look book” (B. Cavallini, personal interview). Places where production and distribution can meet have enormously risen in numbers. To remain attractive, fairs had to add new services and deal with different overlapping purposes. Apart form offering a place for trade, they also have to allow networking and knowledge creation and dissemination. Fairs can be seen today as “a social setting in which different types of encounters take place, including encounters for trade, networks and knowledge [creation and dissemination]” (Skov, 2006: pg. 781). The historical evolution of Pitti Immagine will illustrate better how fairs have changed, are changing and the complexity of the intermediaries’ roles in the fashion industry. The case of Pitti Immagine One of the most important institutions in the world to organize fashion-related fairs and events is Pitti Immagine in Florence. The origins of Pitti Immagine have to be found in the fashion-related activities organized by Giovanni Battista Giorgini in the 1950s. Thanks to his entrepreneurial and visionary spirit, Giovanni Battista Giorgini organized a special fashion show for a selected number of American buyers and journalists in Florence on February 12, 1951. Eight American buyers assisted to the catwalks of ten high fashion tailors and four boutique tailors were selected, among them Emilio Pucci and Sorelle Fontana. The fashion show organized in July in the same year saw the participation of 300 buyers. In order to enter in Palazzo Strozzi, where the sales were taking place, buyers needed to guarantee purchases of at least 500 Lire (almost 8,000 euro). It was the first time that a high-end fashion show with Italian fashion garments was exclusively organized for American buyers. That event signed the 369


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birth of the Italian Fashion. The carefully selected buyers and journalists invited were the key gatekeepers at that time. Therefore their positive reactions opened the door to the successful development of the Italian fashion system The success was not left to chance. Everything was wisely and strategically chosen: the type of collections, the way they were presented, the stage-direction of the first runway. The fashion houses invited to participate were selected according to their originality and autonomy from the French haute couture; and they were allowed to show only a limited number of pieces. Instead of presenting the garments according to the name of designers, Giorgini decided to group them according to the type of clothing presented, in order to highlight their shared and distinctive characteristics. The idea behind was to create and promote an image of Italy as modern and creative (Orsi Landini, 2003). Giorgini’s primary concern was not fashion per se, but rather its potential as image and identity creator and promoter. We can argue that fashion was used as a tool for city marketing, or even better for the marketing of the entire country. In addition, the choice of the location was also strategic; Giorgini wanted to make an even stronger link between fashion and art, exploiting the so-called Renaissance effect. Historical buildings were chosen as location for the fashion shows and events. In 1951 the fashion show was organized in Villa Torrigiani, Giorgini’s home; from 1952 to 1982 the fashion shows were organized in the beautiful Sala Bianca in Palazzo Pitti while the sales contracts were dealt in Palazzo Strozzi; from 1963 the fairs moved towards the periphery of Florence, Fortezza da Basso with its Renaissance walls and Stazione Leopolda reconverted into one of the most experimental venue in the city. Florence soon became a new fashion capital. In 1954 the shows were organized by the newly created non profit organization Centro di Firenze per la Moda Italiana (CFMI-Florentine Centre for the Italian Fashion) which today is the holding of Pitti Immagine (officially born in 1988). In 1955 there were already 500 buyers and 200 journalists; Pitti was the biggest and most prestigious trade fashion fair in Europe. In the 1960s the geography of the fashion world started to change again and high fashion shows moved to Paris and Rome. Until mid 1970s, the position of Pitti was highly competitive. New fairs were created, predicting and reflecting the high segmentation of the fashion market: Pitti Uomo (Man) in 1972; Pitti Bimbo (Child) in 1975; Pitti Filati (Knitwear) in 1977, Pitti Casa (Home) in 1978. Then due to a lack of infrastructure and lack of understanding and support form the local government, Pitti started to lose ground. In the 70s and 80s Milan became the center for the women’s ready-to-wear and designer collections, while Florence managed to keep its role as center for men’s fashion and the rest of the textile-clothing industry. However, it was only thanks to a radical transformation in the management and strategy of CFMI that Pitti began to rise again in the 80s and 90s; the involvement of key Italian entrepreneurs was a key factor. Still today, key fashion entrepreneurs make one hundred per cent of its members in the board of directors, from Ferruccio Ferragamo to Laudomia Pucci and Brunello Cucinelli. Attention to innovative approaches to fashion and experimentation, strong selection of high quality products, ability to review and revise fairs and cultural events being ahead of the changes in the fashion industry has preserved and at the same time renovated the role of Pitti Immagine. But who are the designers present in Pitti? Few big names are currently present in the fairs because of the changes in the distribution chain; they mostly own showrooms and mono-brand stores around the globe and they do not need the fair. The fair helps instead those designers that start with a multi-brand strategy and that they need the fair as a commercial and promotional platform. “Lanvin, Dior do not go to a fair because they have their own showrooms. Sometimes the fair is the beginning for a new designer. It gives him international visibility and it’s a commercial platform. Just think to Umit Benan, winner of Who is on Next/Uomo in 2009. He made his debut in Pitti Uomo in 2010 and now he is in Trussardi” (L. Loppa, personal interview). At the same time buyers choose to go to Pitti because of the renowned high selection of participants (through a technical committee) and because of the quality of the events in Fortezza da Basso, extremely exclusive and rich in content. In the last summer edition of Pitti Uomo, Pitti most famous fair, there were 19,000 buyers, of which 7,400 foreigners, 1,059 brands/collections, of which 387 from 370


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abroad, a total number of presences of 32,000 and 59,000 square meters of exposition space. “It is not easy to be selected for the fair. You have to go through a committee which checks who you are, the market position and strategy of your brand – where and how – and most importantly your collection should be in line with the image of the fair” (D. Mariniello, personal interview). Apart from innovative international fashion fairs, Pitti Immagine has dedicated a considerable amount of its resources to the creation of cultural events (Biennale di Firenze) and projects that foster the growth of a fashion culture, to promote in foreign markets (Ente Italia Moda) and training through Polimoda (one of the most prestigious fashion school in the world), to digitalize its historical archive, to initiate researches, to organize conferences, seminars, and publishing activities. Pitti Discovery was established in 1999 with the clear intent to study the relationship between fashion, art, architecture and communication, selecting the most innovative ones; many artists, events and publications were developed, from Pipilotti Rist, Inez and Vinoodh, and Vanessa Beecroft to Raf Simons and Gareth Pugh. Until the 80s, ninety per cent of the Italian fairs were controlled by the system of associations represented through Confindustria; they were extremely linked to the regional production. CFMI had instead adopted a different strategy: internationalization and fashion culture. Firstly, it was one of first fairs to invite foreign designers, nevertheless a high resistance. Secondly, it started to dedicate a considerable amount of its resources to the creation of cultural events, fashion shows and projects that foster the growth of a fashion culture. The idea was not to compete or overlap with Milan or Paris fashion weeks, but to show innovative designers that were never seen in Europe or Italy or never seen before, and making a strong connection with the cultural and artistic Florentine heritage. “The fair is not a typical fair but it is a festival of creativity. Its success lies in the quality of ideas, quality of the project, quality of the realization, quality of the communication, quality of the selection of participants” (R. Napoleone, personal interview). In conclusion, the changes in the fashion production and distribution system have strongly affected the role of intermediaries and in particular the role of the fashion fairs. Today fairs are not meant exclusively for direct sales but they serve more as a platform for visibility and communication. Promotion reaches not only buyers but also final consumers, thanks to old and new media and a series of related events. Fairs are an important source of networking, information and knowledge creation and dissemination. They are special events in time and space that group together all the most relevant actors in a particular segment of the geographically dispersed fashion industry. Participants are there not only for trading but also for studying the competitors, and having a general overview of the activities and strategies of their segment of the fashion industry. The problems, however, is that there are too many of them so choosing which one to attend becomes of strategic relevance. Reputation is a key word. It takes time to build it and times to keep it, trying to be ahead of the new development in fashion world. The reputation of the fairs is guaranteed by the quality of the ideas, the communication, the strict selection of participants. At the same time, being present in one important fair can be a sign of prestige for the designer. We have seen, however, that fairs are not important to all designers: differences exist for examples between the big names of fashion and the young designers, with their related mono-brand or multi-brand strategies. The evolution of the Pitti Immagine reflects the definition of “intermediary fair” proposed by Skov (2006). The fair has different functions: from commercial to communication, networking and knowledge creation and diffusion. Pitti fairs managed to keep and create not only new places for trade but also to promote a fashion culture, through innovative events, projects and publications. Keeping high the selection criteria, attention to quality and details in the entire process, Pitti managed to evolve and create new role without losing its importance. 4. Local embeddedness of global economies: fashion industry in Milan, London and Florence Fashion industry is rooted in space, and in particular in the city thanks to a number of pillars, not at all exclusive of the fashion industry, but strongly characterising the territorial relations of such a sector. 371


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First, the fashion industry is characterised by a high concentration of workers, professionals and talented people that create local networks strongly rooted with the urban environment; secondly fashion products are contaminated by the specificities of the context, in particular as far as local creativity and local know-how are concerned; thirdly education and cultural institutions, collective actors and local government are the institutional roots influencing the fashion industry in many different ways. In the following section we focus on this three “roots” of the fashion industry with the city, and this is done through the presentation of three cases where the fashion industry is both locally moored and channelled on the global markets. Milan, Florence and London represent three cities where the fashion industry is characterised by a different organisation in the local environment, and can be understood as ideal types of fashion city: Milan is the stage where powerful and luxury brands are acting as a magnet for many designers and talented people: the system works mainly thanks informal and close relations. On the opposite side the London fashion industry is sustained by a well organised system, shaped by strong institutions and collective actors. Florence, finally, shows a particular situation where local fashion companies are strongly linked with the local artisanal production, in particular in the leather processing, a local asset that allows the fashion maisons to be competitive within the global luxury-goods market. Milan: Creative communities and local networks The cultural and creative economy is acknowledged to be supported by networks of designers and workers who tend to concentrate in specific cities: evocative in this regard is the artistic community in Paris in the early 1900 or Beat Generation in San Francisco in the ‘50s. The concept of the creative community has generated directly or indirectly a number of studies on the spatial concentration of workers in the cultural economy and on the social mechanisms that underline to their relations (Banks 2000; Molotch 2002; Menger 1999; d’ Ovidio 2010b). The fashion industry in Milan appears to be strongly moored to the Milanese context: the system of fashion in Milan is based on networks of creative professionals, through which they organize business, they manage personal careers and resolve problems, thanks to the sense of mutual trust that is consolidated within the networks. And more importantly, networks are a fundamental mechanism for the recognition of talent and professionalism. No wonder that, for the need to be seen and recognized in the “right” places, and the need to interact with other professionals, fashion designers from Milan devote much of their time in meetings and interactions, to attend parties and events (d’ Ovidio 2010a, 2008). The designers have very dense networks of relationships: the networking activity is in itself a fundamental and challenging job in many areas. Assiduous interactions between actors in Milan created the system that Storper and Venables called the loop (2004), or circle of recognition, which produces and makes uses of social capital at different levels: it builds trust between operators, promotes the circulation of information, it generates the recognition of talent. The mutual recognition generates a virtuous circle where trust and confidence are growing among operators, and this is essential: as many authors underlying many of the activities are organised by project, and operators are free-lance working on the single project. Further, trust and recognition are the mechanism that let people working together and share their knowledge and know-how. One of the key information exchanged within the network is about their own career that tends to be very flexible. It is therefore essential to rely on a vast network of relationships to maintain continuity of work and to be able to move from one engagement to another. Finally, networks function also as a tool for the talent recognition: in highly competitive areas, it is always necessary to affirm one’s worth and to demonstrate the qualities needed to perform the work. The group functions as a kind of mirror that reflects the skills of members and only membership is the guarantee of the reputation of those who participate in the group. The strength of designers and creative networks working in the fashion system in Milan has a long lasting history: in the 1972 Aldo Ferrante, chief of five fashion brands, decided to hold a fashion show 372


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in Milan. He was to be followed by many young Milanese designers, such as Missoni and Krizia, who left Florence and showed in Milan. The following year would be the debut year for Giorgio Armani who showed in Milan, too. The fashion show in Milan had an absolute success, due to many aspects, among them its geographical position and its strong links with foreign market (Foot 2001), but also, most importantly, thanks to the presence of a strong network of people working in the fashion system at all levels: designers, studios and model agencies, P.R. agents, journalists, magazine editors and photographers, shops and show rooms organisers and so on (White 2000). Indeed Milan was the Italian hub of fashion publishing industry, from Vogue Italia to Amica already established in the city from the 1960s. Moreover, the rise of many industrial design companies in Milan, the success of the Triennale and the image of Milan as a city for design and innovation, made of Milan the ideal city for the design of clothes, too. The Milanese fashion system, led by big names and important maisons is constantly working in order to maintain a high position both at the national and international level, and this is obtained in many ways. Fashion designers in Milan are, undoubtedly, public figures, and they demonstrate their importance by occupying, symbolically, the urban space. Moreover the network around the fashion industry is also promoting a number of situations to promote young and emerging fashion designers, in order to enrich the creative environment of the city: White, The Vogue Talents Corner, My Own Show, are some of the many events that are organised by magazines, schools and fashion maisons to promote fresh creativity in the city. Nevertheless, due mainly to the strength and economic power of the main actors within the local fashion industry, it is very difficult for an emerging designer to enter the scene, and to be able to compete with such prevailing actors, and this, paradoxically, is the main danger for the Milanese system that risks to collapse into itself if not stimulated and revived by a new generation of designers. London: A workforce for the fostering of the local fashion industry One of the peculiar features of the fashion industry in London is its configuration as a field of creative production where institutions, collective actors and designers interact within a vibrant creative atmosphere. It is exactly in their interaction that the field are shaped and composed by two main groups of elements: first of all designers that, as in the Milanese case, develop strong relational networks; secondly the institutional actors and collective bodies that work together for the success of the local fashion economy. Structures of networks correspond with the Milanese one: creative people, designers, stylists, journalists, fashion schools academics and so on. The networks in London share similar functions with that of Milan. However, what is very different from the previous case is that often relations among designers are developing also on a creative base, serving as a tool to nurture creativity and to develop ideas. This happen in particular among designers who are “fresh from schools� and they are very close to their previous academic networks. Many fashion designers, moreover, establish strong relations with the art world, much more than it happens in Milan: within their networks with artists, designers share large part of their creative work. Nevertheless, a second group of elements constitutes the London field of fashion production: institutions and collective organisations. Within the field of fashion production, fashion schools and the British Fashion Council are the main actors that built, together with the network of designers, that very strong system that is internationally known. Fashion schools are mainly focused on two main goals: teaching on how to express creativity at its top and forming successful fashion designers. Firstly, fashion schools are usually within art colleges, and therefore fashion is taught starting from its creative side, pushing students to express and experiment their creativity as much as they can. Nevertheless, and this is in line with the second aim, students are trained to work immediately as independent fashion designers and they are encouraged to launch 373


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their own label. This of course is allowed thanks to the strong links that fashion schools developed with BFC. Students with a degree from London fashion schools, not only are well trained and already insert in the system, but they have a strong social capital on which they draw during their carrier: on the one side their class-mate, on the other hand teachers that often are fashion designers themselves. Therefore both social and creative or cultural capitals are easily reproduced. Next to the fashion schools, the British Fashion Council works to support the fashion industry and its work is done building solid relations with the fashion schools, thus building a powerful system. Among the many awards that BFC organises to boost the industry, the most important in term of emerging young designers is NEWGEN awards, that offers the chance to present their own collection to the Fashion Show to a number of emerging designers. In the last 10 years NEWGEN award has been given to more than 50 designers. Among them, many are now at the centre of international attention, as for instance Peter Pilotto that will be a guest in the next Pitti show in Florence, Christopher Kane or Giles Deacon. Presented in such a way, it is easily understandable that the London fashion industry is highly innovative and also rather experimental. If this is the main asset of the local production, it is also its main problematic aspect: paradoxically the London fashion system seems not completely able to profit from innovative creation and to adapt it to consumers’ taste. If it’s true that fashion market is built around taste-creation it is also true that too much innovation is not able to reach a large segment of the market, thus impeding a real boom of the London fashion production. Moreover, and this is also related to the aforementioned issue, British Fashion Council does not push fashion abroad, and London fashion remains narrowed mainly in the local market. Finally, on the production side, Londoner and the British fashion in general suffers from two points of view: schools do not really emphasise the sartorial elements of fashion and craft know-how is not always well-developed on this side; secondly the country lacks a real productive sector in the fashion and clothing industry and it has negative influences again on the know-how and craft ability of the British fashion designers. Florence: perfectly mixing creativity and local craftmanship In many analyses about the so-called creative city, many references are often made to the creative or stimulating environments, that are where local and diffuse creativity is produced. These environments are said to be more apt at hosting the cultural economy, than others. Recently Bertacchini and Santagata trace a portrait of the creative atmosphere that keeps into account a cumulative process of skills, knowledge, experimentation. In this view “when the system of ideas reaches its critical mass, the creative atmosphere becomes visible and effective” (Bertacchini e Santagata 2012:20). On a similar vein, another research stream analyses how specific elements of the local culture, and in particular local know-how and craft skills, are critical to the development of local cultural economies (Micelli 2010). Within this framework, Bovone (2006) uses the term of “quartiere alla moda” (fashion neighbourhood) to indicate a newly gentrified area where the whole filière of the production of symbolic economy is simultaneously present: production, signification, consumption. In these areas creative people are attracted by the presence of both creative or innovative people and craftsman, so that they draw from and reinforce the creative atmosphere: the interplay among craftsmanship, know-how, creativity, tacit and shared knowledge, the local aesthetics and so on (Bovone 2006). The city of Florence, as far as its fashion industry is concerned, can be addressed as a city where the creative atmosphere is visible and effective: the local know-how in all sectors of the fashion system (leather, textiles, clothing, footwear and even gold and jewelry) is superimposed with a strong entrepreneurship attitude, a brilliant creativity and a good relations with institutions. Many fashion maisons in the city have a long history, being founded in the early 1900s, starting as small artisanal shops and becoming soon a focal point for shopping. Thanks to the local concentration of craftsman, these companies have been able to increase their production without losing their distinctiveness. After their 374


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starting success, many other companies started their activity in the area, profit both from the creative elements of the city of Florence and the craftsmanship of the area. Now the Florentine fashion maison are able to circulate globally a fashion product that is imbued by a unique craftsmanship essence. All told, Tuscan fashion districts produce a turnover close to 20 billion euros, just under one quarter of the regional gross domestic product, being one of driving forces behind exports in the region . In fact, Tuscany “signs” 20% of Italian textile exports, 12% of clothing exports, 22% of sales abroad of footwear and as much as 40% of national leather good exports. Between Scandicci and Valdisieve, but also further south as far as Aretine Valdarno, there is a network of small and very small mainly craftwork manufacturers producing handbags, wallets and belts for the majority of international designers. In fact, this area serves not only major groups rooted in Tuscany – like Gucci, Prada and Ferragamo – but also groups managed elsewhere including Louis Vuitton, Dior, Chanel and Céline, who find the environment, proficiency and labour organisation suitable for satisfying their quality needs, but also flexibility. In the Florentine area an important number of fashion houses are embedded in such a context, some of them occupying the vey high-end segment of the global fashion system, some others covering a niche market, but all of them with quite an important presence on the global fashion market. They all share a strong connection with the local craft districts, mainly, but not solely, with that of leather processing. The local fashion houses gain their success thanks to their capacity of combining entrepreneurial attitude, creativity and craftsmanship, and this is made possible thanks both to the “creative atmosphere” and to the local institutions and local actors. Their distinctive quality is thus the strong craftsmanship character of all the production and “made in Italy” or even “made in Tuscany” is used also as a brand strategy. Most of the Florentine fashion companies’ headquarter is composed by the creative office and the company’s factory, where designers and stylists, developers and craftsman work together in the making of the prototypes. Once they are developed, products are made locally (by a dense networks of micro and small activities) and distributed worldwide. In order to better analyse and present the relations between the Florentine area and the fashion industry three examples of fashion companies are here reported. The three cases well represent the different kind of fashion companies present locally, but they are to be considered just as case studies, while it is not our intention to use them as representative sample of the fashion system as a whole. Our first story is that of Cavallini, a niche company, now much specialised in hosiery, producing design stocking and tights, leggings and a small collection of seamless clothes. The company comprises offices, creative department, production and distribution in the same large building in San Miniato, just at the borders of Florence. Cavallini shows regularly at the New York fashion week and its products are sold worldwide, especially in the U.S. and the U.K. The whole production and distribution is made by the company, except the production of yarn. The company lies on two main elements: from the one side the creativity and genius of Emilio Cavallini, founder of the company who have been working and researching for long time in London and then coming back to his home land to start his own business. On the other hand the strong technology and craft skill that is needed to maintain such a high position in the market. The company is positioned in an area that was formerly a hosiery district, now many manufactures moved and concentrate in the hosiery district around Brescia, in Lombardy. Cavallini has been able to stay in the area for two main reasons. First, the local skills are very important and still present in the area: for the company it is crucial to keep working with the same persons (not only in the company itself, but with yarn producers, dyers, and machinery technicians); secondly, being their goods directed to a niche market, with a very high added value in immaterial components, the efforts must be put in keeping high-level quality and design, and not to reduce prices. Cavallini represents a good example of a very selected and innovative product, that is manufactured thanks to a very specific know-how linked to a high creativity and that is distributed all over the world. The second brand that we refer to is Ermanno Scervino, a young company in the Florentine area (it has been founded in 2000), that has been able to take advantages of the craftsmanship skill of the area 375


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as well as the creativity of its founder. In 2007 the headquarters was opened in Grassina, in the hilly environs of Florence. The atelier, the research laboratory and the prototype, knitwear and finished garment departments are grouped together in the new premises so that they are in continual contact with the style concept. This is to the benefit of Ermanno Scervino’s working strategy, which is to be directly engaged in the developments of his research, remaining in intimate contact with all the phases of workmanship. The new headquarters also houses the offices in charge of administration and manufacturing and distribution logistics for the entire group. The production is completely made in Italy, as many of the Florentine companies, while the prototype, research and development is made entirely within the company, that incorporated two small enterprises: a knitwear and a trousseau manufacture. Although the strong tradition, however, it is not always easy to find new generation of workers, and people coming from professional schools are not completely trained to work, so they need to be trained inside the company. Finally, Gucci. Founded in 1921 by Guccio Gucci as a small workplace where shoes and bags were made and sold directly, now is a global “giant” with revenues of 3 billion euros, around 8,000 employees and 350 shops in the world. The whole production is made in Italy, employing (directly and indirectly) about 45,000 people. Although the artisanal elements in the company has always been present, in the last 3 years the company decided to strengthen it both from the point of view of its image and especially, through a series of concrete local actions that reinforce all the productive filière. Above many programmes implemented, two of them are to be mentioned: in 2009 an agreement has been signed among Gucci, trade unions, Confindustria and other local institutions in order to activate a Permanent Committee focused on filière policies. The main task of the Committee is promoting operational actions in order to sustain standard of social responsibility, to value the local know-how, to implement innovation paths and also to economically sustain small and medium local enterprises. Secondly, more recently in 2011 Gucci sponsored its main (in)direct suppliers to join forces together and to build formal networks. The result is thus the creation of three networks connecting a total of 24 small and medium enterprises (for a total of more than 600 employees) that are cooperating on efficiency, technological and organisational innovation, quality standard and sustainability. Gucci’s role is that of facilitator and intermediate, consulting as far as organisation, training and also financial issues are concerned. Gucci is, thus, based on three main pillars: the fashion and creative side, the craftsmanship quality of their products, and the social and environmental responsibility. This is their challenging receipt to successfully compete within the global market. From this presentation it emerges not only the strong value of the Florentine craft tradition, but also the need for the fashion maison to be constantly very competitive as far as design and research are concerned. Nevertheless, and this is the main challenge that the Florentine area has to face in the next few years, the economic structure of the small and medium enterprises is not always very strong and they risk to collapse without effective development programmes aimed at sustaining them during periods of crises. Private-public alliance in this respect seems to be a successful strategy, but it should be implemented at large scale, with a clearer governance.

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Trasformazioni internazionali ed evoluzione tecnologica nella moda Andy Pratt, Paola Borrione, Mariangela Lavanga, Marianna D’Ovidio

Lo scopo del presente lavoro è quello di illustrare brevemente i parametri sottesi all’industria della moda. Pur essendo, senza dubbio, una modalità di espressione personale e culturale, la moda è anche una industria. Tuttavia, i suoi aspetti industriali ed economici sono stati relativamente poco studiati. È da sottolineare il fatto che l’industria della moda sia un settore in continua crescita ed evoluzione. Le analisi economiche tradizionali hanno dedicato insufficiente attenzione ad alcuni motori del cambiamento in questo settore che sono invece estremamente importanti per una serie di ragioni. In primo luogo, la comprensione delle conseguenze locali e globali delle trasformazioni dell’industria della moda ci aiutano a comprendere le sfide che le economie urbane e regionali devono affrontare, in particolare in Europa. In secondo luogo, l’industria della moda, come più in generale le industrie culturali, sono una nuova forma di sviluppo economico che unisce elementi qualitativi e forme quantitative, attraverso una culturalizzazione dell’agire economico. All’interno di questo discorso, sono tre le domande che poniamo: a) Cos”è “l’industria della moda”? b) Quali sono le somiglianze e differenze dell’industria della moda con le altre industrie culturali? c) In relazione alle dinamiche del cambiamento, quale importanza riveste per l’industria della moda il posizionamento geografico e istituzionale? Più precisamente la fashion genera beni simbolici caratterizzati da una localizzazione idiosincratica e da una evoluzione legata al volgere delle generazioni (Santagata, 2005; Barrère e Santagata, 2005). Tempo e spazio, tipicamente le due più prossime caratteristiche della moda, si sono dilatate: il tempo ha accelerato il suo passo fino a trasformarsi in fast fashion e lo spazio si è allargato alla globalità. Le nuove tecnologie infine hanno di fatto ridefinito il quadro analitico consentendo nuove innovazioni fisiche ed etiche e una rinnovata centralizzazione della produzione e del controllo della distribuzione nei distretti e luoghi originari. 1. Una panoramica generale dei sistemi produttivi della moda La moda è un sistema di esibizione corporea, incentrata sul vestiario, ma che si estende alla gioielleria, valigie e borse, e i profumi, tendendo a rientrare in una definizione estesa di beni di lusso. Principalmente, la moda può riguardare sia i capi normali che quelli concepiti come beni di lusso, piuttosto che utilitari. Una ulteriore caratteristica, connotata dalla stessa parola “moda”, è quella di essere un sistema di valori in continuo cambiamento, in cui oggetti diventano alla moda o fuori moda, attraverso una rivalutazione simbolica che porta alla rapida e ripetuta trasformazione del loro valore culturale e simbolico. Da questo punto di vista, l’attenzione va posta sui cambiamenti nelle caratteristiche degli oggetti e del loro consumo, la moda essendo un particolare caso di consumo. Ci si può domandare se la moda sia una tendenza o una industria. La risposta è entrambe. Come tendenza, è un flusso di informazioni dinamico che costruisce e definisce valori. La moda dipende dal fattore tempo ed è culturalmente posizionata; è una combinazione di design e innovazione e, in quanto tale, le sue qualità sono contestuali e definite in modo relazionale piuttosto che assoluto. In questo senso, la moda può essere un elemento di qualsiasi prodotto. È stato argomentato, a questo proposito, che la componente di design o moda stia aumentando in tutti i prodotti, il che rende la moda un elemento importante per la comprensione della crescita ed evoluzione di tutta l’industria in generale. Il punto cruciale, tuttavia, non è la percentuale di prodotto determinata dal design, ma la differenziazione dei prodotti che determina la decisio377


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ne fondamentale comprare / non comprare, sulla base del design o della moda e non esclusivamente del prezzo o delle funzionalità. È questo che si intende per culturalizzazione o, potremmo dire, il fashioning o “modizzazione” dell’industria (Scott, 2000). Da questo punto di vista, si può sostenere che tutte le industrie stanno diventando industrie della moda. Questo sviluppo ha importanti conseguenze per la comprensione di quelle pratiche economiche normalmente basate su valori (economici e culturali) meno dipendenti dal fattore tempo o dal contesto. Che si tratti di un processo contingente o di una indicazione di quello che il futuro ci riserva, rimane il fatto che il dinamismo dei valori e la continua differenziazione dei beni, con la riorganizzazione della produzione che essi comportano, sono una caratteristica precipua delle industrie culturali e creative, e dell’industria della moda in particolare. Tornando invece al secondo aspetto, possiamo anche considerare la moda una industria in senso convenzionale, in cui le materie prime vengo lavorate e trasformate in beni prodotti in gran quantità e messi sul mercato. La moda del vestiario è il risultato di abilità, istituzioni e beni particolari in combinazioni originali. In passato, il valore aggiunto nei segmenti alti dell’industria della moda era in buona misura autonomo dall’economia produttiva e determinato da altre considerazioni. Tuttavia, siamo entrati in un”era in cui la moda influenza, e in alcuni casi è il motore, di altre industrie e di intere economie locali. L’industria della moda combina le industrie del tessile e del vestiario di massa con quelle del design e della haute couture. Si tratta di una amalgama complessa, instabile e in continuo cambiamento, che determina l’evoluzione e le dinamiche dell’industria della moda contemporanea e i confini instabili tra il mercato di massa e quello del lusso. I confini instabili dell’industria della moda In passato l’industria della moda era comunemente considerata come un piccolo sottosettore dell’industria del vestiario. Era semplicemente associata alla haute couture o agli elementi del design di elite, mentre la produzione di massa era vista come una cosa distinta (e considerati come beni industriali “normali”). La definizione leggermente più ampia di “beni di lusso” è stata spesso usata per indicare le somiglianze con il marketing orizzontale di beni associati ad uno stile di vita, riservandola però comunque a beni con un alto rapporto tra prezzo di vendita e prezzo di costo, in cui il valore aggiunto è dato dal design. Da un lato, questo rende l’industria della moda molto simile ad altre industrie culturali: vengono realizzati e messi sul mercato prodotti culturalmente innovativi. D’altra parte, lo status legale è differente, in quanto il vestiario, a differenza della musica o altri prodotti culturali, non è protetto da copyright, ad eccezione delle griffe. Questo stimola l’uso diffuso delle griffe e il rapido cambiamento dei prodotti come protezione dalla copia. Anche se il nostro interesse si concentra sui capi di lusso piuttosto che funzionali, la distinzione è instabile e permeabile, ed è importante essere consapevoli dell’industria nel suo complesso. Come già osservato, l’attuale fase del capitalismo è caratterizzata dalla culturalizzazione delle industrie, dove oltre alla efficienza della produzione acquista importanza la creazione simbolica; da questo punto di vista la moda è una classica industria culturale. Un altro fattore importante è stato l’aumento del reddito medio nei paesi sviluppati e del conseguente aumento di consumi culturali in termini relativi ed assoluti. L’espansione dei mercati esistenti tuttavia impallidisce se raffrontata alla crescita in capacità di spesa dei paesi in via di sviluppo, crescita di cui sono protagonisti in buona misura giovani consumatori con ambizioni da classe media. La moda non risulta pertanto più limitata alle elite europee e nordamericane. I nuovi mercati della moda saranno sempre più le economie BRIC e sempre meno l’Europa e il Nordamerica. È evidente che il mercato di tutti i beni culturali, moda compresa, si sta espandendo. L’industria della moda, tuttavia, non si è semplicemente espansa per soddisfare l’aumentata domanda, ma ha messo in atto un significativo processo di riorganizzazione. Inizialmente, l’industria del vestiario si divideva tra haute couture per le elite e mercato di massa. Tuttavia, i cambiamenti nel commercio al dettaglio nel ventesimo secolo ha orientato sempre piu” il mercato verso il pret-a-porter (Breward, 2003). Si è svilup378


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pato inoltre, in tensione culturale con i due mercati precedenti, un terzo distinto mercato orientato ai giovani, che ha una propria suddivisione in produzione di massa e di elite, ed è strettamente legato alla industria culturale e alla cultura popolare, in particolare la musica (McRobbie, 1989). Tutti questi segmenti sono comunque strettamente interrelati. Infine, vi è la moda di massa che sconfina nel preta-porter utilitaristico a basso costo e a basso margine di guadagno. Si tratta tuttavia di un continuum, piuttosto che di una netta divisione tra fasce di mercato, e lo stesso vale per l’organizzazione. La haute couture si focalizza sui designer e sui grandi stilisti, il mercato del vestiario di massa sui prezzi bassi. Tra questi due estremi vi è uno spazio complesso che è cresciuto e si è trasformato; è questo lo spazio strategico su cui si sono concentrati i designer, i produttori, e i distributori / venditori, innovando processi di produzione e marketing. Quello che risulta evidente è che anche se il costo finale rimane un fattore importante, esso non è il fattore determinante, ma agisce in combinazione con altri. L’informazione (posizionamento, qualità) è ancora più decisiva per il successo di un prodotto nei crescenti mercati del pret-a-porter. Tipi di Fast Fashion L’industria della moda e del lusso sono attualmente soggetti a tensioni tra capitale, la produzione, e la distribuzione. L’aspetto del capitale è cruciale laddove l’azienda per bilanciare rischi e investimenti, impegna grosse quantità di denaro per promuovere brand e sfruttare l’integrazione orizzontale e verticale (per esempio, associando il prodotto ad altri brand e stili di vita nei settori profumo o valigie). I gruppi LVHM e PPR, o Armani, sono esempi significativi di questo approccio (Crane, 1997; Djelic & Ainamo, 1999). Si tratta di una strategia industriale normativa costruita sull’esperienza nel design e il controllo della proprietà intellettuale attraverso il super-branding e sostenuta da investimenti notevoli e dalla pubblicità. La vera battaglia, tuttavia, si è avuto nell’ambito della organizzazione della produzione, distribuzione e vendita nel segmento medio del pret-a-porter. I produttori europei sono stati seriamente minacciati dalla competizione asiatica, basata su manodopera a basso costo. La produzione di vestiario a basso costo, per il mercato di massa, con cambiamenti stilistici lenti, è di fatto sparita in Europa. Inizialmente, negli anni 1970, vi era una forte speranza che il design, il marketing e sopratutto le competenze tecniche potessero trattenere il pret-a-porter di fascia alta in Europa. Così non è stato. Negli anni 1980, i distretti industriali del Nord Italia si sono evoluti, diventando un modello di come queste superiori capacità, unite a una catena di produzione corta e flessibile e sistemi di produzione flessibili, potesse conservare un posto nel mercato di nicchia nell’alta moda in grado reggere la competizione della produzione di massa a basso costo con manodopera poco specializzata (Brusco, 1982; Dunford, 2006). Il dibattito si concentrava sulla “nuova competizione” basata sulla qualità (Best, 1990), nella quale si riteneva che i produttori europei avessero un vantaggio competitivo (Zeitlin & Totterdill, 1989). La distribuzione e la vendita al dettaglio è sempre stata una area di potenziale vantaggio competivo nella industria della moda. Con lo sviluppo del pret-a-porter, nel ventesimo secolo, il potere delle catene di negozi è cresciuto e, secondo lo schema classico dei beni di consumo, esse hanno usato il loro potere per contrattare prezzi e qualità con i produttori. Man mano che il loro potere è cresciuto, le catene hanno cercato anche di determinare il posizionamento della moda creando le proprie collezioni. Inizialmente, lo scopo era quello di acquisire e poi di orientare (attraverso la produzione) la futura collezione stagionale. La lunga catena di produzione e il conseguente intervallo temporale rendeva però i prodotti distribuiti nei negozi dei pallidi echi dei prodotti delle sfilate. Le catene di negozi di successo cercarono di gestire questo svantaggio promuovendo linee “standard’ e “base”. Questo generò una feroce competizione sul prezzo tra i fornitori, che si tradusse nei migliori dei casi in paghe basse e nei peggiori in un vero e proprio sfruttamento della manodopera. La catena di distribuzione eccessivamente estesa e lo scarso controllo sulle condizioni lavorative sono critiche comunemente rivolte dalle associazioni di consumatori alle catene di negozi di vestiti. 379


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In questo contesto, il settore delle vendite è oggi l’ambito della Fast Fashion che ha maggiormente innovato l’organizzazione (Tokatli, 2008). Questo ha portato ha un assottigliarsi dei confini tra produzione e vendita. Mentre i produttori sperimentavano con la produzione specializzata flessibile, le catene si preoccupavano dell’azionariato. Una delle strategie innovative in cui Benetton è stata pioniere è quella di associare direttamente le vendite alla tintura “just in time” dei capi di lana. Con questo sistema, i capi venivano prodotti in massa in un colore neutro e poi tinti in modo diverso a seconda delle tendenze del momento. Questo sistema just in time richiedeva tempi di consegna brevi e prossimità fisica; era in effetti un aggiornamento tecnologico del vecchio distretto industriale. Mentre il distretto industriale unisce i vari produttori, in questo sistema vengono integrati la produzione e la vendita. Zara ha fatto un ulteriore passo in avanti (Segre Reinach, 2005). Si è concentrata meno sul design e più sul trasferire rapidamente i modelli dalle sfilate alla produzione di massa. I suoi sistemi produttivi gli hanno permesso di ottenere la velocità richiesta e le quantità sufficienti a rifornire i propri negozi nei tempi richiesti. Il concetto è stato ulteriormente sviluppato da aziende provenienti esclusivamente dal settore della vendita, come Top Sho, H&M e Forever 21 (Hauge, 2007). La questione della velocità non riguarda più l’intervallo tra la scelta di un modello e la sua produzione in massa, ma l’accorciamento della “stagione”. Tradizionalmente, la moda seguiva il cambiamenti delle stagioni: primavera e autunno. Tuttavia, la nuova competizione ha spinto a ridurre i cicli della moda a 4-6 settimane o meno; questo ha creato enormi sfide logistiche. La permanenza in produzione di un modello si è accorciata e i modelli cambiano più rapidamente. Nell’era degli acquisti su internet, ciò ha permesso alle catene di continuare a concentrare la competizione nei negozi. La sfida attuale è quella di far vivere ai consumatori l’acquisto come un evento stimolante da ripetere a intervalli regolari. Le catene rinnovano interamente l’offerta nei punti vendita a intervalli regolari e gli scarichi avvengono anche due volte a settimana. Inoltre, non solo gli inventari sono ridotti nei depositi, ma vengono anche ridotti a livello di produzione in modo da esaurire deliberatamente la merce nei negozi. Il vantaggio è il minor bisogno di pubblicità. Primark, per esempio, un operatore di Fast Fashion in Inghilterra, sostiene di non spendere in pubblicità, ma di usare il denaro per migliorare la logistica. In questo caso, la decisione di acquistare da parte dei consumatori non è quindi premeditata o stimolata dalla pubblicità, ma creata dall’atmosfera frenetica del negozio, dove i capi vanno acquistati immediatamente prima che finiscano. Inizialmente, Zara sosteneva che il modello Fast Fashion le avrebbe permesso di mantenere la produzione in Europa e in particolare in Spagna. È un segno dei tempi il fatto che la produzione di Zara avvenga ora in ambito internazionale. Non si tratta tuttavia di ritornare semplicemente al vecchio modello della produzione a basso costo. In questo caso, abbiamo una produzione ibrida dove i “produttori a basso costo” sono sempre più altamente specializzati e capaci di creare design originali. Zara e altre aziende simili cercano di mobilitare la catena di produzione internazionale e gli elementi di design internazionale innovati dai produttori che li riforniscono. La concentrazione su cicli di vendita rapidi permette a Zara di realizzare profitti anche spedendo container mezzo vuoti in giro per il mondo o sostenendo costi di manodopera più alti localmente, per assicurarsi un rapido ricambio degli inventari. Si tratta di un trionfo delle qualità del prodotto sul prezzo. Chiaramente, uno degli aspetti problematici in queste trasformazioni è l’investimento, o l’assenza di investimento, nel design. Come già osservato, il copyright non si applica al campo della moda e pertanto il sottoinvestimento in nuovi design e nell’innovazione è una potenziale conseguenza del fast fashion, che cannibalizza ogni nuova tendenza appena essa appare in passerella. Una nuova nicchia di mercato è emersa: il cool hunter, o “cacciatore di tendenze”, e il “blogger della moda”. Gli stilisti non vanno più nei musei o sui libri per ispirarsi alla moda del passato. Oggigiorno, le nuove proposte arrivano da quello che la gente (stra)ordinaria indossa per strada quando queste vengono bloggate internazionalmente o concesse alle industrie della moda. Tuttavia, a dispetto del fatto che l’ispirazione arrivi dall’esterno, il ruolo dell’intermediario nell’individuare le nuove tendenze e degli stilisti nel tradurlo in un nuovo design rimane essenziale. Queste capacità sono anche la debolezza strategica della fast fashion. Un caposaldo del ventesimo secolo è stata la presentazione delle nuove collezioni all’inizio della stagione. Questo appuntamento tradizionale è sempre più minacciato dall’accorciamento delle sta380


