CARRIERE&PROFESSIONI
SOMMARIO
005 EDITORIALE Sandro Bondi
042 PROGETTAZIONE Luca Scacchetti
008 WORLD IN PROGRESS
048 FOTOGRAFIA Pino Musi
014 IN COPERTINA Vittorio Gregotti 020 ARCHITETTURA PER LA CURA Patrizia Valla 026 RIFLESSIONI Ricardo Bofill 030 DONNE IN ARCHITETTURA Zaha Hadid Maya Lin Ambra Medda 034 L’ARTE DI PROGETTARE Renzo Piano 038 NUOVE DESTINAZIONI Mario Botta
054 STRUTTURE DINAMICHE David Fisher 058 INSTALLAZIONI Carlo Ratti 062 ARCHITETTURA DELLA LUCE Silvio De Ponte 072 SPAZI PER LA MUSICA Auditorio di Ravello 076 IL MODERNO E L’ESISTENTE Pippo Ciorra 080 DIBATTITI Stefano Boeri Benedetto Gravagnuolo Paolo Fucito 088 L’ESSENZA DELLO SPAZIO Mario Cucinella 092 PROGETTARE SOSTENIBILE Amedeo Schiattarella Eco-città Risparmio energetico
102 SOCIAL HOUSING Daniela Volpi 108 VIAGGI DI ARCHITETTURA Brasilia 116 DESIGN Giorgetto Giugiaro Luisita Facchin L’ideazione 124 INTERIOR DESIGN Interazioni Dettagli di stile 132 OUTLET Andrei Perekhodtsev 140 YATCHS DESIGN Ferretti 146 INTERVENTI La Marina di Rodi Garganico 150 EDILIZIA Paolo Buzzetti Marco Mezzaroma
168 AMBIENTI DA VIVERE Equilibri tra pieni e vuoti Edifici Antisismici Aree Industriali 176 APPUNTAMENTI Made Expo 180 RESTAURO Il Salone di Ferrara Chiesa di San Mar tino Palazzo Vescovile di Pavia 192 RICOSTRUZIONI TIPOLOGICHE Masterplan 196 RIQUALIFICAZIONE Aree produttive 198 REALIZZAZIONI Opere pubbliche 200 INFRASTRUTTURE Aeropor ti
CARRIERE&PROFESSIONI
SOMMARIO
204 SPAZI VERDI Progettazione
156 PROGETTAZIONE URBANA Logica e razionalità 160 SPERIMENTAZIONI I materiali 162 RESIDENZIALE La qualità costruttiva Tradizione e contemporaneità
IN COPERTINA Grand Théâtre de Provence Aix-en-Provence, 2003 - 2007 Foto Tomaso Macchi Cassia
>investiamo sulla cultur a di Sandro Bondi Ministro per i Beni e le attività culturali
Quello nella cultura oggi è il miglior investimento che si possa fare: non solo per il rilancio civile e culturale del Paese, ma anche per promuoverne lo sviluppo economico. Noi italiani possiamo contare su un grande patrimonio culturale che ci viene dal passato. Dobbiamo essere consapevoli che questo patrimonio può essere la leva del nostro sviluppo. Sono convinto che la cultura e lo sviluppo siano destinati a camminare sempre più fianco a fianco. Credo che sia arrivato il momento di pensare a sistemi di finanziamento indiretti a sostegno della cultura, come la defiscalizzazione degli investimenti. Questo non solo aumenterebbe le risorse ma libererebbe energie, rendendo autenticamente libera la produzione culturale. Anche se ritengo che un sostegno pubblico vada sempre riconosciuto alla cultura, tuttavia occorre trovare forme di controllo improntate alla migliore efficacia ed efficienza nell’impiego di risorse statali in questo settore. Le fondazioni sono uno strumento fondamentale a cui dobbiamo ricorre per coinvolgere i privati in una più stretta
collaborazione per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale. L’importante dal punto di vista del ministero della Cultura è ottenere il contributo delle fondazioni sui grandi progetti qualificanti, specialmente per quanto riguarda i musei e le grandi aree archeologiche di cui l’Italia è ricca. Dal punto di vista delle opportunità, l’Expo è un grande progetto civile, economico e politico ma non può essere solo questo. Dovranno essere coinvolti tutti gli uomini di cultura che hanno a cuore Milano. Sarà una grande opportunità per la città. Come ministero dei Beni culturali vorremmo promuovere tre grandi progetti per la città. In primis la creazione della Grande Brera, la grande pinacoteca di Brera che accorpi l’accademia e la caserma di via Mascheroni, per farla diventare uno dei più grandi musei in Europa, come il Louvre. Poi, il completamento del restauro della villa reale di Monza. Infine, la realizzazione della grande biblioteca europea di Milano. Credo che queste tre iniziative qualificherebbero la città facendola diventare la capitale economica e morale d’Italia.
CARRIERE&PROFESSIONI
EDITORIALE
>disco di giada: da simbolo a spazio Memorabilità per ospiti e visitatori, legame con le tradizioni e con la cultura locale. Questi gli obiettivi perseguiti dall’architetto Joseph di Pasquale della AM Progetti di Milano, nella progettazione del Guangdong Plastic Exchange Landmark Building, che sorgerà a Canton, in Cina. La forma si ispira ai dischi di giada di tradizione imperiale, simboli di nobiltà e di alte qualità morali. Un doppio disco di giada diventa la forma di un nuovo edificio, immaginifico ma vivibile, contemporaneo e secolare: l’edificio giusto, nel posto giusto
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>r e gina de gli oceani Un padiglione espositivo di fortissimo impatto quello ideato dallo studio di Architettura Nicoletti & Associati per l’expo 2012 di Yeosu (Korea). The Great Blue Whale, ricalca le forme del più maestoso, ma anche del più esposto al rischio estinzione, cetaceo del pianeta. Una metafora, ma soprattutto un fortissimo messaggio che gli architetti vogliono lanciare per sottolineare tanto la fragilità quanto l’importanza degli oceani e delle loro creature per il nostro ecosistema. Un simbolo destinato non solo a rappresentare l’evento di Yeosu, ma anche la coscienza ambientalista globale
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>una sfer a per Dubai Una costruzione iconica per il Technopark di Dubai (Emirati Arabi Uniti). La Technosphere concepita dallo studio James Law Cybertecture International si ispira al pianeta Terra, proponendone un riflesso sul suo futuro, in cui la tecnologia toccherà l’apice del suo potere. Law ha voluto puntare all’essenzialità della forma contrapposta alla mastodonticità dell’opera, in linea con l’incredibile sviluppo urbano di Dubai. Ecosostenibile ed energicamente autonoma, la struttura conterrà uffici, hotel e giardini
>l’architettura è un viaggio senza tempo di Nike Giurlani
«L’importanza della storia ricopre un ruolo centrale in qualunque parte del mondo». Ed è questo il punto di partenza dell’architetto Vittorio Gregotti, che, nei suoi progetti, ha sempre cercato di far dialogare l’architettura con l’identità e la tradizione dei luoghi
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In apertura, trasformazione delle aree Pirelli alla Bicocca di Milano; in questa pagina, il Centro culturale di Belém di Lisbona; nella pagina accanto, lo Stadio Olimpico di Barcellona e uno scorcio del Grand Théatre de Provence, ad Aix-en-Provence
Architetto, urbanista, saggista. Vittorio Gregotti ha alle spalle una lunga carriera costellata di numerosi e importanti progetti, di grandi dimensioni e di scala territoriale, in più di venti Paesi del mondo. Nato a Novara, nel 1950 si laurea in Architettura al Politecnico di Milano e nel 1974 crea lo studio Gregotti Associati. La sua scelta metodologica è stata, fin da subito, considerare l’«architettura come modificazione», come scrisse in un articolo pubblicato su Casabella, di cui è stato a lungo direttore. Grazie a questa strategia lo studio ha vinto numerosi concorsi nazionali e internazionali. Tra i suoi progetti, non mancano interessanti opere di riqualificazione delle peri-
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ferie, come nel caso della sede Pirelli, nella quale il principale problema è stato quello di dotarla di «attività e funzioni diverse», favorendo «lo scambio con le altre parti della città». Per affrontare ogni nuova sfida il punto di partenza di Gregotti è stato quello di «guardare criticamente al generale stato delle cose, alla loro storia e alle loro possibilità». Tale teoria è risultata vincente quando si è trovato a intervenire in altre culture, come per esempio quella cinese, dove occorre «evitare sia l’atteggiamento folcloristico che quello neocolonialista». Appassionato del suo lavoro, ha pubblicato anche numerosi libri e saggi. Tra le sue ultime pubblicazioni, nel 2008, è uscito
Contro la fine dell’architettura, che, come lo stesso Gregotti mette in evidenza, è stato scritto «in difesa dell’identità culturale» di questa disciplina. Ora si appresta a realizzare nuovi progetti che vanno dal Cairo a Trento, ma il sogno nel cassetto è vedere «realizzata la centralità di Roma presso Ostia Antica». Nell’ambito dell’architettura e del design assistiamo a un sempre maggiore interesse verso edifici ecosostenibile e futuribili e organismi che dialogano con l’ambiente dal quale traggono acqua, aria, luce e calore. Che cosa pensa al riguardo? «L’ecologia è una disciplina che conta più di un secolo di
tradizione. Le crisi ambientali l’hanno resa particolarmente attuale. Quindi si tratta di un argomento politico e sociale serissimo. Bisogna però evitare di pensare che l’architettura sia deducibile direttamente dalle preoccupazioni che propone e cercare di tenerne tecnicamente conto. Senza ideologismi». Lo studio Gregotti ha vinto tre concorsi a Shangai. Una “new town” per 100.000 abitanti, un piano per una zona residenziale e un progetto di rinnovo urbano nello storico quartiere Wai Tan Yuan. Quali sono le principali differenze nell’intervenire in una realtà asiatica rispetto che in una europea? «In Cina, oltre a quelli citati, abbiamo vinto anche i concorsi per l’ampliamento dell’area del Cbd di Pudong a Shanghai e quello dei 55 km di costa della città di Zhuhai, accanto a Macao. Per intervenire nella realtà cinese bisogna anzitutto conoscere la storia della cultura di questo Paese. Partendo da questo presupposto, occorre poi evitare sia l’atteggiamento folcloristico che quello neocolonialista e aprire con l’architettura una discussione con lo stato attuale della loro condizione socio-politica». Quali sono le tendenze che guidano lo sviluppo delle città cinesi? «In questi ultimi anni trionfa in Cina la tendenza a imitare i peggiori aspetti delle mode architettoniche occidentali». In Italia ha lavorato su progetti a larga scala come l’ex area Pirelli a Milano. Quali le linee guida della riqualificazione? E quali le maggiori sfide nell’intervenire su un edificio già esistente?
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Il tetto dell’Accademia delle Scienze di San Francisco, ricoperto di piante native del territorio. Sotto, alcune delle piantine selezionate dopo anni di studi da ricercatori e botanici
LA STORIA È IL TERRENO SU CUI NOI COSTRUIAMO E CHE NELLO STESSO TEMPO LASCIA A CIASCUNO DI NOI LA RESPONSABILITÀ INTORNO ALLA DIREZIONE DEL CAMMINO DA PERSEGUIRE
«Il problema centrale della riqualificazione delle periferie urbane è quello di farle diventare parte integrante della città. Queste aeree devono, risolti i problemi infrastrutturali, essere dotate di attività e funzioni diverse, comprendere una popolazione socialmente mista e, se possibile, anche grandi servizi rari di interesse generale, che rendano necessari lo scambio con le altre parti della città». Nel nostro paese la storia e il passato hanno un peso molto importante. Questo rappresenta un pro o un contro per un architetto o un design che si trova a realizzare un progetto? «L’importanza della storia ricopre un ruolo centrale in qualunque parte del mondo, non solo in Europa. La storia è il terreno su cui noi costruiamo e che nello stesso tempo lascia a ciascuno di noi la responsabilità intorno alla dire-
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zione del cammino da perseguire». Qual è il confine tra estetica e funzionalità nell’architettura? «Estetica e funzionalità coincidono: purché si intenda il secondo termine in senso non puramente pratico. Bisogna, invece, guardare criticamente al generale stato delle cose, alla loro storia e alle loro possibilità». Oggi gli architetti sono chiamati a realizzare grandi progetti: stadi, stazioni, grattacieli, aeroporti. Non crede che bellezza e originalità andrebbero ricercate anche nell'edilizia popolare o, comunque, nella creazione di edifici pubblici di minore ampiezza? «Purtroppo il successo mediatico e le condizioni dei poteri conducono a privilegiare in architettura ciò che più da vicino rispecchia lo stato delle cose: monumenti come im-
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Rendering del nuovo progetto al Cairo; sotto, l’architetto Vittorio Gregotti
magini di marketing. L’edilizia residenziale che costituisce la parte essenziale del tessuto urbano è considerata secondaria; quella cosiddetta popolare è semplicemente oscurata». A quale progetto sta lavorando in questo momento? E qual è invece quello che vorrebbe realizzare in futuro? «Stiamo ora lavorando a un progetto al Cairo, a quattro chilometri a sud ovest delle piramidi, di un’area in cui troveranno sede quarantamila abitanti e un importante centro culturale. Inoltre, a sud di Aix-en-Provence stiamo progettando un villaggio di 3.000 abitanti e in Italia lo sviluppo di una grande area industriale dismessa a Trento nord. Per il futuro mi piacerebbe vedere realizzata la centralità di Roma presso Ostia Antica a cui abbiamo lavorato per quattro anni».
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>ria ppr opriar si dello spazio attr aver so il pr o getto L’architettura come uno strumento terapeutico: non una speranza, ma una realtà concreta. Patrizia Valla, leader del settore, ha aperto una nuova frontiera e presenta il primo esempio in Italia di struttura integralmente concepita per assistere il malato di Alzheimer in ogni stadio della malattia di Sara Marchegiani
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ARCHITETTURA PER LA CURA
Il progetto del Centro Sanitario Alzheimer “Casa Cassiano Tozzoli” di Imola, in una panoramica notturna esterna (foto di Silviano Scardecchia), è stato inaugurato nel 2008 e ha ricevuto il Premio Internazionale “Sistema d’Autore Metra” nel 2009 info@patriziavalla.it
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© Graziano Micozzi
Unire la passione per l’architettura con quella per la medicina è stato, da sempre, il sogno di Patrizia Valla. Grazie alla sua tenacia e attenzione verso i malati di Alzheimer ha creato il primo manuale di progettazione dedicata nel 1995: “Il Giardino d’Alzheimer”. Dal 1994 il suo intento è stato ricreare ciò che la malattia progressivamente distrugge: il rapporto con lo spazio. Il malato infatti perde il rapporto con il proprio ambiente «è disorientato e cerca vie di fuga da un mondo che sente estraneo e nel quale non si riconosce più». Dai Giardini Alzheimer è passata poi alla creazione di architetture e ambienti sicuri, con molta luce naturale e in cui si respiri un’atmosfera domestica, perché quello di cui più di tutto hanno bisogno i malati è il senso di casa, di appartenenza a uno spazio. Grazie all’arch. Valla è stato possibile avviare su un suo progetto la prima sperimentazione clinica degli
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effetti sul malato di Alzheimer di un ambiente ad alto livello protesico, con risultati decisamente significativi. Il suo ultimo manuale di successo è “Architetture e giardini come strumento terapeutico”, Guerini e Ass. ed., 2002 Milano Come è nato il progetto di “Casa Cassiono Tozzoli”? «Grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Imola, ho avuto l’occasione di realizzare ex novo un progetto completo, chiavi in mano in cui ho potuto seguire ogni dettaglio non solo con lo scopo di realizzare degli ambienti terapeutici, ma anche di togliere lo stigma della malattia: un nuovo simbolo per la Città in mezzo al parco monumentale dell’ex ospedale psichiatrico. Le strutture per anziani sono veri e propri monumenti dei nostri tempi, forme permanenti dei nostri paesaggi urbani sempre più numerose e in quanto tali architetture di seria “A”».
