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ARCHITETTURA
SOMMARIO
034 LA CITTÀ VERTICALE Vittorio Gregotti Samia Rab Skidmore, Owings & Merrill Enzo Calabrese e Giovanni Vaccarini
094 ESPRESSIONI DELL’ARCHITETTURA Anna Grazia Ighina
052 LEGGEREZZA E TRASPARENZA Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa
100 RESIDENZIALE
098 LA TERZA DIMENSIONE DELL’ARCHITETTURA
102 SALE DI CONTROLLO 062 BIENNALE Luca Molinari 068 L’ENERGIA DELLO SPAZIO Tadao Ando 074 I LUOGHI DEL SAPERE Jeremy King, Riccardo Roselli Christoph Kapeller 082 URBANISTICA Bernhard Winkler 088 CITTÀ IN ORDINE Genova, Trieste, Udine
106 SPAZI CONTEMPORANEI 108 COMFORT E DESIGN 110 FOTOGRAFIA Luca Campigotto 118 DESIGN 124 DINO GAVINA IL SOVVERSIVO Tobia Scarpa Philippe Daverio La mostra 128 L’IMMAGINARE E IL COSTRUIRE Riccardo Blumer/Matteo Borghi 132 FORMA E FUNZIONE Alessandro Calligaris 138 LIGHTING DESIGN Fontana Ar te
ARCHITETTURA
SOMMARIO
142 RESTAURANT DESIGN Pierluigi Piu 146 DAZZLE PAINTING Tobias Rehberger
178 IL LEGNO Franco Laner Damian Williamson Domenico Gambacci 190 AMBIENTI E MATERIALI
150 ELEGANZA ITALIANA 194 L’ARTE DI MURANO 156 INTERIOR LIVING 162 ELEMENTI D’ARREDO 164 DESIGN E PRINT
204 FORMAZIONE Gli atenei italiani 212 RESTAURO Venaria Reale
166 INTERNI 220 RIQUALIFICAZIONE 172 IL MARMO Nicola Lattanzi Franco Barattini
IN COPERTINA Burj Dubai Foto Edgar Rodtmann / laif / CONTRAST
> in via g gio con l’ar c hitetto di Marco Zanzi Direttore Responsabile
Architettura, per volontà dell’editore Maria Elena Golfarelli, è stata completamente ripensata nei contenuti, nelle immagini e nella grafica, per ricreare i caratteri di originalità, qualità e rigore che contraddistinguono i periodici della Golfarelli Editore. Lo scopo è quello di presentare le tante tematiche legate all’architettura con un taglio nuovo, apprezzabile per gli addetti ai lavori, ma soprattutto accessibile e interessante per un pubblico più vasto. Quel pubblico che alla fine usufruisce quotidianamente dell’architettura, degli spazi urbani, dei prodotti di design e che nei confronti di questi non vuole trovarsi impreparato, ma desidera conoscere, capire, formarsi idee personali, essere in qualche modo co-protagonista. Il taglio editoriale richiama l’idea del viaggio attraverso il quale vengono presentate le più interessanti opere contemporanee, raccontate spesso dai loro stessi artefici. Questo viaggio non consiste, per usare le parole di Voltaire, nel cercare nuove “terre”, ma nell’avere nuovi occhi. Non è la venustas, la bellezza (solo la bellezza), a guidare la ricerca, perché l’architettura non dovrebbe produrre oggetti belli, belle “sculture” (il che non vuol dire che debba produrne di brutte …),
le sue creazioni dovrebbero essere capaci di dialogare con l’ambiente circostante. L’architettura produce prima di tutto spazi organizzati, nasce infatti sotto il segno di Apollo il dio archègete che guida la fondazione delle città, che organizza lo spazio, che definisce il modo in cui gli uomini devono vivere insieme. Lo sguardo si posa così sulle scelte attuate per far convivere, esteticamente ma anche funzionalmente e in termini di sostenibilità, edifici o quartieri con il resto della città o del territorio. Allo stesso modo, trattando di design, si metterà in evidenza non solo il valore estetico dell’oggetto, bensí le modalità con le quali la creatività è in grado di esprimersi in un determinato contesto. Ma il viaggio nell’architettura contemporanea non può e non vuole trascurare l’alta parte, quella di coloro che un po’ sprezzantemente vengono definiti “architetti alla moda”, cresciuti con lo slogan “fuck the context”, che puntano sull’originalità e sul valore della differenza, profeti di “città generiche”, fautori di un’architettura intesa come pura estetizzazione della realtà. Anche loro diventano compagni di viaggio. Perché no? Per capire, per cercare di capire anche solo un po’.
ARCHITETTURA
EDITORIALE
>un bene comune che sia specchio dell’identità nazionale Sandro Bondi Ministro per i Beni e le attività culturali
In Italia, la cultura è sempre stata vista come lo strumento più importante per ottenere il consenso. Da quando sono ministro ho inteso superare questa concezione, restituendo piena libertà agli uomini di cultura perché la cultura vera non è di destra né di sinistra. Ed è autentica quando è libera e non assoggettata a un disegno politico. Il primo passo è stato la realizzazione di una riforma epocale del Ministero. Ho istituito una nuova Direzione generale per la valorizzazione del nostro immenso patrimonio culturale affidandola a un manager autorevole e capace come Mario Resca. La sfida è quella di introdurre un approccio manageriale nella gestione dei musei e dei siti archeologici, dando un nuovo slancio al turismo culturale e riportando l’Italia al primo posto nel contesto internazionale. Gli strumenti per raggiungere il maggior numero di potenziali fruitori di cultura sono molti. Alcuni sono più facilmente attuabili, penso a iniziative come il ministero su Facebook, YouTube e Twitter o la possibilità di passeggiare virtualmente tra le meraviglie di Pompei offerta gratuitamente a milioni di utenti in tutto il mondo grazie a un accordo tra il Mibac e Google Italy. Altri richiedono fondi e tempi di realizzazione maggiori. Mi riferisco alle
aperture serali, al prolungamento degli orari, alla traduzione in più lingue dei testi nei musei alla modernizzazione delle strutture museali. Tutte iniziative alle quali stiamo lavorando con grande impegno. Importante è stata anche la decisione di commissariare Pompei, l’area archeologica di Roma e di Ostia antica, gli Uffizi e Brera. Sono altresì fiero di ciò che ho fatto per la tutela del paesaggio, a partire dalla complessa questione relativa al veto al parcheggio multipiano del Pincio fino alla decisione di tutelare il paesaggio dell’Agro Romano. Il governo sta promuovendo un approccio liberale alla cultura, affiancando alle risorse pubbliche un maggior coinvolgimento dei privati attraverso la defiscalizzazione degli investimenti. Inoltre, vogliamo evitare di disperdere in mille rivoli le poche risorse disponibili: per questo abbiamo siglato un accordo con l’Associazione fra le Casse di Risparmio Italiane finalizzato al coordinamento degli interventi nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio culturale. Dobbiamo in definitiva favorire in ogni modo la massima partecipazione dei cittadini alla vita culturale del Paese, senza pregiudizi ideologici o approcci elitari. Solo così gli italiani potranno riconoscersi nel proprio patrimonio culturale.
CARRIERE&PROFESSIONI
EDITORIALE
>attorno al palco Definita daI New York Times come un “un piccolo angolo di utopia in un mondo in cui i muri stanno crollando”, la nuova DR Concert Hall di Copenhagen, realizzata dall’architetto francese Jean Nouvel, rompe innumerevoli schemi progettuali. Raccolta in un involucro blu traslucido, sulle cui pareti sono proiettate immagini video, all’interno la Hall è suddivisa in quattro sale che ruotano attorno a un foyer. Nella foto, la sala concerti principale, con 1.800 posti a sedere, si immerge in un ipnotico gioco ligneo al cui centro si trova un palcoscenico privo di simmetrie
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>forme flessibili Adiacente alla education city di Doha, il parco scientifico e tecnologico del Qatar punta a ospitare gli eventi cardine per l’importante opera di progresso e diversificazione economica che rende questa regione uno dei cuori pulsanti del mercato mediorientale. Uffici, showroom, laboratori. Questo incubatore di oltre 150mila metri quadrati intende offrire visivamente, con le sue forme architettoniche, quella flessibilità che costituisce l’imprinting per la new economy locale. Con quest’opera, lo studio di architettura Woods Bagot è candidato al Wan Awards 2010
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>l’isola energetica Completamente autonoma e indipendente. Non necessita di risorse esterne la Zira Island concepita dallo studio Big di Copenhagen. Circondata dal Mar Caspio, quest’isola di Baku, nell’Azerbaijan, rappresenta un sogno simbolico dove lo sviluppo architettonico riflette l’incredibile orografia dell’area. Acqua, luce e vento. Questa riproposizione delle montagne azerbaijane in un milione di metri quadrati si avvarrebbe di strutture capaci di raccogliere ogni fonte di energia naturale disponibile, ponendo l’accento sul desiderio di modernità di questa giovane democrazia post sovietica
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WORLDINPROGRESS4
>acciaio olimpionico Ecco il progetto di quella annunciata come la più grande opera pubblica del mondo. Presentata con entusiasmo dal sindaco di Londra Boris Johnson e dal magnate dall’industria dell’acciaio Lakshmi Mittal, la ArcelorMittal Orbit disegnata da Anish Kapoor costerà quasi venti milioni di sterline e verrà posta all’ingresso del parco olimpico. Una struttura che supererà di ben 22 metri la statua della libertà di New York e che è destinata a divenire una delle più imponenti attrazioni turistiche del pianeta, oltre che nuovo simbolo della capitale inglese
>super tall Quasi supera ogni fantasia Sci-Fi questo scorcio sul progetto relativo a uno dei quartieri finanziari di Shanghai, il Luijiazui. Sulla destra svetta il render della Shanghai Tower, un edificio alto 632 metri, concepito dallo studio Gensler. Una volta terminato, si pensa nel 2014, trasformerà quest’area nel primo vero Super-Tall district cinese. La tower, che conterrà il più alto terrazzo panoramico aperto del mondo, simboleggia l’idea di una Cina che non pone alcun limite, neppure verticale, al suo sviluppo
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>la metafisica del lusso Dubai è sorta dal nulla ed è diventata uno degli skyline più discussi e dibattuti del momento. Secondo l’architetto Vittorio Gregotti rappresenta «la negazione stessa del concetto di città» perché priva di una propria realtà urbanistica, ma sempre più intrappolata in «una sorta di metafisica del lusso» di Nike Giurlani
La parola d’ordine, per i progetti realizzati o in corso d’opera, a Dubai è solo una: stupire. Questo sta avvenendo negli Emirati Arabi: skyline sorprendenti, lussuosi, sfarzosi, ma sempre più irreali, privi di una logica urbanistica. Quando nel XIX cominciarono a spuntare i primi grattacieli in America, il desiderio era quello sfruttare il più possibile lo spazio in altezza, all’interno di quelle metropoli del nord America, già ad alta densità. Ma a Dubai fino a pochi anni fa non c’era niente, solo chilometri e chilometri di deserto, nessuna città preesistente con la quale rapportarsi, ma solo strati e strati di sabbia. Privi di qualsiasi condizionamento estetico, sono iniziate a sorgere, una dietro l’altra, realtà mastodontiche ed eccessive, perché l’unica regola valida a Dubai era, ed è, lo sfoggio del lusso. Il risultato? Si è perso il concetto
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stesso di città che, di fronte a queste architetture spettacolari e dal design innovativo, non riesce più a trovare una propria identità. Vittorio Gregotti guarda perplesso a questo nuove realtà e mette in evidenza che «l’urbanistica come proposta di regolazione e ipotesi di sviluppo della città è del tutto abbandonata all’iniziativa immobiliare e la sua sorte è protesa a imitare quella parte dell’architettura dell’occidente fondata sulla transitorietà, sullo sviluppismo, e sull’originalità non necessaria». L'intensa attività architettonica e urbanistica registrata a Dubai in questi anni ha prodotto a suo parere un nuovo modello di sviluppo urbanistico? Può costituire, secondo lei, un esempio per l’architettura e l’urbanistica del futuro? «Non mi pare, se non il parossismo del modello della
LA CITTÀ VERTICALE
In apertura veduta di Dubai; sopra, l’architetto Vittorio Gregotti
L’URBANISTICA COME PROPOSTA DI REGOLAZIONE E IPOTESI DI SVILUPPO DELLA CITTÀ È DEL TUTTO ABBANDONATA ALL’INIZIATIVA IMMOBILIARE
post-metropoli (cioè, per ora, della negazione dell’idea stessa di città) già adesso in atto in Giappone, Cina, India e persino in Africa: con le relative aree di bidonville». C’è il rischio nel caso di Dubai che la propensione della città ad abbracciare un’architettura in qualche modo rivolta alla globalizzazione possa renderla “una città generica”, priva di una connotazione specifica?
«Certo, si tratta di una copia provinciale e come tale esagerata, di alcuni principi sciagurati promossi negli ultimi trent’anni in Occidente come rappresentazione acritica del capitalismo globalizzato». Che ruolo giocano oggi l’architettura e l’urbanistica nel determinare l’identità di una città come Dubai, centro urbano del Medio Oriente, ma comunque proteso verso l’Occidente? «Il ruolo è nullo. L’urbanistica come proposta di regolazione e ipotesi di sviluppo della città è del tutto abbandonata all’iniziativa immobiliare e la sua sorte è protesa a imitare quella parte dell’architettura dell’Occidente fondata sulla transitorietà, sullo sviluppismo, e sull’originalità non necessaria in una sorta di metafisica del lusso».
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>un’er edità da pr ote g ger e Una città che mira a ristabilire il proprio status di principale città portuale lungo il Golfo Persico. Fondendo tradizione e innovazione. Dove l’architettura è chiamata a ridisegnare il paesaggio urbano. Samia Rab, docente di architettura presso l’American University di Sharjah, racconta la sua Dubai di Francesca Druidi
Dubai ha reinventato se stessa molte volte nel corso del suo sviluppo storico, a partire dalla metà del XVIII secolo. E sulla spinta del boom edilizio che ha investito la Penisola araba negli ultimi anni, anche l’architettura e l’urbanistica hanno subìto una potente accelerazione. Samia Rab, docente di architettura e gestione dell’Heritage presso l’American University di Sharjah, getta uno sguardo sul paesaggio costruttivo della città, la quale non rinuncia a conservare i propri siti storici.
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Come la ricerca di un’identità da parte di Dubai si riflette nei diversi progetti architettonici della città? «Sebbene Dubai sia diventata famosa per il suo skyline in costante e rapido mutamento, caratterizzato da vetro e torri in acciaio, non è stata ancora riconosciuta la sua capacità di generare progressi caratterizzati da un’architettura iconica, ma in grado al contempo di proteggere il proprio patrimonio costruttivo. Un’attenta lettura del percorso di sviluppo urbano di Dubai rivela l’aspirazione col-
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In apertura, un’immagine di Dubai colta dal Madinat Jumeirah. Sotto, Samia Rab, professore associato di architettura ed Heritage Management presso l’American University di Sharjah
lettiva, sia del pubblico che del privato, a dotarsi di spazi pubblici interni ed esterni ristabilendo un passato perduto, e in qualche modo minacciato, e resistendo strenuamente al pessimismo dell’era post-moderna. L’identità più autentica della città può essere vissuta ancora meglio stando seduti lungo l’insenatura presso uno degli attracchi delle imbarcazioni locali, le Abra, e osservando la quotidianità di una fiorente città portuale sul Golfo». Lei sta lavorando a una pubblicazione incentrata sul concetto di città portuale affacciata sul Golfo basandosi su 5 casi di studio. «Sì, esaminando gli elementi ricorrenti nello sviluppo di queste città, ho individuato un’urbanizzazione pre-moderna e messo in discussione consolidate categorie di analisi come modernizzazione e globalizzazione. Questa linea di ricerca contrasta l’orienta-
mento comunemente accettato che lo stato moderno occidentale abbia introdotto lo sviluppo urbano nelle città islamiche. Si tratta, invece, di scoprire e comparare le distinte fasi di urbanizzazione di queste città all’interno dei loro contesti regionali, piuttosto che ricorrere a un’analisi che ne sottolinei il loro ruolo nel mondo coloniale e post-coloniale. Spero vivamente che gli architetti e i progettisti che operano a Dubai si prendano il tempo di studiare il fenomeno delle città portuali prima di proporre le loro visioni di cambiamento». Cosa significa costruire a Dubai? «Le visioni per il futuro di Dubai riconoscono il ruolo dell’architettura nel delineare il paesaggio sociale e culturale, ma i suoi aspetti più visionari perseguono una sorta di reazione all’ambiente pre-esistente. La forte tendenza alla verticalizza-
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zione e la concomitante importanza attribuita alla “grandezza” di Dubai si possono considerare reazioni a un’architettura storicamente nomade e transitoria, caratterizzata da tendo-strutture chiamate Beit al Sha'ar, nonché alla vastità priva di punti di riferimento offerta dallo scenario desertico. Prima della scoperta del petrolio, quattro tipi di spazi, distinti ma interconnessi, erano emersi per contenere le dinamiche interne della vita urbana, capaci di stabilire un intenso legame tra popolazione, acqua e terra: il porto lineare, sahil, lungo le acque del Golfo; il mercato interno, souq, parallelo al porto; il mercato all’aperto, safat, situato immediatamente all’esterno del Forte, i quartieri residenziali (fareej), tra il souq e il Forte». Può la città essere considerata un laboratorio di innovazione per l’architettura contemporanea? «Dubai e altre città situate lungo la sponda orientale della Penisola araba si prestano particolarmente bene a met-
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MENTRE I NUOVI PROGETTI INSTAURANO UN COLLEGAMENTO VISIVO CON LA CRESCITA ECONOMICA DELLA CITTÀ, I LAVORI DI CONSERVAZIONE STANNO SALVAGUARDANDO DALL’ESTINZIONE IL CUORE STORICO DI DUBAI
tere alla prova teorie e piani di urbanizzazione. Si rende oggi necessario lo studio del sapere tradizionale che ha prodotto un distinto patrimonio architettonico maggiormente adeguato al contesto ambientale. Sebbene il restauro di Al Bastakiya sia iniziato nei primi anni 90, le strategie sono state limitate al ripristino di un passato distrutto nel corso delle periodiche ricostruzioni della città
LA CITTÀ VERTICALE
Nella pagina precedente, Al Bastakiya nel quartiere di Bur Dubai. In questa pagina, sopra, l’area Al Mureijah Heritage di Sharjah fotografata da Samia Rab nel 2008. A fianco, Souq al Abra restaurato (foto di Mark Kirchner)
in base a progetti in costante cambiamento. Tali strategie non implicano analisi che conducano a nuove traiettorie in grado di valorizzare le specificità degli ambienti fisici, climatici e culturali. Nuove categorie di analisi possono essere elaborate per comprendere l’evoluzione urbanistica delle città portuali, indicando le misure tese al loro sviluppo e alla loro conservazione». I progetti realizzati a Dubai hanno spostato i confini dell’architettura? «A mio avviso, nessun progetto architettonico o urbanistico di Dubai lo ha fatto. Ma gli sforzi per restaurarne il patrimonio risultano coerenti con la visione di una città che utilizza l’architettura per ridisegnare costantemente il paesaggio sociale e culturale, ristabilendo il proprio status di principale città portuale lungo il Golfo. L’ispirazione alla tradizione architettonica rilevata nei nuovi progetti, come il Madinat Jumeirah, è concomitante alle iniziative della Municipalità volte al recupero delle aree storiche
della città, dove la forma urbana e l’architettura rivelano a vari livelli l’esistenza vissuta da dominatori e dominati, pescatori e mercanti, lavoratori e agenti. Mentre i nuovi progetti instaurano un collegamento visivo con la crescita economica, i lavori di conservazione stanno salvaguardando dall’estinzione il cuore storico di Dubai attualmente a rischio». Identifica dei lati negativi nella progettazione architettonica di Dubai? «Alcune prospettive possono apparire eccessivamente ambiziose, ma in un mondo attanagliato dalla crisi, dal terrore e dalla depressione, sono due le qualità che rendono Dubai irresistibile sia per i turisti che per i migranti: la tolleranza verso culture differenti e la sua reputazione in fatto di sicurezza. Dubai sta costruendo un’eredità architettonica che si confronta con le realtà di un esperimento unico innescato dal percorso di globalizzazione intrapreso dalla città all’inizio del XIX secolo».
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>i catalizzatori di innov azione Burj Khalifa. Al Sharq Tower. Supergrattacieli firmati dai team di Chicago e New York dello studio Skidmore, Owings & Merrill. Progetti che dettano nuovi standard architettonici per il Medio Oriente. Diventando modelli per il futuro di Dubai. A illustrarli il managing partner George J. Efstathiou e il design partner Gary Haney di Francesca Druidi
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LA CITTÀ VERTICALE
In apertura, render notturno dell’entrata all’Al Sharq Tower di Dubai progettata dallo studio Skidmore, Owings & Merrill. In alto a destra, l’architetto Gary Haney, design partner di SOM tra i responsabili del progetto
Bruce Graham, l’architetto che progettò la Sears Tower di Chicago (oggi Willis Tower) affermava che “storicamente le torri non costituiscono un orgoglio solo per i proprietari, ma anche per le città in cui si elevano”. E se Chicago ha vissuto il suo periodo di massimo fulgore costruttivo nel secolo scorso, con il proliferare di importanti megastrutture rivolte al cielo, in questi ultimi anni è stata Dubai a imporsi sulla scena dell’architettura internazionale. Grazie anche a progetti come il Burj Khalifa, l’edificio più alto al mondo, inaugurato il 4 gennaio scorso e, non a caso, ideato dalla stessa società di cui faceva parte Bruce Graham: la Skidmore, Owings & Merrill (SOM), una delle realtà maggiormente all’avanguardia in campo architettonico, urbanistico e ingegneristico. L’innovativo contributo lasciato da Graham e dagli altri professionisti dello studio in materia di supergrattacieli rappresenta un’eredità quanto mai tangibile e significativa. Perché questi progetti, come sottolinea George J. Efstathiou, managing partner della società e capo architetto del Burj Khalifa non si limitano a comparire sul portfolio aziendale: «A Dubai si privilegiano le torri per la stessa ragione per cui sono apprezzate in ogni luogo: se amate, possono assurgere al ruolo di ambasciatori e dunque di sinonimi di una città». Come evidenzia inoltre Gary Haney, design partner del team SOM di New York responsabile dell’Al Sharq Tower, in fase di realizzazione a Dubai, «le torri sono considerate simboli di vitalità economica e spirito imprenditoriale. Esprimono l’orgoglio e le aspirazioni degli Emirati Arabi, svolgendo la stessa funzione dell’Empire State Building e del Chrysler Building a New York nel 1930, e della Sears Tower e delle Hancock Towers a Chicago negli anni 70». Quando lo sviluppo architettonico procede a un passo così rapido,
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come è avvenuto a Dubai, può sopraggiungere quello che Haney chiama «lo “scatenarsi” di energia creativa». Anche i committenti contribuiscono a incoraggiare i processi di innovazione richiedendo sempre l’ultima novità in termini di progettazione e tecnologia. «Negli Stati Uniti, gli imprenditori del settore – aggiunge Haney – sono più che altro interessati a formule testate e provate volte a massimizzare il loro ritorno sull’investimento. Negli Emirati Arabi, invece, i clienti vogliono qualcosa che non si sia mai visto prima». Mirabile sintesi di forma iconica, ingegnosa struttura ed elevata qualità degli spazi, l’Al Sharq Tower è un grattacielo a uso residen-
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ziale dotato di 100 piani, destinato a ospitare anche un centro benessere, piscine, cinema, ristoranti, sale giochi e sala per ricevimenti. «È l’espressione del sistema strutturale – afferma – che conferisce all’edificio il suo carattere distintivo». La purezza della sua forma, nove volumi cilindrici che raggiungono i 360 metri di altezza, delineati da una struttura a spirale in filigrana, caratterizzerà il profilo della Sheikh Zayed Road. «La sfida più impegnativa – chiarisce l’architetto – è stata la costruzione di un supergrattacielo in un luogo dalle dimensioni realmente ridotte. Il coefficiente di snellezza è di 10 a 1, mentre per le torri è solitamente di 7 a 1. La maggiore fonte di ispi-
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Nella pagina a fianco, il Burj Khalifa realizzato da Skidmore, Owings & Merrill. A fianco, George J. Efstathiou, managing partner di SOM e capo architetto per il progetto del Burj Khalifa. Sotto, il Burj in fase di costruzione. Nella pagina successiva, render di interni del Burj Khalifa
razione è stata il ponte strallato, in quanto l’edifico si comporta alla stregua di un ponte verticale con i cavi esterni che forniscono rigidità e resistenza al vento». Alla creazione di Burj Khalifa o Burj Dubai, come viene informalmente chiamato, torre che ha frantumato tutti i precedenti record di altezza con i suoi 828 metri, ha lavorato un team di oltre 90 ingegneri e architetti di SOM. «La geometria e gli elementi della torre – specifica Efstathiou – rievocano il fiore del deserto e riflettono modelli tipici dell’architettura islamica, pur rivolgendosi alla comunità globale. Il progetto fonde influenze storiche e culturali con una tecnologia all’avanguardia, anche per quanto ri-
guarda il design interno. Il Burj Khalifa definisce così nuovi standard per i tall building. Per questo, spero vivamente possa essere ritenuto un portabandiera della progettazione di qualità in regione». La torre si compone di tre elementi in vetro e calcestruzzo sviluppati attorno a un nucleo centrale. Un arretramento su ciascun elemento snellisce il corpo dell’edificio mano a mano che questo continua la sua ascesa nello skyline. Giunto all’estremità, il cuore del Burj Dubai emerge come uno stelo d’erba. La base particolarmente larga della torre, a forma di Y, ha permesso di mitigare l’impatto delle correnti d’aria a cui è sottoposta. «Abbiamo dovuto tenere
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conto delle forze naturali: gravità, vento, calore, umidità e sismicità. Lastre in calcestruzzo rinforzato e pareti speciali conferiscono un’alta resistenza al fuoco, mentre un sistema di rivestimento esterno a elevata prestazione consente di resistere alle temperature estreme di Dubai durante l’estate». Due nuovi progetti firmati dallo studio SOM di Chicago sono già all’orizzonte: per il 2011 è previsto il completamento dell’Infinity Tower, dalla conformazione elicoidale, mentre tra pochi mesi sarà inaugurata la Rolex Tower. «Più riusciamo a esplorare cosa è possibile realizzare con i supergrattacieli in quanto soluzioni residenziali e a uso misto – evidenzia Efstathiou – più riusciremo a progettare le città del fu-
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LE TORRI SONO CONSIDERATE SIMBOLI DI VITALITÀ ECONOMICA E SPIRITO IMPRENDITORIALE. ESPRIMONO L’ORGOGLIO E LE ASPIRAZIONI DEGLI EMIRATI ARABI
turo». La società è del resto impegnata in tutta l’area, da Abu Dhabi all’Arabia Saudita, dal Qatar al Bahrain passando per il Kuwait. «L’aspetto più interessante di Dubai – racconta Gary Haney – è l’espressione del suo spirito imprenditoriale, interpretato come l’inevitabile risultato di una comunità d’affari che sta raggiungendo la “maggiore età”, puntando a una propria collocazione sul mercato mondiale». Per Efstathiou, che lavorando al Bury Dubai ha potuto osservare la città all’apice della sua espansione e di conoscere in prima persona il paesaggio e la popolazione di una regione che, nonostante sia spesso sulla stampa, non è ancora ben compresa, «Dubai possiede proprie personalità ed estetica, determinate dal boom edilizio e da alcuni studi di architettura locali. Queste cambieranno ancora, dal momento in cui nuovi progetti verranno realizzati nell’ambito di un mercato sempre più sofisticato e in costante mutamento. Credo che Dubai e molti altri luoghi in Medio Oriente possano essere considerati laboratori di innovazione. Dove si parla di sperimentazione, ma dal quale emergono, trattandosi ancora di laboratori, risultati buoni così come esiti meno positivi».