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gioni della moda. La sfilata stagionale ha molte funzioni. Dà in particolare la possibilità ai vari attori nel campo della moda di incontrarsi faccia a faccia. Nella moda come in altre industrie culturali, questa forma di interazione temporanea, la quale mobilizza flussi internazionali dispersi e li combina con connessioni locali, è una parte vitale delle tacite relazioni di scambio di informazioni e fiducia che sostengono la produzione culturale. Un”altra funzione della sfilata è quella di mettere in mostra la città ospite, attirando turisti e investimenti stranieri. Un crescente numero di autorità cittadine stanno sponsorizzando settimane della moda nella speranza di entrare nel giro e attrarre pubblicità (Weller, 2008). Vi sono quindi vari interrogativi su quello che sarà il ruolo preciso della settimana della moda in questo sistema emergente. Oltre a questo vi è un ulteriore flusso di informazioni, che si svolge dietro le quinte, volte a determinare i colori e tessuti per la stagione successiva alla prossima. Da un lato, i produttori possono farsi influenzare dalla sfilata, dall’altra si devono procurare la materia prima necessaria affinché loro, e i produttori di beni di lusso associati, possano tenere il passo con gli stilisti e mantenere una tendenza coerente. Il dibattito sulla fast fashion e le tensioni tra catene di negozi e produttori non deve farci dimenticare tutti i fili che connettono letteralmente questa industria, dal produttore di cotone, seta o fibra artificiale al capo finito. L’immagine attuale dell’industria della moda è complessa e in rapida evoluzione. Le aree più dinamiche sono quelle della logistica, dei tempi e dell’informazione. Paradossalmente, le strategie adottate stanno annullando il semplice vantaggio del costo. Si può dire che la storia del mondo della moda dell’ultimo secolo è stata caratterizzata dalla battaglia per il controllo e l’espansione del pret-a-porter, caratterizzata da un complesso compromesso nel rapporto tra costo e qualità. L’ultima manifestazione di questo fenomeno è, come già notato, la fast fashion. In realtà, tutta la moda è veloce, ed è chiaro che all’interno della fast fashion vi è più di una strategia e che né i tempi, né i costi sono l’unico criterio. Per meglio comprendere questa complessa situazione vi proponiamo lo schema riportato a pag. 349. Lo schema riassume uno spazio caratterizzato dalla dialettica tra basso costo, rischio alto, intensità di design. All’estremo del basso costo si trovano i tradizionali subappaltatori della produzione. Il prodotto tradizionale è semplice, generico, funzionale e a basso contenuto di design. All’altro estremo troviamo il fornitore di haute couture caratterizzato da design intensivo, ad alto costo, modello unico, il quale investe pesantemente in design e innovazione ed è legato alle stagioni della moda. Tradizionalmente, i prodotti pret-a-porter si trovano nel continuum tra questi due estremi. È possibile argomentare che l’uso estremo della logistica crea una nuova posizione in cui un estremo è giocato contro l’altro e la tecnologia viene usata per minimizzare i rischi. La fast fashion è dunque un esempio di un prodotto di design a basso costo, con un tempo di presenza sugli scaffali molto basso. Tra questi due estremi ci sono una serie di posizioni possibili. I brand della moda riducono i rischi impacchettando i nuovi design in confezioni rassicuranti. Altre strategie sono basate sulla moda giovanile, la quale si trova più o meno a metà tra questi due estremi. Come risulterà chiaro, ogni posizionamento strategico è il risultato di un compromesso tra aspetti concorrenti; la scelta di ogni azienda dipende in primo luogo dalla loro organizzazione (se sono catene di negozi, produttori, ideatori, ecc.). In secondo luogo, la strategia deve essere flessibile e adattata alle circostanze locali. Questa localizzazione è il quarto aspetto del posizionamento strategico. Infine, un ulteriore aspetto, sinora ignorato, è il riciclaggio del vestiario dall’ovest verso il sud globale. Oltre a fornire la possibilità di riusare vestiti in buono stato, questa tendenza sta anche creando una domanda per capi firmati in alcuni dei mercati più poveri dell’Africa occidentale. Questo per quanto riguarda la situazione attuale della moda internazionale. Passiamo ora all’analisi delle nuove frontiere tecnologiche. Come vedremo, le nuove tecnologie sono dei campi in espansione, apprezzati sia dai consumatori che dai produttori di moda. Questa nuova tendenza è anche emblematica di una rinnovata fase di centralizzazione della produzione nei paesi occidentali, basata principalmente su ICT e il pensiero verde. 381


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2. Moda e tecnologia: Strategie innovative nei modelli commerciali, nella comunicazione del brand e nel marketing. Il campo della moda è oggi ricco di tendenze creative ed innovative, che coinvolgono i modelli commerciali, le nuove strategie comunicative, gli schemi di consumo emergenti, le nuove tecniche e nuove materie prime. Fondamentale è il fatto che queste nuove tendenze siano principalmente il risultato dell’integrazione tra il sistema della moda e le attuali innovazioni tecnologiche. Innovazione nei modelli commerciali Tecnologia e moda sono diventate inseparabili. La tecnologia coinvolge la produzione tessile e il confezionamento, la comunicazione e la distribuzione, e trasforma l’intero processo produttivo. Ma la tecnologia è diventata anche parte integrale dei prodotti. La recente evoluzione tecnologica e infrastrutturale del commercio in rete sta determinando lo sviluppo di nuovi modelli commerciali nel segmento della moda e del lusso. Di seguito presentiamo i modelli più innovativi: Iscrizione personale, merchandising sociale / generazione di massa, personalizzazione di massa e consumo collaborativo. Iscrizione personale Nel modello a Iscrizione Personale i consumatori si iscrivono a un club mensile e rispondono a delle domande sulle loro preferenze di stile. Sulla base di queste, ogni mese gli vengono proposte delle selezioni di prodotti a un prezzo fisso. Dal punto di vista dei consumatori, il vantaggio è di poter scegliere prodotti basati sui loro gusti e fissare una somma fissa da spendere i vestiti ed accessori. In termini economici, questo modello riduce i costi di ricerca e transazione dei consumatori. Dal punto di vista dei venditore, il vantaggio è che gli introiti sono più prevedibili. L’iscrizione personale è l’evoluzione naturale di modelli di vendita privata quali “Vente Privee” e “Saldiprivati”. Alcuni esempi di Iscrizione Personale sono: Shoedazzle (3 milioni di membri); StylistPick, Beachmint, con i suoi club specializzati Jewelmint, Stylemint, Beautymint e Shoemint; Birchbox il cui rivale italiano è Beauty Box. Il merchandising sociale e generazione di massa Questo secondo modello è basato su contenuti generati dagli utenti, quali commenti, recensioni, blog, collegamenti, articoli, realizzati da non-esperti. Dal momento che c’è un crescente numero di consumatori che studia i prodotti in rete prima di acquistarli, i contenuti generati dagli utenti sono diventati un fattore importante nella scelta dei prodotti. La gente chiede consiglio ad altra gente su quale sia il prodotto migliore, sull’affidabilità dei venditori, su funzionalità e servizi, sui livelli di soddisfazione. Questi contenuti possono essere usati anche dai marchi e dai negozi di moda in rete per il merchandising sociale e per la generazione di massa. Nel primo caso, i negozi evidenziano i voti, i Mi Piace, i commenti e (in alcuni casi) il numero degli acquisti, sui loro siti web o su social network come Facebook. Questo attira l’attenzione di potenziali acquirenti permettendogli di modulare la propria esperienza di acquisto sulla base di contatti precedenti di persone dei loro social network con i siti web in questione. In secondo luogo, i consumatori più creativi possono essere usati per generare contenuti di livello alto. Per esempio, Threadless, Polyvore e Macy’s Fashion Director permettono ai consumatori di condividere dei look che combinano diversi capi e poi li promuovono secondo strategie “virali” per aumentare le vendite. In questo modo, ottengono nuovi contenuti creativi, fidelizzano i consumatori coinvolgendoli maggiormente nel brand, aumentano le vendite attraverso nuovi prodotti accattivanti e riescono ad identificare nuove tendenze prima della competizione. 382


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Personalizzazione di massa In passato, i beni di lusso erano prodotti costosi e altamente personalizzati basati sui gusti e sulla disponibilità dell’acquirente. Man mano che la produzione di massa ha sostituito quella artigianale come forma di attività economica dominante, la convenienza economica e la fattibilità di alti livelli di personalizzazione e differenziazione dei prodotti e diminuita. Oggi, tuttavia, assistiamo alla crescita di un nuovo modello commerciale, chiamato “personalizzazione di massa”, reso possibile da innovazioni tecnologiche che reinseriscono l’individualità nel processo produttivo. La personalizzazione di massa è un modello commerciale che combina aspetti della produzione di massa con quelli degli abiti su misura. Il pioniere di questo modello commerciale nel campo della moda è stato Levi Strauss, che nel 1994 lanciò i suoi jeans per donna Original Spin. Le misure dei clienti venivano prese in negozio ed inviate elettronicamente alle fabbriche Levi’s. I jeans personalizzati erano poi prodotti in modo automatico e spediti ai consumatori. Il segreto di questo processo è la modularità: l’azienda crea una serie di moduli produttivi standardizzati che possono essere poi assemblati in modo vario e innovativo. È necessario identificare quali elementi chiave di un prodotto è possibile personalizzare (tenendo conto di fattibilità e costi) in modo da offrire il giusto grado di variabilità, mantenendo allo stesso tempo la produzione gestibile e scalabile. Nella moda, la personalizzazione di massa estende le qualità dell’abito su misura ai prodotti a basso costo. Per le aziende dell’industria della moda e del lusso, questo approccio offre una possibilità di differenziarsi dalla competizione e di costruire delle relazione più forti, profonde e leali con i consumatori. Inoltre, la personalizzazione di massa offre la possibilità di co-disegnare i prodotti: i consumatori potrebbero scegliere gli stili, i colori, i materiali e fornire le misure, ottenendo prodotti che corrispondono esattamente ai loro desideri. In questo modo, si riduce quello che alcuni autori definiscono il “sacrificio del consumatore”, vale a dire, i compromessi che i consumatori devono accettare quando si orientano verso prodotti standardizzati. La personalizzazione di massa permette anche di aumentare la lealtà dei consumatori verso il brand e in generale fornisce informazioni utili all’azienda sui colori e i modelli che in consumatori prediligono. Louis Vuitton con Mon Monogram, Prada con Customize, NikeiD con Burberry Bespoke sono alcuni degli esempi più conosciuti di progetti di personalizzazione di massa. Il consumo collaborativo Il consumo collaborativo consiste in tutte le forme di mercato e piattaforme peer-to-peer che permettono alle persone di scambiare, condividere o affittare prodotti che normalmente non potrebbero permettersi. Questo permette ai venditori di liberarsi di beni in via di deprezzamento e ai consumatori di acquistare il valore residuo dei beni a prezzi molto più basso di quello dei negozi tradizionali. Questo modello include anche il mercato di seconda mano dei beni di lusso, quali Covetique. I venditori inviano i loro prodotti al sito, il quale li tiene in consegna fino a che non li vende, garantendo l’autenticità e qualità dei prodotti. Questo modello sta muovendo i primi passi: vi è un attore principale – Rent the Runaway – con il suo milione di membri, ma vi sono anche diversi gruppi locali che usano Facebook e altri network sociali come piattaforma di scambio. Altre piattaforme, come Lyst, aiutano gli utenti a sapere quando un prodotto presente “in passerella” può essere acquistato, aggregando tutte le informazioni utili in un unico luogo. Queste piattaforme hanno anche la funzione di “filtro sociale”: gli utenti possono fare affidamento su persone con gusti e stili simili per scoprire prodotti che gli interessano. Strategie innovative nella comunicazione del brand e nel marketing Lo spostamento dei modelli commerciali della moda dal brand ai consumatori è evidente anche nell’ambito della comunicazione I media tradizionali – giornali, riviste – stanno perdendo terreno ri383


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spetto alla comunicazione in rete, spesso creata da una nuova categoria di esperti “non professionali”. Mentre tradizionalmente la moda era guidata da una piccola elite di grandi marche, da una manciata di celebrità e da alcune riviste selezionate, al giorno d’oggi i blog di moda stanno cambiando l’intero flusso di informazioni. I blog e i blogger di moda stanno diventando dei personaggi chiave nell’industria della moda come nuovi mezzi di comunicazione, nuovi strumenti di marketing e nuove professionalità. Grazie ai blog, la gente “normale” di tutto il mondo sta diventando la voce più ascoltata del mondo della moda. I blogger della moda esercitano una influenza decisiva, prima riservata esclusivamente alle celebrità. Anche i maggiori stilisti e le più grandi marche si stanno adeguando e invitano i blogger di moda in prima fila alla Fashion Week e ad altri eventi dove le star sono di casa. I fashion blog hanno delle caratteristiche interessanti paragonati ai media tradizionali: hanno tempi più rapidi di risposta rispetto alle riviste e sono anche degli indicatori utili delle tendenze future. I blog rendono possibile avere una linea diretta con il pubblico. Aziende quali Mod Cloth, H&M, Birchbox and American Apparel stanno tutte iniziando a fare a meno della stampa tradizionale per parlare direttamente con i blogger che si occupano di stile personale, di bellezza e di moda. Innovazione dei prodotti Un altro aspetto della relazione tra moda e tecnologia è la trasformazione dei prodotti di moda in prodotti tecnologici. Laddove i capi con tessuto high-tech erano tradizionalmente riservati per l’abbigliamento sportivo, dove offrivano il massimo del comfort e delle prestazioni, in anni recenti si è iniziato a elaborare prototipi e poi a produrre “tecnologia indossabile” per capi quotidiani e di lusso, grazie agli sviluppi di ricerche volte a rendere flessibili i componenti dei sistemi elettronici, quali il silicone. La nuova ondata di tecnologie e gadget indossabili, dal Google Glass alla app Pebbel watch è un chiaro segnale del fatto che la tecnologia indossabile è matura per uscire dai film di fantascienza ed entrare nella vita e i corpi delle persone. Una delle prime tecnologie ad essere usata sono stati gli OLED: materiali organici flessibili capaci di emettere luci se attraversati da corrente elettrica. La tecnologia OLED può essere stampata su quasi tutto, incluso i tessuti, permettendo quindi di produrre tessuti luminosi. Un”altra tecnologia che sta avendo sviluppi interessanti è quella volta ad integrare dei computer nei tessuti in grado di raccogliere e trasmettere informazioni dai corpi e tra le persone, per scopi medici o di interazione sociale. Alcuni gadget misurano i segnali vitali degli individui che indossano quel particolare vestito oppure permettono di caricare il cellulare o lettori MP3 grazie a pannelli solari integrati. Altri produttori hanno integrato nei vestiti gadget che permettono di connettersi ai social network e scambiarsi dati (musica, immagini, numeri di telefono) semplicemente toccandosi, grazie ad applicazioni quali AngelDevil Touch. Vi sono poi prodotti basati su materiali “intelligenti”, quali quelli a cambiamento di fase, usati per la termoregolazione attiva negli sport, o membrane espandibili a polimero con effetto memoria, la cui permeabilità ai gas varia in funzione della temperatura. Una ulteriore ambito del rapporto tra tecnologia e moda è rappresentato dalla stampa in 3D. La stampa in 3D, chiamata anche stampa additiva, consiste nella produzione di oggetti solidi e tridimensionali a parte da un file digitale. Gli oggetti sono prodotti da una stampante 3D attraverso l’aggiunta progressiva di strati di materiale. Il processo è più rapido di quello per tessere capi o costruire accessori e ha delle potenzialità incredibili nel campo dei vestiti personalizzati: con stampanti 3D basate su raggi laser che fondono strati di polvere di plastica riciclata, gli stilisti sono ora in grado di creare vestiti senza cuciture, che calzano perfettamente, senza lasciare scarti. Per esempio Iris van Herpen, uno stilista olandese di 27 anni tra i piu” conosciuti (Lady Gaga e Björk sono suoi clienti), ha realizzato dei prototipi di vestiti con stampanti 3D, mentre Pauline van Dongen ha “stampato” delle scarpe a tacco alto. Un altro progetto è il bikini N12 realizzato da Continuum Fashion. Si tratta del primo capo pret-a-porter al mondo 384


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stampato in 3D. Tutte le parti, compreso le fibbie, sono stampate in 3D e assemblate senza cuciture. Tra i produttori italiani che lavorano nel campo della moda vi sono: Riccardo Marchesi, un uomo di affari che si occupa di macchinari tessili e che si è reinventato il lavoro con il progetto Plug and Wear, producendo tessuti “intelligenti” con sensori elettronici integrati; Zoe Romano, attivista mediatico e cofondatore del progetto di moda collaborativa Openwear; e Serpica Narothe, il primo brand a licenza pubblica. Moda etica, verde e artigianale Infine, una ultima tendenza nell’industria della moda è quella della moda etica, della moda verde e del ritorno alla produzione artigianale. Si tratta di tre aspetti del mondo della moda che hanno in comune l’interesse per l’ambiente, per la sostenibilità, per i rispetto dei lavoratori e delle risorse. Selezionando e certificando i materiali e investendo in sistemi di produzione sostenibili, la moda etica e verde è cresciuta di molto negli ultimi 15 anni, come evidenziato dalla ricerca presentata a un seminario del International Trade Centre - Ethical Fashion a Roma durante delle sfilate di moda. Stella McCartney e NOIR sono stati i pionieri in questo campo, avendo adottato una politica etica già all’inizio del nuovo millennio. Adesso vi sono intere sfilate, blog, siti web, incentrati sulla cosiddetta moda sostenibile. L’uso di fibre biologiche, di catene di produzione certificate e sostenibili, sono tutti aspetti che rientrano nella moda etica, anche se ogni azienda tende ad enfatizzarli. Alcuni pongono l’accento sull’adozione di tecnologie tradizionali, altri sull’uso di materie prime locali, altri ancora sulla riduzione delle emissioni di CO2. Da questo punto di vista, la definizione di moda etica rimane vaga. In anni recenti, si nota anche una tendenza verso il lusso etico: cosmetici, accessori, capi di alta moda derivati da risorse rinnovabili. Per esempio, LVMH, il gruppo di beni di lusso di Bernard Arnault, detiene il 49% della Edun, una marca di capi sostenibili fondata da Bono e Ali Hewson. È interessante il fatto che mentre l’Italia è uno dei maggiori mercati e produttori di cibo biologico, il mercato per la moda bio e etica è ancora in fase embrionale. I casi di successo nell’industria alimentare italiana potrebbero quindi essere presi ad esempio per aumentare la produzione e il consumo di prodotti di moda etica. Ma la sostenibilità è davvero un fattore di differenziazione positiva nel mercato della moda? La consapevolezza ambientale tra i consumatori di moda sta aumentando, ma in questo settore la sostenibilità non può incrementare le vendite se non si combina con la desiderabilità. 3. Cambiamenti nel ruolo delle fiere come intermediari Stando a Caves (2000), i gatekeepers o intermediari (galleristi, editori, distributori cinematografici) sono quelli che “decidono se il valore ipotizzabile della produzione creativa [di un artista] giustifica il costo degli input mediatici necessari per poterla offrire ai compratori finali” (19). In altre parole, gli intermediari sono legittimati a selezionare, descrivere e valutare prodotti culturali e, alla fine, a decidere cosa mettere sul mercato. Gli intermediari mediano tra i produttori e i consumatori. Tuttavia, questa relazione non è a senso unico. Il loro ruolo infatti non è neutrale (Towse, 2003). Nel selezionare e decidere cosa offrire ai consumatori, essi influenzano la produzione e i consumi culturali. Ogni industria culturale ha i propri intermediari, i quali stabiliscono se un prodotto è creativo, lo selezionano, lo promuovono e lo inseriscono sul mercato. Si possono identificare diversi tipi intermediari che influenzano lo sviluppo delle industrie della moda, da i “vecchi” intermediari (stilisti, modelli, fotografi, direttori e giornalisti di riviste, rappresentanti, responsabili acquisti, esperti in tendenze, PR, settimane della moda e fiere, scuole di moda) ai “nuovi” soggetti, quali i siti di marketing e dei consumatori, social network, blogger di moda. Sono questi soggetti a determinare quello che consumatori vedranno o sentiranno. Meno di dieci anni fa, il mondo della moda era esclusivo e caratterizzato da una scarsità di opinioni e informazioni. In anni recenti, la moda è stata coinvolta dalla rivoluzione mediatica e nuovi modi per essere vicini ai 385


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consumatori si sono sviluppati. Il reportage nei media, sia in rete che fuori rete, sono una parte importante del sistema della moda. Sempre più, la gente vuol comprare quello che hanno visto su una rivista o su Facebook o nel loro blog di moda preferito, o che hanno visto addosso alla loro star preferita. Ecco perché, nei vecchi e nuovi media, sono in aumento I reportage su eventi mondani: sfilate, feste per stilisti o case di moda, apertura di negozi di punta, festival cinematografici, gala e così via. Questi eventi sono fondamentali per creare la circolazione di informazioni e l’eccitamento mediatico necessari a questa industria. Fuori dai media, vi sono altri intermediari che svolgono ruoli particolari nell’industria della moda: stilisti, distributori, showroom e fiere. Per poter essere visti nei media, i capi di moda devono prima essere selezionati dagli stilisti e dai responsabili acquisti. I primi sono importanti per ottenere recensioni su riviste o determinare cosa indosseranno le celebrità, i secondi per determinare quello che sarà effettivamente disponibile nei negozi. Gli stilisti e i responsabili acquisti possono essere in contatto diretto con gli stilisti, ma più spesso decidono cosa presentare sulle loro riviste o far vendere ai propri negozi frequentando settimane della moda, fiere e showroom. I distributori devono tenere conto di molti fattori legati ai punti vendita, che includono la gestione finanziaria, la progettazione degli interni, i rapporti con il management, l’addestramento del personale. Sono anche coloro che decidono quale deve essere l’identità del negozio. È cruciale da questo punto di vista posizionarsi in modo da differenziarsi. Esempi tipici sono negozi quali 10 Corso Como a Milanp, L’Eclaireur a Parigi, e Luisa Via Roma a Firenze. Non va dimenticato che le nuove tendenze della moda possono essere dettate da stilisti, dagli esperti in tendenze, dai venditori, ma più spesso si sviluppano all’interno di subculture urbane. Da questo punto di vista, il rapporto tra domanda dei consumatori e offerta dei fornitori è fortemente dialettico. Esse si influenzano a vicenda in modo complesso e multi-dimensionale (Hauge, 2006). In conclusione, vi è una interrelazione complessa tra intermediari, stilisti e consumatori che riflette la complessità, frammentazione e segmentazione dell’industria della moda. Storia, evoluzione e ruolo delle fiere della moda È stato già sottolineato nel paragrafo precedente come le fiere della moda, assieme alle settimane della moda e alle showroom, siano degli intermediari fondamentali attraverso cui la moda raggiunge negozi e consumatori. Uno dei pochi studiosi che hanno analizzato il ruolo delle fiere della moda nel sistema della moda globale è Lise Skov (2006). Skov sottolinea quattro criteri per definire il tipo di fiera: a) tipo di capi (per esempio, capi femminili); b) segmento di mercato (per esempio, basso o alto); c) posizione nella catena del valore (posizione da monte a valle, vale a dire dalle materie prime ai consumatori); d) dispersione geografica dell’industria della moda. Skov (2006) propone il termine “fiere intermediarie” per classificare le fiere moderne. Skov sostiene che le fiere non sono più legate alla produzione locale (le cosiddette “fiere di esportazione”) ma servono come punti nodali di sistemi di produzione geograficamente dispersi. “Le fiere sono fondamentali per l’organizzazione sociale del tempo e dello spazio in un sistema territorialmente disperso quale quello della moda” (Skov, 2006: p. 781). Sono eventi particolari che organizzano tempo e spazio per raccogliere gli attori più importanti di un particolare segmento dell’industria della moda. Le fiere aiutano a tenere unita una rete economica che tende a dispendersi. Quello che risulta evidente è che, per mantenere un ruolo importante nell’industria della moda, le fiere devono rinnovarsi, ridefinendosi come intermediari globali attraverso l’offerta di nuove funzioni e servizi. In origine vi erano solo due stagioni nel mondo della moda: autunno e primavera. A gennaio, veniva presentata la collezione per il prossimo autunno-inverno, vi erano poi due o tre mesi di compravendita e in agosto iniziava la produzione su larga scala. Al tempo, le fiere erano l’unico posto in cui i responsabili acquisti potevano vedere i nuovi modelli e piazzare i loro ordini. Le fiere erano prevalentemente luoghi di scambi commerciali. Oggigiorno, l’au386


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mento del numero delle stagioni (da due stagioni all’arrivo di nuovi capi quasi mensilmente) ha eroso il monopolio delle fiere come luogo di affari. “Siamo presenti a Pitti, Tranoï, Première Classe a Parigi. Le fiere mantengono sicuramente un ruolo importante come piattaforme per aumentare la visibilità e per lanciare un nuovo prodotto, ma durano solo pochi giorni. Oltre alle fiere, noi ci affidiamo a ottime showroom multi-marca come Massimo Bonini per tutto il periodo di vendita di tre mesi e siamo presenti in punti vendita multi-marca come Luisa Via Roma o Antonioli” (D. Mariniello, intervista personale). Grazie ai cicli produttivi brevi, il rischio che il gusto dei consumatori cambi viene ridotto; inoltre, la più rapida variazione dei capi offerti induce i consumatori a visitare il negozio (anche in rete) ad intervalli regolari. I responsabili acquisti delle catene di negozi devono pertanto comprare i prodotti più di due volte all’anno. Questa accelerazione del sistema produttivo necessita una intensificazione della rete di rapporti tra stilisti e responsabili acquisti, tra produttori e distributori. E determina anche un aumento dell’importanza delle showroom. Mentre le fiere e le settimane della moda durano pochi giorni, le showroom possono esibire una collezione per tre mesi. Inoltre, sono poche le marche che presentano la loro intera nuova collezione ad una fiera. La maggioranza lo fa durante le settimane di moda o nelle showroom. “Quando ero il responsabile acquisti del mio negozio ad Antwerp, andavo a molte fiere. Le fiere erano eventi commerciali, per acquistare, per vedere i tuoi competitori, ma erano anche eventi mondani, andavamo a cena insieme. A Parigi ci potevi rimanere per più di una settimana. Dopo la settimana della moda potevi visitare tutte le showroom. Oggi è molto più commerciale, è troppo frenetico, troppo costoso, vai per meno giorni e non hai tempo per le interazioni mondane”. (L. Loppa, direttore di Polimoda). “In passato i responsabili acquisti facevano materialmente gli ordini nelle fiere, si sedevano e scrivevano tutto, facevano la fila. Oggi, lo scopo principale per chi va alle fiere è quello di vedere le diverse collezioni. In particolare, i responsabili acquisti degli ipermercati non scrivono gli ordini, si limitano a passare per gli stand e prendersi il catalogo” (B. Cavallini, intervista personale). I luoghi dove la produzione e la distribuzione possono incontrarsi sono aumentati a dismisura. Per continuare ad attrarre, le fiere devono offrire nuovi servizi e soddisfare nuove domande. Oltre a un luogo dove fare affari, devono anche essere un ruolo dove relazionarsi e dove creare e diffondere conoscenza. Le fiere al giorno d’oggi possono essere considerate “uno ambiente sociale in cui avvengono diversi tipi di incontri, inclusi quelli per affari, per relazionarsi, per conoscere [creare e disseminare conoscenza] (Skov, 2006: pg. 781). L’evoluzione storica di Pitti Immagine servirà a fare meglio comprendere il modo in cui le fiere sono cambiate e stanno cambiando, e la complessità del ruolo degli intermediari nell’industria della moda. Il caso di Pitti Immagine Una delle istituzioni più importanti nel campo dell’organizzazione di fiere ed eventi di moda è Pitti Immagine a Firenze. Le origini di Pitti Immagine risalgono agli eventi di moda organizzati da Giovanni Battista Giorgini negli anni 1950. Spinto dal suo spirito imprenditoriale visionario, Giovanni Battista Giorgini organizzò una sfilata di moda speciale per un gruppo ristretto di responsabili acquisti e giornalisti americani a Firenze il 12 febbraio, 1951. Otto responsabili americani assistettero alle sfilate di dieci sartorie e quattro di queste vennero selezionate, tra cui Emilio Pucci e Sorelle Fontana. La mostra di moda organizzata a luglio del 1951 vide la partecipazione di 300 responsabili acquisti. Per poter entrare a Palazzo Strozzi, dove avvenivano le vendite, gli acquirenti dovevano impegnarsi per acquisti di almeno 500 Lire (quasi 8.000 euro). Era la prima volta che una sfilata di alta moda italiana veniva organizzata esclusivamente per acquirenti americani. Questo evento segnò la nascita della Moda Italiana. I responsabili e i giornalisti attentamente selezionati erano gli intermediari chiave a quel tempo. Le loro reazioni positive aprirono la porta allo sviluppo del sistema moda italiano. 387


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Ma questo successo non fu un caso. Tutto veniva scelto con attenzione e visione strategica: il tipo di collezioni, il modo in cui venivano presentate, la regia della passerella. Le case di moda partecipanti venivano selezionate per la loro originalità e autonomia dalla haute couture francese e gli veniva concesso di esibire un numero limitato di capi. Invece di presentare i capi in base ai nomi degli stilisti, Giorgini decise di raggrupparli per tipo di capo, in modo da evidenziare le caratteristiche comuni e distintive. L’idea era quella di creare e promuovere una immagine dell’Italia come moderna e creativa (Orsi Landini, 2003). La principale preoccupazione di Giorgini non era la moda in sé, ma piuttosto il suo potenziale come creatrice e promotrice di immagine e identità. Si può dire che la moda veniva usata come strumento per promuovere la città, o ancora meglio, l’intero paese. In aggiunta, era strategico anche il luogo; Giorgini voleva rafforzare il legame tra moda e arte, sfruttando un “effetto Rinascimento”. Pertanto per le sfilate e gli altri eventi sceglieva edifici storici. Nel 1951, le sfilate si svolsero a Villa Torrigiani, la casa di Giorgini. Dal 1952 a 1982, le sfilate si svolsero nella stupenda Sala Bianca di Palazzo Pitti, mentre i contratti di vendita venivano fatti a Palazzo Strozzi; dal 1963, le fiere vennero trasferite a Fortezza da Basso, con le sue mura rinascimentali e più tardi alla Stazione Leopolda, riconvertita in uno degli spazi più sperimentali della città. Firenze divenne presto la nuova capitale della moda. Nel 1954, le sfilate vennero organizzata dalla nuova organizzazione senza scopo di lucro Centro di Firenze per la Moda Italiana che è oggi la holding di Pitti Immagine (nata ufficialmente nel 1988). Nel 1955, il numero era salito a 500 responsabili acquisti e 200 giornalisti; Pitti era diventata la fiera di moda più grande e prestigiosa di Europa. Negli anni 1960, la geografia del mondo della moda riprese ad evolversi con lo spostamento dei grandi eventi verso Parigi e Roma. Tuttavia, fino alla metà degli anni 1970, Pitti rimase molto competitiva. La Pitti creò una serie di nuove ferie, facendo da pioniere nella segmentazione del mercato della moda: Pitti Uomo nel 1972; Pitti Bimbo nel 1975; Pitti Filati nel 1977, Pitti Casa nel 1978. Alla fine degli anni 1970, però, Pitti cominciò a declinare a causa della carenza di infrastrutture e del mancato supporto dell’amministrazione locale. Negli anni 1970 e 1980, Milano divenne il centro del pret-a-porter femminile e delle collezioni degli stilisti, mentre Firenze riuscì a mantenere il suo ruolo centrale nella moda maschile e nel resto dell’industria tessile. Tuttavia, fu solo dopo una radicale riforma del management e della strategia del CFMI che Pitti riprese a svilupparsi negli anni 1980 e 1990. Il coinvolgimento di imprenditori italiani chiave è stato fondamentale. Ancora oggi, tutti i membri del consiglio di direzione sono imprenditori leader della moda, da Ferruccio Ferragamo a Laudomia Pucci a Brunello Cucinelli. L’attenzione per gli approcci innovativi, la sperimentazione, la selezione accurata di prodotti di alta qualità, l’abilità nell’aggiornare le fiere e gli eventi culturali per anticipare i cambiamenti dell’industria della moda hanno preservato e allo stesso tempo rinnovato il ruolo di Pitti Immagine. Ma chi sono gli stilisti di Pitti? Sono pochi i grandi nomi attualmente presenti nelle fiere a causa di cambiamenti nella catena di distribuzione; per lo più gli stilisti sono già proprietari di showroom e negozi mono-marca in tutto il mondo e pertanto possono fare a meno delle fiere. Le fiere servono invece agli stilisti che adottano strategie multi-marca e che hanno bisogno delle fiere come piattaforma commerciale e promozionale. “Lanvin, Dior non vanno alle fiere perché hanno i loro showroom. A volte la fiera rappresenta un punto di partenza per un nuovo stilista. Gli dà visibilità internazionale ed è una piattaforma commerciale. Basta pensare a Umit Benan, il vincitore di Who is on Next/Uomo nel 2009. Ha fatto il suo debutto a Pitti Uomo nel 2010 e ora sta con Trussardi” (L. Loppa, intervista personale). Un altro motivo per cui i responsabili degli acquisti vanno da Pitti è l’importanza dei partecipanti (selezionati da un comitato tecnico) e la qualità degli eventi a Fortezza da Basso, estremamente ricchi ed esclusivi. All’ultima edizione estiva di Pitti Uomo, la fiera più famosa di Pitti, vi erano 19.000 acquirenti, di cui 7.400 stranieri, 1.059 marche / collezioni, di cui 387 straniere, 59.000 metri quadri di spazio espositivo e un totale di 32.000 presenze. “Non è facile essere selezionati per la fiera. Devi passare per un comitato che controlla chi sei, la posizione di mercato e la strategia del tuo brand – chi e come – e cosa più importante se la tua collezione è in linea con l’immagine della fiera” (D. Mariniello, intervista personale). 388


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Oltre alle innovative fiere internazionali, Pitti Immagine ha dedicato risorse ingenti all’organizzazione di eventi culturali (Biennale di Firenze), a progetti volti a sviluppare la cultura della moda italiana e promuoverla all’estero (Ente Italia Moda), all’educazione attraverso Polimoda (una delle scuole di moda più prestigiose al mondo), alla digitalizzazione di archivi storici, a ricerche, conferenze, seminari e pubblicazioni. Pitti Discovery è stata creata nel 1999 allo scopo di studiare il rapporto tra moda, arte, architettura e comunicazione, selezionando le tendenze più innovative; molti eventi e pubblicazioni sono stati prodotti dedicati ad artisti quali Pipilotti Rist, Inez e Vinoodh, Vanessa Beecroft, Raf Simons e Gareth Pugh Fino agli anni 1980, il 90% delle fiere italiane erano controllate dalle associazioni rappresentate da Confindustria ed erano strettamente connesse al sistema produttivo regionale. La CFMI ha seguito una strategia diversa basata sull’internazionalizzazione e sulla cultura della moda. È stata una delle prime fiere ad invitare stilisti stranieri, nonostante le grosse resistenze. Ha iniziato inoltre a dedicare risorse ingenti alla organizzazione di eventi culturali, sfilate e progetti volti a promuovere lo sviluppo della cultura della moda. L’idea non era di competere o aggiungersi alle settimane della moda di Milano o Parigi, ma di esibire stilisti innovativi mai visti in Europa o in Italia, stabilendo una forte continuità con la tradizione culturale e artistica fiorentina. “La fiera non è una tipica fiera ma un festival della creatività. Il suo successo nasce dalla qualità delle idee, la qualità del progetto, la qualità della realizzazione, la qualità della comunicazione, la qualità dei partecipanti (R. Napoleone, intervista personale). In conclusione, i cambiamenti nel sistema di produzione e distribuzione della moda hanno fortemente influenzato il ruolo degli intermediari e in particolare il ruolo delle fiere della moda. Oggigiorno, le fiere non servono solo a vendere direttamente, ma ancora di più a offrire visibilità e comunicazione. La promozione non è solo rivolta ai responsabili degli acquisti, ma anche ai consumatori finali, grazie a nuovi e vecchi media e a una serie di eventi collegati. Le fiere sono una importante fonte di relazionamento, di informazione, di creazione e disseminazione delle conoscenze. Sono eventi particolari che organizzano tempo e spazio per raccogliere gli attori più importanti di un particolare segmento di una industria della moda geograficamente dispersa. I partecipanti non vengono solo per fare affari, ma anche per studiare la competizione e per farsi una idea generale delle attività e strategie del proprio segmento dell’industria della moda. Poiché gli aspiranti sono troppi, il problema è selezionarli, scelta che ha una grossa rilevanza strategica. La parola chiave è reputazione. Ci vuole tempo per crearla e impegno per mantenerla, anticipando costantemente in nuovi sviluppi del mondo della moda. La reputazione delle fiere è garantita dalla qualità delle idee, dalla comunicazione, dalla rigida selezione dei partecipanti. Per converso, la presenza a una fiera importante può aumentare il prestigio di uno stilista. Come abbiamo visto, però, le fiere non sono importanti per tutti gli stilisti: Esistono differenze per esempio tra i grandi nomi della moda e gli stilisti giovani, tendenzialmente caratterizzati rispettivamente da strategie mono-marca e multimarca. L’evoluzione di Pitti Immagine corrisponde alla definizione di “fiera intermediaria” proposta da Skov (2006). Questo tipo di fiera svolge diverse funzioni: serve per gli affari, la comunicazione, le reti di relazioni e la creazione e diffusione delle conoscenze. Le fiere di Pitti sono riuscite a essere non solo luoghi di affari, ma anche spazi di promozione della cultura della moda, attraverso eventi innovativi, progetti e pubblicazioni. Mantenendo criteri selettivi rigidi e una grande attenzione e qualità dei dettagli, Pitti è riuscita ad evolvere e a crearsi un nuovo ruolo senza perdere di importanza. 4. Posizionamento locale delle economie globali: l’industria della moda a Milano, Londra e Firenze L’industria della moda è geograficamente posizionata, in particolare nelle città, grazie a una serie di elementi, non tutti appartenenti al mondo della moda, i quali caratterizzano fortemente le relazioni territoriali in questo settore. In primo luogo, l’industria della moda è caratterizzata da un”alta concen389