ARCHITETTURA PER LA CURA
In queste pagine, alcuni ambienti del Centro Sanitario Alzheimer che esprimono l’intento progettuale dell’architetto Patrizia Valla (nella foto qui sopra di Silviano Scardecchia) di ricreare ciò che la malattia progressivamente distrugge: il rapporto con lo spazio e il senso di libertà. (Foto nell’altra pagina di Graziano Micozzi)
Come l’architettura può venire in soccorso dei malati di Alzheimer? «Il progetto architettonico deve prima di tutto essere interdisciplinare e si costruisce su numerosi aspetti: spazio, forme, colori, luce, materiali, design e tecnologie. Tutti questi elementi vengono adattati alle esi-
IL PROGETTO ARCHITETTONICO È TERAPEUTICO SE BASATO SULLA SINTESI OTTIMALE DI: SPAZIO, FORME, COLORI, LUCE, MATERIALI, DESIGN E TECNOLOGIE. TUTTI QUESTI ELEMENTI VENGONO ADATTATI ALLE ESIGENZE DEL MALATO, CREANDO UN AMBIENTE SICURO E RICONOSCIBILE CHE STIMOLA LE ABILITÀ RESIDUE
genze del malato, creando un ambiente sicuro. Il progetto prende infatti in considerazione qualsiasi reazione che può scaturire nel malato nel rapportarsi a ciò che lo circonda». Com’è strutturato il Centro Sanitario? « il “Centro Sanitario Alzheimer - Casa Cassiano Tozzoli”di Imola che è la prima struttura in Italia interamente concepita per assistere il malato di Alzheimer in ogni stadio della malattia. È infatti presente un centro diurno per la fase iniziale, un nucleo residenziale al piano terra per ospiti in prevalenza wandering (vagabondaggio afinalistico compulsivo) e un nucleo al primo piano per lo stadio avanzato della demenza sino ai casi di allettamento. Le esigenze sono diverse nei vari stadi sia per il malato che per gli operatori e richiedono spazi appropriati e separati. A ogni piano è presente un percorso wandering interno intorno a una
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Immagini di spazi esterni (foto di Graziano Micozzi), e corte interna del Centro Alzheimer che denotano il continuo rapporto con la luce naturale e l’esterno. Come afferma l’Arch. Valla “Ho immaginato un’architettura aperta che desse sempre la sensazione di stare all’aperto, percorrendo gli spazi interni si ha costantemente una visuale su un’esterno”
corte centrale che prosegue in uno spazio esterno delimitato liberamente accessibile senza pericoli “Il Giardino Alzheimer”. La zona pranzo è in realtà una cucina terapeutica, che vuole ricordare la dimensione domestica, ma più sicura e adatta, le camere e i bagni sono studiati in ogni dettaglio per stimolare l’autonomia». Su cosa è basata questa architettura? «Sulla luce e sulla percezione dei colori e delle forme. Le tecnologie avanzate impiegate conferiscono sicurezza e autonomia di movimento 24 ore su 24. Tutto è
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stato concepito per creare un ambiente riconoscibile al loro modo di percepire lo spazio alterato dalla malattia: per farli sentire a casa». Quanto conta l’aspetto estetico nella realizzazione di queste strutture? «La mia volontà è stata prima di tutto quella di rompere con il cliché architettonico della casa di riposo. L’ambiente può essere, anzi deve essere, funzionale, ma anche bello. Un aspetto non prescinde l’altro, anzi è funzionale a una realizzazione completa del pro-
getto. Per questo “Casa Cassiano Tozzoli “ricorda la forma di una nave, transizione dall’ex nosocomio alla dignità di un “nuova casa”». La luce ricopre un ruolo centrale all’interno del progetto, ma cosa succede quando viene meno quella naturale? «Quando la luce naturale cala e i sensori ambientali rilevano una diminuzione dei lux, automaticamente il sistema di illuminazione si attiva per ripristinare il livello di illuminazione ottimale per l’Alzheimer che è garan-
tito in tutti gli ambienti, compresi i bagni. Sono stati progettati e realizzati numerosi automatismi in funzione terapeutica: per stimolare l’autonomia, per supportare l’assistenza e facilitare la gestione. Come un vero monumento il Centro Alzheimer vive anche di notte: al crepuscolo sul fronte principale i pannelli di Alucobond della facciata motorizzata si chiudono formando un vero proprio schermo di proiezione e parte la programmazione dell’illuminazione architettonica notturna a led con cambio colori e proiettori a ioduri».
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RIFLESSIONI
>il connubio perfetto tr a c lassico e moder no L’abbandono delle forme pure lascia spazio alla chiarezza delle linee tipiche del moderno. Negli edifici di Ricardo Bofill coesistono elementi classici e moderni risultando armonici e facilmente comprensibili esteticamente. Una concezione del post-moderno esportata in tutto il mondo da Barcellona a New York, da Varsavia a Salerno di Nicolò Mulas Marcello
È considerato uno dei più attenti architetti e urbanisti contemporanei oltre che uno dei principali rappresentanti dell'architettura postmoderna. Lo spagnolo Ricardo Bofill è convinto che gli edifici pubblici siano fondamentali nella globale configurazione di una città, per questo nei suoi progetti conferisce una forte immagine alle sue architetture che per lui sono destinate a diventare dei veri e propri punti di riferimento urbani. Con scrupolosa cura Bofill ha portato avanti la sua esperienza professionale in modo da entrare in sintonia con le varie culture architettoniche presenti nei vari ambiti di inserimento dei propri progetti. A lui sono stati attribuiti anche alcuni mutamenti di direzione nello stile, sulla base forse di sommarie valutazioni del suo operato ritenendo in maniera erronea che le sue scelte fossero dettate da una presunta necessità di adattarsi alle richieste del mercato. Ma un’attenta rilettura dell'opera di Bofill svela invece punti di continuità non indifferenti. Molte le opere a lui affidate sia a Barcellona, la città che gli ha dato i natali, sia nel resto del mondo.
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In prima pagina Ricardo Bofill al lavoro nel suo studio e l’hotel Vela sul lungomare della Barceloneta. A destra l’aeroporto Prat di Barcellona. A sinistra l’interno del terminal M5
A New York ha curato il progetto di riqualificazione della zona nord del Central Park. In Asia è noto per il villaggio globale delle Nazioni Unite a Dakar e il recupero di una zona agricola e industriale di Shanghai. A Barcellona negli ultimi anni ha realizzato la Città della giustizia a Llobregat, l’hotel La Vela sul lungomare della Barceloneta ed è suo il progetto del Terminal M5 dell'aeroporto. A tal proposito Bofill sostiene che «nell’architettura attuale lo stile non è unico e definitivo. La qualità architettonica è legata allo spazio e al luogo. Alcune grandi strutture, come le stazioni e gli aeroporti, richiedono una complessa relazione tra pianificazione e forma». In che direzione sta andando la moderna concezione
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dell’architettura? «Siamo immersi in una crisi immobiliare che ha preso inizio nel 2007. I progetti più importanti e particolarmente costosi sono fermi. Tuttavia, i paesi emergenti continuano a costruire, in particolare nel settore delle abitazioni. Questo presuppone un grande cambiamento e un modo per modificare il paesaggio architettonico degli inizi del XXI secolo». Lei sostiene che sia possibile per un edificio avere un’immagine esterna pubblica in conflitto con gli spazi interni. È così? «La conformazione delle città ci ha insegnato a preservare gli edifici storici e modificare il loro utilizzo, e la loro funzione. A seconda del contesto storico e del
RIFLESSIONI
LA CONFORMAZIONE DELLE CITTÀ CI HA INSEGNATO A PRESERVARE GLI EDIFICI STORICI E MODIFICARE IL LORO UTILIZZO, E LA LORO FUNZIONE
luogo può esistere un tipo di architettura esterna che si scontra con l’architettura d'interni». Cosa pensa dell’attuale architettura della sua Barcellona? «L’architettura di Barcellona è migliorata enormemente negli ultimi 20 anni. La città ha prodotto straordinari architetti, con grandi capacità per il disegno, per i piccoli progetti, per la riorganizzazione dei sobborghi, ma hanno difficoltà a far fronte alla progettazione su larga scala urbana, e a rapportarsi con l'uso delle nuove tecnologie». Nel suo lavoro riesce a combinare l’uso delle moderne tecnologie di costruzione? «Utilizzo le tecnologie del posto, della città nella quale
costruisco, cercando di migliorarle unendo la mia esperienza con le possibilità tecnologiche locali. In questo modo si ottengono risultati distinti dal Polo Nord al deserto del Sahara». Cosa ci può dire riguardo al suo progetto per il lungomare di Salerno? «La Piazza Della Libertà è un ottimo luogo di incontro e aggregazione nel centro della città, situato proprio di fronte al mare. Dal punto di vista dello stile, la si può classificare all'interno del classicismo moderno. Il progetto per la Piazza della Concordia prevede un impianto in vetro dalla struttura complessa che vuole costituire un punto di riferimento sul lungomare e congiungersi con il cielo».
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Zaha Hadid, architetto di origini irachene ma londinese di adozione, premio Pritzker per l’architettura nel 2004, è chiamata in tutto il mondo per ridisegnare spazi urbani, edifici e infrastrutture. È arrivata anche in Italia: a Cagliari, Milano, Roma, Salerno e Napoli con i suoi progetti. Qui da noi la realizzazione dei suoi lavori sembra andare sempre troppo per le lunghe. Perché in Italia, dice, «ogni cosa è molto più lenta e bisogna avere molta pazienza».
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DONNE IN ARCHITETTURA
>ar tefici di spazi,cr eatrici di for me È considerata l’antesignana delle archistar, Zaha Hadid. Talenti femminili che spiccano nella galassia dell’arte e dell’architettura contemporanee. Come Kazuyo Sejima, primo direttore donna della Biennale, la “Cavaliera” Odile Decq, Maya Lin e l’italiana Ambra Medda di Leonardo Testi
Hanno saputo ritagliarsi il loro spazio in un mondo dove la competizione è forte. Un mondo dove il vertice, forse più che in altri campi, è tutto in mano agli uomini. Un mondo, quello dell’architettura, dove alcuni stereotipi faticano a scomparire. Come quello che vuole le donne più “consone” all’arredamento d’interni e non adatte alle progettazioni di edifici, alle costruzioni in grande, alla fatica del lavoro in cantiere. Ma le eccezioni esistono, e loro lo hanno dimostrato. Prima tra tutti, Zaha Hadid, architetto di origini irachene, ma londinese di adozione. Prima e unica donna ad aver ricevuto il premio Pritzker per l’architettura, il massimo riconoscimento mondiale nel settore, nel 2004. I suoi progetti hanno cambiato il modo di percepire lo spazio urbano: non più una serie ordinata di edifici razionali, ma un organismo leggero e fluttuante. «C’è bisogno di spazi dove le cose possano contrarsi ed espandersi», dichiara. E così i suoi progetti sembrano perennemente in movimento, come il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, che nelle scorse settimane ha avviato un fitto programma di eventi, performance e installazioni in vista dell’apertura ufficiale, che ci sarà nella primavera del 2010. Undici anni di cantiere, 150 milioni di euro di budget. Del progetto Zaha Hadid dice che è stato pensato come un “tutt’uno” con il contesto: «Il sito diventa parte integrante della città. La città fluisce verso l’interno, mentre il progetto fluisce verso l’esterno». “Fluidità” è forse la parola più importante in tutti i suoi progetti, che nascono da complessi sistemi di progettazione digitale, ma sono, sempre, intimamente legati all’origine del disegno a mano libera: «Il fluido dinamismo del disegno a mano libera è una fedele scelta per la mia architettura, che è allo stesso tempo guidata dai nuovi sviluppi del design
digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere». Un altro primato femminile è quello detenuto da Kazuyo Sejima, balzata agli onori delle cronache italiane per essere stata nominata direttore del settore Architettura della Biennale di Venezia. Per la prima volta, sarà una donna a guidare la Mostra internazionale d’architettura che si terrà ai Giardini e all’Arsenale, dal 29 agosto al 21 novembre 2010. Una Biennale che si preannuncia all’insegna della “molteplicità”: «La Biennale deve essere tutto e ogni cosa – ha dichiarato Kazuyo Sejima in relazione alle sue idee sulla manifestazione – fondamentalmente inclusiva, in dialogo costante sia con chi la fa, sia con chi la guarda». Dopo una serie di edizioni affidate a critici o storici, la Fondazione ha voluto assegnare questo settore nuovamente a un architetto, per riportare in primo piano il grande tema della qualità dell’architettura, attraverso una delle più qualificate e affermate rappresentanti dei nuovi maestri dell’architettura del Duemila, già premiata nel 2004 col Leone d’Oro. «Un significativo punto di partenza potrebbe essere il concetto di confine e l’adattamento dello spazio. Questo potrebbe includere sia l’eliminazione dei confini, sia la loro evidenziazione. Qualsiasi componente della molteplicità di adiacenze proprie dell’architettura, può diventare un argomento. Si potrebbe sostenere che l’architettura contemporanea è un ripensamento e forse un alleggerimento dei confini stessi». La Mostra internazionale di architettura può individuare, in questo senso, un forum nuovo e attivo per le idee contemporanee, e insieme un’occasione di lettura attenta degli edifici stessi. «Allo stesso modo, c’è un altro filo conduttore di interesse: l’uomo dentro l’architettura, le relazioni tra persone in contesti pubblici e privati, sia in qualità di creatori, sia come utenti. Questo è un pro-
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MEMORIALE Maya Lin, classe 1959, è artista, architetto e designer. A soli 21 anni, nel 1981, quando è ancora una studentessa universitaria, Lin vince un concorso pubblico per la progettazione del monumento dedicato alle vittime del Vietnam. È nel 2008 la vincitrice della seconda edizione del New York Prize Senior Fellowship,riconoscimento assegnato nella grande mela dal Van Alen Institute.
«IL FLUIDO DINAMISMO DEL DISEGNO A MANO LIBERA È UNA FEDELE SCELTA PER LA MIA ARCHITETTURA,CHE È ALLO STESSO TEMPO GUIDATA DAI NUOVI SVILUPPI DEL DESIGN DIGITALE E INTENSIFICATA DALLE CAPACITÀ MANIFATTURIERE» blema di esistenza individuale in interazione con la comunità. Più semplicemente “le persone si incontrano dentro l’architettura”». Oltre al “Maxxi” di Zaha Hadid, Roma assiste al completamento di un altro progetto sorprendente. Anche questo ad opera di un’archistar al femminile che ha saputo lasciare il segno: Odile Decq, fondatrice insieme a Benoît Cornette dello studio Odbc, nominata Cavaliere delle arti e delle lettere e della Legion d’Onore. Tra i lavori che hanno decretato la fama internazionale dello studio, e di Odile, la sede della Banque Populaire de l’Ouest a Rennes, la biblioteca universitaria di Nantes, il centro di ricerche della Saint Gobain a Aubervilliers e il progetto per il terzo ponte della città di Rotterdam. Attività che esprimono il tema dello spazio, traducendo in forme l’idea del processo e del percorso; il movimento rappresenta in que-
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sto caso l’elemento primario di organizzazione spaziale. Rimasta sola a guidare lo studio, l’architetto francese vince il concorso per l’ampliamento del Museo d’Arte Contemporanea di Roma, il Macro, la cui inaugurazione è prevista per il 20 aprile 2010. Un progetto avveniristico, concepito come un tecnologico sistema di passerelle aeree in alluminio sul quale passeggeranno non solo i visitatori, ma anche i normali cittadini attirati dentro il museo-piazza aperto sulla città. “Territori sensuali”, così li ha definiti la stessa Odile Decq, dove emerge l’impiego di basalto cambogiano e ferro cinese, con inserti di legno rosso e smisurate superficie di vetro. Ma ogni grande professionista ha vissuto un esordio. Quello di Maya Lin è senza dubbio ricordato come uno dei più folgoranti. Suo è il Vietnam Veterans Memorial a Washington, classificatosi nel 2007 al
DONNE IN ARCHITETTURA
DESIGN Ambra Medda, dal 2004 direttore e co-fondatrice del Design Miami/Basel. Laureata in lingue orientali, ha lavorato per Christie’s prima d’incominciare una carriera di Sovrintendente alle Belle arti, Architettura e Design a Londra, New York e Milano e come curatrice freelance
decimo posto nella “List of America’s Favorite Architectures” dell’American Institute of Architects. Si tratta di una struttura fortemente simbolica: due muri di marmo nero lucido, che convergono a forma di V, con un bordo verso il Lincoln Memorial e l’altro verso il Washington Monument, dove sono iscritti i nomi di 58.202 soldati uccisi o dispersi nella guerra del Vietnam sia in ordine cronologico che alfabetico. Quando Maya Lin vinse il concorso per il progetto, aveva soltanto 21 anni ed era una studentessa all’Università di Yale. Del monumento che l’ha resa celebre nel mondo dice: «L’ho progettato in modo tale che un bambino, tra cento anni, possa essere in grado di andare in quel luogo e avere una lucida visione del prezzo della guerra». L’attività dell’artista americana di origini cinesi è oggi rivolta anche alla scultura, a dimostrazione di un eclettismo femminile che brilla anche e soprattutto nel campo dell’arte. Una donna che ha saputo imporsi nello scenario internazionale come protagonista indiscussa di una nuova definizione di design è l’italiana Ambra Medda, dal 2004 direttore di Design Miami/Basel in Florida. Veicolando un
design elevato a disciplina artistica, che non ha niente da invidiare a scultura e architettura. E che, anzi, con queste arti si fonde, dando vita a interessanti percorsi originali, che attirano l’attenzione di un pubblico sempre più giovane e creativo. Grazie al suo lavoro, «si è iniziato ad accettare un concetto di fiera – spiega Ambra Medda – che mescola design, architettura e arte in generale. Abbiamo sviluppato al meglio anche il lato culturale: in entrambe le fiere, Miami e Basilea, abbiamo ideato i “design talk”, veri momenti di approfondimento in cui i più importanti rappresentanti del mondo dell’arte discutono i topic del momento». Come evidenzia la creativa italiana, oggi i grandi designer vengono fuori dalle grandi scuole, che attualmente sono in Svizzera, Inghilterra, America e Olanda. L’Italia vanta sempre un forte appeal, tira fuori idee e stili originali, però pochi italiani riescono a intraprendere una carriera internazionale. «Per questo spero vivamente di poter sviluppare nuovi rapporti con le scuole italiane, perché mi piacerebbe vedere più designer italiani in giro per il mondo».