LA CITTÀ VERTICALE Enzo Calabrese/Giovanni Vaccarini
In apertura, render delle Bamboo Towers. Sotto, da sinistra, gli architetti Enzo Calabrese e Giovanni Vaccarini, responsabili del progetto
>scor ci di cr eati vità italiana Architetti italiani al lavoro negli Emirati Arabi. Enzo Calabrese e Giovanni Vaccarini raccontano la loro esperienza professionale al servizio dei committenti Uae. Perlustrando, attraverso i loro progetti più significativi, criticità e soluzioni studiate, anche a quattro mani, per affrontare le sfide architettoniche del territorio di Francesca Druidi
Il pensiero architettonico italiano è chiamato a misurarsi negli Emirati Arabi con nuovi temi e differenti scenari di lavoro. Lo dimostrano i progetti realizzati dagli architetti Enzo Calabrese e Giovanni Vaccarini, alcuni dei quali nati a quattro mani in un lavoro di strategia sinergica. Tra i risultati di questa collaborazione c’è il progetto per le Bamboo Towers, la cui costruzione è per il momento ferma anche a causa della crisi finanziaria che non ha risparmiato gli Emirati Arabi. «Quando siamo stati invitati con la solita richiesta di produrre qualcosa di italiano – racconta Enzo Calabrese – abbiamo deciso di unire gli sforzi e trovare un equilibrio tra il desiderio speculativo dell’investitore, il suo immaginario decorativo e la nostra ricerca fatta di sforzi enormi». L’idea di partenza pre-
vedeva tre edifici distinti su tre aree contigue, con parametri di efficienza distributiva rigidissimi. La peculiarità delle Bamboo Towers deriva dal fatto che i progettisti hanno studiato «due modi di intervenire sul tema architettonico – prosegue Calabrese – per poi arrivare a confronti critici da entrambe le parti. Cosa che ha portato il cliente a decidere di accettare entrambe le versioni, contenenti ognuna una parte del pensiero dell’altra». Una strategia vincente, mostrando esiti interessanti per come è diventata parte integrante del risultato architettonico. «Mentre la proposta di Enzo Calabrese – spiega Giovanni Vaccarini, concepiva «gli edifici come se fossero “vele”, “gocce” che si muovevano nel vento, la mia partiva dal presupposto che dovendo rispettare ingombri in
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pianta determinati da parametri urbanistici, queste strutture sarebbero risultate tozze. Da qui, l’idea di creare un gruppo di nove edifici più piccoli e snelli, veicolando la fascinazione di una selva di oggetti che dialogano tra loro». Una soluzione che, frammentando le superfici coperte, porta a corpi di fabbrica molto snelli, con affacci ottimali verso gli specchi d’acqua. «Questo progetto – commenta Vaccarini – mostra un’altra importante istanza che noi architetti italiani ci troviamo ad affrontare in questa regione: non c’è un vero e proprio contesto cui rapportarsi, elemento che invece è per noi cruciale. La contestualizzazione è, quindi, spesso cercata attraverso una suggestione figurativa che, nel caso delle Bamboo Towers, è rappresentata dalla selva di bambù». Progettare per Dubai, e per gli Emirati Arabi in generale, richiede, dunque, un approccio del tutto diverso. «Io lo chiamo progettare per i Re – sottolinea Enzo Cala-
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A FRONTE DI OCCASIONI UNICHE DI LIBERARE IL PENSIERO, TI VIENE RICHIESTA ANCHE UNA PROFESSIONALITÀ ALTISSIMA, SENZA PERDONO PER EVENTUALI ERRORI, E CON UN’ATTENZIONE MANIACALE AI NUMERI
brese – la differenza c’è ed è enorme. A fronte di occasioni uniche di liberare il pensiero, ti viene richiesta anche una professionalità altissima, senza perdono per eventuali errori, e con un’attenzione maniacale ai numeri». Quello che Calabrese definisce «un tandem di rara energia produttiva» ha inoltre dato vita al progetto di Jelly Fish Island, in costruzione ad Abu Dhabi: un’isola per il divertimento e il tempo libero
LA CITTÀ VERTICALE Enzo Calabrese/Giovanni Vaccarini
Nella pagina a fianco, render del Tunisi Sport City realizzato da Enzo Calabrese per il Bukhatir Group di Sharya. Sopra, il Golden Carpet di Abu Dhabi ideato dagli studi di Calabrese e Vaccarini
dove sono previsti un parco acquatico, una darsena da 200 posti barca, ristoranti, parcheggi, spiagge e un’area commerciale. Frutto del lavoro a quattro mani e due studi è poi il progetto per il Golden Carpet di Abu Dhabi, «una fashion tower ancora da realizzarsi – illustra Giovanni Vaccarini – che ripropone la figura del mantello: la torre, che si protende verso il mare come un faro, dovrebbe ospitare gli atelier delle case di moda, mentre l’edificio sottostante, “in coda”, accoglierebbe la galleria e le passerelle. Uno studio divertente perché si parla di un edificio ibrido sia nella funzione che nella forma, come spesso avviene in questa regione». Sempre nel territorio di Abu Dhabi, Enzo Calabrese ha realizzato uno studio per una città a emissioni zero su una superficie di 100 milioni di mq per Al Diwan. «Un progetto affascinante – evidenzia Calabrese – che può capitarti solo negli Uae, svolto per una società privata su commissione del governo,
per capire quale strada intraprendere sulla via della sostenibilità». Sostenibilità applicata anche al master plan di Tunisi Sport City, sviluppato da Calabrese per il Buckatir Group dell’Emirato di Sharja, gruppo specializzato nelle Sport City. Si tratta di un modello di sviluppo in cui un privato, attraverso una grossa società sportiva, in questo caso l’Olimpique Marsiglia che gestisce le scuole e le attività sportive, offre a un governo di riqualificare una zona del territorio attraverso uno stretto rapporto con lo sport. Giovanni Vaccarini, che con il suo studio ha progettato anche l’edificio residenziale Marina Rose di Dubai, la cui forma rievoca i quattro petali della rosa del deserto, segnala come proprio Abu Dhabi rappresenti «la nuova frontiera, assolvendo di nuovo pienamente al proprio ruolo di capitale con interventi culturalmente importanti, dopo che Dubai ha vissuto fino al 2007 una crescita vorticosa».
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>l’estetica dell’inc lusione Lo considerano “il premio Nobel dell’architettura”. A ricevere il Pritzker Architecture Prize 2010 sono stati Ryue Nishizawa e Kazuyo Sejima, che dirigerà la 12esima Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia di Francesca Druidi
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Photo by Takashi Okamoto, Courtesy of SANAA
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All photos by Hisao Suzuki, courtesy of SANAA
Un’architettura delicata e al contempo potente, precisa e fluida, ingegnosa ma non spiccatamente intellettuale. Capace di generare edifici che instaurano con caparbietà e successo un rapporto di connessione privilegiato con i rispettivi contesti, creando un senso di pienezza e ricchezza esperienziale. Queste sono soltanto alcune delle ragioni per le quali Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, titolari dello studio Sanaa, sono stati insigniti del Pritzker Architecture Prize 2010, la massima onorificenza in campo architettonico. Quarti nipponici a vincere dopo Kenzo Tange nel 1987, Fumihiko Maki nel 1993 e Tadao Ando nel 1995, Sejima e Nishizawa riceveranno il Pritzker il 17 maggio prossimo a Ellis Island, nel porto di New York, nel corso di una cerimonia che consacrerà il peculiare
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linguaggio architettonico sviluppato dal duo giapponese, impegnato da più di quindici anni in un processo collaborativo ispirato e dagli esiti certamente unici. Come evidenziato dalla giuria del premio, Sejima e Nishizawa esplorano, come pochi altri, le proprietà fenomeniche dello spazio continuo, della leggerezza, della trasparenza e della matericità, fino a ricavarne una sintesi sottile e mirabile. La loro è una ricerca tesa a scandagliare le qualità architettoniche essenziali, opponendosi all’enfatico e al retorico. Si può avere la tentazione di leggere nelle composizioni realizzate da Sejima e Nishizawa una tendenza all’elitismo, al rarefatto. L’estetica dei due architetti è, comunque, all’insegna dell’inclusione. Il loro approccio è fresco, sempre volto a offrire nuove possibilità all’interno delle
In apertura, Ryue Nishizawa e Kazuyo Sejima, titolari dello studio Sanaa. In questa pagina, l’O-Museum di Nagano
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HO ESPLORATO A LUNGO LE MODALITÀ CON CUI POTER ESPRIMERE APERTURA NELLA MIA ARCHITETTURA, RITENGO CHE QUESTO SIA IMPORTANTE PER UNA NUOVA GENERAZIONE DI QUESTA DISCIPLINA
costrizioni del progetto architettonico. La loro comprensione dello spazio non riproduce alcun modello convenzionale, ma propende verso un orientamento non gerarchico, applicando ciò che loro stessi definiscono un’equivalenza di spazi, declinata nella creazione di edifici democratici, conformi alla funzione e alle risorse economiche disponibili. I frutti dell’operato dello studio Sanaa sono visibili non solo in Giappone, ma anche in Germania, in particolare nella Zollverein School of management and design di Essen, in Inghilterra, in Francia, nei Paesi Bassi, con il De Kunstlinie Theater and Cultural Center di Almere, e negli Stati Uniti, dove si segnalano il Toledo Museum of Art Glass Pavilion in Ohio e il New Museum of contemporary art di New York. Tra i progetti più significativi, vanno poi ricordati l’O-Museum a Nagano, uno dei primi lavori eseguiti dal duo di architetti, completato nel 1999, e il 21st Century Museum of contemporary art di Kanazawa, terminato nel 2004. Un altro emblematico esempio è il Rolex Learning Center a Losanna, un gigantesco spazio multifunzionale e centro ricerche all’avanguardia, inaugurato lo scorso febbraio. «Ho esplorato a lungo le modalità con cui poter esprimere apertura nella mia architettura – ha dichiarato, fresca di vittoria, Kazuyo Sejima – ritengo che questo sia importante per una nuova generazione di questa disciplina. Forte del Pritzker Prize, continuerò a tentare di realizzare nuovi meravigliosi progetti». Kazuyo Sejima si conferma quest’anno come la protagonista indiscussa dello scenario architettonico interna-
A fianco, il New Museum of Contemporary Art di New York. In questa pagina, De Kunstlinie Theater and Cultural Center di Almere (Paesi Bassi)
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Nella prima serie di immagini, l’interno e l’esterno del 21st Century Museum of Contemporary Art a Kanazawa. Seguono immagini dell’installazione creata per il Serpentine Gallery Pavilion 2009 a Londra e dell’interno del Rolex Learning Center di Losanna
zionale. Sarà, infatti, anche la prima donna a dirigere la 12esima Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, che si terrà dal 29 agosto al 21 novembre ai Giardini e all’Arsenale della città lagunare. Il titolo voluto da Kazuyo Sejima per questa edizione è “People meet in architecture”: «L’idea – ha spiegato l’architetto – è di aiutare gli individui e la società a relazionarsi con l’architettura, aiutare l’architettura a relazionarsi con gli individui e la società, e aiutare gli individui e la società a relazionarsi tra loro». La domanda fondamentale per Sejima è “può l’architettura chiarire i nuovi valori e i nuovi stili di vita dell’XXI secolo?” «Questa mostra sarà l’occasione per sperimentare le potenzialità dell’architettura, per comprendere in che modo essa esprima nuovi modi di vivere, e per mostrare che è il frutto di valori e approcci differenti». In base alle sue dichiarazioni d’intenti, ciascun partecipante sarà il curatore di sé stesso. «Sono previsti spazi indipendenti per ciascun architetto e per ciascun tema. Gli artisti invitati progetteranno il proprio spazio considerando l’esperienza sia fisica sia concettuale del visitatore». Le partecipazioni includeranno tecnici e artisti perché, come conclude l’architetto nipponico, «l’architettura è un prodotto dell’intera società».
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>ca pir e l’ar c hitettur a attr aver so l’esperienza «L’architettura italiana e il ruolo dei critici, a cui spetta «un ruolo militante e sperimentale». I laboratori di creatività e gli architetti «che dovrebbero osare di più». Il curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale spiega perché Venezia sarà un’ottima vetrina per l’architettura italiana di Concetta S. Gaggiano
Sperimentare le potenzialità dell’architettura e riportare in primo piano il grande tema della qualità. Perché l’architettura «non deve più essere vista come un’arte astrusa e capricciosa, ma come facente parte della quotidianità». Luca Molinari, curatore del Padiglione Italia della 12esima Mostra internazionale di Architettura di Venezia, racconta così il lavoro di preparazione all’evento in programma dal 29 agosto al 21 novembre prossimi. Docente e storico dell’architettura, Molinari conosce bene lo stato dell’arte del settore in Italia, che definisce poco coraggioso, pur vantando ottime potenzialità, anche a causa di quel meccanismo mortificante rappresentato dai concorsi pubblici. Responsabile, secondo il curatore, della perdita di intelligenze, occasioni e anche visibilità, di cui il Paese soffre negli ultimi anni. Cosa sta succedendo in Italia? Ci sono realtà degne di nota? «Il Trentino Alto Adige sta dimostrando di essere un esempio di eccellenza a livello europeo: è uno dei pochi veri laboratori attivi in Italia. C’è una committenza che crede nell’architettura contemporanea, una società abituata al confronto con la modernità, risorse ben investite, procedimenti amministrativi chiari e due generazioni di architetti che stanno crescendo favoriti dal contesto in cui
si trovano». Kazuyo Sejima ha scelto come titolo della manifestazione “People meet in architecture”. Come si declinerà questo concetto all’interno del Padiglione Italia da lei curato? «Ho chiesto un allestimento comodo, domestico, chiaramente emozionante, che avvii un’interazione attiva, positiva del visitatore con l’allestimento. Sto ragionando su una mostra che possa interessare trasversalmente le generazioni perché il tema è rendere evidente al pubblico i buoni esempi. E capire perché sono interessanti aiuta la gente a chiedere progetti di qualità. “People meet in architecture” deve essere un’dea di relazione serena e positiva del visitatore con la mostra. Sto lavorando anche su tematiche che raccontino l’architettura come risposta alla società italiana che sta profondamente cambiando e che l’architettura è chiamata a risolvere, riportandola dentro le sue contraddizioni, dentro la sua storia e dentro il Paese». Come si inserisce la Biennale nel dibattito internazionale sui temi dell’architettura? «Al momento la Biennale di Venezia è l’unica esposizione che viene indicata come fondamentale all’interno del dibattito internazionale. La Biennale è un punto di riferimento e un passaggio obbligato per tutto il mondo
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dell’architettura che durante la manifestazione converge a Venezia. Il Padiglione Italia quest’anno sarà allestito in fondo all’Arsenale, quindi diventerà una porta d’uscita della Biennale. E per noi è l’occasione di far vedere al mondo quello che succede in Italia, per questo punteremo sulle cose vere, da vedere e da capire. Proveremo a dare un ritratto dell’architettura italiana contemporanea trasversale, originale ma vero, autentico, fatto di opere che sono state realizzate, e soprattutto pubbliche, per dimostrare che il nostro è un paese che nonostante tutti i problemi ospita delle opere di altissima qualità». Perché in Italia ci sono opere che non vedranno mai la luce pur essendo state pianificate con concorsi statali regolarmente eseguiti e vinti? «Il tema dei concorsi rappresenta uno gli aspetti dram-
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matici dell'architettura italiana. Basta guardare quello che succede all’estero, dove alla sicurezza del bando e dei budget effettivamente investiti corrisponde una procedura amministrativa trasparente, mai succube del cambio delle amministrazioni come succede in Italia: non è possibile che un grande progetto muoia solo perché cambia la giunta comunale. Quello dell’architettura “fantasma” è un problema che colpisce soprattutto le grandi città rispetto ai centri medi. E ha portato come conseguenza un innalzamento negli ultimi anni di concorsi banditi da soggetti privati che garantiscono affidabilità e sicurezza della realizzazione». Mentre nel nostro Paese si discute, altre città europee hanno cambiato faccia. Qual è il motivo di questo immobilismo?
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In apertura, visitatori all’interno del Padiglione Italia della Biennale di Venezia; nella foto piccola, Luca Molinari; di fianco, render del progetto Campidoglio 2 dello Studio Altieri in collaborazione con Mario Cucinella Architects
«Fare un bando è avere un’idea di quello che si vuole realizzare. Il bando si basa su alcuni punti fermi: la richiesta, l’individuazione dell’area dove sorgerà l’opera, la certezza finanziaria per la sua realizzazione e la solidità delle strutture amministrative capaci di seguire tutto l’iter della progettazione. In questo le nostre amministrazioni sono mediamente insufficienti perché ci sono concorsi banditi senza avere budget. Questo purtroppo dimostra che in Italia la committenza, mediamente arretrata dal punto di vista delle scelte, non considera l’architettura come un’arte capace di offrire soluzioni importanti per il mondo in cui viviamo». Riguardo alla debolezza dell’architettura italiana lei imputa una parte di responsabilità alla critica. Quale dovrebbe essere allora il ruolo dei critici oggi?
«Negli ultimi dieci anni non vi è stata una vera presa di posizione rispetto agli autori, contestando progetti o indicando tendenze positive. Un panorama editoriale stagnante come quello italiano trasforma tutto in una specie di marmellata anestetizzante. Credo che oggi il compito della critica sia provare a leggere in maniera più trasversale i fenomeni in corso, guardando all’architettura italiana in maniera provocatoria, attiva e curiosa. Ciò aiuterebbe gli architetti a riflettere sul proprio ruolo e sui propri progetti. La critica deve avere un ruolo militante e sperimentale. Bisogna uscire dagli studi, viaggiare, incontrare gli architetti. L’Italia è un paese lunghissimo, eterogeneo e complesso, vivere tutto dal proprio studio è molto pericoloso perché alla fine tutto si riduce a una fotografia o a un commento fatti a distanza».
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© photo Ugo de Berti
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> spazi
di intensa esperienza «La logica della natura e dello spazio circostante e la logica dello spazio architettonico si stimolano a vicenda senza raggiungere un’armonia predeterminata». Questa costante frizione è, per Tadao Ando, la fonte dell’energia da cui nascono cose nuove e originali di Renata Gualtieri
«Il materiale non esisteva all’inizio nell’architettura. Prima veniva lo spazio che doveva essere definito. Il materiale altro non è che una scelta adatta alla realizzazione del processo. Il calcestruzzo era il materiale che sentivo più vicino alla mia visione dell’espressione dello spazio e perciò ho compiuto una ricerca trasversale per esplorarne il potenziale. Inoltre ho viaggiato per tutto il mondo per studiare e provare nuovi spazi. Anche oggi mi impegno per trovare nuovi modi di espressione usando materiali rappresentativi del ventesimo secolo come l’acciaio, il vetro e certamente il calcestruzzo». L’esperienza di Tadao Ando, “l’architetto autodidatta”, famoso in tutto il mondo perché capace di produrre edi-
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fici che servono e ispirano. Quale è il suo rapporto con la tradizione architettonica giapponese e quanto è stato influenzato dalle architetture storiche e contemporanee che ha avuto modo di conoscere nel mondo? «Non ho mai inteso acquisire modelli specifici o stili dall’architettura giapponese, ma sono stato fortemente in-
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fluenzato dal suo background storico, tradizionale e artistico. Nel mio lavoro architettonico si possono trovare alcuni riflessi dall’ideologia dello zen e dal concetto di vuoto. Riguardo all’architettura internazionale ricorderei il mio primo viaggio europeo e quanto rimasi impressionato dalla cappella di Notre Dame du Haut di Le Corbusier. Il giorno in cui arrivai molte persone salirono sulla
L’ENERGIA DELLO SPAZIO
In apertura, punta della Dogana, nella foto piccola, Tadao Ando. A fianco, Modern Art Museum di Fort Worth Nella pagina successiva, Prefectural Museum of Art di Hyogo
collina di Ronchamp, in quel momento mi resi conto che il compito dell’architettura è quello di creare il luogo dove le persone possono provare l’esperienza di comprendere cosa significhi incontrarsi, stare insieme e vivere insieme agli altri. Entrando nella cappella si sente la luce filtrare in tutte le direzioni attraverso aperture di diverse dimensioni, una scena che rimane profondamente
IL COMPITO DELL’ARCHITETTURA È CREARE IL LUOGO DOVE LE PERSONE POSSONO PROVARE L’ESPERIENZA DI COMPRENDERE COSA SIGNIFICHI INCONTRARSI E VIVERE INSIEME AGLI ALTRI
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impressa nel cuore di ogni visitatore. La sensazione dello spazio era così limpida che mi impressionò, influenzando il mio atteggiamento nei confronti dell’architettura. Nello stesso viaggio visitai il Pantheon a Roma e sentii una simile potenza dello spazio, che non è mai esistita nella cultura giapponese». Il gioco tra luce e ombra come condiziona la creazione di uno spazio architettonico? Che significato ha la luce all’interno della relazione tra le cose? «Il Pantheon ha una struttura semplice con una sola fonte di luce che viene dall’Opeion e nonostante ciò attraverso i secoli impressiona i cuori delle persone. Continuo a riflettere dove sia la fonte di tale fascino. Lo stesso vale per la cappella di Ronchamp. L’effetto intrecciato del volume degli spazi ha un forte impatto sulla mente umana; questi capolavori generano diverse idee nella nostra mente: credo che il fornire luce allo spazio porti l’architettura a divenire viva». Come si incontrano in un progetto la logica dell’architettura e quella della natura? «L’architettura occupa spazi specifici. Questo può suonare naturale ma credo che sia molto importante riflettere con attenzione sul concetto. La logica che ogni spazio architettonico ha è indipendente nonostante entri costantemente in conflitto con la logica del luogo che l’architettura occupa. Credo che tale conflitto sia ciò che crea nuovi mondi. Nel restauro di Punta della Dogana quale è la funzione delle pareti di calcestruzzo? Quale è il filo conduttore del progetto? «Quel muro di calcestruzzo simboleggia il ventesimo secolo e tutte le sue tecnologie, espressioni e spirito. Per contro, il muro di mattoni preesistente è un monumento storico nel quale numerose culture sono impresse dal quindicesimo secolo a oggi. Inserendo un elemento contemporaneo, un blocco di calcestruzzo, in uno spazio storico ho tentato di esprimere il concetto di passato e futuro in un contesto di presente».
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>tr a moder no e post moder no Luogo sociale o di conservazione e trasmissione dei saperi? Due le concezioni del nuovo modo di costruire biblioteche. Due esempi: la biblioteca di Alessandria d’Egitto a firma dello studio Snøhetta e la biblioteca Beato Pio IX della Pontificia Università Lateranense dello studio King Roselli di Laura Pingone
© Gerald Zugmann
I LUOGHI DEL SAPERE
© Gerald Zugmann
In questa e nella pagina precedente, esterni della biblioteca di Alessandria d’Egitto
Spazio collettivo e comunitario oppure luogo di raccolta del sapere dove il leggere è un atto individuale? Concezioni differenti che cambiano (e hanno cambiato) la grammatica architettonica del “fare” una biblioteca. Una sintassi nuova che consegna all’archivio storico l’immagine dell’ambiente pieno di barriere fisiche, o peggio psicologiche, e di scaffali polverosi. Un’evoluzione che in Italia, talvolta, cozza ancora contro quello stereotipo duro a morire. Alessandria d’Egitto e Roma. Due modelli
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che traducono il nuovo linguaggio. Libri e non solo per la più famosa biblioteca, quella di Alessandria d’Egitto. Volumi, sapere e conoscenza per la Biblioteca generale della Pontificia Università Lateranense (conosciuta originariamente come Biblioteca Pia e oggi con il nome del suo fondatore, il beato Pio IX). La prima firmata dagli allora giovani (erano appena trentenni quando vinsero il concorso internazionale bandito dal governo egiziano) architetti dello studio novergese Snøhetta. La seconda
I LUOGHI DEL SAPERE
SEATTLE, LA PUBBLIC LIBRARY DIVENTA INFORMATION STORE Non più biblioteca, ma information store. Non più mera istituzione in cui si conservano libri, bensì spazio dove i media – tradizionali e innovativi – s’incontrano, diventando parimenti fruibili in tempo reale. La Pubblic Library di Seattle firmata da Rem Koolhaas, tra i fondatori dell’Office for Metropolitan Architecture (Oma), nasce da questa ambizione. Simile ad un cuneo sfaccettato, ma aperto alla città e ai suoi influssi, l’edificio trae spunto, diventandone a sua volta punto di riferimento, dallo skyline di Seattle. La sua organizzazione interna rivoluziona la ‘solita’ idea di biblioteca: una piazza coperta frequentata da studiosi e anche dai passanti che nel Living Room possono socializzare o leggere in un clima informale. La libera consultazione del patrimonio librario avviene per mezzo di una struttura che lo stesso progettista definisce "book spiral", un percorso inclinato che si snoda per quattro livelli (al quinto la Mixing chambre:spazio di orientamento e informazione). E che diviene l’asse portante sul quale s’incardinano i piani disarticolati. Tappezzeria viola per le "Reading Rooms", moquette striata, scale mobili giallo fosforescenti, sala riunioni rosso lacca. L’accesso alle differenti aree è preceduto da un bancone di accoglienza ‘a chiare lettere’. E ancora un basamento di raccordo tra i due livelli delle strade confinanti, l’auditorium della Microsoft e l'atrio di ingresso principale da Fifth Avenue.
uscita dalla matita dello studio degli architetti Jeremy King e Riccardo Roselli. «La biblioteca di Alessandria d’Egitto – spiega Christoph Kapeller, founding partner e project director dello studio norvegese – è un ibrido a metà tra spazio pubblico e di ricerca. Parte della sfida del progetto è stata, quindi, di trovare il giusto equilibrio tra questi due aspetti», che inevitabilmente hanno dovuto fare i conti con l’allure che da sempre ammanta questo luogo. «L’edificio è stato ispirato dal modello ori-
ginario della biblioteca – avverte Kapeller –. Il cui ben noto mito traeva fondamento dal fatto che lì fosse raccolto lo scibile del mondo antico. Il progetto della nuova biblioteca non ha fatto altro che tradurre questo concetto attraverso un linguaggio architettonico legato alla forma. Il mondo della conoscenza si concretizza in una forma geometrica universale (il cerchio, ndr) in cui non c’è né un inizio né una fine. È il concetto dell’unicità, del contenitore che include e riunisce in sé i saperi». Unità
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UBU, UN CUBO NERO A UITHOF Un possente cubo nero è spuntato a Uithof, il campus universitario di Utrecht. Paragonato alla scatola nera di un aereo, l’UBU è la biblioteca uscita dalla matita di Wiel Arets. La costruzione più importante del campus, plasmato dal master plan di Rem Koolhas. Connesso con passerelle aeree agli edifici vicini, nonostante la sua spiccata fisicità, l’UBO non è un elemento solitario. Auditorium, negozi e bar lo legano alla vita del campus. Nero e luce sono i suoi estremi: non solo luogo di consultazione dei libri, ma anche di incontri. I depositi per i volumi, cui si appoggiano le sale di lettura, dividono lo spazio in diverse zone collegate tra loro da scale e ballatoi. E sono costruiti in calcestruzzo nero decorato e rivestiti da una facciata in doppio vetro serigrafato che permette alla luce naturale di arrivare fino all'interno dell'edificio stesso. Un lato dell'UBU, quello che ospita la sede dell'università, permette di godere di una vista "filtrata" sulla campagna circostante. L'altro dà sui lunghi ballatoi che affiancano la corte interna e fungono da tapparelle sulla zona parcheggio. Basandosi sull'idea che la comunicazione silenziosa è fondamentale in un edificio in cui la conversazione è inesistente, Arets ha creato un’atmosfera che trasmette un senso di sicurezza. Nasce da qui la scelta del colore nero per gli interni. Il pavimento, luminoso e lucido riflette la luce (naturale e artificiale) che illumina tutti i 42 milioni di libri sistemati su mensole aperte. I tavoli, bianchi e lunghi, permettono una facile consultazione dei libri o di effettuare ricerche con strumenti elettronici. Le postazioni di lavoro individuali rappresentano un elemento chiave. E la loro posizione determini anche il grado di comunicazione che ognuno instaura con gli altri. Dall'entrata principale parte un'ampia scalinata che porta fino all’auditorium e allo spazio espositivo. E da lì fino alla biblioteca vera e propria al primo piano. Superato l’ingresso, si è di fronte la zona “prestiti” caratterizzata da un banco centrale. Lo spazio vuoto si estende fino in cima all'edificio.
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che contiene la molteplicità. Mutano le finalità e, quindi, anche le funzioni. E quella alessandrina viene ri-configurata da Snøhetta senza però tradirne il valore (in realtà riaffermato) del suo ruolo nella società contemporanea. «Una biblioteca – prosegue Kapeller – non è più concepibile come un mero spazio dedicato alla sola lettura. Storie e notizie una volta costrette sulla pagina scritta, oggi si mostrano sotto forma di immagini, suoni, in una dimensione multimediale. Le funzioni diventano pertanto molteplici: archivio, museo e luogo d’incontro. Diventa naturale includervi anche uno spazio espositivo, una pinacoteca e sale conferenze multifunzionali». In quest’ottica, la stessa «sala di lettura diventa un mondo nel mondo. L’immagine dell’universo che attraverso la lettura apre le nostre menti. Simile nel modo al museo che celebra l’azione dell’osservare, le sale di lettura celebrano il gesto del leggere. Entrambe le attività si riferiscono alla creazione del mondo nella mente dell’uomo. Il piacere della lettura risiede nel fatto che le nostre intelligenze traducono parole astratte in immagini vive, in suoni e in idee». Un simile ambiente deve quindi «accogliere il visitatore, circondandolo con un’atmosfera rilassante, malgrado le dimensioni gigantesche, regalandogli la necessaria intimità per la lettura e il pensiero». Affonda le radici nella storia, da cui trae linfa viva, la Pio IX della Pul. Antico e moderno. Il primo dà valore al secondo. E
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A sinistra, la biblioteca di Alessandria d’Egitto; sotto, la biblioteca Beato Pio IX della Pontificia Università Lateranense
UNA BIBLIOTECA NON È PIÙ CONCEPIBILE COME UN MERO SPAZIO DEDICATO ALLA SOLA LETTURA. STORIE E NOTIZIE UNA VOLTA COSTRETTE SULLA PAGINA SCRITTA, OGGI SI MOSTRANO SOTTO FORMA DI IMMAGINI, SUONI, IN UNA DIMENSIONE MULTIMEDIALE
il secondo rinvigorisce il primo. «La lettura e la riflessione proprie di un simile luogo – osserva Roselli – devono sempre rimanere le stesse. Nella biblioteca, si concentra il sapere e quindi la riflessione e lo studio: è l’obiettivo finale». Un compito che per essere assolto «deve avere comunque un suo spazio. Anche se non è uno spazio introverso». Perché apre al mondo. Ciò non comporta per forza una «suddivisione netta degli spazi», sottolinea Roselli. Questo in assoluto. Fa eccezione la Pio IX dove quest’idea è stata piegata a quella che «la biblioteca dovesse avere un cuore rappresentato dalla torre libraria in cui si può cercare il volume. Uno spazio dilatato, libero» dove, oltre alla postazione in cui studiare, si può scegliere anche la luce, elemento qui «molto presente. C’è chi ama più luce e chi ne preferisce meno, c’è chi desi-
dera stare all’angolo di uno spazio per sentirsi più protetto e c’è chi vuole vedere lontano. Noi abbiamo cercato con questa biblioteca di rendere tutto questo possibile». Luce come elemento strutturale, architettonico. Grazie anche agli splendidi “spacchi” calibrati fino all’ultimo millimetro. Ma è il legame, anche fisico, con l’università pontificia (e quindi con il contesto urbano) che regala alla biblioteca la sua identità. «Commissionando il progetto – ricorda Roselli – il Rettore disse che voleva rendere il luogo della lettura e della consultazione dei testi il fulcro centrale dell’università. Parole intense che abbiamo tradotto spostando la biblioteca (prima la sala lettura era il terminale della Pul, ndr) e poi facendola insistere sui corridoi stessi dell’ateneo». Al punto che «da quei corridoi abbiamo realizzato degli strappi da cui si vede la torre libraria». Quanto poi al contesto, rileva l’architetto, «non cogliere la sensibilità di un luogo è come non considerare dove si vive. È impensabile. Un progetto va ubicato. Questo vale ancora di più per uno spazio simile come la biblioteca. Certo abbiamo avuto dei vincoli, quale il laterizio, ma abbiamo cercato interpretarli come un elemento stereometrico che comunque avesse la nostra identità. Forte. Al centro della progettazione, si deve mettere da un lato la sensibilità del luogo e dall’altro l’individuo che ne usufruirà». L’idea del progetto non può che nascere da qui.