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trazione di lavoratori, professionisti e persone di talento, i quali stabiliscono reti di relazioni locali fortemente radicate nell’ambiente urbano; in secondo luogo, i prodotti della moda vengono contaminati dalle specificità del contesto, in particolare per quanto concerne la creatività e le conoscenze locali; terzo, le istituzioni scolastiche e culturali, gli attori collettivi e le amministrazioni locali influenzano l’industria della moda in molti modi. Nella seguente sezione, esamineremo queste tre relazioni dell’industria della moda con la città, attraverso la presentazione di tre casi nei quali l’industria della moda è ancorata localmente, ma si posiziona sui mercati globali. Milano, Firenze e Londra sono tre città in cui l’industria della moda si relaziona in modo diverso all’ambiente locale e pertanto possono essere viste come tre diversi tipi rappresentativi di città di moda: Milano è il palcoscenico dove le marche potenti e di lusso attirano numerosi stilisti e persone di talento: il sistema funziona principalmente grazie a relazione strette ed informali. Londra invece è caratterizzata da un sistema ben organizzato, controllato da istituzioni forte e attori collettivi. A Firenze, infine, vi è una situazione particolare: le aziende di moda locali hanno rapporti stretti con le produzioni artigianali locali, in particolare nel campo della pelletteria, un vantaggio strategico che permette alle case di moda di essere competitive sul mercato globale dei beni di lusso. Milano: Comunità creative e reti relazionali locali L’economia culturale e creativa è spesso associata a una rete di lavoratori e creativi concentrata in città specifiche. Queste comunità evocano la Parigi dei primi del Novecento o la Beat Generation della San Francisco degli anni 1950. Il concetto di comunità creativa ha generato direttamente e indirettamente una serie di studi sulla concentrazione spaziale dei lavoratori nelle economie culturali e sui meccanismi sociali che governano le loro relazioni (Banks 2000; Molotch 2002; Menger 1999; d’ Ovidio 2010b). L’industria della moda di Milano è fortemente radicata nel contesto locale. Esiste una rete di creativi professionisti, attraverso il quale si fanno affari, si gestiscono le carriere e si risolvono problemi, grazie alla fiducia reciproca che la rete consolida. Cosa più importante, la rete è uno strumento fondamentale per riconoscere talenti e professionalità. Non soprende quindi l’esasperato bisogno di essere visto e riconosciuto nei posti “giusti” e il bisogno di interagire con altri professionisti. Come conseguenza, gli stilisti milanesi dedicano molto tempo agli incontri e alle interazioni, dagli eventi professionali alle feste (d’Ovidio 2010a, 2008). Gli stilisti hanno una rete di relazioni molto densa: l’attività di relazionamento costituisce di per sé un compito essenziale e difficile in molte aree. Le assidue interazioni tra gli attori milanesi hanno creato un sistema che Storper e Venables hanno chiamato il loop (“giro”, 2004): il circolo di riconoscimenti che produce e usa il capitale sociale a diversi livelli: crea fiducia tra gli operatori, promuove la circolazione di informazioni, riconosce i talenti. Il riconoscimento reciproco crea un circolo virtuoso che fa crescere la fiducia e il senso di affidabilità degli operatori. Si tratta di un fattore essenziale: molte attività, infatti, vengono organizzate intorno a un progetto a cui lavorano molti professionisti indipendenti. La fiducia e la conoscenza permettono alle persone di lavorare insieme e condividere la loro conoscenza ed esperienza. Una delle informazioni chiave che viene scambiata all’interno della rete, riguarda le carriere dei vari attori, che tendono ad essere molto flessibili. È essenziale, infatti, contare su una vasta rete di relazioni per assicurarsi una continuità di lavoro ed essere in grado di spostarsi da un impegno all’altro. Infine, le reti funzionano anche come strumento attraverso cui viene riconosciuto il proprio talento: in ambiti altamente competitivi, è necessario asseverare costantemente il proprio valore e dimostrare di avere le qualità necessarie per lavorare. Il gruppo funziona come una sorta di specchio che riflette le abilità dei partecipanti. L’essere membro del gruppo garantisce di per sé la reputazione dei membri. La forza degli stilisti e delle reti relazionali a Milano ha una lunga storia. Nel 1972, Aldo Ferrante, il leader di cinque marche di moda, decise di tenere una sfilata a Milano. Venne immediatamente seguito da molti giovani stilisti milanesi, quali Missoni e Krizia, che lasciarono anche essi Firenze per esibire a Milano. L’anno seguente, Giorgio Armani scelse anche lui Milano per il suo debutto. La sfilata di Milano 390


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fu un assoluto successo, grazie a molti fattori, tra cui la posizione geografica e gli stretti legami con i mercati stranieri (Foot 2001), ma anche, e cosa più importante, per l’esistenza di reti relazionali a tutti i livelli del sistema della moda. Le reti coinvolgevano stilisti, agenzie di moda, PR, giornalisti, redattori e fotografi di riviste, gestori di negozi e showroom, e così via (White 2000). Milano era anche il centro dell’industria editoriale della moda, da Vogue Italia ad Amica, che si erano già stabilite a Milano negli anni 1960. Inoltre, lo nascita di molte aziende di design industriale, il successo della Triennale e l’immagine di Milano come città di design e innovazione, rendevano Milano la città ideale anche per gli stilisti di moda. Il sistema della moda milanese, guidato dai grandi nomi e dalle case più importanti, è costantemente attivo per mantenere la propria posizione ai vertici del sistema nazionale e internazionale, attraverso varie strategie. Gli stilisti milanesi sono in primo luogo figure pubbliche e asseverano la loro importanza occupando simbolicamente lo spazio urbano. In aggiunta, la rete che si sviluppa intorno all’industria della moda promuove una serie di eventi per dare spazio agli stilisti giovani ed emergenti, in modo da arricchire l’ambiente creativo della città: White, The Vogue Talents Corner, My Own Show, sono alcuni degli eventi organizzati dalle riviste, dalle scuole e dalle case di moda per promuovere la nuova creatività. Rimane il fatto, tuttavia, che a causa della forza e del potere economico degli attori principali, rimane molto difficile affermarsi a Milano per uno stilista emergente. Paradossalmente, la forza degli attori dominanti è quindi la minaccia principale per il sistema milanese che rischia di collassare se non viene stimolato e ravvivato da una nuova generazione di stilisti. Londra: Una forza lavoro che promuove l’industria della moda locale Una delle caratteristiche distintive dell’industria della moda londinese è il fatto che le istituzioni, gli attori collettivi e gli stilisti interagiscono tutti all’interno di una vibrante atmosfera creativa. Questa interazione influenza l’ambiente creativo in due modi fondamentali: in primo luogo, attraverso forti reti relazionali che legano gli stilisti e altre figure, come nel caso di Milano; in secondo luogo, attraverso il ruolo delle istituzioni e degli enti che si adoperano per promuovere l’industria della moda locale. Le reti relazionali coinvolgono, come a Milano, creativi, stilisti, designer, giornalisti, accademici legati alle scuole di moda e così via. Anche le funzioni delle reti sono simili a quelle di Milano. Tuttavia, a differenza che a Milano, le relazioni tra gli stilisti sono spesso basate anche sulla collaborazione creativa, il che aiuta a sviluppare la creatività e le nuove idee. Questo avviene in particolare tra gli stilisti “freschi di scuola” che sono ancora molto legati alle reti accademiche. Molti stilisti, inoltre, stabiliscono intense relazioni con il mondo dell’arte, molto di più di quanto non succeda a Milano: all’interno della rete, pertanto, gli stilisti diventano parte di un ambiente artistico più vasto con cui condividono molto del loro lavoro. Vi è poi un secondo fattore cruciale per l’industria della moda londinese: il ruolo delle istituzioni pubbliche e private. Nel campo della moda, le scuole di moda e il British Fashion Council sono stati, assieme alla rete degli stilisti, i principali responsabili della costruzione del forte sistema londinese della moda e della sua reputazione internazionale. Le scuole di moda si concentrano su due obiettivi: insegnare a esprimere al meglio la creatività e formare stilisti di successo. È importante il fatto che le scuole di moda facciano solitamente parte di università delle belle arti, il che aiuta a insegnare la moda a partire dai suo aspetti creativi, stimolando gli studenti a sperimentare e esprimersi il più possibile. Per converso, in linea con il secondo obiettivo, gli studenti vengono addestrati a lavorare immediatamente come stilisti di moda e incoraggiati a creare le proprie griffe. Questo è naturalmente reso possibile anche grazie agli stretti rapporti tra le scuole di moda e il British Fashion Council. Gli studenti diplomati in una delle scuole di moda di Londra, non solo sono molto preparati e già inseriti nel sistema, hanno anche un capitale sociale da sfruttare per la loro carriera: i loro ex-compagni di classe e i loro insegnanti, in quali sono spesso essi stessi degli stilisti. Nel sistema londinese, pertan391


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to, sia il capitale sociale che quello culturale possono essere facilmente riprodotti. Assieme alle scuole di moda, il British Fashion Council promuove l’industria della moda attraverso strette relazioni con le scuole di moda, il che rende il sistema estremamente potente. Tra i vari premi che il BFC organizza per promuovere l’industria, i più importanti per i nuovi stilisti sono i premi NEWGEN, che danno la possibilità di presentare la propria collezione al Fashion Show. Negli ultimi 10 anni, più di 50 stilisti hanno ricevuto il premio NEWGEN. Molti di loro sono ora al centro della scena mondiale, come Peter Pilotto, il quale sarà ospite della prossima sfilata di Pitti a Firenze, Christopher Kane e Giles Deacon Alla luce di tutto questo, è facile capire perché l’industria della moda di Londra sia altamente innovativa e spesso sperimentale. Se questo è il principale punto di forza della produzione locale, è anche il suo principale limite. Paradossalmente, si ha l’impressione che il sistema della moda londinese non sia in grado di beneficiare a pieno delle sue capacità innovative quando si tratta di adattarle ai gusti dei consumatori. Se è vero, infatti, che il mercato della moda si basa sulla costante innovazione del gusto dei consumatori, è anche vero che un eccesso di innovazione può impedire a un prodotto di accedere a un mercato esteso, ed è questo che impedisce un vero e proprio boom della moda londinese. Inoltre, e in relazione a quanto sopra, il British Fashion Council non promuove la moda all’estero. Il risultato è che la moda di Londra rimane confinata principalmente al mercato nazionale. Infine, dal punto di vista della produzione, la moda londinese, e inglese in generale, soffre di due ulteriori limitazioni. In primo luogo, le scuole non enfatizzano molto gli elementi sartoriali della moda e le conoscenze tecniche in questo campo rimangono spesso poco sviluppate. In secondo luogo, l’Inghilterra ha scarse capacità produttiva nel settore dell’industria della moda e del vestiario e questo influenza negativamente le capacità e le conoscenze tecniche degli stilisti inglesi. Firenze: una combinazione perfetta di creatività e artigianato locale In molti studi sulle cosiddette città creative, si fa riferimento ad ambienti locali stimolanti che aiutano lo sviluppo della creatività. Questi ambienti, si osserva, sono più adatti di altri ad ospitare industrie culturali. Recentemente, Bertacchini e Santagata hanno fatto una descrizione di tali ambienti creativi che tiene conto della combinazione di abilità, conoscenze, sperimentazione. Stando agli autori, “quando il sistema di idee raggiunge la sua massa critia, l’atmosfera creativa diventa visibile ed efficace” (Bertacchini e Santagata 2012:20). In modo simile, un altro filone di ricerca ha analizzato il modo in cui elementi specifici della cultural locale, in particolare le conoscenze e le abilità artigianali, possono essere decisive per lo sviluppo di economie culturali locali (Micelli 2010). Su questa linea, Bovone (2006) usa l’espressione “quartiere alla moda” per identificare un”area di prestigio recente in cui l’intera filiera di un settore dell’economia simbolica è presente: produzione, significazione, consumo. In queste aree, i soggetti creativi vengono attratti dalla presenza di altri soggetti creativi o innovativi e di artigiani, e questo da modo loro di sfruttare l’atmosfera creativa e rinforzarla a loro volta. Una atmosfera creata dall’interrelazione tra artigianato, conoscenze tecniche, creatività, saperi taciti o condivisi, estetiche locali e così via (Bovone 2006). Firenze, per quanto riguarda l’industria della moda, è una città dove l’atmosfera creativa è effettivamente visibile ed efficace. Le conoscenze tecniche locali in tutti i settori del sistema moda (pelletteria, tessili, vestiario, scarpe e anche oreficeria) si sovrappone a un forte spirito imprenditoriale, a una brillante creatività e a buone relazioni con le istituzioni locali. Molte delle case di moda di Firenze hanno lunghe tradizioni, alcune risalgono addirittura ai primi del 1900, quando erano piccoli laboratori artigianali che si sono poi trasformati in centri di shopping cittadino. Grazie alla presenza nel fiorentino di numerosi artigiani, queste aziende sono state in grado di aumentare la produzione senza perdere le loro specificità. Dopo i successi iniziali delle ditte più antiche, molte altre aziende hanno avviato attività in zona, beneficiando sia della creatività della città che degli artigiani locali. Oggigiorno, le case di moda fiorentine riescono a far circolare in tutto il mondo prodotti di moda caratterizzati da una distinta impronta artigianale. 392


A. Pratt, P. Borrione, M. Lavanga, M. D’Ovidio Trasformazioni internazionali ed evoluzioni tecnologiche del mondo della moda

Nel suo complesso, il distretto della moda toscano ha un fatturato vicino ai 20 miliardi di euro, poco meno di un quarto del PIL dell’intera regione, ed è uno dei principali esportatori della regione. Per quanto riguarda le esportazioni dall’Italia, la Toscana “firma” il 20% del tessile nazionale, il 12% del vestiario, il 22% delle scarpe e addirittura il 40% della pelletteria. Tra Scandicci e Valdisieve, ma anche più a sud verso Valdarno Aretino, c”è una rete di artigiani piccoli e molto piccoli che producono borse, portafogli e cinture per la maggioranza degli stilisti internazionali. L’area serve infatti non solo i maggiori gruppi con base in Toscana – quali Gucci, Prada e Ferragamo – ma anche gruppi gestiti altrove, quali Louis Vuitton, Dior, Chanel e Céline, che trovano in questo ambiente le conoscenze e l’organizzazione del lavoro adatta alle loro esigenze qualitative, ma anche la flessibilità di cui hanno bisogno. Nel fiorentino, vi è un numero significativo di case di moda integrate in questo contesto, alcune delle quali collocate nel segmento alto del sistema globale della moda, altre orientate verso mercati di nicchia, ma tutte con una presenza significativa sul mercato internazionale. Tutte hanno stretti rapporti con i distretti artigianali locali, principalmente, ma non esclusivamente, con quelli della pelletteria. Le case di moda locali hanno successo grazie alla loro capacità di combinare spirito imprenditoriale, creatività e artigianato. Questo è reso possibile anche dalla “atmosfera creativa” e dal ruolo degli attori e delle istituzioni locali. La loro qualità distintiva è quindi la forte impronta artigianale della loro produzione, il che rende possibile usare il loro “Made in Italy” o addirittura “Made in Tuscany” come strategia di marchio. La maggior parte delle sedi delle aziende di moda fiorentine ospita insieme l’ufficio creativo e la fabbrica, cosicché designer e stilisti, sviluppatori e artigiani possono lavorare insieme alla elaborazione dei prototipi. Una volta sviluppati, i beni prodotti localmente (attraverso le reti di piccole e piccolissime imprese) vengono distribuiti in tutto il mondo. Per poter meglio analizzare e descrivere i rapporti tra il fiorentino e l’industria della moda, forniamo qui tre esempi di aziende nel campo della moda. Va premesso che anche se i tre casi rappresentano bene tre diversi tipi di aziende di moda presenti localmente, essi vanno considerati come casi di studio e non come un campione rappresentativo del sistema della moda nel suo complesso. Il primo caso è quello di Cavallini, una azienda di nicchia, specializzata in filati, calze e calzetteria, e una piccola collezione di vestiti senza cuciture. Uffici, dipartimento creativo, fabbrica e distribuzione sono tutti collocati all’interno dello stesso grande edificio di San Miniato, alle porte di Firenze. Cavallini sfila regolarmente alla settimana della moda di New York e i suoi prodotti sono venduti in tutto il mondo, specialmente negli Stati Uniti e in Inghilterra. L’intera produzione e distribuzione è gestita dall’azienda, ad eccezione della produzione della lana. L’azienda si basa su due elementi: da un lato la creatività e il genio di Emilio Cavallini, il fondatore della compagnia, il quale ha lavorato e fatto ricerca a lungo a Londra per poi tornare nella sua terra e fondare una propria azienda. Dall’altra, la tecnologia avanzata e le abilità artigianali necessari a mantenere una posizione così alta sul mercato. L’azienda è situata in un”area che precedentemente ospitava un distretto di calzetteria e intimo. Oggi molti produttori si sono spostati nel bresciano, dove si concentra molta della produzione italiana. Cavallini è rimasto nella zona per due motivi principali. In primo luogo, le competenze locali erano molto importanti per la sua produzione. Era essenziale rimanere in zona per continuare a lavorare con le stesse persone (non solo i dipendenti dell’azienda, ma anche i produttori di lana, i tintori, i tecnici delle macchine). In secondo luogo, essendo i suoi prodotti destinati a un mercato di nicchia, caratterizzato da un alto valore aggiunto dato dai componenti immateriali, era più importante mantenere un alto livello di qualità e design che ridurre i prezzi. Cavallini è un buon esempio di prodotti altamente selezionati e innovativi, creati sulla base di conoscenze molto specifiche unite a grande creatività e distribuiti in tutto il mondo. Il secondo caso in oggetto è quello di Ermanno Scervino, una giovane azienda del fiorentino fondata nel 2000, che ha saputo trarre vantaggio dalle competenze artigianali della zona e dalla creatività del suo fondatore. Nel 2007, una nuova sede è stata aperta a Grassina, nella zona collinare vicino Firenze. L’atelier, il laboratorio di ricerca e i dipartimenti dei prototipi, della tessitura e rifinitura dei capi sono tutti presenti nella nuova sede, cosicché ideazione e produzione sono sempre in contatto. Questo è 393


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funzionale alla strategia operativa di Ermanno Scervino, basata sul suo diretto coinvolgimento nella ricerca e in tutte le fasi della lavorazione. La nuova sede ospita anche gli uffici responsabili dell’amministrazione, produzione e distribuzione dell’intero gruppo. La produzione è realizzata interamente in Italia, come per molte aziende fiorentine. I prototipi, la ricerca e lo sviluppo sono realizzati interamente all’interno della compagnia che è divisa in due piccole sezioni: filati e abiti da sposa. Nonostante la forte tradizione, tuttavia, non è sempre facile rimpiazzare la manodopera. Quella proveniente dalle scuole professionali non è sufficientemente preparata e deve essere addestrata all’interno dell’azienda. Infine, Gucci. Fondata nel 1921, da Guccio Gucci, l’azienda era inizialmente una piccolo luogo di lavoro dove scarpe e borse erano prodotte e vendute sul posto. Oggi è un “gigante” globale con un fatturato di 3 miliardi di euro, 8.000 dipendenti e 350 negozi sparsi per il mondo. Tutta la produzione avviene in Italia, dove impiega (direttamente e indirettamente) circa 45.000 persone. Anche se aspetti artigianali sono sempre stati presenti, negli ultimi 3 anni l’azienda ha deciso di rafforzarli, sia dal punto di vista dell’immagine sia concretamente, attraverso una serie di azioni volti a rinforzare questi aspetti della filiera produttiva. Tra i molti programmi attivati, due meritano una particolare attenzione. Il primo è un accordo firmato nel 2009 tra Gucci, i sindacati, Confindustria e altre istituzioni locali, attraverso il quale è stato istituito un Comitato Permanente che si occupa delle politiche di filiera. Il compito principale del Comitato è quello di promuovere azioni volte a sostenere gli standard di responsabilità sociale, valorizzare le conoscenze locali, perseguire strategie innovative, e anche sostenere finanziariamente le piccole e medie imprese locali. Il secondo programma, implementato nel 2011, è stata la sponsorizzazione da parte di Gucci di reti che legassero i suoi fornitori diretti e indiretti. Il risultato è stato l’istituzione di tre reti che uniscono un totale di 24 piccole e medie imprese (per un totale di più di 600 dipendenti), che cooperano sull’aumento dell’efficienza, sull’innovazione tecnologica e organizzativa, sugli standard di qualità e sulla sostenibilità. Il ruolo di Gucci è quello di mediare e facilitare e di fornire consulenze sugli aspetti organizzativi, dell’addestramento e finanziari. L’azienda Gucci è quindi basata su tre pilastri: eccellenza creativa, qualità artigianale dei prodotti, politiche socialmente e ambientalmente responsabili. Questa è l’audace ricetta con cui Gucci ha scelto di competere sul mercato globale. Da questa panoramica emerge non solo l’alto valore della tradizione artigianale fiorentina, ma anche la necessità per le case di moda di rimanere molto competitive nel campo del design e della ricerca. Un altra sfida che la zona del fiorentino si trova ad affrontare in questo periodo è la debolezza strutturale delle piccole e medie imprese che in periodi di crisi rischiano di fallire, in assenza di politiche di sostegno. Una buona strategia in questo campo sembrano essere le alleanze tra pubblico e privato, ma queste dovrebbero essere implementate su larga scala e con maggiore chiarezza nelle responsabilità.

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Industria del Gusto: un nuovo paradigma italiano Christian Barrère, Aldo Buzio, Alessia Mariotti, Alessandro Corsi, Paola Borrione

Come nel famoso apologo di Menenio Agrippa (Tito Livio, Ab Urbe condita libri: II. 16, 32, 33) il ventre assume un ruolo strategico, diremmo oggi, rispetto alle altre funzioni e organi del corpo umano, così nel mondo della cultura, dei commerci e dell’industria il cibo e la gastronomia assumono un’importanza strategica per senso di creatività, per capacità distributive, per seduzione dei consumatori e dei turisti culturali e in definitiva per capacità di valorizzare l’identità di un modo di vivere e pensare di una comunità nazionale. Il cibo e la gastronomia rappresentano una produzione culturale di eccellenza a tutto campo che in Italia e nel mondo conquista sempre nuovi estimatori. Cibo e cultura è oggi non solo un binomio ovvio ai più, ma una vera vetrina della capacità italiana di parlare alle culture e alle pance di tutti i paesi del mondo. E, come si vedrà più oltre, il cibo parla con un linguaggio fatto di semplicità e creatività, con esempi che valorizzano più gli alimenti puri che la loro preparazione, più l’autenticità dei sapori che il loro amalgama spesso coniugato con salse e leganti in definitiva estranei. Con la moda e il design industriale la gastronomia italiana è la punta di diamante della produzione culturale contemporanea. È una delle strade di penetrazione sui mercati internazionali. È un successo rinnovato tutti i giorni su migliaia di tavole imbandite nel mondo. Se si ricerca su Google “Italian cuisine” compaiono 53,6 milioni di voci, di poco inferiori ai 56,9 milioni di “French cuisine”, e ampiamente superiori ai 49,6 milioni della “Indian cuisine” ed ai 47,6 milioni della “Chinese cuisine”. L’interesse suscitato dalle gastronomia italiana si lega, come vedremo, anche a quello della ristorazione italiana. In questa prospettiva, l’obiettivo di questa ricerca è di descrivere l’evoluzione dell’industria del gusto in termini di nuovi modelli di creazione, produzione e consumo e analizzare come la cucina e la gastronomia italiana stiano emergendo a livello internazionale come un nuovo paradigma che ha saputo cogliere e anche anticipare i principali cambiamenti avvenuti nell’industria del gusto. 1. La crisi del modello gastronomico in Francia: opportunità per l’Italia Presente su tutti i mezzi di comunicazione, la gastronomia e, in particolar modo, l’alta gastronomia suscita un interesse crescente. In Francia, ma anche negli Stati Uniti e in Giappone, i giornali presentano rubriche gastronomiche. In televisione si vedono numerosi documentari sul “dietro le quinte” di palazzi e ristoranti di lusso. Su Internet sono presenti più di 200 blog specializzati in cucina. I libri di ricette e le guide gastronomiche sono ormai entrati nella categoria dei best sellers. Tutti questi discorsi sulla gastronomia non sono rivolti a una ristretta élite di persone, ma a milioni di consumatori potenziali. Come ulteriore testimonianza di questo interesse di massa verso il mondo della gastronomia possono essere intesi il numero crescente di corsi di formazioni universitaria sulla gastronomia (B. Santich, 2004) : uno dei più celebri è quello dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo e Colorno (in Italia), fondata dal movimento Slow Food. L’interesse per la gastronomia non si traduce solamente in un’inflazione di quello che viene definito come “discorso gastronomico”. Il campo gastronomico si sta estendendo, a dispetto dell’innalzamento, continuo ed elevato, dei prezzi e la domanda di gastronomia non è più limitata a un mercato ristretto, ma è oggi una domanda di massa. Ancor più, un numero crescente di ristoranti di categoria elevata ha rinunciato alla cucina sofisticata ed elitaria che li caratterizzava, per “rinnovarsi andando alle radici 395


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della cucina”. Questa evoluzione, apparentemente legata alla democratizzazione della gastronomia, mette in dubbio il vecchio modello di gastronomia elitaria. Questi elementi di messa in discussione oltrepassano il caso della Francia, nella misura in cui il modello dominante di gastronomia nel mondo era basato sul modello francese, creato e sviluppatosi nel corso dei secoli. Ogniqualvolta è emersa una tradizione culinaria, infatti, si è cercato di imitare le modalità organizzative e i valori del modello francese che si era imposto nel tempo sui suoi rivali potenziali. Diviene dunque particolarmente interessante chiedersi se possano emergere, nel mondo e in particolare in Italia, dei modelli alternativi suscettibili di proporre nuove forme di gastronomia. Il modello gastronomico francese La gastronomia si è costituita a partire dalla separazione del cibo come semplice nutrimento dalla sua preparazione, dando così alla cucina una funzione di piacere e non solo di nutrizione, allontanandosi dunque dal registro della necessità per entrare in quello dell’edonismo, del piacere. La gastronomia francese ha due sottoinsiemi: - da una parte le corti dei principi e poi quella reale sono state il luogo di sviluppo molto veloce di una cucina aristocratica il cui fine era affermare la potenza dei sovrani, a confronto con i poveri da un lato e in concorrenza con gli altri potenti dall’altro. - dall’altra, nel tempo, si è formata una gastronomia popolare, di solito a livello regionale, sulla base di prodotti locali e destinata a occasioni straordinarie come feste e cerimonie. A seconda dell’importanza e varietà dei prodotti locali sono emerse più culture culinarie, con un forte ancoraggio territoriale. Tali culture privilegiano alcuni prodotti, definiscono i modi di preparazione, selezionano alcuni piatti emblematici, normalizzano le ricette locali. La borghesia ha esitato a lungo fra la cucina popolare e quella aristocratica, e ha adottato progressivamente una versione edulcorata della cucina aristocratica, per distinguersi dal resto del popolo. L’evoluzione e l’organizzazione del modello elitario Nel Medioevo in tutti i paesi il banchetto aristocratico era caratterizzato dagli eccessi. Con la cucina di corte lo chef diviene un elemento di distinzione per i potenti, che cercano di avere al loro servizio i migliori. Per stupire i potenti gli chef, grandi maestri di cucina, fanno appello alla creatività: nuove ricette, nuove salse, nuove modalità di presentazione dei piatti. Da artigiani divengono artisti, e la cucina non è più un’attività materiale ma diviene un’opera intellettuale, estetica e formale (Parkhurst-Ferguson, 2004). La caduta dell’aristocrazia a causa della Rivoluzione francese segna l’inizio della mercificazione della cucina; gli antichi cuochi dei circoli aristocratici si riconvertono aprendo ristoranti e sviluppando una versione edulcorata della cucina aristocratica per la media e alta borghesia. Brillat-Savarin (17551826) e Antonin Carême (1783-1833) furono i principali attori di questo processo di normalizzazione. Crearono un sistema coerente di salse, zuppe, pasticceria, contorni di verdure (Parkhurst-Ferguson, 2004: 32). Allo stesso tempo selezionarono all’interno delle tradizioni culinarie popolari e regionali i piatti e le ricette che meritavano di essere inseriti all’interno della “cucina francese legittima”, e ne esclusero altri considerati “di basso livello” o “di interesse meramente locale”. L’associazione tra la base aristocratica e la versione borghese della gastronomia francese è rimasta il cuore del modello gastronomico francese. Tale modello può essere definito come elitario poiché si inscrive in un paradigma del gusto specifico, elitario per l’appunto. La gastronomia d’élite drena a Parigi tutti i prodotti di qualità disponibili sul territorio francese, aiutata in quest’opera dalla centralizzazione giacobina dei trasporti. La catena di produzione è in questo modo lunghissima. I prodotti utilizzati devono essere rari, “nobili”, di estrema qualità. La cucina è un’attività professionale che necessita di una formazione specifica e di lunga durata. Lo chef è un creativo, 396


C. Barrère, A. Buzio, A. Mariotti, A. Corsi, P. Borrione Industria del gusto: un nuovo paradigma italiano

con uno status vicino a quello dello stilista di alta moda. Il ristorante di alto livello costituisce il cuore del modello gourmet. I piatti che vengono serviti sono il frutto di ricette sofisticate, creativi e molto laboriosi in termini di tempo. Il ristorante offre una profusione di piatti, con ampia scelta, e molti beni e servizi accessori (una cantina molto fornita, sigari, alcolici…). I costi di gestione e i prezzi sono elevati o molto elevati. Il modello di funzionamento è un modello di offerta, in cui il cuoco non risponde a una domanda preventiva da parte dei clienti, ma definisce il prodotto offerto e attira così la propria clientela. Il ristorante di alto livello si trova alla cima della piramide gastronomica e occupa la sua nicchia di élite, diffondendo le proprie innovazioni verso i segmenti inferiori in una logica top-down. La critica gastronomica legittima questo modello promuovendo i grandi cuochi e esigendo da loro un ambiente lussuoso. Verso la crisi del modello elitario La crisi del modello elitario non è evidente solo in territorio francese, ma in Francia è più marcata, anche per il peso che la gastronomia dì élite occupa in Francia nell’insieme della gastronomia e anche della ristorazione. La svolta degli anni ‘90 Come dimostrano Barrère, Bonnard and Chossat (2010) utilizzando dati sui ristoranti francesi presenti nella Guide Michelin dal 1950 al 2010, si possono identificare alcune tendenze che mettono in luce la crisi del modello elitario. Fino al 1990 si osserva un’evoluzione dei ristoranti di alto livello e un allineamento ai criteri di lusso dei grandi ristoranti, con i prezzi che hanno la stessa ascesa. Tuttavia, le cose cambiano molto a partire dal 1990. Il segmento di basso livello, che fino a quel momento era regredito, inizia al contrario ad aumentare in maniera netta e sempre più regolare, a danno degli altri: passa dal 17% in media nel 1990 al 36% nel 2000 e al 48% nel 2010. Così ristoranti che offrono un ambiente di livello modesto vengono riconosciuti come esercizi di ristorazione. Tale cambiamento riflette l’adattarsi della filosofia della guida Michelin e il riconoscimento della democratizzazione della gastronomia, in seguito ai cambiamenti dell’offerta e della domanda. Le difficoltà del business model del ristorante di alto livello Diversi cuochi famosi hanno dimostrato in questi ultimi anni di avere un’attitudine iconoclasta, poiché venendo meno alla tradizione, hanno rinunciato volontariamente alle loro stelle Michelin. Alain Senderens (Lucas Carton, Paris, Ile-de-France) ha spiegato di volere applicare “i principi del low cost a un’attività di lusso”, la gastronomia. Una prima spiegazione dell’inversione del movimento di inflazione del lusso che aveva in precedenza caratterizzato la cucina francese, viene dall’aumento continuo dei costi dovuti alla concorrenza a livello elitario. Michel Guérard (tre stelle a Eugénie-les-Bains) segnala che il prezzo di una sedia nella sua sala da pranzo ha oggi raggiunto i mille euro, mentre al Meurice de Yannick Alleno, i candelabri di Lalique costano 700 euro l’uno. A tutto ciò si aggiunge il fatto che nei settori con un processo di produzione fondato sul lavoro delle persone, i guadagni in produttività sono molto limitati (al contrario di quanto accade nel settore industriale), tanto che i prezzi relativi dei beni dei primi non possono che aumentare in maniera continua. Alla Enoteca Pinchiorri di Firenze, uno dei pochi tre stelle Michelin italiani, la proporzione tra addetti al ristorante e alla cucina e clienti sembra essere “uno a uno”, con elevati costi conseguenti. Da ciò deriva che la gastronomia di élite è condannata all’aumento dei prezzi. I grandi ristoranti, schiacciati fra l’innalzamento dei costi delle materie prime sempre più care e le spese salariali crescenti, sono obbligati a proporre dei conti sempre più elevati, e, allo stesso tempo devono 397


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avere tassi di occupazione dei tavoli elevati. Il grande ristorante di élite non può vivere che in luoghi in cui vi sia una clientela ricca, internazionale e che si rinnova di continuo. Una seconda motivazione spiega le difficoltà di tale modello. Si tratta della questione della successione del creatore. Il capitale più importante del ristorante di élite è in effetti la reputazione del suo cuoco, direttamente legata al suo talento e al suo investimento personale nel locale. È un capitale di tipo idiosincratico, che dipende dalla persona dello chef-creatore. Quando lo chef muore non vi è niente che assicuri in maniera automatica il mantenimento del valore del capitale di cui lui era portatore. Quando la successione è assicurata dai figli, i clienti potenziali possono immaginare una continuità, che diviene molto più labile nel caso in cui non vi sia la linea di successione familiare. È questo il motivo per cui, oltre ad adottare la successione a livello familiare, i ristoranti di élite cercano di passare, esattamente come nel campo dell’alta moda (Barrère e Santagata, 2005), dalla “firma” (il nome proprio del creatore) alla “marca” (quale garanzia di qualità), come hanno fatto con successo Robuchon, Bocuse o Ducasse. Quando si posseggono più di dieci ristoranti nel mondo con attività annesse e connesse, tutti sanno che i cuochi non possono stare dietro ai fornelli di ognuno dei ristoranti di loro proprietà, ma il loro nome è una garanzia di qualità: un ristorante Bocuse è un locale in cui lo chef sarà stato selezionato con cura, le procedure di qualità saranno rispettate, gli approvvigionamenti si faranno presso i produttori di qualità e così via. I cambiamenti della domanda Con la crescita del livello di vita delle classi medie nei paesi industrializzati, la clientela della gastronomia gourmet è aumentata. Di questo trend fa parte anche lo sviluppo del consumo di beni con caratteristiche edonistiche, segnalato, fra l’altro, dall’inflazione del discorso gastronomico nei media. Avviene così che la domanda gastronomica non si inscrive più solamente in una logica elitaria, che giustificava l’egemonia dei ristoranti di alto livello. La valorizzazione dei prodotti naturali, l’accento sul legame tra prodotti o ricette e territori, la concezione degli stessi come elementi facenti parte del patrimonio nazionale, regionale o locale, rispondo a una domanda di identità da parte dei consumatori. La volontà di rispettare le stagioni, di rifornirsi presso produttori di qualità e di dimensioni ridotte, rispettosi dei saperi tradizionali, di favorire la prossimità, rispondono alla crescita dei valori ecologisti. L’apertura a nuovi sapori e a nuovi modi di lavorazione dei prodotti corrispondono invece all’ascesa del multiculturalismo e del desiderio di entrare in contatto con nuovi patrimoni culturali, più o meno lontani dalla propria cultura d’origine. Il cuoco è sempre meno riconosciuto per la sua capacità di presentare o lavorare con prodotti di lusso (caviale, aragoste, animelle, tartufi,...) e sempre più per la sua creatività. Tuttavia, il patrimonio aristocratico che ha fondato la cucina elitaria francese e che le ha dato un vantaggio competitivo indiscusso ostacola la possibilità di adattarsi ai cambiamenti in corso e alla circolazione delle culture, comprese quelle culinarie. In questo modello le forme dell’offerta sono istituzionalizzate (il menu con la scelta di piatti volti a valorizzare i prodotti rari e di qualità, concepito per offrire ciò che è straordinario), così come le modalità di composizione e preparazione. Tutto ciò crea delle barriere al cambiamento e rende più difficile l’inserimento di elementi provenienti da altre culture culinarie. La sfida della cucina industrializzata I cambiamenti sociali avvenuti nella fase della crescita del secondo dopoguerra hanno condotto all’aumento del numero dei pasti consumati fuori casa e, allo stesso tempo, alla ricerca di economie di tempo nella preparazione dei pasti all’interno della sfera domestica. Le industri agro-alimentari hanno così avuto forti stimoli per la ricerca di innovazioni che facciano risparmiare tempo. Surgelati, forni a 398