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foto Mario Carrieri
foto Beat Pfändler
>la memoria par la il lingua g gio del futur o
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In Italia come in Europa c’è una forte presenza di aree industriali dismesse. Puntare alla loro riqualificazione può essere utile e funzionale, anche a livello residenziale. Questo è quello che è avvenuto a Sesto San Giovanni con la ristrutturazione della sede Campari. «Riqualificare l’isolato – ha sottolineato l’architetto Mario Botta – rende la zona vivibile ventiquattro ore su ventiquattro» di Nike Giurlani
foto Enrico Cano
NUOVE DESTINAZIONI
In apertura l’architetto Mario Botta. In alto a sinistra la sede della Campari a Sesto San Giovanni. A destra, in alto Santo Volto
La Campari ritrova la propria sede storica a Sesto San Giovanni, la città che ha ospitato per più di un secolo i luoghi della produzione. A giugno è stata infatti inaugurata la nuova sede, progettata, su richiesta del committente Davide Campari, dall’architetto Mario Botta con Giancarlo Marzorati. Il progetto si estende su una superficie di 10.200 metri quadri e l’obiettivo è stato non solo quello di dare un’immagine più contemporanea e funzionale allo storico edificio, ma anche di riqualificare l’intero isolato. «Preservare la memoria storica» è il motto dell’architetto Botta. Da qui il progettista è partito per «far sì che le zone diventate obsolete, che si sono svuotate della loro capacità sia di produzione che di animazione, vengano recuperate, rendendole di nuovo funzionali». A più di cento anni di distanza, qual è stato il punto di partenza del nuovo progetto?
«Riutilizzare un’ex area industriale all’interno della città contemporanea. Nel caso di Sesto vi era il grande recinto della fabbrica che era un luogo di produzione, ma che presentava la necessità di riportarlo alle funzioni di un tempo. Accanto alla sede principale sorgevano un piccolo parco e la vecchia Villa Campari, che sono stati mantenuti. Tutto il perimetro della vecchia fabbrica è stato demolito e all’interno sono stati realizzati nuovi uffici, ad eccezione di una struttura che sorge in via Gramsci che rappresentava il primo insediamento amministrativo e che diventerà il Museo della Campari». Il progetto prevede anche un nuovo sviluppo terziario e residenziale? «Oltre agli edifici della Campari, nell’area circostante, che appartiene sempre alla fabbrica, sono previsti degli insediamenti residenziali. Riqualificare l’intero isolato ha lo scopo di rendere la zona vivibile ventiquattro ore su ven-
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OGNI ARCHITETTO FINISCE PER METTERE SEMPRE SE STESSO NEI SUOI PROGETTI, OGNI VOLTA IN MANIERA DIVERSA. ESISTE UN UNICO VOCABOLARIO COMPOSITIVO CHE NASCE DALL’ESPERIENZA E DA UNA SPERIMENTAZIONE CONTINUA. OGNI PROGETTO È FIGLIO DI QUELLO PRECEDENTE L’ARCHITETTO NON SCEGLIE COSA PROGETTARE tiquattro dotandola di servizi e spazi per il tempo libero». Riqualificazione delle periferie industriali. Gli interventi urbanistici sono la premessa per superare il degrado, ma talvolta non si raggiunge questo obiettivo. Quali le premesse per ridare vivibilità alle periferie moderne? «Non c’è una ricetta universale. Bisogna avere l’umiltà di calarsi nel problema specifico. L’idea è quella di combattere una forte densità urbana utilizzando non un nuovo territorio, ma andando ad agire su quei luoghi già esistenti, ma caduti in disuso, sia a livello di produzione che di animazione. Con opportune ristrutturazioni possono tornare ad essere punti vitali della città, a costi con-
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tenuti. Infatti, in queste zone, sono già presenti infrastrutture, strade, fognature e trasporti». Quali le maggiori sfide nell’intervenire su un edificio già esistente? «Per la sede della Campari è stata mantenuta inalterata tutta la parte novecentesca della palazzina. Abbiamo costruito ai lati e sopra, con una struttura statica a ponte in modo tale da toccare solo minimamente la struttura preesistente. È giusto preservare la memoria storica, ma allo stesso tempo bisognava conferire una dimensione più forte a questa realtà, per trasformarla in una città contemporanea. Fondamentale l’utilizzo del cotto, con cui è
foto Urs Homberger
foto Pino Musi
NUOVE DESTINAZIONI
A sinistra Berg Oase. A destra Museo Mart
ricoperta tutta la struttura». Spesso nei suoi progetti ha parlato di “ordine geometrico”, che cosa vuol dire? «È una matrice compositiva che si ritrova all’interno degli edifici. Preferisco utilizzare la geometria perché mi permette un maggior controllo della luce e dell’organizzazione degli spazi, ma la geometria non è un dogma. Si possono realizzare delle buone architetture anche con una composizione libera. Dipende poi dal linguaggio che caratterizza ognuno di noi». Dalle case unifamiliari è approdato alle costruzioni di spazi pubblici spesso di grandi dimensioni. C’è una caratteristica costante in tutti i suoi progetti? Che cosa vorrebbe ancora progettare? «Ogni architetto finisce per mettere sempre se stesso nei suoi progetti, ogni volta in maniera diversa. Esiste però un unico vocabolario compositivo che nasce dall’espe-
rienza e da una sperimentazione continua. Ogni progetto è figlio di quello precedente. L’architetto non sceglie cosa progettare, ma si mette a disposizione, mette a disposizione la sua esperienza. È la committenza, colei che ha fatto la storia del nostro tempo, a decidere cosa realizzare. Di volta in volta quindi si risponde con una casa, con un ponte con una chiesa a seconda della domanda che viene verificata come esigenza di una collettività. Il prossimo progetto è un mistero anche per me. Il fascino di questo lavoro sta proprio nel non sapere che cosa si realizzerà domani». Qual è la città che sente più vicina ai suoi ideali? «La città europea in generale. In Europa le realtà urbane, attraverso la loro stratificazione storica, sono più legate al passato, alla memoria. Questo invece non accade nelle città americane o asiatiche. Se potessi scegliere, lavorerei sempre nella vecchia Europa».
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In alto a destra, l’architetto Luca Scacchetti. Nelle altre immagini, “Il teatrino del silenzio” allestimento curato in occasione di Marmomacc Incontra il Design 2009 per Grassi Pietre di Nanto (VI) foto di Alberto Parise
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PROGETTAZIONE
>quel r a ppor to siner gico tr a luo ghi e costr uzioni La moderna concezione del progettista tende a sposare due direzioni apparentemente opposte. Sorprendere con elementi di eccezionalità e impronte personali e al tempo stesso rispettare il rapporto strettissimo tra la costruzione e il luogo dove esso vedrà la luce. La visione di Luca Scacchetti di Nicolò Mulas Marcello
La tendenza che si è imposta negli ultimi anni in ambito di progettazione è quella di una maggiore caratterizzazione e riconoscibilità. I criteri possono essere molto diversi ma sostanzialmente seguono tre principali linee: la ricerca attraverso una forte impronta del progettista, lo studio di elementi di sorpresa o sensazionalità al limite dello strano, e infine un maggior rapporto tra luogo e struttura. Il “teatrino del silenzio” allestimento curato dall’architetto Luca Scacchetti in occasione di “Marmomacc Incontra il Design 2009 per
Grassi Pietre di Nanto (VI)” riassume queste tendenze in uno spazio architettonico unitario, anticipato da una colonna classica che, rimandando alla tradizione vicentino palladiana, lega classicità a geometrie e forme della contemporaneità. Un teatrino silenzioso dove passato e presente si incontrano e si fondono in un’unica suggestione. Una gradinata che termina con un piano rialzato di un metro, circondato da una parete in pietra bocciardata con dei prismi irregolari sporgenti bucati centralmente, attraverso cui vedere
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In questa pagina, un’immagine delle Palazzine a uso residenziale (Bastia Umbra – Perugia). Sotto, due edifici a uso residenziale (Milano). Nella pagina accanto EOS Hotel (Lecce)
immagini retro illuminate e in 3D delle cave. La pietra viene disegnata come un mondo capace di andare oltre le stagioni culturali ed intellettuali. Un mondo dove ogni ibridazione è ammessa nel comune denominatore del materiale, che tutto riesce a riassumere. «Tutto il mio lavoro – sottolinea l’architetto Scacchetti - non vede separazione tra architettura e design. Questo perché ho sempre considerato i due elementi come un semplice cambio di scala e non solo, delle progettazioni specialistiche». In questo senso è utile
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PROGETTAZIONE Luca Scacchetti
comprendere come il design italiano sia stato nella maggior parte dei casi ad appannaggio degli architetti, con il vantaggio di far crescere proprio la capacità di cambiare scala e tema continuamente. Anche le strutture alberghiere rispondono per Scacchetti ai nuovi canoni di progettazione. L’hotel può essere un luogo dove ritrovare l’ambiente casa o dove cercare momenti al di fuori della quotidianità. «Credo che l’albergo debba in qualche modo essere un riassunto e un racconto della città dove sorge o della campagna o
della costa o della montagna, ove si costruisce. L’albergo è, per così dire, già tutto contenuto nella terra in cui sorgerà». Così l’Hotel EOS di Lecce è stato ricostruito nella struttura e nella facciata interamente rivestita in pietra leccese. Mentre l’Hotel Litta Palace di Lainate (MI) cerca di porsi come segno forte nel paesaggio dell’hinterland milanese e al contempo adeguarsi formalmente al lotto su cui si costruisce, rafforzando la forma del rondò su cui si affaccia. «Le parti comuni di un albergo sono fondamentali, esse
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In alto, Hotel Hilton Garden (Lecce). Sotto Hotel Litta Palace (Lainate – Milano) e vista piscina di Villa Sa’ Contissa (Arzachena – Olbia). Nella pagina accanto, in alto, Villa Amoras (Arzachena - Olbia). In basso, vista notturna e fronte mare di Villa Sa’ Contissa (Arzachena – Olbia)
strutturano e rendono eccezionale la norma, la regola, rappresentata viceversa dalle camere. Un corretto rapporto tra le due parti genera un buon albergo all’interno di un racconto unitario, e mai didascalico, sia chiaro, sul luogo». Il settore alberghiero e della ricettività in generale è quindi anche la controprova che esiste un rapporto indissolubile tra architettura, interni e design. «Lo è ancora di più il settore dei residence in cui si hanno delle metrature ridottissime che però de-
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vono garantire dei livelli di comfort molto elevati». Il senso del progetto delle palazzine residenziali a Bastia Umbra (PG) è tutto nella costruzione di un cono ottico, di un cannocchiale, di una “prospettiva edificata”, verso la piana di Assisi e verso la città stessa sul fondo dell’orizzonte. Mentre Villa Amoras di Arzachena (Olbia) si costruisce su un solo piano e ogni apertura, ogni finestra, ogni rapporto tra interno ed esterno è calcolato, controllato, voluto. Questo rap-
PROGETTAZIONE Luca Scacchetti
«CREDO CHE L’ALBERGO DEBBA IN QUALCHE MODO ESSERE UN RIASSUNTO E UN RACCONTO DELLA CITTÀ DOVE SORGE O DELLA CAMPAGNA O DELLA COSTA O DELLA MONTAGNA, OVE SI COSTRUISCE»
porto interno/esterno fondato dalle viste, dalle vedute, questo intendere l’architettura come una cornice al paesaggio è un altro dei principi informatori del progettare di Luca Scacchetti. E in questa direzione va anche il progetto di Villa Sa’ Contissa sempre situata ad Arzachena, la quale per posizione, veduta e disposizione nell’ambiente naturale sul ciglio di una scarpata di granito, costruita quasi come un terrazzo a sbalzo sul panorama, ha sicuramente un valore che prescinde
dal puro calcolo dei metri quadri complessivi e dell’estensione delle aree a verde pertinenziale. L’architettura può inoltre contribuire al rilassamento fisico e psichico dell’uomo «ridiventando “luogo”, da contenitore a luogo riconoscibile. L’uomo, come sempre, ha bisogno di ricostruire una propria geografia per punti riconoscibili, l’ansia dell’anonimato internazionale si contrasta con piccole azioni e anche l’architettura può dare il suo contributo».
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>il mister o dello s pazio tr a bianco e ner o Il suo mondo è tutto in bianco e nero. Il motivo? Perché solo eliminando il colore, il fotografo Pino Musi, riesce a raggiungere «l’essenza dei contenuti e della forma». Lo spazio è stato sempre il suo centro d’interesse e «fotografare le architetture è stata la diretta conseguenza» di Nike Giurlani
FOTOGRAFIA
Bianco e nero. Materia e luce. Queste le vere muse ispiratrici del fotografo Pino Musi che si è avvicinato alla fotografia perché voleva scoprire la realtà nel profondo, non accontentandosi della facciata superficiale degli oggetti. Il suo obiettivo punta all’essenziale perché ritiene «che le immagini finali non debbano urlare, ma agire in maniera affabulante sul fruitore lasciando sempre problematiche aperte e un alone di mistero». E se l’obiettivo fotografico dovrebbe fare da filtro tra l’io che guarda e il mondo che viene guardato, in realtà quello che arriva è proprio il punto di vista del fotografo. Quest’ultimo è come se ci prendesse per mano e ci lasciasse entrare nel suo mondo e allo stesso tempo ci guidasse alla conoscenza dell’anima dell’architettura. Nella sua carriera artistica ha incontrato e collaborato con importanti architetti come Mario Botta e Tando Ando che l’hanno spronato ad aprirsi verso nuovi orizzonti di ricerca. Perché la sua interpretazione del mondo passa attraverso una lettura in bianco e nero? «Da ragazzo avevo due grandi passioni: il teatro sperimentale e la fotografia. In effetti, i due interessi erano intersecanti e paralleli, c’era sempre l’oscurità da cui la scena o l’immagine veniva a essere generata. In fotografia quello che m’intrigava, e che ancora tutt’oggi mi affascina, è come la chimica, la fisica e la matematica, discipline che stabiliscono le regole fondanti del linguaggio fotografico, per un perverso ed emozionante gioco del destino, possano tramutarsi, nel migliore dei casi, in immateriali fantasmi che attraversano un pezzo di carta. Il bianco/nero, poi, radicalizza lo spiazzamento dal reale. In qualche modo sottraendone l’orpello del colore, va all’essenza dei contenuti e della forma. Per questo lo uso». Come si è avvicinato al mondo dell’architettura? Da dove è partita la sua indagine e quale percorso ha seguito? «Fotografare le architetture è stata la diretta conseguenza del mio interesse per lo spazio, per le relazioni e i conflitti che si creavano al suo interno. Queste scelte tematiche derivavano spesso da incontri con persone culturalmente stimolanti che mi incuriosivano facendomi accettare la sfida di cimentarmi su nuovi fronti di ricerca. Così è stato 30 anni fa per l’archeologia e l’architettura,
In apertura, dall’alto, il Centre Dürrenmatt Neuchâtel e la Fondazione Cartier di Parigi. In questa pagina, il fotografo Pino Musi
UN FOTOGRAFO COSCIENTE, A MIO AVVISO, NARRA SEMPRE SE STESSO, FILTRANDO L’OGGETTO. NELLO STESSO TEMPO DEVE ANCHE ESSERE IN GRADO DI PORSI IN UN CERTO SENSO COME COSCIENZA DI QUELL’ARCHITETTURA
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FOTOGRAFIA
ho conosciuto grandi archeologi e architetti, tra cui Mario Botta e Tadao Ando, che negli anni sono diventati per me importanti referenti. Nel fotografare uno spazio, dal punto di vista dell’inquadratura, sono piuttosto essenziale, scarnificante, perché credo che le immagini finali non debbano urlare, ma agire in maniera affabulante sul fruitore lasciando sempre un alone di mistero e problematiche aperte. È sempre stato difficile per me fare una fotografia applicata, una “foto per l’architetto” o una “foto per la rivista”. Lentamente e con determinazione sono uscito dagli ingranaggi perversi dell’editoria specializzata a favore di un lavoro più di nicchia, ma di alta qualità». Come riesce un fotografo a valorizzare un’architettura? «Posso esaltarne il senso, i contenuti forti, scegliere dei segmenti di quell’architettura narrando parallelamente me stesso come autore. Un fotografo cosciente, a mio avviso, narra sempre se stesso, filtrando l’oggetto. Nello stesso tempo deve anche essere in grado di porsi in un certo senso come coscienza di quell’architettura. A me poi non piacciono le foto un po’ orfanelle, soggette a un confezionamento e che non hanno niente a che vedere con il respiro che comunica l’architettura originale». Nel 1997, in occasione del restauro della Chapelle Notre Dame du Haut a Ronchamp, progettato da Le Corbusier, è stato chiamato a dare la sua interpretazione del luogo attraverso la fotografia. Quali sono state le linee guida? «Venendo dal teatro, per anni mi è piaciuto fotografare tutto quello che è progettato attraverso la luce. In particolare le architetture, nelle quali materia e luce s’incontrano in modo epifanico, dove succede qualcosa di sorprendente. Spazi in cui muoversi senza che essi siano perfettamente definiti, in cui non succede apparentemente nulla, ma che sono in grado di rendere la “densità dei vuoti”. Poche architetture al mondo mantengono queste prerogative, una è Notre Dame du Haut di Le Corbusier a Ronchamp. Con il grande Jean Petit ho realizzato nel 1997 un volume che voleva provare a restituire attraverso la fotografia questo respiro del “sacro”. Notre Dame du Haut è un luogo che ho profondamente amato e che nel tempo è cambiato pochissimo: la stessa atmosfera sospesa nel silenzio e nella preghiera ce l’aveva anche tredici anni fa, perché l’abate Bolle-Reddat, fino alla sua morte, è stato capace caparbiamente di mante-
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A sinistra, la Cappella Mogno e, in alto, il Mart di Rovereto
MI SEMBRA CHE IN GIRO PER LE METROPOLI, AL DI LÀ DELL’URLANTE FACCIATA, DILAGHI LA SOLITUDINE, LA NOIA DI UN QUOTIDIANO CHE SI REITERA NEI SOLITI RITUALI
FOTOGRAFIA
In questa pagina, due differenti inquadrature della Cappella Ronchamp
PER ANNI MI È PIACIUTO FOTOGRAFARE, VENENDO DAL TEATRO, TUTTO QUELLO CHE È PROGETTATO ATTRAVERSO LA LUCE. IN PARTICOLARE LE ARCHITETTURE, NELLE QUALI MATERIA E LUCE SI INCONTRANO IN MODO EPIFANICO
nere in questo luogo il rispetto del senso originario del progetto di Le Corbusier, nonostante il tempo trascorresse inesorabile». Sempre nel 1997 alla fiera del libro di Francoforte è stato premiato per il volume Mario Botta seen by Pino Musi. Come definisce l’architettura di Mario Botta? E cosa l’affascina dei suoi progetti? «Botta, così come Ando, è un architetto che ha molto lavorato su e con la luce. Come pochi riesce a piegarla al progetto e a definirne valenze e contenuti. Le sue architetture possono piacere o non piacere, ma una cosa è certa: un fotografo dentro i suoi progetti ritrova la propria identità (a volte dispersa) mettendo realmente in discussione sensibilità, acutezza e visione». Negli anni ha indagato l’architettura delle città. Come stanno cambiando le nostre metropoli? «Le metropoli spesso, a mio avviso, sono ossessionate dai cambiamenti di “facciata”, sembra che la credibilità dipenda dall’esibizione dei muscoli, da quanti musei, edifici istituzionali, fiere, opulenti metri quadri di cemento e “gesti” delle archistar riescano a esibire. Scuole, ospedali, luoghi di aggregazione per giovani restano irrisolti a livello progettuale, se non dimenticati. Mi sembra quindi che in giro per le metropoli, al di là dell’urlante facciata, dilaghi la solitudine, la noia di un quotidiano che si reitera nei soliti rituali, l’incapacità di ritrovarsi con la propria “tribù” a inventare con soave allegria la propria esistenza in luoghi adeguati». Lei vive tra Milano e Parigi, due metropoli con una grande storia e in continuo divenire. Dove, secondo lei, antico e moderno riescono meglio a dialogare e perché? «Milano e Parigi sono profondamente diverse sotto questo aspetto. A Parigi la storia s’innesta continuamente nel contemporaneo e viceversa. La condizione è di rigenerare la tradizione, di mettersi in gioco culturalmente aprendosi alla diversità anche a costo di qualche ferita. A Parigi il flusso delle idee è orientato a partorire il nuovo, soprattutto nel mondo dell’arte. A Milano mi sembra che, salvo in rari casi, si tenda ad acquisire pacchetti preconfezionati di idee, che accontentano un po’ tutti, senza il coraggio di partorirne di autonome. La città e il suo reale potenziale creativo e di progetti brillanti, la verificheremo al bivio dell’Expo. Lì si metteranno finalmente a nudo utopie, passioni e reali capacità».