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>l’attenta per cezione dello spazio urbano Il piano urbanistico della mobilità deve reagire in modo molto diverso nelle singole zone storiche della città» secondo Bernhard Winkler l’attenzione dell’urbanista deve tenere conto di ogni singolo aspetto della città nella quale si opera di Nicolò Mulas Marcello
Progettare un piano urbanistico che sia compatibile con le esigenze della società è senz’altro un compito difficile che deve tenere conto di vari fattori come il passato storico del piano cittadino, la vita degli abitanti che popolano la città e la relativa fruibilità delle strutture esistenti. Il professore Bernard Winkler, vincitore tra l’altro del concorso urbanistico per la pedonalizzazione del centro storico di Monaco di Baviera in occasione delle Olimpiadi del 1972, ha operato anche in Italia progettando i piani di mobilità in diverse città come Bologna, Genova, Firenze e Roma. La sua concezione del piano urbanistico della mobilità si basa su uno studio approfondito dei documenti storici delle città, sul passato, sulle caratteristiche territoriali e successivamente sulla conoscenza delle abitudini dei cittadini e delle attività economiche della città.
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Quali sono i suoi punti di riferimento nella progettazione di un piano urbanistico? «La città è una medaglia a due lati, da un lato quella costruita e dall’altro lato quella vissuta. I punti di riferimento in un piano urbanistico perciò sono: per prima cosa il passato nel senso di ciò che è arrivato al nostro presente come spazi, strutture e architetture. In secondo luogo, la società e la vita attuale nella città. La concezione storica della vita è essenziale per comprendere il suo carattere, il fenomeno del luogo. Si arriva alla conoscenza di una città attraverso lo studio della cronaca dei suoi sviluppi attraverso i documenti dei piani storici. E anche attraverso l’acquisizione personale dello spazio camminando sistematicamente dal primo nucleo storico alle zone di sviluppo e d’ampliamento seguendo il senso
URBANISTICA
della cronologia, dal centro verso l’esterno. Conclusa questa fase di studio si passa alla conoscenza della vita della città e delle attività economiche, culturali e politiche. Solo dopo queste due conoscenze mi permetto di esprimere opinioni e di entrare nel dibattito pubblico per poi passare alle proposte di cambiamenti dello spazio pubblico per introdurre in questo modo i cambiamenti di uso». Qual è il segreto per un buon piano di mobilità? «Le proposte per i cambiamenti di uso e in parte anche dello spazio, formano, come lo chiamo io, il piano urbanistico della mobilità. Questo è il mio segreto per lo studio della mobilità, ovvero vederla come parte creativa e integrante dell’urbanistica. Ecco allora che il piano urbanistico della mobilità deve reagire in modo molto di-
È AUMENTATA LA SENSIBILITÀ PER L’ESISTENTE E LA NECESSITÀ DI LAVORARE CAUTAMENTE SU CIÒ CHE GIÀ ESISTE, INVECE DI DEMOLIRE E RICOSTRUIRE EX NOVO verso nelle singole zone storiche della città. Mentre nel centro la priorità la devono avere gli incontri, le permanenze e gli spostamenti pedonali e quelli a velocità ridotta in particolare il mezzo pubblico, più ci si allontana dal centro pubblico e aumentano le distanze, le priorità passano alle esigenze del traffico. In poche parole intervenire urbanisticamente sugli spostamenti della città è altrettanto formativo per lo spazio come lo sono le sue architetture. Sono i due lati della stessa medaglia».
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Lei è autore del piano di pedonalizzazione del centro storico di Monaco realizzato in occasione delle olimpiadi del 1972. Come è cambiata la città da allora dal punto di vista urbanistico? «La città di Monaco ha avuto, così come il suo sistema di trasporto pubblico e la pedonalizzazione del centro, che è il mio lavoro, esperienza per l’utente di un nuovo equilibrio su alto livello negli spostamenti cittadini. Questo è molto importante. L’equilibrio nello spazio pubblico lo si vede su livello molto basso quando non ci sono i mezzi necessari. Risulta, invece, ad altissimo livello quando è ben pianificato come è stato fatto a Monaco». È cambiata anche la concezione di urbanistica negli anni? «La conoscenza dell’urbanistica, in base alle esperienze,
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è passata dal concetto del rinnovamento totale di una volta, cioè demolizione totale e ricostruzione ad un concetto di risanamento graduale dell’esistente. Si nota un aumento notevole di sensibilità urbanistica. Di sicuro grazie anche ai lavori che abbiamo fatto anche a Monaco. In questo senso come le ho detto è aumentata la sensibilità per l’esistente e la necessità di lavorare cautamente su ciò che già esiste, invece di demolire e ricostruire ex novo. Quello l’ha fatto la guerra in Germania». Lei ha effettuato i piani di mobilità per varie città italiane come Firenze, Genova, Roma e Bologna. Ognuna di queste città ha caratteristiche ben precise. Qual è stato il suo approccio? «Per le varie città italiane da lei citate ho considerato in primo luogo la vista nelle sue caratteristiche singole e
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In apertura, Bernhard Winkler (foto di Guido Mannucci); sulla sinistra, il piano di pedonalizzazione del centro storico di Monaco realizzato nel 1972
poi la vita attuale delle persone. Bisogna poi considerare naturalmente la topologia territoriale, cioè conoscere il territorio nel quale è nata questa città che è molto diverso tra una città di porto come Genova, o una città di pianura come Milano o di collina come Firenze. Comprendere una città vuol dire conoscere la sua storia e sperimentare la sua vita del presente. Nonostante tutto, il comportamento dell’automobilista nelle più diverse realtà è uniformemente dettato dal codice della strada. Non c’è differenza tra le diverse città. La vera difficoltà è quella di adattare il piano di mobilità alle mentalità e alle caratteristiche del singolo luogo o del singolo caso. Questo, nelle diverse città storiche italiane, è veramente una sfida non da poco anche per un professionista come me della materia».
A quali progetti sta lavorando attualmente? «Non posso parlare delle mie attività attuali. Fintanto che non sono conosciute pubblicamente, si può lavorare tranquillamente per conoscere la città camminandola e vivendola in un certo modo. Appena se ne accorge la stampa si entra per forza nella seconda fase, quella delle attualità politiche e di estremi interessi anche personali. Quando ho fatto il piano di Bologna, ho detto all’ex-sindaco Imbeni: «io questo lavoro posso farlo se lei mi promette di tenere nascosto nel modo più assoluto la mia attività di ricerca, perché altrimenti non riesco a camminare in questa città senza essere aggredito dai giornalisti». Lui me l’ha promesso e siamo riusciti a tenerlo nascosto più o meno per 4 mesi».
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>Genov a, Udine e Trieste: i nuovi volti urbanistici Tre Comuni, tre nuovi piani regolatori in via di definizione. Operazioni complesse e partecipate che affondano le radici nelle stratigrafie urbanistiche di Demetrio Federici
È in fieri la carta d’identità urbanistica di Trieste, Udine e Genova. I Palazzi, insieme ai cittadini e agli Ordini stanno mettendo a punto i piani regolatori (Prg) che definiranno il volto delle loro città nei prossimi anni. Sei i cardini su cui ruota il piano di Trieste che dovrebbe avere semaforo verde entro luglio: salvaguardia delle aree di pregio, equilibrio tra edificato e territorio, revisione della capacità insediativa in rapporto alla domanda, attrezzature pubbliche, sviluppo sostenibile e semplificazione degli iter burocratici. Linee guida che insistono su un quadro che, «nel frattempo – spiega il sindaco Roberto Dipiazza che ha mantenuto per sé la
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delega all’Urbanistica –, ha visto raggiungere quasi tutte le intese con gli enti: Porto, Regione, Agenzia del demanio, ministero della Difesa, mentre è in via di ottenimento dalla Regione il parere sulla Via». Insomma, si lavora per il cambiamento. Un’attenzione particolare è riservata al centro storico, oggetto di un piano ad hoc che punta alla riqualificazione della città pubblica e residenziale senza trascurare la «costituzione di un’immagine riconoscibile preordinata a preservare il rapporto mare-città-Carso e il “centro” finanziario ed economico della Regione». Già redatto invece il Piano regolatore del porto, «è un atto di cui vado orgoglioso» aggiunge
CITTÀ IN ORDINE
il sindaco. «Per cinquant’anni si era navigato a vista. Adesso, invece, sono state definite indicazioni sicure sulle possibili localizzazioni delle vecchie e nuove attività e sulle aree verso le quali indirizzare i necessari investimenti volti ad ammodernare e potenziare le relative infrastrutture. Le nuove previsioni sono volte all’implementazione delle funzioni portuali come la creazione del molo VIII e l’allargamento molo VII; al potenziamento del traffico traghetti; alla sinergia tra tessuto industriale e porto; e infine al miglioramento del sistema ricettivo con il prolungamento del molo Bersaglieri quale terminal per le navi da crociera». Critico, in-
vece, l’ordine degli architetti. «Il Prg – commenta il presidente Andrea Dapretto –, nonostante la lodevole introduzione di un Piano struttura, appare incapace di dare un ruolo, un progetto complessivo alla città. Questo, se da un lato, è dovuto anche alla complessità del tessuto amministrativo, con la presenza di enti le cui potestà si intrecciano (Ente Porto o l’Ente Zona industriale che si dotano di piani propri); dall’altro ci fa riflettere sull’inadeguatezza di uno strumento, il piano regolatore, che non sembra più in grado di dare risposte adeguate alle problematiche della città contemporanea». Aria nuova a Udine dove la macchina comunale è im-
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pegnata nella stesura di un Prg più moderno. «È giunto il momento di fare un punto della situazione e resettare le priorità del Comune – rileva l’assessore comunale alla Pianificazione territoriale, Mariagrazia Santoro –. Sono cambiati i punti di vista dai quali guardare la città: non più una contrapposizione centro-periferia, ma valorizzazione delle peculiarità di ciascun quartiere. Ecco perché è necessario allargare lo sguardo ai comuni contermini e contestualizzare le scelte in una scala ampia». E mentre il Piano percorre la sua strada partecipata, due caserme, Piave e Osoppo, passano dal Demanio al Comune. «Un importante passo per la città», avverte l’assessore. La caserma Piave «è oggetto di un progetto di riqualificazione che ha come scopo il rafforzamento del secondo polo ospedaliero. L’altra caserma
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è oggetto di uno studio di fattibilità che ne valuti le possibilità di riqualificazione». Per il presidente provinciale dell’ordine degli Architetti, Giorgio Cacciaguerra, «Udine ha bisogno di riqualificarsi a partire dai suoi limiti esterni e interni. Non ci sono solo le caserme, esistono ampi ambiti della città che sono oggi “rifiutati”, subendo perciò un processo di degrado. Le caserme rappresentano una grossa opportunità di rigenerazione urbana, anche se c’è il grosso rischio che si trasformino in contemporanee enclave destinate a residenze medioalte, attività commerciali e centri di servizio. Oltre a nuove forme e funzioni, per queste aree bisogna promuovere una nuova integrazione urbana». A Genova, il Puc del Comune, per il presidente provinciale dell’Ordine degli architetti, Giorgio Parodi, si basa su «un mo-
CITTÀ IN ORDINE
In apertura, da sinistra, una veduta di Genova, un particolare del centro storico di Udine e una panoramica di Trieste; nella pagina a sinistra, il porto di Genova; sotto, Piazza della Libertà a Udine
SONO CAMBIATI I PUNTI DI VISTA DAI QUALI GUARDARE LA CITTÀ: NON PIÙ LA CONTRAPPOSIZIONE CENTROPERIFERIA, MA LA VALORIZZAZIONE DELLE PECULIARITÀ DI CIASCUN QUARTIERE
dello di città ricostruita al suo interno, alla ricerca di aree da riqualificare e valorizzare. Con uno sviluppo più distribuito delle funzioni urbane, dotata di una qualità urbana rintracciabile ovunque: dal recupero del suo importante centro storico alla migliorata accessibilità attraverso lo sviluppo del trasporto pubblico e della mobilità sostenibile. Una città metropolitana che comprenda nelle sue relazioni il mare Mediterraneo e l’Europa». Il Puc, comunque, «prende le mosse, oltre che dagli indirizzi approvati dal Consiglio comunale, dall’affresco per il Waterfront della città elaborato da Renzo Piano e dall’Urban Lab, il laboratorio di urbanistica ideato dall’architetto». Tra i traguardi identificati per il futuro della città emergono lo sviluppo socio-economico e delle infrastrutture, l’organizzazione spaziale
della città e la difesa del territorio. In questa logica è attesa l’apertura di molti cantieri: la realizzazione del Terzo Valico ferroviario e del servizio ferroviario metropolitano Alessandria-Genova; la riorganizzazione del nodo ferroviario di Genova e del nodo autostradale di San Benigno; la gronda di Ponente e la nuova piattaforma aeroportuale. Per la promozione del sistema produttivo e la valorizzazione della città come meta turistica ci sono il parco tecnologico degli Erzelli; la sistemazione dell´area costiera di Voltri, quella di Multedo-Petrolchimico e Sestri-Fincantieri; la realizzazione del polo ludico-ricreativo e le crociere di Ponte Parodi; il completamento della valorizzazione del centro storico; il completamento del nuovo padiglione espositivo della Fiera del Mare e il nuovo stadio.
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>lontano dalle c lassificazioni vicino all’uomo e all’ambiente Pensiero critico, cultura umanistica, tensione etica. Secondo Anna Grazia Ighina, l’architettura, in tutte le sue espressioni, deve essere “realizzata per la gente”. E il punto di partenza è proprio il rapporto tra uomo e spazio di Eugenia Campo di Costa
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ANNA GRAZIA IGHINA
In apertura, Genova, intervento nel quartiere della Maddalena. L’Architetto Ighina nel suo studio e nel quartiere della Maddalena con alcuni collaboratori (in alto da destra, Francesca De Rege, Laura Valla e Caterina Ansaldo). In questa pagina, sotto, intervento in un vecchio casale piemontese
Lavori urbanistici, progetti pubblici, abitazioni private, nuove edificazioni, recupero, design. Branche dell’architettura diverse che trovano un denominatore comune nell’organizzazione e nella configurazione dello spazio. Uno spazio che assume differenti accezioni a seconda delle diverse specificità. «Credo che l’architetto debba essere un umanista curioso che non si stanca mai di indagare la realtà attraverso la sperimentazione delle diverse componenti che legano l’uomo al proprio ambiente fisico e sociale». È la visione dell’architetto Anna Grazia Ighina titolare dello studio genovese “Ighina & Partners”. Lontana dai linguaggi codificati, dalle classificazioni e dalle mode effimere, l’architetto Ighina costruisce architetture che prendono forma nelle poliedriche relazioni tra l’uomo e l’ambiente fisico. «La qualità dell’architettura non può derivare da un pensiero astratto ma dalla consapevolezza critica della natura relazionale dell’architettura – continua -. Questo significa portare l’architettura al di là delle sue logiche interne in una dimensione dinamica capace di includere la complessità della vita umana, la molteplicità dei punti di vista, la duttilità alla trasformazione, al mutare delle esigenze». Cosa pensa delle più recenti evoluzioni dell’architettura, che hanno portato ad alcuni lavori discutibili? «La degenerazione di molta parte dell’architettura che affligge il nostro tempo deriva dalla scissione schizofrenica fra le naturali necessità degli esseri umani e le
istanze della società. L’uomo subisce lo spazio costruito senza esserne più protagonista; l’architettura ha perso attenzione e sensibilità in nome della bizzarria narcisistica dei progettisti, della superficialità delle mode, del ricatto economico e politico, dei contenuti propagandistici e delle falsità dogmatiche. Ne consegue che lo spazio non risponde più né ai bisogni autentici né alle aspirazioni di cui l’architettura si è fatta interprete nei periodi migliori della nostra storia». Guardando al passato possiamo trovare dei modelli? «La storia non può ripetersi, ma è utile imparare a osservare le motivazioni del fare architettonico del passato e le relative conseguenze in termini di configurazione e percezione dello spazio costruito. È utile scoprire nel lungo
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ANNA GRAZIA IGHINA
Intervento di recupero e ristrutturazione di un vecchio casale piemontese
periodo le logiche intrinseche, le variabili e le invariabili, con cui gli uomini si muovono e si orientano nel costruito, si rappresentano nella città, si esprimono fra le mura domestiche. Oggi invece si tende a studiare la storia dell’architettura nella successione degli “stili” come se il passato si riducesse alla sua forma estetica anziché rispondere al pensiero, alla società, alle passioni, al lavoro e alla vita quotidiana degli uomini. La storia ci insegna che c’è bisogno di futuro ma anche di memoria; un luogo senza futuro è morto, un posto senza memoria produce alienazione. L’uomo ha bisogno di novità, ma anche di riferimenti. Necessita di segni, proporzioni ed emozioni legate tanto alla cultura del tempo quanto, sempre e da sempre, alla sua corporeità». Come si traducono questi concetti nel vostro lavoro? «Per semplificare si può dire che a livello urbano come fra le mura della nostra casa, noi “leggiamo” lo spazio, ossia le forme, i colori, le relazioni tra le geometrie, la luce e le ombre, attraverso i nostri sensi e reagiamo mediante sensazioni che influiscono sul nostro “ben-essere” e determinano la vivibilità di un luogo. Su questi concetti abbiamo lavorato per esempio nel quartiere della Maddalena a Genova ove occorreva rivitalizzare un percorso vincendo la sensazione di disorientamento, che produce paura, e valorizzarne le valenze nono-
stante il degrado del quartiere per il quale nel contempo si sta lavorando a un piano di recupero. Con lo stesso metodo abbiamo operato in un lavoro del tutto diverso per il recupero e la ristrutturazione di un vecchio casale per usi privati». Quali regole segue dunque il suo fare architettura? «Le regole sono quelle che governano, ad esempio, la geometria e il colore, e quelle legate alla percezione sensoriale ma sono solo ingredienti. Io non credo che esistano ricette ma l’attitudine a porsi domande e il rigore di un metodo che guidi la ricerca nella consapevolezza che la progettazione è un percorso altalenante fra molteplici vie; osservare, mettersi in ascolto con curiosità, tentare e verificare in una continua messa a punto di equilibri e interazioni in rapporto dialettico con persone e luoghi; e il progetto continua, si corregge, si precisa, entra in consonanza con i suoi utilizzatori. Ogni luogo è trasformabile. La gente è ormai disabituata alla qualità. Occorre aiutare la committenza a vedere uno spazio in termini nuovi senza distruggere ma sovrapponendo nuovi sistemi di segni e relazioni, lavorando tra permanenza e cambiamento. E quando tutto è fatto, torno a spiare la gente che vive lo spazio che ho disegnato con la speranza che sia abbastanza complesso da essere duttile per continuare ad arricchirsi di significati nell’essere vissuto».
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LA TERZA DIMENSIONE DELL’ARCHITETTURA
>l’ar c hitettur a de ve esser e colta Comunicando, ogni forma d’arte si lega alla cultura. La terza dimensione dell’architettura dilata lo spazio e ne riduce i contorni, ma utilizzando le forme e i colori del linguaggio pittorico. A descrivere l’emozionalità degli spazi, Lucio Merlini di Adriana Zuccaro
L’architettura è un linguaggio misterioso, difficile da comprendere. Così il valore di un’opera consiste nella sua espressione. “Quando una cosa è espressa bene, il suo valore diviene molto alto”. La poetica enunciata nel 1976 da Carlo Scarpa trova continuità e rinnovamento nei progetti di Lucio Merlini, poliedrico artista veneto il cui «approccio all’architettura è legato alla cultura». Dedicatosi in prima battuta
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alla sola arte pittorica, ha poi abbracciato «quel particolare spirito dell’architettura che nasce con l’uso del colore e delle forme e che si sviluppa ricalcando il linguaggio proprio della pittura». Interazioni, rispondenze e finalità sono le carte poste in gioco dalla coscienza creativa degli architetti contemporanei. «Oggi tendiamo a razionalizzare l’idea e a renderla leggibile, diretta – sostiene Merlini –. Non si lascia molto spazio alle cose nascoste. Si vuole vivere quello che si vede realmente. Il contatto deve essere quasi immediato, definito, evoluto, trasparente. Così il vetro è la materia più usata, perché funge da tramite e contiguità tra spazio interno ed esterno». Come giungere allora a un’architettura colta piuttosto che tecnologica e pretenziosa? «Tutto nasce da un discorso emozionale. Prima di impegnarsi sugli aspetti tecnici o costruttivi, dobbiamo fare in modo che ogni individuo possa sentirsi sempre a casa anche in spazi in cui è, per forza di cose, assieme agli altri». Per l’architetto Merlini anche l’ambiente pubblico è un fatto privato. «È importante creare delle sensazioni attraverso lo spazio, creare relazioni che superino l’ambito individuale. Il contributo culturale dell’architettura si realizza nella ricerca di un’atmosfera pubblica attraverso particolari forme e co-
LA TERZA DIMENSIONE DELL’ARCHITETTURA
In basso, Lucio Merlini dell’omonimo studio di progettazione architettonica di Villafranca (VR). A sinistra, interno di un’abitazione privata; in alto, interno della nuova biblioteca di Villafranca. Nella pagina precedente, in alto, prospetto di un negozio di arredamento; in basso, parte del team dello studio Merlini a lavoro www.studiomerlini.com
lori che favoriscano l’interazione tra individui e tra gli spazi». Nel progetto della nuova biblioteca di Villafranca, ad esempio, «la luce scende dall’alto attraverso un grande cono rovesciato. La contrapposizione di materiali, le linee di tensione e i cavi che sostengono l’elemento conico sospeso nel vuoto si trasformano idealmente in una finestra verso il cielo. La sensazione che ne deriva permette quindi di uscire dalla realtà interna per entrare nello spazio esterno, più mentale, emozionale». I diversi livelli cognitivi che consentono di creare e usufruire di un oggetto architettonico si concentrano nella fase ideativa. «Nel primo schizzo c’è già il centro del progetto – afferma Merlini –. C’è lo spirito dell’idea da affinare, il sistema costruttivo, la volumetria. Tutto prende forma se si individua la giusta relazione tra lo spazio e l’uomo». Occorre estrapolare tranche di realtà e individuarne la più profonda necessità di benessere, universalmente inteso. «Perciò prediligo lo spazio fluido che si dilata, entra dentro altre situazioni e ambienti, espande l’individualità nel suo rapporto con l’intorno. Colgo determinati effetti prospettici camminando, muovendomi all’interno di situazioni ambientali che sono già nella realtà per percepire fino in fondo la tattilità degli oggetti e intuirne l’essenza».
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>volumi sinuosi ispir ano pr o getti dinamici Arredamento, progettazione urbana, realizzazione e trasformazione di architetture residenziali. Le costanti sono le linee sinuose e una particolare attenzione al luogo in cui il progetto si inserisce. L’approccio dell'architetto Pier Paolo Soldano di Eugenia Campo di Costa
«Bisogna “annusare” il luogo per inserire il nuovo progetto nel tessuto preesistente. Attenzione al contesto, innanzitutto. E alla funzione che l’architettura dovrà assolvere all’interno del luogo in cui sorge. Perché deve sapersi coniugare perfettamente con ciò che la circonda e sapersi armonizzare con l’ambiente in cui è immersa». Sono parole dell’architetto Pier Paolo Soldano che ha mosso i primi passi nell’ambito dell’arredamento, perché «le opere di arredo consentono un’immediata verifica del proprio prodotto». Poi la sua attività si è ampliata con la realizzazione di edifici residenziali, la trasformazione di villette e la progettazione urbana. Ma è il settore dell’arredamento che gli ha consentito di effettuare un percorso di analisi dell'abitare. Cosa significa sviluppo artigianale e quali tecniche e materiali si prediligono in questo approccio? «Lo "sviluppo artigianale" consiste nel seguire il lavoro
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passo passo, dall'inizio della progettazione all'esecuzione del dettaglio costruttivo. In questo modo, insieme ai miei collaboratori riesco a garantire un'elevata qualità all'opera finita, sia che si tratti di un progetto urbano che di un dettaglio d'arredo. Ogni mia architettura non nasce da un'idea pre-concetta, bensì da un'attenta analisi del contesto e della funzione che essa deve assol-
RESIDENZIALE
In apertura, in alto edificio residenziale a Trieste in collaborazione con l'architetto Alessandra Belleli e, sotto, uffici finanziari a Mestre. In questa pagina, sopra trasformazione di edificio unifamiliare a Udine e, a sinistra, prima dell’intervento. A destra, l’architetto Pier Paolo Soldano. Lo studio ha sede a Trieste www.studioarchitetturasoldano.it
vere. Utilizzo materiali come acciaio, reti metalliche e vetro. Nell’ambito delle costruzioni private, in cui prevale l'aspetto intimo e familiare, tendo a sfruttare materiali caldi e naturali, come legno, pietra ed eventualmente tessuti». Si possono individuare delle costanti nel suo lavoro? «Un segno sinuoso è sempre presente nei miei lavori, sia per quanto riguarda l'arredamento, sia per la parte architettonica. La progettazione si concentra però soprattutto sulla composizione volumetrica e la spazialità interna. La distribuzione deve essere razionale e funzionale e amo vedere i volumi arricchirsi di texture grazie alla scelta di superfici eloquenti che sottolineano la dinamicità del progetto». Su quali parametri si è fondata la trasformazione della villa unifamiliare? «Nella villa di Udine, costruita negli anni '60, ho ricom-
posto la facciata e ridistribuito gli spazi interni. I nuovi volumi sono stati sottolineati dai materiali, come ad esempio il legno per il rivestimento dell'ampliamento della zona giorno. Negli interni sono stati introdotti tutti i nuovi sistemi di domotica e di risparmio energetico». Quali obiettivi si è invece posto nella realizzazione degli uffici finanziari di Mestre? «L'intervento sull'edificio di Mestre concerneva la realizzazione di uffici finanziari riadattando i “contenitori” di alcuni vecchi silos vincolati dalla Soprintendenza. Con la collaborazione di quest'ultima, abbiamo recuperato le capriate in legno e le strutture murarie esterne e abbiamo inserito le aree lavoro in open space, studiando spazi, funzioni e percorsi. Questi nuovi interventi, realizzati in acciaio vetro e resina, hanno una loro unità di linguaggio e dialogano con la parte preesistente, che resta sempre leggibile».
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Il termovalorizzatore di Brescia; a destra, la sala controllo Ferrovianord Milano a Saronno; in basso, gli architetti Ameri, Massimo con i figli Elena e Stefano
>ar c hitettur a e inge gneria un dialo go a per to La progettazione industriale troppo spesso è soggetta ad errori di valutazione. L’interesse per gli aspetti funzionali e una nuova sensibilità estetica, rappresentano il traguardo culturale che architettura e ingegneria devono raggiungere. L’opinione di Massimo Ameri di Simona Langone
La realizzazione di un’opera di architettura industriale è un intervento che coinvolge varie competenze, che spaziano dall’architettura a tutti gli indirizzi dell’ingegneria. «Di fatto la realizzazione di un progetto - sostiene l’architetto Massimo Ameri -, vede l’emergere di molteplici questioni riguardo agli aspetti tecnici, quindi strutturali, acustici, illuminotecnici, di impatto paesaggistico, oltre che architettonici. Tutte le diverse figure tecniche sono coinvolte all’unisono con l’obbiettivo di trovare un linguaggio comune codificato in modo da integrare le necessarie competenze». Quando si affronta la progettazione architettonica di una tipologia costruttiva quale l’impianto industriale è necessario superare il luogo comune secondo cui il
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principio della funzionalità va a discapito dell’aspetto estetico. Si tratta ora di dare corretta interpretazione alla parola funzionale, comprendendo nelle funzioni svolte non solo quelle meccaniche, ma anche quelle estetiche e simboliche. Compito del progettista sarà quindi quello di individuare quali siano queste funzioni e affidare ad ognuna il proprio valore. «Il valore estetico che assume l’impianto industriale risulta strettamente connesso a valutazioni in merito allo studio di impatto ambientale – interviene Ameri -. La progettazione architettonica non può prescindere infatti da considerazioni sull’implicazione paesaggistica dovuta all’inserimento della struttura nel contesto ambientale esistente». Lo studio di impatto paesaggistico, per
SALE CONTROLLO
LE MODERNE RIFLESSIONI TENDONO A SUPERARE IL LUOGO COMUNE SECONDO IL QUALE IL PRINCIPIO DELLA FUNZIONALITÀ VA A DISCAPITO DELL’ASPETTO ESTETICO. BISOGNA DARE UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE ALLA PAROLA FUNZIONALE
questo genere di costruzioni, risulta necessario anche in considerazione del fatto che, da diversi anni, gli enti preposti sono chiamati a verificare il risultato degli interventi, i quali possono modificare il paesaggio in misura più o meno importante. «Il bagaglio culturale e la sensibilità estetica propria della formazione dell’architetto rappresentano un prezioso supporto offerto in fase di progettazione che contribuisce a ridurre l’impatto della costruzione in oggetto nel paesaggio armonizzandone l’aspetto compositivo e adottando le tecniche proprie della mitigazione». La stessa attenzione riposta sull’architettura degli impianti industriali va rivolta al “main brain” dell’impianto stesso. La funzione di gestione del processo industriale rappresenta
infatti una porzione significativa dell’intero complesso industriale. «L’aspetto gestionale dell’intero complesso industriale è rappresentato dalla sala controllo che ospita tutte le apparecchiature di controllo e gestione dei processi – specifica Ameri -. L'intervento progettuale deve interessare non solo le apparecchiature con cui si interfaccia in maniera più diretta l'operatore e la disposizione degli arredi, ma più in generale deve intervenire affinché le condizioni ambientali del posto di lavoro risultino idonee allo svolgimento delle funzioni che nella sala vengono espletate». In concreto si deve intervenire, quindi, sulla gestione dell'illuminazione, sull'impianto di climatizzazione, sul controllo della rumorosità e sui parametri di ergonomicità degli arredi.