C. Barrère, A. Buzio, A. Mariotti, A. Corsi, P. Borrione Industria del gusto: un nuovo paradigma italiano

microonde, nuove tecniche di conservazione hanno invaso le cucine domestiche e quelle professionali. La ristorazione commerciale ha adottato in maniera massiccia queste nuove tecniche, esternalizzando così una parte considerevole e crescente del processo di produzione culinaria. Questo movimento ha colpito anche il dominio gastronomico della ristorazione commerciale. Tuttavia l’industrializzazione della cucina ha permesso a diversi locali di ottenere a basso costo le caratteristiche elitarie della gastronomia tradizionale, procurandosi a prezzi contenuti dei prodotti un tempo di lusso o ormai consegnati “chiavi in mano”. In numerosi ristoranti presumibilmente gourmet, di livello medio, i cuochi si trasformano in assemblatori e “riscaldatori” di prodotti industriali pronti, grazie alle nuove tecniche di conservazione. In questo modo sono possibili forti economie a livello di costi del lavoro, grazie alla riduzione dei tempi di preparazione dei piatti e alla sostituzione dei lavoratori altamente qualificati del passato con manodopera poco qualificata. Le grandi firme dell’agroalimentare, che hanno in un primo tempo proposto questi prodotti alle famiglie, hanno ora sviluppato linee professionali, che si indirizzano alla ristorazione commerciale. A lato delle catene di ristorazione industriale di massa, una parte crescente della ristorazione commerciale tradizionale, compresi i locali sino ad oggi considerati gourmet, oscilla in una nuova categoria, quella della ristorazione industrializzata. L’industrializzazione dei gusti alimentari fa parte del movimento di mercificazione della cultura, anch’esso legato alla possibilità di standardizzazione e riproduzione in serie dei beni e all’esigenza di ottenere un ritorno sui capitali investiti in questi ambiti. Avviene così che il ristorante d’élite non è più l’unico modello di organizzazione dell’offerta gastronomica: si è sviluppato una sorta di pluralismo gastronomico e sono apparsi nuovi modelli di ristorazione di alto livello. Il lusso e il gusto non sono incarnati solo più da modalità di preparazione dei cibi ricercate, mentre la creatività applicata a materie prime tradizionali attira una clientela sempre più vasta, alla ricerca di nuovi codici alimentari, attenta alla qualità e alla salubrità dei prodotti, e prende le distanze dal lusso e dal conformismo del quadro tradizionale del grande ristorante. “Gourmet low cost” e nuova gastronomia urbana sono i trend della democratizzazione e del consumo di massa della cucina di qualità. 2. Creatività e cultura nel settore del gusto: mercati, consumatori e filiera produttiva Buono, Pulito e Giusto. Il titolo del libro scritto da Carlin Petrini (2011) riassume i principi chiave dell’associazione Slow Food che possono considerarsi alla base di un nuovo modello di industria del gusto che si sta imponendo a livello internazionale e trova, sotto molti punti di vista, in Italia un esempio indiscusso. Poter parlare dell’enogastronomia italiana come di un settore della produzione culturale e analizzarne le peculiarità creative è sicuramente possibile grazie alla diversa considerazione di cui gode il cibo anche grazie alla rivoluzione filosofica e dei consumi rappresentata dal movimento Slow Food, esempio di un crescente interesse del pubblico verso le tematiche della qualità, della salute e della sostenibilità nella produzione agricola e nel consumo alimentare. Il nuovo modello post-industriale, che viene incarnato nei messaggi di Slow Food, propone infatti un ritorno ad alcuni valori del modello contadino ma combinato con notevoli spinte creative dal lato del consumo e della produzione. Se da un lato si assiste ad una crescente attenzione da parte dei consumatori verso l’origine dei prodotti e la genuinità delle lavorazioni, testimoniata dalla presenza delle certificazioni per biologico e “km0”, dall’altro lato si tende a riscoprire le lavorazioni tradizionali ed artigianali. Il cibo sta assumendo una valenza culturale anche a livello internazionale, l’UNESCO ad esempio ha riconosciuto alla dieta mediterranea e al pasto tradizionale francese il titolo di Patrimonio Intangibile dell’Umanità e le città di Popayan (Colombia), Chengdu (Cina) e Ostersund (Svezia) appartengono al network UNESCO delle città creative per la loro gastronomia. Se quindi il gusto può essere riconosciuto come espressione culturale a tutti gli effetti, la sua catena del valore può essere considerata un’industria culturale (Santagata, 2009). In particolare le caratteristiche peculiari della creatività nel settore enogastronomico possono essere riassunte in due macro-categorie: 399


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- l’innovazione dei prodotti e delle abitudini alimentari - l’innovazione nell’industria distributiva e nel mercato del gusto. Fanno parte della prima categoria” tutte quelle produzioni della cucina creativa, le innovazioni industriali della produzione, la creazione di nuovi alimenti o bevande, la realizzazione di nuovi strumenti per la degustazione e tutte quelle forme in cui la creatività può essere riconosciuta nel prodotto finale. Fanno parte della seconda categoria “di mercato” tutti i casi di nuovi sistemi di distribuzione di prodotti, fruizione di cibi ed educazione al gusto. In questa prospettiva, per comprendere più chiaramente le maggiori innovazioni ed espressioni creative che caratterizzano il nuovo modello è utile considerare le fasi della filiera di produzione culturale. La tabella riassume le 5 fasi della catena di creazione del valore (selezione degli chef, ideazione dell’opera, produzione dell’opera, distribuzione, consumo e conservazione dei cibi e delle conoscenze) e sintetizza le tendenze emergenti e maggiormente innovative nel settore. Fase Phase

Elementi rilevanti Relevant elements

Esempi Examples

Selezione Selection

Istituti Professionali Superiori per l’Accoglienza e la Ristorazione (IPSAR) Apprendistato di bottega Guide stampate, blog, televisione Istituti Professionali Superiori per l’Accoglienza e la Ristorazione (IPSAR, Professional Higher Institutes for Hospitality and Cooking) Apprenticeship in workshops Printed guides, blogs, television

Gualtiero Marchesi, Ferran Adrià Guida l’Espresso, Gambero Rosso Blog critici enogastronomici MasterChef BBC Gualtiero Marchesi, Ferran Adrià Guida l’Espresso, Gambero Rosso Wine and Food Expert Bloggers MasterChef BBC

Ideazione

Contatto con altre arti Food design

Bottura e concezione della cucina creativa Davide Oldani e posate D’O Martin Guixé e associazione FOODA

Invention

Contacts with other arts Food design

Bottura and creative cuisine Davide Oldani and D’O silverware Martin Guixé and FOODA association

Produzione

Certificazione dei prodotti Attenzione alla qualità in sistemi distributivi GDO Ritorno alle tecniche tradizionali e artigianali Processi altamente innovativi nella preparazione dei cibi di origine locale

IGT, DOC, DOCG, Presidi SlowFood M**BUN, Grom Birre artigianali, Triple “A” nei vini Cucina “molecolare”, Bollito non bollito di Bottura

Production

Product certification Attention to quality of the distribution system of department store chains Return to traditional and artisanal techniques Highly innovative processes in the preparation of local food products

IGT, DOC, DOCG (Italian wine certifications), Slow Food Certifications M**BUN, Grom Craft beer, Triple “A” wine makers “Molecular” cuisine, Bollito non bollito by Bottura

Distribuzione Distribution

Integrazione produzione/distribuzione Riduzione degli intermediari e delle distanze Production / distribution integration Reduction of intermediaries and distances

Venchi, Gobino, Davide Palluda Gruppi di Acquisto Solidale Venchi, Gobino, Davide Palluda Gruppi di Acquisto Solidale (ethical purchasing groups)

Consumo/ Conservazione

Grandi eventi gastronomici Musealizzazione

Consumption / Preservation

Large food events Museums

400

Cibus (Parma), Salone del Gusto e Terramadre (Torino), Cheese (Bra), Slowfish (Genova) Museo Martini e Rossi (Pessione), Rete musei del Gusto in Emilia Romagna, Banca del Vino (Pollenzo), Casa Artusi (Forlinpopoli) Cibus (Parma), Salone del Gusto and Terramadre (Turin), Cheese (Bra), Slowfish (Genoa), Taste (Florence) Museo Martini e Rossi (Pessione), Rete musei del Gusto in Emilia Romagna, Banca del Vino (Pollenzo), Casa Artusi (Forlinpopoli)


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Selezione Il primo passo consiste nella selezione del creatore, ossia degli chef. La loro selezione parte in molti casi dalle numerose e prestigiose Scuole alberghiere presenti in Italia (in totale sono presenti 333 Istituti Professionali Superiori per l’Accoglienza e la Ristorazione). Molti dei cuochi più prestigiosi nel panorama italiano sono autodidatti o figli di ristoratori e, al pari dei colleghi diplomati, apprendono l’arte da un maestro di bottega. Come per i grandi artisti rinascimentali, scorrendo le storie di molti grandi chef italiani (Bolasco, Trabucco, 2011) si nota che l’esperienza come apprendista nella cucina di un grande chef ha rappresentato il vero momento di formazione e selezione dell’élite culinaria italiana. Se nella prima fase della selezione di un cuoco conta molto la formazione, soprattutto pratica, e l’esperienza internazionale, la consacrazione del cuoco come creatore e artista passa dal vaglio della critica specializzata. Al pari degli artisti anche i cuochi vengono giudicati e classificati in correnti e oltre a ciò i loro piatti e ristoranti pubblicati in apposite guide. La critica gastronomica più classica a sua volta presenta notevoli caratteristiche innovative quando si sposta dalla carta stampata su internet, i blog dei gastronomi come Davide Paolini o Martino Ragusa, i siti dei maggiori quotidiani o periodici italiani hanno parti specifiche dedicate al gusto e le guide hanno creato numerose versioni software su internet o con specifiche applicazioni per i dispostivi mobile. Ideazione Una volta che lo chef viene riconosciuto come creativo e di qualità è nella posizione di creare nuovi piatti o portare innovazione nel campo della ristorazione. L’importanza dell’ambiente ideale per la produzione creativa è indiscussa e spesso si trovano casi di commistione tra le arti o espressioni artistiche che interagiscono con settori produttivi molto distanti intellettualmente. Il processo creativo d’ideazione del piatto si basa contemporaneamente su una vasta conoscenza tecnica e tecnologica, spesso ai confini della ricerca chimica o fisica come nel caso della cucina molecolare, messa a confronto con un bagaglio artistico ed esperienziale da cui attingere stimoli differenti. In Bottura, ad esempio, la vicinanza con l’arte contemporanea e la musica è dichiarata dallo chef stesso. Sempre all’interno della fase d’ideazione del prodotto culturale della filiera del gusto rientra la tematica del food design. Nasce come disciplina volta alla progettazione e innovazione degli “atti alimentari”, si occupa di tutta la filiera della produzione del cibo, dalle più scontate caratteristiche estetiche dei prodotti e dei loro supporti allo studio sulla narrativa legata al gusto come il marketing, la comunicazione. Lo chef Davide Oldani ha disegnato personalmente una linea di posate con il suo marchio D’O. Considerando l’alimentazione a 360 gradi la disciplina s’intreccia con il design industriale e la comunicazione ma contemporaneamente con l’antropologia, la fisica e la chimica oltre che la sociologia. Produzione Nella catena di produzione del valore del gusto la fase produttiva rappresenta il momento in cui la componente tecnologica e industriale si unisce alla pratica artigianale e agricola. Per comprendere meglio il ruolo di questa fase nel nuovo modello italiano sono state rivolte alcune domande a Massimo Bottura. Lo chef dell’Osteria Francescana di Modena è il cuoco italiano più riconosciuto al mondo per la qualità della sua cucina e la creatività dei suoi piatti, tre stelle Michelin dal 2011, miglior ristorante d’Italia per la Guida dell’Espresso (giudizio 19,75 su 20) e per Gambero Rosso, sempre nel 2011 viene anche classificato come quarto (primo in Italia) nella classifica dei “50 World’s Best Restaurants”. La componente scientifica nella fase produttiva può interessare la creazione dei prodotti di base oppure le differenti fasi di lavorazione. Le scienze legate all’agricoltura e all’allevamento si occupano di portare innovazione e di studiare effetti e limiti di queste applicazioni in campo alimen401


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tare. L’industria del gusto fondata su organismi geneticamente modificati, prodotti chimici e sintetici ha portato con sé un largo dibattito e un’accesa polemica da parte dei movimenti come Slow Food che ricercano una maggior genuinità del prodotto. Secondo Massimo Bottura: “Il prodotto italiano è una eccellenza nella gastronomia mondiale. È un punto di riferimento e non potrebbe esserlo senza adeguati investimenti nella innovazione e senza menti creative che ne orientino il percorso. Basti pensare al movimento Slow Food, nato in Piemonte e ora presente internazionalmente.” Fair Trade, filiera corta (km0), biologico, slow ma anche nuovi modelli commerciali e distributivi rappresentano alcune delle sfide del mercato odierno per uno chef di alta cucina? In che modo? “A me interessa che la materia prima sia di altissimo livello. Corrisponda a ciò che mi aspetto quando penso o compongo un piatto. Tutti i modelli commerciali citati vanno bene, perché garantiscono provenienza, autenticità e verità del prodotto. Ma tanti ottimi allevatori, pescatori, agricoltori offrono una materia prima eccezionale senza preoccuparsi di aderire ad alcun protocollo, semplicemente lavorano onestamente al meglio delle loro possibilità, guidati dalla loro personale storia e passione.” Dalle parole dello chef Bottura emerge chiaramente un interesse verso la qualità e l’onestà del prodotto agroalimentare originale. A livello comunitario e nazionale esistono molti sistemi di certificazione di questa originalità e questo risulta un campo di notevole espansione all’interno del mercato agroalimentare. Il sistema delle certificazioni a livello nazionale ed europeo si integra con specifiche regolamentazioni regionali e comunali. I marchi DOP, IGP sono volti a garantire il luogo di produzione del prodotto, il primo certificando sia le materie che la trasformazione, il secondo solo la localizzazione della fase di trasformazione. Se da un lato il concetto e l’applicazione dei marchi di origine non rappresenta un fattore di significativa creatività per il settore del gusto, la diversa applicazione e strategia legata a questi marchi ha portato notevoli cambiamenti all’interno delle abitudini alimentari e di ristorazione. Il grande successo dei sistemi di certificazioni esterni, come ad esempio i Presidi di Slow Food, le produzioni biologiche e biodinamiche e i canali del commercio equo, ha portato una maggior attenzione di tutto il settore enogastronomico verso l’origine dei prodotti alimentari. I locali che adottano sistemi di produzione ispirati alla grande distribuzione ma con un’attenzione particolare alla qualità delle materie prime sono numerosi ma probabilmente M**BUN Slowfastfood di Rivoli ha rappresentato un’innovazione non solo a livello locale. Nel campo delle bevande due differenti casi di successo dimostrano l’importanza e la creatività basata sull’attenzione alle materie prime, alla lavorazione e al mantenimento della filiera entro determinati standard. Il fenomeno delle birre artigianali, che nasce negli Stati Uniti a partire dagli anni ottanta, inizia ad affermarsi in Europa ed in Italia in anni molto più recenti. In Italia esistono molti piccoli birrifici artigianali, si stima che nel 2007 fossero operativi almeno 175 microbirrifici, mentre nel 2012 la guida alle birre edita da Slow Food (Giaccone L., Signoroni E., 2012) conta più di 400 birrifici, arrivando a coprire circa l’1% della produzione di birra italiana. Nel campo del vino uno dei fenomeni di maggior innovazione è rappresentato dal movimento internazionale di produttori delle Triple A, gruppo di produttori accumunato dalla coltivazione enologica biologica portata ad un approccio radicale che comprende tutte le fasi dell’attività. Secondo il Manifesto redatto da Luca Gargano nel 2001 i produttori si riconoscono nel motto “Agricoltori, Artigiani, Artisti”. Se nella grande produzione enogastronomica la creatività passa dalla riscoperta delle tradizioni in via di abbandono, nelle cucine degli chef creativi la creatività produttiva significa, nella maggioranza dei casi, applicazioni di tecnologie innovative di lavorazione a prodotti tradizionali e naturali. A partire dal risotto allo zafferano guarnito con una foglia d’oro, ideato da Gualtiero Marchesi, l’uso di tecnologie e materiali innovativi passa per le lavorazioni avanguardiste di Scabin, creatore dell’uovo cibernetico, e Cracco, che ad esempio attraverso una particolare tecnica di marinatura delle uova ha creato una pasta di soli tuorli, senza farina. Distribuzione La distribuzione dell’opera è una fase fortemente influenzata nelle sue caratteristiche dalle peculiarità stesse del bene culturale. In generale ogni differente forma culturale ha propri canali distributivi in 402


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continuo sviluppo e ristrutturazione sulla base delle innovazioni tecnologiche del mercato. Il passaggio dalla società agricola a quella industriale urbana ha visto l’espansione della “grande distribuzione organizzata” dei supermercati e dei modelli di acquisto di massa. Questo modello si è adattato negli anni alle richieste dei consumatori allargando il portfolio dei prodotti, le grandi catene hanno ormai ovunque linee di prodotti certificati biologici o reparti dedicati ai prodotti regionali tipici. In questi modelli non si riscontrano però particolari spinte creative, se non la nascita di specifiche catene di nicchia specializzate su target di prodotto o consumatori specifici, ad esempio il fair trade, i negozi specializzati per celiaci. Un fenomeno che presenta alcune caratteristiche innovative prevede l’integrazione della catena tra ideazione, produzione e distribuzione di alta qualità da parte dello stesso soggetto. Il modello d’integrazione tra orto e cucina è abbastanza consolidato e prevede ad un micro livello che molti chef coltivino o allevino direttamente vegetali o carni, ad un livello più strutturato emergono i casi della frutta di Grom o delle carni di M**BUN, che possiedono direttamente la produzione dei prodotti di base. Alcuni chef che utilizzano prodotti di produzione propria nelle cucine dei ristoranti hanno creato catene di distribuzione di nicchia, via internet o in negozio, dei propri prodotti. Ne sono un esempio gli olii, vini e aceti di Bottura o la linea di prodotti di Davide Palluda, chef del ristorante “all’Enoteca” di Canale che produce antipasti, sughi, dolci, confetture in barattolo con il proprio nome a garanzia della qualità. Infine, Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e la filiera corta (km0) sono due concetti che stanno modificando parti del modello distributivo consolidato nell’agroalimentare. Partendo dalla considerazione sull’alta incidenza in termini economici ed ambientali dei costi di trasporto sul prezzo finale del prodotto, i GAS riuniscono acquirenti di una specifica area pianificando acquisti di gruppo da produttori della medesima zona, aumentando la capacità di contrattazione col produttore e dividendo i costi di trasporto. Partiti in Italia nel 1994 da Fidenza si contano attualmente 800 gruppi e 160.000 persone (40.000 famiglie) registrate alla rete nazionale ReteGas. Consumo e/o Conservazione L’ultima fase della catena, il consumo/conservazione, ha caratteristiche completamente differenti se questa prevede o meno la fruizione da parte del consumatore in forma aggregata nel tempo e/o nello spazio. Nel campo del gusto la fruizione casalinga non presenta particolari elementi di creatività se non legati ai modelli sociali di famiglia e lavoro. Famiglie mononucleari e tempi di lavoro dilatati e frammentati hanno introdotto nuovi modelli di alimentazione e una diversa domanda di prodotti agroalimentari, cui il mercato della grande distribuzione si è adattato rapidamente. Alcuni interessanti spunti di innovazione emergono nelle modalità di consumo in gruppo. Un fenomeno di grande innovazione nel consumo enogastronomico è rappresentato dagli eventi e fiere dedicate al pubblico. Accanto agli eventi business to business importantissimi come Cibus di Parma, giunto alla XVI edizione con 63.000 visitatori di cui 12.000 esteri e 1.000 giornalisti, nascono veri e propri eventi dedicati al pubblico dei consumatori. I più rinomati a livello nazionale sono sicuramente quelli organizzati da Slow Food come Cheese a Bra, Slowfish a Genova, ma soprattutto, il Salone del Gusto e Terramadre che si svolgono biennalmente a Torino. Terramadre è un progetto nato nel 2004 come incontro mondiale delle Comunità del cibo: contadini, pescatori, allevatori di tutto il mondo che si riuniscono all’Oval di Torino per discutere di sovranità alimentare, difesa della biodiversità, diritto a un cibo più buono, pulito, giusto. Negli anni è diventata una vera e propria rete internazionale di persone che producono, trasformano e distribuiscono cibo di qualità in maniera sostenibile e sono fortemente legate a un territorio dal punto di vista storico, sociale e culturale. Inoltre sono presenti nel network Terramadre cuochi di tutto il mondo e 250 università e centri di ricerca, con oltre 450 accademici. Sempre come volte al consumo in gruppo si possono interpretare i casi di conservazione dei prodotti e tradizioni del gusto nati negli ultimi anni in Italia. Numerosi sono i casi di musei del gusto, del cibo, di specifici prodotti o produzioni che sono nati negli ultimi anni; possono essere musei aziendali, 403


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come il Museo Martini a Pessione, o avviati da enti pubblici, come la rete dei Musei del Gusto dell’Emilia Romagna. 3. Il gusto come risorsa turistica, da servizio complementare a motivazione della vacanza Secondo l’ENIT (Ente Nazionale per il Turismo) l’industria turistica riveste un ruolo strategico nel sistema produttivo italiano, con un’incidenza del 9,4% sul Pil (WTTC, 2010), e del 10,9% sul totale nazionale dell’occupazione turistica diretta e indiretta, infatti il 57% degli occupati lavora nel settore alberghiero, commercio e pubblici esercizi. A livello complessivo, gli operatori del turismo dichiarano che le vendite della destinazione Italia sono in forte aumento rispetto al 2010, grazie anche all’emergere di «nuovi turismi» come quello “green”, quello legato al wellness ed il turismo enogastronomico. La diversità e la velocità con cui il turismo si è trasformato negli ultimi anni ne ha incrementato il grado di complessità che si è tradotta in una pluralità di forme di turismo (i turismi) in funzione delle caratteristiche, esigenze e motivazioni del turista stesso. Il turismo può quindi assumere variabilmente il significato di evasione, fuga, rigenerazione delle forze psicofisiche e ricreazione della propria dimensione umana e della propria esistenza. Fra tutte le possibili tipologie turistiche un ruolo crescente ha assunto il turismo culturale, nel senso più ampio del termine: quindi non solo musei e monumenti, ma volontà di «appropriazione» dell’essenza di un luogo e della comunità che vi abita, i suoi costumi, tradizioni e abitudini, cibo compreso. La competitività turistica territoriale di molta parte della penisola fa perno sull’industria del gusto per la sua forte valenza esperienziale, per il suo ruolo di connettore culturale e di trasmissione delle tradizioni locali e per innescare processi di fidelizzazione del consumo sia turistico che alimentare anche in un’ottica di destagionalizzazione delle monoculture turistiche. L’esperienza gastronomica costituisce quindi un elemento importante nella scelta della destinazione del viaggio ed una motivazione di flussi turistici sempre più rilevanti verso aree capaci di integrare il gusto nelle proprie strategie di promozione (Paolini, 2000). Da componente trasversale ad ogni tipologia di turismo l’enogastronomia è oggi assurta al ruolo di motivazione principale dello spostamento per certe fasce di utenti, collocandosi a tutti gli effetti fra i cosiddetti «turismi emergenti». La durata della fruizione abbraccia periodi che possono andare dal week-end all’itinerario di una settimana, nei quali la motivazione meramente enogastronomica si affianca alla scoperta più generale del territorio e delle risorse culturali, artistiche e naturalistiche in esso presenti. Cibo e cultura come motivazione turistica L’idea di cibo si collega a quella di natura, ma il nesso è ambiguo e fondamentalmente improprio. Nell’esperienza umana infatti, i valori portanti del sistema alimentare non si definiscono in termini di «naturalità», bensì come esito e rappresentazione di processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la reinterpretazione della natura (Montanari, 2004). Il cibo è quindi cultura quando si prepara, perché una volta acquisiti i prodotti–base della sua alimentazione l’uomo li trasforma mediante l’uso del fuoco ed un’elaborata tecnologia che si esprime tramite le pratiche di cucina. Il cibo è cultura quando si consuma, perché l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, sceglie il proprio cibo con criteri legati sia alle dimensioni economiche e nutrizionali del gesto sia ai valori simbolici di cui il cibo stesso è investito. Se di cultura del cibo si tratta e del suo ruolo identitario, ancor più questo ha significato nel processo di selezione delle destinazioni turistiche. Croce e Perri, definiscono infatti il turismo enogastronomico come «la disposizione a spostarsi dalla propria località di residenza al fine di raggiungere e comprendere la cultura di una destinazione nota per una produzione agroalimentare di pregio, entrare in contatto diretto con il produttore, visitare l’area destinata all’elaborazione della materia prima e al successivo 404


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confezionamento, degustare in loco, ed eventualmente approvvigionarsi personalmente della specialità per poi fare rientro a casa» (Croce, Perri, 2008, p.11). Un turismo quindi culturale vero e proprio, in cui non solo si ha l’opportunità di conoscere, ma più correttamente di entrare in contatto con il luogo, le sue genti, il suo carattere, le suggestioni che evoca, in una parola comprenderne e condividerne il genius loci (Antonioli Corigliano, 2006). Risulta quindi intuitivo il legame di parentela esistente tra due tipologie di turismo: l’esperienza enogastronomica è costituita da più di uno degli elementi che caratterizzano il turismo culturale. Ciò rende tale forma di turismo facilmente integrabile con altre tipologie. Ci sono casi istituzionalizzati di integrazione tra turismo enogastronomico e turismo attivo visibili nei percorsi alternativi al traffico motorizzato (le cosidette green way) quando questi attraversino territori di produzione. Le politiche di promozione e valorizzazione non solo dei territori, ma anche delle singole destinazioni o strutture ricettive sempre più fanno riferimento a prodotti “tipici”, a chilometri zero o alla filiera corta come strategia di innovazione dei servizi offerti, proponendo a volte interessanti mélange fra alimentazione e arte o fra alimentazione ed altri tipi di pratica turistica partecipativa. L’offerta turistica enogastronomica in Italia Quando il turismo enogastronomico iniziò a svilupparsi in Italia alcuni decenni or sono, vi era una generalizzata mancanza di offerte strutturate: i primi turisti non percorrevano strade o percorsi enogastronomici, con fatica incontravano cantine aperte o una ristorazione attenta a vini e sapori locali, così come non avevano la possibilità di partecipare a qualcuno degli innumerevoli eventi che oggi ruotano attorno al tema dell’enogastronomia. Oggi è cresciuto in misura interessante il numero di Tour Operator, Ground Operator e Agenzie di Viaggi che strutturano e/o vendono pacchetti enogastronomici. In riferimento all’accelerata crescita dell’offerta enogastronomica, in Italia così come in Francia, sono nati alcuni percorsi di valorizzazione delle produzioni locali, fra queste occorre ricordare «Le Strade del vino e dei sapori» definite come percorsi segnalati e pubblicizzati con apposite operazioni di marketing. In Italia infatti sono presenti 130 itinerari del vino e dei sapori, offerta rilevante, cresciuta molto rapidamente se si pensa che solo nel 2002 erano 98. La varietà di prodotti tipici nel nostro Paese, così come di territori vocati alle produzioni alimentari, non sono di per sé sufficienti a spiegare un così ampio divario rispetto ad altre aree, soprattutto confrontando tale situazione con Paesi il cui peso dell’enogastronomia è particolarmente rilevante (un esempio considerevole è la Francia, che nel 2002 contava solo 16 itinerari. La realizzazione di circuiti e itinerari deve però necessariamente associare alla produzione agroalimentare la fruibilità di quel vasto complesso di servizi turistici che ne è il debito complemento, quali servizi di ricettività e di ristorazione, di accoglienza in generale nonché di altri abbinamenti sportivi, culturali, educativi e di intrattenimento in generale. Il binomio turismo-agricoltura, se da un lato è un concetto recente che determina l’emergere di nuove motivazioni alla base del consumo turistico, dall’altro vanta un ruolo trasversale, contraddistinto dal fatto che la ristorazione e quindi il supporto di materie prime e di ricette locali rappresentano una parte integrante di ogni prodotto turistico. In questo contesto ci sono due parole chiave che evidenziano il legame turismo-agricoltura: – il territorio, inteso in senso lato di terroir (così viene chiamato enfaticamente il territorio con le sue declinazioni produttive, storiche, culturali dagli studiosi di marketing) quale insieme delle risorse locali e dei segni distintivi dei luoghi di produzione; – le tipicità, correlate al recupero della cultura e dell’identità locale dei luoghi di produzione e dei relativi prodotti tipici. La valorizzazione della tipicità delle produzioni agroalimentari può essere un volano importante per lo sviluppo locale, tuttavia risulta valida la relazione inversa, il che significa che politiche di promozione territoriale sono in grado di valorizzare i prodotti stessi. Economicamente parlando, tali produzioni comportano una riscoperta delle colture tipiche e contribuiscono al sostegno, soprattutto negli aspetti 405


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promozionali e commerciali, degli operatori dediti a tale tipologia di prodotti, consentendo anche lo sbocco a nuovi mercati. Inoltre, si devono considerare tutti quegli effetti di indotto economico derivanti dalla maggiore presenza di prodotti tipici. Essi infatti, promuovono il territorio anche dal punto di vista turistico e attraggono risorse sia umane che finanziarie, con i dovuti risvolti sull’occupazione ed il reddito locale. Risulta appropriato accennare a realtà come quella del tartufo d’Alba o del lardo di Colonnata, due casi in cui il prodotto ha in sé il potenziale per valorizzare il territorio, tali da richiamare flussi turistici di un certo livello. Il turista enogastronomico L’Osservatorio sul turismo del Vino1 ha stimato che il 6% italiani adulti ha vissuto, almeno una volta nella vita, un’esperienza di turismo legato al vino ed all’enogastronomia. Si tratta quindi di circa 3,0 milioni di persone. Nel rapporto del 2010 – che partiva dal presupposto che la motivazione del viaggio fosse esclusivamente legata all’enogastronomia – i turisti con queste esperienze di viaggio, nel nostro Paese, erano circa 1.800.000. Questo non significa che nel corso di un anno (il rapporto fotografa la variazione 2009-2010) si sia quasi raddoppiato il cluster degli enoturisti ma che a spinte e motivazioni di viaggio di altro genere (wellness, città d’arte, ecc.) si associa, con rilevante frequenza, la crescita di un consumo del tempo libero legato all’enogastronomia. Si può asserire che il turista enogastronomico è un turista alla ricerca non di omologazione ma di un surplus di personalizzazione e qualità, di un coinvolgimento alla base dei propri interessi, maggiormente attento alla propria persona. Questa tendenza ha portato ad un sensibile recupero delle tradizioni e del gusto del convivio, alla riscoperta di rituali legati al mangiare, al bere e più in generale allo stare insieme. Il primo elemento che caratterizza la scelta di una meta da parte di turisti enogastronomici è sicuramente la qualità del territorio concepita come «l’insieme delle proprietà e delle caratteristiche di un prodotto o di un servizio che conferiscono ad esso la capacità di soddisfare bisogni espressi o impliciti».2 Le azioni di salvaguardia ambientale che le comunità locali hanno avviato negli anni diventano fattori importanti nell’attrazione dei flussi turistici. Non è certamente un elemento di secondaria importanza se lo rileggiamo in una chiave di futura competitività: la cura della terra è e sarà certamente determinante nei prossimi anni per competere sul mercato del’enogastronomia. L’Osservatorio sul Turismo del Vino ha sottolineato che quello che era il punto di partenza del turismo enogastronomico, cioè il vino e la sua filiera materiale (i filari, le cantine, i musei, ecc.) ed immateriale (la storia, il racconto, la degustazione), si posiziona solo al quarto posto come fattore di scelta dopo la gastronomia, la ristorazione e gli eventi. Prima del vino, quindi, la meta viene selezionata in quanto capace di offrire il respiro del territorio, di mettere in campo scenografie di convivialità e di socializzazione capaci di far sentire il turista parte del tutto. In concreto gli eventi, piccoli o grandi che siano, sagre o performance di livello divengono elementi primari di attrazione. Un ulteriore aspetto interessante del turismo enogastronomico è come questo sia soggetto a forme di microstagionalità, che interessano periodi di tempo molto brevi; questo è dimostrato da un sondaggio effettuato dall’Osservatorio Nazionale del Turismo (2011) su un campione di intervistati in cui è stato rilevato che il 56% di essi ha svolto nel 2010 un viaggio di un solo giorno, il 26,5% almeno un week-end, il 15% vacanze superiori ai 4 giorni. La spesa media procapite di un viaggio è stata di 193.00 euro, destinati per il 32% al pernottamento, per il 20,7% alla ristorazione, per il 20,2% ai prodotti tipici alimentari e per il 17% per l’acquisto di vino.

1 2

IX Rapporto annuale dell’Osservatorio Nazionale del Turismo. Secondo UNI e ISO.

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C. Barrère, A. Buzio, A. Mariotti, A. Corsi, P. Borrione Industria del gusto: un nuovo paradigma italiano

Concludendo, emerge un nuovo trend all’interno di questo tipo di turismo: partendo da una situazione di semplice escursionismo tipico degli anni Novanta, poco diffuso, negli ultimi anni si è passati ad un deciso sviluppo dell’interesse verso l’enogastronomia, con una trasformazione in vera e propria forma di turismo, implicante quindi un periodo di stanzialità. Il turismo enogastronomico, da semplice alternativa per il tempo libero, è divenuto oggi un fatto culturale, uno strumento di conoscenza di territori in grado di offrire diversità, oltre a rimanere una possibilità di distacco dai modelli alimentari di massa, dal caos e dalle sofisticazioni urbane, verso realtà antiche ma dimenticate. 4. L’industria del gusto italiana nel mondo: il successo dei ristoranti italiani La cucina italiana fra cucina popolare e cucina alta Uno degli scopi di questa sezione è di indagare la misura e le caratteristiche della popolarità della cucina italiana all’estero. L’ipotesi è che il numero di ristoranti italiani (che si presentino come tali o che lo siano effettivamente) sia un indicatore dell’attrazione esercitata dalla cucina italiana. È però importante anche indagare il tipo e le componenti della presenza della cucina italiana all’estero. Non è infatti indifferente, ai fini delle implicazioni della diffusione della gastronomia italiana, la forma che essa prende. Per quanto l’industria gastronomica sia in continua evoluzione, la gastronomia si è sempre mossa sostanzialmente su due piani: quello di fascia “alta”, e quello di fascia “popolare”. La cucina “alta”, il cui valore deriva appunto dall’essere un elemento di distinzione rispetto a chi non può permetterselo, ha sempre tentato di distinguersi rispetto a quella “popolare”. La distinzione tra le due cucine in passato passava soprattutto attraverso gli ingredienti (Montanari, 2004). Il passo successivo è quello della distinzione basata sulla preparazione. Con lo sviluppo dell’economia e dei traffici, e con la riduzione dei costi di trasporto, i prodotti possono arrivare anche da zone lontane ad un costo basso; gli ingredienti diminuiscono la loro importanza come elemento di distinzione, e lo chef, con le sue capacità creative, diviene l’elemento centrale della cucina “di élite”. Parallelamente, anche la cucina popolare si evolve: da una cucina strettamente basata sulla disponibilità fisica dei prodotti locali diventa più aperta a nuovi prodotti, sia quelli resi disponibili dalle scoperte geografiche e adottati localmente (si pensi al mais e al pomodoro; la polenta diventa il cibo popolare per eccellenza nelle regioni settentrionali ed il pomodoro diventa onnipresente in quella meridionale), sia quelli che lo sviluppo del commercio rendono accessibili a basso prezzo (le acciughe sotto sale, il merluzzo). Quello che, fino a tempi molto recenti, ma in larga misura tuttora, caratterizza la cucina popolare italiana è la sua diversificazione territoriale: figlia in larghissima misura della diversità geografica e pedoclimatica, ma anche della divisione politica durata fino alla riunificazione. Quanto alla cucina italiana “alta”, dopo il Rinascimento è strettamente tributaria di quella francese, anche perché la mancanza di una corte nazionale impedisce uno sviluppo analogo a quello d’oltr’Alpe. Addirittura per lungo tempo dopo l’unificazione, fino al 1908, i menu della corte italiana sono redatti in francese (Montanari e Sabban, 2004). È solo progressivamente che la cucina italiana “alta” si emancipa da quella francese, in larga misura recuperando il rapporto con la cucina popolare. Questo rapporto si basa sulla riscoperta della cucina del territorio, sull’attenzione alle materie prime locali, collegandosi alle nuove tendenze all’ecologia e al ritorno alle radici, e con una maggiore attenzione ai sapori di base. Questa breve premessa serve a introdurre il filo dell’interpretazione della popolarità della cucina italiana all’estero. Pur consapevoli che si tratta di un’estrema semplificazione, conviene utilizzare la dicotomia fra cucina “alta” e “popolare” per analizzare le forme di diffusione della cucina italiana all’estero, anche se entrambe hanno importanza per l’industria del gusto. La forma probabilmente più importante di diffusione all’estero della cucina popolare è stata l’emigrazione italiana, che ha coinvolto milioni di persone fra l’Ottocento e il Novecento. Che si trattasse di emigrazione permanente, com’è stata prevalentemente quella transoceanica fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (Sori,1979), o in larga parte temporanea, come quella europea dal dopoguerra agli anni ’60 del ‘900 (Venturini, 2004), 407


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l’emigrazione non solo ha portato con sé le tradizioni culinarie, ma è stato anche un veicolo di diffusione della ristorazione italiana; fra le prime attività autonome degli emigranti si trova tipicamente la cucina, inizialmente indirizzata ai propri conterranei e magari ambulante, ma che successivamente si evolve, fino ad acquistare una propria dignità e a creare una domanda anche fra i consumatori non di origine italiana. I canali di diffusione della cucina alta sono diversi, e si affidano principalmente alla sua capacità di distinguersi rispetto al consumo popolare: contano prevalentemente in questo contesto la capacità degli chef, ma l’immagine del paese ha una sua larga parte, oltre che ovviamente le mode che portano a definire socialmente elementi di differenziazione simbolici. I dati per questa indagine sono stati tratti da Internet. Più specificamente, sono stati utilizzate le segnalazioni di ristoranti di Tripadvisor. Tripadvisor è una community di viaggiatori del mondo, con oltre 50 milioni di visitatori unici ogni mese e oltre 60 milioni di recensioni e opinioni, cheopera in 30 Paesi. I ristoranti recensiti sono quindi, in amplissima misura, locali che possono essere interessanti per i turisti; non solamente ristoranti turistici, in quanto le segnalazioni possono venire anche da consumatori locali, ma nemmeno ristoranti privi di interesse per il turista. Questo tipo di origine dei dati va tenuto presente nella loro interpretazione: infatti il numero di segnalazioni è sicuramente correlato all’interesse turistico delle città, e più in generale alla presenza di visitatori. Le segnalazioni Tripadvisor si differenziano per tipo di cucina, compresa quella italiana; i ristoranti segnalati poi possono avere una classificazione di prezzo, indicata con simboli di dollaro, da 1 a 4, oppure essere senza segnalazione di prezzo, che può essere interpretata come indicazione di fascia di costo bassa. La distribuzione per fascia di prezzo (Tabella 1) fornisce una informazione sulla struttura dell’offerta di ristorazione delle diverse città, almeno nella misura in cui è percepita e recensita dagli utilizzatori di Tripadvisor. Va da sé che una distribuzione di tal genere, fortemente legata ad una ipotizzata relazione qualità/prezzo offusca il caso di una ristorazione di alta qualità a basso prezzo, come possono essere molte pizzerie italiane e molte osterie. L’indagine è stata condotta su un relativamente numeroso gruppo di città, scelte in modo da essere rappresentative, sia pure non in termini statistici, di una varietà di situazioni. Tra queste, verranno descritti i casi più rappresentativi di differenti modelli e condizioni di radicamento e successo della ristorazione italiana all’estero. Tab. 1: Distribuzione percentuale delle segnalazioni Tripadvisor per fascia di prezzo Number of Tripadvisor reviews by price N° segnalazioni Reviews Parigi Bruxelles Zurigo Londra Madrid Città del Messico Buenos Aires Rio de Janeiro Montevideo Caracas Lima Tokyo Pechino Melbourne New York Toronto 408

7506 1193 812 9471 3309 857 1125 615 197 357 432 22474 507 2290 7422 3256

Distribuzione percentuale per classi di prezzo Distribution by price Non class. / Unclass. $ $$ $$$ 69,0 0,7 8,9 10,9 56,7 0,7 10,6 16,3 55,3 1,5 15,8 8,1 50,3 0,9 9,2 14,1 76,9 0,8 6,6 7,4 35,0 6,9 23,0 20,4 58,8 6,4 22,8 5,3 77,2 1,6 12,4 2,8 68,5 7,1 13,2 7,1 66,4 3,9 12,0 6,2 40,3 9,0 35,2 4,9 57,8 0,1 39,1 0,1 65,7 10,5 13,6 3,4 82,9 1,9 9,4 2,6 39,2 6,9 21,4 20,0 74,4 4,6 10,6 5,2

$$$$ 10,5 15,8 19,3 25,6 8,3 14,7 6,7 6,0 4,1 11,5 10,6 2,9 6,9 3,2 12,5 5,2


C. Barrère, A. Buzio, A. Mariotti, A. Corsi, P. Borrione Industria del gusto: un nuovo paradigma italiano

La presenza dei ristoranti italiani nel mondo L’Europa Iniziamo l’analisi con Parigi. Non è un caso che la percentuale di ristoranti italiani sul totale di quelli segnalati da Tripadvisor sia qui fra le più basse (Tabella 2): la concorrenza della cucina francese è indubbiamente molto forte, fra i consumatori francesi ma anche fra i turisti stranieri, che sono probabilmente molto numerosi fra chi invia le segnalazioni al sito. Inoltre, la struttura della ristorazione in città che si può desumere dai dati della Tabella 1 è tendenzialmente dicotomica, con una larga percentuale (69%) di indicazioni senza prezzo, e quindi presumibilmente di fascia bassa, ma una concentrazione anche nelle due fasce di prezzo più elevate, che complessivamente coprono il 21%. La similarità fra le cucine popolari italiane e francese ha fatto sì che non si formasse in Francia una cucina “etnica” italiana creata dagli emigrati, il che spiega la scarsa presenza di ristoranti italiani nella fascia bassa. Viceversa, rispetto alla cucina alta, la tradizione francese di eccellenza ha creato una situazione poco favorevole all’insediarsi di cucine alternative. Anche in una situazione di concorrenza così forte, comunque, la ristorazione italiana mostra di godere di un certo prestigio: pur restando basse, le percentuali dei ristoranti italiani sono maggiori nelle fasce di prezzo più elevate. Tab 2: Peso percentuale dei ristoranti italiani sulle segnalazioni Tripadvisor per fascia di prezzo Percentage of reviews on Italian restaurants in Tripadvisor by price segment Complesso Total

Non class. Unclass.