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>ar c hitettur a dinamica arriva la quar ta dimensione Gli edifici rompono la loro staticità per trasformarsi in strutture dinamiche, introducendo così «la quarta dimensione: il tempo». La Rotating tower, progettata da David Fisher, è destinata a cambiare lo skyline delle città di tutto il mondo. Una rivoluzione tutta made in Italy di Nike Giurlani
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Per le immagini tutti i diritti sono riservati all’Architetto David Fisher – Dynamic Architecture
STRUTTURE DINAMICHE
Dynamic Architecture
In apertura render della Rotating Tower di Dubai. A sinistra l’architetto David Fisher
Una nuova era si sta aprendo nel campo dell’architettura. Gli edifici divengono dinamici. Non si tratta di un film di fantascienza, ma di una novità sorprendente che sta sorgendo a Dubai. Il progetto, lanciato da David Fisher, si chiama Rotating tower e sovvertirà tutte le regole dello spazio, rivoluzionando il rapporto tra modernità e ambiente e tra sviluppo e sostenibilità. Inoltre la torre girevole è il primo edificio realizzato in fabbrica, tramite moduli pre-assemblati e questo significa: risparmio d’energia, di tempo e di costi di costruzione. Il dinamismo dell’edificio permette di orientare il proprio spazio
secondo i momenti della giornata, in relazione alle stagioni o semplicemente al proprio stato d’animo. Unica, moderna, dinamica, ecosostenibile e rivoluzionaria, in una parola Rotating tower. Presto approderà anche a Roma e «simboleggerà il passaggio dalla storia al futuro». Quali sono i vantaggi che derivano dall’architettura dinamica? «L’architettura dinamica, innanzitutto, introduce la quarta dimensione: il tempo. Ogni piano ruota separatamente l’uno dall’altro a 360°, l’edificio quindi cambia forma continuamente, offrendo una nuova visione dello spazio. La
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STRUTTURE DINAMICHE
LA TORRE ROTANTE DIVENTERÀ IL SIMBOLO PER ECCELLENZA DEL MADE IN ITALY ED È MIA INTENZIONE AVVALERMI DELLA MIGLIOR TECNOLOGIA E DEI PIÙ RINOMATI PRODOTTI ITALIANI
Torre Dinamica si fonda su un principio di razionalità ed è il primo edifico ad essere costruito interamente in fabbrica». L’applicazione di questa tecnologia quale impatto urbanistico ed energetico può suscitare? «La Torre Dinamica è autosufficiente da un punto di vista energico grazie alle turbine eoliche, posizionate tra un piano e l’altro e ai pannelli solari che ricoprono il tetto di ogni piano. La più innovativa tecnologia è stata applicata per garantire il rispetto dell’ambiente e avviare la costruzione della città del futuro, assolutamente verde». In particolare lei ha dichiarato che l’approccio meccanico consente un notevole risparmio. Di quale entità stiamo parlando? «L’assemblaggio in fabbrica di ogni modulo garantisce innanzitutto il risparmio del tempo nella costruzione in
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cantiere dello stesso edificio. Ogni piano viene realizzato in una settimana, riducendo quindi i costi di cantiere. L’approccio meccanico consente anche il monitoraggio costante della produzione in fabbrica, eliminando così i tipici errori di cantiere che causano dispendio di tempo e di denaro». Da dove deriva la scelta di realizzare tutto in Italia? «Innanzitutto io sono italiano e sono fiero di esserlo. La produzione italiana rappresenta l’eccellenza nel mondo. La Torre Rotante diventerà il simbolo per eccellenza del made in Italy ed è mia intenzione avvalermi della miglior tecnologia e dei più rinomati prodotti italiani». La Rotating Tower di Dubai sarà solamente la prima di una serie. Le prossime torri verranno realizzate allo stesso modo o cambieranno a seconda dei luoghi? «Ogni Torre avrà delle peculiarità che dipendono dal
In alto e nella pagina a fianco altri render della struttura interna e dei servizi che caratterizzeranno la Rotating Tower
luogo specifico in cui verrà eretto l’edificio dinamico, in quanto subentrano variabili come il clima il carico e il vento. In Italia vorrei costruire la prima torre a Roma. L’edificio simboleggerà il passaggio dalla storia al futuro, ma ho in mente di coinvolgere sicuramente Milano, in previsione dell’Expo, e magari anche Firenze». Dubai è colpita da una pesante crisi finanziaria che ha ovviamente travolto il mercato immobiliare. Quale impatto sta avendo sullo sviluppo dei nuovi progetti, in particolare sulla realizzazione della Tower? «In tempi di difficoltà finanziaria sembra che il lusso e l’unicità del progetto possano prevalere. È una sfida nella sfida e sembra che ci sia una grande richiesta per gli appartamenti in questa torre. Per quanto riguarda il golfo ed in particolar modo Dubai, le infrastrutture eccellenti che già esistono e lo spirito dei locali riusciranno a far
fronte alla crisi la crisi». Ultimamente è alimentata la tendenza, in particolare negli Emirati Arabi, a realizzare edifici sempre più alti. Il futuro dell’urbanistica e dell’architettura è rivolto “verso l’alto”? «Certo, più si costruisce verso l’alto e più terreno si risparmia e quindi maggior spazio viene riservato alle aree verdi. Nello stesso tempo non deve essere l’altezza a rappresentare un primato ma il valore globale dell’architettura». Le civiltà che hanno lasciato un segno culturale e storico significativo sono quelle che, generalmente, lo hanno lasciato anche sotto il punto di vista delle opere architettoniche. Trova che la civiltà contemporanea stia lasciando un’eredità importante e tangibile anche attraverso l’architettura, al pari dei suoi progressi scientifici, culturali e sociali? «Credo che, nell’era moderna, i progressi raggiunti nel campo della scienza, della cultura non siano egualmente comparabili a quelli raggiunti nel campo dell’architettura. Quest’ultima non ha subito miglioramenti o progressi essenziali dalla costruzione delle Piramidi. Ora i migliori architetti si divertono ad inventare forme stupende mentre la fattibilità, la funzionalità e il modo di costruire non rispecchiano la nostra era». Quali sfide ha in serbo per il suo futuro? «Innanzitutto estendere l’industrializzazione dell’edilizia dalla torre girevole alle case residenziali e alle strutture pubbliche e poi, chissà, costruire nello spazio».
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>nuvole italiane nel cielo di londr a Il simbolo di Londra 2012 sarà The Cloud: struttura futuribile, riferimento per chi assisterà alle gare ed elemento di congiunzione fra sport e comunità globale. Nel team del progetto l’italiano Carlo Ratti di Simona Cantelmi
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Tutti i diritti riservati - “RaiseThe Cloud” www.raisethecloud.org
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Un’installazione costituita da nuvole tecnologiche svetterà sugli impianti sportivi londinesi delle prossime Olimpiadi. Una grande attrazione turistica, ma non solo. The Cloud sarà formata da una torre alta 120 metri, su cui verrà sospesa una fitta serie di bolle di plastica Etfe (l’Etilene TetrafluoroEtilene, un polimero parzialmente fluorurato). Su tali bolle sarà possibile creare giochi di luce e far scorrere, attraverso Led luminosi, informazioni in tempo reale, ad esempio sul meteo e sui risultati degli incontri. L’opera sarà anche una grande possibilità per raccogliere energia, che potrebbe essere ricavata in vari modi. Uno di questi è at-
traverso sottili pannelli fotovoltaici collocati sulle bolle. La capacità di generazione con questo sistema sarebbe di 200 MWh l’anno, il che renderebbe The Cloud in grado di produrre più energia rispetto a quella consumata e servirebbe a fornirne ai quartieri della zona orientale di Londra. Ogni bolla avrebbe una propria atmosfera interna e una pressione costante, e i sistemi di controllo dell’aria sarebbero interconnessi. In aggiunta, la torre di sostegno delle bolle, utilizzerà il calore generato e la differente pressione dell'aria per creare una corrente che ventili gli spazi pubblici in estate e li riscaldi in inverno. Il progetto, per produrre
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Nella pagina precedente Carlo Ratti. In questa pagina, in alto, visuale dell’interno di The Cluod; sotto, l’esterno dell’opera. Nella pagina accanto, panoramica della torre con le bolle
energia, utilizzerebbe anche l'acqua per muovere una serie di microturbine e, per evitare di sollevare l’acqua a grandi altezze, vi sarebbero sistemi di captazione della pioggia. La vita della struttura inizialmente sarà di quattro anni, il periodo compreso tra i giochi Olimpici di Londra e quelli di Rio de Janeiro del 2016. Il desiderio dei progettisti è, però, quello di far sì che la costruzione diventi eterna. Tra questi, anche il professor Carlo Ratti, ingegnere, architetto e insegnante presso il Mit, Massachusetts institute of technology. Qual è l’apporto simbolico che questo progetto può apportare a Londra e all’evento delle Olimpiadi? «A mio avviso un aspetto molto importante è quello della partecipazione. The Cloud sarà costruita proprio con un sistema di micro-donazioni da tutto il mondo. Inoltre permetterà che si crei uno spazio di libertà informativa svincolata dai limiti di terre, tradizioni e nazioni». L’opera vede la collaborazione di più personaggi, oltre che di Google. Come si evolverà tale collaborazione? «L’idea è che anche il gruppo di progetto sia un po’
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INSTALLAZIONI
CIÒ CHE PIÙ MI PREME È CHE THE CLOUD DIVENTI UN SIMBOLO GLOBALE DI CONDIVISIONE E SCAMBIO DI INFORMAZIONI
come The Cloud: flessibile, democratico, inclusivo. Google collaborerà come “organizzatore di informazioni”, rendendo le notizie facilmente accessibili a tutti a livello mondiali. Google riempirà il display, che si visualizzerà sulle bolle, con notizie in tempo reale sulle gare». L’opera irromperà sullo scenario urbano londinese, creando un suggestivo contrasto tra metropoli ed elemento fantasioso, quasi da sogno. Gli scenari urbani contemporanei necessitano di costruzioni architettoniche fuori dagli schemi? «Dipende dalla città e dalle condizioni locali. Riguardo a ciò posso dire che nel caso delle Olimpiadi la richiesta di creare qualcosa fuori dagli schemi è venuta proprio dal sindaco di Londra, Boris Johnson».
Il progetto prevede anche un particolare utilizzo dell’energia. «The Cloud si propone un grande sforzo di raccolta energetica. Ciascuno potrà decidere di salire a piedi o in bicicletta e l’energia emessa dalla gente sarà convertita in elettricità e rimessa in circolo tramite gli ascensori, dotati di un sistema similare a quello delle automobili ibride. In generale, The Cloud trasforma tutta l’energia usata, rendendola di nuovo disponibile». Quali reazioni all’opera si aspetta? «Finora le reazioni sono state entusiastiche. Ciò che più mi preme è che The Cloud diventi un simbolo globale di condivisione e scambio di informazioni».
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>luce, sen so e per cezione, lo spazio è oltr e il volume A tu per tu con Silvio De Ponte, l’architetto della luce. La sua filosofia, i suoi ultimi progetti e soprattutto la sfida di rendere ogni luogo interattivo e connesso all’uomo, puntando a una progettualità sempre più soft e alla collaborazione con le eccellenze del made in Italy di Andrea Moscariello
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ARCHITETTURA DELLA LUCE Silvio De Ponte
Sotto, l’architetto Silvio De Ponte. Nelle immagini, alcuni scatti tratti dalla mostra Fuori Salone - Skin, realizzata a Milano all’interno del SuperStudioPiù in collaborazione con La Perla
Qual è la forma della luce? Impossibile rispondere. Così intoccabile ma così percettibile, avvolgente, stimolante. La non materia per eccellenza suscita nell’uomo un’esplosione sensoriale. Silvio De Ponte lo sa bene, giocando da anni, con fantasia, scienza e azzardo, a proporre l’illuminazione coniugandola ogni volta in maniera differente a seconda dei luoghi che intende abbracciare. Dallo spazio pubblico alla doccia, dal negozio alla camera da letto. Per De Ponte luce significa living, sostenibilità, l’unione di tutti i sensi all’interno di uno solo, la vista. Ma attenzione, sbaglia chi, incontrandolo, si illude di avere di
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fronte l’ennesimo ossessionato dell’estetica. Per l’architetto il design quasi non ha senso se privato di funzionalità, di un’integrazione concreta con l’esistenza di chi lo vive. E partendo dall’ultima esposizione avvenuta al fuori salone Skin di Milano, durante l’ultimo Salone Internazionale del Mobile, si racconta. «In questo contesto si manifesta palesemente il frutto di un iter progettuale a me caro, legato al tema della multisensorialità – spiega De Ponte -. Si tratta di un approccio molto innovativo, distante dall’architettonico tradizionale». Non solo masse, forme, volumetrie in generale, ma un approccio che lo stesso architetto definisce soft.