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SPAZI CONTEMPORANEI
>spazi commer ciali, luo ghi da vi v er e L’architettura commerciale contemporanea si sta evolvendo per incontrare le esigenze di maggiore fruibilità espresse dal pubblico. In base al concetto secondo il quale un mercato, oggi, è sempre più simile a una piazza, Pierandrea Ferrando illustra le nuove linee guida della progettazione di Ezio Petrillo
Come può un tocco di bellezza essere decisivo per rilanciare l’economia e le attività produttive? L’architettura per il commercio e per i mercati risponde precisamente a questa domanda. Identità e aggregazione sociale. Queste devono essere le linee guida di chi progetta strutture adibite a spazi commerciali. L’architetto Pierandrea Ferrando, che opera da anni insieme ad Ascom-Confcommercio di Genova nell’ambito della riqualificazione di strutture pubbliche, ci spiega evoluzioni, filosofie e raggi d’azione della progettazione dei giorni nostri. Nella società contemporanea sono cambiati i luoghi di aggregazione. Dalle piazze ai centri commerciali. Questo aspetto come ha influito sull’architettura?Casa significa in concreto progettare la trasformazione? «L’architettura deve potersi rappresentare in pochi elementi caratterizzanti, per essere in grado poi, di accettare la trasformazione e l’adattamento di parti di sé al divenire di nuove necessità funzionali. Per fare un esempio concreto, nel lavoro per il mercato coperto di Piazza Romagnosi, a Genova, mi sono preoccupato di far combaciare la bellezza dell’opera d’arte con esigenze puramente commerciali. In questo contesto l’architettura del mercato Sopra, la nuova sala coperta di Piazza Piccapietra a Genova e il mercato coperto di Piazza Romagnosi. Sotto, un nuovo palo di illuminazione nella riqualificazione di Via Bocca, nel comune di Arenzano, progettata dall’architetto Ferrando e realizzata dall’azienda illuminotecnica EWO
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si propone di celebrare lo spazio collettivo con la costruzione di una grande sala in vetro e ferro, dove la decorazione è nella geometria dello spazio e nel disegno degli elementi strutturali. La trasparenza delle pareti fa si che il contesto urbano, formato dalle palazzate circostanti, diventi la scenografia della sala . Riqualificazione e rilancio per le attività produttive. Quale opera, secondo lei è riuscita ad unire questi temi? «Il padiglione per la copertura della piazza Piccapietra a Genova, è un esempio interessante di trasformazione della copertura di un parcheggio interrato in piazza coperta. L’area ha una superficie lorda di 5000 mq, e il progetto prevede di coprirne 2800 mq. Lo spazio può diventare centro di gravitazione e di aggregazione sociale commerciale per il centro cittadino, trovandosi in una zona strategica del tessuto connettivo urbano ». Interventi sull’arredo urbano coincidono spesso con una riqualificazione commerciale dell’area. «Progettare una riqualificazione di una semplice via, vuol dire attuare un recupero funzionale e ambientale di un’intera zona. Lavorando con il Comune di Arenzano, mi sono occupato della trasformazione di via Bocca, da asse di attraversamento a spazio pedonale pubblico. L’opera dal momento della sua realizzazione è andata via via arricchendosi di nuove attività commerciali, animandosi come spazio di aggregazione e assumendo i caratteri di una vera e propria piazza pubblica allungata».
CONFORT E DESIGN
>natur almente er gonomica Nella realizzazione di sedute per ufficio è fondamentale la corretta postura dell’utente, insieme al design. Un design che deve essere sinonimo, non solo di stile, ma anche di benessere. Pietro Lovato rivela le peculiarità della produzione firmata Moving e gli obiettivi del “Progetto Benessere” di Lucrezia Gennari
Realizzare sedute sempre più ergonomiche. Ma anche informare l’utente finale fornendogli le indicazioni necessarie all’uso corretto della seduta ergonomica, in modo che possa trarne il massimo beneficio, evitando l’insorgere di eventuali problemi derivanti da un uso non corretto della sedia. Sono gli obiettivi del “Progetto Benessere”, una ricerca che si svolge all’interno di realtà aziendali di vario tipo, e vede impegnata in prima linea l’azienda Moving di Trissino. «Il “Progetto Benessere” deriva dal nostro costante impegno in termini di comfort ed ergonomia - spiega Pietro Lovato, titolare di Moving -. L’uso corretto di una seduta ergonomica consente di ottenere diversi benefici in termini di salute e benessere personali. Non bisogna dimenticare che regolare correttamente l’altezza della seduta, la tensione del meccanismo e il supporto lombare sono semplici accorgimenti che possono aiutare a ottenere una postura corretta, scongiurando eventuali disturbi nel medio e
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Una sedia Moving e, in basso, l’analisi della postura tramite l’apparecchiatura Xsensor www.moving.vi.it
lungo periodo». Le sedute Moving hanno raggiunto elevati livelli di ergonomia e sfruttano avanzate soluzioni tecnologiche. «Tramite l’utilizzo dell’apparecchiatura Xsensor Pressure Imaging e con la collaborazione dei tecnici Catas – continua Pietro Lovato - è stato possibile rilevare, per ogni famiglia di sedute Moving, i dati relativi alla distribuzione di pressione del peso corporeo sulla superficie d’appoggio. Dall’analisi condotta sui dati raccolti e dai relativi grafici è possibile constatare come l’omogenea distribuzione del peso su sedile e schienale corrispondano a una corretta postura del soggetto seduto». Nata nel 1980, Moving è oggi leader internazionale nella realizzazione di sedute per l’ufficio e l’home office e si distingue per la continua ricerca di nuove soluzioni capaci di anticipare le esigenze del mercato e per l’attenzione nel coniugare comfort e praticità, che diventano i segni distintivi delle proposte dell’azienda e il cuore della sua crescita. Il brand Moving è testimonial del Made in Italy nel mondo, sintesi di design, comfort e benessere. Le sedute Moving sono realizzate con materiali di altissima qualità, lavorati nel pieno rispetto dell’ambiente e con procedure certificate ISO 14001, ISO 9001 e OHSAS 18001. É la prima azienda produttrice di sedute da ufficio in Italia ad aver ottenuto il Catas Quality Award, riconoscimento dell’istituto di ricerca del Catas che certifica l’ergonomia, la sicurezza e la resistenza delle sedute. Inoltre ha conseguito la certificazione tedesca TÜV per il rispetto delle più importanti e diffuse direttive europee.
>l’ar c hitettur a visionaria «Dove più l’immaginazione riesce a farsi visionaria, lì scelgo di andare». Sarà per questo che le foto di Luca Campigotto sembrano voler prendere vita da un momento all’altro per raccontarci una storia o per catapultarci all’interno di un set di un film d’avventura o noir di Nike Giurlani
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FOTOGRAFIA
In apertura “New York City, 2004”; nella pagina seguente “Sanaa, Yemen, 2006” e il fotografo Luca Campigotto
Non gli piace essere definito fotografo “di” architettura, perché quello che lo affascina «è lo spazio in generale, la percezione complessiva che si ha di un luogo». Tra i soggetti che il fotografo Luca Campigotto predilige ci sono, non a caso, le città che spesso gli parlano attraverso i topos accumulati tra film, letteratura e fotografie. Il cinema è la sua principale fonte d’ispirazione e il suo obiettivo si trasforma di volta in volta nella sua «personale
macchina del tempo», come fa subito notare il fotografo. «New York è il mio mondo d’immaginazione per eccellenza, dalla Gotham City dei fumetti ai polizieschi di serie B. La prima volta che ho fotografato Chicago l’ho fatto in bianconero, pensando all’atmosfera degli anni Venti. Cercando nella memoria enormi auto nere, zeppe di gangster che sgommano sotto i binari di quel treno che, a cinque metri di altezza, lambisce gli edifici bellissimi del
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Loop – prosegue il fotografo – come in un vecchio gioco, o in un libro di Raymond Chandler». A Venezia, che è la sua città, «ho lavorato avendo in mente le ricostruzioni storiche di Fernand Braudel e Frederic Lane, libri di storia che sono veri e propri film in costume. Angkor, in Cambogia, con i templi intrappolati dalla giungla è una perfetta location da Indiana Jones. Le metropoli come Tokyo di notte ti trasportano naturalmente in un set alla Blade Runner. Dove più l’immaginazione riesce a farsi visionaria, lì scelgo di andare». Da tempo ha in mente una nuova meta: il Kenya. «Per tentare di ricostruire ai miei occhi le atmosfere raccontate da Hemingway, caccia grossa, bevute di gin liscio e pettegolezzi sugli scrittori dell’epoca». Lei è molto affascinato dall’aspetto decadente dei luoghi, per quale motivo? «Sono attirato dalla bellezza dei paesaggi selvaggi, così come amo l’aspetto “eroico” dei luoghi costruiti, quel senso di saper affrontare il tempo che hanno certi edifici. Ricordo Molino Stucky, a Venezia, che ho fotografato prima che fosse recuperato. Una scenografia a cielo aperto, come aggirarsi in un’incisione di Piranesi a dimensioni naturali. Non è tanto la decadenza in sé ad at-
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trarmi, quanto il senso della Storia che certi luoghi sprigionano. I libri che ho realizzato su Venezia e Il Cairo cercano proprio la patina del tempo, l’accumulo degli eventi. Le immagini si nutrono della stratificazione, anche in senso urbanistico, degli edifici e dei materiali». Alla luce della sua esperienza come si è trasformato il paesaggio urbano in questi ultimi anni? «Ovunque, in Italia i centri storici sono pieni di edifici stupendi, densi di storia e memoria. È come se quello che è rimasto fosse una grande lezione di amore, una dimostrazione di cura e rispetto per i luoghi. Non trovo si possa dire lo stesso del costruire dei giorni nostri. Continuamente, m’imbatto in nuovi insediamenti senza identità. Luoghi senza anima, pensati in serie, prefabbricati. Con costruzioni che spesso citano o copiano malamente le opere di qualche celebre architetto». Come le nuove tendenze nel campo dell’architettura e del design possono dialogare con la storia e la cultura di
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M’INTERESSA LO SPAZIO IN GENERALE, LA PERCEZIONE COMPLESSIVA CHE SI HA DI UN LUOGO. È RARO CHE SIA UN SINGOLO EDIFICIO AD ATTRARMI. IL FASCINO È DATO DALL’INSIEME: LA STRADA, LE AUTOMOBILI, I CARTELLI PUBBLICITARI, LE LUCI. RITORNA L’IDEA DEL SET CINEMATOGRAFICO AL QUALE MI RIFACCIO SEMPRE una città? «Io credo sia sempre giusto osare un poco nelle scelte. Certo, l’unico metro possibile credo resti quello della qualità dell’oggetto. Costruire qualcosa nel cuore di Venezia, per dirne una, non sarà mai facile. Josif Brodskij restò sconvolto la prima volta che vide la nuova sede della Cassa di Risparmio. Invece, il Gherkin, il famoso
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A sinistra “Venezia 1991”; sotto “Londra, 2006”
“cetriolo” di Norman Foster a Londra, svetta come un’astronave caduta per sbaglio nel punto giusto. Non intendo paragonare per forza due situazioni così lontane, ma credo che, non sia tanto importante quanto il segno sia dirompente, ma quanto il disegno debba essere assolutamente compiuto ed elegante». Lei ha dichiarato di non essere un fotografo di architettura, quanto piuttosto di luoghi dove l’architettura spesso la fa da padrona. Quali sono le città che ha fotografato dove questa gioca un ruolo così importante? «Venezia, Roma, Il Cairo, New York, Chicago, Tokyo, fino a Calcutta e Sanaa, lo spazio di queste città è costituito dal tessuto fittissimo e specifico delle loro architetture. Palazzi d’epoca, grattacieli o edifici poveri che siano, qui sono le architetture a riempirti gli occhi, ad accoglierti e orientarti, a regolare la luce. Quello che intendo è che m’interessa lo spazio in generale, la percezione complessiva che si ha di un luogo. È raro che
sia un singolo edificio ad attrarmi. Il fascino è dato dall’insieme: la strada, le automobili, i cartelli pubblicitari, le luci. Ritorna l’idea del set cinematografico al quale mi rifaccio sempre». Ritiene che l’architettura abbia perso il legame con il territorio e si sia spinta verso l’estetizzazione della realtà? «È un tema troppo vasto per una risposta a senso unico. In generale, mi pare che in Italia l’esito dei recuperi di tanti edifici storici sia più convincente della maggior parte delle nuove architetture. D’altra parte non sono architetto, né urbanista. Né fotografo con scopi di documentazione o denuncia. La coerenza di un tessuto urbano mi colpisce e m’interessa fino a un certo punto. Riconosco che, mentre dei centri storici e dei luoghi del passato mi affascina proprio la complicazione degli spazi, il senso quasi di caos scenico, nelle opere contemporanee riesco solo a esprimere un giudizio prettamente estetico».
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>in costante bilico tra esperienza e ricerca del nuovo La sua esperienza di designer prese forma grazie a Dino Gavina, dando vita a esempi di progettazione innovativi che hanno segnato per sempre il design del mobile a livello internazionale. Tobia Scarpa racconta il suo rapporto con l’industriale bolognese di Nicolò Mulas Marcello
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DINO GAVINA IL SOVVERSIVO
A destra, Tobia Scarpa; in alto la lampada Biagio dalla collezione Flos di Dino Gavina , 1968
Uno degli architetti e designer più importanti tra i sodalizi artistici intrecciati da Dino Gavina è sicuramente Tobia Scarpa. Figlio del grande Carlo Scarpa, lavorò parallelamente al padre con l’industriale bolognese già da giovanissimo, nel 1960, ancor prima di laurearsi in architettura, disegnando oggetti come il letto “Vanessa”e il divano “Bastiano”. I modelli pensati e realizzati in quel periodo lo accompagneranno spesso nei suoi lavori successivi. Alcune sue opere hanno contrassegnato un rinnovamento radicale nella progettazione a livello mondiale. La produzione di Tobia Scarpa attraversa il tempo seguendo esperienze diverse unendo passato e presente, sostenendo che bisogna tornare all’etica, abbandonando l’inutile e l’effimero.
Come ha conosciuto Dino Gavina e qual è stato il suo rapporto con lui? «L’ho conosciuto nel 1960 alla Triennale di Milano. Era molto amico dei Castiglioni, in modo particolare del “Popo”, che con Achille seguiva l’allestimento del settore nel quale noi offrivamo a Fredi Drugman quel poco che sapevamo fare allora, cioè disegnare piccole cose. Lì è avvenuto l’incontro. Già allora era un personaggio, più ancora offriva ventate di energia. In quell’occasione mi sfidò a disegnargli un divano». Cosa vi accomunava e cosa vi divideva? «Ci ha diviso la cronica mancanza di danaro, ci univa in profondità il desiderio di poter realizzare il sogno di un design moderno, pulito, etico. Nel tempo che abbiamo lavorato assieme l’intento era comune ed era
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CI HA DIVISO LA CRONICA MANCANZA DI DANARO, CI UNIVA IN PROFONDITÀ IL DESIDERIO DI POTER REALIZZARE IL SOGNO DI UN DESIGN MODERNO PULITO ETICO In alto a sinistra, la lampada Foglio dalla collezione Flos di Dino Gavina, 1966; in basso il divano Bastiano, 1960; a destra la poltrona Pigreco, 1959
rimasto, e lo è ancora, per me immutato». Su cosa si basava il fermento di creatività dell’inizio degli anni 60 che ha portato alla realizzazione dei suoi progetti scelti da Gavina come il letto “Vanessa” o il divano “Bastiano”? «L’intento, magari non così evidente come mi appare ora, era di offrire una risposta coerente ed educata, ma anche di qualità, al mondo dell’arredo presente nei negozi di allora in Italia. Gli oggetti che Dino Gavina realizzava non erano solo pensati da noi, ma anche da illustri architetti, Gardella, Caccia Dominioni, Breuer, Takahama, e più in là nel tempo da Duchamp, Man Ray, Carlo Scarpa. Era il suo modo di esprimere gli indirizzi vitali per tutto il settore italiano. Troppo presto e troppo ignoranti per capire. Orizzonti perduti».
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Quali sono state le intuizioni più importanti di Dino Gavina? «A mio avviso l’intuizione, o meglio il suo modo di essere, è stata quella di affondare nel sentimento provocato dalla perfezione della bellezza con la finalità di ottenere l’orientamento come bussola assoluta del suo viaggiare nella vita. Questa certezza conquistata lo rendeva assolutamente intollerante verso la grossolanità e l’ignoranza». Come si è evoluto secondo lei l’Italian style del mobile negli anni? «Non è necessario che io spieghi basta guardarsi attorno. Il guadagno fine a sé stesso ha prodotto parole vuote come appunto “Italian style”, dove di italiano ci sono i nomi dei famosi designer stranieri».
>il design incontr a l’ar te contempor anea Le scelte di Dino Gavina nel produrre gli oggetti disegnati dagli artisti che conosceva sono sempre state caratterizzate da un rigore razionale che proprio con la sua figura ha ritrovato vigore. Fu profetico nelle sue intuizioni o, come lo definisce Philippe Daverio, un “anarchico geniale” che ha sempre anticipato i tempi di Nicolò Mulas Marcello
In occasione di Arte Fiera a Bologna 2009, Philippe Daverio ha presentato assieme a Giorgio Celli la mostra su Dino Gavina che si aprirà il 23 settembre al Mambo. L’esposizione s’inserisce in un anno di programmazione del museo che guarda alla contaminazione tra arti visive, cinema, design, musica e arti performative e ne valorizza il ruolo nel distretto culturale della Mani-
fattura delle arti, tra i pochi esempi a livello internazionale di area votata alla sperimentazione che riunisce realtà dedicate alla ricerca e all’innovazione culturale come il museo stesso, la Cineteca di Bologna, gli spazi laboratorio dei Dipartimenti Universitari del Dms, la Facoltà di Scienze della comunicazione e numerose associazioni. La poliedrica figura dell’indu-
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DINO GAVINA IL SOVVERSIVO Philippe Daverio
Nella foto, Achille Castiglioni, Dino Gavina, Pier Giacomo Castiglioni, con la poltrona “Sanluca” da loro progettata, fotografati lungo il portico di San Luca a Bologna, 1961. Foto di Mauro Masera
striale bolognese che sul suo biglietto da visita si autodefiniva semplicemente “sovversivo”, verrà presentata raccontando i suoi rapporti con le persone in un continuo scambio di idee tra arte, design, architettura e tutto il mondo della cultura. Estetica e funzione sono i due principi costitutivi del disegno industriale e proprio su questo Gavina ha improntato il suo interesse. L’intuizione di Gavina è stata quella di mettere in evidenza che ci sono due idee del moderno. Con la parola “moderno” si è legittimato sia l'orrido che il sublime. Gavina ha abbracciato la possibilità che il sublime potesse assumere sembianze moderne, razionalistiche. La più grande intuizione di Gavina è stata quindi quella legata al destino dell'estetica. Sue, infatti, sono le equazioni: «Razionalista uguale moderno; astratto uguale moderno; razionalista uguale ad astratto». Attraverso il design con Gavina ritorna a prevalere il ruolo della committenza nello stimolo degli artisti. E questo ha consentito a Gavina di far scelte essenziali e perfette, caratterizzate da rigore e sobrietà, gli stessi valori che hanno caratterizzato tutta la sua vita. Ci fa un breve ritratto di Gavina? «Era un editore anarchico geniale. Lo conoscevo, era simpatico anche se era un anarcoide contro il mondo intero, ma con la capacità di indovinare ed individuare». Cosa ha rappresentato secondo lei Gavina per il design italiano? «Come designer non ha mai progettato. Come editore è andato a individuare un’area del razionalismo che è
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ERA UN EDITORE ANARCHICO GENIALE CON LA CAPACITÀ DI INDOVINARE E INDIVIDUARE. UN MERCANTE D’ARTE CHE HA ANTICIPATO SEMPRE I TEMPI
andata dimenticata nel dopoguerra e gli ha ridato vigore. Poi in fase successiva è passato a sostenere delle aree più surrealiste. È stato come un mercante d’arte che ha anticipato sempre i tempi». Qual è il rapporto tra design e arte contemporanea? «È un rapporto ambiguo, nel senso che una volta nel design i progettisti erano in dialogo con le arti contemporanee e ne venivano influenzati, adesso invece si pongono come artisti della contemporaneità ma la questione è molto equivoca. Non si sa se sia vero».
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>la nascita dell’era post razionale del design Ci sono oggetti da raccogliere per come sono e la bravura del progettista o del designer è proprio quella di saper vedere l’idea che è sotto gli occhi e che è già stata fatta. Le intuizioni di Dino Gavina saranno raccolte in una mostra al Museo di Arte Moderna di Bologna. Ne parlano i curatori della mostra Daniele Vincenzi e Elena Brigi di Nicolò Mulas Marcello
Foto di Margherita Cecchini
Quando Dino Gavina porgeva il suo biglietto da visita ai suoi interlocutori, nel suo sorriso pregustava sicuramente lo stupore di chi leggendolo avrebbe colto il fine provocatorio che lo distingueva. Sul biglietto non c’erano indirizzi o numeri di telefono ma la semplice scritta: “Dino Gavina, sovversivo”. La figura di Gavina per il design italiano è stata fondamentale. Nel suo ruolo di industriale ha sempre saputo cogliere il talento altrui e portarlo ad alti livelli, facendo diventare designer anche chi non si era mai confrontato con questo mondo. Dal 23 settembre al 12 dicembre 2010 al Mambo di Bologna sarà allestita una mostra a lui dedicata che racconterà la sua avventura intellettuale e imprenditoriale attraverso le figure che con lui hanno condiviso il cammino nel mondo dell’arte e del design. Come sottolineano gli architetti Daniele Vincenzi e Elena Brigi, curatori dell’ esposizione: «La mostra sarà soprattutto una lettura del suo lavoro, della sua attività e della sua vita attraverso le figure che con lui hanno lavorato, in un rapporto che non è solo quello dell’imprenditore che chiama un designer perché in voga, ma grazie a un legame che va oltre questa esigenza di efficienza del rapporto pro-
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duttivo». Quale era la concezione di Gavina nell’ambito del design del mobile? Elena Brigi: «La sua era una figura complessa e poliedrica perché non ha mai disegnato un pezzo, ma ha tenuto a battesimo tanti oggetti disegnati da grandi designer e importanti architetti italiani e stranieri. Allo stesso tempo non era neanche un industriale come gli altri. Una delle cose più importanti che ha fatto è stata quella di riuscire a spostare le coordinate del design da Milano a Bologna. Da semplice figura che si occupava del settore del mobile, realizzando oggetti disegnati da giovani architetti bolognesi, divenne uno dei più promettenti industriali italiani, inserendosi non più in un quadro nazionale, ma internazionale». Le raccolte più importanti di Gavina sono “Ultrarazionale”, “Ultramobile” e “Metamobile”. Quali sono le innovazioni che le intuizioni di Gavina hanno portato nel mondo del mobile italiano? Daniele Vincenzi: «Queste sono tutte operazioni tra loro uniformi e simili, condotte con una coerenza e un rigore estremo. Ciò faceva parte anche del suo modo di pensare
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UNA DELLE COSE PIÙ IMPORTANTI CHE GAVINA HA FATTO È STATA QUELLA DI RIUSCIRE A SPOSTARE LE COORDINATE DEL DESIGN DA MILANO A BOLOGNA
In apertura, Dino Gavina nella sua casa a Bologna; in alto a sinistra, a partire da sinistra: Pier Giacomo Castiglioni, Carlo Scarpa, Achille Castiglioni, Dino Gavima, nel negozio Gavina a Milano (progettato dai fratelli Castiglioni), 1961; subito in basso, a partire da sinistra: Marcel Breuer, Maria Simoncini, Kazuhide Takahama, Dino Gavina, nel negozio a Milano (progettato dai fratelli Castiglioni), 1964; nella foto grande, la collezione Ultramobile, 1971
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e di tradurre le idee in una certa produzione industriale pensata per essere seriale e adatta a un mercato non elitario. Gavina è stato un innovatore proprio perché ha dato valore a indirizzi progettuali legati alla produzione dell’industria e perché ha saputo valorizzare le intuizioni di professionisti molto diversi tra loro». E.B.: «Gavina cercò di ripensare il mobile sia dal punto di vista estetico che produttivo. “Ultramobile” fu una sorta di scandalo. In quella operazione c’erano oggetti come il Tavolo con zampe di uccello di Meret Oppenheim e Omaggio a Andy Warhol, colui che ha dato vita all’arte del multiplo. In un momento in cui il design italiano ha conosciuto figure che hanno cercato di portare un’anima ribelle, quella di Gavina è stata sempre profetica». Gli incontri artistici di Gavina con i grandi nomi come Kazuhide Takahama, i fratelli Castiglioni, Lucio Fontana, Tobia Scarpa e Marcel Breuer hanno contribuito a modellare l’idea di design del mobile non solo italiana ma anche internazionale. Quale clima si respirava in quegli anni nel mondo intellettuale? D.V.: «Gavina viveva il mondo dell’arte in maniera contin-
gente a quella del suo lavoro. Non con la passione del collezionista, ma con una partecipazione strutturante, con l’impegno di pensare le cose, di avere obiettivi e creare un rapporto con le persone. C’era una forte compenetrazione tra tutto quello che era il fermento artistico di quegli anni rispetto ai campi della sua professione, dell’architettura e del design». E.B.: «In questo rapporto è singolare anche ricordare come nei suoi negozi ospitava mostre come quella di Duchamp a Roma. Anche il suo amore per la pittura del Duecento era molto forte così come quella per la letteratura. Gavina era molto amico di Schenoni, uno dei massimi studiosi di James Joyce con cui ha avuto un forte rapporto, arrivando perfino a sostenerlo moralmente». Quali iniziative si articoleranno attorno alla mostra? D.V.: «Ci sarà una serie di incontri per raccontare il rapporto di Gavina con le persone. L’importanza di queste amicizie verrà raccontata dai protagonisti. Abbiamo voluto testimoniare questo tessuto di scambio organizzando una rassegna di incontri a cui prenderanno parte coloro che lo hanno conosciuto».
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>la forza autonoma dell’o g getto Un ideale materico cui si giunge per sottrazione, non per addizione. Il tempo e la difficoltà come concetti sintesi del progettare design. Riccardo Blumer e Matteo Borghi raccontano la loro ricerca, esasperata, delle capacità fisiche dei materiali di Andrea Moscariello
A destra, Matteo Borghi e Riccardo Blumer. Sopra, il letto “Rem”
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L’IMMAGINARE E IL COSTRUIRE
«I nostri progetti sono figli di processi costruttivi, di capacità verificate sulle efficienze dei materiali e dei sistemi di costruzione, lavorazione e assemblaggio delle parti». Nel dialogo con Riccardo Blumer e Matteo Borghi viene a galla una cultura del design che fugge dalle trappole del panorama artistico moderno. Osservando le loro creazioni si avverte subito un senso di linearità, di pulito, di essenziale. Quasi un distacco voluto dalla confusione della vita di tutti i giorni. «Queste qualità in realtà non le sentiamo del tutto nostre. La confusione apparente credo sia figlia del distacco evidente tra l’immaginare e il costruire», sostiene Blumer. E, in effetti, riflettendo su questo “distacco”, non si può dar torto ai due. «Anche in architettura, osservando importanti pubblicazioni, i disegni a computer
sono ormai spacciati per costruito. Riteniamo questo, oltre che pericoloso, assolutamente noioso, viene esclusa la parte più bella e incredibile della creazione. La difficoltà è una parte essenziale del progetto ed essa non può che essere declinata con l’altro fondamentale elemento costruttivo, ovvero il tempo». Ma come? In un mondo in cui tutto deve essere rapido, congeniale, pragmatico, davvero il design rischia di divenire vittima di una deprecabile pigrizia? Bisogna riosservare i lavori dei due architetti per scovare la concretezza cui Blumer fa riferimento. E ha ragione. Ma qui si ribalta uno schema mentale piuttosto diffuso. «Pensiamo i nostri oggetti sia come arredo che come elementi autonomi. La forza dell’insieme è anche data dalle parti e, non avendo noi il controllo dell’ambiente, quando proget-
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Da sinistra, i progetti “Ghisa”, “Origami” ed “Entronauta”. Quest’ultimo è esposto nella collezione permanente del Moma di New York
tiamo design ci preoccupiamo esclusivamente della seconda caratteristica, ovvero della forza autonoma dell’oggetto». I due designer, a tal ragione, puntano a quella che definiscono “un’esasperazione delle capacità fisiche dei materiali”, cercando di togliere tutte le quantità non necessarie alla tenuta degli stessi. «Unendo questo sforzo alla tipologia di lavorazione e di costruzione dell’oggetto quasi sempre arriviamo a uno stadio in cui ci diciamo “non si può fare diversamente” – racconta Borghi –. Quando ciò accade è compiuta anche l’estetica». Queste, dunque, le leggi cui si ispirano. Paradossalmente, però, il tipo di materiale potrebbe anche non interessarli. È l’utilizzo della materia, a vincere. Che sia questa la filosofia da perseguire? Nel frattempo la sedia “Entronauta” è entrata
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a far parte della collezione permanente del Moma di New York. Blumer spiega come l’opera nasce e prende forma con un viaggio “su di sé”, un viaggio concepito per l’azienda Desalto, che ne ha intuito il potenziale costruttivo e industriale. «Non cerco il disegno, ma la costruzione della struttura, la sua efficienza e con essa metodi e tecniche apposite che ne permettano la costruzione industriale. Il disegno non è meno importante, ma è necessariamente successivo». Nel caso del progetto “Ghisa”, invece, Blumer e Borghi si sono avvalsi della collaborazione del giovane designer spagnolo Adrian Freire. Un sistema, non singole componenti, idealmente finito e adattabile a tutte le situazioni. E qua torna a galla il chiodo fisso del materico. Toccare e manipolare la ghisa ha un fascino di tipo
L’IMMAGINARE E IL COSTRUIRE
LA DIFFICOLTÀ È UNA PARTE ESSENZIALE DEL PROGETTO ED ESSA NON PUÒ CHE ESSERE DECLINATA CON L’ALTRO FONDAMENTALE ELEMENTO COSTRUTTIVO, OVVERO IL TEMPO storico, appunto ancestrale, di fuoco e di colata da fusione vulcanica espresso dal suo peso che la rende fortemente materica». Passando alla sedia “Origami”, la struttura reticolare evita l’utilizzo addizionale di elementi finiti tagliati. «La magia ottenuta è quella di una sedia leggerissima e resistentissima in un rapporto peso/potenza unico in cui il lavoro addizionale del saldare o del comporre i numerosi pezzi è ottenuto per sottrazione invece che per somma». E il tema del peso
si ripropone anche nel letto “Rem”. «Una sperimentazione che insegue la leggerezza come qualità principale del luogo-dormire – racconta Blumer –. Il lavoro è cominciato con una serie di esperimenti tecnici che ci hanno permesso poi di fare delle verifiche formali che queste tipologie strutturali offrono. In questa fase del lavoro abbiamo deciso di raccontare la leggerezza con la realizzazione di quattro travi-ponte reticolari rivestite con un tessuto elastico appositamente ideato da Flou. Così come delle bolle di sapone al contrario, il rivestimento disegna la tensione e la forza delle travi reticolari in un gioco di superfici disegnate naturalmente dalla geometria dei ponti. Il letto finito, escluso di materasso e biancheria, ha un peso simile a quello di una poltroncina domestica»
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>il dialo go necessario tr a cr eati vità e funzionalità Il made in Italy è un concetto complesso, che non può semplicemente far riferimento a una connotazione geografica, ma deve rappresentare il frutto di una storia, di una tradizione di dedizione e forti investimenti. E anche di reputazione. La visione di Alessandro Calligaris di Elena Ricci
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FORMA E FUNZIONE
Alessandro Calligaris, presidente del gruppo Calligaris; Alcune sedie della linea l’Eau, trasparenti leggere, colorate e di forte impatto visivo per il motivo di “acqua-onda” che caratterizza la scocca
Tra colori, trasparenze e materiali innovativi si gioca la partita del design italiano. Almeno per quanto riguarda la sedia. Un oggetto prima di tutto utile e funzionale, un elemento dedicato alla casa da vivere, che non può rinunciare al design. Un design ispirato a un concetto complesso, «che non è solo analisi della funzione e studio della forma, ma è un progetto che nasce a diretto contatto con i materiali, le tecnologie e la produzione». Un concetto irrinunciabile per Alessandro Calligaris che, nonostante il momento di difficoltà economica che ha investito tutto il settore dell’arre-
damento, incoraggia le aziende italiane ad investire «in tutti quei fattori che le hanno portate ad essere competitive nel mondo: la ricercatezza del design e dello stile, la progettazione e la tecnologia, il controllo e la garanzia di qualità, il servizio e l’assistenza al cliente». Perché il design è, sicuramente, uno dei veicoli principali di diffusione e promozione del made in Italy nel mondo, ma il “made in” non può e non deve essere il solo motivo di stimolo per le imprese a muoversi a livello internazionale, «il concetto – interviene senza mezze misure Calligaris – è molto più profondo
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ANTEPRIMA La nuove tendenze Calligaris giocano molto sulla trasparenza e la leggerezza, nonché sulla polivalenza d’uso. Famiglie di sedute come le nuove Congress, sono state progettate per soddisfare le più diverse esigenze della collettività, dalla casa al contract, dall’ufficio alle sale riunioni o d’attesa. Al Salone del Mobile saranno proposte due nuove sedute: la Parisienne e l’Eau. La prima è una sedia di memoria, rivista e reinterpretata, costituita da una monoscocca in policarbonato realizzata con un unico stampo a iniezione, una sedia caratterizzata da forme tonde prive di spigoli che rievocano lo stile morbido delle storiche sedie in legno. La seconda, l’Eau, è una sedia trasparente e leggera, colorata e di forte impatto visivo per il motivo di “acqua-onda” che caratterizza la sua scocca. Infatti, sulla parte posteriore, la scocca presenta delle caratteristiche onde concentriche simili a quelle dell’acqua, che dal centro della seduta si allargano verso l’esterno. Oltre a nuovi modelli di sedie in metallo/policarbonato, saranno presentate diverse sedie in legno come Sandy; una comoda poltroncina Nido e una nuova famiglia di tavoli Omnia: versatili e flessibili per misure e finiture, disponibili sia in essenza di legno che laccati con piano in vetro.