$

$$

$$$

$$$$

Parigi

6,0

5,0

5,9

7,5

10,0

7,2

Bruxelles

12,9

12,0

0,0

17,5

14,4

12,2

Zurigo

14,9

11,6

25,0

18,8

18,2

19,1

Londra

11,9

10,9

9,8

9,8

14,2

13,6

Mosca

10,6

3,9

0,0

4,3

16,6

21,7

Città del Messico

6,4

4,0

5,1

7,6

10,3

5,6

Buenos Aires

7,0

5,7

6,9

8,6

8,3

12,0

Rio de Janeiro

8,3

8,0

0,0

7,9

17,6

10,8

Montevideo

5,1

3,7

0,0

11,5

14,3

0,0

Caracas

6,4

4,6

14,3

9,3

9,1

9,8

Lima

7,2

3,4

15,4

9,9

0,0

8,7

Tokyo

4,9

5,2

0,0

4,1

6,9

8,2

Pechino

4,5

4,8

3,8

5,8

0,0

2,9

Melbourne

11,1

9,9

7,0

19,1

22,0

12,2

New York

13,8

7,3

6,3

13,2

23,1

24,3

Toronto

8,4

7,3

2,0

11,3

19,6

12,4

Londra, ed il Regno Unito in generale, non hanno una grande tradizione culinaria; tuttavia la ristorazione a Londra, per le sue dimensioni e per il suo carattere cosmopolita, oltre che per la presenza di consumatori di tutto il mondo che ruotano attorno ai centri finanziari e per il livello di reddito, ha notoriamente sviluppato un vasto settore della ristorazione, soprattutto nel settore alto. Questo si riflette nella composizione delle segnalazioni Tripadvisor: solo il 50% è costituito da quelle senza segnalazione 409


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di prezzo, mentre quasi il 40% riguarda le due fasce di prezzo più alte. Da questo punto di vista, quindi, la cucina italiana si confronta con una forte concorrenza sulla fascia alta. A livello di cucina popolare, oltre a quella autoctona Londra ha accolto quella etnica degli immigrati dal Commonwealth, che si è collocata per lo più, almeno inizialmente, sulle fasce basse di prezzo. Anche su questa fascia di mercato, quindi, la concorrenza è piuttosto forte. Tuttavia, il peso dei ristoranti italiani è piuttosto alto, intorno al 12%, ed è abbastanza simile nelle diverse fasce di prezzo, anche se con valori leggermente maggiori in quelle più alte. Nel caso di Londra, i dati suggeriscono una buona capacità competitiva della cucina italiana, che non deriva da insediamenti migratori, ma è essenzialmente il risultato del suo prestigio. È interessante inoltre notare come, a differenza di Londra e Parigi, a Bruxelles e a Zurigo i ristoranti italiani non si affermano prevalentemente nella fascia alta, ma in modo relativamente omogeneo nei diversi livelli di prezzo. Si può quindi dedurre che qui la competitività della cucina italiana non è affidata solo ai livelli di eccellenza, ma in un certo senso si inserisce a tutti i livelli integrandosi complessivamente nell’offerta culinaria. Mosca infine si distacca nettamente dalle altre città europee. È infatti la città con il più basso peso dei ristoranti di fascia bassa (43% fra quelli senza indicazione di prezzo e quelli della fascia di prezzo minore), e per converso con una forte concentrazione in quella alta. Un modello di ristorazione probabilmente di sviluppo recente, e alimentato da una distribuzione del reddito ineguale, che fa della ristorazione di lusso un simbolo di status. La competizione quindi si pone soprattutto rispetto alla cucina alta, ed in particolare al suo valore come bene posizionale. È questo aspetto sul quale pare poggiare le sue fortune la ristorazione italiana, con un forte successo: i ristoranti italiani costituiscono il 22% di quelli della fascia di prezzo più alta, ed il 17% di quella immediatamente inferiore. L’America latina La diffusione della cucina italiana nei paesi sudamericani presenta caratteristiche comuni. Il suo canale originale principale di diffusione è senz’altro stato l’emigrazione. Brasile, Argentina e Uruguay sono paesi di antica emigrazione italiana, tanto che le percentuali di persone di origine italiana sulla popolazione di questi paesi è molto consistente. In questi paesi però, nei quali la diversità dei paesi di origine è relativamente ridotta, la cucina si è amalgamata senza dar luogo a cucine “etniche” fortemente caratterizzate e differenziate. La cucina italiana non si è quindi caratterizzata come la cucina particolare di un’etnia, anche se probabilmente sopravvivono elementi di tradizione, ma si è integrata nel contesto locale. La scarsa differenziazione della cucina italiana da quella locale si può dedurre dalla percentuale medio-bassa di ristoranti con questa denominazione nei paesi latino-americani. L’aspetto interessante è però che il peso dei ristoranti italiani è molto maggiore nelle fasce di prezzo alte che in quelle basse: ad esempio, a Buenos Aires costituiscono il 7% sul totale, ma il 12% della fascia di prezzo più alta. Possiamo quindi qui notare una dicotomia fra la ristorazione popolare, nella quale la cucina italiana non pare avere un prestigio particolare, e quella di fascia superiore, all’interno della quale invece il prestigio della cucina italiana è maggiore. Una dicotomia che tuttavia non vale ovunque: a Lima, Caracas, e Città del Messico il peso dei ristoranti italiani è distribuito abbastanza omogeneamente fra le varie fasce di prezzo, al limite con una prevalenza in quelle intermedie. Si tratta di paesi latino-americani con una scarsa presenza migratoria italiana e, almeno per le prime due, di situazioni con una scarsa presenza di ristoranti di fascia di prezzo alta. L’Estremo Oriente In Estremo Oriente, Tokio e Pechino sono accomunate dallo scarso peso complessivo della ristorazione italiana, pari al 4,9% nella prima, al 4,5% nella seconda. Le caratteristiche strutturali della ristorazione nel suo complesso nelle due città sembrano abbastanza simili: un peso prevalente della fascia più bassa (sia pur maggiore a Pechino), e un picco nella classe intermedia (quella col segno di 2 $); tuttavia a Pechi410


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no il settore più alto è maggiormente rappresentato, e la capitale cinese presenta una distribuzione più diseguale. E tuttavia, rispetto alla tematica che ci interessa, l’aspetto più interessante è che, all’interno della fascia di prezzo più alta, il peso dei ristoranti italiani è molto maggiore a Tokio (8,2%) che a Pechino (2,9%), nella quale addirittura la presenza italiana è minore che nelle fasce medie e basse. Nell’interpretare questi dati va tenuto presente che entrambi i paesi, ma soprattutto la Cina, sono all’origine di cucine raffinate e di grande tradizione. Questo rende più difficile la penetrazione di cucine straniere; né in questi paesi è presente una emigrazione italiana che possa fungere da canale per l’introduzione della nostra cucina. È quindi esclusivamente sulla base della sua capacità di incontrare i gusti locali, o del prestigio e della possibilità di essere un simbolo di status che può affermarsi. I dati indicano che in entrambi i paesi il successo a livello di fascia popolare è relativamente ridotto e, anche se i dati non permettono di evidenziarlo, è probabile che una parte non indifferente dei locali italiani di fascia media e bassa sia costituita da pizzerie. Viceversa, il successo è maggiore in Giappone nella fascia alta. Tokio è nota per essere ormai una città con un’offerta gastronomica di alto livello. La presenza italiana nella fascia di alto livello è un indice della penetrazione della cucina italiana “alta”, che si presenta come un consumo di lusso e su questo piano si confronta con le cucine di alto livello sia nazionale sia straniere, in particolare quella francese. A paragone di Tokyo e Pechino, a Melbourne una percentuale molto maggiore di ristoranti (l’82%) è concentrata nella fascia senza indicazione di prezzo, mentre solo il 3% appartiene a quella di prezzo maggiore. Si tratta quindi di una ristorazione indirizzata prevalentemente ad un pubblico popolare. Al suo interno, la cucina italiana è ben rappresentata, e raggiunge l’11% del totale. Non si tratta di una presenza concentrata nella fascia alta di prezzo, ma piuttosto su quella intermedia. In una nazione come l’Australia, che non aveva una cucina autoctona tradizionale, la penetrazione della cucina italiana è probabilmente anche qui avvenuta attraverso l’emigrazione, conquistandosi uno spazio nella ristorazione popolare e un certo prestigio in quella di fascia immediatamente superiore, ma senza presentare i caratteri di cucina alta che invece ottiene in altri paesi. Il Nord America Per quanto riguarda il Nord America, il caso più rappresentativo è senza dubbio New York. La metropoli è una meta turistica importante, ma anche una metropoli ed il principale centro d’affari mondiale. Questo determina una struttura delle segnalazioni di ristoranti piuttosto spostata verso le fasce più alte: quelli senza indicazioni di prezzo sono solo il 39%, e all’estremo opposto quelli delle due fasce più alte il 32,5%. All’interno di questa struttura, i ristoranti italiani hanno un peso notevole, pari al 14% complessivo. Si tratta della percentuale più alta fra tutte le città esaminate se si eccettua Zurigo, ma l’importanza di New York è ovviamente maggiore. Si potrebbe pensare all’eredità dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti come origine di questo peso, ma il discorso deve essere maggiormente articolato. Tipicamente, la cucina degli immigrati si afferma storicamente a partire dal livello più basso, perché si rivolge in prima istanza agli immigrati stessi, inizialmente agli scalini bassi della scala sociale; ma a New York la cucina italiana ha mostrato di sapersi elevare molto al di sopra di questi livelli, e di competere invece ancora di più nelle fasce più alte. Se infatti i ristoranti italiani costituiscono il 7% di quelli senza indicazione di prezzo, sono invece il 23 e 24% di quelli delle due fasce di prezzo più alte. Caratterizzano quindi la cucina di livello alto, sposandosi con l’attrattiva generale del “brand Italia” e delle recenti generazioni di cuochi italiani, e tende a caratterizzarsi come consumo di lusso (anche se sfrutta anche segmenti diversi del mercato della ristorazione). Uno sguardo di insieme La rassegna della collocazione della cucina italiana in una serie di città rappresentative mostra una sua presenza importante. Anche laddove il peso è minore, non si va comunque quasi mai sotto il 5%, 411


Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

una cifra che può sembrare bassa, ma non se la si mette in prospettiva: la popolazione italiana costituisce meno dello 0,9% della popolazione mondiale. Il secondo aspetto che è evidente da questa breve rassegna è la larga differenziazione di situazioni. Non esiste un modello unico di diffusione della popolarità della cucina italiana, né una sua spiegazione unica e semplicistica. L’emigrazione italiana è sicuramente stata un veicolo per la cucina a livello di quella popolare, ma non ovunque e non sempre con la stessa intensità. In alcuni casi – in particolare in America Latina – si è amalgamata con altre cucine e non ha dato luogo ad una differenziazione ed a un’identità forte; altrove –ad esempio in Francia – si è scontrata con una tradizione culinaria importante e ha stentato a trovare una sua strada. Nel caso della cucina popolare, la posizione competitiva di quella italiana è affidata al suo valore intrinseco, cioè alla capacità di soddisfare il gusto dei consumatori con i piatti della tradizione nazionale, magari – come accade di constatare se nei viaggi all’estero si va nei ristoranti italiani – con qualche compromesso coi gusti locali. In questo, la varietà delle cucine regionali italiane, e la disponibilità delle materie prime nei paesi a clima temperato (anche se per molto tempo, ad esempio, negli USA l’olio d’oliva è stato solo importato) hanno contribuito al suo successo. La diffusione della cucina alta segue altre strade: è indipendente dal canale dell’emigrazione, anzi alcuni esempi di successo si trovano in paesi dove essa è totalmente assente. Si caratterizza invece come consumo di lusso, o per l’élite di ricchezza recente (come in Russia) o per consumatori di reddito elevato (Tokyo e New York). Per ottenere competitività, non solo deve distinguersi da cucine omologhe di fascia alta, ma deve anche stabilire la sua posizione in relazione alle fasce minori. Da quest’ultimo aspetto deriva una problematica comune con le altre cucine alte: per tutte, il problema come bene posizionale è di distinguersi, di essere uniche, di creare quindi elementi che evitino la possibilità di imitazione e che diano ai consumatori il piacere di essere esclusivi. Accanto a questo, la diffusione della cucina italiana anche a livelli più bassi e, più in generale, l’attrattiva del “made in Italy”, permettono alla cucina italiana di posizionarsi anche ai livelli più elevati. Non va infine dimenticato, come elemento di competitività nella fascia superiore, la sinergia con il vino: la scalata di qualità del settore vinicolo italiano negli ultimi trent’anni (Corsi et al., 2004) contribuisce non poco a favorire la stessa ristorazione italiana.

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The Industry of Taste: A New Italian Paradigm Christian Barrère, Aldo Buzio, Alessia Mariotti, Alessandro Corsi, Paola Borrione

In Menenius Agrippa’s famous apologue (Livius, Ab Urbe Condita: II. 16, 32, 33), the stomach is assigned what we would nowadays call a strategic role. Something similar is happening today in culture, in commerce and in industry, where food is also acquiring a strategic importance for its association with creativity, the fascination it exerts on consumers and cultural tourists, and, in short, for its capacity to communicate the way of life and the culture of a national community. Gourmet food and cuisine are nowadays a high-level cultural production, which is attracting more and more estimators. Food and culture are not only an obvious combination, but also a showcase for the Italian capacity to speak to the cultures and stomachs of all countries. As we will see, food increasingly speaks a language of simplicity and creativity, with examples that emphasize ingredients more than their preparation, their authentic taste rather than combinations where sauces and spices alter the original tastes. Along with fashion and industrial design, the Italian food business is on the cutting edge of contemporary cultural production. It is also one of Italy’s privileged access routes to international markets. Its success is celebrated everyday on million of tables laid all over the world. If one googles “Italian cuisine” the result (October, 2012) is 9,070,000 hits, significantly more than “French cuisine” which totals 5,390,000, less than “Indian cuisine” at 12,700,000 but above the 7,820,000 of “Chinese cuisine.” The interest in Italian food is associated with the interest in Italian restaurants. The objective of our paper is to describe the evolution of the taste industry in terms of new models of creation, production and consumption, and to analyze the way in which Italian cuisine and gastronomy are emerging as a new international paradigm, thanks to the ability to perceive and anticipate the main changes that have occurred in the industry of taste. 1. The crisis of French cuisine: an opportunity for Italy A constant presence in the media, food culture or gastronomy, is attracting increasing interest, especially in its more sophisticated forms. In France, but also in the United States and Japan, newspapers have food columns. On TV, we see many documentaries on what happens “behind the wings” of luxury restaurants. On the internet, there are more than 200 cuisine blogs. Recipe books and food guides often find their way into the best-selling category. All this interest in food is not limited to an elite but involves millions of potential consumers. Another indication of the widespread interest in food culture is the growing number of gastronomy courses at universities (B. Santich, 2004) : one of the most famous ones is at the Italian Università di scienze gastronomiche di Pollenzo e Colorno, founded by the Slow Food organization. The interest in food does not determine solely an expansion of what is sometimes referred to as “food discourse.” The demand for quality food is increasing, in spite of the constant and rapid rise in prices, turning it into a mass market. There is also a growing number of quality restaurants that has abandoned their sophisticated elite cuisine and are now “renewing themselves by going to the roots of cooking.” This evolution, apparently tied to a democratization of gastronomy, is undermining the old elitist cuisine model. This crisis affects the entire world, insofar as French cuisine has for centuries been the dominant cuisine in the world. In the past, every new culinary tradition had to compete against the French model, whose values and modes of operation it often sought to imitate. It is interesting therefore to ask ourselves whether new forms of food culture are likely to emerge in the world and in Italy in particular. 413


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The French cuisine model Gastronomy begins developing when the notion of food preparation becomes separated from the idea of simple nourishment, moving from the domain of necessity to that of pleasure, of hedonism. Historically, French cuisine is divided into two subsets: – on the one hand, an aristocratic cuisine centered around the royal court and the palaces of the noblemen, which functioned as a statement of the superiority of the aristocracy over the lower classes and of one nobleman over another. – on the other hand, a popular cuisine, with regional variants, used for special occasions such as parties, feasts and religious celebrations. In fact, many popular cuisines emerged over time tied to the various regions, whose characteristics depended on the quality and variety of local products. These cuisines focus on certain products, define the way they are prepared, select certain emblematic dishes, standardize local recipes. The middle-class oscillated for a long time between popular and aristocratic cuisine, progressively opting for a toned-down version of the aristocratic one, to mark its difference from the popular classes. The evolution and organization of the elite model In the Middle Ages, in all European countries quantity and excess was the defining characteristic of the aristocratic banquet. With the growth of court cuisine, however, the quality of cooking became a sign of prestige and noblemen competed for the best chefs. To please their masters, the chefs relied on creativity: new recipes, new sauces, new ways of presenting dishes. From craftsmen they turned into artists: cooking was no longer a menial activity but an intellectual, aesthetic and formal activity (Parkhurst-Ferguson, 2004). The fall of the aristocracy after the French revolution marked the beginning of the commercialization of elite cuisine. The chefs of the aristocracy found new employment by opening restaurants where they served a toned-down version of the aristocratic cuisine targeted at the middle and upper-middle classes. Brillat-Savarin (1755-1826) and Antonin Carême (1783-1833) where the leaders in this process of normalization. They created a standardized and coherent system of sauces, soups, vegetable side-dishes, and cakes (Parkhurst-Ferguson, 2004: 32). They also selected from popular and regional traditions the dishes and recipes they thought deserved to be inserted in the “French legitimate cuisine” and excluded those they considered “lower level’ or of “purely local interest.” The middle-class version of aristocratic cuisine remained for centuries the heart of the French gastronomic model. This model can be called elitarian because it remains confined to a specific and restricted taste paradigm. This elite gastronomic model centered in Paris restaurants requires quality products from all over France. This became possible after the centralization of transportation enacted by the Jacobin government. The chain of production in this model is therefore very long. Products have to be rare, “noble”, of very high quality. Cooking is a professional activity requiring a long and specific training. The chef is an artist, a creative, with a status that can approach that of a haute couture designer. The elite restaurant is the heart of this model. The dishes served are the result of sophisticated recipes, they are very creative, and require a lot of time to prepare. The restaurant offers many dishes as well as accessory goods and services (a well-stocked cellar, cigars, liquors). Management costs and prices are very high. The model is centered on offer: the chef does not adapt to the demands of the customers, but decides what to offer and customers entrust themselves to him or her. Elite restaurants are at the top of the gastronomic pyramid and occupy a niche in the market, from which innovations percolate to the lower segments through a trickle down model. Experts in the media legitimize this model by promoting the best chefs and the luxurious environment of the locations. 414


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The crisis of the elitarian model The crisis of the elitarian model is visible everywhere, but mostly in France, where the model is more present in restaurants and in gastronomy in general. The turn of the 1990s As Barrère, Bonnard and Chossat (2010) have shown, using the data on French restaurants found in the Michelin Guides of the 1950-2010 period, there are a number of tendencies that are undermining the elitarian model. Up to the 1990s, the data shows a rise in the number of high-level restaurants with prices also constantly rising. Things however start changing in the 1990s. The lower segment, which had been contracting up till then, began expanding at an increasing pace, at the expense of higher segments: it went from 17% in 1990, to 36% in 2000, to 48% in 2010. Places characterized by a modest setting were now recognized as legitimate restaurants. This corresponds to a change in the philosophy of the Michelin guide, with an acknowledgment of the democratization of gastronomy, following a change in offer and demand. The difficulties of the elite restaurant business model Various famous chefs in recent years have adopted an iconoclastic attitude, voluntarily giving up their Michelin stars. Alain Senderens (Lucas Carton, Paris, Ile-de-France) explains he wanted to apply “the principles of low cost to a luxury activity.” One explanation for the inversion of the trend towards luxury in the French restaurant market lies in the rising management costs due to competition. Michel Guérard (three stars Eugénie-les-Bains) observed that the price of a chair in the dining area of his restaurant has reached 1000 euros, while at Meurice de Yannick Alleno, Lalique chandeliers cost 700 euros each. Another problem is the fact that in sectors like the restaurant business, characterized by an intense use of manpower, productivity rises very slowly (unlike other industrial sectors) and management costs tend therefore to go up rather than down. For example, the Enoteca Pinchiorri wine-shop in Florence, one of the few three-Michelin star places in Italy, has a one-on-one relation between employees and customers, and costs are correspondingly high. As a result, the prices of elite restaurants and food and wine places cannot help going constantly up. The rising cost of prime materials and of labor forces elite restaurants to may customers pay premium prices, yet they still need a high rate of table occupancy in order to break even. As a result, they can only survive in places frequented by a well-to-do clientele with a high turnover rate, such as international resorts. There is also another difficulty: the problem of “inheritance”. The greatest asset of an elite restaurant is the reputation of its chef, which results from his or hers talent and personal commitment to the restaurant. It it is a highly idiosincratic capital, being dependent on a single person. When the chef dies or leaves, there is nothing that ensures the capital will be retained. When one of the children of the chef succeds him or her, it is easier to create a sense of continuity, but when this is not possible there is no guarantee this sense will be perceived by customers. This explains why, besides relying of family lines, elite restaurants are trying to switch their image from chef name to brand, paralleling a process that has occurred in top fashion (Barrère and Santagata, 2005). This strategy has been succesfully adopted, for example, by Robuchon, Bocuse and Ducasse. When a chef owns more than ten restaurants throughout the world, it is obvious that he or she will not be able to be directly responsible for the quality of the cuisine. The name however still guarantees the quality of the restaurant. Customers know that if they go to a Bocuse restaurant the local chef will have been carefully selected, quality standards will be observed, food will come from quality producers, and so on. 415


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Changes in demand With the rise in middle-class income in industrialized countries, the demand for gourmet gastronomy has risen. This rise is part of the more general rise in the demand for hedonistic goods and is signaled also by the expansion of “food discourse” in the media. The demand for quality food, however, does no longer occur solely following the elitarian logic that justified the hegemony of elite restaurants. The emphasis on organic products, on the relation between products and place of origin, the idea of food as part of the national, regional or local heritage, are an answer to a demand for identity on part of consumers. The decision to buy seasonal products, to favor small quality producers who respect traditional knowledges, to avoid long chains of distribution, are part of a general increase in environmental awareness. The interest in new tastes and new cuisines, instead, are a result of the rise of multiculturalism and of the desire to come into contact with new cultures, often remote from one’s culture of origin. The status of chefs depends less and less on their use of luxury products (caviar, lobster, truffles, etc.) and more and more on their creativity. However, the aristocratic tradition that has historically characterized French cuisine giving it for a long time an undisputed international supremacy, is now hindering its ability to adopt to the new trends and is an obstacle to the circulation of other culinary cultures. In the French model, the offer is highly institutionalized (the menu with a choice of dishes that emphasizes rare quality products and seeks to dazzle with the extraordinary) and so are the modalities of preparation and presentation. All this represents an obstacle to change and to the adoption of elements coming from other culinary cultures. The challenge of industrialized cuisine Social changes after WWII led to an increase in out-of-doors meals and to a search for ways to cut down preparation time for domestic meals. The food industry was encouraged to look for innovations that would help reach this objective. Freezers, microwave ovens, deep-frozen food began to populate domestic and professional kitchens. Many restaurants adopted the new technologies on a large scale and also externalized a large part of food preparation. This tendency has affected also the quality of the offer in restaurants. The industrialization of food preparation allowed many lower-end restaurants access to some of the characteristics of elite gastronomy at low prices, thanks to ready-made luxury products. In many supposedly gourmet middle-level restaurants, cooks do little more than combine and warm-up ready-made industrial products, made possible by new preservation techniques. This approach offers great savings on workforce, thanks to the dramatic cut in preparation time and the diminished need for a highly qualified workforce. Large food companies first offered these products to families but have now developed professional lines targeted at restaurants and catering services. Aside from the chains of industrial restaurants, a growing part of traditional restaurants, including some considered as gourmet, are also turning to industrialized food. The industrialization of food taste is part of a more general trend towards the commercialization of culture, made possible by standardization and serial production and by the need to cut down on expenses. Thus, the elite restaurant is no longer the sole ideal model of high-level gastronomic offer. A new gastronomic pluralism has emerged and new types of high-level restaurants have emerged. Luxury and taste are no longer found solely in elaborately prepared dishes based on expensive ingredients. Creativity applied to traditional ingredients is attracting a growing clientele, who are interested in new nutritional codes based on quality and safe products, and reject the luxury and conformism of the traditional elite restaurant. “Low-cost gourmet” and new urban food culture are thus the new trends towards the democratization and mass consumption of quality cuisine. 416


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2. Creativity and culture in the taste sector: markets, consumers and chain of production Good, Clean and Just The title of Carlo Petrini’s book Buono, pulito e giusto (Good, Clean and Just, 2011) summarizes the key principles of the Slow Food association, which can be viewed as the inspiration for a new model of taste industry emerging on the international scene, of which Italy provides in many ways the foremost examples. The possibility of speaking of the Italian food and wine industry as a cultural production and of discussing its creative peculiarities is made possible by the new attitude towards food that has emerged, also thanks to the philosophical and consumption revolution embodied in movements like Slow Food, an example of the growing interest of the public in quality, safety and sustainability in agriculture and food consumption. The new post-industrial model underlying Slow Food’s philosophy is based on a return to the values of the rural tradition combined with a significant creative drive on the side of consumption and production. On the one hand, there is a growing interest on part of consumers towards the origin of products and genuineness of the production process, as witnessed by the growing number of organic and zeromile certifications, on the other, there is a tendency towards traditional and artisanal food products. Food is taking on a cultural significance also on an international level. UNESCO for example has listed the Mediterranean diet and the French “gastronomic meal’ as part of the Intangible Cultural Heritage of Humanity and the cities of Popayan (Colombia), Chengdu (China) and Ostersund (Sweden) are registered in the UNESCO network of creative cities due to the importance of their food culture. If taste can be viewed as a fully legitimate cultural form of expression, then its value producing chain can be viewed as a cultural industry (Santagata, 2009). Specifically, the role of creativity in the wine and food sector can be divided into two aspects: - innovation in food products and eating habits - innovation in distribution and taste market The first category includes all the products of creative cuisine, industrial innovation in production, the creation of new food products, the creation of new ways of eating and all those forms in which creativity has a bearing on the final product. The “market” category includes all new systems of distributing food products, eating food or training taste. From this perspective, in order to better understand the most important innovations that characterize the new model is useful to examine the various phases of creative food production. The table illustrates 5 phases in the creation of value (selection by chefs, invention of the work, production of the work, distribution, consumption or preservation of food and know-how) and summarizes the more innovative emerging trends in this sector. Selection The first step consists in selecting the creators, that is, the chefs. Their selection process often starts from one of the many prestigious hospitality management schools found in Italy (there are currently 333 schools on the IPSAR list of hospitality and/or culinary schools) However, many of the greatest Italian chefs have had no official training. Some are the children of restaurant owners. In general, if we read the biographies of great Italian chefs (Bolasco, Trabucco, 2011), we often find that, like great Renaissance artists, they learned their trade serving as apprentices in the kitchen of a great chef. This is in fact were the Italian culinary elite is truly educated. If in the first part of a cook’s career, training and international experience play a major role, their promotion to creator and artists depends on media experts. Like other artists, chefs are judged and classified into categories, and their dishes and restaurants are described in specialized guides. Food writing is also evolving and moving from the printed page to the internet, like the blogs of food columnists Davide Paolini or Martino Raguso. The websites of Italian newspapers and periodicals have sections on food and food guides now come with online versions and specific apps for mobile devices. 417


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Invention Once the specialized media acknowledge a cook as a creative and quality chef, he or she is in the position to invent new dishes or innovate services. The importance of the environment for creative production is well known. We often find interactions between arts and productive sectors that are intellectually very distant. The invention of a dish may require a vast technical and technological competence, sometimes bordering on chemical and physical research, as in the case of molecular cuisine, which must however be combined with artistic and personal knowledge from which new stimuli can be derived. In the case of Bottura, for example, the proximity to contemporary art and music is stated by the chef himself. The category of invention in the taste filiere includes food designing. Food designing is a discipline aimed at planning and innovating “culinary acts.” It deals with the entire production chain of food, from the more obvious aesthetic qualities of products and their accessories to the study of narratives associated with taste, through marketing and communication. Chef Davide Oldani has personally designed a line of silverware bearing his logo D’O. Food design deals with nutrition from all perspectives, drawing from industrial design and communication, but also from anthropology and sociology, physics and chemistry. Production In the chain of production of taste value, the production phase is the moment in which the technological and industrial aspect combines with the artisanal and agricultural one. To better understand the role of this phase in the new Italian model we asked Massimo Bottura a few questions. Bottura is the chef of the Osteria Francescana of Modena and the most famous Italian cook, for the quality of his cooking and the creativity of his dishes: three stars on the Michelin 2011, best Italian restaurant on the Guida dell’Espresso (vote 19.75 out of 20), best Italian restaurant on Gambero Rosso. In 2001, he came in fourth (first in Italy) in the list of “World’s Best 50 Restaurants.” The scientific aspect of the production phase can deal with the creation of basic ingredients or with their preparation. The sciences dealing with agriculture and animal farming seek to innovate these areas and study the effects of these innovations in the field of nutrition. The use by the taste industry of genetically modified organisms, chemical and synthetic products has sparked a widespread controversy and is virulently opposed by movements like Slow Food, who insist on the contrary on greater genuineness. According to Massimo Bottura: “Italian products are the top of world gastronomy. They are a touchstone and this would not be possible without adequate investments in innovation and without creative minds that orient its path. One needs only to think of movements like Slow Food, which was born in Piedmont and is now internationally present.” Fair trade, short filiere (zero mile), organic, slow food, but also new commercial and distribution models: are these the new challenges posed by the modern market to high-cuisine chefs? In what way? “What I want is for raw materials to be of exceptional quality. This corresponds to what I expect when I think of or create a dish. All the above commercial models are acceptable because they guarantee the origin, authenticity and truth of products. But there are many excellent farmers, fishermen, animal farmers, that offer exceptional raw materials without worrying about any protocol, simply working honestly and doing their best, guided by their personal history and passion.” Bottura’s words clearly suggest his interest for the quality and honesty of original food products. On a European and national level, there are many systems that certify this originality and the percentage of certified food is rapidly growing in the food market. The national and European certification system integrate with regional and local regulations. The PDO and PGI labels guarantee the origin of a product. PDO certifies both the ingredients and their preparation, while IGP certifies only the place where the localization of production. 418


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While the idea and the practice of origin labels does not bring much in terms of creativity to the taste sector, the different strategies tied to these labels have led to significant changes in eating habits and in the restaurant business. The great success of external certifications, such as for example Slow Food’s Presidi awards, organic and biodynamic products, and fair trade, has attracted greater attention by the entire wine and food industry for the origin of food products. There are many restaurants that have adopted production systems that echo those of chain stores but with a special attention for the quality of raw materials, one of the most innovative being M**BUN Slowfastfood in Rivoli. In the beverage sector, two different success stories show the importance of carefully controlling raw materials, their processing, and of keeping the filiére within given standards. The phenomenon of craft beer developed in the United States in the 1980s and spread out to Europe and Italy much later. In Italy, there are many microbreweries. In 2007, there were an estimated 175, but the Slow Food 2012 beer guide (Giaccone L. Signoroni E., 2012) lists more than 400, responsible for 11% of the total Italian beer production. In the wine sector, one of the most innovative phenomena is the international movement of Triple A producers, a group of wine makers who have chosen a radically organic approach applying to all phases of their activity. In their Manifesto written by Luca Gargano in 2001, these producers describe themselves as “Agriculturers, Artisans, Artists.” While in large-scale food production, creativity is associated with the rediscovery of declining traditions, among creative chefs it means, in most cases, the application of innovative work processes to traditional and natural products. Starting from Gualtiero Marchesi’s Gold Leaf Saffron Risotto, the use of innovative ingredients and technologies can be seen in Scabin’s avant-garde creations, such as his cybernetic egg, or in Cracco, who using a special marinating technique applied to eggs has invented a pasta with only egg yellows and no flour as ingredients. Distribution In general, in the cultural industry, the distribution of a work is highly influenced by its characteristics. In general, each category of cultural products has its own distribution channels, which are constantly developed and restructured based on the technological innovations of the market. The transition from agricultural society to the urban industrial one has brought about an expansion of chain stores, of supermarkets, and of mass buying models. In time, these models have adapted to customer demands, expanding their inventory. Nowadays, all large chain stores have organic food lines or sections for typical regional products. These models, however, are not characterized by significant creative drives, other than the birth of some niche chains, such as fair trade stores or stores for people suffering from celiac disease. A trend that does show a degree of innovation, however, is that towards the integration of high quality invention, production and distribution by a single subject. The integration between vegetable garden and the kitchen is rather common: at a micro level, many chefs directly cultivate or breed their products, while on a larger scale there are cases like Grom for fruit or M**BUN for meat, who directly own the production. Some chefs who use their own products in their restaurants have also created niche distribution chains for their products, in shop or online. An example is Bottura’s olive oil, wines and vinegars, or the product line launched by Davide Pallude, chef of the “all’Enoteca” restaurant in Canale, which includes appetizers, sauces, sweets, marmalade, with the chef’s name guaranteeing the quality of the products. Finally, the GASs or Gruppi di Acquisto Solidale (ethical purchase groups) and zero-mile products are two other phenomena that are modifying traditional food distribution models. To counter the negative economic and environmental effects of transport on food products, GAS groups purchase products collectively, increasing their bargaining force and sharing the cost of transport. Since their beginning in 1994 in Fidenza, GASs have expanded and the ReteGas now includes about 800 groups and 160,000 people (40,000 families). 419


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Consumption and / or Preservation The last phase of the chain, consumption / preservation has completely different characteristics depending on whether products are aggregated by consumers in time or space. In the field of taste, domestic fruition is not characterized by significant creativity other than that tied to changes in family and work models. Single-parent families and extended and fragmented work time have given rise to new eating models and a different food demand, to which department stores have rapidly adapted. Interesting innovative elements can be found in group consumption. In wine and food consumption a highly innovative aspect is the development of events or fairs. Along with business to business events, such as Cibus in Parma (now at its 16th edition with 63,000 visitors of which 12,00 foreigners and 1,000 journalists) or Taste in Florence (invented by Davide Paolini, organized by Pitti Immagine and now at its 7th edition) there are also events organized for consumers. The most renown on a national level are surely those organized by Slow Food such as Cheese in Bra, Slowfish in Genoa, and, above all, the Salone del Gusto and Terramadre, which take place every two years in Turin. Project Terramadre was launched in 2004 as a world meeting of food communities: farmers, fishermen, animal farmers from all over the world convene in Turin to discuss about food sovereignty, the defense of biodiversity, the right to tasty, clean, fair food. In time, it has become a true international network of people who produce, transform and distribute quality food in a sustainable fashion and are closely connected to their geographical context from an historical, social and cultural perspective. The Terramadre network includes cooks from all over the world, 250 universities and research centers, and more than 450 academics. Another example of group consumption is those cases in which products and traditions are preserved in museums or similar institutions. Many museums of taste, of food, or dedicated to specific products have been instituted in recent years. Some are company museums, such as the Museo Martini in Pessione, while others are public, such as the Musei del Gusto (museums of taste) network in the Emilia-Romagna region. 3. Taste as a resource for tourism: from secondary interest to reason for the vacation According to ENIT, the Italian national agency for tourism, the tourist industry plays a strategic role in the Italian economy, where it accounts for 9.4 of the GDP (WTTC, 2010) and employs, directly or indirectly, 10.9% of the national workforce. Tourism operators state that sales of trips to Italy have risen strongly in 2011 compared to the previous year, thanks to the emergence of “new tourisms,” such as “green tourism,” “wellness tourism,” and wine-food tourism. The speed and the diversification of changes in tourism in recent years has increased its complexity: a plurality of tourisms has developed catering to different demands and desires. Tourism can mean entertainment and relaxation but also evasion, escape, regeneration of body and spirit, rediscovery of one’s humanity. Among the various forms of tourism, a growing importance has been taken on by cultural tourism, in the broadest sense of the term, including not at museums and monuments but a more general desire to “appropriate” the spirit of a place and of the community that inhabits it, its costumes, traditions and habits, including food. The Italian competiveness in tourism relies a lot on the taste industry on account of its strong experiential value, its role as cultural mediator of local traditions, its power to establish consumer loyalty, going beyond traditional tourist seasons and tourist monocultures. Gastronomy is an important element in the choice of travel destination and the reason behind the growing flows of tourists towards areas capable of integrating taste in their marketing strategies (Paolini, 2000). Food and wine have always been a factor in tourism, but now they are increasingly becoming the main motivation for certain categories of tourists, making food and wine tourism one of the forms of “new tourism.” Vacations can last from a weekend to the entire week and the purely culinary interest often combines with the discovery of a place and of its cultural, artistic and natural resources. 420