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Con questo aggettivo cosa vuole comunicare? «Faccio riferimento a un’architettura e a un design che richiama le percezioni. Sensazioni che si hanno dal momento in cui si vive all’interno di un determinato ambiente. Quindi vuol dire materiali, superfici e la loro reattività alla luce o ai profumi. Sono tutti elementi che incidono nella memoria di ogni individuo dal punto di vista psicologico. Per esempio gli odori si ricordano negli anni, persino quelli della propria infanzia». Anche le forme rompono gli schemi. A cosa si è ispirato? «Sono tutte molto dinamiche, anche antropomorfe se vogliamo. In realtà si potrebbe affermare che in quegli am-
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A sinistra, altre immagini dall’esposizione Skin. In questa pagina a lato proiettore “Led Lite 1” a led con staffa a lama di luce produzione Cariboni Lite (www.caribonilite.com), sotto, illuminazione mediante i proiettori a led “Led Lite 1” del ponte Ratzenbergersteg (Austria). In basso, Seven e Circle, famiglia di apparecchi di illuminazione di arredo funzionale da esterni su palo o, nel caso di Circle, anche a parete mediante apposito braccio. Prodotti progettati per l’azienda Fivep Lite (www.fivep.com)
HO VOLUTO CREARE UNO SPAZIO PRIVO DI SPIGOLI, DI ANGOLI, DI DUREZZE. L’AMBIENTE È MORBIDO, SOFT PER L’APPUNTO, E CREDO SI POTREBBE RICREARE ANCHE ALL’INTERNO DI UN’ABITAZIONE
bienti vi è un vero e proprio mondo animale, fatto di scheletri, superfici morbide, elastiche. Quindi c’è una forte tattilità nel suo complesso. I visitatori hanno potuto toccare con mano delle superfici elastiche create con un materiale particolare, il Barrisol. Le lampade, poi, sono tutte sospese al soffitto. Ho voluto creare uno spazio privo di spigoli, di angoli, di durezze. L’ambiente è morbido, soft per l’appunto, e credo si potrebbe ricreare anche all’interno di un’abitazione». Questa esposizione nasce anche grazie alla collaborazione con La Perla. «Esatto. Abbiamo utilizzato il loro spazio espositivo presso
il Super Studio Più di Tortona. Alla Perla sono stati molto soddisfatti del risultato e stiamo già lavorando sull’edizione del 2010». Il mondo della moda è sempre stato affascinato dal suo approccio. In particolare lei sta lavorando con Mariella Burani. A cosa porta questo accostamento? «Mi hanno contattato tre anni fa per rifare l’immagine dei loro negozi. Si tratta di un marchio molto particolare. Mariella Burani è fashion al femminile, ma di un certo tipo. Inizialmente le collezioni avevano un’immagine molto ricca, piena di particolari. Con il tempo la stilista ha “ripulito” i suoi capi. E a quel punto mi sono dovuto adeguare crea-
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tivamente». In che modo? «I negozi della Burani devono riflettere anche nell’ambiente i prodotti che propongono. Gli spazi commerciali hanno seguito la stessa logica che ha portato alla trasformazione degli abiti. Quindi pulizia degli elementi, più essenzialità. Su questo ho lavorato. Inizialmente ci siamo concentrati su alcune boutique italiane, poi siamo passati all’estero, da Parigi a Mosca. Con Mariella Burani si punta
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a creare un negozio con una forte brand identity. Non come tanti store in cui semplicemente vengono esposti i capi e che potrebbero cambiare marchio dalla sera alla mattina. Chi entra in un negozio della catena deve percepirne lo stile proposto anche dalle pareti». Il suo ingegno, soprattutto nel campo dell’illuminazione, l’ha coinvolta anche in un ambizioso progetto per uno spazio pubblico di primo piano. La Metro di Roma. Cosa ha ideato?
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A sinistra, l’interno di uno dei negozi del gruppo Mariella Burani. Sopra una camera a 4 stelle firmata De Ponte. Il letto ha il retro testiera in vetro con sistema rgb cambia colore (realizzazione allestimento generale Monkeydu, Reggio Emilia | www.monkeydu.com) La parure in raso è una produzione Frette (www.frette.com)
«Una grossa società mi aveva contattato in quanto partecipava a questo concorso internazionale per l’illuminazione dello snodo Termini tra le due metropolitane. Il tema luce in questo contesto è fondamentale. Per me ha rappresentato un’ennesima sfida. Tutti gli altri progetti puntavano più sul rispetto della quantità di lux necessaria, orientandosi su un approccio più tradizionale. Il mio invece è decisamente più mirato all’innovazione. Per cui abbiamo ritenuto interessante proporre all’interno di una metropo-
litana, uno spazio in genere anonimo, in cui la luce è fredda, senza anima, un’operazione scenografica, che psicologicamente tocca direttamente i visitatori». Dunque una luce che interagisce con i passanti? «La luce cambia, e molto, a seconda se la persona sta scendendo una rampa o salendo. In alcuni casi indica anche i percorsi da seguire per andare da una parte all’altra della stazione. E in altri muta di intensità regolandosi sulla vicinanza del treno, avvertendo il suo arrivo con la sua
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cromia. La luce qui ha tre anime. La prima è funzionale, fornendo la quantità di lux necessaria in conformità alle normative vigenti in merito. La seconda è di aspetto estroso, diventando quasi delle operazioni di installazione artistiche. E la terza è informativa, indicando ai visitatori i percorsi e i flussi dei treni». Un’operazione che la vede collaborare con importanti aziende. «Il lavoro che faccio sulle luci abbraccia collaborazioni con nomi di primo rilievo. Tra questi il gruppo Cariboni, con cui ho collaborato per i marchi Cariboni Lite e Fivep Lite. Questa realtà è stimolante perché nella loro produzione
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vi è una costante attenzione all’innovativo e il desiderio di migliorare l’illuminazione urbana. Cariboni, per esempio, fa un utilizzo tecnologicamente evoluto dei led, scelti non solo per il risparmio energetico, ma per proporre un’illuminazione con un’altissimo rendimento luminoso e con effetti ottici mai ottenuti in precedenza. Nuove sorgenti, nuove estetiche, nuove applicazioni e nuovi fasci di luce per le nostre città». Di recente il suo impegno si è orientato anche sul settore alberghiero. Quali i progetti più significativi? «Abbiamo lavorato a livello di concept design per il gruppo Boscolo Luxury Hotel, abbiamo una collabora-
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Nella pagina a fianco, pavimenti e rivestimenti verticali realizzati con prodotti ceramici Coem Ceramiche (www.coem.it). Al centro e a sinistra una zona wellness con il giardino verticale progettato e realizzato da Tec Verde (www.tecverde.it). Sotto, la parete chaise-longue della zona wellness
zione con il gruppo Pantha e stiamo sviluppando altri progetti per Paesi emergenti. A Bologna stiamo lavorando alla ristrutturazione di un 4 stelle, situato nel centro storico, afferente alla catena Best Western. Ovviamente dobbiamo curarne sia la facciata che gli interni. L’obiettivo è quello di ridefinire sia le camere che gli spazi comuni in termini funzionali ed estetici. Oggi buona parte delle ricerche in architettura vengono effettuate per il settore hotel. Per cui le strutture tradizionali che non si rinnovano, anche sul piano del design stabilendo anche nuove interrelazioni tra spazio e cliente, rischiano di rimanere tagliate fuori. Soltanto rinnovandosi gli alberghi
possono creare spazi in cui gli ospiti non si sentano più alienati, ma inseriti in un contesto che avvertono come proprio». Su queste tematiche si concentra il suo lavoro esposto all’ultimo Sia Guest di Rimini. «Durante la manifestazione tenutasi a Novembre ho scelto di presentare un mio concept per una junior suite a 4 stelle. Uno spazio ideale, distribuito su 135 mq all’interno del quale vi sono differenti funzioni. Anche qua ho scelto di giocare sulla multisensorialità e, non a caso, la camera si intitola “Sensory room”. Ognuna delle tre zone ha una profumazione particolare, suscitando determinate
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BUONA PARTE DELLE RICERCHE IN ARCHITETTURA VENGONO EFFETTUATE PER IL SETTORE HOTEL. LE STRUTTURE TRADIZIONALI CHE NON SI RINNOVANO, ANCHE SUL PIANO DEL DESIGN, RIMARRANO TAGLIATE FUORI
In alto, alcune immagini relative al progetto di illuminazione della Metropolitana di Roma, stazione Termini. Qui sopra il rendering di una parte degli interni per il progetto di ristrutturazione, ancora in fase di sviluppo, dell’Hotel Re Enzo di Bologna afferente al circuito Best Western, curato dall’architetto Silvio De Ponte e dal suo staff (www.depontestudio.com)
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percezioni». Si denotano elementi estremamente innovativi. Quali hanno colpito particolarmente il pubblico? «Innanzitutto i rivestimenti. Collaborando con la ditta Monkeydu di Reggio Emilia e con la Coem Ceramica, abbiamo scelto un materiale molto particolare, ceramico ma dall’effetto metallico. Dunque il freddo e il caldo che si mescolano». Anche nella zona wellness la doccia non è certamente comune. «Abbiamo inserito un ambiente doccia molto innovativo. Ogni getto d’acqua viene illuminato da un singolo colore, creando un sorprendente effetto di cromoterapia. Anche questa per me è ecocompatibilità. Non si tratta solo di risparmio o produzione innovativa dell’energia, ma di creare connessioni positive tra l’ambiente e chi lo vive. Per questo abbiamo inserito un bellissimo giardino verticale realizzato grazie all’apporto dell’azienda Tec Verde che è specializzata nella progettazione e realizzazione di pareti verticali e non solo. Creato con vere piante, offre alle persone che si avvicinano la sensazione di un respiro più intenso, più pulito, più sano e di una vivibilità più in armonia con il nostro corpo». Anche il marchio Frette si è inserito nel progetto. «Con Frette abbiamo utilizzato materiali innovativi per la “vestizione” della stanza. Il letto è ricoperto con materiali nuovi, mai utilizzati prima, per dare nuove sensazioni a chi lo tocca. Personalmente amo unire il design e l’architettura con la psicologia, gli aspetti psicosomatici e l’ecocompatibilità».
Giovanni Di Natale
>l’identità architettonica della musica Il modernismo di Oscar Niemeyer sbarca sulla costiera amalfitana. Il nuovo auditorium di Ravello porta la firma di uno dei più grandi architetti viventi. Una struttura avveniristica studiata però per integrarsi con il paesaggio di Nicolò Mulas Marcello
A dieci anni dalla sua ideazione il nuovo Auditorium di Ravello vede finalmente la luce dopo un percorso lungo e travagliato fatto di 72 mesi di pratiche per avviare i lavori, 40 mesi per l’effettiva realizzazione e 9 ricorsi ai giudici amministrativi per quasi 500mila euro di spese giudiziarie. La nuova struttura nasce con l’obiettivo di destagionalizzare il turismo culturale che investe la cittadina della costiera amalfitana estendendo a tutto l’anno gli eventi che caratterizzano nel periodo estivo il Ravello Festival. L’Auditorium porta il nome del suo progettista Oscar Niemeyer, il più grande architetto brasiliano che ancora oggi all’età di 102 anni continua a progettare come se il tempo non scorresse. L’idea è nata nel luglio del 2000 quando Secondo Amalfitano, allora sindaco di Ravello, parlando con il giornalista bra-
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SPAZI PER LA MUSICA
E IO MI METTO A IMMAGINARE, SODDISFATTO, QUESTA PIAZZA COSTRUITA, DEGNA FORSE DELLA CITTÀ DI RAVELLO, UNA DELLE PIÙ BELLE D’ITALIA
siliano Roberto d’Avila, decise di affidare il progetto a Niemeyer. L’architetto carioca che ha dato un’identità urbanistica a Brasilia, e ha legato il proprio nome a celebri opere di edilizia civile come il Sambodromo di Rio, fu subito entusiasta dell’incarico e si mise a lavorare intensamente al concept per ottanta giorni dichiarando che nelle sue intenzioni c’era quella di «creare un complesso architettonico non eccessivamente costoso, semplice e ardito al tempo stesso, capace di inserire nel paesaggio ravellese un segno inconfondibile ma non dissonante». Dal suo studio situato nell’Avenida Atlantica di Rio de Janeiro, uscirono sei disegni che l’architetto Paolo Desideri ha definito «di straordinaria bellezza grafica, di grande sensibilità spaziale, pervasi da una forza poetica che rimanda agli schizzi di alcuni dei grandissimi del secolo passato come Le Corbusier». La struttura sorge su una piazza oblunga che consente di godere contemporaneamente del suggestivo panorama e dell’imponenza dell’edificio. All’interno, lo spazio per il pubblico sfrutta il declivio naturale del terreno mentre la posizione dell’orchestra e il foyer protendono nel vuoto come il palco della vicina villa Rufolo, ma senza sostegni. Finora la dimensione musicale ravellese era contraddistinta da concerti all’aperto, dove il suono si disperdeva creando una imperfezione acustica che veniva però compensata dalle emozioni regalate dal paesaggio. L’auditorium integra una perfetta misura acustica senza però rinunciare alla solennità del panorama. Ed è per questo che l’edificio,
In apertura, Oscar Niemeyer. Nelle altre fotografie, particolari dell’esterno del nuovo Auditorium di Ravello
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Ancora particolari dell’esterno del nuovo Auditorium di Ravello
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grazie alla sua forma concava come la perfetta cassa armonica di un mandolino, permette di godere comunque del paesaggio attraverso un’ampia vetrata di accesso e un oblò situato dietro l’orchestra. Il lato opposto all’entrata, con meno finestre, protegge l’auditorium dalle costruzioni confinanti e visto dall’esterno svetta come un elmo medievale alludendo alle radici storiche del paese. L’ingresso si apre su un grande salone. Dal muro curvo e basso nasce il palcoscenico, il parterre, il mezzanino e la cabina di proiezione. L’entrata è protetta da una copertura che conferisce al progetto un effetto sorpresa. Davanti alla struttura è stata disegnata una piazza che favorisce la veduta dell’ambiente circostante e permette un’ottica d’insieme dell’auditorium, oltre a costituire un luogo d’incontro per i passanti. Significative le parole di Niemeyer: «E io mi metto a immaginare, soddisfatto, questa piazza costruita, degna forse della città di Ravello, una delle più belle d’Italia». La genialità del Maestro brasiliano sta proprio nel fatto di aver realizzato un’opera che si integra perfettamente con il territorio come se l’architetto
SPAZI PER LA MUSICA
CREARE UN COMPLESSO ARCHITETTONICO NON ECCESSIVAMENTE COSTOSO, SEMPLICE E ARDITO AL TEMPO STESSO, CAPACE DI INSERIRE NEL PAESAGGIO RAVELLESE UN SEGNO INCONFONDIBILE MA NON DISSONANTE. ORA LA MUSICA, L’ARCHITETTURA E IL TERRITORIO SONO LEGATE INDISSOLUBILMENTE avesse sempre vissuto a Ravello, assimilandone la storia, lo stile e la cultura. A Ravello ora la musica, l’architettura e il territorio sono legate indissolubilmente grazie all’opera di un grande progettista. Al di là delle polemiche che si sono succedute nei mesi l’auditorium costituisce una vera opera d’arte. Niemeyer ha guardato soprattutto alle nuove esigenze che la costruzione genera nella confluenza delle funzioni, delle forme e della materia, rispettando però la continuazione dello spazio creato con l'ambiente. L’architettura, infatti, deve sempre osare e azzardare creando nuove dimensioni spaziali. Le singolari forme antigravitazionali che caratterizzano i disegni di Niemeyer sperimentano anche a Ravello con le gestualità della materia in una continua ricerca di figure che si insinuano nello spazio
senza però addentrarsi nei meandri del simbolismo. L’auditorium riesce a stupire seguendo profili alla scoperta di linee sinuose che sollecitano la percezione e stimolano la mente. La struttura rappresenta insomma una sorta di punto di riferimento visivo per chiunque guardi Ravello da lontano. Un edificio inconfondibile per la sua originalità, ma senza risultare invadente. Sia dentro che fuori le linee sono interamente curve confermando la concezione di Niemeyer che ha sempre odiato l’angolo retto creando anche questa volta un’architettura che reinventa il modernismo, un’architettura che il poeta uruguaiano Eduardo Galeano ha definito «lieve come le nuvole, libera, sensuale, simile ai paesaggi delle montagne disegnate da Dio, in un giorno in cui Dio pensava di essere Niemeyer».