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di una semplice connotazione geografica, ma deve essere il frutto di una storia, di una tradizione di dedizione e forti investimenti. In questo contesto, il made in Italy non è da solo sinonimo di qualità, stile e bellezza. Quindi la vera garanzia di un prodotto è data dall’azienda e dal suo marchio, dalla storia imprenditoriale, da chi si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo nel rispetto delle regole e delle normative specifiche». E oggi l’investimento può essere disposto su più fronti, a cominciare dai giovani designer, proseguendo verso i materiali. I giovani, infatti, consentono nuove riflessioni, non solo a livello stilistico, ma anche e soprattutto a livello sostenibile e futuribile. In questa direzione è stato fortemente voluto da Calligaris il concorso
FORMA E FUNZIONE
A sinistra, un esempio della produzione in legno di Calligaris e sopra alcune sedie della linea Congress, adatte sia alla casa che all’ufficio
“Legno & Progetto”, nato nel 2007 e aperto a tutti, nasce come omaggio al legno, «al legno che ci accompagna da sempre, al legno come vita, fonte di energia, riparo, respiro del mondo, nonché ricerca di nuovi talenti». Progettare elementi in legno è prima di tutto una scelta d’amore per il design, perché questo materiale da sempre dialoga confidenzialmente con la creatività umana, insegna rigore, umiltà e ambizione; e proprio in base a questi principi la Calligaris ha fatto del legno un maestro a cui rivolgersi con attenzione, anche nel connubio con altri materiali quali metallo, plastica, vetro, cuoio. Qualcuno potrebbe obiettare che l’utilizzo di una materia nobile come il legno non sia una scelta che rispetta l’ambiente, in realtà l’azienda utilizza alberi provenienti da boschi e foreste in cui è
assicurato il rimboschimento immediato e, a garanzia di ciò, i suoi prodotti già dal 2006, sono certificati dal Forest Stewardship Council (Fsc), l’organismo che assicura la provenienza del legno da foreste protette e gestite in modo corretto e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, economici e sociali. La certificazione Fsc rappresenta oggettivamente un plus importante che ogni azienda dovrebbe offrire, in linea con quel principio etico che fa riferimento alla correttezza e alla trasparenza. «Ogni impresa, infatti, deve puntare inevitabilmente al rafforzamento del valore del proprio marchio, ma questo consolidamento si gioca – conclude Calligaris – anche sulla sua reputazione, specialmente in virtù delle numerose e complesse relazioni con l’ambiente esterno».
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>l’ele g anza della luce e lo spazio ar c hitettonico Misura, discrezione e dialogo. È su questi parametri compositivi che ogni fonte di luce deve interagire con l’architettura e i suoi accessori spaziali. Per esprimere appieno l’eleganza che distingue “le luci” di Fontana Arte. Carlo Guglielmi racconta le evoluzioni del lighting design di Adriana Zuccaro
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LIGHTING DESIGN Fontana Arte
In apertura, “Botree”, sistema di luci progettato dai designer Ferrara e Palladino. A fianco, Carlo Guglielmi, presidente e amministratore di Fontana Arte; sotto e nella pagina seguente due esempi di lampade da interno
Luci. Ombre. Atmosfere. Dettagli. I percorsi indetti dalla ricerca e dall’arte del design pongono le fonti luminose oltre “l‘energia” della funzione per identificarle quali elementi di arredo ed espressione di stile. Obiettivo del mondo del lighting design è creare una sintesi sempre nuova tra gli aspetti tecnologici e gli effetti meramente estetici di un “punto luce”. «La risposta alle esigenze tecniche deve essere accompagnata dall’eleganza formale quindi misura, discrezione e dialogo tra i componenti di un medesimo ambiente». L’incipit è di Carlo Guglielmi, presidente di Fontana Arte, azienda di respiro internazionale per la progettazione e la realizzazione di lampade d’alto design. Cosa rende uniche le lampade di Fontana Arte? «Nata nel 1932 da un progetto di Gio Ponti, Fontana Arte ha legato inizialmente la propria attività progettuale al vetro per evolversi poi verso l’utilizzo di altri materiali ad hoc. Gli apparecchi di illuminazione sono diventati oggetti sofisticati. Il nostro obiettivo è trovare delle soluzioni che accompagnino l’innovazione tecnologica con una grande eleganza formale. Per noi eleganza significa misura, discrezione, rapporto con
GLI APPARECCHI DI ILLUMINAZIONE SONO DIVENTATI OGGETTI SOFISTICATI. IL NOSTRO OBIETTIVO È TROVARE DELLE SOLUZIONI CHE ACCOMPAGNINO L’INNOVAZIONE TECNOLOGICA CON UNA GRANDE ELEGANZA FORMALE
altri oggetti che fanno parte di un locale in modo equilibrato e corretto». Che tipo di evoluzione ha subito il concetto di lighting design? «Oggi il mondo della progettazione illuminotecnica ha raggiunto un’importanza concettuale e operativa che prima non aveva. Sempre più i grandi architetti si avvalgono di lighting consultant che collaborano nella stesura del progetto architettonico. La luce è diventata importante come materiale nell’architettura d’oggi. Quando si parla di luce artificiale, il lighting designer ha infatti un ruolo di primo piano anche nel disegno
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degli apparecchi che devono accompagnare l’architettura». Quali sono i tratti peculiari che consentono di individuare le lampade d’alto design? «L’esperienza induce all’identificazione di un solido “trinomio” costituito dal vetro, da grandi nomi dell’architettura mondiale e da una certa eleganza formale dei nostri apparecchi. Oggi questo trinomio resiste, anche se per certi utilizzi non possiamo usare solo il vetro, ma tutti i materiali disponibili sul mercato».
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A chi vi rivolgete per disegnare le vostre lampade? «Lavoriamo con i grandi nomi dell’architettura internazionale che si dedicano al design ogni qual volta ritengono di dover realizzare un prodotto che può fare al caso loro. Analogamente, teniamo un atteggiamento di apertura anche verso quei giovani architetti che propongono lavori interessanti a cui diamo seguito con attività di ingegnerizzazione del prodotto. Chiediamo loro di essere coinvolti in modo preciso e costante».
A Londra è arrivato il mare. E nella classica tradizione della capitale più cool e trendy d’Europa, non poteva certo essere qualcosa di scontato. Al ristorante Olivomare, realizzato da Pierluigi Piu, le atmosfere marine sono, infatti, rese attraverso suggestioni pop e minimal di Nike Giurlani
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© photo Marco Alberto Desogus
>il mar e di Londr a dal sa por e pop
© photos Giorgio Dettori
RESTAURANT DESIGN Pierluigi Piu
In apertura uno scorcio della sala da pranzo principale; qui sopra la saletta da pranzo disposta sul retro, caratterizzata da una parete dal rilievo ondiforme; in basso a sinistra l’architetto Pierluigi Piu; nella pagina seguente veduta della zona bar. Il banco è interamente rivestito di Corian® bianco ghiaccio
Un ristorante caratterizzato da piatti a base di pesce è stato il punto di partenza. E fin qui niente di originale. Il risultato però è meno scontato. Anzi. Il progetto, realizzato dall’architetto Pierluigi Piu, per il ristorante Olivomare di Londra, è la riprova che arte, creatività e originalità, se ben dosati, possono dar vita a interessanti e suggestivi scenari. Tra pop e minimal, le atmosfere marine di Piu sono state ispirate al «lavoro dell’artista visionario Maurits Escher e alle sue opere meno conosciute d’ispirazione animaliere». E per questo progetto, l’architetto, è stato anche insignito del Russian International Architectural Award 2007. Lei ha curato il design del ristorante Olivomare situato a
Belgravia, una delle zone più esclusive della capitale inglese. Qual è stata la filosofia alla base del suo progetto? «Olivomare è un ristorante che propone la cucina del mare e il suo proprietario viene da un’isola del Mediterraneo, proprio come me. Per queste ragioni ho voluto evocare il mondo marino, stando però ben attento a evitare effetti scenografici scontati e a buon mercato. Il mio obiettivo era definire un interno contemporaneo, con una strizzata d’occhio alla pop art. Desideravo parlare dell’universo mare ai suoi frequentatori, ma volevo farlo usando un linguaggio fresco e al passo con i tempi. Ho cercato di essere cool e ironico, sofisticato e semplice al tempo stesso. Il mio tentativo è stato quello di confezionare un ristorante
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di mare che non “odorasse” di pesce, ma che ne avesse, piuttosto, il gusto, calandolo in un contenitore che fosse accattivante e insieme rilassante». Come mai ha scelto il bianco come colore predominante? «L’uso del bianco è stato per me strumentale: da una parte non volevo cadere nell’ovvio, e quindi, nel prevedibile utilizzo del blu. Dall’altra parte, questo mare indifferenziato di bianco, che travolge e ricopre ogni cosa, dal pavimento in resina industriale alle sedie e ai tavoli, dal banco del bar in candido Corian allo scultoreo rivestimento ondiforme della parete di fondo, mi è servito per legare i pochi e significativi elementi, nei quali ho introdotto il colore, ma anche da fondale neutro che mi aiutasse a esaltarli. In altre parole, ho cercato di enfatizzare gli elementi protagonisti della scena, contrapponendo loro un background sufficientemente discreto, anche se ben definito e tale da poter essere apprezzato in un secondo e successivo livello di lettura». Nella sala principale, il tema del mare viene affidato al simbolismo grafico di un branco di pesci. Qual è stata la tecnica che ha utilizzato per la realizzazione? «Oltre al branco dei pesci, anche la vetrata a losanghe, che evoca le reti dei pescatori, e le luci a soffitto, che ricordano le luminescenti anemoni di mare, contribuiscono a ricreare l’atmosfera marina. Per la parete decorata avevo in mente un pattern ripetitivo, ma avevo bisogno di qualcosa che
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fosse coerente con il tema gastronomico del ristorante e che avesse un riferimento culturale di un certo lignaggio. La mia scelta è ricaduta subito sul lavoro dell’artista visionario Maurits Escher e alle sue opere meno conosciute d’ispirazione animaliere. Ho così reinterpretato un suo bozzetto inedito, che è stato convertito in un gigantesco jigsaw puzzle. Per il materiale mi serviva qualcosa di durevole e resistente all’usura e al graffio, leggero, di spessore contenuto e disponibile in un’ampia gamma di colori. Da qui la scelta del laminato plastico che si presta a essere ritagliato in forme molto precise con la tecnologia del laser». Pensa che sarebbe possibile realizzare un Olivomare anche in Italia? «Non vedo perché no. Bisognerebbe, però, trovare un committente che abbia voglia e intelligenza sufficienti per proporsi in modo diverso e personale. Mi pare del resto auspicabile che si possano introdurre contenuti innovativi negli interni dedicati alla ristorazione anche in Italia dove, abbastanza stranamente e salvo non frequenti eccezioni, questo settore è caratterizzato da scarsa creatività e da un’asfissiante e insulsa ripetitività. Credo, però, che questo sia imputabile più all’incapacità dei gestori che non riescono a uscire dal rassicurante solco del seminato che all’inadeguatezza dei progettisti».
© photo Wolfang Guênzel
>un design tutto da criptare “Qualunque cosa ti piaccia, ti porterà al vino”. Ma nel percorso sarà facile perdersi in una inusuale esperienza visiva dove lo spazio viene percepito privo di limiti e di dimensioni. Si tratta del design che ha caratterizzato la caffetteria della 53esima Biennale di Venezia, realizzata dall’artista Tobias Rehberger di Nike Giurlani
«Per molto tempo ho desiderato realizzare un progetto che si basasse sul concetto di dazzle painting perché mi piaceva l’idea di creare un’opera d’arte visiva che si fondasse sul fatto di “non vedere qualcosa”». Il desiderio dell’artista tedesco Tobias Rehberger si è trasformato in realtà «quando Daniel Bir-
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nbaum mi ha proposto di riprogettare la nuova caffetteria al Palazzo delle Esposizioni in occasione della Biennale di Venezia 2009» ha spiegato. Rehberger ha chiamato la sua caffetteria Was du liebst, bringt dich auch zum Weinen (qualunque cosa ti piaccia, ti porterà al vino) e si tratta di uno spazio folle, di ispirazione
© photo Ernst Van Deursen Amsterdam 2008
retrò, con un miscuglio di forme e colori, per il quale si è anche aggiudicato il Leone d’Oro per il migliore artista. Per realizzare il progetto il designer ha collaborato con la casa finlandese Artek che ha creato i mobili su misura per l’occasione. Punto centrale del progetto è stata la possibilità di applicare il concetto di dazzle painting «non all’interno di uno spazio espositivo, ma a uno spazio dedito ad altre funzioni. In questo modo le persone, che vi entravano, non si aspettavano necessariamente di provare un’inusuale esperienza visiva». Il principio alla base di questa tecnica fa riferimento al dazzle camouflage «una strategia ideata durante la grande guerra per criptare gli armamenti» sottolinea l’artista. Questo trucco, ideato contemporaneamente
In apertura, la caffetteria del Palazzo delle Esposizioni, Biennale di Venezia 2009; sopra, l’artista tedesco Tobias Rehberger; nella pagina seguente, l’esterno della caffetteria
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© photo Wolfang Guênzel
sia dagli inglesi che dai tedeschi, consisteva nel dipingere con vernici brillanti gli strumenti bellici, rendendone così più facile l'individuazione, ma, allo stesso tempo, ne impediva la stima della distanza. «Questa mimetizzazione – prosegue Rehberger – aveva lo scopo di creare confusione più che occultamento». Proprio quello che si percepisce entrando all’interno della caffetteria. Le immagini iniziali del progetto rispondono a un’idea di dissoluzione dello spazio dove si distorcono il senso del limite e la percezione fisica delle dimensioni. L’aspetto finale rappresenta un collage di strategie che rispettano questo principio e che si intrecciano per tutta la totalità del progetto. In linea generale, la disposizione funzionale dello spazio è pensata per permettere ai visitatori di entrare direttamente attraverso un'area aperta dove ci si può sedere creando anche un approccio frontale verso il bar e l’area di servizio. «Complessivamente lo spazio è subordinato al principio della dazzle painting – sottolinea l’artista – il cui motivo produce la mescolanza di tutti i vari elementi inclusi nella caffetteria». La visione finale è il risultato dell'intrecciarsi tra la disposizione funzionale e questo motivo espansivo che diventa il mezzo di distorsione che subordina le tre dimensioni a una struttura bidimensio-
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IL PRINCIPIO ALLA BASE DI QUESTA TECNICA FA RIFERIMENTO AL DAZZLE CAMOUFLAGE, UNA STRATEGIA IDEATA DURANTE LA GRANDE GUERRA PER CRIPTARE GLI ARMAMENTI
nale. In questo modo, tutti i pezzi d'arredamento sparsi nella stanza si ridefiniscono a seconda della loro posizione nello spazio. Similmente, anche gli elementi fissi, come il pavimento, le pareti e il soffitto entrano a far parte di questo gioco. Inoltre, la prospettiva che conduce verso l'area di servizio, è realizzata attraverso una parete di specchi che separa la cucina e che allo stesso tempo concorre alla generale mancanza di un’unica visuale. Il design di questa parete vuole confondere il limite spaziale della stanza ed esacerbare l’inarticolazione della prospettiva. Tutto lo spazio è quindi giocato tra i vari elementi dell’arredamento e il motivo dazzle che suggerisce un senso di inspiegabilità, di indefinito, dove è facile perdersi, ma semplice ritrovarsi.
>lo stile italiano f a r otta oltr emar e Gli armatori, si sa, desiderano soltanto il meglio. E in questo settore, il design italiano è la soluzione che preferiscono. Sintesi di eleganza e perfetta navigabilità, le imbarcazioni firmate Spencer Contract e Azimut si vestono delle nuove tecnologie. Rispettando, sempre, uno stile senza tempo di Andrea Moscariello
L’eleganza, prima di tutto. Navigare italiano ha, da sempre, un fascino indistinguibile. Il design degli Yacht creati e arredati nel Bel Paese coniugano uno straordinario senso estetico alla precisione delle linee, all’alto standard tecnologico, a una navigabilità unica. E sempre di più ci si affida ad aziende che, ambasciatrici del Made in Italy, forniscono un prodotto e un’assistenza completa. Nel mercato dello yachting si afferma, infatti, il modello “contract”, inteso letteralmente come “chiavi in mano”. E ciò comporta una maggiore interazione tra architetti, costruttori, ingegneri e designer. Prendendo l’esempio della Spencer Contract, tra le prime aziende italiane del comparto e autrice degli interni di un nome simbolo della nautica, Azimut, ci si rende conto del
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A fianco, Marco Pompili, azionista e responsabile del settore navale della Spencer Contract
grande sviluppo che sta vivendo il settore. «Un’azienda strutturata per fornire un “chiavi in mano”, partendo dallo scafo nudo, è oggi di importanza fondamentale per la riuscita di un progetto. Grandi imprese si affidano alla nostra società già in fase di studio preliminare di nuovi scafi, sia “one-off” sia destinati alla produzione seriale» spiega Marco Pompili, tra gli azionisti del gruppo Spencer Contract e responsabile del settore navale. Ed è proprio quest’ultimo a marcare il passo del nuovo piano industriale per questa firma dell’interior design. Da circa quattro anni Spencer ha sviluppato e installato a bordo degli yacht nuove e uniche tecnologie che hanno reso imparagonabile la qualità delle imbarcazioni. L’eliminazione del legno quale principale supporto dell’arredamento a favore di estrusi in lega leggera, supportati da elementi antivibranti, offre una precisione di montaggio e un’affidabilità nel tempo decisamente superiore, il tutto senza influenzare l’appeal delle aree. Elemento vincente è la costante collaborazione tra i designer e gli ingegneri che presidiano i cantieri, consentendo uno sviluppo globale del progetto, privo di sbavature in fase di montaggio, oltre che un allestimento più rapido. Tra i primi progetti innovativi, l’Azimut 103S, un’imbarcazione veloce di oltre trenta metri,
ELEGANZA ITALIANA
NON INTENDIAMO CEDERE IL NOSTRO KNOW-HOW A CANTIERI DI “BASSO PROFILO” CHE INTENDONO SOLO FREGIARSI DEL “MADE IN ITALY INTERIORS” PRATICANDO LA POLITICA DEI PREZZI
vincitrice del premio “Barca dell’Anno”, anche grazie all’apparato tecnologico sviluppato in collaborazione con l’ufficio tecnico del gruppo Azimut-Benetti, leader mondiale del settore. E al tempo stesso meritano attenzione altri progetti “one-off” su grandi barche dislocanti di oltre 50 metri. «In questo caso utilizziamo anche tecnologie impiegate sulle grandi navi da crociera quali Royal Caribbean, Carnival, Aida Cruise, Silversea Cruise, sulle quali lavoriamo da oltre 15 anni – afferma il responsabile nautica del gruppo -. Possiamo rendere ogni barca unica, installando a bordo sauna, bagno turco, docce emozionali, luci regolabili in funzione della luminosità esterna e riscaldamento mediante porte radianti». Insomma, pare proprio che il luxury stia trovando la sua casa naturale in mezzo al mare. Gli esponenti di quest’azienda vanno per mare da oltre vent’anni, pilotando le loro imbarcazioni in prima persona, sviluppando un
proprio concetto di comfort di bordo rivelatosi più volte di supporto ai designer. «Premesso che gli architetti italiani rappresentano un punto di riferimento per molte tipologie di imbarcazioni e ottengono fantastici risultati estetici anche nell’interior, disegnano a volte soluzioni e particolari che, seppur originali e interessanti, possono rivelarsi poco adatti alla vivibilità in navigazione – spiega Pompili -. Accettano quindi di buon grado alcuni nostri suggerimenti. Da questo confronto nasce la perfetta sintesi tra design ed esigenze di bordo». La società ha ri-
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sentito solo marginalmente della flessione economica negativa grazie a un’attenta scelta degli acquirenti, che in alcuni casi hanno approfittato del calo produttivo per mettere allo studio nuovi modelli e prototipi. Ciò che emerge è il fatto che il prodotto nazionale è, tutt’ora, un motivo di vanto da parte degli armatori. «Riceviamo regolarmente proposte di collaborazione da molti cantieri del far-east. Per il momento però non intendiamo cedere il nostro know-how a cantieri di “basso profilo” che
Nelle immagini, alcuni interni relativi a imbarcazioni che la Spencer Contract ha firmato per i cantieri Azimut Benetti e alcuni interni di navi da crociera Royal Caribbean e Carnival Cruise www.spencercontract.net
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intendono solo fregiarsi del “Made in Italy interiors” praticando la politica dei prezzi». In fondo, la forza della produzione italiana sta proprio nel mantenimento del suo modello qualitativo artigianale, coniugato alle esigenze di innovazione. È indispensabile una costante attenzione ai nuovi materiali, alle tecniche di incollaggio, alla verniciatura e ai processi di fusione per poter offrire nuove soluzioni tecniche ed estetiche. Sul futuro, Pompili esprime la varietà che caratterizza le preferenze estetiche di chi acquista grandi yacht. «Le scelte estetiche sono ancora molto varie e concordate spesso con l’armatore. Certamente non esiste quasi più uno stile “marino”, ma vengono proposti ambienti classici o molto moderni in funzione delle tipologie di scafo: veloci e plananti con linee tese e superfici che lasciano spazio a materiali d’effetto, oppure dislocanti con arredi più sobri e senza tempo. Molti cantieri preferiscono adottare linee semplici, con essenze lignee di pregio al fine di evitare un precoce invecchiamento dei toni “legati al momento” e una conseguente rapida svalutazione». Interessante è anche il tema dell’illuminazione interna. Mai come oggi gli studi illuminotecnici si stanno ponendo al centro delle concezioni di arredo per le imbarcazioni. «La luce è “ambiente” e la produzione attuale offre veramente molte nuove alternative. È perciò indispensabile uno specialista all’interno di ogni studio di architettura. La tecnologia “led” favorisce inoltre il contenimento dei consumi tra il 60 e il 70%». Importante è anche il settore delle grandi navi da crociera. Quelle di ispirazione americana puntano allo stupore dei passeggeri tramite le forme, i colori e le attività a bordo. Quelle più europee, invece, si distinguono per i colori caldi, sobri e un’atmosfera orientata più al relax che al divertimento. «In questo ambito la nostra società arreda qualsiasi tipo di “area pubblica” e ci siamo specializzati nelle SPA, immancabili a bordo delle grandi navi» conclude Pompili. E per quanto riguarda il 2010, l’agenda aziendale è particolarmente ricca. Il gruppo sta infatti collaborando con tre importanti cantieri italiani su diversi prototipi di 24, 30, 36 e 53 metri, tutti in consegna entro l’anno. Inoltre è prevista la realizzazione di una SPA e di aree esterne di 3.500 mq. a bordo della nave da crociera Oceania Marina e il refitting di alcuni megayacht oltre i 50 mt. Solo per citarne alcuni. Ordini di acquisti per oltre 18 milioni di euro. Un risultato importante, anche in considerazione della crisi che colpisce il mercato.
>la r ealtà delle sensazioni Fare architettura significa anche studiare le sensazioni. Quelle che ogni luogo, ogni struttura trasmette e che si delineano grazie a un dialogo aperto con la committenza. «Ognuno in casa deve sentirsi a suo agio in tutti gli ambienti». L’esperienza dell’architetto Raffaella Costa di Eugenia Campo di Costa
Innanzitutto analizzare le strutture. Studiarne i dettagli, capire a fondo le sensazioni che trasmettono. È questo, secondo Raffaella Costa il primo passo del fare architettura. Il secondo passo è comprendere cosa si aspetta il committente da quegli ambienti. «È fondamentale capire quali necessità ha la persona che ha acquistato quel determinato spazio, e a quali finalità esso è destinato». Questo non significa che sia il committente a escogitare delle soluzioni, semplicemente fornisce al professionista indicazioni utili a capire cosa vuole ottenere dagli spazi. «Ciò serve per impostare il progetto – continua l’architetto – e direzionarlo, perché su una stessa pianta possono sorgere cento progetti diversi». IL DIALOGO TRA ARCHITETTO E COMMITTENTE Spesso i committenti pensano che i professionisti non prestino attenzione alle loro richieste seguendo una linea guida prestabilita.«Personalmente trovo questo atteggiamento, adottato da molti colleghi, discutibile. Tuttavia, a volte, si innesca questo meccanismo perché il committente ha timore ad esprimere le proprie richieste.
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In apertura, immagini del negozio di arredamento che sorge all’interno di un palazzo storico in Via Roma a Genova. In questa pagina, un esempio di architettura d’interni dell’architetto Costa
«L’investimento è una delle valutazioni preliminari. Tuttavia, la qualità del lavoro può essere preservata a prescindere dal fattore economico». Naturalmente i costi variano a seconda del luogo in cui si interviene e dei materiali su cui si deve lavorare: «l’intervento su un rustico diroccato - spiega l’architetto Costa - ha dei costi molto elevati dovendo prevedere, solitamente, opere strutturali impegnative, l’intervento su una casa con rifiniture di grande pregio potrebbe essere particolarmente costosa, qualora occorressero lavorazioni di restauro. Tuttavia, esistono abitazioni ristrutturate con materiali poveri, raffinate ed eleganti e case realizzate con materiali costosi che risultano inutilmente ridondanti».
OGNUNO SCEGLIE UN TIPO DI STRUTTURA IN BASE AL PROPRIO MODO DI SENTIRE, ANCHE INCONSAPEVOLMENTE: È IMPORTANTE CAPIRE IL CONCETTO DI SPAZIO DELLE PERSONE Se non si hanno le idee chiare sulle reali esigenze dell’interlocutore si procede per tentativi, sperando di trovare una chiave di lettura nelle reazioni che ci saranno al primo incontro; quindi ben venga il rapporto diretto! L’architetto deve essere disponibile all’ascolto, fermo nel manifestare il proprio punto di vista di fronte a richieste non pertinenti e disposto a ragionare assieme: i risultati saranno garantiti». IL FATTORE ECONOMICO Sarebbe bene che il committente avesse le idee chiare sulle risorse da destinare al progetto: il professionista imposterebbe, dall’inizio il lavoro nella giusta direzione, fornendo un servizio in linea con le aspettative. Ma quanto incidono le risorse economiche sul progetto?
GLI OGGETTI E IL RAPPORTO CON LO SPAZIO Gli oggetti, scelti con attenzione, devono essere ambientati con cura nella spazio. A riguardo, l’architetto Costa sottolinea come negli anni sia cambiato il concetto di fruibilità degli spazi: «un tempo la casa borghese era
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un contenitore di oggetti più o meno di valore: si verificava una scissione tra gli spazi di utilizzo quotidiano e gli spazi per le grandi occasioni, mentre oggi si desidera vivere ogni angolo della casa rendendolo confortevole. L’oggetto, oggi, ha un utilizzo pratico, non solo un ruolo decorativo». La visita ad un alloggio, fatta con il committente, ci da informazioni precise per l’impostazione del progetto. La tipologia della costruzione, le proporzioni degli ambienti, l’esposizione solare, una vista particolare sono, forse inconsapevolmente, messaggi precisi del committente. Sta all’architetto interpretare e progettare spazi a misura inserendo oggetti giusti per l’equilibrio di insieme.
AL DI LÀ DELL’INVESTIMENTO ECONOMICO, ESISTONO ABITAZIONI RISTRUTTURATE CON MATERIALI POVERI RAFFINATE ED ELEGANTI E CASE REALIZZATE CON MATERIALI COSTOSI CHE RISULTANO INUTILMENTE RIDONDANTI
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ATTRAVERSO LE SENSAZIONI È fondamentale la sensazione che si prova la prima volta che si visita una struttura su cui si deve lavorare. «Gli elementi della casa, secondo Raffaella Costa, comunicano delle sensazioni; occorre intervenire dando particolare risalto a quelle positive. Ciò che mi colpisce maggiormente sono i materiali naturali in genere, la pietra a spacco o bocciardata i legni specialmente se consumati dal tempo, le superfici non lucide, il colore di un muro che deve ricordarmi la consistenza di un tessuto. Mi piace cogliere visivamente qualcosa che mi dia l’idea di morbidezza». Ma per materializzare queste sensazioni non esistono procedure standard, è una questione di capacità, spesso innata, di cogliere le caratteristiche degli elementi.