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Food and culture as motivation for tourism The idea of food is often associated with nature, but this relation is ambiguous and fundamentally incorrect. For humans, the values of nutrition are not really defined in terms of naturalness, but rather as the outcome and the representation of cultural processes that require the domestication, transformation, and reinterpretation of nature (Montanari, 2004). Food becomes culture when it is prepared. Humans transform ingredients with the use of heat and other elaborate cooking practices. Food becomes culture also through choices in consumption. While humans are omnivorous, they choose what food to eat on the basis of cost, availability and nutritional value but also of the symbolical import of the dish. The role of food in the construction of culture and identity is all the more emphasized when it becomes the reason behind the choice of a destination. Croce and Perri define food and wine tourism as “the willingness to move from one’s place of residence to go to and understand the culture of a destination known for its quality food production, to come into direct contact with producers, to visit the area where the elaboration of the raw materials and their packaging takes place, to taste products on site, and possibly to personally acquire the specific product before going back home” (Croce, Perri, 2008, p.11). A true cultural tourism, therefore, offering people a chance not only of visiting but of coming into contact with a place, its people, its character, its evocative power, in short of understanding and becoming part of its genius loci, of the spirit of the place (Antonioli Corigliano, 2006). There is an intuitive relation between these two types of tourism: the food-wine experience is one of the elements of cultural tourism. This makes food and wine tourism easily integrable with other types of tourism. This integration can be institutionalized, as in the case of the so-called “green ways,” which combine food and wine tourism with active tourism by offering non-motorized routes through the areas where the food or wine is produced. Policies aimed at promoting not only localities, but even specific destinations or accommodation facilities, increasingly refer to “typical’ food products, based on zero-mile or short filieres, offering interesting combinations of food and art or food and other types of participative tourism. Food and Wine Tourism in Italy When food and wine tourism began to develop in Italy a few decades ago, there was a general lack of organized offer: tourists did not follow wine or food routes, had difficulty finding open wineries or restaurants offering local products, and there was a dearth of events centered on food and wine. Today there is a great number of tour operators, ground operators and travel agencies organizing and selling food and wine trips. In Italy, as in France, a number of routes have been instituted that help discover local productions, among which the “strade del vino e dei sapori” (wine and taste routes), based on signs and publicized through specific campaigns. More in detail, in Italy there are 130 wine and taste routes up from 98 in 2002. The variety of typical food products and areas dedicated to specific productions, does not suffice to explain Italy’s superiority in this area, especially when one compares it to countries with similar food and wine traditions (France, for example, in 2002, had only 16 food and wine routes). The establishing of food and wine routes and circuits must necessarily be integrated with a number of tourist services, including accommodation and restaurants, information services, and leisure activities, from sports to culture to entertainment. The tourism-agriculture combination, on the one hand, is a recent concept providing new motivations to tourist consumption, on the other, it has a transversal role, since food and beverage offer using local ingredients and recipes is often an element in all forms of tourism. In this context, there are two key words that highlight the connection between tourism and agriculture: – the place, conceived as terroir (meaning a geographical area with all its productive, historical, cultural characteristics) 421


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– its distinctive characteristics, tied to local culture and identity as expressed in its productive facilities and its typical products. The promotion of local food products can be an important motor for local development and conversely the promotion of an area can serve to attract attention on local food products. Economically speaking, the emphasis on local food products entails also a rediscovery of traditional farming methods and helps support operators who adopt those methods and products, giving them access to new markets. Another aspect that must be considered is the effects of the interest in typical food products on ancillary industries. Typical food products attract tourists in an area and consequently help attract investments, increasing local employment and income. There are case like the Alba truffle or Colonnata lard, in which a single food product has been able to promote the image an area to the point of attracting considerable numbers of tourists. Food and Wine Tourists The Observatory on Wine Tourism estimates1 that 6% of adult Italians have taken at least one food and wine tourist vacation in their lifetime. We are talking about 3 million people. In 2010, a report on holidays in which food and wine was the main motivation found that 1,800,000 tourists had had this experience. This does not mean that in the course of one year (the report studied the variation between 2009 and 2010), the number of food and wine tourists had almost doubled, but rather that other types of reasons for tourism (wellness, art cities, etc.) are increasingly accompanied by food and wine leisure time. It is possible to say that food and wine tourists are not interested in homologation but on the contrary in a a surplus of personalization and quality, in being involved on the basis of their interests, in paying greater attention to themselves. This tendency has led to a significant rediscovery of old traditions and of the experience of eating together, to the rediscovery of the rituals associated with food and drinking, and, more in general, of enjoying the company of people. The first quality that food and wine tourists look for is certainly the quality of a place, conceived as the “combination of the characteristics and qualities of a product or service that give it the capacity to satisfy expressed or tacit needs.�2 Environment protection actions taken by local communities in recent years have become an important factor in attracting tourism. Certainly they are of crucial importance for remaining competitive in the future since it is evident that proper care of the geographical context will be essential in the years to come for competing in the food and wine tourist market. The Observatory on Wine Tourism stresses that what was originally the major source of interest in food and wine tourism, that is wine and its material (vineyards, wineries, museums, etc.) and immaterial (stories, tasting events) context, comes only fourth in the list of reasons for choosing a given vacation, after food, restaurants and events. In other words, before wine, the reason for selecting a destination is the possibility of experiencing the land in its entirety and of taking part in social events capable of making tourists feel part of a community. More specifically, a primary attraction is the presence of food fairs, folk feasts, and other events. Another interesting aspect of food and wine tourism is its micro-seasonal character, articulated over periods of time that can be very short. This emerges from a survey by the National Tourism Observatory (2011) on a sample of food and wine tourists, according to which, in 2010, 56% made a 1-day trip, 26.5% staid for a weekend, and 15% for a vacation of more than 4 days. The average spending per trip was 193 euros of which 32% was spent on accommodation, 20.7% on food and beverage services, 20.2% on typical food products and 17% on purchasing wine to take home. 1 2

9th Report by Osservatorio Nazionale del Turismo. According UNI and ISO.

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C. Barrère, A. Buzio, A. Mariotti, A. Corsi, P. Borrione The Industry Of Taste: A New Italian Paradigm

In conclusion, a new trend is emerging in this type of tourism: starting from the simple tours of the countryside of the 1990s, which attracted limited numbers of tourists, the interest in typical food and wine products has determined the development of a specific form of tourism, which implies residing in the area for a period of time. Food and wine tourism has turned from leisure to culture, a way of getting to know areas characterized by originality, of escaping from mass eating models, from the chaos and artificiality of the city, towards traditional but forgotten lifestyles. 4. The Italian industry of taste in the world: the success of Italian restaurants Italian cuisine: elite and popular One of the objectives of the present section is that of discussing the features and quantitative characteristics of Italian cuisine abroad. Our study is based on the assumption that the number of Italian restaurants (whether presented as such or actually Italian) is an indicator of the attraction of Italian cuisine. It is important, however, to take into consideration the differences in Italian cuisine. The form Italian cuisine takes abroad has significant implications. Though the food industry is in continuous evolution, Italian cuisine has traditionally operated at two levels: an elite cuisine and a popular one. Elite cuisine derives its value from the fact that its cost makes it accessible only to selected classes. For this reason, it has always sought to mark its distance from popular cuisine. The distinction between the two cuisines in the past was mostly one of ingredients (Montanari, 2004). Nowadays, however, preparation is the most important element. With the development of the economy and the reduction of transportation costs, previously expensive ingredients can now be acquired at low prices even from remote areas. As a result, in elite cuisine, the element of distinction has switched from rare ingredients to the ability of the chef, and his or hers creative capacities. At the same time, popular cuisine also changed: previously, it was strictly based on locally available products; this changed as more exotic ones began to be available, thanks to geographical discoveries (historically, corn and tomatoes come from South America, and polenta made with corn became the popular dish of Northern Italy while tomatoes became omnipresent in Southern cooking) and the development of commerce (salted anchovies, stockfish). However, Italian popular cuisine remains characterized by a great regional diversification, resulting both from the geographical and climactic variety of the country and from internal political divisions, which lasted until the unification of 1861. As for the Italian elite cuisine, after the Renaissance it became largely modeled on the French one, also because the subdivision of the country into small nations meant the absence of a central source of standardization like the royal court in France. Indeed, even after the unification, until 1908, menus for the Italian royal court were written in French (Montanari and Sabban, 2004). It was only gradually that the Italian elite cuisine emancipated itself from the French one, largely by reinforcing its ties with popular cuisine. This new relationship is now based on the rediscovery of the geographical context, interest in local ingredients, an ecological and traditional approach, a rediscovery of basic tastes. This brief premise can serve as an introduction to the question of Italian cuisine abroad. While aware of its simplifying nature, it is useful to apply the opposition between elite and popular cuisine also to the study of Italian cuisine abroad. The most important factor in the spread of Italian cuisine was probably the emigration of millions of Italians in the nineteenth and twentieth century. Whether it was a permanent emigration, as in the case of emigration to the Americas between the end of the nineteenth century and the beginning of the twentieth century (Sor, 1979) or mostly temporary, as in the case of emigration to Europe in the 1960s (Venturini 2004), emigration led not only to the exportation of Italian culinary traditions but also of Italian food and beverage businesses. Many emigrants found their first jobs in this sector, initially catering to fellow Italians, often as street sellers, but gradually moving to larger permanent establishments and catering also to non-Italians. Elite cuisine, instead, depended on different channels and needed to distinguish itself from popular cuisine. The role of chefs was very 423


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important, but the image of Italy also played a large role, as did various fashions, which provided social elements of symbolical differentiation. The data for the present study is taken from the Internet. More specifically, we have used restaurants reviews in Tripadvisor. Tripadvisor is a community of world travellers, present in 30 countries. Its website is visited by 50 million users every month and had more than 60 million reviews and opinions. The restaurants reviewed are largely those that are of interest to tourists. They are not, however, limited to typical tourist restaurants, since input can also come from local consumers. This aspect of the data must be taken into account. For example, the number of reviews and opinions per city is obviously a factor of the popularity of the city and the number of visitors it attracts. Reviews on Tripadvisor are classified by cuisine. Restaurants are also classified according to price, with a 1 to 4 dollar symbol rating. Some have no price rating, which usually indicates a low price. Price distribution (table 1) provides an indication of the type of offer in the various cities, at least as perceived by Tripadvisor users. Obviously, the analysis presupposes a direct relation between quality and price and fails to take into account the presence of good quality / low price restaurants, which can easily be the case for many Italian pizzerias or trattorias. The survey was carried out in a fairly large number of cities, in order to provide a representative sample of different situations, albeit not a statistical one. Among these, we will describe the cases that best describe the different models and reasons for success of Italian restaurants abroad. Presence of Italian restaurants in the world Europe We will start with Paris. It is no chance that the percentage of Italian restaurants in Paris is among the lowest found (Table 2). The competition from French cuisine is very strong, not only among French consumers, but also among foreign ones, who are probably a high percentage of those submitting reviews. Furthermore, the structure of the price offer indicated by Table 1 is bifurcated, with a high percentage of unclassified (69%) and therefore presumably low-price restaurants, but a high relative presence in the two upper segments, accounting for 21% of total reviews. The similarities between the Italian and French popular cuisine hindered emigrants from developing an Italian ethnic cuisine and this in turn explains the scarce presence of Italian restaurants in the lower segment. As for elite cuisine, the dominance of the French model made it difficult for alternative national cuisines to establish themselves. Nevertheless, results indicate that the Italian elite cuisine does have some prestige: though low in general, the percentage of Italian restaurants increases in the upper segments. London, and the UK in general, lack a strong culinary tradition. However, because of London’s size and cosmopolitan character, with high-income consumers from all over the world coming to its financial centers, the restaurants business is very developed, especially in the upper segment. This is reflected in the distribution of Tripadvisor reviews: only 50% refers to the unclassified segment, while almost 40% refers to the two highest price segments. Thus, Italian cuisine is facing strong competition in the upper price segment. In the area of popular cuisine, alongside the national cuisine, London has provided hospitality to the various ethnic cuisines of Commonwealth immigrants, which positioned themselves in the lower price segment, at least initially. In this segment, too, therefore, competition is rather strong and diversified. Nevertheless, the presence of Italian restaurants is rather significant, around 12%. The results in other price segments is similar, though slightly higher in the upper ones. In the case of London, therefore, the Italian cuisine seems generally well able to compete. Its presence is not the result of immigration, as elsewhere, but of its international prestige. It is interesting to note that, unlike in London or Paris, in Brussels and Zurich, Italian restaurants are not mainly located in the upper price segment but rather distributed over all segments. In these cases, Italian cuisine seems not to depend on quality only but on its ability to integrate itself at all levels. 424


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Moscow, finally, is very distinct from other European capitals. In this city, we have the lowest presence of restaurants in the lower segment (43% in the unclassified or lowest segment). This model is probably a recent development, caused by the sharp social inequalities and the spread of luxury restaurants as a status symbol. Competition occurs therefore mostly in the area of elite cuisine, whose value lies mostly in its positional value. The success of Italian restaurants seems to depend precisely on this factor. Italian restaurants account for 22% of the top segment and 17% of one immediately below. Latin America The spread of Italian cuisine has similar characteristics in most South-American countries. Its main motor has been without doubt immigration. Brazil, Argentina, Uruguay, all have a long-standing presence of Italian immigrants and the percentage of the population of Italian origin is very high. On the other hand, given the relative similarity between the countries of origin and of arrival, the cuisines tended to mix themselves rather than remaining separate as clearly recognizable ethnic cuisines. Italian cuisine does not, therefore, exist as the cuisine of a particular ethnic group, although probably some traditional elements survive, but has been integrated in the local context. This lack of differentiation of Italian cuisine from the local one is suggested by the low percentage of Italian restaurants classified as such in the lower and medium price segment. An interesting result, however, is the much higher presence of Italian restaurants in the upper price segment. In Buenos Aires, for example, Italian restaurants account for 7% of the total but 12% of the highest price segment. There is thus a contrast between popular restaurants, among which Italian cuisine does not seem to be very attractive, and the upper segment, where it enjoys greater prestige. This opposition does not hold everywhere, however: In Lima, Caracas and Mexico City, the percentage of Italian restaurants is rather homogeneous in the various price segments, with, at the most, a prevalence in the intermediate ones. This is typical of LatinAmerican countries with low percentages of Italian immigrants and, at least for the first two cases, of situations in which there is a low presence of restaurants in the top segment. Far East In the Far East, Tokyo and Beijing are both characterized by a low presence of Italian restaurants, respectively, 4.9% and 4.5%. The structural characteristics of the restaurant business in the two cities seem rather similar: The lower segments are the most developed (though more in Beijing) with a peak in the middle segment (the one with two dollar symbols). However, in Beijing it is the top segment which is most developed. The Chinese capital is also the one characterized by the greatest disparities in distribution. From the perspective of the present study, it is interesting that, within the highest price segment, the percentage of Italian restaurants is higher in Tokyo (8.2%) than in Beijing (2.9%), where the Italian presence is lower than in the medium and low segments. In interpreting this data, we must keep in mind that both countries, and especially China, have very sophisticated cuisines with longstanding traditions. This makes the penetration of foreign cuisines difficult. Furthermore, in neither of these countries is there an Italian emigration that could serve as a vehicle of transmission for our cuisine. Therefore, its success depends solely on its capacity to satisfy local taste, or its prestige, or its role as a status symbol. The data indicates that in both countries, the percentage in the lower segment is rather low and, even if the data does not specify this, it is likely that a significant percentage of Italian restaurants in the medium and lower segment are pizzerias. In Tokyo, Italian restaurants are mostly present in the upper segment. Tokyo is renown as a city with a high-level cuisine. The Italian presence in the upper segment is an indication of its success as elite cuisine, where it competes with other elite cuisines, including the local one and foreign ones, particularly French cuisine. Compared to Tokyo and Beijing, Melbourne has a much greater presence of restaurants (82%) in the unclassified segment, 425


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while only 3% belong to the upper one. The restaurant offer is therefore mostly directed to a popular clientele. Italian cuisine is well-present, accounting for 11% of the total. The concentration is not in the higher segment but in the medium one. In a nation like Australia, which lacks a strong local tradition, Italian cuisine probably developed through Italian immigrants, which would explain why it is successful in the lower and medium segment, but not in the upper one as in other countries. North-America As for North-America, the most representative case is undoubtedly New York. The city is a popular tourist destination, but also a metropolis and a major world business center. This determines a distribution of restaurants oriented towards the upper segments: unclassified restaurants are only 39% and the two upper segments account for 32.5%. The percentage of Italian restaurants is rather high, amounting to 14% of the total. This is the highest percentage found in any of the examined cities, excepting Zurich, but the importance of New York in absolute terms is obviously much greater. It is intuitive that Italian emigration is a major factor in this presence, however, the explanation for this success is more complex. Typically, the offer of restaurants based on immigrant cuisine is targeted at the lower classes, starting from immigrants themselves. In New York, however, Italian cuisine has been able to rise above this level and compete in the upper segments. Specifically, Italian restaurants account for 7% of the unclassified ones, but for 23% and 24% of the two upper segments. They are positioned therefore in the elite cuisine segment, where they benefit from the general attractiveness of the “Made in Italy” brand and the prestige of the more recent generations of Italian chefs. A General Overview This survey shows a significant presence of Italian restaurants in representative cities. Even where the results are lower, they are never below 5%. This might not seem a significant percentage until viewed in the light of the fact that the Italian population is less than 0.9% of the total world population. Another aspect that emerges from the survey is the variety of situations. There is not a single model of diffusion, nor is there a single and simple explanation of the success of Italian restaurants. Italian emigration has surely been a vehicle of transmission for popular cuisine, but not everywhere and not everywhere with the same intensity. In some cases, and particularly in Latin America, it has blended with other cuisines without developing a strong identity. Elsewhere, as in France, it found the opposition of a strong local tradition, which has hindered its development. In the case of popular cuisine, the competitive advantage of Italian cuisine depends on its intrinsic value, that is, its capacity to attract consumers thanks to the quality of national dishes, with some compromises at times with local taste. Within this area, the variety of regional Italian cuisines and the general availability of its ingredients in temperate climates (though for a long time, for example, olive oil had to be imported to the US) has contributed to its success. The spread of Italian elite cuisine has followed other routes: It is for one thing independent of emigration. Indeed, it is often successful in countries where there is no significant Italian emigration. It is characterized as luxury consumption, either targeted to the new rich elites (as in Russia) or to lower but still higher-income consumers (Tokyo and New York). In order to be competitive, it must not only distinguish itself from other elite cuisines, but also from lower segment cuisines. This is a problem common to other elite cuisines: all on them have to be unique, to create elements that are difficult to imitate in order to give their customers a sense of exclusive pleasure. At the same time, the success of Italian cuisine also at lower levels and, in general, the attractiveness of the “made in Italy” help Italian cuisine establish itself also in the elite segment. We must not forget, finally, that an addition advantage in the upper segment, comes from the success of Italian wine. The rise of the reputation of Italian wine in the last thirty years (Corsi et al., 2004) has given a significant boost to the reputation of Italian cuisine in general. 426


Artigianato al bivio: tra filiera corta e internazionalizzazione Martha Friel, Donatella Saccone

In Europa operano più di venti milioni di imprese. Il novantanove per cento di esse sono di piccole dimensioni e hanno meno di 19 addetti. In questo quadro il ruolo dell’impresa artigiana è decisamente forte e generalizzato. L’Europa è una regione di “artigiani”. Tuttavia non tutte le realtà europee sono eguali. Se si cerca di discriminare tra artigianato d’arte e artigianato di servizi o di attività non artistiche, si nota che la distinzione serve particolarmente bene a differenziare tra l’esperienza italiana e mediterranea e le altre. In Italia il cuore dell’artigianato è quello artistico e in molti settori la contiguità con il design industriale è molto marcata. Questa unione rende chiaro il legame con la creatività e la cultura, attraverso la tradizione, i saperi locali e la traditional knowledge. Questa parte sarà dedicata all’artigianato toscano, e in particolare fiorentino, che è il miglior esempio italiano di connubio tra arte e tradizione culturale. 1. Artigianato e design nell’economia della creatività Parlare genericamente di artigianato vuol dire riferirsi a un comparto che al suo interno comprende settori e mestieri assai differenti tra loro. In Italia, l’artigianato si compone di un tessuto di circa un milione e 400 mila imprese che generano una quota del valore aggiunto nazionale pari al 12,8% (Centro Studi Unioncamere, 2012). Si tratta di un agglomerato di attività molto diverse tra loro per struttura economica, performance e bisogni che spaziano dalla cura del corpo, barbieri ed estetisti ne sono un esempio, alla trasformazione della materia in oggetti e alimenti come il laboratorio di oreficeria o il pastaio. La presente analisi, tuttavia, si prefigge lo scopo di studiare solo alcuni dei “mondi artigiani” e, pertanto, il termine artigianato si riferisce qui principalmente ai mestieri d’arte e all’artigianato tradizionale, fortemente radicati nel territorio fiorentino e nella sua storia, con alcuni necessari sconfinamenti nei campi dell’artigianato tecnologico, dell’artigianato di sub-fornitura e del design autoprodotto. L’interesse verso l’artigianato non può quindi applicarsi a tutte le forme di lavorazione artigianale. Quello artistico e tradizionale, pur ritrovato in nuove formule, ci interessa più di altri per il genius loci che racchiude. Questa è, infatti, la principale caratteristica che ci permette di scommettere sulla sua sopravvivenza in un presente e in un futuro in cui anche l’industria guarda con grande interesse alla produzione limitata e personalizzata, e dove non solo grandi aziende ma anche luoghi e territori riscoprono attività più strettamente legate al “sense of place” come l’artigianato nell’ambito delle loro politiche di identity branding. Tra artigianato, mestieri d’arte e design Sembra sempre più difficile, oggi, chiedersi cosa sia l’artigianato. Difficile da molteplici punti di vista: definitori, economici, sociali. Esso rappresenta una parte fondamentale della cultura di una comunità: la forma dei suoi prodotti e la loro natura strumentale sono infatti spesso il risultato della presenza sul territorio di particolari materie prime, di saperi tradizionali e di specifici comportamenti, credenze o convinzioni di cui gli oggetti, incorporandoli, si fanno testimoni. In questo senso, la tentazione sarebbe di prendere in considerazione l’artigianato con sguardo onnicomprensivo, includendovi tutta quella 427


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produzione che vede il progetto svilupparsi e affiancare la realizzazione del prodotto in ogni sua fase fino all’oggetto finito: esca questo dalla bottega di un maestro ceramista, da una grande multinazionale del lusso o dallo studio di un designer. Anche la presenza della componente strumentale, in tal senso dirimente per la distinzione tra un’attività artigianale e una industriale, insieme alla dimensione dell’impresa, sembra oggi aver in parte perso peso; i nuovi ambiti di applicazione delle tecnologie infatti, se da un lato hanno contribuito a generare nuove specie di artigiani, come nel caso dei makers, dall’altro si sono messi umilmente a servizio del “fatto a mano” (è il caso della progettazione 3D nelle fonderie artistiche) in quella che alcuni definiscono come una nuova rivoluzione industriale in cui “gli atomi sono i nuovi bit e il mercato passa dal singolo.”1 Il mondo dell’artigianato è dunque denso e complesso: al suoi interno si trovano soggetti economici assai diversi per attività e struttura organizzativa; i confini del comparto, e di conseguenza la sua dimensione economica, sono difficili da censire; la sua stessa visibilità appare a volte incerta poiché, se alcuni mestieri d’eccellenza “si inseriscono all’interno di filiere produttive di grandi dimensioni […], molti si trasformano assumendo vesti che li rendono irriconoscibili a chi li cerchi nel loro aspetto consueto” (Colombo, 2007, p.19). Eppure, oggi la questione dell’artigianato sembra essere ritornata sul tavolo mentre il suo tradizionale isolamento fisico e culturale appare alleggerito. L’interesse è evidente su più fronti, in Italia come all’estero. Il mondo dell’accademia e della ricerca ha prestato negli ultimi anni grande attenzione al tema delle competenze artigianali pur declinato con prospettive diverse (Adamson, 2007), sull’uomo artigiano (Sennett, 2008), sul valore attuale e futuro del lavoro artigiano nelle catene globali del valore, (Micelli, 2009 e 2011), o sulla relazione tra mestieri d’arte e il Made in Italy (Colombo, 2007 e 2009) o, ancora tra artigianato, design e industria (Maffei, 2011; De Giorgi e Germak 2008). Anche nel mondo dell’arte, della cultura e delle industrie culturali alcune importanti istituzioni si sono prese in carico il compito di riportare i riflettori sul mondo dell’artigianato, antico e futuro: la mostra “Power of Making”2 tenutasi al Victoria and Albert Museum di Londra, il simposio “Me Craft/You Industry” organizzato da Premsela nei Paesi Bassi (Antonelli, 2012), lo spazio sempre più ampio dedicato alla produzione degli artigiani nei Design Week internazionali, l’interesse dei mass media (è il caso della serie di documentari “Mastercraft” della BBC) sono solo alcuni esempi. Le spinte a questa nuova vitalità sono molte e si presentano come il risultato di un sistema economico in profonda trasformazione: il passaggio da una cultura monolitica dell’industrializzazione a una cultura fondata sulla differenziazione e la specificità (De Giorgi e Germak 2008), la crisi di alcuni sistemi locali di produzione da un lato e dall’altro lo sviluppo di nuovi modelli industriali basati su relazioni di interdipendenza produttiva e su legami di outsourcing (Maffei, 2011), l’avvento dell’economia della conoscenza e dell’economia della creatività, i mutamenti in corso nel mondo del design e della produzione. Inoltre, a fronte dell’omologazione che la produzione di massa e la globalizzazione hanno portato con sé, vi è stato un mutamento nei gusti e nelle richieste dei consumatori, specialmente delle classi medie e alte, verso la ricerca di prodotti caratterizzati da qualità e unicità. Così, mentre la produzione standardizzata non può adattare il prodotto alle esigenze pratiche o emozionali del singolo cliente, l’artigianato si presta invece a essere la migliore risposta a questa tendenza. In tale contesto, l’artigianato sta dunque trovando visibilità e riconoscimento grazie a quelli che sono stati descritti come i suoi snodi fondativi (Bramanti, 2012) e in particolare: il senso del lavoro e la qualità individuale del saper fare; il trinomio “cultura-tradizione-innovazione” – ossia la capacità dell’artigiano di “fare sintesi tra sapere tacito e codificato, tra azione e pensiero, tra esperienza e conoscenza astratta, tra produzione e creazione” (Bramanti, 2012); l’imprenditorialità e il rischio d’impresa, cioè il gusto di misurarsi con il mercato. 1 2

Chris Anderson, direttore di Wired US, a Xchange 2010. Settembre 2011-gennaio 2012.

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M. Friel, D. Saccone Artigianato al bivio: tra filiera corta e internazionalizzazione

Artigianato, design e industrie creative Un contributo importante nel riportare di attualità il discorso sull’artigianato è stato fornito, tanto sul fronte internazionale quanto su quello italiano, anche dalla riflessione generatasi intorno all’economia creativa, al valore economico dalle industrie che producono beni e servizi creativi e al potenziale di crescita di questo macro-settore rispetto ad altri comparti economici. Un’attenzione che ha preso l’avvio nel mondo anglosassone e si è poi allargata a tutte le economie avanzate e ai paesi in via di sviluppo, dando origine a un dibattito globale e a una miriade di studi per localizzare, definire e quantificare economicamente l’economia della creatività. L’artigianato, nelle sue diverse declinazioni, è oggetto di analisi in molti di questi rapporti che univocamente, pur rilevando la difficoltà di dare una definizione precisa e concorde di ciò che va incluso o no nell’economia dell’artigianato, ne evidenziano l’importante ruolo sia in termini occupazionali e di valore aggiunto sia di know-how strategico. Tra questi, spicca il Creative Economy Report pubblicato dall’UNCTAD nel 2008 e nel 2010, dove l’economia della creatività viene identificata come settore chiave non solo per il suo sostegno alla crescita e all’occupazione, ma anche per la promozione dell’inclusione sociale, della diversità culturale e, più in generale, dello sviluppo umano. All’artigianato è stata dedicata un’intera sezione. In questa si stima che, per il 2008, i flussi commerciali legati al comparto abbiano raggiunto circa 32 miliardi di dollari a livello mondiale (UNCTAD, 2010). Nelle classifiche dell’UNCTAD l’Italia si posiziona tra i primi posti a livello mondiale; tuttavia, alcuni paesi emergenti, quali Cina, Turchia e India, così come in molti campi, anche in quello dell’artigianato stanno espandendo il loro sviluppo, lanciando così nuove sfide di competitività e rinnovamento al mondo occidentale. Anche in Italia, il dibattito sulle industrie della creatività ha contribuito ad alimentare l’interesse nei confronti dell’artigianato e del ruolo che poteva vantare nel successo del Made in Italy, portando nuova conoscenza del settore. Di grande interesse sono la mappatura e il rilevamento in progress delle eccellenze territoriali che ne sono scaturiti. Nel 2009, il Libro Bianco sulla Creatività (Santagata, 2009), ha stimato che la categoria “design e cultura materiale” nel 2004 generava, nelle sue fasi di creazione e produzione, un valore aggiunto sul PIL pari a 19,5 miliardi di euro occupando circa 520 mila addetti; un dato inferiore solo a quello del settore moda e comunque superiore ai valori generati dalle principali industrie dei contenuti. A questo primo studio nazionale, se ne sono poi affiancati altri anche a livello regionale e locale (Lazzeretti, 2003; IRER, 2008; Bertacchini e Santagata, 2012) che hanno ulteriormente ribadito la centralità dell’artigianato e degli artigiani nell’economia della creatività, analizzando la struttura del comparto e i contributi che esso apporta alla formazione e allo sviluppo della cosiddetta “atmosfera creativa”, ovvero “il contesto entro cui si misura la capacità di mobilitare le risorse economiche e sociali del territorio” (Bertacchini e Santagata, 2012, p.4). In molti di questi studi l’artigianato si intreccia all’economia del design e, almeno numericamente, non riesce a emergere distinguendosene con chiari confini. D’altra parte è innegabile che la rilevanza storica, culturale e produttiva dell’artigianato e dei mestieri d’arte si intrecci a quella del disegno industriale in gran parte dei poli italiani design intensive, oggi ancor più in un momento in cui il cambiamento delle dinamiche della creatività e dell’innovazione hanno innescato una trasformazione anche nei modi/idealtipi sia della professione artigianale sia della professione del designer (Maffei, 2011). Dai marchi del lusso all’industria turistica: le sfide dell’artigianato oggi Se è vero che l’artigianato sta vivendo una fase di riscoperta che lo vede protagonista sia nel successo di molte importanti aziende - che a esso affidano non solo le fasi più delicate della lavorazione dei prodotti ma anche la valorizzazione della propria immagine sui mercati internazionali - sia nelle stra429


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tegie di place branding e di marketing territoriale per la promozione di città e territori, non si possono tuttavia ignorare anche i numerosi elementi di criticità nella sopravvivenza e nello sviluppo di molte imprese artigiane. Da un lato, infatti, la globalizzazione ha dato un nuovo impulso alla creazione di un’economia globale della cultura e al consumo di massa di prodotti culturali, favorendo così anche l’interesse verso prodotti di culture “altre” e promuovendo la produzione di particolari tipologie di beni artigianali tradizionali, alcune delle quali destinate, in altre condizioni, a scomparire o a sopravvivere magramente per un ristretto mercato locale; dall’altro lato, tuttavia, essa ha portato con sé anche una feroce concorrenza basata sui costi di produzione, nonché vasti fenomeni di contraffazione che hanno fortemente inciso sulla redditività di molte imprese artigiane (Friel, 2009). A ciò si è andata ad aggiungere, in tempi recenti, la crisi economica che ha fortemente ridimensionato alcuni mercati di fascia media fondamentali per la sopravvivenza dell’artigianato. Accanto agli aspetti macro e alle tendenze globali, vi sono poi una serie di altri fattori - in parte congiunturali e in parte strutturali - che influiscono sulla redditività (e sulla sopravvivenza) delle attività artigianali e che originano dalle seguenti problematiche: - Accesso ai mercati. Tradizionalmente, l’artigianato e l’artigianato artistico sono nati per soddisfare bisogni e esigenze locali. I mercati a cui si rivolgevano, pertanto, si sviluppavano principalmente sul territorio circostante. Oggi, invece, sotto le spinte della globalizzazione e dell’integrazione dei mercati mondiali, all’aspetto locale si è aggiunta una forte componente globale. Questo da un lato richiede la ricerca di nuove soluzioni per l’accesso ai mercati locali, nazionali e internazionali e, dall’altro lato, impone di adattare i prodotti alle richieste e ai bisogni di fasce eterogenee, in termini di reddito e gusti, di consumatori. In particolare, l’artigianato artistico di successo si è rivolto principalmente a una nicchia di consumatori con buone risorse finanziarie e disponibilità ad acquistare prodotti di fascia alta, sia a livello nazionale sia a livello mondiale. Tuttavia, una significativa quota di artigiani d’arte si trova a fare i conti con nuove sfide di mercato. Dal lato dell’offerta, non tutti infatti riescono a entrare in questa nicchia di mercato che, seppur molto redditizia, è per definizione limitata nel numero di consumatori e, per accedervi, richiede abilità nel proporsi e nel rinnovare i propri prodotti e le proprie strategie di mercato. Sul fronte della domanda, ci si chiede se ci sia spazio non solo per l’artigianato di eccellenza che si rivolge alle fasce agiate della popolazione nazionale e mondiale, ma anche per un artigianato in grado di incontrare i bisogni e i gusti di consumatori appartenenti alle classi medie e medio-basse. Infatti, la crescita economica di cui sono protagoniste le economie emergenti, non ha creato solamente una nuova schiera di ricchi, ma sta portando alla nascita di una nuova e ampia classe media che, nel futuro prossimo, ricercherà prodotti adatti al suo nuovo stile di vita. Il potenziale esistente per creare un artigianato artistico che si rivolga a tale mercato nascente e sfrutti queste nuove tendenze non può essere ignorato e richiede nuove soluzioni di accesso ai mercati, di reputazione locale contro la concorrenza globale oltre a innovazioni tecnologiche e produttive per sostenerne la quantità (Santagata e Friel, 2007). Se le soluzioni trovate saranno adatte, l’artigianato artistico d’eccellenza e l’artigianato artistico più tradizionale potranno godere di ampie quote di mercato. La domanda principale da porsi è quindi come allargare il pubblico, favorire l’eccesso a nuovi mercati e sfruttare le tendenze globali. Inoltre, si sta diffondendo una terza via per realizzare prodotti innovativi e moderni così come per garantirsi l’accesso ai mercati, a cui le trasformazioni oggi in atto nel mondo del design hanno contribuito non poco. Si tratta dell’autoproduzione, in cui il progettista diviene il regista dell’intero processo, progettuale, costruttivo e distributivo. L’autoproduzione è un fenomeno interessante da indagare e, anche se per il momento ha più a che fare col mondo del design che col mondo dell’artigianato, potrebbe in futuro diventare il ponte di collegamento tra i due mondi e unire la capacità progettuale ed innovativa dei designer con quella costruttiva e manuale degli artigiani. Per il momento, non siamo ancora in grado di capire se si tratti di un fenomeno passeggero o se sia il risultato di una trasformazione strutturale che si protrarrà nel 430


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tempo. Alcuni designer ritengono si tratti della nascita di una strada diversa da quella del mercato tradizionale e non in contrasto con essa. Secondo Paolo Ulian6, infatti, autoproduzione e artigianato conquisteranno sempre più spazio nel design dei prossimi anni, perché i giovani designer sono in continuo aumento e, parallelamente, le aziende di design in diminuzione. - Crisi economica e domanda interna. In tempi recenti, la crisi economica ha minacciato e continua a minacciare la solidità dell’artigianato, in un momento in cui le prospettive di crescita del Paese sono tutt’altro che positive. Da un lato, infatti, la crisi ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori e, più in generale, non solo in Italia, ha portato al forte ridimensionamento di alcuni mercati di fascia media fondamentali per la sopravvivenza dell’artigianato. La contrazione economica, tuttavia, non riguarda il mondo intero ma solamente i paesi occidentali. In America Latina, in Asia e persino nell’Africa SubSahariana alcuni paesi stanno vivendo una forte espansione delle proprie economie e della domanda interna. Le nuove classi medie e alte sembrano particolarmente attratte dal design occidentale e, in particolar modo, dal Made in Italy. Vi è quindi un ampio margine di manovra per sostituire la domanda calante del mondo occidentale con la domanda crescente dei paesi emergenti e in via di sviluppo. Ovviamente, questo richiede nuove strategie, capacità imprenditoriali, investimenti, innovazione e adattamento alle esigenze e ai bisogni dei nuovi mercati. - Informazione e qualificazione della domanda. Anche quando il consumatore ha potere d’acquisto e disponibilità finanziarie, in un certo senso la natura artistica e fortemente idiosincratica dell’artigianato può limitarne la domanda dal momento che, come ogni forma d’arte, necessita di cultura e accurata informazione affinché ne venga colto il valore e compreso il prezzo. Come nota Bramanti (2012), “un cliente diseducato difficilmente riconosce un premium price all’oggetto artigianale e/o lo colloca automaticamente nella nicchia dei beni di lusso e dunque concorrente (perdente) dei beni griffati”. Un esempio toscano è la produzione di manufatti in scagliola, forma artistica raffinata ospitata ormai da tante collezioni e musei nel mondo, dal Louvre al Victoria and Albert Museum, della quale però si fa “sempre più fatica a spiegare ai clienti perché un piccolo tavolo possa arrivare a costare anche tre o quattromila euro. Ci vuole tempo, precisione e competenza per realizzarlo e manualità artistica. Ovviamente, per poterne apprezzare i dettagli e il valore artistico, serve cultura ed è necessario creare informazione sulle sue qualità materiali e culturali.”7 - Accesso al credito. La crisi finanziaria e la mancanza di liquidità delle banche hanno profondamente trasformato, restringendole, le condizioni di accesso al credito. Questo, ovviamente, mina le possibilità che le imprese artigiane hanno di investire per accedere ai nuovi mercati globali. Tipicamente, infatti, le imprese artigiane sono unità a ridotta dimensionalità e a bassa capitalizzazione e, per queste ragioni, si ritrovano a essere esposte alla problematica dell’accesso al credito in misura maggiore rispetto ad altre imprese. Senza il supporto di istituzioni che credano nell’artigianato e nel suo potenziale contributo alla crescita economica del Paese, l’adattamento autonomo del settore alle nuove tendenze descritte sopra diventa difficile poiché richiede capitali e investimenti di cui molti artigiani attualmente non dispongono. Un’alternativa, di cui discuteremo in modo più approfondito nelle riflessioni conclusive, è che l’artigiano senza risorse finanziarie e possibilità di accesso al credito diventi fornitore e stretto collaboratore dell’industria del lusso, che ha maggiore accesso al credito così come ai mercati globali, e che ha già dimostrato di credere nel potenziale e nel valore aggiunto dell’artigianato artistico e tradizionale. - Trasmissione dei saperi artigiani. Uno degli elementi di fragilità dell’artigianato artistico e tradizionale più lamentati da artigiani e analisti è quello della trasmissione del sapere tecnico e culturale alla base di questo tipo di produzione. La perdita di tali competenze non soltanto mina la sopravvivenza dell’artigianato ma va a indebolire anche la produzione di beni a esso strumentali, si pensi per esempio all’uso di particolari materiali, pigmenti e utensili. La radice di tali problematiche risiede in parte nei profondi cambiamenti sociali, economici e culturali di cui è stato testimone il nostro Paese negli ultimi 6 7