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IL MODERNO E L’ESISTENTE
>il centr o dell’ar c hitettur a Basta scontri tra conservatori e modernisti. Lasciamo un po’ in pace i nostri centri storici. «Accessibilità» e «rigenerazione»: questi devono diventare, secondo Pippo Ciorra, gli obiettivi dell’Italia che non può restare indietro rispetto alle altre città del mondo di Nike Giurlani
L’Italia si deve liberare del «manicheismo urbanistico», per cui il moderno è il male e l’antico è il bene. È questa la sfida culturale che da anni Pippo Ciorra cerca di portare avanti. Basta con la «cultura del sospetto» che dagli anni Cinquanta si è radicalizzata nel nostro Paese. È giusto che l’Italia continui a preservare il suo patrimonio storico, ma deve imparare anche a reggere il confronto con le altre città del mondo che, per esempio, a livello di accessibilità, sono molto più avanzate e «hanno imparato prima di noi a far fruttare gli avanzi del patrimonio esistente come industrie dismesse e territori ferroviari in disuso». Riqualificare, rigenerare questi devono
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essere i progetti futuri anche perché «in Italia di metri nuovi da colonizzare ce ne sono ben pochi». In un suo articolo del 2005 auspicava che “i conservatori più oltranzisti aprissero finalmente gli occhi, e vedessero gli infiniti casi in cui le battaglie oltranziste avevano finito per produrre danni maggiori nelle nostre città”. Li hanno aperti? «Direi di no. La situazione è meno conflittuale rispetto a qualche tempo fa però ogni volta che si apre una discussione seria e intensa sulla città o su un edificio finiscono sempre per ricrearsi i soliti schieramenti tra chi sostiene che il moderno sia aggressivo e chi invece
Sopra, edificio nel centro storico di Ancona. A destra, l’architetto Pippo Ciorra
crede nelle nuove espressioni artistiche. In Italia assistiamo a uno strano fenomeno: finché le trasformazioni dei centri storici sono anonime e vengono proposti progetti che non hanno ambizione di qualità non succede nulla. Stessa reazione quando il centro storico viene invaso da segni, segnaletiche, insegne, che non sono architettura, ma che rientrano in una simbologia moderna. Al contrario, appena c’è un progetto firmato, che in qualche modo rivendica l’appartenenza al proprio tempo, allora immediatamente si ricrea lo schieramento tra i conservatori e modernisti». Lei ha anche dichiarato l’Italia in passato ha fatto un gra-
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Nella foto, una veduta del centro storico di Ascoli Piceno, realizzato in collaborazione con lo Studio Salomoni
vissimo errore di separare, come fossero il bene e il male, la cultura della conservazione dell’antico da quella della progettazione del nuovo. Quando ha preso piede questo atteggiamento? «Direi durante il boom economico degli anni Cinquanta, che in Italia ha coinciso con la crescita delle città. Gli intellettuali italiani per paura, per reazione si schierarono fortemente per la protezione del patrimonio già esistente e finirono per creare questa sorta di manicheismo urbanistico per cui tutto quello che era precedente all’Ottocento era buono e da salvare mentre tutto quello che veniva dopo, in particolare il moderno, orgoglioso di sé, era una minaccia. Direi che si è trattato di un eccesso di legittima difesa che ha portato alla creazione di una cultura del sospetto verso il moderno». Come secondo lei si potrà far convivere i nostri centri storici ricchi di arte, di storia e di cultura con le esigenze del cittadino? «Oggi nei centri storici si riscontrano serie difficoltà. O diventano centri commerciali a cielo aperto, come è avvenuto a San Marino o si trasformano in centri direzionali. Nonostante tutto, la qualità della vita delle persone che abitano nei centri storici in Italia è ancora molto alta e a tale scopo stanno aumentando anche le aree pedo-
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nali. Direi che per far del bene ai nostri centri storici bisognerebbe lasciarli un po’ in pace, basta sollevare problematiche inutili. Bisogna cercare più che altro di non farli diventare dei dormitori, realizzando, invece, attività culturali». Non ritiene che spesso nella realizzazione dei progetti venga data più importanza all’aspetto estetico invece che a quello funzionale? «Sono due aspetti che non si possono considera in opposizione. È vero che l’architettura moderna per conquistarsi l’attenzione delle persone deve essere molto
IL MODERNO E L’ESISTENTE
LE CITTÀ ITALIANE SONO POCO ACCESSIBILI RISPETTO ALLE ALTRE GRANDI CITTÀ DEL MONDO DOVE CI SI MUOVE SEMPRE CON PIÙ FACILITÀ E MINOR TEMPO SIA CON I MEZZI DI TRASPORTO PUBBLICI CHE CON LE PROPRIE AUTO
spettacolare, ma la questione della funzionalità non viene messa in secondo piano, soprattutto alla luce di importanti passi avanti che si sono fatti a livello tecnologico e organizzativo. Basti pensare allo scalpore che suscitò all’inizio il Guggenheim di New York. Un museo che ha solo un percorso a spirale sembrava impossibile farlo dialogare con le opere e, invece, è diventata una sfida interessante. Un edificio ha successo non tanto se è bello o se è brutto, ma se riesce a interagire con la vita dei cittadini e della città». Come vede le nostre città fra venti anni?
«Le città italiane sono sicuramente belle, ma sono poco accessibili rispetto alle altre grandi città del mondo dove ci si muove sempre con più facilità e minor tempo, sia con i mezzi di trasporto pubblici che con le proprie auto. Io mi auguro che fra vent’anni potremo riscontrare dei miglioramenti su questo aspetto, senza ovviamente trascurare l’ambiente, perché l’accessibilità è un po’ il succo della democrazia. Per trasformare fisicamente invece le città ci vogliono ormai molto più di venti anni perché sia a livello politico, amministrativo, che economico è molto difficile realizzare grandi trasformazioni. Punteremo, come è successo negli ultimi anni, sui grandi eventi. Un esempio è Milano che ha fatto enormi progetti in occasione dell’Expo, ma che ora sta cominciando a ridurli». Nella riqualificazione urbana, le città italiane quali spunti possono prendere dalle città europee? «Sicuramente migliorare l’aspetto dell’accessibilità. Le città europee hanno imparato prima di noi a far fruttare gli avanzi del patrimonio esistente come industrie dismesse e territori ferroviari in disuso. In Italia c’è un serbatoio di aree industriali, ex residenziali da rigenerare. Siamo molto lenti e prevedibili in questo tipo di progetti. Nel nostro Paese di metri nuovi da colonizzare ce ne sono ben pochi, dobbiamo imparare a riqualificare».
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Sotto “Una casa di geometria variabile”, complesso residenziale per 35 famiglie a Seregno, in provincia di Milano; in basso Stefano Boeri
>vecc hi centri, nuove periferie Una valorizzazione delle periferie, non solo geograficamente intese. E un nuovo rapporto con il territorio agricolo circostante. Queste, secondo l’architetto Stefano Boeri, le due grandi sfide che aspettano Milano. Anche in vista dell’Expo di Sarah Sagripanti
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LA CREATIVITÀ È UN FENOMENO CHE NON PUÒ ESSERE PIANIFICATO, NÉ IN QUALCHE MODO PREVISTO. CI SONO DIMENSIONI CHE NASCONO ALL’INTERNO DELLE ISTITUZIONI E ALTRE ESPRESSIONI CHE NASCONO INVECE DA SITUAZIONI DI DEGRADO, DAL BASSO
«Ci sono periferie in tutta Milano. E l’isola di periferia è nel cuore stesso della città». Questo, secondo Stefano Boeri, è il tratto distintivo della “sua” Milano. Il tratto che la differenzia da altre grandi metropoli europee, come Parigi. Ma in quanto metropoli internazionale, la città deve imparare a pensare al suo sviluppo urbanistico, in vista soprattutto dell’appuntamento più importante, quello dell’Expo 2015. Milano è una delle città italiane in cui più forte si è avvertita per tanti anni la contrapposizione tra centro e periferia. Come è destinato a evolversi, nei prossimi anni, questo rapporto? «È come se Milano avesse materializzato la storia, con anelli successivi di città raccontano epoche diverse: il primo centro è quello della città romana, poi c’è quella medievale, rinascimentale, la grande città dell’800, quella dei bastioni, e infine la periferia moderna. Ma al di là di questo, la periferia di Milano ha una struttura ad arcipelago. Non è una fascia ad anello posta ad uguale distanza dal centro, come avviene in molte altre città europee, sul modello di Parigi. Ci sono zone periferiche anche molto vicine al centro, così come zone residenziali e ricche anche in aree di bordo della città. Le periferie oggi non sono più solo le costruzioni del secolo scorso, ma anche costruzioni storiche lasciate in condizioni di degrado. Penso ad esempio a quelle zone dove arrivano i grandi assi della viabilità milanese, come piazza Medaglie d’oro, ma anche piazzale Loreto: zone “periferiche” per il traffico, l’inquinamento, il basso valore delle case». La periferia non è più solo un luogo geografico? «La periferia non è più solo una condizione di degrado legata al basso costo delle case. Pensiamo al centro uffici terziario di Milano, da piazza Cairoli a piazza Scala, da piazza Duomo a piazza Diaz: quella zona, di altissima concentrazione di uffici, dopo le sei di sera si spegne completamente. Questo genera una situazione di perifericità in una zona che vive solo dei flussi degli user che arrivano dal cinema, senza manutenzione né cura e a rischio sicurezza. È quindi una periferia a tempo, che si accende dopo le sei di sera, e che sta nel centro esatto della città». In molti contesti urbani, le spinte creative sembrano provenire più “dalla periferia dell’impero” che dai suoi vari “centri”. È così anche a Milano?
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In apertura l’architetto Mario Botta. In alto a sinistra la sede della Campari a Sesto San Giovanni. A destra, in alto Santo Volto
«La creatività è un fenomeno che non può essere pianificato, né in qualche modo previsto. Ci sono dimensioni di creatività che nascono all’interno delle istituzioni, senza nulla di “spontaneo”. E altre espressioni che nascono invece da situazioni di degrado, dal basso. Non esiste una legge unica. La cosa importante è che ci sia una politica che sia in grado di cogliere, intercettare e supportare i movimenti creativi quando questi si sviluppano all’interno dei diversi ambiti della città». Questa politica a Milano esiste? «Non abbastanza. Bisognerebbe lavorare di più. Spero che con l’Expo si possa lavorare in questa direzione e mi sembra che qualcosa si stia facendo». Crede che l’Expo riuscirà a fare da apripista per una nuova stagione dell’architettura italiana? «Me lo auguro. Anzi, credo che questo dovrebbe essere uno dei suoi obiettivi. Ci sarà la possibilità che Milano diventi, dal punto di vista culturale, l’epicentro di un pensiero nuovo sul futuro del mondo, legato ai temi della fame, della distribuzione dell’acqua, della sostenibilità. L’Expo sarà l’occasione per lanciare a Milano
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una politica per il rinnovo del sistema legato alla produzione di energia da fonti rinnovabili. E spero che porti una grande rivoluzione nel modo di rapportarsi al territorio agricolo circostante. Ci sono molte sfide che l’evento condensa. E sinceramente l’architettura è una delle tante cose che saranno avvantaggiate dall’evento, forse tra le più importanti». Qual è l’atteggiamento giusto per essere ricettivi a questa opportunità? «Sicuramente valorizzare i progetti che la città sta già portando avanti in ambito di cooperazione internazionale. Il secondo aspetto è riuscire a ospitare quei delegati internazionali che saranno a Milano nel 2015. Il terzo è valorizzare anche il mondo che già vive in città. Milano è una città cosmopolita, multietnica, e questo non rappresenta un limite, ma una grande risorsa che la città deve imparare a utilizzare. In sintesi, sono tre le cose da fare: primo, scoprire e raccontare le “Milano” che sono già nel mondo; secondo, ospitare il mondo che arriverà sul territorio e terzo valorizzare il mondo che è già qui presente».
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>cambiar e le periferie per ridar e ai quar tieri un’osmosi salvifica Immaginare Napoli significa pensare al Vesuvio e al mare. Il dramma è che dentro questa cornice meravigliosa c’è un Bronx troppo grande, reale come il vulcano e il golfo. Cosa fare? Innanzi tutto passare da un’urbanistica parlata a un’urbanistica praticata. Le opinioni, i consigli, ma soprattutto le speranze di Benedetto Gravagnuolo di Lara Mariani
Una città affascinante. Non solo dal punto di vista naturale, con il Vesuvio sullo sfondo e il mare all’orizzonte. Ma anche storicamente, grazie alla sue anime multiformi, alle forti, fortissime identità che solo lei sa esprimere. Basti pensare ai Quartieri spagnoli, al borgo marinaro o ai quartieri “borghesi” come Chiaia e Posillipo e alla gente che li abita, ai fenomeni di appartenenza che qui si esprimono non solo con il linguaggio e
il dialetto, ma attraverso veri e propri stili di vita. Sono tutti quartieri che hanno una genesi storica e una conformazione urbanistica estremamente riconoscibile e identificabile. Una grande ricchezza. A cui però si contrappongono, evidentemente e inesorabilmente, enormi problemi. Pare quasi inutile citare Scampia e le altre famose e malfamate periferie. Un quadro affascinante, ma anche allarmante, quello dipinto dal professor Bene-
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detto Gravagnuolo. Un quadro scolpito con colori forti, non rassicuranti, ma con impresso tutto il sentimento di chi vorrebbe vedere la sua città diversa. Di chi vorrebbe lasciare alle generazioni future una città migliore di quella da lui vissuta. Uno dei caratteri più affascinanti di Napoli, dal punto di vista urbanistico, è l’estrema variabilità dei quartieri. Quali problemi comporta questa “anima eclettica”, da un punto di vista urbanistico? «Napoli rappresenta in modo emblematico l’idea di collage city che pur avendo la sua unità presenta forti identità di quartiere. Questo aspetto è di per sé positivo. Il problema più grande riguarda le periferie, quelle parti urbane che hanno avuto uno sviluppo soprattutto nella seconda metà del 900 e che sono state emarginate dalla città storica da barriere invisibili, ma reali. Penso a Scampia, alla non comunicazione rapida con il centro storico. Problema che poi riguarda tutte le periferie industriali come l’area dell’ex Italsider, ora Bagnoli». Di cosa soffrono esattamente queste zone? «Sicuramente dell’assenza di quel mix sociale che invece
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caratterizzava il centro storico. Queste zone sono monofunzionali, qui è stata deportata una sola classe sociale e ciò ha comportato conseguenze drammatiche. Oggi è più che mai urgente aumentare l’osmosi tra i quartieri e far sì che ci siano scambi sempre più veloci con il centro storico». Quali quartieri hanno maggiormente bisogno di un’azione decisa di intervento urbanistico? «Io darei la priorità assoluta alla periferia nord, non tanto per una questione tecnica ma per una questione etica. Questa zona soffre di un’indecente condizione di inabitabilità, dovuta all’applicazione di una logica sbagliata di urbanistica funzionalistica. Questa parte della città è stata disegnata in termini addizionali, sommando case, parchi, autostrade e scuole, ma senza che le venisse data una reale forma urbana. Scampia e tutta l’area nord sono un mostro generato non dall’abusivismo o dallo spontaneismo, ma da una pianificazione sbagliata. Questa urbanistica aberrante richiede interventi urgenti, di ridisegno complessivo della forma urbana. Dopo la periferia nord sono le altre due periferie, quella industriale
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A sinistra, Piazza del Plebiscito; a destra, il professor Benedetto Gravagnuolo
SCAMPIA E TUTTA L’AREA NORD SONO UN MOSTRO GENERATO NON DALL’ABUSIVISMO O DALLO SPONTANEISMO, MA DA UNA PIANIFICAZIONE SBAGLIATA QUESTA URBANISTICA URBANA. QUESTA URBAANISTICA ABERRANTE RICHIEDE PIANIFICAZIONI URGENTI est e quella ad ovest che richiedono una verifica di praticabilità delle intenzioni del comune. Ad esempio a Bagnoli è stato promesso un parco, ma questa ipotesi mi sembra lontana dall’essere realizzabile. Comunque al di là delle priorità riscontrabili, gli interventi in tutte e tre le periferie sono urgenti». Per il centro storico cosa propone? «Il centro storico ha delle sacche di marginalità che possiamo paragonare alla periferia, penso ad esempio ai Quartieri spagnoli, a Forcella e Sanità che sono zone degradate del centro in attesa di riqualificazione. Bisognerebbe partire dalla Cittadella degli studi, dalle cinque università di livello internazionale che non hanno case per studenti e dispongono di pochi laboratori, mentre sparsi per il centro storico vi sono monumenti usati male o addirittura abbandonati. Serve una strategia che punti sull’università, sui teatri, sulla messa in rete della cultura come elemento trainante per migliorare tutto il contesto. Promuovendo una politica mirata di interventi, non solo si mette in moto l’economia, ma si determina un risanamento del malessere sociale che è la diretta conseguenza del degrado». Quali soggetti dovrebbero intervenire? «Serve una grande capacità di governance, una grande regia pubblica che metta in moto una pluralità di soggetti, anche privati, con idee molto chiare che possano essere
subito praticabili. Il dramma di Napoli è che finora abbiamo assistito a un’urbanistica parlata ma non praticata, siamo molto lontani da un inizio di una vera operatività». Però per un periodo la città sembrava aver vissuto una sorta di rinascimento urbanistico. Penso ad esempio al restyling della metropolitana. Che fine ha fatto questa tendenza? «Questa tendenza c’è stata realmente ed è tangibile il cambiamento profondo che ha portato la metropolitana a tutti gli abitanti che vivono la città. La metro, al di là delle splendide opere d’arte, ha accorciato la distanza tra centro e periferia e ha reso la città più vivibile. C’è stato progresso. Ma questa è stata l’unica operazione strutturale, di seguito è mancato tutto il resto: il parco Bagnoli, l’intervento nel centro antico, nella periferia nord. Si è fatta solo la metro, condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza contare che poi l’emergenza rifiuti ha cancellato tutto ciò che si era fatto di buono fino a quel momento a livello di immagine». Quale immagine della città vorrebbe invece lasciare alle generazioni future? «Vorrei che fosse preservato rigorosamente il paesaggio e il centro storico e vorrei che fosse cambiata radicalmente la periferia. Non toglierei più neanche un metro cubo ai terreni agricoli, semplicemente costruirei sul costruito».