In queste pagine, altri lavori dell’architetto Costa. Lo studio ha sede a Genova archrc@virgilio.it
I LAVORI Uno degli interventi più recenti dell’architetto Raffaella Costa, all’interno di un palazzo storico, riguarda un negozio di arredamento in Genova, importante non solo per i prodotti che espone, ma anche per la sua fama in città, dovuta in parte alla lunga tradizione che vanta, in parte alla serietà e alla competenza con cui i proprietari affrontano ogni giorno il loro lavoro. L’azienda, a conduzione familiare, è presente a Genova fin dagli inizi del secolo scorso, quando, l’antenato degli attuali proprietari era ancora un falegname intagliatore. L’attività nel tempo si è trasformata in base alle esigenze del mercato, mantenendo un livello molto alto. «La sede è prestigiosa e il committente voleva creare uno spazio adatto a ospitare gli arredi minimalisti, che oggi com-
mercia. Il negozio si sviluppa su tre livelli: il piano strada, da cui si accede, un livello superiore, e un livello inferiore, seminterrato, un tempo comunicanti tra loro con una insignificante scaletta di piccole dimensioni. La sfida è stata quella di intervenire con una struttura moderna, di collegamento verticale più simile ad un arredo, che mettesse in comunicazione i tre piani. Nel cuore dello spazio si sono eliminate le solette in muratura e le scalette esistenti e sostituite con una struttura interamente in cristallo che rende completamente permeabile lo spazio». In questo intervento, come in tutti i lavori dell’architetto Costa, si nota un’atipica eleganza in ogni dettaglio, che trova ispirazione nell’osservazione degli oggetti di uso quotidiano.
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>atmosfer e c lassic he che guardano al futuro Oggi, intervenire su edifici storici implica la necessità di un dialogo equilibrato tra architettura e componenti d’arredo. Confrontarsi con atmosfere classicheggianti, ad esempio, induce il mondo dell’interior design a interpellare maestranze artigiane che ne esaltino i dettagli. Lo spirito creativo espresso dagli architetti dello studio Area di Adriana Zuccaro
In alto, un interno del prestigioso Hotel Bagni di Pisa curato dagli esperti di interior design dello studio Area di Firenze info@studioarea.eu www.studioarea.eu
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Morbida linearità di spazi senza tempo. Raffinatezze classicheggianti interpretate ed espresse in formule progettuali contemporanee. Eleganze distribuite nei dettagli e finiture. Le location, perlopiù storiche, ridisegnate dalla forza creativa di Franco Carrai, Fabio Caroppo e Filomena Rotunno, architetti e interior design dello studio Area di Firenze «non suggeriscono alcun rimando seriale, si collocano fuori da ogni tendenza di standardizzazione, rappresentano il nastro inaugurale di un percorso inedito, ma integrato all’essenza del luogo». L’unicità dei progetti prende il via dalla ricerca, dall’incontro e dall’attento dialogo con la committenza. «Stabilire gli obiettivi di forma e funzione, individuare la meta stilistica e connotativa è il primo passo da compiere per la stesura ideativa – afferma l’architetto Rotunno, socio e portavoce dello studio Area –. Ne è implicita l’importanza concettuale secondo cui ogni città è unica, ogni luogo è esclusivo, ogni identità spaziale custodisce tempi passati da “ri-coniugare” al futuro». L’attuale fenomeno di globalizzazione non ha infatti azzerato le tendenze progettuali più innovative, ma ha risposto con più chiarezza alle necessità di prodotti commercializzabili perché standardizzati e in serie. «Fuori dal contesto professionale del design, oggi è comunque possibile confezionare la propria dimora con i cosiddetti
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A sinistra, lo showroom LUX di Area. Qui sotto, una suite dell’Hotel Bagni di Pisa e, in basso, interni del Resort Fonteverde Living
arredi “pronti all’uso” forniti dalle grandi multinazionali». Ma lo spirito creativo leggibile nei progetti dello studio Area è di altra tendenza. I loro arredi esprimono caratteristiche e scale di valori medio alte, inevitabilmente collegate all’artigianalità dei maestri del legno e dei tessuti. «Confrontarsi con una committenza finanziariamente facoltosa e disponibile a investire su progetti di stile e comfort d’alto design, è certamente importante – sostiene l’architetto Rotunno –. Non bisogna però dimenticare quanto i classici canoni di bellezza applicati agli spazi abitativi dipendano dalla funzionalità e qualità dei materiali e delle finiture. Quando un interno si presta ad esempio, ad accogliere un mobile intagliato a mano, utilizzare un
legno in pasta stampata per tentare di imitare l’oggetto da bottega artigiana risulta “falsamente” gradevole. Se le risorse quindi non concedono arredi di così alto valore, si cambia idea impostando comunque il progetto sulla riga dello standard qualitativo che si vuole ottenere». Intervenire in una location architettonicamente già definita significa ricercare gli arredi adatti allo spazio che li ospiterà. Quando invece è possibile concepire anche il progetto architettonico, la libertà creativa è tenuta a confrontarsi con le realtà strutturali, storiche e impiantistiche. «Il progetto eseguito a Bagni di Pisa prevedeva ad esempio la ristrutturazione dell’edificio storico e la progettazione dell’interior design: potevamo seguire la nostra logica progettuale senza interferenze. Il risultato ha confermato il nostro presupposto professionale, la soddisfazione del committente è insieme la nostra». I richiami classici e l’eleganza delle componenti d’arredo disegnate non fanno parte di una concezione artistica lineare a tutti i costi. «L’equilibrio formale è l’obiettivo da perseguire fin dal primo schizzo. Motivo per cui seguiamo i nostri progetti dall’inizio alla fine, fino all’allestimento e alla messa in funzione della struttura. Durante la fase allestitiva ci concentriamo sui dettagli perché, di fatto, sono loro a fare la differenza».
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>linee sobrie colgono l’andamento della moder nità In uno spazio definito ed elegante, dove sono i particolari a fare la differenza emerge una nuova protagonista. Un elemento essenziale per l’arredamento, difficile da realizzare e soprattutto da rinnovare. Renato Leban spiega come il progetto di ogni sedia debba rispondere a parametri di confort e design di Adriana Zuccaro
Parola d’ordine: semplicità. Questo è l’arredamento delle case moderne, lineare, tecnologico e pulito, senza fronzoli ma con tante comodità. Una su tutte, la sedia, elemento d’arredo d’eccellenza. Onnipresente perché necessario. Per questo rinnovare nella forma e nel design una sedia comporta uno studio progettuale di forte input creativo. «La semplicità formale di ogni seduta, di fatto connessa alla sua universale funzione, oggi è resa più complessa da linee di design che implicano fasi di lavorazione specifiche ed evolute». Ad affermarlo, Renato Leban, portavoce della Nordic, industria specializzata nella produzione di sedie e affini, secondo cui «un oggetto di design si ottiene dall’armonia della forma e la magia della materia». L’identità funzionale di complemento d’arredo pone la sedia al centro di meccanismi creativi che, in base al periodo storico e alle esigenze che questo determina, hanno prodotto ogni tipologia di seduta possibile e immaginabile. «Negli ultimi anni la tendenza progettuale mira a forme lineari, funzionali e
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quanto più sobrie possibili – sostiene Leban –. La Nordic infatti, competitiva perché in grado di rispondere alle particolari richieste del mercato Contract, pianifica la realizzazione di un prodotto già nella prima fase di scelta dei modelli, proposti da architetti esterni o dallo staff di specialisti che operano nell’industria. Il focus ideativo non si concentra soltanto sulla essenzialità estetica delle sedie ma anche alla quanto più ampia garanzia di qualità, comfort e durata nel tempo». Ma dopo la scelta del progetto grafico, quali sono le fasi salienti della produzione di una sedia? «Che si tratti di disegni tecnici o semplici schizzi di architetti, o di idee studiate dallo staff di designer industriali, la prima fase è rappresentata dalla realizzazione di un prototipo assemblato con viti grazie al quale è possibile verificare le proporzioni e il comfort del manufatto per definire la scelta sulle forme ritenute più appropriate. Una volta stabilite le lavorazioni che si dovranno effettuare, si decidono gli spessori del legno da utilizzare per conferire sicurezza di stabilità al pro-
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In queste pagine, alcuni modelli di sedie realizzate dalla Nordic, azienda con sede a San Giovanni al Natisone - www.nordicsrl.com
NELL’INDUSTRIA DI ELEMENTI D’ARREDO, UN UGUALE OBIETTIVO DEVE ESSERE PERSEGUITO SU PIÙ FRONTI: IMMETTERE NEL MERCATO UN PRODOTTO CONTEMPORANEO, FUNZIONALE, COMODO E GRADEVOLE dotto finale». La fase di prototipizzazione però non finisce qui perché, come spiega Renato Leban attivo nel settore fin dal 1968, «una volta concluso il primo manufatto si passa alla realizzazione dei prototipi in legno di faggio da testare in una struttura abilitata, da presentare ai potenziali clienti o da predisporre per il report fotografico». Il faggio è di fatto l’essenza legnosa più usata alla Nordic perché permette di realizzare eclettiche e molteplici varietà di forme e assemblaggi, «è estremamente duttile e resistente alle sollecitazioni, e quando viene tinta con qualsiasi colore può anche prendere le sembianze di altre essenze naturali – afferma Leban –. Quando poi siamo chiamati a rispondere a particolari esigenze individuate nel modello o manifestatisi durante le ricerche di mercato, utilizziamo anche tutte le altre essenze che si trovano in commercio, da quelle eu-
ropee a quelle americane fino alle esotiche». Oltre ai materiali, la quotidianità produttiva della Nordic volge lo sguardo alla tecnologia attraverso l’impiego di macchine a controllo numerico di ultima generazione e di speciali centri di lavorazione in cui diviene “automatico” prestare attenzione e definire con cura ogni dettaglio estetico e meccanico. «Nell’industria di elementi d’arredo come la sedia, un uguale obiettivo deve essere perseguito su più fronti per poter immettere nel mercato un prodotto contemporaneo, funzionale, comodo e gradevole. La produzione di sedie si realizza attraverso una serie di processi non semplici ma per concentrarsi sull’obiettivo occorre conoscere le esigenze di mercato, rispondere alla richiesta di servizi e prodotti d’alto livello qualitativo, rinnovare il design e coordinare il più attento calcolo degli abbinamenti di tinte e tessuti».
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>idee vi v aci c he ar r edano Produzioni originali e innovative generalmente non scaturiscono soltanto da illuminazioni improvvise, ma sono il frutto di un lucido progetto che poggia su sinergie e interazioni fra competenze differenti. L’esperienza di Cristian Molon e Angela Nicolussi di Stefano Marinelli
Advertising, design, print. Tre aree che appartengono ad ambiti diversi e apparentemente separati, ma che in realtà sono apparentati da un minimo comune denominatore, la creatività. «Il nostro punto di forza sta nel disporre di un reparto creativo e uno grafico all’interno della nostra azienda» afferma Cristian Molon, di professione grafico, che, insieme all’arredatrice Angela Nicolussi, guida “Say”, l’impresa che dal 2006 è impegnata nel settore della comunicazione visiva e del design di interni. «Questo ci permette di offrire una maggiore personalizzazione nel design» prosegue Molon, sottolineando come le sinergie fra le varie competenze su cui si basa un’attività non possono che generare un valore aggiunto al prodotto finale. «L’area design cura l’arredamento di interni per privati e aziende e la decorazione di stand fieristici, mentre il reparto Advertising – spiega il grafico - si occupa di tutti gli aspetti che riguardano lo sviluppo dell’immagine aziendale, dalla creazione del marchio, al packaging, alla realizzazione di campagne promozionali». Ma, a dimostrazione di quanto siano importanti la comunicazione e la collaborazione interne a un’azienda, è la divisione print, nata dalla combinazione delle idee e dalla fusione dei talenti emersi
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Sotto a sinistra, Angela Nicolussi; sopra, wallpaper realizzato da Say. Altre realizzazioni si possono trovare al sito www.sayad.it info@sayad.it
nell’ambito delle altre due sezioni, a rappresentare lo spazio di sperimentazione più vivace e di produzione più originale. «Sperimentiamo molto con i materiali – conferma Angela Nicolussi – e attualmente stiamo testando scritte adesive in colore argento a specchio per bicchieri e servizi personalizzati per il contract». Quando la creatività si sposa con lo studio dei materiali e ha la possibilità di avvalersi della tecnologia, per la stampa nello specifico, l’esito consiste generalmente in soluzioni innovative, che quasi privano di senso l’ordinario. Che l’abbinamento di professionalità e ingegno sono sinonimo di successo è testimoniata dai numerosi studi di architettura, negozi di arredamento e liberi professionisti che si rivolgono regolarmente a SAY per la fornitura di stampe originali. «Con la creatività siamo in grado di convertire una grigia terrazza di città in un fresco rifugio vista mare - riflette l’arredatrice- ci divertiamo a mutare il comune schienale della cucina in una riproduzione artistica, o a trasformare un’economica libreria in un mobile che riflette il gusto e personalità del cliente». Approccio multidisciplinare, propensione al lavoro in sinergia e volontà di sperimentare sono tre fattori che, quando agiscono simultaneamente, rappresentano una potente molla per la scoperta di nuove frontiere, tanto più se impiegati laddove creatività e fantasia non sono solo componenti accessorie, ma costituiscono l’anima di un progetto.
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> vestir e lo spazio da a bitar e Le attuali scelte in materia di arredamento coniugano la riscoperta del minimalismo all’essenzialità nei materiali. E per i professionisti del settore «ogni committente è un esame diverso da sostenere, sempre più difficile». L’esperienza di Antonio Sabatino di Simona Langone
Parlare di arredamento significa raccontare una forma d’arte che si rinnova costantemente miscelando i gusti personali alle tendenze correnti. E nelle scelte d’arredamento è molto importante l’instaurarsi di un’empatia tra designer, produttore e acquirente, come spiega Antonio Sabatino che delinea anche i tratti dello stile attualmente più richiesto. Partendo dal presupposto che la Sabatino realizza soluzioni d’arredo rigorosamente moderne, «capita spesso che per sdrammatizzare una composizione di assoluto minimalismo, venga inserito nel contesto qualche elemento di rottura: una cornice dorata piuttosto che un’applique classica in vetro murano, o una porta in barocco piemontese a copertura di una nicchia».
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I materiali utilizzati per le creazioni sono molto vari, poiché quello che conta più di ogni altra cosa, secondo Antonio Sabatino è l’originalità dell’idea. «In questo periodo mi sono affezionato all’uso delle pietre e marmi non solo per il rivestimento di pavimenti o di bagni e cucine, ma anche per la costruzione di strutture e sculture di supporto per tavoli, alla maniera dei maestri Scarpa e Brever, o al rivestimento interno di intere pareti di travertino». Naturalmente alla base di ogni creazione vi è il dialogo stretto con il committente, che è sempre più esigente e necessita, per realizzare gli ambienti della propria vita, di un confronto costante con chi può disporre di un certo gusto e una certa autorevolezza.
INTERNI
>ver so nuove sperimentazioni Non dimenticare il passato per distinguersi nel mare magnum della globalizzazione. Integrandosi nell’economia globale senza sacrificare la propria identità aziendale, anche quando si realizzano arredamenti di interni e servizi personalizzati. Il punto di vista di Stefano e Luca Vecchiutti di Stefano Marinelli
Zygmunt Bauman la chiama glocalizzazione. Il famoso sociologo coniò questo termine per indicare la complessa sovrapposizione fra la globalizzazione e l’orgogliosa determinazione delle realtà locali nel conservare il proprio posto nel mondo. E il Friuli può essere considerato a pieno titolo un eloquente esempio di glocalizzazione. Un territorio che, grazie a una dedizione al lavoro fortemente radicata, ha saputo difendere la peculiarità della propria esperienza dall’inghiottimento del vortice globalizzato e, al tempo stesso, ha saputo integrarsi nel meccanismo dell’economia mondializzata con sapiente lungimiranza, ma senza sacrificare la propria identità. Questa è la mentalità in cui si riconosce in particolar modo uno dei settori che appartengono più strettamente alla tradizione artigiana della regione, quello dell’arredamento di interni. «L’obiettivo è quello di sperimentare nuove soluzioni tecniche, con l’ausilio delle moderne tecnologie, ma sempre nel rispetto della tradizione del mestiere» sostengono i fratelli Vecchiutti riferendosi alla loro azienda di Udine, la “Vecchiutti Adelchi e C.”, che produce arredi di interni su misura dal 1968. «Forniamo arredi per centri direzionali, esercizi commerciali, studi, ristoranti, residenze private in Italia, ma anche a Parigi e Montecarlo – continua Luca Vecchiutti – e per tutti i nostri lavori operiamo sempre con lo stesso approccio: stretta collaborazione con i progettisti e, soprattutto, dialogo continuo con i committenti, con lo scopo di fornire un prodotto fortemente personalizzato». Questo dimostra come si possa operare su un mercato che va oltre i confini regionali, nonché nazionali, senza scivolare in modelli di produzione standardizzata tipici dell’economia globalizzata, ma plasmando di volta in volta le realizzazioni sulle aspettative individuali dei committenti. La differenziazione del prodotto e l’accurata at-
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Nelle foto, dall’alto, interno del negozio Cumini di Udine e vetrina espositiva della boutique Maison Hermès di Udine www.vecchiutti.com
tenzione riservata alla committenza sembrano essere state anche un’efficace arma per attutire i colpi della crisi economica. «Ci siamo concentrati su un mercato di nicchia – spiega il fratello Stefano riferendosi in particolare a lavori svolti in ville di lusso e in dieci boutique della Maison Hermès -, conferendo al nostro prodotto flessibilità e versatilità, riuscendo, in parte, a tutelarci dalla tendenza negativa dell’economia nel suo complesso».
SPAZI COMMERCIALI
>attr aver so lo spazio, indirizzati dalla luce Il rinnovato potere della luce unito alla fantasia e alla freschezza degli spazi guidano le scelte progettuali dei moderni ambienti commerciali. Dove ogni elemento si combina attraverso un sincero minimalismo destinato a durare nel tempo. Ivano Rissotto racconta la sua esperienza di designer di Simona Langone
Spazi commerciali realizzati dal designer Ivano Rissotto di Genova www.trovavetrine.it/ivanorissotto-designer ivanorissotto@tiscali.it
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La particolare cura rivolta a quegli spazi destinati a incuriosire e a catturare l’attenzione, anche dello sguardo più distratto, insieme al valore attribuito al potere della luce, guida le nuove idee in materia di designer. Questa è la prerogativa del lavoro di Ivano Rissotto. L'esperienza trentennale in design è il personale racconto di un «mestiere d'arte che ho nel sangue», come afferma lo stesso designer genovese. L'idea prende forma da uno schizzo disegnato ancora a mano libera, su carta, in piena naturalezza e libertà. «Ogni opera realizzata deve evocare freschezza, e mai suggerire l'impressione di qualcosa di già visto e datato», continua l'architetto, sfogliando nelle memorie dei suoi 550 progetti, realizzati dal 1980 a oggi, molti consacrati al design commerciale. Le vetrine realizzate devono essere fulcro della curiosità degli osservanti e l'arredo devono avere come scopo quello di valorizzare la merce. Anche la scelta dei materiali non deve essere casuale, ma guidata da un sincero minimalismo, con l'obbiettivo di durare nel tempo. A dare poi il giusto risalto a ogni composizione è l'effetto della luce, mai aggressivo e abbagliante. Effetti e toni di luce addolciscono l'osservazione della merce, rendendola più piacevole. E nella scelta dell’effetto luminoso non basta considerare solo il lato estetico, ma anche la capacità e il potere illuminante. La tipologia, la disposizione e il numero dei punti luce possono valorizzare o depauperare la bellezza dello spazio. Ma il vero salto dalla carta alla realtà diventa tangibile soltanto con l'implementazione del progetto che prevede vari passaggi: «il mio lavoro parte innanzitutto dall'incontro con il committente. Un incontro durante il quale si realizza un progetto di massima. Seguono altri incontri ai quali in seguito all’approvazione del progetto succede la preparazione degli schizzi. Il resto del lavoro si esegue attraverso una consulenza quotidiana e una presenza costante sul cantiere. Il risultato finale è sempre innovazione progettuale».
>i se gr eti delle cave di Car r ar a Non solo lusso. L’edilizia è uno degli usi più comuni del marmo di Carrara. L’arredo urbano così come gli interni si impreziosiscono sempre più grazie a questo materiale unico. Il presidente di Assomarmi Nicola Lattanzi illustra i motivi di un utilizzo così assiduo di Ezio Petrillo
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Il marmo rappresenta da sempre il punto cardine dell’economia Toscana e di buona parte dell’Italia. Tradizione e qualità. Queste sono le caratteristiche che rendono unico un materiale utilizzato sin dagli antichi Romani, che per primi si avventurarono nell’estrazione del marmo dalle cave di Carrara inserendo travi di legno di fico all’interno delle fessure naturali della roccia, riempiendo queste di acqua fino a provocarne la spaccatura. Una tecnica di estrazione rimasta invariata sino al periodo rinascimentale. Oggi i metodi di lavorazione del marmo di Carrara sono unici al mondo e i suoi usi sono da ricercare prevalentemente nell’edilizia e nel settore degli arredamenti di interni. Nicola Lattanzi, presidente del distretto lapideo di Massa Carrara, ci aiuta a comprendere meglio pregi e peculiarità di questo straordinario materiale. «Ciò che rende unico il marmo di Carrara è la sua tradizione secolare – spiega Lattanzi –; oltre che tecniche di lavorazione molto particolari come la levigatura-lucidatura, in grado di attrarre visivamente ed esteticamente anche l’occhio più distratto. L’impeccabile superficie liscia senza incrinature e l’inconfondibile colore bianco-grigio che caratterizza il marmo bianco di Carrara, sono il prodotto finale delle qualità geologiche intrinseche delle cave». Sono ben sei le varietà di marmo carrarese classificate, oltre al più classico marmo bianco. «Il più pregiato è il marmo statuario – prosegue Lattanzi – utilizzato fin dai Romani per il suo colore bianco/avorio e la sua struttura cristallina, che lo rende perfetto per la lavorazione con scalpello. Quello più comune è il marmo venato, caratterizzato da una pasta bianca o talvolta grigiastra attraversata da venature grigie. L’arabescato, il marmo calacata, il bardiglio e il marmo cipollino zerbino, completano l’inventario prodotto dalle cave di Carrara». Grazie a tale varietà di marmi, molteplici ne sono gli utilizzi; anche se col tempo l’uso artistico e scultoreo della materia è stato sostituito da esigenze maggiori in campo edilizio e architettonico. «Oggi il settore edile è quello in cui viene più utilizzato il marmo di Carrara – spiega il professore –. Arredi, manufatti, rivestimenti, pavimentazioni per bagni e saloni sono gli ambiti di maggior impiego. L’arredo urbano, inoltre, da secoli viene abbellito con fontane realizzate con questo materiale. Ne è un esempio la fontana Antelminelli di Lucca, realizzata nel 1832». La duttilità elevata del marmo è uno dei segreti che rendono il materiale così pregiato e particolarmente adatto alla scultura e all’uso edilizio. Ma ci sono ulteriori proprietà finora poco conosciute. «Il basso indice di rifrazione della calcite – svela Lattanzi –, permette alla luce di penetrare nella superficie della pietra marmorea prima di essere riflessa, conferendo a questo materiale, soprattutto ai marmi bianchi, una speciale luminosità, che lo ha reso particolarmente apprezzato».
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>a volte la materia prima è già un’opera d’ar te Lavorare fianco a fianco con la storia. È la fortuna e l’onere di chi ha a che fare ogni giorno con i marmi di Carrara. Franco Barattini titolare del laboratorio Studi d’arte cave Michelangelo, è la guida d’eccezione tra sculture, architetture e progettazioni fuori dal tempo di Ezio Petrillo
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A sinistra, l’opera Arcipelaghi di Luciano Massari; sotto, Franco Barattini; nella pagina successiva, All di Maurizio Cattelan
Quando la qualità di un materiale riesce a rendere unica un’opera d’arte. È il caso del marmo di Carrara che ha dato vita alle sculture di Michelangelo e che, quasi come una fonte di ispirazione perpetua, viene plasmato oggi da artisti contemporanei in tutto il mondo. Il laboratorio Studi d’arte cave Michelangelo gestisce alcuni dei siti da cui l’autore del David traeva i marmi per poi trasformarli nelle sculture più famose del mondo. Franco Barattini, titolare dell’azienda che oggi lavora per fornire marmi di Carrara ad artisti e clienti, spiega a fondo qualità e destinazioni del pregiato materiale carrarese. Qual è la particolarità del marmo che viene utilizzato? «Cave Michelangelo comprende anche il sito del Polvaccio, famoso perché compare depositato sugli atti
notarili che lo scultore del Rinascimento scritturava con i cavatori dell’epoca. Il materiale proveniente da questo sito è un marmo statuario che ha un cristallo molto sottile e resistente, di un colore bianco carnicino che ci permette di fare opere eccezionali. Il ratto di Proserpina di Bernini, ad esempio, è stato realizzato proprio col materiale del Polvaccio». Chi sono i suoi clienti abituali, privati o di enti pubblici? «Principalmente sono privati, artisti in larga parte. Anche per gli enti pubblici abbiamo realizzato qualcosa, ma in misura minore, visto che bisognerebbe inserirsi in gare d’appalto e perderemmo troppo tempo tra le maglie della burocrazia. Abbiamo realizzato, inoltre, manufatti lapidei in ambiti civili e religiosi. Attual-
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REALIZZARE STATUE IN MARMO DI CARRARA DI QUASI SEI METRI CON LA FABBRICA DI S. PIETRO, È STATA TRA LE ESPERIENZE PROFESSIONALI EMOTIVAMENTE PIÙ FORTI mente offriamo un supporto a 360 gradi per gli scultori, occupandoci di formare modelli in creta e gomme siliconiche. Se un creativo viene da noi con un progetto, anche con una fotocopia, siamo pronti a realizzarlo». Vista la qualità del marmo, il suo laboratorio avrà ricevuto molte richieste anche dall’estero. Quali sono i Paesi con cui lavorate maggiormente? «Jan Van Hoost, Jan Fabre, Ilya Kabakov, sono solo alcuni degli artisti con cui lavoriamo. Oltre confine abbiamo richieste specialmente da paesi europei come Francia, Belgio o paesi dell’Est. Per quel che ci riguarda la crisi economica ha influito molto poco sulla nostra attività. Gli artisti con cui collaboriamo sono di fama internazionale e ciò ci ha consentito di superare la fase
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della recessione senza problemi». Qual è l’opera più importante che lo Studio ha realizzato? «Principalmente tutta una serie di sculture per la città del Vaticano, in particolare per le nicchie esterne della Basilica di S. Pietro per cui abbiamo realizzato statue in marmo di quasi sei metri. Lavorare assieme alla fabbrica del Vaticano, è stata un’esperienza molto forte emotivamente. L’altro esempio è un’opera denominata All di Maurizio Cattelan, che è un punto di riferimento per l’arte contemporanea. L’opera è costituita da nove corpi che rappresentano sagome di uomini “insaccati” chiusi all’interno di un velo, distesi a terra e allineati. Si tratta di una serie di sculture che hanno fatto il giro il mondo e ci hanno inorgoglito in modo particolare».
>il legno oltre i clichè. Per una cor retta cultur a del costr uire Utilizzare un tipo di legno piuttosto che un altro è innanzitutto una scelta culturale, prima che estetica o economica. Tanti sono gli elementi che devono condurre alla valutazione e al successivo impiego del materiale, consapevoli delle sue caratteristiche e potenzialità. Ne parla il professor Franco Laner di Simona Cantelmi
L’industria del legno per le costruzioni offre oggi una vasta gamma di tipologie di prodotti e componenti. I progettisti devono, però, conoscerli, per evitare che il progetto sia ripetitivo e poco creativo. L’ispirazione può venire anche dal legno stesso, dai suoi colori, dalle venature e dal profumo che emana. Il lavoro non si conclude con la realizzazione della struttura in cui si è impiegato il legno, perché quest’ultimo necessita di sistemazioni e sostituzioni nel tempo. Ad affermarlo è l’architetto Franco Laner, docente di Tecnologia dell’architettura, Progettazione di elementi costruttivi, Tecnologia delle costruzioni di legno e Tecnologia del recupero edilizio presso l’Università Iuav di Venezia. Abete rosso, quercia, ciliegio, faggio, castagno. Sono alcune tipologie tra le più diffuse. Ne esistono altre? E
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a quali contesti si adattano meglio? «Il larice, per le sue buone caratteristiche di durabilità naturale, è utilizzato per le costruzioni sulle Alpi e per rivestimenti esterni; con l’abete bianco si realizzano strutture di copertura anche in Italia meridionale, come il Teatro Giordano a Foggia, recentemente restaurato, poi ci sono l’olmo, il carpino, la resistentissima robinia o il duttile frassino. Per non parlare del pino, che si può impregnare per aumentarne la durabilità, o dell’umile pioppo, leggero e veloce nella crescita come l’eucalipto, dalle molteplici e alte caratteristiche meccaniche. La specie legnosa che in assoluto ha consentito il successo dell’impiego del legno nel nostro Paese è l’abete rosso, presente nelle zone alpine, con aerale diffuso in tutta Europa».