Paolo Ulian, designer, in un’intervista ad AT Casa, 24 aprile 2011. Lando Falciai, artigiano, in un’intervista a La Repubblica, sabato 12 maggio 2012. 431


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decenni. Da un lato, infatti, si è interrotto il passaggio intergenerazionale del sapere artigiano “da padre a figlio” dal momento che le nuove generazioni spesso decidono di intraprendere studi e strade diverse da quelle di chi le ha precedute. Dall’altro lato, le vie più formali di trasmissione del sapere si sono rivelate non adeguate o non sufficienti rispetto alle esigenze soprattutto nel recupero delle molte conoscenze tacite alla base delle lavorazioni tradizionali e artistiche. - Spazi insediativi e del commercio nei centri storici. Storicamente, le botteghe artigiane hanno sempre avuto uno stretto legame con i centri storici delle nostre città, dove esse sono sorte e si sono radicate nel tempo in una corrispondenza tra tessuto insediativo e tessuto produttivo. Tuttavia, alcuni fattori stanno indebolendo la presenza delle botteghe e dei laboratori storici nei centri cittadini e, tra questi, l’aumento dei costi immobiliari e di gestione stanno avendo un ruolo preminente. In alcuni casi, l’indebolimento del legame tra centro storico e attività artigiane si manifesta in forme di delocalizzazione di intere attività o fasi produttive nella periferia metropolitana, conservando nei quartieri centrali soltanto i punti di vendita. In altri casi, all’estremo opposto, si ritrovano piccole e piccolissime botteghe che, di fronte a tali cambiamenti, preferiscono mimetizzarsi nel variegato pianeta dell’informale (Biondi 2011). Queste tendenze stanno cambiando il volto dei centri urbani e, soprattutto, pongono forti problemi di visibilità per gli artigiani le cui botteghe sono la vetrina principale del loro lavoro. In particolare, il problema non è solo l’indebolimento della funzione storica dell’artigiano e della sua relazione coi centri storici, ma anche il forte rischio che l’artigiano esca dai circuiti turistici e perda visibilità e opportunità di vendita. - Salvaguardia dell’originalità. Sebbene gli oggetti di artigianato tradizionale siano spesso radicati nelle identità culturali e sociali delle comunità che li producono e incorporino conoscenze e tecniche secolari, l’apparenza del prodotto finito è facilmente espropriabile: si pensi ai vetri di Murano prodotti industrialmente in Cina o alle Pashmine, sciarpe tradizionalmente prodotte a mano nel Kashmir con lana di capra himalayana, che, prodotte in serie nel Sud-Est Asiatico in versione cheap, hanno negli ultimi anni invaso il mercato europeo. La globalizzazione ha dunque portato con sé anche vasti fenomeni di contraffazione e, ancora una volta, l’educazione culturale del cliente e la sua capacità di distinguere la qualità sia del processo produttivo sia del prodotto finito diventano fondamentali per la tutela del settore. A ciò si aggiunge la necessità del riconoscimento della proprietà intellettuale del sapere artigiano e la salvaguardia della sua originalità. Infatti, “nonostante i prodotti artigianali siano spesso assimilati a creazioni di tipo artistico, la maggior parte delle persone non ne riconosce il diritto di proprietà intellettuale” (Howkins, 2001). Inoltre, in molti settori dell’artigianato artistico non esistono marchi di qualità ed eccellenza a cui gli artigiani possano aderire per certificare e comunicare al cliente il valore delle proprie creazioni. - Dinamiche innovazione/tradizione. Nonostante l’indiscussa qualità e il valore dei prodotti dell’artigianato artistico, talvolta l’artigiano, nel comprensibile intento di preservare la tradizione, rimane fedele a modelli che, dal punto di vista estetico, sono variati poco nel tempo. Questo può portare a una discrepanza tra l’estetica del bene offerto e il gusto del consumatore, soprattutto del consumatore più giovane. Ciò è aggravato dalla mancanza del ricambio generazionale di cui si è parlato in precedenza poiché l’affiancamento delle nuove generazioni all’artigiano tradizionale costituisce un elemento importante anche nei processi di rinnovamento estetico dei manufatti. La produzione di beni culturali tradizionali non si basa necessariamente solo sull’imitazione e la riproduzione di modelli immutabili, bensì anche sull’innovazione e la creatività: la tradizione non è statica e la produzione di cultura, in tutte le sue forme, è un processo cumulativo e innovativo soprattutto nel caso di beni e servizi che competono su un mercato dove i gusti e le richieste cambiano sempre più rapidamente. Questa problematica riporta alla necessità di un dialogo più stretto tra artigianato tradizionale e design, dove quest’ultimo potrebbe avere il compito di supportare le capacità tecniche e artistiche dell’artigiano con l’ideazione di nuove forme estetiche più moderne ed attrattive anche per le giovani generazioni. 432


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2. Artigianato a Firenze: la filiera e i suoi attori Mestieri d’arte e di tradizione a Firenze La ricchezza, qualitativa e tipologica, dell’artigianato a Firenze ha origini antiche e ha avuto un ruolo importante sia culturale (Lebole, 2003) sia da un punto di vista economico, con un filo rosso che ci può condurre da Orsanamichele, “tempio del lavoro”8, al successo del Made in Italy nel mondo. Entrambi aspetti che, del resto, già si intrecciavano fin dal primo Rinascimento, quando la Firenze laurenziana vantava una presenza di botteghe artigiane di tal livello da offrire un magistero ad allievi che saranno poi i più grandi artisti del XV e XVI secolo, come ad esempio nel caso della bottega del bronzista Bertoldo di Giovanni, primo maestro di Michelangelo. Senza contare che a Firenze, nel suo Secolo d’oro artistico, la reciprocità culturale tra botteghe artigiane di livello e i loro committenti era particolarmente intensa: gli oggetti prodotti da quegli artigiani venivano conservati da nobili e alti prelati nelle loro case con lo stesso apprezzamento dei reperti archeologici autentici di cui erano orgogliosi collezionisti. E viceversa le attività artigianali, rivisitando dall’antichità temi e procedure esecutive, contribuivano attivamente a far riscoprire il fascino di piccoli oggetti e ornamenti che venivano fruiti in modo più quotidiano e diffuso. Medaglie, cammei, bronzetti, sculture fermacarte, placche incise, armi da parata, cassoni dotali o deschi da parto compaiono, ad esempio, persino nell’ambientazione dei ritratti ufficiali di personaggi famosi dipinti dai grandi pittori, testimoniando la presenza di fiorenti officine artigiane di qualità universalmente riconosciuta. Un potere culturale, quello derivante dai mestieri d’arte fiorentini, che ha avuto fasi alterne conservando però sempre grande visibilità a livello internazionale lungo i secoli, tanto che Firenze è tuttora nota nel mondo per una ricca varietà di lavorazioni artistiche e tradizionali che vanno dalla pelletteria alle spezierie, dall’oreficeria alla ceramica, dalla carta ai cappelli di paglia. Un capitolo a parte di grande rilevanza che ancor oggi vincola a doppio filo arte e artigianato a Firenze è poi quello del restauro di cui si dirà in seguito. Tuttavia, vale oggi anche per il Capoluogo toscano quanto detto nel primo paragrafo per l’artigianato in generale: anche i mestieri della Città, infatti, risentono di alcune problematiche strutturali del comparto che ha vissuto negli ultimi anni una contrazione nel numero di imprese da un lato e un ridimensionamento dei propri mercati dall’altro. A tutto ciò, per l’artigianato fiorentino si aggiunge un ulteriore fattore di pressione, il turismo che, se da un lato offre ai prodotti del capoluogo toscano visibilità e l’accesso a un mercato particolarmente rilevante - Firenze conta ogni anno oltre 6 milioni e mezzo di presenze – dall’altro contribuisce a diffondere una cultura e un mercato del souvenir potenzialmente nemica del vero artigianato Made in Florence e, ampliando la concorrenza nelle destinazioni d’uso degli spazi commerciali della città, sta favorendo fenomeni di crowding out degli artigiani dal centro alla periferia e una progressiva separazione tra i luoghi destinati ad attività di vendita e di produzione. Ciò detto, da un punto di vista numerico, secondo i dati del primo repertorio sui mestieri d’arte della provincia di Firenze (Vichi, 2009), sul territorio fiorentino vi sono oggi oltre mille 300 imprese riconducibili ad attività di artigianato artistico e tradizionale. Circa il 20% di queste appartiene al settore del legno e dei mobili e un altro 20% opera nella lavorazione di metalli pregiati e pietre preziose (Fig. 1). Il resto delle imprese è attivo soprattutto nel restauro, nell’abbigliamento, nella lavorazione di metalli non pregiati e della ceramica, e nelle tappezzerie. Tali dati – risultato di un’indagine censuaria condotta su iniziativa della Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico in compartecipazione con la Camera di Commercio di Firenze – costituiscono

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Fu definito così da Antonio Paolucci. 433


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un’importante fotografia dei mestieri d’arte nel Capoluogo toscano9 e descrivono un tessuto imprenditoriale fatto in prevalenza di ditte individuali (64,18%) con al massimo tre addetti (il 77,53% del totale) e concentrate per la maggior parte nel comune di Firenze (Fig. 2), a testimonianza di quanto oggi la città sia ancora luogo d’elezione dei mestieri d’arte.

* incluso il restauro / restoration included

Fig. 1. Artigianato artistico nella provincia di Firenze. Fonte: Elaborazione su dati CNA e Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico, 2009. Artistic crafts in the Province of Florence. Source: CNA and Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico, 2009.

La ricerca evidenzia, inoltre, una buona presenza, tra le maestranze delle imprese analizzate, di titoli di studio attinenti al lavoro svolto (Liceo Artistico; Istituti d’Arte; Accademia di Belle Arti; Opificio delle Pietre Dure; Architettura; Beni Culturali; ecc.) e una presenza non così pervasiva di genealogie artigiane (il 47,84% delle imprese risulta essere di prima generazione). Interessante è constatare anche come, nonostante le tecnologie manuali rappresentino ancora una componente fondamentale del processo produttivo, le attrezzature elettroniche giochino sempre più un ruolo tutt’altro che marginale e come, invece, sul fronte della promo commercializzazione, web e posta elettronica siano ancora largamente sottoutilizzati (il 61,73% delle imprese usa la posta elettronica e solo il 36,45% ha un sito web). Come già detto, i dati raccolti dalla Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico e dalla CNA, costituiscono un’utile mappatura dell’artigianato artistico a Firenze. Tuttavia essi non includono una serie di attività a cavallo tra i mondi dell’artigianato e della produzione industriale, le produzioni artistiche e tradizionali provenienti da realtà industriali e tutte quelle attività collaterali funzionali allo svolgimento dell’attività economica o al ripristino delle produzioni artistiche o tradizionali.10

Nel prendere in considerazione tali dati va tuttavia tenuta presente da un lato la sempre presente difficoltà, quando si parla di artigianato artistico e tradizionale, di operare una reale circoscrizione e quantificazione dei mestieri d’arte all’intero dell’universo dell’artigianato manifatturiero, dall’altro il fatto che, per tale ricerca, non sono state considerate produzioni di livello industriale e le aziende di pelletteria dedite unicamente ad attività di contoterzismo. Inoltre, i dati si riferiscono al biennio 2008-2009 e, pertanto, non tengono conto delle imprese entrate e uscite dal mercato da allora a oggi. Come conseguenza della crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 e protrattasi negli anni successivi, ci si aspetta che la dimensione attuale del settore dell’artigianato si sia ridotta rispetto alle stime qui riportate. Si deve pertanto tener conto che i dati utilizzati nel presente studio sono assai utili per avere una panoramica generale del settore e delle sue caratteristiche ma che, probabilmente, ne sovrastimano la dimensione attuale. 10 Tali attività sono invece incluse nella Legge Regionale. 9

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Fig. 2. Artigianato artistico nella provincia di Firenze. Fonte: Elaborazione su dati CNA e Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico, 2009. Artistic crafts in the Province of Florence. Source: CNA and Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico, 2009.

La recente indagine strutturale condotta da Artex (Artex, 2012) sulle produzioni artistiche e tradizionali in Toscana che ha incluso non soltanto le imprese artigiane, bensì anche le realtà industriali facenti parte del medesimo contesto produttivo e riconducibili alla stessa cultura materiale, oltre ad attività di servizio di supporto al settore, ha portato all’individuazione, sul territorio regionale, di circa 33 mila imprese (di cui 11 mila nella provincia di Firenze) per 177 mila addetti e 10 miliardi annui di esportazioni11. Cosa c’è e cosa manca: servizi e micro servizi a supporto di design e artigianato L’universo dell’artigianato fiorentino non è costituito solamente dalle botteghe artigiane e dai loro attori ma anche da tutte quelle attività intermedie e di supporto che le sostengono e definibili “microservizi” di supporto al comparto. I micro servizi possono essere descritti come “la struttura che rende sostenibili la creatività e la cultura”, anche quella materiale, “perché ne fissano la localizzazione e relativi vantaggi in un territorio” (Bertacchini e Santagata, 2012, p. 27). La Figura 3 sintetizza alcuni dei principali servizi e micro servizi di supporto al sistema dell’artigianato e alla sua filiera, che possono essere sinteticamente ricondotti a sei macroclassi: ideazione e progettazione; realizzazione; comunicazione e promozione; commercializzazione; tutela; storicizzazione e istituzionalizzazione. La loro analisi è importante per capire le interazioni tra attività disaggregate ma fortemente interconnesse nella creazione dei prodotti artigianali (Bertacchini e Santagata, 2012, p. 27). 1) Ideazione e progettazione. La fase ideativa è certamente l’elemento imprescindibile di ogni processo produttivo e si nutre sia della creatività e della competenza individuali sia di un genius loci fatto di know-how tecnico-scientifico e di tradizioni artistiche e culturali.

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I dati si riferiscono all’anno 2008. 435


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Il sistema di supporto alla creazione nel campo dell’artigianato artistico e tradizionale deve dunque essere visto come un insieme di infrastrutture culturali, di servizi e di attività che vanno dalla formazione ai centri di ricerca e alle biblioteche, dai musei agli archivi, ai network territoriali di cooperazione e che hanno il compito da un lato di far emergere i talenti creativi e imprenditoriali, dall’altro di ispirarne l’attività. A Firenze esistono oggi alcuni centri di eccellenza sia sul fronte della formazione sia su quello della ricerca e sviluppo nei campi del design e delle lavorazioni artigianali: la sede fiorentina dell’ISIA - Istituto superiore per le Industrie Artistiche - ne è il principale punto di riferimento in quanto a prestigio. L’istituto statale di livello universitario è inserito nel comparto AFAM - Alta Formazione Artistica e Musicale del MIUR e conta circa 200 iscritti ogni anno12. Vi sono poi, oltre all’Università di Firenze – principalmente con i corsi di laurea in Cultura e Progettazione della Moda e in Disegno Industriale -, lo IED, Istituto europeo di Design, nato nel 2008 nella Casa della Creatività e Polimoda. L’Accademia Riaci prepara invece a competenze specifiche e circoscritte che vanno dalla gioielleria al disegno del vetro alla lavorazione della pelle, mentre, specifica per la ceramica, è la Scuola di Ceramica di Montelupo che si avvale di magisteri tradizionali. Va sottolineato come il tema della formazione sia fondamentale non solo per le nuove professionalità artigiane ma anche sul fronte dell’aggiornamento di chi già opera nel settore e intenda implementare le proprie conoscenze relative all’utilizzo di tecniche, tecnologie e materiali innovativi. La questione della formazione, infatti, non è solo funzionale all’ideazione ma anche allo sviluppo dell’idea in relazione al contesto, nel senso del reperimento e dell’utilizzo di attività collaterali, affini e afferenti che possono essere di sostegno nel breve e nel lungo raggio, inclusa la possibilità/capacità di innervare la propria operatività nell’ambito del business, come dimostra la non rara condizione di difficoltà nell’individuare nuovi mercati. A cavallo tra formazione e ricerca è l’Opificio delle Pietre Dure che, con i suoi Laboratori di Restauro, nasce nel 1975 come istituto a competenza nazionale dall’unione di due diverse realtà attive da tempo nel campo della produzione artistica e della conservazione delle opere d’arte a Firenze: l’antico e rinomato Opificio delle Pietre Dure, sorto nel 1588 come manifattura di corte per la lavorazione di arredi in pietre dure e trasformato in istituto di restauro nei decenni che hanno seguito l’Unità d’Italia, e il Laboratorio di Restauro, sviluppatosi all’interno della Soprintendenza nel 1932, e poi grandemente evolutosi in seguito all’alluvione di Firenze del 1966. Al di fuori dell’accademia, tra le realtà più attive in termini di ricerca, vanno poi ricordati l’Osservatorio dei Mestieri d’Arte, nato nel 2001 dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze e divenuto nel 2010 associazione senza scopo di lucro delle Fondazioni bancarie della Toscana, e, a livello regionale, Artex, Centro per l’Artigianato Artistico e Tradizionale della Toscana che opera per la tutela, l’innovazione e lo sviluppo delle produzioni artistiche e tradizionali. Fondamentale, nell’attività di quest’ultimo istituto, il costante monitoraggio degli scenari economici e di mercato, che ha permesso anche di consolidare una rete di collaborazioni e rapporti con soggetti nazionali e internazionali di rilievo. Vi è poi l’attività di monitoraggio strutturale e congiunturale condotta dalle Associazioni di categoria e, nello specifico, da CNA e Confartigianato. 2) Realizzazione. I servizi a supporto del processo produttivo sono forse quelli numericamente più consistenti ma, paradossalmente, i più difficili da individuare sia da parte degli attori artigianali, sia per gli analisti che intendono studiarli, in quanto essi abbracciano una vasta gamma di produttori di strumenti e macchinari necessari alla produzione e di fornitori di materie prime. Si tratta di veri e propri microservizi diffusi in modo polverizzato sul territorio e quindi appartenenti a un’area geograficamente e settorialmente assai complessa da individuare e descrivere. Un caso tra molti è costituito a Firenze dal colorificio “Zecchi”, che nemmeno si autodefinisce come “colorificio” ma come “bottega di colori”, concettualmente non dissimile ma semanticamente rilevante tanto la sua attività valuta se stessa come disponibilità ad altri mestieri. 12

Banca Dati dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, 2012.

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Fig. 3. La filiera dell’artigianato: servizi e micro servizi. The craftsman’s supply-chain: services and micro-services.

Il campo di supporto al processo produttivo si allunga anche a comprendere, oltre ad altre imprese artigiane che operano in campi complanari (come può essere una fonderia artistica per la scultura o la fornace per la lavorazione della ceramica), tutta una serie di stampisti, tornitori, plasticatori, modellisti e anche fotografi, informatici ecc. 3) Comunicazione e promozione. Come si comunica oggi l’artigianato al pubblico e agli operatori di settore? Quali servizi richiede la comunicazione? In realtà a questa voce troviamo sia servizi di tipo più tradizionale sia strumenti più moderni e innovativi. Tra i primi, si annoverano le attività editoriali - è il caso delle guide e delle pubblicazioni prodotte per esempio dall’Osservatorio dei Mestieri d’Arte (OMA) o da Artex – e la divulgazione e promozione dell’artigianato attraverso iniziative quali convegni, seminari, workshop – si vedano a esempio i progetti realizzati dalla Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico. Tra i secondi, invece, troviamo l’ideazione e la costruzione di nuovi strumenti, anche tecnologici: è il caso dell’applicazione per smartphone “ARTour Toscana. Itinerari di artigianato” o della sezione dedicata alle botteghe storiche del progetto web Florence Heritage13. Un’ulteriore declinazione della comunicazione si avvale di collaborazioni con il mondo dello spettacolo e dello star system, a livello aziendale o anche istituzionale, attraverso il product placement ma, pure in modo più specifico e di larga ed esplicita diffusione, attraverso film commision o comunque con l’ausilio del mondo del cinema. Un esempio interessante è offerto dall’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella che appare con molta evidenza nella serie fiction “Gossip Girl”. Questo genere di “collaborazione” pubblicitaria di alto profilo non manca di antesignani illustri: ad esempio “Il cappello di paglia di Firenze”, opera lirica di Nino Rota che certamente fece una notevole pubblicità alle “pagliette” fiorentine.

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http://florenceheritage.it/ 437


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Un altro celebre fan delle manifatture toscane era Steve Jobs che, colpito dalla pavimentazione dei marciapiede fiorentini, decise di pavimentare tutti i suoi Apple Store con pietra serena14: operazione che ottenne, non solo in Toscana, grande visibilità sui media. A potenziare l’efficacia comunicativa, non di rado viene in soccorso anche il design: il metadesign della grafica pubblicitaria è un’occasione efficiente per valorizzare le qualità del prodotto, non meno che per mostrare se stesso, e per promuovere i contenuti di entrambi i settori a livello internazionale, sfruttando la “popolarità” del suo linguaggio e l’indubbio appeal di cui il design italiano gode di questi tempi oltre che in passato. Sempre con un obiettivo promozionale, anche il ruolo della “bottega”, in quanto luogo, è di fondamentale importanza: non solo per le operatività della produzione, dunque, ma come spazio in grado di mettere in relazione l’artigiano con il suo pubblico. Territorio di incontro e contatto diretto con l’acquirente, la logistica della bottega è, in tal senso, attinente anche al mondo del mercato immobiliare. La necessità fondamentale che essa sia allocata nel centro cittadino in modo che la sua visibilità non venga penalizzata da situazioni eccessivamente decentrate si trova attualmente a confliggere con problematiche del costo eccessivo degli affitti15 nel caso essa non sia, tradizionalmente o per recente acquisizione, di proprietà dell’artigiano. Pena la separazione tra produzione e vendita, che impedisce anche al pubblico-acquirente di seguire, completamente o in parte, il processo di lavorazione, di apprezzarne e coglierne il valore e, talvolta, anche di poter sperimentare personalmente alcune fasi del mestiere. L’importanza della localizzazione delle botteghe – tema sul quale, a Firenze, si è generato un certo dibattito anche istituzionale in relazione all’istituzione di uno spazio dedicato alle arti e ai mestieri al “Conventino” – si manifesta in modo evidente anche nelle iniziative di promozione connesse al turismo. Un caso interessante di simbiosi mutualistica tra attività artigianali confluite in un sito specifico è la vecchia bottega in Piazza Santo Spirito dei fratelli Bini, oggi trasformata in caffè culturale. L’attività dei Bini- che ha trovato molti estimatori in tutto il mondo - consisteva nella creazione di forme per cappelli, una lavorazione oggi in via d’estinzzione. Infine, anche il turismo ha un ruolo attivo e veicolare nella comunicazione dei prodotti artigianali. Le vetrine degli operatori turistici e degli hotel, oltre alle iniziative episodiche o periodiche nelle vie e nelle piazze, portano l’artigianato alla portata del vasto pubblico e ne ospitano i prodotti tipici. 4) Commercializzazione. Il turismo ha un ruolo diretto anche nella commercializzazione dei prodotti artistici e tradizionali. Su questo fronte sono ormai sempre più numerosi i servizi e i micro servizi attivi sul territorio: dal personal shopper che conduce il turista nelle botteghe d’arte, come nel caso dell’iniziativa “Quality Handicraft Assistant” di OMA in collaborazione con Federalberghi, agli eventi di animazione del territorio. Sempre sul fronte della commercializzazione opera poi il mondo delle fiere, degli eventi e delle mostre mercato. Gli appuntamento nel Capoluogo toscano sono numerosi e vanno dalla Mostra Internazionale dell’Artigianato alla mostra mercato Artigianato e Palazzo che annualmente si svolge nella splendida cornice dei giardini di Palazzo Corsini. 5) Tutela. Sul territorio i servizi per la tutela di artigiani e progettisti si declinano in varie forme, dagli studi legali ai servizi offerti dalle camere di commercio, alle associazioni di categoria. I servizi di tutela della proprietà intellettuale non riguardano ovviamente solo il prodotto “griffato” ma anche le innovazioni di processo o di prodotto relativi per esempio all’uso di nuovi materiali. Tuttavia, la protezione legale dei prodotti artigiani varia da settore a settore e, in alcuni di essi, molti artigiani lamentano la mancanza di un marchio di qualità ed eccellenza. http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/2011/1-dicembre-2011/innamorato-pietre-firenze-steve-jobsporta-apple-store--1902377502458.shtml 15 Il problema dell’aumento dei canoni di locazione diviene in certi casi dirimente: a Firenze, un negozio di 50 mq in zona Duomo può costare fino a 4.500 euro al mese. Secondo i dati dell’Agenzia del Territorio i negozi in centro storico hanno un valore di mercato che varia dai 2.900 ai 6.700 euro al metro quadro mentre i valori di locazione mensile partono da un minimo di 15 euro al metro quadro a un massimo di 35, in realtà un negozio di 50 mq in zona Duomo può arrivare anche a 4.500 euro al mese. 14

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6) Storicizzazione e istituzionalizzazione. Questo processo rappresenta un fenomeno relativamente “nuovo” nel mondo dell’artigianato ed evidente non solo a Firenze e in Toscana ma a livello nazionale e internazionale. Alcune tipologie di artigianato storicizzandosi diventano oggetto di culto, oggetto d’arte e da collezione: un passaggio questo che viene istituzionalizzato anche attraverso la creazione di musei e di gallerie commerciali ad hoc. Un esempio particolarmente rilevante a livello nazionale è il progetto “I Musei dell’Artigianato”, realizzato da Confartigianato con l’obiettivo di valorizzare e far conoscere il mondo museale dedicato ai mestieri d’arte e tradizionali. I musei fiorentini inclusi nel progetto sono 19 e vanno da importanti istituti statali, come Palazzo Pitti e il Bargello, a musei legati alla storia di specifiche manifatture, come il Museo della Paglia e dell’Intreccio, il Museo Richard Ginori di Doccia o il Museo Storico della Scagliola. A questi si aggiungono i musei e gli archivi della moda come la Fondazione Roberto Capucci, il Museo Salvatore Ferragamo e il Gucci Museo (si veda box). Il ruolo di queste strutture, in quanto luoghi di ispirazione e di dialogo tra passato e futuro, può essere interpretato in modo duplice: funzionale non solo alla decantazione storica e al mantenimento memoriale dell’artigianato ma anche al suo sviluppo. Guccimuseo Allorché l’artigianato, inserendosi in una produzione che ne moltiplica la serialità a livello mondiale, pur mantenendone il fondamentale carattere di “manufatto”, diviene oggetto di culto a livello internazionale, vien fatto di indagare sulle “qualità” e le “competenze” che ve l’hanno condotto. è il caso di Gucci, uno dei brand più universalmente apprezzati, i cui fatturati sono paragonabili alle grandissime aziende come Microsoft o Coca-Cola, che, prendendo com’è noto l’avvio nel 1921 dall’idea di un artigiano fiorentino e sviluppandosi nel corso degli anni ’30 come una piccola ditta, rappresenta oggi uno dei più prestigiosi marchi made in Italy. Ciò che l’ha reso grande, come afferma Stefano Micelli (2011), l’aver sostanzialmente mantenuto saldissimo il legame tra il saper fare delle migliaia di artigiani che vi operano – fiorentini ma anche toscani e italiani – e l’abilità imprenditoriale nel trasmettere, sostanzialmente e visibilmente (“savoir faire” e “fair savoir”), le numerose e “uniche” qualità artigianali che costituiscono lo zoccolo duro del patrimonio culturale della maison. Il “gesto artigianale” che trasforma e assembla in una filiera produttiva moderna materiali singolarmente trattati e lavorati da altrettante insostituibili e specifiche abilità, rimane dunque alla base della logica aziendale d’avanguardia. La qualità culturale del processo e dei risultati che sono economici ma anche estetici, viene esposta nel luogo deputato alla conservazione dei modelli culturali e dei risultati materiali eccellenti di questi modelli: un museo. Nato nel settembre del 2011 da un concept del direttore creativo Frida Giannini, il Gucci Museo è allocato, con non casuale valore simbolico, all’interno dello storico Palazzo della Mercanzia, nel cuore di Firenze in Piazza della Signoria. Tre piani di percorso che riassume la storia della casa fiorentina in una superficie di 700 metri quadri di esposizione. Le venti sale espongono per argomento la produzione storica di Gucci, a partire dalle prime collezioni di valigie anni ‘30, passando per la favolosa Cadillac fatta realizzare da Aldo Gucci nel 1979, fino alle borse da viaggio in canapa rilanciate in edizione speciale per le inaugurazioni dei negozi di Roma e New York; il messaggio che percorre attraverso gli oggetti la vicenda fortunata del brand fiorentino è quello di pellami, tessuti, metalli, materiali tecnici, lavorati ed assemblati in maniera magistrale ed esclusiva dalle mani di artigiani e lanciata nel mondo del lusso da una lungimirante e articolata politica aziendale. 2.3 Reti di collaborazione e supporto istituzionale La capacità del comparto di attivare e di tenere vivi sul territorio microservizi di supporto rappresenta un primo interessante elemento di analisi per individuare le reti che si creano sul territorio e le caratteristiche, sia economiche sia culturali, in grado di allargare e sostenere la filiera. 439


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L’altro tema fondamentale per l’artigianato è poi quello concernente la costruzione di network di collaborazioni sia a livello di imprese artigiane - localmente ma anche su scala nazionale e internazionale - sia tra imprese e istituzioni. La mappatura di questi rapporti può risultare utile laddove si voglia valutare la vitalità del sistema nella sua ricerca di nuove alleanze e risposte ai mutamenti del mercato. Da un lato, infatti, le relazioni tra le singole imprese costituiscono l’occasione per la sperimentazione e la contaminazione reciproca in termini di progetto, di tecniche produttive, di materiali utilizzati e, talvolta, anche di strategie di business. Dall’altro, come già descritto nel precedente paragrafo, i rapporti tra imprese e istituzioni, pubbliche e private, che sul territorio operano da “connettori” e “valorizzatori” dei mestieri d’arte e tradizionali possono tradursi in un migliore accesso a canali promozionali e di vendita nonché in nuove forme di collaborazione con il mondo della formazione per il trasferimento di tecniche e saperi tradizionali. Da un’indagine condotta su un campione di quaranta imprese appartenenti al comparto artistico e tradizionale16 emerge come oltre due terzi abbiano rapporti di collaborazione con altri artigiani. La gran parte di tali collaborazioni avviene con soggetti che operano a Firenze, mentre solo il 16% degli artigiani ha rapporti con colleghi italiani e l’8% con artigiani fuori dall’Italia.

Fig. 4. Collaborazioni degli artigiani fiorentini con altri artigiani per sede. Fonte: elaborazione propria. Collaborations of Florentine craftsmen with other craftsmen. Source: our statistics.

Sul fronte dei rapporti con le principali istituzioni pubbliche e private che operano a livello locale e regionale per il sostegno e la promozione al comparto – da Artex, a Confartigianato e CNA, dalla Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico all’Osservatorio dei Mestieri D’arte, alla mostra mercato Artigianato e Palazzo e altri soggetti - tutti gli artigiani intervistati intrattengono rapporti con almeno uno dei essi. Come evince dalla Figura 5, tutte le principali istituzioni locali sembrano avere forti legami con i vari comparti dell’artigianato artistico. Si nota tuttavia come alcuni settori merceologici siano in stretta relazione con le istituzioni (in particolare, decorazioni e riproduzioni, vetro, restauro e metalli pregiati), mentre altri -come pietre, moda e tessuti, pelle e altri- appaiano maggiormente isolati. L’indagine è stata condotta attraverso la somministrazione di questionari a un campione di quaranta artigiani fiorentini riconducibili alla categoria dell’artistico e del tradizionale. Si ringraziano la Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico e Artigianato e Palazzo per la gentile collaborazione nella fase di raccolta dei dati. 16

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Fig. 5. Collaborazioni degli artigiani fiorentini con le principali istituzioni e associazioni di supporto al comparto per specializzazione settoriale. Fonte: elaborazione propria. Collaborations of Florentine craftsmen with the principal institutions and associations supporting the sector, by specialization. Source: our statistics.

3. Le sfide dell’artigianato fiorentino tra filiera corta e internazionalizzazione La figura dell’artigiano è oggi considerata, e non solo in Italia, un modello per la ripresa economica grazie alle sue capacità di coniugare know how produttivo locale, ricerca tecnologica e conoscenza dei materiali, e capacità di personalizzazione dei prodotti. Su quale però debba essere il futuro artigiano non vi è unicità di vedute ed esistono almeno due scuole di pensiero. Da un lato alcuni analisti sostengono che l’artigianato da solo sarà sempre meno in grado di reggere l’urto del mercato e dunque ne prospettano un progressivo inserimento in un sistema che lo vede come terzista della piccola e media impresa del Made in Italy o assorbito nei processi produttivi dei grandi brand del lusso. A sostegno di tale ipotesi valgono i molti esempi di successo presenti oggi nel panorama italiano di cui Gucci è probabilmente il caso di studio (fiorentino) per eccellenza. Il secondo scenario rappresenta invece un artigianato “indipendente” e a “filiera corta” che per sopravvivere si trova però di fronte alle numerose sfide già descritte nel precedenti paragrafi, dalla perdita dei saperi tradizionali, alla concorrenza basata sul prezzo, alla difficoltà di comunicare i valori culturali e tecnici sottostanti i prodotti. Questo secondo “futuro artigiano” trova nuove interessanti connessioni anche con il mondo del design. Da un lato l’artigianato è già diventato il referente privilegiato di quel “nuovo paradigma di design” cui si è già accennato e che è quello dell’autoproduzione. Dall’altro il design, inteso anche come approccio strategico per l’innovazione, ha portato negli ultimi anni alla nascita di giovani imprese manifatturiere, al consolidamento di piccole medie imprese nate come realtà artigianali locali e alla trasformazione di attività artigianali guidandole in un processo di rinnovamento dei prodotti, verso forme più contemporanee, e della loro comunicazione. Ovviamente, i due possibili scenari delineati per il futuro non sono concorrenti ma saranno, più probabilmente, due alternative complementari. Quel che sembra certo, comunque, è che il settore dell’artigianato artistico, per sopravvivere e riguadagnarsi il ruolo che si merita all’interno del nostro tessuto economico e culturale, dovrà far fronte a queste sfide, scegliere la propria strada e integrare la propria tradizione con le nuove tendenze locali, nazionali e globali, con il supporto delle istituzione ed, eventualmente, dell’industria. 441


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Conclusioni Questo lungo saggio è alla ricerca dell’eccellenza della cultura italiana. Abbiamo selezionato decisamente il settore della cultura materiale non solo per ovvie ragioni di successo del nostro paese sui mercati internazionali, ma anche per la debolezza attuale e probabilmente ciclica, delle altre forme di cultura più tradizionali. Se avessimo studiato il cinema, la letteratura, l’arte contemporanea o la musica, avremmo di certo trovato segni palpitanti di creatività e di presenza o influenza internazionale, ma in tono minore, nel guado tra generazioni successive che non trovano oggi la loro vocazione e il loro valore antico. Al contrario il Paese ha appreso prima di molti altri che la cultura ha gambe e tradizioni locali, che pur riflettendo sulla tradizione culinaria di un piccolo paese e di una piccola comunità si può parlare al mondo e trasformare questo abbagliante saper fare in valore economico, culturale e simbolico. L’arte del vestire, del mangiare e della manualità raffinata erano solo cinquant’anni fa considerate forme minori di produzione culturale, se non addirittura meri esempi di produzione senza valore d’arte e di cultura. Mancava la dimensione di massa e democratica della produzione di cultura materiale: c’era la cucina per i ricchi, l’abbigliamento per gli aristocratici, la produzione di oggetti per un raffinato e quasi inaccessibile collezionismo, ma era il riconoscimento di una cultura per pochi. Dunque cultura materiale come fenomeno elitario, esclusivo e di grande valore artistico ed estetico. Come abbiamo visto negli ultimi anni sono cadute le barriere di accesso alla cultura materiale. Tutti possono permettersi, magari una sola volta all’anno, una grande cena in un ristorante rinomato per la qualità del suo chef; magari per la vita, come dice Armani, un suo abito fatto a mano o cumunque con taglio artigianale; magari per la casa dei propri sogni un oggetto della più raffinata tradizione fiorentina: un mobile, delle piastrelle decorate a mano, delle tovaglie ricamate. Abbiamo cioè assistito ad una evoluzione di queste forme culturali di consumi e di capacità artistiche ed è per questa ragione che insistiamo nel dire che oggi l’Italia può parlare al mondo il linguaggio della cultura material attraverso le sue industrie creative, un linguaggio che si riconosce senza dubbio nella nostra storia passata, nella nostra capacità presente di produrre nuova cultura e si proietta nella capacità di essere leader nel futuro. Se il mondo oggi ci guarda, lo fa perché è attratto dall’eccellenza della nostra cultura materiale: conserviamola e miglioriamola.