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di Alberta De Pisis
Riconosciuto dall'Unesco «patrimonio culturale di valore universale eccezionale» il centro storico di Napoli attende una nuova veste. La grandiosità e lo splendore dei suoi palazzi non trovano, infatti, riscontro nel loro stato di conservazione. «Bisogna puntare a restituirgli la dignità che gli spetta» sottolinea l’architetto Paolo Fucito. E garantire ai proprietari procedure rapide e responsi esaustivi
>il centr o dell’at t enzione
DIBATTITI Paolo Fucito
Il centro di Napoli raccoglie e concentra venti secoli di storia che hanno segnato la conformazione urbanistica e il ruolo storico della città nel panorama nazionale ed europeo. Oggi, lasciatosi alle spalle l’incubo del degrado più esasperato, attende impaziente di ritornare al suo meritato splendore. Esistono, di fatti, numerosi edifici che, pur essendo di grande pregio dal punto di vista sia architettonico che artistico, necessiterebbero di una consistente quanto salvifica opera di manutenzione. E non semplicemente in termini puramente architettonici, ma anche nell’ottica di una diversa ridistribuzione interna. «Bisogna capire quanto sia importante valorizzare questo patrimonio – afferma l’architetto Paolo Fucito – in modo tale da salvaguardare gli aspetti monumentali degli edifici e, al contempo, portare sul mercato delle unità più facilmente commerciabili». Da questo punto di vista, il centro storico partenopeo gode di potenzialità molto vaste che meritano di essere sfruttate totalmente. Tanti
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Accanto, l’architetto Paolo Fucito. Alla sua sinistra, un’immagine di un intervento di prossima realizzazione. Sopra, un intervento realizzato nel centro di Napoli pafuci@tin.it
gli imprenditori che possiedono edifici da valorizzare o che si apprestano ad acquistarne uno da piccoli proprietari. «In questo contesto – continua l’architetto Fucito – è fondamentale riuscire a dare risposte che, in un tempo relativamente breve, possano portare alla completa ristrutturazione dello stabile in modo da avviare poi le procedure di dismissione delle singole unità». E qui entra poi in gioco l’abilità dell’architetto. «Nella capacità di interpretare le normative edilizie e urbanistiche in modo tale da non trovare ostacoli durante l’esecuzione dei lavori». Le norme urbanistiche nella città di Napoli sono, infatti, abbastanza rigide. Per cui diventa fondamentale «essere in grado di comprenderle e utilizzarle al meglio per l’intervento edilizio da proporre, in modo da realizzare unità immobiliari conformi alle norme urbanistiche/edilizie vigenti, ma di alta qualità e a costi contenuti, garantendo, così, il successo dell’operazione e restituendo splendore agli edifici ».
>la nuov a cultur a del pr o gettar e Un’architettura sostenibile. Non estranea al contesto sociale in cui viene a collocarsi. Attenta a mantenere il legame tra gli uomini e i luoghi. L’architettura del presente, e perché no, del futuro secondo Mario Cucinella di Francesca Druidi
L’antropologo Marc Augé li definiva “nonluoghi”. Spazi nei quali non è possibile leggere o individuare alcuna relazione sociale, passato condiviso, pulsione identitaria o simbolo collettivo. Per Mario Cucinella, architetto che ha fatto della qualità progettuale, della sostenibilità ambientale e dell’attenzione all’impatto sociale la propria cifra stilistica distintiva, «lo spazio pubblico oggi tende a essere dato per scontato. In realtà, i luoghi che ne costituiscono l’essenza risultano fondamentali per la socialità della popolazione». Non deve stupire, quindi, che l’esigenza di luoghi dove i cittadini possono incontrarsi e comunicare, sia avvertita anche in una città come L’Aquila,
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ferita profondamente dal terremoto. «È una necessità che sta emergendo in modo chiaro, al di là del soddisfacimento dei bisogni primari e della risoluzione dell’emergenza casa. Ed è, in generale, un filone centrale di studi e ricerche sul quale attualmente gli architetti sono impegnati». Perché «la negligenza in merito alla qualità dello spazio pubblico diventa responsabile della produzione di disgregazione sociale». Quali sono i nuovi canoni di lettura della bellezza nell’architettura contemporanea? «Il concetto di bellezza evolve nel tempo. Per quanto riguarda l’architettura, stiamo finalmente entrando in
L’ESSENZA DELLO SPAZIO
Sopra, render dell’edificio terziario-produttivo Santander di Milano progettato da MC Architects. A fianco, l’architetto Mario Cucinella, fondatore di Mario Cucinella Architects
un’epoca in cui la bellezza sembra associarsi all’appartenenza a un luogo, alla capacità degli edifici di essere riconosciuti e riconoscibili dai cittadini. Si apre uno scenario più vicino all’esigenza di interpretare i luoghi piuttosto che al posizionamento di edifici senza la comprensione di quel che accade intorno. Forse negli ultimi anni, in virtù di una spinta di natura più tecnologica, si è creduto che il prodotto industriale fosse un fattore di per sé sufficiente. Si tratta però di elementi che hanno generato estraneità, portando le persone a non identificarsi più in ciò che li circonda. Questo si traduce in un disturbo che emerge in modo evidente in tutte le città. In questi casi sembra che l’architettura
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Daniele Domenicali Daniele Domenicali
Nelle foto, render relativi al progetto della sede unica del Comune di Bologna di MC Architects. Il nuovo edificio è situato dietro la stazione ferroviaria centrale, presso il quartiere Bolognina, dove prima sorgeva un mercato ortofrutticolo all’ingrosso. Il progetto è inteso a riqualificare l’area e ricongiungerla al centro città
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venga da un tempo che non è quello che vivono gli uomini. Da qui, la crescita di una sorta di diffidenza nei confronti dell’architettura contemporanea». Oggi si avverte però un mutamento di visione. «Sì, il concetto di bellezza è maggiormente legato alla cultura. E nel momento in cui l’architettura diventa più colta, vuol dire che ha compreso i luoghi e le relazioni che sussistono dentro le città, le reti e i legami forti che intercorrono tra gli uomini, le piazze e le strade. Un nuovo edificio dovrebbe saper interpretare questo fenomeno, esprimendo un atteggiamento empatico, un’empatia creativa. Non si può sempre essere solamente dirompenti. O estranei». Quali sono le forme e i materiali che possono oggi assicurare in maniera adeguata l’equilibrio tra esigenze estetiche ed esigenze funzionali, qualità dell’abitare e vincoli economici? «Non credo ci sia di fatto un materiale che possa a priori essere definito migliore di un altro. Dipende in larga parte dalle modalità con cui viene utilizzato. Nell’ambiente domestico oggi si assiste al recupero di una serie di materiali che provengono dall’antica tradizione costruttiva, come gli
L’ESSENZA DELLO SPAZIO
intonaci a calce e i materiali dotati di inerzia termica, quali i mattoni. Non c’è in definitiva una ricetta magica per stabilire in assoluto cosa ci fa abitare sani, un fondamentale punto di partenza è certamente rappresentato dal buon uso della materia». Qual è oggi l’impatto della sostenibilità in architettura? «Anche il tema della sostenibilità non è nuovo, è un’istanza che l’architettura sta riprendendo. Rispetto a un decennio fa, in cui si credeva nella tecnologia dell’artificio, declinata in elementi come aria condizionata e illuminazione artificiale, si avverte oggi una maggiore consapevolezza su questi aspetti, soprattutto da parte di chi compra casa. La più significativa novità consiste nel fatto che gli attori del cambiamento sono proprio gli uomini con le loro azioni. Non siamo ancora maturi, ma ci stiamo avvicinando. Gli aspetti normativi stanno imponendo un’attenzione ai consumi energetici che prima mancava. Bisognerebbe però spingere di più su questi punti, creando forme di obbligatorietà sulle certificazioni degli immobili. Alcuni parametri sono entrati nelle modalità di lavoro, ma non ancora in maniera decisiva». In che modo si può intervenire, anche sul fronte della ristrutturazione, sugli spazi pubblici, case, strade, piazze,per migliorare il tessuto urbano che ci circonda? «È, innanzitutto, fondamentale cogliere i temi di natura energetica come un’opportunità creativa. Affrontare la questione della riduzione dei consumi energetici dovrebbe, infatti, portarci a considerare non solo gli aspetti meramente tecnici. L’urbanistica di domani deve a mio avviso prendersi cura della città. Lo studio dello spazio pubblico nelle zone periferiche urbane, solitamente tenuto in secondo piano, merita di essere posto al centro degli sviluppi urbanistici. Lo spazio pubblico oggi tende a essere dato per scontato. In realtà, i luoghi che ne costituiscono l’essenza risultano fondamentali per la socialità della popolazione. Del resto, la negligenza in merito alla qualità dello spazio pubblico diventa responsabile della produzione di disgregazione sociale». Ci sono, guardando all’estero, esempi che il nostro Paese dovrebbe mutuare? «Se si prendono in considerazione esempi molto recenti, emerge come laddove vi sia la volontà, possono essere realizzati progetti considerati impossibili. Ad esempio, la pedonalizzazione di Times Square. Sembrerebbe impensabile che nel cuore di New York, una delle metropoli più densamente popolate e trafficate del mondo, nasca da parte del sindaco l’idea di dare vita a uno spazio pubblico
Nella foto, render del progetto relativo al Santander, primo edificio a emissione Zero di CO2 che ospiterà 12.000 mq di uffici
senza automobili. Ha probabilmente avvertito una domanda crescente da parte delle persone di vivere in maniera diversa la città, senza muoversi nella “scatoletta” dell’automobile. In Italia, purtroppo, si fa ancora fatica a comprendere questo tipo di esigenza». Cosa non vorrebbe mai vedere dal punto di vista architettonico o progettuale in una città italiana? «Si costruiscono pochi edifici di qualità e si registra molta diffidenza nei confronti dell’architettura. Oggi molte città italiane, come ad esempio Bologna, mancano di qualità urbana, la stessa di cui per secoli sono state espressione. Servirebbero nuovi edifici capaci di riprendere questa grande tradizione di qualità della città. Le difficoltà che Bologna e le altre città rivelano oggi di fronte all’architettura contemporanea rappresentano un segnale negativo, perché l’architettura è prima di tutto espressione di cultura e, se portata avanti con le dovute cautele, è un mezzo per esprimere la contemporaneità, la politica, i desideri sociali, le ambizioni. Si riscontra timidezza, una sorta di timore ad affrontare questo tema di cui invece c’è molto bisogno».
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A destra Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine degli architetti di Roma. In alto, BedZED, distretto ecosostenibile nella periferia londinese
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>sostenibilità l’etica del futuro L’architettura per sua natura deve essere necessariamente sostenibile, osserva Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine degli architetti romani. Introdurre il tema della sostenibilità arricchisce ogni fase progettuale di Adele Bianchini
Fattore centrale della nascita del processo compositivo, la sostenibilità, per Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine degli architetti pianificatori paesaggisti di Roma e provincia, «è in via prioritaria un’esigenza etica e rappresenta un valore permanente nella storia dell’umanità. L’equilibrio viene interrotto con l’avvento dei sistemi di produzione di massa». In Italia, il problema, nell’ambito dell’edilizia, diventa avvertibile nel Dopoguerra con la ricostruzione post bellica e la nascita delle grandi periferie urbane. «Siamo di fronte al segno tangibile della prevalenza dei valori economici su quelli sociali e umani», spiega Schiattarella. La sostenibilità è un modus operandi, ma anche di
pensiero, importato in toto oppure già presente, sebbene in nuce, tra i nostri professionisti? «La sostenibilità è un sentimento di appartenenza ai valori dell’uomo e della natura. La formazione degli architetti italiani si fonda su una concezione di carattere culturale che non ha solo la dimensione tecnico-disciplinare, ma si collega strettamente con la storia del pensiero umano. Questa matrice determina un atteggiamento di particolare attenzione ai temi degli interessi generali della comunità. Non è un caso che, nella tradizione italiana, il valore identitario dei nostri professionisti è fondato su un’attività posta al servizio della comunità. Queste considerazioni mi spingono a sostenere che tra gli architetti italiani esistono già tutte
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le condizioni culturali, morali e metodologiche per nuove forme di sviluppo consapevole». Questa “forma” di architettura rende più complessa la fase progettuale? E soprattutto quanto ha cambiato il vostro modo di concepire e costruire gli edifici? «L’introduzione del tema della sostenibilità arricchisce certamente il quadro degli spunti critici da cui desumere il materiale utile a compiere le scelte progettuali. Questo rappresenta uno straordinario potenziale per migliorare la qualità della nostra architettura. In realtà sino a oggi non abbiamo assistito a una vera rivoluzione della disciplina quanto, piuttosto, come accade in tutte le fasi iniziali e non mature di un fenomeno, a un affiancamento dei nuovi concetti a quelli esistenti, senza che questo abbia generato una nuova sintesi». La sostenibilità architettonica può essere considerata un capitolo importante della visione globale del concetto di sviluppo? «La sostenibilità architettonica rappresenta un modo necessario di riconsiderazione globale del concetto di sviluppo e la riscoperta che esiste un limite invalicabile costituito dalla dimensione non infinita del mondo e delle sue risorse». A prima vista i criteri della bioedilizia sembrano an-
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cora appannaggio esclusivo di una parte minoritaria degli architetti, quelli ambientalisti. Per una loro maggiore diffusione, non sarebbe auspicabile un superamento di questa distinzione un po’ elitaria? «La nascita di una elite di architetti specializzati nei temi della sostenibilità rappresenta un fenomeno di carattere transitorio perché l’architettura stessa per sua natura deve essere necessariamente sostenibile. Questa sostenibilità deve realizzarsi non solo sul piano delle applicazioni tecnologiche ma anche nella definizione dimensionale e formale dell’architettura; ciò implica che questo tema rappresenta un principio fondante della stessa disciplina progettuale dei prossimi anni». Su questo fronte l’Italia appare arretrata. Soprattutto se si guarda allo sviluppo che la dimensione sostenibile ha acquisito nel resto d’Europa. Come colmare questo deficit? E ancora prima: quali le cause? «In realtà sino ad ora, tranne in rari casi, in Europa e nel mondo abbiamo assistito a un’evoluzione della tecnologia posta a sostegno della progettazione sostenibile, ma non è ancora avvenuto quel processo di metabolizzazione dei valori della compatibilità che rendano possibile la nascita di un nuovo linguaggio architettonico. In Italia, siamo in ritardo nei settori
PROGETTARE SOSTENIBILE
In queste pagine, un’installazione dell’architetto Iosa Ghini. L’installazione esemplifica una porzione di architettura con una soluzione di facciata in funzione dell’esposizione solare e consiste in una parete coibente modulare composta da elementi in ecocemento cavi addizionati di substrato, che accolgono una folta e scenografica vegetazione
LA SOSTENIBILITÀ È UN PASSO NECESSARIO NELLA CRESCITA COMPLESSIVA DELLA CULTURA ARCHITETTONICA ITALIANA: NON VEDO FUTURO IN UNA PROGETTAZIONE CHE NON SI MISURI CON QUESTI TEMI
dell’evoluzione delle conquiste scientifiche, ma sta nascendo una consapevolezza forse più matura, fondata su una dimensione culturale ed etica, che può essere in grado di portarci a nuove sintesi. Per raggiungere questo obiettivo sarà strategico il ruolo svolto dalle università nella fase formativa». Il ricorso a materiali a impatto zero per le costruzioni o ristrutturazioni di edifici è causa di un lievitare dei costi? È facile reperire questi materiali sul mercato? «Oggi siamo ancora in una fase iniziale di un processo di trasformazione che ha bisogno di un’evoluzione parallela del mercato e delle sue richieste, delle capacità produttive e dell’adeguamento del sistema della distribuzione. In questo momento l’attività riguarda un settore economico contenuto ed è difficile ipotizzare una riduzione dei costi di produzione e di quelli al consumo, ma se come ritengo, assisteremo a una riconversione del mercato, è possibile ipotizzare un’incidenza nettamente inferiore del fattore economico». Passiamo alla dimensione legislativa, le nostre norme sono all’avanguardia? «La legislazione risente anch’essa della condizione ancora iniziale dello stato di evoluzione della cultura della sostenibilità e agisce per regolamentare la fase di
transizione da un modo di produrre progettazione a un altro, attraverso obblighi normativi, come la certificazione energetica degli edifici, o mediante l’utilizzo di incentivi economici per favorire la riconversione». Nel Lazio, e in particolare a Roma, l’architettura ecocompatibile ha spazio? «Nel Lazio siamo partiti in ritardo rispetto alle altre regioni per quanto riguarda la certificazione energetica degli edifici, ma esiste un alto livello di consapevolezza politica che sembra indicare la strada che s’intende percorrere nei prossimi anni. Oramai molte delle opere pubbliche in via di realizzazione prevedono dotazioni tecniche che corrispondano alle esigenze di risparmio energetico e di sostenibilità. In qualche caso sono stati effettuati concorsi di architettura in direzione della sostenibilità ambientale». Quale il futuro dell’architettura sostenibile in Italia? «Direi che si tratta di un passo necessario nella crescita complessiva della cultura architettonica italiana: non vedo futuro in una progettazione che non si misuri con questi temi, anzi ritengo che proprio l’attenzione che rivolgeremo a questo settore ci riserverà straordinarie sorprese anche in termini di evoluzione del linguaggio architettonico e delle forme di produzione dell’edilizia».