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Quale legno si usa per le strutture abitative? «Molte sono le specie da cui si possono ricavare elementi strutturali massicci o ricomposti per realizzare solai e tetti. Purtroppo pochissimi utenti e pochi progettisti specificano di quale legno vorrebbero il solaio a vista o il tetto. Nella maggior parte dei casi si chiede genericamente “legno”. Per una porta, una finestra o un pavimento il mercato offre decine di possibilità, ma per le strutture, per legno s’intende l’abete rosso». Come mai l’abete rosso è diventato sinonimo di legno? «L’elenco dei requisiti che i legnami devono possedere per essere impiegati come elementi strutturali è lungo. Essenzialmente, però, assume importanza il modulo di elasticità (E) a flessione per le caratteristiche meccaniche, il prezzo e la disponibilità, la lavorabilità e, qualche volta,
OGNI INTERVENTO DEVE ESSERE MIRATO, PERSONALIZZATO, DIFFERENZIATO. IL LEGNO SI PRESTA A CONTINUA INVENZIONE la durabilità. Altre caratteristiche decisive sono la resistenza a determinate sollecitazioni, la tenuta dei chiodi, l’impregnabilità. L’abete è esemplare perché il rapporto fra qualità strutturale e prezzo è vincente. In questo senso nessun’altra specie è oggi in grado di competere con l’abete». Cosa può comportare questa supremazia dell’abete rosso? «Le stesse macchine per la lavorazione sono calibrate per tale specie: appena si chiede di lavorare una specie un
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po’ più dura, se ne ha il rifiuto, perché si “spaccano” le lame oppure perché bisogna sostituire le colle o ancora perché si rigano le pialle. La mancanza di alternativa all’abete rosso porterà a una specie di monopolio, non solo economico, ma soprattutto tecnico-scientifico e culturale. Ogni intervento deve essere mirato, personalizzato, differenziato. Il legno si presta a continua invenzione». Ogni tipo di legno ha caratteristiche precise ed esprime particolari sensazioni. «La specie legnosa denuncia la personalità, la cultura, le intenzioni e i significati che il progettista o il committente vogliono conferire a quell’ambiente. Non userei l’abete per un solaio a vista in un condominio di città, né il rovere per un tetto non a vista, nascosto da un controsoffitto. Il
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pino è caldissimo come il cirmolo. La quercia è sinuosa, superbo il noce, caldo ma anche inflessibile. L’architrave di ginepro è indistruttibile. E il candore dell’acero ben si adatta ad ambienti luminosi, per studiosi e scienziati. Viceversa, per spiriti ombrosi e cupi indicherei l’olmo». Ciascun legno ha il suo carattere. «È vero. Aggiungerei che se si vuole la sensuale complicità del legno, si può puntare sul larice, o su una specie da frutto, come il ciliegio. Non male anche la costante presenza del profumo del cedro, la cui riconosciuta durabilità potrebbe essere sfruttata per chiese o banche. Il castagno lo userei per ambienti rustici e per le abitazioni dell’Italia centrale e meridionale. Un ambiente eccentrico potrebbe essere esaltato dai quasi introvabili legni di platano o cipresso».
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In apertura, esempio di conglomerato di legno per un nodo spaziale lavorato con CNC; di fianco, il professor Franco Laner; a sinistra, l’auditorium Parco della Musica di Roma; sotto un bosco di abeti rossi
Perché il legno viene sempre più utilizzato dai progettisti? «Molti progettisti pensano che basti “copiare” un progetto nordico col legno. Ritengo che anche il progetto debba essere tradotto col linguaggio del “genius loci”. L’impiego del legno non è sostenuto da un’adeguata informazione tecnico-scientifica, prestazionale e semantica e si sottacciono le problematiche, che si possono superare solo con la conoscenza delle caratteristiche del legno e dei suoi ricomposti. Il legno vince perché è caldo, suadente, vivo. Perché coinvolge i nostri sensi, il tatto, l’odorato, la vista. Questo non giustifica l’idea che il legno basti a se stesso e che il progetto sia qualcosa di aggiuntivo. Servono, invece, progetti importanti da parte degli architetti».
Ci sono, però, anche tenui segnali positivi. «È vero. Dall’1 luglio 2009 anche in Italia le costruzioni di legno hanno una normativa che le disciplina. È una normativa basata su criteri prestazionali, non prescrittivi e quindi apre a nuove applicazioni e agevola l’innovazione. L’altra novità è data dalle macchine di lavorazione a controllo numerico (CNC), che consentono di lavorare il legno con grande velocità e soprattutto fare quelle lavorazioni, anche complicate, che il progettista desidera, senza ricorrere ai proibitivi costi della mano d’opera. L’altra grande novità del settore è data dai pannelli a tavole incrociate, che sposta l’attenzione dalla monodirezionalità dell’elemento strutturale (trave) alla bidirezionalità del pannello. Il passo successivo sarà alla tridimensionalità (conglomerati a base di legno)».
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>leggerezza, elasticità e ar monia dei dettagli Gli elementi d’arredo, come ad esempio la sedia, devono essere innanzitutto confortevoli, adattarsi a chi ne usufruisce. Il calore e la duttilità del legno permettono che ciò avvenga. Lo spiega il designer Damian Williamson di Simona Cantelmi
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A destra, Damian Williamson; nella pagina a fianco, la sedia “Spring”, progettata dal designer per De Padova
Il legno è un materiale caldo, naturale, che crea un’atmosfera positiva e suggestiva». Sono le parole del designer londinese Damian Williamson, che ha fondato nel 2004 l’Office for design di Stoccolma e lavora anche per realtà italiane. «È piacevole al tatto e invecchia bene, perché, col tempo che passa, acquisisce una patina che lo arricchisce». La scelta del legno dipende dal progetto in cui deve essere impiegato. «A seconda del prodotto e dell’uso si sceglie quale legno è più adatto. Ad esempio, per la sedia “Spring” che ho disegnato per De Padova ho scelto il frassino perché possiede un alto grado di elasticità. Lo scopo di questo progetto era di migliorare il comfort dello schienale e per fare ciò ho pensato di ridurre lo spessore del legno in particolari punti dello schienale. Queste parti più sottili consentono al legno di “piegarsi” quando il corpo esercita pressione. Il risultato è un’esperienza più gradevole e confortevole». Il frassino possiede qualità importanti. «Ha fibre fitte, compatte che lo rendono molto duro e allo stesso tempo un buon legno per la lavorazione». Per il designer inglese la cosa più importante è avere un’idea forte, d’impatto. «Il progetto inizia da questa,
poi, utilizzando un processo dialettico, lascio che tale idea si mostri, prenda forma e si dischiuda in maniera naturale nella perfetta armonia dei dettagli. Altro aspetto fondamentale è che il progetto sia una risposta personale e originale a linee stabilite chiaramente assieme al committente». Williamson si definisce più interessato alle idee che non a uno stile omogeneo. «Se dovessi delineare un mio stile forse lo individuerei nel mio approccio al processo di design». Creare un prodotto efficiente significa anche coniugare funzionalità, estetica e rispetto per l’ambiente. «Se il prodotto è esteticamente gradevole, è fatto bene, funziona correttamente e non danneggia l’ambiente allora c’è una buona possibilità che possa essere usato e apprezzato dagli utenti per lungo tempo». La questione della longevità interessa particolarmente Damian Williamson. «Spero che un giorno i miei futuri bambini sapranno apprezzare gli oggetti che disegno. La cosa più importante oggi è che sia il designer sia chi produce i materiali siano attenti agli eventuali effetti negativi che un procedimento, una sostanza o un materiale possono arrecare all’ecosistema e convoglino tale cura nei progetti.
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>le aziende puntano su stile e cr eati vità Il valore del made in Italy è l’arma con cui gli artigiani possono resistere a una produzione straniera seriale e a basso costo. Domenico Gambacci spiega perché Confartigianato Legno Arredo richiama il comparto a una migliore progettualità di Andrea Moscariello
Aggregarsi, puntare al confronto, sostenersi. Molti gli obiettivi al centro del tavolo della Confartigianato per uno dei settori maggiormente strategici dell’economia italiana. Anche per questo la prima associazione degli artigiani ha scelto di creare un comparto interamente dedicato alla filiera del legno-arredo. «Questa filiera costituisce sicuramente uno dei comparti più importanti per il Paese e la nostra associazione ha il privilegio di rappresentare il maggior numero di aziende a livello nazionale». Dalle parole di Domenico Gambacci, presidente di Confartigianato Legno Arredo, emerge la fortissima volontà di riportare all’at-
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tenzione il valore di questo fondamentale segmento del mercato, vittima anch’esso della congiuntura economica negativa e, a detta di molti, troppe volte “dimenticato” dalle istituzioni. «Le realtà che rappresentiamo debbono necessariamente fare rete per non rimanere fuori dai giochi, per cui il sistema di Confartigianato svolge un ruolo fondamentale come veicolo di aggregazione». Cosa ha rappresentato il 2009 per questo settore? «Abbiamo registrato una perdita media di fatturato che sfiora in alcune regioni il 30% e un calo dell’export di circa il 23%. In base alle previsioni dei nostri anali-
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Domenico Gambacci è presidente di Confartigianato Legno Arredo. Di recente, l’associazione ha dato vita a un sito web che connette le aziende del settore tenendole anche informate sulle novità più rilevanti per il comparto www.confartigianatolegnoarredo.it
sti, non sono previsti miglioramenti nel breve periodo, anche se la crisi nel Paese si manifesta in prevalenza a macchia di leopardo. Ricominceremo a rivedere il sereno a fine 2010. Vorrei sottolineare in ogni caso la grinta e la determinazione dei nostri imprenditori artigiani che lottano ogni giorno, mettendo spesso in gioco il patrimonio personale pur di resistere». Lei ha espresso il suo disappunto verso i pochi sostegni rivolti al settore dell’arredamento in seguito al decreto legge sull’incentivazione dei consumi, in cui sono menzionati, in riferimento al comparto che rappresenta, solo i mobili da cucina. «Il mio disappunto rispecchia il malumore delle migliaia di aziende che rappresento. Non si capisce perché l’intervento sia stato limitato a un piccolo segmento di un ambito molto variegato». Perché, per gli italiani, il mercato globale si sta rivelando particolarmente difficile? «Non è facile per le nostre aziende, abituate a fare della qualità e della creatività le loro armi migliori, resistere agli attacchi di industrie che, nella maggior parte dei casi, importano prodotti a basso costo. Poi, bisogna ammettere che le produzioni di molti brand importanti sono oramai completamente delocalizzate
in Paesi nei quali il costo della manodopera è irrisorio. Proprio per questo Confartigianato si sta battendo per la tracciabilità dei prodotti. È troppo facile produrre all’estero per poi inserirsi sul mercato con l’etichetta made in Italy». Quali i progetti più significativi che metterà in atto Confartigianato Legno Arredo per il 2010? «Stiamo lavorando su più fronti, da quello della comunicazione, per far pervenire in tempi rapidissimi le informazioni utili a tutti i nostri associati, ai progetti di “incoming” tramite contributi intercettati presso il ministero. Stiamo cercando di venire incontro alle nostre imprese che, essendo di piccole e medie dimensioni, da sole non sarebbero in grado di affrontare un mercato selvaggio come quello attuale e lo facciamo attraverso mostre collettive nelle principali manifestazioni italiane. Inoltre, portiamo avanti un difficile rinnovo del contratto di lavoro con il sindacato e la revisione degli studi di settore che, con il calo dei fatturati registrato nel 2009, porta oltre il 50% delle nostre imprese a non essere congrue e coerenti. Infine, stiamo continuamente lottando con il sistema bancario per tentare di beneficiare di forme di credito vantaggiose e in grado di ridare ossigeno alle aziende».
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>ambienti di le gno vestiti Lavorazioni artigianali. E linee pulite che ben si adattano a ogni ambiente. Così abitazioni e spazi pubblici si vestono di un materiale naturale ed ecologico. Che non stanca mai. L’esperienza di Fabiano Marsilio di Mobili Mec di Eugenia Campo di Costa
Un materiale naturale. Resistente e dalla bassa conducibilità termica. Che dà calore agli ambienti che arreda. Il legno è un classico che non tramonta mai. Negli arredi, negli infissi e nelle pavimentazioni. «Per quanto si possano trattare pvc, plastiche e lamierati in modo da renderli simili al legno – afferma Fabiano Marsilio, titolare della ditta artigiana Mobili Mec –, le caratteristiche di questo materiale sono ineguagliabili». Il legno accumula calore e umidità dall’esterno, usato a livello di infissi riesce a isolare perfettamente l’abitazione ed è altamente ecologico. «Le certificazioni attestano oggi la provenienza del legno da foreste vergini e anche nell’incollaggio e nella verniciatura si utilizzano sostanze sicure al 100%» spiega Fabiano Marsilio. La sua ditta sorge a Sutrio, da sempre paese di falegnami e centro del mobile della regione Friuli Venezia Giulia.
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In apertura, in basso, Fabiano Marsilio nel suo studio della Mobili Mec di Sutrio. Nelle altre immagini, alcuni progetti della ditta mecmobili@libero.it
Mec Mobili produce da sempre mobili e arredi su misura. Che tipo di prodotti realizzate in particolare? «L’azienda si è posta inizialmente sul mercato come produttrice di mobili e arredi su misura, soprattutto per abitazioni. Negli ultimi anni, pur mantenendo intatta l’impronta artigianale, il mercato si è allargato, anche attraverso contatti con aziende impegnate nelle forniture “contract”. Oggi quindi, oltre a realizzare l’arredamento intero, i singoli mobili, gli infissi delle abitazioni offrendo prodotti chiavi in mano, lavoriamo anche sugli spazi comuni, strutture ricettive pubbliche, alberghi, bar, appartamenti per vacanze. E siamo usciti dai confini regionali: nel 2008 abbiamo prodotto e montato arredi a New York e, in collaborazione con uno studio di architettura veneto, abbiamo arredato un atelier a Treviso». Nel settore delle forniture “contract”, soprattutto, il vostro lavoro si incrocia con quello di architetti e designer. Come gestite il rapporto con questi professionisti? «A livello di “contract” si lavora su progetti eseguiti esclusivamente da studi di architettura. In questi casi si segue il disegno dell’architetto, difficilmente ci sono modifiche. Il rapporto con architetti e designer si instaura nel momento in cui il cliente si rivolge a noi insieme all’architetto, oppure, come nel caso del contract, quando esiste già un disegno dell’architetto da realizzare e seguire fedelmente. Spesso l’azienda e l’architetto vanno avanti di pari passo nei lavori, altre volte capita che il falegname debba finire prima alcuni lavori in modo che l’architetto completi la struttura o, viceversa, che il lavoro dell’azienda subentri una volta che l’architetto ha completato l’ambiente dove devono essere inseriti i mobili». Quali sono le ultime tendenze dell’arredamento in legno? «Prevalgono le linee pulite, anche se i legni possono variare. I precomposti, ultimamente molto utilizzati, sono agglomerati di tranciato, incollati e poi tagliati trasversalmente, ottenendo una finitura uniforme, con un effetto più marcato a linee, anche di colori diversi, i cosiddetti “fine line”. Diversamente, si passa al classico wengè, oggi di nuovo di moda, o a una finitura di rovere sbiancato o ciliegio naturale. Poi ci sono i dettagli come le piccole ante, in laccato, per dare un ulteriore stacco di profondità e di luce. Per quanto concerne i pavimenti, con il parquet, laminato, in massello, trattato o da verniciare, si trova sempre la soluzione giusta».
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>i mat eriali definiscono l’ambiente La scelta dei materiali avviene in base al contesto, alla destinazione d’uso e alle necessità del committente. Tutti gli aspetti devono fondersi in armonia per dare all’ambiente un particolare significato. Il parere di Elisa Casson e Maurizio Cassetta di Simona Cantelmi
«L’aspetto più complesso della progettazione sta nel comprendere e interpretare ciò che il committente desidera». A sostenerlo l’architetto Elisa Casson e il geometra Maurizio Cassetta di Venezia. In effetti l’architetto può riuscire a inserire la propria impronta nel progetto solo se c’è feeling con chi poi dovrà usufruire di quello spazio. «Se si instaura una certa sintonia spiega Casson - si ha maggiore possibilità di fare qualcosa di personale e di lasciare il proprio segno, anche caratterizzando il contesto locale. I materiali possono variare, ma l’impronta del lavoro proviene proprio dalla collaborazione tra architetto e committente». Sperimentare sulle strutture e sui materiali si può, ma sempre e solo se c’è la volontà da parte di entrambi. «Ritengo che lo scopo del progettista sia di creare una pelle sugli edifici» afferma Cassetta, «e per farlo si possono utilizzare diversi materiali. Per esempio il metallo è talmente flessibile da poter racchiudere qualunque edificio, di qualsiasi forma. Personalmente prediligiamo le architetture moderne, aperte alla luce. Nei lavori cerchiamo di utilizzare fondamentalmente il bianco
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e il nero, giocando sui dettagli dei materiali, come il vetro, le resine, l’alluminio, lo zinco titanio, o impiegando per rivestimenti la pietra o la ceramica». Questi diversi materiali possono anche essere utilizzati insieme, pertanto devono unirsi in armonia. «Tutti i materiali vengono scelti in base alla funzionalità e alla finalità d’uso di quell’ambiente - prosegue Casson - e partendo da questo presupposto poi si può sperimentare l’impiego di certi materiali in ambienti dove abi-
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Nella pagina a fianco, in alto, interno progetto di villa “66”; sotto, l’architetto Elisa Casson e il geometra Maurizio Cassetta. In questa pagina, sopra, progetto di “comunità alloggio per disabili”, vista generale del fronte est-sud; qui a fianco, a sinistra, altra visuale dell’interno della villa “66”; sotto, particolare dell’interno del bagno di un appartamento duplex casson.arch.elisa@libero.it geom.mauriziocassetta@gmail.com
tualmente non si userebbero. Faccio un esempio: il parquet nel bagno, oppure il legno naturale nei rivestimenti sull’esterno, se sono poi previsti adeguati lavori di manutenzione». La scelta del materiale è influenzata anche dal contesto ambientale in cui sorgerà la struttura. È l’ambiente a dare i primi spunti, «a suggerire se utilizzare materiali più naturali oppure più costruiti. È necessario fare una ricerca sui materiali del luogo – spiega il geome-
tra Cassetta - per cui, per le case di campagna usiamo certi tipi di materiali, come gli intonaci e le pitture a base di calce, la pietra, il mattone a vista; mentre per gli edifici in città osiamo di più, con l’impiego di materiali innovativi tipo la lega di zinco e titanio, il rame, l’alluminio anodizzato e con il dialogo vetro e acciaio che caratterizza l’architettura urbana del xx secolo». L’impiego di questi materiali contemporanei è molto presente in paesi europei come Germania e Olanda, ma non è molto sviluppato in Italia. «È un peccato perché, un po’ come succede nella scultura, anche nell’architettura la personalizzazione e l’espressione della creatività derivano non solo dalla forma ma anche dai materiali che si utilizzano».
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>l’anima di un’ar te antica Alla scoperta di innovativi scenari artistici grazie alle collezioni della celebre Linea Mazzuccato. Un incontro tra colori, fossili, gioielli e vetro. Il tutto amalgamato dalla suggestiva visione del maestro Afro Celotto e delle nuove generazioni sostenute dalla storica azienda muranese di Paolo Lucchi
Un progetto di visibilità e valorizzazione artistica. Tre amici, esperti nel settore produttivo, commerciale e del design, che sin dagli anni settanta hanno unito le loro conoscenze creando collezioni di particolare bellezza e caratteristica incisione. La storia della Linea Mazzuccato è anche, e soprattutto, questo. Molte le firme che hanno potuto esporre ed esportare i loro pezzi nella galleria creata dal gruppo. E nel futuro già si delinea l’affermazione del più recente dei progetti, l’Art Glass Studio, nato con l’intento di creare un’arte dissociata dalla diffusa standardizzazione di molte produzioni di Murano. «La nuova struttura è nata in un
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momento di crisi per il vetro di Murano – spiega Nicola Foccardi, della Linea Mazzuccato -. Proprio per contrastare l’invasione di tonnellate di vetro orientale, abbiamo puntato sull’alta qualità dei vetri prodotti, sulla cura dei dettagli, sulla riscoperta di antiche tecniche. L’esperienza dell’artista Afro Celotto e del maestro aiutante Fabio Follin hanno permesso la creazione di pezzi fino ad ora mai realizzati». E a colpire, infatti, è la straordinarietà cromatica delle opere di Celotto. Oggetti che portano una persuasione quasi ipnotica agli occhi dei collezionisti. «La mia ispirazione proviene dalla città in cui sono nato e cresciuto, Burano, città famosa in
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In alto, a sinistra, e qui accanto, le opere “Net” e “Dafni” dell’artista Afro Celotto. In alto e sotto, due pezzi della collezione della Linea Mazzuccato, “Sassi Montati” e in basso, “Turtle”
tutto il mondo per le sue case variopinte – confessa il maestro Afro Celotto -. Cerco di amalgamare i vari colori e le forme delle mie opere in un motivo armonico, una sequenza di note che esalti l’opera». Molte le soddisfazioni raccolte dall’artista a livello internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, terra in cui ha potuto sperimentare nuove idee e tecniche di lavorazione. Nonostante questo, però, anche Celotto ha affrontato in prima persona la crisi che, ovviamente, colpisce il mondo dell’arte. «Lo scorso anno, proprio per le divergenze nate sul come affrontare la congiuntura attuale, ho chiuso lo studio e per circa 9 mesi ho riflettuto e meditato su cosa proporre di nuovo». E a sostenere l’artista è stata proprio la collaborazione con la Linea Mazzuccato. «L’amicizia fraterna con il presidente della Linea Mazzuccato, la voglia di entrambi di fare qualcosa di nuovo e importante per Murano e la sua arte millenaria, le risorse e disponibilità finanziarie e commerciali messe a disposizione sono state decisive per me – racconta Celotto -. Con Nicola Foccardi abbiamo già avviato una serie di iniziative, che vanno dalle prossime esibizioni e mostre
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in Olanda, a Maggio, e negli Stati Uniti a Novembre». E non a caso, fulcro della Linea Mazzuccato è proprio la ricerca. «La parte più interessante del nostro lavoro è lo sviluppo di nuove idee e la creazione di nuovi pezzi, sia artistici che per l’arredamento – interviene nuovamente Foccardi -. Le nuove generazioni sono molto importanti in quanto, spesso, offrono la possibilità di sviluppare forme, colori e tecniche fino a oggi mai provate». Il tutto in un mercato dell’arte che delinea una doppia tendenza. La prima si orienta ancora verso opere classiche, la seconda su pezzi di arte moderna. «Nell’arredamento piace ancora molto il lampadario classico veneziano, accompagnato spesso da meravigliose specchiere. Nelle opere invece notiamo un chiaro indirizzo moderno, spesso grazie ad artisti come Pino Signoretto, Adriano Dalla Valentina, Dino Rosin e Afro Celotto». E nel 2010 l’agenda della linea si caratterizzerà per la collaborazione con importanti realtà produttive e artistiche. Già nel 2008 è iniziata la partnership con la canadese Korite International, principale produttrice al mondo di gioielli in Ammolite. «La bellezza delle loro gemme ci ha colpito tanto da iniziare non solo l’importazione e distri-
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In alto, a sinistra, due vasi del maestro Afro Celotto ispirati ai gioielli realizzati in Ammolite, in collaborazione con la società canadese Korite International; in basso, una cassaforte della linea Zero3Zero, realizzata in collaborazione con l’azienda Borgogna. In questa pagina, il lampadario “Roseto” della Linea Mazzuccato cco@lineamazzuccato.it info@artglasstudio.com
buzione in Europa, ma anche la realizzazione, da parte del Maestro Afro Celotto, di pezzi in vetro ispirata ai gioielli – spiega Foccardi -. Abbiamo quindi allestito presso le nostre sale d’esposizione una gioielleria con le gemme più preziose, dei fossili preistorici e circondate da magnifici pezzi multicolori eseguiti dall’artista, ottenendo un inaspettato successo nelle vendite di entrambi». Nel 2009 è poi iniziata una collaborazione con la Borgogna Casseforti, sfociata nella realizzazione delle pannellature in vetro di Murano delle casseforti della linea Zero3Zero. La prima prodotta è stata quella con vetri tipo “ammolite” dove è stata inserita, nell’apertura, una pietra di dimensioni e valore notevoli, alla quale è seguita la produzione di una versione speciale in murrina donata poi al Papa». E per il 2011? «Stiamo lavorando, in occasione della Biennale d’Arte del 2011, alla mostra “La storia e la Preistoria”, sempre in collaborazione con i nostri partner canadesi. La preistoria sarà rappresentata dall’esposizione di fossili antichi e dinosauri del periodo cretaceo, la storia sarà raffigurata dai vetri a loro ispirati, realizzati dai più importanti maestri di Murano».
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>dal calor e fondente nasce l’ar te del maestr o La scoperta della lavorazione del vetro dalle parole di uno dei maestri più giovani e promettenti di Murano. Alberto Striulli, dal suo laboratorio, porta avanti un’arte sulle cui spalle poggia una delle tradizioni più radicate del Nord Italia e che rischia, tristemente, di scomparire di Carlo Sergi
Il vetro caldo, come una scia, che assume le forme dettate dal suo maestro. La tradizione di Murano, quella più antica, si fonda con la creatività delle ultime generazioni di artisti vetrai. Seppure pochi rispetto al passato, ancora oggi sull’isola si trovano giovani di grande talento. Tra questi, Alberto Striulli. Una vita interamente passata a modellare il vetro. Si appassiona sin da giovane al mestiere, apprendendone le tecniche e trovandovi l’ispirazione fonte della sua produzione artistica, che a breve festeggerà vent’anni di presenza sul mercato di Murano. «Sono uno dei maestri più giovani rimasti in zona – racconta Striulli -. Anche per questo esprimo moltissima passione, amore e dedizione, nel portare avanti la tradizione di un’arte quasi scomparsa». Un’opera, quella del vetraio, che prende piede sin dalla lavorazione delle materie prime che, miscelate, creano il vetro. Si utilizzano principalmente la sabbia o la silice, sostanze dette appunto “vetrificanti”. L'ossido di sodio o la soda, dette invece "fondenti", vengono aggiunte alla sabbia per formare lo stato liquido della stessa a una temperatura minore.
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Nelle immagini, alcune opere realizzate dalla Striulli Vetri d’Arte di Murano. In prima pagina, in basso, il maestro Alberto Striulli durante una fase di lavorazione del vetro www.striullivetriarte.it striulli@alice.it
«Maggiore è la quantità di sodio presente nel vetro e più questo solidifica lentamente – spiega il maestro -. Se la quantità è eccessiva, il vetro, a contatto con l'umidità atmosferica, opacizza». Tanta la passione riposta dall’artista, al punto da preparare egli stesso le miscele, predisponendone la fusione fino alla lavorazione e, quindi, la produzione completa. «Per trasformare le poveri che compongono le varie colorazioni di vetro occorrono circa 10 ore di fusione – spiega il maestro -. e i forni devono essere riscaldati fino a 1400 gradi». Una lunga e complessa lavorazione dunque. Per ottenere un vetro praticamente perfetto occorre infornare più volte le poveri o le miscele, in maniera tale che le stesse si sciolgano in modo omogeneo. Ma è difficile conoscere con esattezza l’intera procedura. «Ogni vetreria conserva con gelosia la propia “ricetta” per la preparazione del vetro» racconta Striulli. «Tra gli oggetti che trovano il riscontro maggiore vi sono, ad esempio, i bicchieri. Questi sono estremamente pregiati sia per la manodopera, sia per la raffinatezza del vetro – spiega il maestro -. Infatti, lo stesso viene realizzato in maniera tale da permettere una costante brillantezza e lucidità all’oggetto, senza problemi di opacizzazione nel tempo». Una politica, quella seguita dal laboratorio, che porta alla massima attenzione verso ogni singolo prodotto. A Murano, infatti, gli intenditori non ricercano produzioni in serie, ma oggetti creati su misura. «Questo lo riscontriamo soprattutto nella produzione dei lampadari, che possono essere ricreati con colori e tagli sartoriali, a seconda dei gusti del collezionista, dell’acquirente». Molti, infatti, sono anche gli architetti e i designer che commissionano oggetti e opere di restauro al laboratorio artistico di Striulli. Perché il vetro crea, e ricrea.