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Crafts at a Crossroad: Short Filiere and Internationalization Martha Friel, Donatella Saccone

In Europe there are more than twenty million companies Ninety-nine per cent of them have less than 19 employees. In general, the role of small artisanal enterprises is strong and generalized. Europe is a country of “artisans.” However, not all Europe areas is the same. If one distinguishes between artistic crafts, on the one hand, and crafts tied to services or non-artistic activities, on the other hand, the difference between Italian and Mediterranean countries, and other European countries becomes easy to perceive. In Italy, most craftsmanship occurs in artistic areas and in many sectors there is a strong continuity with industrial design. This contiguity highlights the connection of crafts with creativity and culture, through traditional, through skills and traditional knowledge. This section is dedicated to the discussion of Tuscan crafts, and particularly Florentine ones, which represent the best Italian case of combination between arts and cultural tradition. 1. Craftsmanship and design in the economy of creativity Speaking of crafts means speaking of a market segment that includes very different areas and professions. In Italian, crafts account for 1,400,000 businesses, generating 12.8% of the national added value (Centro Studi Unioncamere, 2012). This is a very diverse ensemble of very different activities in terms of their organization, performance and consumer needs they address, ranging from body care, as in the case of barbers or aestheticians, the creation of objects (jewelers) or food (small pasta makers). The present analysis, however, focuses on only certain areas of craftsmanship. Specifically, we will deal only with traditional professions and artistic crafts present in the Florentine area, with some necessary digressions in the areas of technological crafts, of crafts serving as ancillary productions for industries, and of self-produced design. Our approach does not therefore apply to all crafts. Artistic and traditional crafts, even when couched in new formulas, are the ones that most interest us on account of the “spirit of the place” that characterizes them. This, indeed, is the characteristic that allows us to hope in its survival in the future, given that industries too are showing great interest for limited and personalized productions, and local institutions are rediscovering activities closely tied to the “spirit of the place” in the interest of identity branding policies. Crafts, artistic professions and design It seems increasingly difficult, nowadays, to say what crafts are. Difficult from many perspectives: economic, social, linguistic. Crafts are a fundamental part of the culture of a community: the form of its products and their functions are often the result of the local presence of specific raw materials, of traditional knowledge and behaviors, beliefs and convictions that the objects incorporate and bear witness to. In this sense, there is the temptation of extending the category to include any production in which an initial project is translated into a finished object, whether this comes out of the workshop of a master ceramist, the factory of a luxury multinational or the studio of a designer. Also the use of man-held tools, which traditionally distinguished crafts from industry, along with the size of the company, now seems to have lost some of its importance. New developments in technol445


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ogy, on the one hand, have generated a new species of artisans, as in the case of the makers, on the other hand, have helped establish a new “handmade” industry (as in the case of 3D planning in artistic foundries), in what some call the industrial revolution in which “atoms are the new bits and the market goes through the individual.”1 The world of crafts is therefore complex and highly populated. Within it we find economic subjects that differ greatly in terms of activity and organizational structure. For this reason, it is difficult to stake out the borders of this economic sector and therefore its size. Even its visibility is sometimes uncertain given that while some top professions “are integrated in large-sized productive filieres…, many have transformed taking forms that make them unrecognizable for those who look for them expecting their usual aspect” (Colombo, 2007, p. 19). On the other hand, the question of crafts seems to have become of interest once again, while the question of its material and cultural isolation seems less crucial. This interest occurs at many levels, in Italy and abroad. In the academia and in research, a lot has been written on different craft knowledges (Adamson, 2007), on craftsmen (Sennet, 2008), on the present and future value of crafts in global value chains (Micelli, 2009 and 2011), on the relation between art professions and Made in Italy (Colombo, 2007 and 20009) or between crafts, design and industry (Maffei, 2011; De Giorgi and Germak, 2008). Even in the world of art, of culture and of cultural industries a number of important industries have taken on the role of calling attention to the world of crafts, both ancient and upcoming: The exhibit “Power of Making,”2 held at the Victoria and Albert Museum of London, and the conference “Me Craft/ You Industry” organized by Premsela in the Netherlands (Antonelli, 2012), the increasing attention for craft productions in international Design Weeks, the interest of the media (as in the “Mastercraft” documentary series of the BBC) are only some examples. The reasons for this new vitality are many and result from an economic system undergoing profound transformations: the transition from a monolithic culture of industrialization to a culture founded on differentiation and specificity (De Giorgi and Germak 2008), the crisis of certain local systems of production on the one hand, and on the other hand the development of new industrial systems based on interdependent relations of production and on outsourcing (Maffei, 2011), the rise of the economy of knowledge and the economy of creativity, the changes in the domain of design and production. Furthermore, in the face of the homologation brought about by mass production and globalization, there has been a change in the taste and demands of consumers, especially those belonging to the middle and higher classes, towards products characterized by quality and uniqueness. Thus, while standardized production is unable to adapt its production to the new practical and emotional needs of individual customers, artisans are in a better position to respond to this new trend. Within this context, crafts are gaining increased visibility and recognition thanks to their key features (Bramanti, 2012): value of work and individual quality of know-how; “culture-tradition-innovation” triptych, that is, the capacity of the craftsman to “combine tacit and codified knowledge, action and thought, experience and abstract knowledge, production and creation” (Bramanti, 2012); entrepreneurship and business risk, that is the desire to face the challenges of the market. Crafts, design and creative industries A significant impulse to renewing the interest on crafts, on both the international and Italian front, has come from the debate on creative economy, the economic value of industries that produce creative goods and services, and on the growth potential of this macro-sector compare to other areas of the economy. 1 2

Chris Anderson, direttore di Wired US, a Xchange 2010. Settembre 2011-gennaio 2012.

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This debate originated in the English-speaking world, later extending to all advanced economies as well as developing countries, giving rise to global debate and a myriad of studies aimed at localizing, defining and economically quantifying the economy of creativity. Crafts, in its various forms, have been the object of many of these studies, which, notwithstanding the difficulty of providing a univocal and shared definition of craftsmanship, concur in stressing its importance in terms of workforce, of added value and of strategic know-how. Among these studies, of particular interest is the Creative Economy Report, published by UNCTAD in 2008 and 2010, in which the economy of creativity is identified as a key sector, not only for its support of economic growth and of employment, but also for its role in promoting social inclusion, cultural diversity and, more in general, the quality of life. An entire section has been dedicated to crafts. It is estimated that in 2008, exchanges in this sector in the world will be around 32 billion dollars (UNCTAD, 2010). In UNCTAD classifications, Italy is in the top positions. On the other hand, emergent countries, like China, Turkey, and India, are making headways in crafts as in other fields, challenging the supremacy of the Western world. In Italy, the debate on creative industries has helped spark an interest in crafts and their contribution to the success of Made in Italy, leading to new studies of this sector. The results have been very interesting in terms of mapping the in-progress development of leading areas. In 2009, the Libro bianco sulla creatività (White Book on Creativity, Santagata, 2009) estimated that the “design and material culture” category, in 2004, generated, all included, an added value in the GDP of 19.5 billion euros and employed 520,000 people; these figures are second only to the fashion sector and superior to the values generated by the main content industries. This first national study was followed by others focusing on the regional and local level ( (Lazzeretti, 2003; IRER, 2008; Bertacchini and Santagata, 2012), which have reaffirmed the centrality of crafts and craftsmen in the economy of creativity, analyzing the characteristics of the sector and its contribution to the development of a “creative atmosphere,”“the context within which one measures the capacity to mobilize the economic and social resources of the geographical area” (Bertacchini e Santagata, 2012, p.4). In many of these studies, crafts border on design and, at least when it comes to numerical data, it is difficult to distinguish between the two. On the other hand, it is undeniable that the historical, cultural and productive importance of crafts and artistic professions has had an impact on industrial design in most design intensive Italian sectors and that this phenomenon has increased with the recent changes in the dynamics of creativity and innovation, which have sparked a transformation also in artisanal professions and that of designer (Maffei, 2011). From luxury brands to tourist industry: the challenges facing crafts today Crafts are currently enjoying a come back and often have a leading role in the success of many important companies, which entrust to them not only the more delicate phases of production but also the promotion of their image on international markets, both in terms of place branding and of the marketing of cities and regions. On the other hand, many craft businesses are currently exposed to a series of threats. On the one hand, globalization has given fresh impulse to the creation of a global economy of culture and to mass consumption of cultural products, stimulating also the interest in “other” cultures and promoting particular types of traditional artisanal products, some of which would have otherwise disappeared if limited to local markets. On the other hand, however, globalization had led to fierce competition based on production costs, as well as to the development of fake products that have critically undermined the revenues of many craft businesses. These negative factors have been compounded by the recent economic crisis, which has had a sharp negative impact on certain medium-level markets that are fundamental for crafts. Alongside 447


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these macro factors and global tendencies, there are also a number of other factors, some of them tied to the current economic climate and some of them structural, which negatively affect the profitability and, in some cases, the survival of artisanal activities. These include: - Access to markets Traditionally, crafts and artistic crafts catered to local needs The markets they targeted were mainly located in nearby areas. Today, instead, with the development of globalization and the integration of world markets, the local market had been joined by the opportunity of accessing global markets. These changes, on the one hand, require new approaches allowing access not only to local, but also to national and international markets, and, on the other hand, require adapting products to the demands and needs of a heterogeneous public, both in terms of income and of taste. Artistic craftsmanship is mostly targeted at a niche of consumers, who are affluent and willing to purchase high-level products, on a national and international level. However, a significant quota of artistic craftsmen are having difficulty with these new market challenges. Not all are able to enter this market, which, although very lucrative, includes by definition a limited number of consumers and requires therefore good skills in marketing one’s products and innovating to meet new demands. On the side of demand, the question is whether there is room not only for elite craftsmanship targeted at the upper-classes in Italy and the world, but also for craftsmanship targeted at the middle and lower-middle classes. The reason is that the growth of emergent economies has created not only a new group of rich people, but also a new and extensive middle class, which, in the near future, will search for products suited to its new lifestyle. The potential for artistic crafts targeted at this developing market and these new tendencies cannot be ignored and requires new solutions for accessing markets, enhancing local reputation in the face of global competition, as well as technological and production innovations capable of sustaining quantity (Santagata and Friel, 2007). If these solutions are found, elite artistic crafts and more traditional ones will be ample to capture significant market quotas. The question is therefore how to expand the market for crafts, favor access to new markets and exploit global tendencies. There is also a third way to create innovative and modern products and gain access to markets that is currently developing, largely stimulated by the changes in the domain of design. We are talking about self-production, in which the designer becomes the director of the whole process, from invention, to production, to distribution. Self-production is an interesting phenomenon and even though at the moment it has more to do with design than with crafts, in the future it could become a bridge between these two worlds, combining the strategic and innovative capacities of designers with the manual and constructive skills of artisans. For the time being, it is still unclear whether this is a transient phenomenon or a lasting structural transformation. Some designers see it as an approach different from the traditional market approach, though not opposed to it. According to Paolo Ulian,3 self-production and crafts will play an increasingly greater role in design in the coming years, because the number of young designers is increasing, while the number of design companies is decreasing. - Economic crisis and internal demand In recent years, the economic crisis has posed and continues to pose a threat to crafts, given the bleak outlook for economic growth in Italy. The crisis has reduced the purchasing power of consumers and, more in general, and not only in Italy, has led to a sharp contraction in a number of medium-level markets that are crucial to crafts. This economic contraction, however, is limited to the Western world. In Latin America, in Asia, and even in Sub-Saharan Africa, there are countries whose economy and internal demand is rapidly expanding. The new middle and high classes seem particularly attracted by Western design and especially by Made in Italy. There is therefore sufficient leeway for replacing the falling demand of the West with the growing demand of developing countries. Obviously, these requires new strategies, entrepreneurial skills, investments, innovation and adjusting to the requirements and demands of the new markets.

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Paolo Ulian, designer, in un�intervista ad AT Casa, 24 aprile 2011.

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- Information and qualification of the demand Even when there is a sufficient number of consumers with the right income level, the artistic and highly idiosyncratic nature of craft objects can limit the demand for them, since, as with any art form, their value, and therefore their price, can only be recognized with an adequate cultural background and adequate information. As Bramanti (2012) notes, “an uneducated customer is unlikely to accept a premium price for craft objects and / or will automatically place it in the niche of luxury goods where it competes (at a disadvantage) with branded goods.” An example from Tuscany is the production of manufacts in scagliola, a sophisticated technique for producing elements that resemble inlays using a composite substance that imitates marble and other hard stones. Scagliola works are found in many museums and collections in the world, from the Louvre to the Victoria and Albert Museum. But in the words of craftsman Lando Falciai, it is becoming “increasingly difficult to explain to customers why a small table costs up to three or four thousand euros. Making it requires time, precision, skill and artistic qualities. Obviously, to appreciate the details and artistic value, you need culture and it is necessary to offer information on its material and cultural qualities.”4 - Access to credit The financial crisis and lack of liquidity on part of banks has sharply restricted the possibility of obtaining loans. This is obviously a great obstacle to artisanal businesses who want to invest in the new global markets. Typically, these businesses are characterized by small size and little capital and for this reason access to credit is a greater problem for them compared to other businesses. Without the support of institutions that believe in crafts and their potential for the economic growth of Italy, it is unlikely that crafts will be able to adapt to new tendencies, given the capitals and investments required. An alternative, which we will discuss more in detail in our final conclusions, is for artisans without financial resources and access to credit to become providers and collaborators of luxury industries, which have greater access to credit and to global markets, and which has already shown an interest in the potential of artistic and traditional crafts. - Transmission of know-how in crafts One of the weaknesses of artistic and traditional crafts that artisans and analysts most complain about is the transmission of the technical and cultural know-how. The loss of these skills not only undermines the crafts but also threatens the production of particular instrumental goods, such as special materials, pigments or tools. The root of these problems lies in the profound social, economic and cultural changes that Italy has undergone in the last few decades. On the one hand, the handing down of artisanal know-how “from father to son” has been interrupted, since new generations tend to be interested in different studies and professions. On the other hand, the more institutionalized forms of training have proven inadequate, especially when it comes to transmitting many uncodified skills and notions. - Real estate and commerce in historical town centers Traditionally, workshops were always located in the historical center of Italian towns, characterized by the proximity of housing and workplace. The cost of real estate, however, is causing a decline in the presence of workshops and traditional stores in town centers. In some cases, entire productive activities have been relocated to the periphery leaving only the store in the town center. In other cases, small and extremely small workshops have chosen unofficial, less visible locations (Biondi, 2011). These tendencies are changing the look of urban centers and, more seriously from our perspective, are diminishing the visibility of artisans, for whom workshops traditionally serve also as windows through which they market their work. Therefore the problem is not only the weakening of the historical function of artisans and of their relation with town centers, but also the danger that artisans be excluded from the tourist, circuit losing visibility and market opportunities. - Preserving originality While traditional craft objects are often the result of the cultural and social identities of the communities that produce them and incorporate century-old notions and techniques, the appearance of the finished product can often be easily appropriated. “Murano” glass is now industrially produced in China and cheap versions of Pashmine, the traditional Kashmir scarves hand made with Himalayan goat wool, are now serially produced in South-East Asia from which they flood 4

Lando Falciai, artigiano, in un”intervista a La Repubblica, sabato 12 maggio 2012. 449


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the European market. Globalization has led to the widespread production of fakes and, once again, the cultural education of customers and their capacity to distinguish quality both in the production process and in the finished product is fundamental to protect original crafts. There is also a need for greater protection of intellectual property and originality in artisanal know-how. “Notwithstanding the fact that craft products are often assimilated to artistic creations, the majority of people does not acknowledge their right to intellectual property” (Howkins, 2001). Furthermore, in many artistic crafts there are no quality labels that artisans can adhere to in order to certify and communicate to customers the value of their creation. - Dynamic innovation / tradition Notwithstanding the undisputed quality and value of artistic craft products, sometimes artisans, in their understandable desire to preserve tradition, remain too faithful to models that have changed little over time. This can lead to a gap between the aesthetics of the product and consumer taste, especially in the case of younger consumers. This problem is made worse by the absence of generational turnover, since the presence of younger generations of artisans is traditionally a motor of aesthetic innovation in crafts. The production of traditional cultural artifacts must not necessarily be based only on imitation and faithful reproduction of unchanging models but can include innovation and creativity. Tradition is not static and the production of culture, in all its forms, is a cumulative and innovative process, especially in the case of goods and services that compete in a market where taste and demand are changing at an increasingly rapid pace. This problem also suggests the opportunity of a closer dialogue between traditional artisans and designers, in which the latter could have the function of supporting the technical and artistic skills of artisans by providing new aesthetic forms, which would appeal also to the younger generations of customers. 2. Artigianato a Firenze:The crafts in The supply-chain and its protagonists Artistic and traditional trades in Florence The quality and variety of handcrafted products in Florence goes a long way back. The crafts have played an important role in the city, both in culture (Lebole 2003) and in the economy. There is a common thread running from Orsanamichele, the “temple of work”,5 to the success of “made in Italy” goods all over the world. Quality and variety are observable as early as the beginning of the Renaissance, when Lorenzo de’ Medici’s Florence boasted workshops where some of the greatest artists of the fifteenth and sixteenth century apprenticed, such as that of the bronzeworker Bertoldo di Giovanni, Michelangelo’s first teacher. In the Golden Century of art in Florence, there was an especially intense cultural reciprocity between high-level workshops and their customers. The objects produced by those craftsmen were kept by nobles and high prelates in their homes and held in the same appreciation as the authentic archaeological objects they proudly collected. Conversely, as craftsmen revived ancient subjects and techniques, they actively contributed to the rediscovery of the charm of small objects and ornaments that were enjoyed at a more widespread and everyday level than more ambitious works. Medals, cameos, small bronzes, paperweight sculptures, incised plaques, parade weapons, dowry boxes and birth salvers even appear in the backgrounds of official portraits of famous individuals by great painters, a testimony of the flourishing workshops producing works of universally acknowledged quality at the time. The cultural prestige of the Florentine artistic trade has had its ups and downs, but it has nevertheless maintained great international visibility over the centuries. Florence is still worldrenowned today for its traditional arts and crafts, from leatherwear to spices, from gold jewelry to ceramics, from paper to straw hats. A very important sector that today still intimately links art and crafts in Florence is that of restoration, which we will be discussing further on.

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As Antonio Paolucci defined it.

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What we said in our first section about the crafts in general also applies to Florence: in the city, as elsewhere, the last few years have witnessed a reduction of the number of businesses and of their markets. To this we must add the pressure of tourism, which, while on the one hand it provides a major market for Florentine products—the city receives over 6 million and a half visitors annually—on the other contributes to the spread of a souvenir culture and market that is potentially adverse to true made-in-Florence handcrafted products. With growing competition for commercial spaces in the city, craftsmen are being crowded out of the center and forced to move to the periphery, and there is a consequent trend towards a gradual separation of the workshop and the store. That said, according to data of the first census of artistic trades in the Province of Florence (Vichi, 2009), today in the area there are over 1300 companies involved in artistic and traditional crafts. About 20% of these work in the wood and furniture sector, and another 20% in metal and stone jewelry (Fig. 1). The other main sectors are restoration, textiles, metalworking, pottery, and tapestries. These data—based on a census of the Foundation of Florence for the Artistic Crafts in collaboration with the Chamber of Commerce of Florence—constitute an important document of art trades in the capital city of Tuscany.6 They describe an entrepreneurial fabric mainly made up of individual companies (64.18%) with a maximum of three employees (77.53% of the total), mostly concentrated within the municipal territory of Florence (Fig. 2), an indication that artistic craftsmen still prefer to reside in the city. Our research shows that a significant number of the craftsmen of the companies we have examined hold study degrees related to their job (Art Lyceum; Art Institute; Academy of Fine Arts; Workshop of Hard Stones; Architecture; Cultural Heritage; etc.) and that parent-to-child transmission is not as pervasive as one might have expected (47.84% of the companies are first generation). It is interesting to observe that, although handiwork is still an essential component of production, electronic equipment is playing an increasingly important role. It is also striking, on a different note, that the Web and electronic mail are still underused for advertising (only 61.73% of the companies use e-mail and only 36.45% has a website). As we remarked above, the data collected by the Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico and the CNA provide a useful overview of artistic crafts in Florence. These data, however, do not include a series of activities straddling the artisanal world and that of industrial production; neither do they include industrially produced artistic and traditional products, or all the collateral activities that help support artisanal economy or revive artistic or traditional productions.7 A recent structural investigation by Artex (Artex, 2012) of artistic and traditional productions in Tuscany includes not only artisanal companies, but also industrial realities that are part of the same productive fabric and draw on the same material culture, as well as service activities supporting the sector. The investigation counted about 33,000 businesses in all of Tuscany (11,000 of which in the Province of Florence) employing 177,000 people and exporting 10 billion’s worth of merchandise a year.8 What is there and what we lack: services and micro-services to support design and the crafts The universe of the Florentine crafts is not constituted exclusively by workshops and the people who work in them; it also includes all those intermediate activities that can be defined as “micro-serWhen looking at these data, however, we need to keep in mind that when dealing with artistic and traditional crafts it is hard to distinguish and quantify the whole spectrum of art trades in the universe of handicraft. Besides, this investigation does not include industrial-level production and leatherwork companies working exclusively for third parties. Furthermore, the data refer to the 20082009 period, and hence take no account of companies that have entered or exited the market from then to the present day. Because of the financial crisis that broke out in 2008 and has been going on since then, it is very likely that the current size of the handicraft sector is inferior to the estimate presented here. These data therefore, while very useful as a means to gain a general overview of the sector, probably overestimate its present magnitude. 7 These activities are included, instead, in the Regional Act. 8 Data for 2008. 6

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vices” supporting the sector. Micro-services can be described as “the structure that makes creativity and culture sustainable”, including material culture, “because they localize them and the benefits they produce in a given area” (Bertacchini and Santagata, 2012, p. 27). Fig. 3 summarizes some of the principal services and micro-services supporting the crafts and their supply-chain, which can be synthetically arranged in six macro-classes: design and planning; production; communication and promotion; selling; safeguarding; historicizing and institutionalizing. An examination of these categories will shed light on how interactions between activities that, while disaggregated, are strongly interconnected plays an important role in the creation of handcrafted products (Bertacchini e Santagata, 2012, p. 27). 1) Design and planning. The design phase is certainly an indispensable stage in any productive process. It feeds both on individual creativity and competence, and on a genius loci made up of technical and scientific know-how and artistic and cultural traditions. Support to creation in the artistic and traditional crafts sector should thus take the form of a set of cultural infrastructures, services and activities, ranging from training to research centers and libraries, from museums to archives and local cooperation networks. The task of these infrastructures should be, on the one hand, to help creative and entrepreneurial talents to emerge, on the other, to provide inspiration for their work. Today in Florence there are some centers of excellence, both in the training sector and in that of research and development in the field of artisanal design and production. The Florentine branch of the ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, “Higher Institute for Artistic Industry”) is the most prestigious of these centers. This university-level state institute is included in the AFAM – Alta Formazione Artistica e Musicale system of the MIUR (the Higher Education in Art and Music system of the Italian Ministry of Education). It enrolls about 200 students a year.9 The University of Florence offers both Fashion Culture and Planning and Industrial Design degree programs. Another notable institution is the IED, Istituto Europeo di Design, founded in 2008 in the Casa della Creatività e Polimoda. The Accademia Riaci, instead, gives specific training in crafts ranging from jewelry and drawing on glass to leatherwork. The Scuola di Ceramica offers training in traditional ceramic manufacturing. Training is essential not only for new craftsmen, but also to help those who already work in the sector to update their knowledge of techniques, technologies and materials. The question of training does not merely relate to ideation, but also to being able to develop an idea in relation to a context, and finding and availing oneself of collateral services that can provide short and long-range support; it regards the ability to anchor one’s work in the business world; and indeed, craftsmen are often hard pressed to find new markets. The Opificio delle Pietre Dure (Hard-Stone Workshop) straddles training and research. The Opificio with its restoration labs was founded in 1975 as a national institute merging two different workshops that had been active for some time in the fields of artistic production and the conservation of works of art in Florence: the old and renowned Opificio delle Pietre Dure, created in 1588 as a court manufacture to produce hard-stone decorations, and transformed into a restoration institute in the decades that followed the unification of Italy; and the Laboratorio di Restauro that had been formed within the Superintendency in 1932 and had greatly evolved after the flood of 1966 in Florence. Outside of the public school system, the most active research institutions include the Osservatorio dei Mestieri d’Arte (Art Trade Observatory)—created in 2001 by the Ente Cassa di Risparmio di Firenze bank—which since 2010 has become a non-profit organization of the bank union Fondazioni bancarie della Toscana—and, at the regional level, Artex, Centro per l’Artigianato Artistico e Tradizionale della Toscana (Center for Artistic and Traditional Crafts in Tuscany), which strives to protect, innovate and promote artistic and traditional products. Through its constant monitoring of economic and market scenarios, the latter institution has managed to set up a web of collaborations and relationships with important national and international subjects. 9 Banca Dati dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, 2012. 452


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Finally, there is the structural and conjunctural monitoring activity carried on by trade organizations, notably the CAN and Confartigianato. 2) Servicing. Services supporting the artisanal productive process are possibly the most numerous, but, paradoxically, they are the hardest to locate, both by craftsmen and by researchers seeking to study them, as they include a broad range of producers of equipment and raw materials. These microservices are scattered over a vast area and are hence very hard to locate and describe. An example among many is the Zecchi color factory in Florence, which actually defines itself not as a “color factory” but as a “color shop”; the different nuance of meaning is minor, but nevertheless significant, as it indicates the factory’s self-perception as a service to other activities. Support to the artistic crafts is also provided by artisanal companies working in neighboring sectors, such as artistic foundries for sculpture or pottery kilns, as well as a host of printers, turners, laminators, fashion designers, and even photographers, computer programmers, etc. 3) Communication and promotion. How do craftsmen communicate with the public and sector operators today? What services does communication require? This function is actually performed both by services of a more traditional nature and more modern and innovative ones. The former include publications—like the guidebooks produced by the Osservatorio dei Mestieri d’Arte (OMA) or Artex—and the promotion of crafts through meetings, seminars and workshops, such as those organized by the Florentine Foundation for Artistic Crafts. The latter, instead, include the designing and building of new tools, including technological ones; Examples include the smartphone application “ARTour Toscana. Itinerari di artigianato” and the section devoted to historical artisanal workshops in the Florence Heritage web project.10 Another branch of communication avails itself of collaborations with the show business and star system world, through which both companies and institutional subjects seek to place products, even by commissioning films. An interesting example of this is the very prominent featuring of the Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella in the TV series Gossip Girl. This kind of high-profile advertising has illustrious antecedents, such as Il cappello di paglia di Firenze, a lyrical opera by Nino Rota that undoubtedly did much to promote Florentine straw hats (pagliette). A famous fan of Tuscan manufactures was Steve Jobs, who, intrigued by the paving of Florentine sidewalks, decided to pave all his Apple Stores with pietra serena,11 an initiative that received ample media coverage, and not just in Tuscany. Design often helps to improve the effectiveness of communication. Graphic metadesigning helps to advertise the qualities of a product, as well as showcasing itself and promoting both sectors internationally, exploiting the popular appeal that Italian design is currently enjoying, as it has in the past. Workshops also play a fundamental role in self-promotion, as a space where craftsmen can get in direct touch with the clients. The importance of the workshop as a place for direct contact with customers brings real-estate related considerations into the picture. It is crucial for the visibility of a workshop that it be located in the city center. However, unless the owners are not fortunate enough to own their shop—whether because they recently purchased it or because it was handed down in the family—they have to deal with the problem of excessively high rents in the city center.12 This problem often results in the separation of the workshop and the store, which precludes the possibility for buyers to observe the production process and appreciate its quality, and even sometimes to personally join in certain stages of the process.

http://florenceheritage.it/ http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/2011/1-dicembre-2011/innamorato-pietre-firenze-steve-jobs-portaapple-store--1902377502458.shtml 12 The issue of the increase of rent becomes decisive in some cases. In Florence, a 50-square-meter store in the Cathedral area can cost as much as 4500 euros a month. According to data of the Agenzia del Territorio, stores in the historical center have market values ranging from 2900 to 6700 euros per square meter, while monthly rent ranges from 15 to 35 euros per square meter. 10 11

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The importance of location—a theme that has recently become a subject of debate in Florence, even in institutional settings, in connection with the institution of a space for arts and crafts in the “Conventino”—is also a primary consideration in tourism promotion initiatives. An interesting example of a symbiosis between different artisanal activities is the Bini brothers’ old workshop in Piazza Santo Spirito, which today has become a cultural cafe. The Binis, whose work was appreciated all over the world, used to produce molds for hats, a trade that is becoming extinct today. Finally, tourism also plays an active role in the promotion of handcrafted products. The showcases of tour operators and hotels, as well as occasional or periodical events held in streets and squares, are an important vehicle for the presentation of typical artisanal products to a broader public. 4) Marketing. Tourism plays a direct role in the marketing of artistic and traditional products. There is an ever-increasing range of services and micro-services in this sector available in Florence, from the “personal shopper” who takes tourists to artistic workshops, as in the case of the “Quality Handicraft Assistant” project implemented by OMA in collaboration with Federalberghi, to street events. There is also a whole world of fairs, events and market exhibitions in Florence, ranging from the International Crafts Exhibition to the market exhibition Artigianato e Palazzo held annually in the splendid setting of the gardens of Palazzo Corsini. 5) Protection. There are various forms of protection for craftsmen and designers in Florence, from legal studies to services offered by chambers of commerce and trade unions. Services for the protection of intellectual property are not only concerned with brand protection, but also with copyrights on process or product innovations. However, the degree of legal protection of crafted products varies from one sector to another. In some sectors, many craftsmen lament the absence of quality and excellence brand designations. 6) Historicizing and institutionalizing. This process is a relatively new phenomenon in the artisanal world, not only in Florence and Tuscany, but also in Italy and abroad. By becoming historicized, some handcrafted products become cult objects and art and collection works. This transition is institutionalized through the creation of ad hoc commercial museums and galleries. An especially remarkable example of this at the national level is the “Musei dell’Artigianato” project, implemented by Confartigianato to promote traditional trades and crafts. Nineteen Florentine museums participate in this project, ranging from important state institutions such as Palazzo Pitti and the Bargello to museums showcasing specific trades, such as the Museum of Straw and Weaving, the Museo Richard Ginori di Doccia, and the Museo Storico della Scagliola. There are also fashion museums and archives, such as the Fondazione Roberto Capucci, the Museo Salvatore Ferragamo, and the Guccimuseo (see further). These institutions, as repositories of inspiration and of a dialogue between past and future, work both ways: as places for the sedimentation of the historical memory of local crafts, and as incentives to their future development. Guccimuseo When a handcrafted product is serially produced worldwide, while retaining the characteristics of a handcrafted product, and becomes an international cult object, it invites queries about the qualities and competences that made this happen. Such is the case for Gucci, one of the most universally appreciated brands, with turnovers comparable to those of major companies like Microsoft or Coca-Cola. As is known, Gucci was created in 1921 by a Florentine craftsman and developed as a small company in the course of the 1930s. Today it is one of the most prestigious of the made-in-Italy brands. What makes it great, as Stefano Micelli (2011) argues, is that it has maintained a very solid link between the know-how of the thousands of craftsmen working for the company—from Florence, Tuscany, and elsewhere in Italy—and an entrepreneurial ability in conveying—in substance and in image (“savoir faire” and “faire savoir”)—the many and unique qualities that form the core of the company’s cultural 454


M. Friel, D. Saccone Crafts At A Crossroad: Short Filiere And Internazionalization

heritage. The “artisanal gesture” that transforms and assembles materials processed with specific and irreplaceable skills within a modern production supply-chain is thus the basis of the company’s cuttingedge philosophy. The cultural quality of the process and its results, which are not merely economic but also aesthetic, are showcased in the kind of place whose role it is to preserve cultural models and their excellent results: a museum. The Gucci museum was established in 2011 by initiative of the company’s creative director, Frida Giannini. It is housed in a highly symbolic location, the historic Palazzo della Mercanzia in Piazza della Signoria, in the heart of Florence. An itinerary that extends onto three floors and over an exhibition surface of 700 square meters recaps the history of the Florentine company. The twenty rooms illustrate Gucci’s historical production, from the early suitcase collections of the 1930s to the fabulous Cadillac commissioned by Aldo Gucci in 1979 and the hemp travel bags revived as a special launch for the inaugurations of the company’s stores in Rome and New York. The fortunate story of the Florentine brand is narrated by leather, cloth and metal objects, skillfully processed and assembled by craftsmen and launched on the luxury market by a far-seeing and ranging company policy. 2.3 Collaboration and institutional support networks The sector’s ability to activate and keep up support micro-services is an interesting point of departure for an attempt to identify local networks and the economic and cultural features that can help to develop and support the supply-chain. Another fundamental consideration is the construction of collaborative networks, linking both artisanal companies with one another—locally as well as nationally and internationally—and companies with institutions. A mapping of these relationships could help to assess the vitality of the system in its search for new alliances and its ability to ride market changes. On the one hand, contacts between companies provide an opportunity to experiment and compare projects, production methods, materials, and sometimes even business strategies. On the other, as we have shown in the previous section, collaborations between companies and public or private institutions promoting artistic and traditional trades can improve companies’ access to promotional and sales channels, as well as new forms of collaboration with the education sector as a means to hand down traditional techniques and know how. An investigation carried out on a sample of forty companies in the traditional and artistic crafts sector13 indicates that more than two thirds collaborate with other companies. Most of these collaborations are with local companies. Only 16% collaborates with non-Florentine Italian craftsmen, and 8% with foreign craftsmen. As regards relationships with the principal public and private institutions supporting and promoting the sector at the local and regional level—from Artex to Confartigianato and CNA, from the Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico to the Osservatorio dei Mestieri D’arte, the Artigianato e Palazzo market exhibition, and other subjects—all the interviewed craftsmen collaborate with at least one of them. As Fig. 5 shows, all the main local institutions appear to have strong connections with the various art trade sectors. However, it appears that these connections are stronger for some sectors—notably, decorations and reproductions, glass, restoration, and metal jewelry—while others—such as stonework, fashion and cloth, leather, and others—seem to be more isolated. 3. The challenges faced by the Florentine crafts, between the short supply-chain and internationalization Today craftsmen are regarded, in Italy as well as elsewhere, as the model for economic resurgence, thanks to their ability to combine local productive know how, technological research, knowledge of materials, and the ability to personalize products. The investigation was conducted by administering a questionnaire to a sample of forty Florentine craftsmen working in the artistic or traditional sector. We thank the Fondazione di Firenze per l’Artigianato Artistico and Artigianato e Palazzo for their kind cooperation in collecting the data. 13

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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

There is, however, no agreement on what the craftsman of the future should be. At least two schools of thought exist. Some observers argue that, if left to themselves, craftsmen will be less and less able to meet market challenges, and thus foresee their gradual inclusion as OEMs in small or middle-sized “made-in-Italy” companies, or absorption in the productive processes of the great luxury brands. Advocates of this hypothesis cite many success stories in Italy, of which Gucci is probably the most remarkable case in Florence. The second scenario, instead, is one of independent artisanal workshops working on a short supplychain. To survive, however, these craftsmen must overcome the challenges described in the previous section, from the loss of traditional knowledge to price competition and difficulties in communicating the cultural and technical values embodied in their products. This alternative vision of the “craftsman of the future” finds interesting echoes in the world of design. The independent craftsman has become the hub of the new paradigm of design that we mentioned above, which is centered on self-production. Over the last few years, design, also intended as a strategic approach to innovation, has led to the rise of new manufacturing companies, the growth of small to middle-size companies that started out as local workshops, and the transformation of artisanal activities, steering them towards a renewal of their products, through the adoption of more contemporary forms, and of their communication strategies. Of course, these two scenarios are complementary rather than alternative. In any case, it seems beyond doubt that, to survive and earn the role it deserves in our economic and cultural fabric, the artistic crafts sector will have to face these challenges, choose its path, and integrate its tradition into the new local, national and global trends, with the support of institutions and, in some cases, of the industry.

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INDICE INDEX



Giovanni Gentile Prefazione Preface

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Mauro Agnoletti, Andrea Carandini, Walter Santagata Florens 2012. Cultura, qualità della vita Florens 2012. Culture and quality of life

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9 12

Paesaggio e ambiente - Landscape and environment

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Mauro Agnoletti Introduzione

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Mauro Agnoletti, Francesca Emanueli, Giacomo Maggiari, Federico Preti paesaggio e dissesto idrogeologico: Il disastro ambientale del 25 ottobre 2011 nelle Cinque terre paesaggio e dissesto idrogeologico: LANDSCAPE and hydrogeological risk. the environmental disaster of 25 October 2011 in Cinque Terre

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25

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40

Mauro Agnoletti, Martina Tredici, Antonio Santoro la diversità bioculturale dei paesaggi rurali storici Analisi comparativa della valle di Viñales (Cuba), la valle di Telouet (Marocco) e la valle d’Itria (Italia) The biocultural DIVERSITY of HISTORICal historical landscapes. A comparative analysis of the Viñales valley (Cuba), the Telouet valley (Morocco), and the Itria valley (Italy)

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47

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74

Biancamaria Torquati, Giulia Giacché Modelli imprenditoriali e valorizzazione dei paesaggi viticoli storici italiani: quattro casi studio a confronto Entrepreneurial Models and the Promotion of Historical Italian Vineyard Landscapes: Four Case Studies

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85

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105

Lina Lourenço Gomes, Lígia Costa Pinto Alto Douro Wine Region Lo sviluppo economico nella regione vitivinicola dell’Alto Douro

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Florens 2012 - Studi e ricerche. Essays and Researches

Mauro Agnoletti, Giorgio Giraldi Nuovi paesaggi rurali: idee progettuali per il Castello di Verrazzano New landscapes: planning ideas for the Verrazzano Castle

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Mauro Agnoletti, Valentina Marinai AGRICOLTURA URBANA: IL PAESAGGIO RURALE DI FIRENZE NEGLI ULTIMI DUE SECOLI URBAN AGRICULTURE: THE RURAL LANDSCAPE OF FLORENCE OVER THE LAST TWO CENTURIES

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Veli Ortacesme, Meryem Atik TOURISM INDUCED URBAN SPRAWL IN ANTALYA AND KEMER AT SOUTHWESTERN COASTS OF TURKEY SPRAWL URBANO E TURISMO AD ANTALIA E KEMER SULLA COSTA SUD-OCCIDENTALE DELLA TURCHIA

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187

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Connie P. Ozawa Creating Livable Cities: The Story of Portland, Oregon Creare città vivibili: Il caso di Portland, Oregon

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Conservazione e valorizzazione dei beni culturali Conservation And Enhancement Of Cultural Heritage

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Andrea Carandini, Paolo Carafa Introduzione Introduction

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Daniela Bruno Palatium. Il Palatino dimora dei potenti The Palatium. The Palatine Hill, home of the powerful Maria Cristina Capanna, Fabio Cavallero, Saverio Malatesta Analisi ed edizione di un’insula a Pompei Regio VI, insula 11 460


Indice - Index

Study and publication of aN INSULA in Pompeii Regio VI, insula 11 Atmosfere creative: territorio e produzione di cultura Creative Atmospheres: Place And And The Local Production Of Culture

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332

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Walter Santagata, Enrico Bertacchini Cultura Arte e Sviluppo The Italian perspective Culture, Art and Development The Italian perspectiVE

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Andy Pratt, Paola Borrione, Mariangela Lavanga, Marianna D’Ovidio INTERNATIONAL CHANGE AND TECHNOLOGICAL EVOLUTION IN THE FASHION INDUSTRY Trasformazioni internazionali ed evoluzione tecnologica nella moda

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395 413

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427

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Christian Barrère, Aldo Buzio, Alessia Mariotti, Alessandro Corsi, Paola Borrione Industria del Gusto: un nuovo paradigma italiano The Industry of Taste: A New Italian Paradigm Martha Friel, Donatella Saccone Artigianato al bivio: tra filiera corta e internazionalizzazione Crafts at a Crossroad: Short Filiere and Internationalization

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Printed in october 2012 by Tipografia Bandecchi & Vivaldi - Pontedera



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