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Photo Bruno Barovier
Photo Vesign Studio
>una ricerca che conser va la tradizione Dal Veneto al mondo intero. Il maestro Fabio Fornasier raccoglie il successo ottenuto grazie alla sua ultima linea di lampadari, la collezione LU-Murano. Il risultato di una ricerca, di una dedizione e di una sperimentazione celebrata internazionalmente, ma curiosamente “snobbata” in Italia di Andrea Moscariello
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Non deve essere facile raggiungere un’armonica coniugazione tra tradizioni millenarie e innovative concezioni di design. In fondo, però, Murano è anche questo. Nuove generazioni di maestri stanno rendendo l’isola fulcro dell’espressione di nuovi linguaggi stilistici, di visioni artistiche moderne e ingegnose. Ne è un esempio il recente successo raccolto dai lampadari della collezione LU-Murano, frutto della creatività e dello spirito imprenditoriale di uno dei maestri più giovani dell’isola. Fabio Fornasier è un figlio d’arte. Dopo avere appreso, sin dall’adolescenza, gli antichi segreti dei maestri vetrai muranesi dal padre Luigi, dimostrando, sin da subito, una predisposizione per le tecniche più difficili e complesse, ha insegnato nelle più importanti scuole vetraie e di design del mondo, assorbendo concetti estetici e senso del gusto di Paesi e culture differenti. Fondamentale e illuminante fu l’incontro con l’amico Richard Meitner, durante uno dei suoi soggiorni in Olanda, quando al maestro Fornasier venne chiesto di condurre i seminari di soffiatura, presso la Gerrit Rietveld Academy di Amsterdam. Il noto designer olandese è stato sempre convinto, contrariamente a quanto da sempre si afferma a Murano, che le opere più semplici, libere da elementi barocchi,
Photo quasar srl
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Alcuni lampadari della collezione LU-Murano. Per il 2010 Fornasier ha in programma due mostre, una a Los Angeles, a Maggio e una nel Design District di Miami, a Giugno. Il maestro, inoltre, presenterà molto probabilmente il suo nuovo progetto di illuminazione, un’evoluzione della Collezione LU-Murano, espressamente pensata, per le zone bar di club, ristoranti ed hotel, all’imminente fiera Light+Building di Francoforte - www.lu-murano.it
& Objet, a Parigi, all’Euroluce di Milano, all’evento Abitare il tempo di Verona e, dalla prossima edizione, al Light+building di Francoforte. E sempre il design del lampadario LU ha vinto il primo premio durante gli Uk Lighting Design Awards 2010. Fornasier, prima dell’Inghilterra, ha ricevuto altri importanti premi internazionali. Penso, ad esempio, al premio ricevuto per il suo lampadario Re Wine durante la biennale di Cheongju, in Corea del Sud, nel 2007. Sembrerebbe riscuotere più successi all’estero che in Italia. SENTIVO L’ESIGENZA DI REALIZZARE UN LAMPADARIO «In parte è vero. Non mi spiego la DIVERSO NELLA STRUTTURA, NUOVO NEL DESIGN latitanza dei galleristi italiani, che MA COERENTE CON LA TRADIZIONE contrasta con il vivo interesse e apprezzamento, manifestatimi da molti loro colleghi stranieri». sono, spesso, per stile e originalità, le più belle. Una riCosa le piace, soprattutto, della collezione LU? valutazione che, certamente, non è stata scontata per «Sicuramente il suo senso del movimento, quel dinamiFornasier, che per scrollarsi di dosso una tradizione milsmo asimmetrico, un po’ pazzo, ma armonioso nel conlenaria ha dovuto affrontare anni di sperimentazione. Ma tempo, quasi che un rèfolo di vento l’avesse dolcemente tanto è servito per raggiungere il suo obiettivo. «I lamspettinato. Un movimento che però non si riproduce, è padari della collezione LU-Murano sono il risultato di anni concepito per ogni singolo pezzo, cambia di lampadario dedicati alla ricerca e alla realizzazione di prototipi – racin lampadario. Pensi ad un pittore, al quale vengono conta il maestro -. Sentivo l’esigenza di realizzare un lamcommissionate 10 tele: alla fine, ognuna di queste risulpadario diverso, nuovo nel design, ma coerente con la terà diversa dalle altre, ma tutte, per la tecnica utilizzata, tradizione, nella struttura». E negli anni sono arrivati imper i colori predominanti e per la pennellata, saranno riportanti riconoscimenti. Quando il prototipo del lampaconducibili all’autore. Ogni mio cliente o collezionista ha dario LU fu presentato per la prima volta al pubblico a il suo personalissimo LU, e ogni LU, pur nella sua diverVitraria nel 2004, la più affermata storica dell’arte murasità, fa parte della collezione». nese, Rosa Barovier Mentasti, disse testualmente: “Il LU Alcuni, a Murano, la criticano per aver insegnato alè il lampadario muranese più innovativo degli ultimi trenl’estero, e non solo in Europa, le tecniche muranesi. t’anni”. L’attività fieristica è stata poi decisiva per la di«Chi mi ha invitato, mi ha invitato per insegnare; io sono vulgazione del brand LU-Murano. I lampadari della andato per imparare». collezione sono stati e saranno presenti al Salon Maison
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>dagli atenei italiani una proposta qualificata “L’architettura è la più antica professione sulla terra, l’arte del costruire, ma anche di rappresentare le cose”. È un mestiere in continua trasformazione, che deve essere però sempre in grado di garantire la funzionalità rispetto al mercato del lavoro. Obiettivi ambiziosi arrivano dalle prestigiose facoltà di architettura presenti in Italia di Renata Gualtieri
FORMAZIONE
In apertura, gli studenti della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, sopra, l’ingresso della Facoltà
Coniugare gli aspetti tecnici, scientifici e umanistici nell’offerta formativa degli atenei per gli architetti del futuro. Si cerca di proporre un’idea di architettura non accademica e formalistica, ma attenta alle esigenze del contesto, della sostenibilità, dell’abitare. «Il nostro progetto formativo – sostiene Pier Carlo Palermo, preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano – ha alle spalle una lunga e importante tradizione senza eludere le sfide della attualità. L’architettura, “la più politecnica delle arti umane” richiede esperienze formative di natura progettuale, storico-critica e interpretativa, tecnica e scientifica. Bisogna garantire relazioni equilibrate ed efficaci tra queste diverse istanze. «Non basta curare l’innovazione delle tecniche che può offrire ai giovani suggestioni attraenti – precisa – senza un solido quadro
di riferimento culturale, né esplorare qualche ramo delle scienze umane, se non si è in grado di giustificare e valorizzare queste scelte in relazione a un’idea di architettura». Secondo indagini svolte dall’Ateneo, l’85% dei laureati del Politecnico nel 2008 lavora entro un anno dalla laurea, e il 70% degli occupati trova lavoro entro 4 mesi. Il profilo del giovane architetto italiano, con buone capacità critiche e progettuali, ma anche una robusta formazione tecnica, sembra essere oggi competitivo nel quadro internazionale. I workshop estivi di progettazione architettonica sono un’importantissima esperienza didattica e una grande opportunità offerta invece agli studenti dell’Università di Venezia. «I workshop – dichiara il preside della Facoltà Giancarlo Carnevale – sono un punto forte della nostra scuola, non solo in Italia. Met-
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Sopra, workshop estivo progettazione architettonica dello Iuav di Venezia; a fianco, la Facoltà di Architettura dell’ateneo veneto
tiamo insieme quasi 2.000 studenti che per 3 settimane vengono distribuiti in 30 atelier e lavorano a tempo pieno nel Campus di Santa Marta diretti da docenti provenienti da tutto il mondo. Al termine di questa esperienza c’è una mostra di tutti gli atelier dove gli studenti realizzano plastici e modelli e curano gli allestimenti stessi». I neolaureati dello Iuav trovano facilmente lavoro nella propria regione. «I nostri laureati – sostiene Giancarlo Carnevale – sono al primo posto rispetto alle indagini che fa Alma Laurea per la velocità con cui si inseriscono nel mondo del lavoro. Dopo il primo anno quasi l’80%, dopo 3 anni non c’è praticamente nessun disoccupato». Un piano formativo sempre più aperto alla domanda che viene dal territorio e conoscenze interdisciplinari, legate ai segni che si vanno a depositare sul paesaggio, ma anche
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all’housing. «Sono tutte questioni – commenta il preside – che vogliamo riportare all’interno dell’insegnamento, sia perché i nostri giovani abbiano capacità spendibili sul piano professionale, sia per offrire una risposta professionalmente qualificata a nuovi partner». Il problema di riuscire a contemperare serietà degli studi, tempi di permanenza all’università non eccessivamente dilatati, ma comunque utili a garantire l’acquisizione di conoscenze e competenze per un proficuo inserimento dei neolaureati nel mondo del lavoro, che deve avvenire secondo tempi e modalità in linea con standard nazionali ed europei, ha indotto anche la Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli a compiere scelte organizzative mirate a conciliare complessità degli studi e tempi di durata degli stessi. «Tali obiettivi – precisa
FORMAZIONE
I WORKSHOP ESTIVI DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA SONO UN’IMPORTANTISSIMA ESPERIENZA DIDATTICA OFFERTA DALL’UNIVERSITÀ DI VENEZIA A OLTRE 2.000 STUDENTI PROVENIENTI DA OGNI PARTE DEL MONDO
Claudio Claudi de Saint Mihiel, preside della Facoltà di Architettura dell’università partenopea – vengono perseguiti attraverso due azioni. La prima si basa sull’istituzione dello “studente a contratto” di una figura, cioè, che programma le scadenze del suo iter formativo sia in funzione di eventuali lacune che ravvisa in determinate aree disciplinari che caratterizzano il percorso di studio scelto, sia con una modulazione del tempo che potrà dedicare all’apprendimento in relazione alla complessità degli insegnamenti che si troverà ad affrontare. La seconda si basa su una didattica sostenibile che, cioè su un attento rapporto tra contenuti minimi e crediti formativi, garantendo al contempo l’equilibrio tra monte ore di lezioni e studio a casa e la loro reale efficacia per l’acquisizione delle conoscenze imprescindibili per i pos-
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>Re g gio Cala bria e Fir enze. Innov azione nell’atti vità didattica Interessanti le prossime sfide in termini di offerta didattica, tecnologia e innovazione che fanno capo alle Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze (nella foto) e dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria per continuare ad essere polo attrattivo per gli studenti. «L’obiettivo – spiega il preside della Facoltà di Architettura di Firenze Saverio Mecca – è riorganizzare l’offerta didattica, mantenendo l’organizzazione delle tre linee formative, architettura, urbanistica e disegno industriale, rafforzando i collegamenti e rendendo l’offerta più compatta e più omogenea da parte della facoltà e migliorare tutti i laboratori tecnologici a supporto dell’attività didattica, dai laboratori di disegno auto-
matico che stiamo ora rinnovando ai laboratori relativi alla sperimentazione di materiali, soluzioni tecniche, aspetti meccanici e strutturali, di rilevamento avanzato e infine il potenziamento dell’attività formativa del terzo ciclo». Sapere cosa si fa dopo la laurea diventa sempre più una sfida importante per i giovani. «Abbiamo istituito – continua il Mecca – un tavolo di lavoro con la Federazione dell’Ordine degli architetti della Toscana per affrontare in modo sistematico il passaggio al mercato del lavoro e un nuovo master per sostenere i nostri laureati e avviarli ad un esercizio della professione che sia sostenuto anche da metodi e strumenti che li rendano professionisti non soltanto competenti ma anche
sibili sbocchi occupazionali in congruenza con il titolo di studio conseguito». Come risulta dalle più recenti statistiche ad un anno dalla laurea circa il 40-45% dei laureati in Architettura della Federico II trova un’occupazione e per lo più presso studi professionali. «La Facoltà – aggiunge il preside della Federico II – cerca sempre più interazioni con le realtà produttive, imprenditoriali, istituzionali e professionali in modo da modellare i suoi percorsi formativi anche in virtù delle esigenze e delle richieste di tali interlocutori e punta molto sulla diversificazione e sulla chiarezza dei percorsi formativi in modo da recepire le istanze della società e dei comparti produttivi presenti nella regione al fine di preparare classi di professionisti rispondenti alle contemporanee esigenze del mercato del lavoro». La facoltà di Architettura e So-
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cietà del Campus Leonardo del Politecnico di Milano mette a disposizione ogni anno 1.300 posti. I candidati non provengono soltanto dalla regione Lombardia, ma anche da varie parti del paese o dall’estero. Sono circa 700 i posti disponibili per le due lauree magistrali in Architettura e in Pianificazione. Il Politecnico comprende anche la facoltà di Architettura Civile, con sede alla Bovisa, che offre 450 posti di primo livello, e una grande facoltà di Design. «Siamo oggi – dichiara il preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano – la sola scuola italiana di Architettura che ha attivato progetti formativi in lingua inglese, aperti a studenti italiani e internazionali, ai tre livelli di studi: bachelor, master of science e dottorato». Tutta la cultura architettonica italiana riconosce allo Iuav un ruolo storico importante e anche in un
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capaci di muoversi nella realtà complessa del mercato del lavoro e del progetto». L’efficienza della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria è determinata dal fatto di controllare continuamente che docenti e studenti interagiscano per il meglio e dall’utilizzo di un calendario programmato con largo anticipo, pubblicato su un sito internet interattivo e da un controllo del numero degli studenti iscritti per corsi e laboratori. «Cerchiamo – chiarisce la preside della Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Francesca Fatta – di doppiare le attività didattiche in modo tale che così non si superi un certo numero che è di 100 per quanto riguarda i corsi teorici e di 50-70 massimo i laboratori». In questi ultimi 2 anni hanno preso molto piede i corsi e-lear-
ning, cioè corsi di recupero per gli studenti fuori corso e quelli a-learning, cioè l’assistenza per i corsi in presenza. La Facoltà di Architettura di Reggio Calabria sostiene lo sviluppo di idee innovative degli studenti organizzando workshop come “Archi-sostenibile” che è un progetto legato alla sostenibilità, aperto a tutti i laureandi e dotto-
momento di crisi c’è dunque molto apprezzamento per questa facoltà. «I dati più recenti – spiega il presidente della Facoltà di Architettura dello Iuav – parlano di 600 studenti, più 30 provenienti dal programma Erasmus ogni anno. Il corso di laurea in management edilizio vede poi 60 iscritti ogni anno. Gli stranieri, oltre gli studenti Erasmus, non sono molti. Solo alcuni svizzeri e studenti provenienti dai Balcani e dalla Croazia per facilità di lingua». La Facoltà di Architettura della Federico II è molto attiva per quanto riguarda gli scambi internazionali legati al programma Socrates-Erasmus. Significativi sono i workshop e i seminari internazionali che hanno visto impegnati docenti e studenti in importanti momenti di scambio culturale e di approcci formativi e operativi.« Da segnalare- aggiunge il Preside della Facoltà di Architet-
randi. «Abbiamo previsto – aggiunge la preside – dei concorsi interni con dei premi sulla fotografia d’architettura, ma anche su piccoli progetti legati alla vivibilità all’interno della Facoltà un premio di design in memoria di Antonio Quistelli, che premierà i migliori progetti di design dei corsi di lavoro industriale».
tura partenopea- le attività scientifico-didattiche tra la nostra Facoltà e la Facoltà di Architettura di Montevideo, il Palestine Polytechnic di Hebron, la Uaa di Aguacalientes e della Montolina di città del Messico, il Rizvi College of Architecture di Mumbai, l’Ecole d’Architecture di Paris La Villette e l’istituzione di un dottorato internazionale in Filosofia dell’Interno Architettonico, cui aderiscono 3 università messicane: Uaa di Aguascalintes, Universidad Montolina del Pedregal, Universidad Marista». Ai test di ammissione alla Facoltà di Architettura di Napoli della Federico II per l’anno 2009-2010 hanno partecipato 1.100 aspiranti, segno che la professione di architetto, e in particolare la formazione che la Facoltà è in grado di sviluppare, continua a esercitare un indubbio appeal sui giovani.
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RESTAURO Venaria Reale
>la Venaria Reale ritor na al suo antico splendor e Più di dieci anni di restauro ne cancellano duecento di totale abbandono. Era il 1820 quando la Reggia di Venaria fu abbandonata dai Savoia. Oggi, grazie a un impegnativo progetto di riqualificazione coordinato da Francesco Pernice, la Venaria Reale sta ritrovando l’antico splendore di Ezio Petrillo
Restituire alla storia un antico scrigno di bellezza. C’è questo e molto altro in un’opera di restauro, un luogo magico dove conservazione e innovazione si fondono in totale armonia. La Venaria Reale è esattamente questo. La Reggia, il borgo antico, le scuderie, i giardini, sono come tessere di un prezioso mosaico da poco rispolverato, alle porte di Torino. La storia del restauro del complesso di Venaria è stata ardua, tortuosa, ma sta per concludersi con un lieto fine. Dopo decenni di colpevole abbandono, nel 1997 è stata decisa la riqualificazione della Reggia, con il sostegno dell'Unione europea, della Regione Piemonte e dei comuni di Torino, Venaria e Druento. L’ingegner Francesco Pernice, oggi conservatore capo del Consorzio La Venaria Reale, ha coordinato i lavori di restauro, e ci spiega metodi, tempi e innovazioni attuate nella riqualificazione di un complesso che appartiene al patrimonio mondiale dell’Unesco. Come è nata l’idea del progetto di restauro? «Prime parziali attività di recupero della Venaria cominciarono già nel 1994, quando ho curato l’intervento di recupero della Galleria Grande e ho organizzato un convegno sulla destinazione d’uso del complesso, i cui atti sono pubblicati nel volume Memoria e futuro. Il progetto vero e proprio è nato, invece, nel 1997 con fondi del ministero per i Beni e le attività culturali. L’allora ministro Veltroni stanziò insieme al ministero delle Finanze, i primi 45 miliardi di lire che furono successivamente integrati dall’Unione europea, dalla Regione Piemonte e dallo stesso ministero».
Quali linee guida architettoniche sono state privilegiate? «I lavori di restauro della Reggia, del Borgo Castello, della Mandria e delle cascine interessate al progetto, sono stati condotti nel rispetto delle tipologie costruttive e ricostruendo ciò che veniva scoperto durante le opere di restauro. La Reggia era in uno stato di totale incuria da 200 anni. Negli ultimi 50 anni aveva subito atti di vandalismo che l’avevano ridotta a un rudere tanto da minacciarne il crollo e la perdita. Questo stato ha imposto un nuovo modello di progettare il restauro nel rispetto del periodo storico, dando molto spazio alla ricerca e alla diagnostica materica. Sono state applicate le più innovative tecniche di restauro, utilizzando la moderna scienza delle costruzioni e lo studio di nuovi materiali di composizione chimica analoga a quelli antichi, anche per abbattere i costi di restauro». Si è trattato, insomma, di una perfetta fusione tra antico e moderno. «Direi di sì. Un elemento innovativo è stato quello di ritornare alle vecchie tecniche delle arti e mestieri, utilizzando anche squadre di artigiani appositamente addestrate alle lavorazioni antiche e all’uso della calce, eliminando il cemento che negli anni Settanta e Ottanta ha creato tanti danni ai monumenti. La singolarità del restauro è stata quella di far collaborare i restauratori con gli artigiani. Questo modo di operare ha creato nuove professionalità e nuovi posti di lavoro, divenendo fucina di mestieri di qualità e di attività professionali».
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Quali sono stati gli interventi maggiori nel corso del restauro? «Ogni muro o stucco ha una storia a sé ed è stato studiato nel minimo particolare per scegliere il corretto restauro. Forse, però, merita un capitolo a sé la soluzione della corte d’onore dove si è dovuto intervenire sulla ritrovata fontana seicentesca del cervo. La struttura è stata restaurata con metodo archeologico ricostruendo l’eccezionale disegno del mosaico ritrovato all’interno della vasca con una soluzione moderna. Particolari difficoltà sono state affrontate nel restauro dei piani alti, tra i più degradati del complesso, perché gli interventi degli anni Settanta e Ottanta, che pure salvarono l’edificio dal crollo, furono realizzati in cemento armato e modificarono le quote dei piani». Sono state usate tecniche all’avanguardia anche nell’ot-
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tica di un abbattimento dei costi? «Il cantiere Venaria si pone come cantiere della conoscenza, e ha sviluppato nuove tecniche e metodologie di intervento. Ne è un esempio la macchina “jos rotec” per la pulizia delle facciate e degli apparati decorativi; un apparecchio particolare che salvaguarda la salute dell’operatore, la conservazione degli apparati decorativi e il rispetto dell’ambiente. La macchina usa inerti finissimi la cui peculiarità è la riduzione della polvere di ben cinquanta volte rispetto ad altri inerti, con notevole riduzione dei rischi per l’apparato respiratorio. Altra tecnica all’avanguardia è stata quella della vaporella modificata con l’applicazione di una particolare ventosa che ha permesso di abbattere i tempi di pulizia e di rimuovere le sovrapposizioni di pitture allo strato originale in brevissimo tempo
RESTAURO Venaria Reale
con risparmi notevoli sui costi degli interventi». Secondo la sua esperienza, qual è la peculiarità della Reggia di Venaria rispetto agli altri complessi architettonici di questo tipo? «Il progetto Venaria Reale ha lanciato una nuova forma di partecipazione e avvicinamento dei giovani al cantiere. Sono stati, infatti, istituiti corsi di formazione, dove gli studenti fanno pratica di restauro, in modo da avviarli al mondo del lavoro. Venaria, inoltre, è una Reggia che non ha barriere architettoniche in quanto il progetto è stato studiato fin dall’inizio esaminando nei minimi particolari gli accessi e i dislivelli. Ma la peculiarità maggiore della Reggia è rappresentata dal recupero delle sue architetture, dagli affreschi agli stucchi, dalla Galleria Grande alla chiesa di S. Uberto dello Juvarra, arrivando poi alle grandi
scuderie e citroniere. Un altro aspetto interessante di questo progetto è la riqualificazione della città di Venaria. Nel 1994 ivi regnava il degrado. Oggi si è ottenuto un recupero sociale delle zone limitrofe, i cittadini hanno iniziato a conoscere la loro reggia, a frequentarla e a rispettarla». Quanto è importante l’aspetto della manutenzione dopo il restauro e quali interventi sono stati attuati in questo senso? «Questo argomento è importantissimo in qualsiasi progetto perché serve per abbattere i costi di mantenimento. A Venaria ciò è stato tenuto presente e studiato fin dall’inizio della progettazione, realizzando ad esempio una serie di cavi di acciaio e picchetti a cui si legano gli operatori con cinture di sicurezza evitando in questo modo di dover utilizzare i ponteggi per le successive manutenzioni. Sia per abbattere i costi di restauro che per operare programmando nell’ottica della futura manutenzione, è stata inoltre istituita la cosiddetta “fabbrica del restauro” consistente nel recupero e nella catalogazione di tecniche e materiali da utilizzare in successivi interventi». A che punto siamo oggi, col restauro completo dell’intero complesso? «Siamo quasi alla fine. Manca solo l’ultimo piano della Reggia del Castellamonte che porterà ad ampliare di ulteriori 1.400 mq lo spazio destinato a mostre arricchendolo di un annesso teatrino per circa 200 persone. Sono inoltre in via di completamento i piani alti della citroniera e della scuderia. Un progetto che mi sta particolarmente a cuore, inoltre, è lo studio e l’allestimento di un museo del restauro, dove una sezione sarà dedicata alla storia del complesso, illustrando le condizioni del monumento prima della riqualificazione. Vi sarà poi uno spazio multimediale e interattivo dove il pubblico potrà toccare materiali e sperimentare l’utilizzo degli strumenti di lavoro. Infine, si stanno avviando le gare per i parcheggi esterni e il completamento dei giardini che termineranno nel 2012».
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RESTAURO
>il r estaur o pr ote g ge il ter ritorio Sentire è capire. In un rapporto diretto con l’edificio. Ecco la prima fase di un progetto di restauro. Un’operazione che dovrebbe essere, secondo Carlo Mocenni, molto più diffusa nel nostro Paese. Al di fuori di ogni speculazione di Simona Cantelmi
Fra architetto ed edificio esiste un dialogo, costante e intenso. Il primo approccio all’edificio da restaurare «è per me quasi “epidermico”, nel senso che devo toccare i materiali, capirne l’uso e le specificità, raccoglierne le sensazioni» dichiara l’architetto Carlo Mocenni di Firenze. «Successivamente inizia la ricerca storica, l’inquadramento del manufatto nel suo periodo di realizzazione o nella successione degli interventi che possono essere avvenuti nel tempo. Infine il “rilievo”, operazione faticosa, ma molto importante perché la rappresentazione fedele della consistenza dell’immobile permette di capire dove e come si può intervenire». Queste operazioni riflettono l’esigenza di conciliare le richieste di chi dovrà usufruire dell’edificio con il rispetto della storia e della struttura originale. Perché «l’architettura e il restauro architettonico sono inscindibili dalla presenza dell’uomo come “committente”. Anzi l’architettura esiste in quanto in rapporto con l’uomo e con il tentativo di risolvere i suoi bisogni». Il committente è quindi fondamentale per la redazione del progetto. «È importante capire e interpretare le sue esigenze, tradurre nel progetto di restauro le molte aspettative che
L’architetto Carlo Mocenni. Sopra, Casa da Signore a Rignano sull’Arno, ristrutturata da Mocenni architetto@carlomocenni.it
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legittimamente ha quando decide di realizzare un progetto». Ricerca e studio non si esplicano solo all’inizio, ma proseguono durante l’attuazione del progetto e le varie fasi di lavorazione. «Oltre al rilievo e un’adeguata ricerca storica, il vero problema iniziale è quello di riuscire a comprendere la tecnica costruttiva del manufatto, anche attraverso il diverso uso dei materiali utilizzati. Tale ricerca si protrae anche durante l’attuazione del progetto in cantiere. Questo è il momento più importante perché è in cantiere che si confermano alcune intuizioni avute in fase di progetto, si scoprono nuovi elementi che possono aprire a diverse interpretazioni dell’esecuzione. In questo – prosegue Mocenni - il buon rapporto con le maestranze permette di far confluire nell’esecuzione tutta l’esperienza, le capacità e le specificità che si trovano nella grande tradizione edilizia delle varie regioni italiane». In questo contesto è poi necessario effettuare un’ultima riflessione, indispensabile soprattutto se riferita al nostro Paese, dove ristrutturare e riutilizzare edifici esistenti sembra ormai essere l’unica soluzione possibile. «Infatti, ora come ora, in Italia è fondamentale riutilizzare il grande patrimonio edilizio esistente, anziché continuare a consumare territorio per costruzioni nuove, spesso di modesta caratura e legate più a motivazioni speculative che alla soluzione di reali bisogni».
>un nuovo dialo go con l’esistente L’intervento su due edifici, uno restaurato e l’altro completamente riedificato ha portato al ritrovamento di reperti storici risalenti all’epoca romana. E alla realizzazione di nuovi appartamenti ecocompatibili. L’architetto Graziella Bloccari illustra il progetto “Re Nudo” di Eugenia Campo di Costa
Città, architettura e storia. Concetti che si intersecano e interagiscono. «L’architettura e la città esistono prima di noi» afferma l’architetto Graziella Bloccari impegnata nella nuova edificazione ma soprattutto nel restauro e nel recupero di edifici esistenti. «Il “nuovo” carica l’architetto di maggiori responsabilità – continua perché nessun architetto riuscirà mai a progettare qualcosa che sia meglio dell’opera della natura. Qualsiasi cosa nuova è una ferita inflitta al territorio. Nel recupero, invece, ci si muove all’interno di perimetri già definiti e la sfida è differente. È risolvere un puzzle in cui i pezzi andranno a posto per formare un disegno già predisposto, ma è necessario trovare il sistema per ricomporli». Secondo l’architetto Bloccari il progettare va inteso come un modo di mettersi in relazione con la vita: «Progettare
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è uno scopo di vita, di conoscenza e di umiltà verso se stessi, verso gli altri e verso il mondo». Con questo credo è stato redatto il progetto “Re Nudo”. Cosa ha rappresentato esattamente il progetto “Re Nudo”? «Durato ben tre anni, il progetto ha portato rispettivamente al recupero e alla nuova edificazione di due edifici settecenteschi situati in via Madonna del Mare, nel cuore della città. I due edifici sono stati uniti da un unico vano scale che consente l’accesso a entrambi attraverso un giardino con un albero secolare che è stato salvato e mantenuto. Il nome del progetto deriva dall’ex locale “Re Nudo” che sorgeva negli anni 70 all’interno di uno degli edifici e ha rappresentato per una generazione la prima discoteca della gioventù. Negli anni seguenti, con il de-
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In apertura, l’atrio dell’edificio recuperato dall’architetto Bloccari. Dalla struttura in vetro è visibile l’antica strada romana. In questa pagina, a destra, l’esterno dell’edificio e un interno dopo il restauro. Sotto, l’architetto nel suo studio di Trieste www.graziellabloccari.com
grado di tutta l’area circostante, il “Re Nudo” è stato chiuso e abbandonato. Il recupero dell’area ha contribuito alla rivitalizzazione di questa parte della città, al ritrovamento di diversi reperti storici e alla realizzazione di 18 appartamenti di varie dimensioni e tipologie». Su quali caratteristiche avete puntato soprattutto nella realizzazione dei nuovi appartamenti e quali sono stati i problemi da affrontare? «Abbiamo puntato prima di tutto sulla qualità. Un perfetto isolamento termico e acustico garantisce ora ai residenti un elevatissimo comfort. Inoltre sono stati utilizzati materiali ecocompatibili per le finiture, impianti termici ad alta tecnologia e domotica per gli impianti elettrici. Uno degli ostacoli peggiori è rendere compatibili le norme urbanistiche del centro storico e i vincoli archeologici imposti, con le attuali esigenze abitative. Prova spero riuscita!». Quali reperti storici hanno portato alla luce i lavori? «Proprio nell’atrio dello stabile, grazie a una struttura in vetro, si può ammirare una strada romana del IV secolo d.C. messa in luce durante i lavori. Parallelo alla strada, abbiamo rinvenuto anche un antico muro romano risa-
lente allo stesso periodo e perfettamente conservato. Inoltre, proprio ai piedi del muro, sono state rinvenute tre tombe, di cui una con un “tesoretto”, composto di una ciotola con 8 monete di bronzo recanti l’effige dell’imperatore romano Giuliano l’Apostata risalenti al IV secolo d.C.». Una casa che nasce proprio con la storia più antica della città. «Le testimonianze storiche continuano anche all’interno dell’edificio. Molto probabilmente, infatti, alcune pietre recuperate dalla demolizione definitiva della Basilica dedicata alla Madonna del Mare avvenuta intorno al 1780 sono state utilizzate per la costruzione dell’edificio dove ancora attualmente alcune finestre recano iscrizioni latine con frasi propiziatorie tradotte dagli esperti della locale Soprintendenza».
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>tr a identità passata e pr esente Ristrutturare interni significa operare su spazi preesistenti e la sfida per l’architetto è posta dalla riconversione di ambienti adibiti in precedenza a determinate funzioni, in spazi destinati a un nuovo utilizzo. Si tratta quindi di progettare nuove identità, ancor prima di procedere alla fase operativa vera e propria, ma sempre «nel rispetto dei luoghi e dell’aura degli edifici». Rispetto e «umiltà di fronte a quello che ci raccontano i muri» sono i cardini della filosofia progettuale di Anna Milani, che, dal suo studio nel cuore di Genova, dispiega la sua attività principalmente nel ramo del restauro e delle ristrutturazioni. L’identità dei luoghi viene così ridefinita, piuttosto che rinnovata, sulla base di un sostrato depositato dalla storia. Lo testimonia la nuova sede della Camera di Commercio di Genova, ospitata da Palazzo Pallavicino, attraverso la quale l’architetto spiega come «l’equilibrio fra esigenze funzionali e tutela dell’architettura originaria
Interno Loggia della nuova sede della Camera di Commercio, in Piazza De Ferrari, nel centro di Genova. Zona giorno della casa per single, nel centro storico di Genova (foto Rossella Murgia)
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Riconvertire spazi e ambienti richiede necessariamente il rispetto del preesistente. Anche quando la ridefinizione dell’identità del luogo implica la trasformazione della sua dimensione sociale. L’esperienza di Anna Milani di Stefano Marinelli
sia stato cercato nella scelta delle finiture di pregio che definiscono gli ampi spazi riservati agli uffici». Ma ridefinire l’identità di un ambiente assume connotati decisamente più radicali quando l’obiettivo riguarda la trasformazione della sua dimensione sociale. Per esempio quando una struttura adibita a ufficio, predisposta per accogliere relazioni pubbliche, diventa una residenza per single, destinata a un uso esclusivamente privato. Anna Milani ricorda che «ristrutturare un interno non deve essere solo un’espressione creativa dell’architetto, ma una realizzazione armonica che consideri gli spazi in rapporto alla loro funzione e cerchi di soddisfare le richieste della committenza». La luce è il mezzo privilegiato per definire il “ruolo” dei vari ambienti della casa, «con luci puntiformi - per il cui utilizzo l’architetto sottolinea quanto le sia utile l’esperienza di allestimento di musei - o diffuse dove l’effetto luminoso ha la priorità sul disegno della lampada». Anche la collocazione della struttura contribuisce in modo decisivo alla ripartizione degli spazi, infatti l’architetto spiega che «per la cucina aperta sul soggiorno si è giocato con spazi aperti, in modo che la luce filtri da un ambiente all'altro», soprattutto perchè «l’affaccio sulla cupola di un’antica chiesa meritava la possibilità di essere goduto da tutti gli ambienti della zona giorno, percorsa da tagli di luce solare netta, mentre la zona notte, più intima, è stata collocata nella porzione più silenziosa e ombrosa». Però è la scelta dei materiali che concorre a ridefinire in modo più evidente l’identità di una struttura e secondo Anna Milani «la scelta progettuale delle finiture ha permesso innovazioni moderne e funzionali attraverso il tek per i pavimenti, l’acciaio bocciardato per la cucina e le tinte arancio alternate al cemento a vista per le pareti».