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STENIBILE
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Dall’Italia alla Cina, «ogni progetto ha una sua legge-verità individuale che va cercata con pazienza, individuata con chiarezza e seguita con fedeltà». L’esperienza di Joseph di Pasquale, vincitore del Concorso Internazionale di idee per l’Eco Town di Jingwu a Tianjin di Adriana Zuccaro
>fuo ri da gli antiluo ghi
Concezioni stantie, tradizioni tout court. Evoluzioni culturali, cambiamenti materici. Il tempo è divenuto sinonimo di stratificazioni quanto di vere e proprie metamorfosi. Ciononostante dall’età della pietra fino allo shuttle, tutti i progressi umani si sono diffusi grazie all’imitazione di modelli sociali, di tecnologie e di canoni estetici ritenuti migliori. «La globalizzazione infatti, intesa come unificazione dei modelli culturali di riferimento, non è un fenomeno contemporaneo ma un dato ineluttabile, connaturato all’idea stessa di civiliz-
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In alto, masterplan della nuova Eco Town di Jingwu, a Tianjin, presentato al Concorso Internazionale di idee vinto dall’architetto Joseph di Pasquale (in foto) della AM Progetti di Milano. A destra, in alto: Diamond Mansion Landmark building; in basso: Torre Hanzì. www.amprogetti.it
PROGETTARE SOSTENIBILE
zazione umana». Il pensiero dell’architetto Joseph di Pasquale torna a riflettersi in ogni suo processo creativo attraverso acute armonie e sintassi formali, contestualizzando l’oggetto di progettazione alle mete destinatarie e, divincolando l’atto ideativo dalla contemporanea idea di “tempo reale”, definito dallo stesso «un grande bluff», incongruo e fuorviante. «Fuori dalla logica del tempo reale, ogni progettista deve ascoltare l’armonia del luogo in cui interviene e da questa prendere spunto per comporre la sua mu-
sica architettonica». È su questo principio base che, fuori dagli “antiluoghi” in cui gli spazi pubblici sono stati identificati, intenzionalmente proiettato alla “ricostruzione” di un’identità urbana autentica ed ecologicamente densa, l’architetto di Pasquale dell’AM Progetti di Milano, è giunto a concepire il masterplan della nuova Eco Town di Jingwu, a Tianjin, in Cina e a vincere il Concorso Internazione di idee indetto a proposito. «Oggi, per la prima volta nella storia dell’uomo, si ha la sensazione che lo spazio sulla terra non sia in-
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L’UNICITÀ DI UN PROGETTO PER OGNI LUOGO Ogni percorso progettuale della AM di Milano, sviscera il sostrato concettuale dell’architettura moderna per riproporlo con stili contestualizzati all’ambiente d’intervento. Così, ad esempio, il Palamonti climbing arena di Bergamo, in assenza di strutture murarie sviluppate in altezza e con un parziale interramento del volume della palestra di roccia, si presenta con minore invadenza volumetrica e con un maggiore ancoramento alle linee orizzontali del terreno. L'immagine globale della Scuola materna di Boltiere è costituita dai volumi vetrati del giardino d'inverno, che funge da cortile gioco coperto, e dalla copertura obliqua delle aule che emergono dal piedistallo in mattoni. La forma elicoidale di Leonardo è stata il punto di partenza per generare la pianta del nuovo Minitalia Parks & Village sull’autostrada A4. Dalla zona d'ingresso al parco, l’elica si snoda man mano e risale dal livello del suolo, creando una serie di nuove superfici che vanno a coprire gli edifici esistenti. Nella nuova sede Polini Motori, il volume cilindrico del reparto corse, rivestito con pannelli in alluminio arrotondati, è il principale elemento architettonico dell’edificio e nella sua immagine tecnologica ricorda le attività di ricerca sviluppate all’interno. Il complesso include anche spazi produttivi e uffici
In alto, a sinistra, il Palamonti climbing arena, Bergamo, 2003. A destra, Scuola materna, Boltiere (BG), 1997; segue, in basso, Minitalia Parks & Village, Capriate San Gervasio (BG), 2007. In basso, Polini, Fabbrica di Motori, Alzano Lombardo (BG), 2006
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finito: occorre preservarlo, risparmiarlo e utilizzarlo compatibilmente con una popolazione che tra cento anni conterà probabilmente 15 o 20 miliardi di persone – osserva di Pasquale –. Se da un lato questo processo di densificazione può apparire mostruoso, pensiamo allo scenario ben più tragico se si applicasse a scala planetaria l’ideale di villetta unifamiliare: significherebbe non avere più boschi né prati vicini alle città». A detta dell’architetto di Pasquale, la densità quindi, analizzata dal punto di vista del pianeta, è conveniente ed ecologica. «Il tema è quindi progettare l’eco-densità anche a livello microurbanistico, risolvere i problemi a essa legati, come il traffico e la circolazione, applicando la tecnologia disponibile e progettando le nuove possibili spazialità collettive che la densità offre» in ogni luogo, in ogni Paese. In Italia, ad esempio, «occorre pianificare una profonda riforma urbanistica che sia focalizzata sul recupero urbanistico delle periferie, bloccando il consumo di nuovo territorio e riempiendo gli enormi spazi vuoti, disumani e senza identità delle periferie». Malgrado non esistano “ricette” universali valide per tutti i progetti, l’architetto di Pasquale ne segue sempre una per cui «ogni progetto ha una sua legge-verità individuale che va cercata con pazienza, individuata con chiarezza e seguita con fedeltà. Tutto il resto viene di conseguenza».
>il calor e dal le gno Accoglienza. Calore. Ed estetica. Sono le caratteristiche degli infissi in legno che, oltre ad adeguarsi alle diverse architetture, garantiscono una riduzione dei consumi energetici grazie agli alti valori di trasmittanza termica. L’esempio di Tip Top Fenster di Luisa Garavaglia
L’alta qualità è in grado di superare anche questa crisi economica. Ne è convinto Andreas Rieder di Tip Top Fenster, azienda altoatesina che ha puntato fin dall’inizio su un segmento alto del mercato. Per mettersi al riparo dal calo della domanda. Il primo nucleo dell’azienda era il fienile della casa del
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fondatore, Augustin Rieder. Vero e proprio esempio di laboratorio artigianale in cui venivano affinate le tecniche per la produzione in legno. Da allora sono passati più di trentacinque anni e l’azienda di Rio di Pusteria non ha mai smesso di investire in ricerca e sviluppo per produrre finestre in legno di qualità. «All’interno dell’azienda – spiega Rieder – abbiamo due persone che si occupano in maniera specifica di ricerca e sviluppo. L’obiettivo principale è quello di raffinare il nostro prodotto. Il punto di riferimento sono essenzialmente i criteri indicati dall’Agenzia CasaClima». Ma quali sono i vantaggi di una finestra o di una porta in legno? Innanzitutto, un buon valore Uw (trasmittanza termica) ovvero il flusso di calore che passa per metro quadrato di superficie attraverso una struttura che delimita due ambienti a temperatura diversa. E poi, chiarisce Rieder, «l’estetica del legno dà una sen-
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In queste pagine, finestre Tip Top montate su diversi tipi di abitazioni. Le finestre in legno garantiscono un elevato valore Uw. www.tip-topfenster.com
sazione di accoglienza e di calore». Da non dimenticare, poi, che gli infissi in legno si possono adeguare a ogni stile di architettura e di costruzione. Il primo obiettivo a cui puntare è, quindi, quello del risparmio energetico che in Trentino Alto Adige è perseguito già da diversi anni grazie alla costituzione dell’Agenzia CasaClima, i cui criteri prevedono non solo una finestra con ottimi valori di trasmittanza termica, ma anche una maggiore attenzione al montaggio per migliorare ulteriormente la capacità di trattenere calore degli infissi. Ma è possibile quantificare il risparmio che si ottiene scegliendo finestre a basso consumo energetico? «Se tutta la costruzione rispetta i criteri del basso consumo – spiega Andreas Rieder – i costi possono essere abbassati anche di 2/3. Solo con le finestre si possono ridurre di circa la metà». Oggi, oltre agli infissi e alle porte in legno, Tip Top
NELLA LAVORAZIONE DEL LEGNO L’OBIETTIVO PRINCIPALE È QUELLO DI RAFFINARE IL PRODOTTO FINALE. IL PUNTO DI RIFERIMENTO SONO ESSENZIALMENTE I CRITERI INDICATI DALL’AGENZIA CASACLIMA
produce anche finestre in alluminio, facciate in legno e alluminio, verande e giardini d’inverno. Una diversificazione della produzione che non ha però intaccato la filosofia che da sempre contraddistingue l’attività dell’azienda: un team giovane e competente in grado di produrre finestre di elevata qualità per tutti i tipi di case certificate CasaClima e adeguate alle diverse esigenze. «Con il nostro lavoro siamo in grado di dare un contributo serio al risparmio energetico» afferma Andreas Rieder.
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Via Senigallia - Studio Oda Associati, Arch. Remo Dorigati
>social housing la sperimentazione è di casa L’housing sociale, per Daniela Volpi, presidente degli architetti di Milano, si caratterizza per essere la risposta urbana volta alla permanenza (o al ritorno) in città di ceti sociali in difficoltà di Adele Fabretti
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In questa foto, l’edificio progettato da Guillermo Vàzquez Consuegra vincitore del premio europeo di architettura Ugo Rivolta nel 2007. Sotto, Daniela Volpi, presidente degli architetti della provincia di Milano
È un mix eterogeneo di esperienze abitative a cavallo tra intervento pubblico e spontaneismo “sociale”. Anche se ab origine per housing sociale «si intendono le residenze realizzate su iniziativa di operatori pubblici e privati, vincolate da regole di assegnazione e rivolte a una domanda di abitazione che non trova risposte nel libero mercato». Questa la partenza, osserva Daniela Volpi, presidente dell’Ordine degli architetti della provincia di Milano. Perché ben presto, «nella realtà, il social housing comprende molte e variegate forme dovute anche all’apertura delle frontiere interne, cosa che ha avuto sicuramente un’influenza anche sulle politiche della casa dei singoli paesi, anche se non di competenza europea». Negli ultimi anni si è sentita la necessità di promuovere una politica abitativa tesa alla realizzazione di nuove ti-
pologie abitative facilmente fruibili. È qui il fondamento dell’housing sociale? «Non solo, ma sicuramente l’housing sociale ha senso se si rinnova, riscoprendo le migliori tradizioni della casa popolare di inizio secolo e del Movimento moderno. In molti Paesi, purtroppo non ancora in Italia, l’housing sociale è anche un banco di prova di forme e tecniche nuove, costruttive e progettuali, che vanno poi ad alimentare l’edilizia residenziale in generale». Questo sistema può avere una doppia dimensione urbana ed extra urbana in territori con caratteri di forte sensibilità e criticità ambientale? «In Europa, l’housing sociale sembra caratterizzarsi oggi come risposta principalmente urbana, volta alla permanenza o al ritorno nella città consolidata di ceti sociali in
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In questa fotografia, Via Gallarate - Studio MBA (Marotta Basile Arquitectura)
difficoltà. Durante il secolo scorso, invece, si avviò la sperimentazione tra un possibile dialogo con le trame della città esistente e la creazione dei quartieri-satellite autosufficienti. Se la prima delle due strategie ha avuto il merito di integrare i nuovi quartieri nei processi di sviluppo urbano, salvandoli da una rapida obsolescenza, la politica del quartiere autosufficiente ha portato gli elementi della modernità nella costruzione della città per parti». Quali sono i fattori che determinano questo nuovo modo di “abitare” tenuto conto che sul tema dell’alloggio s’inserisce anche quello dei servizi? «All’interno degli edifici di housing sociale, si riscontrano sempre più nuovi spazi semi-privati che accolgono istanze di collettività elettiva e protetta. L’integrazione di funzioni ricreative, commerciali, sportive con la destinazione più propriamente abitativa della casa favorisce, infatti, la vitalità di quartieri altrimenti attivi solo come “dormitori”, con i conseguenti problemi di ghettizzazione e criminalità».
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Come si articolano gli elementi propri di questi edifici? «Nella sua storia, l’housing sociale è sempre stato un campo privilegiato di sperimentazione tipologica e costruttiva e tale continua a essere in molti Paesi europei. Il problema va affrontato sia a livello politico e programmatico sia a livello urbanistico. Con l’introduzione di nuovi modelli urbani e tipologie abitative che propongano organismi di nuova concezione, che siano espressione della complessità del mondo contemporaneo e della dinamicità della sua evoluzione». Per sua natura, i maggiori fruitori dell’edilizia residenziale sociale sono fasce sociali “deboli”, c’è il rischio ghettizzazione? «La mixitè sociale è da tempo un obiettivo primario di tutte le politiche di housing delle Nazioni europee, anche se con risultati diseguali nei diversi Paesi. Anche in questo caso rimanere ancorati alla città e alle sue infrastrutture (spazi pubblici e semi pubblici) è un’importante garanzia».
UGO RIVOLTA, SOCIAL HOUSING A CINQUE STELLE Istituito dall’Ordine degli architetti di Milano, il premio vuole diffondere la cultura dell’edilizia residenziale sociale Il premio europeo di architettura Ugo Rivolta è stato promosso dall’Ordine degli architetti di Milano, con l’obiettivo di diffondere la conoscenza dei migliori progetti di edilizia sociale realizzati recentemente in ambito europeo. Bandito nel giugno del 2007, ha avuto iscrizioni da una cinquantina di progetti provenienti da Italia, Austria, Spagna, Olanda, Portogallo, Francia, Svizzera e Bulgaria. La giuria, presieduta dal Carlo Melograni, docente di Progettazione architettonica, ha assegnato il riconoscimento al progetto dello spagnolo Guillermo Vàzquez Consuegra, per l’edificio sito a Rota, Cadice, in Spagna. La seconda edizione, nel 2009, rinnova l’impegno a candidarsi come riferimento internazionale per la ricerca e il dibattito sull’edilizia sociale, focalizzando l’attenzione verso la qualità complessiva dell’ambiente costruito e la sostenibilità del progetto architettonico. La giuria decide all’unanimità di proclamare vincitore il progetto di Kis Péter Épìtészmuterme, Pràter Street Social Housing in Ungheria.
Come si pone l’housing sociale in Italia rispetto agli altri paesi dell’Unione? «Scontiamo un lungo periodo d’inattività che ha prodotto un assottigliamento del patrimonio di alloggi. Ora sembrerebbe che la macchina si sia rimessa in moto, soprattutto attraverso nuove forme di partnership tra pubblico e privato». Qual è il futuro di queste residenze sociali? «Il mercato delle abitazioni è caratterizzato da forti tensioni e gravi squilibri ovunque. A livello europeo, si sta passando dalla definizione riduttiva di abitazione sociale a quella di abitazione decorosa e accessibile, inserendola tra i servizi di interesse generale. Risulta evidente l’esigenza di un’efficiente collaborazione tra il settore pubblico e quello pri-
vato, garantendo il necessario mix sociale e una buona qualità architettonica al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile di intere parti di città». Nel capoluogo lombardo vi sono esempi eccellenti di questa architettura? «Dopo un lungo periodo di stasi, da alcuni anni a Milano si sta ricominciando a costruire housing sociale. I primi quattro interventi di Abitare Milano 1 sono in consegna ed è cominciata la costruzione dei quattro di Abitare Milano 2. Si sono appena conclusi anche due concorsi promossi da Fondazione Housing sociale e sono in corso le procedure per la realizzazione di sei delle otto aree messe a disposizione in diritto di superficie dal Comune un anno fa. La qualità di tutti gli interventi sembra buona».
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>Br asilia, mezzo secolo di storia Quest’anno la capitale del Brasile realizzerà un grande evento per festeggiare i 50 anni dalla sua fondazione e rendere omaggio alle grandi personalità che la idearono. In tutta la città numerosi orologi scandiscono il conto alla rovescia per l’inizio dei festeggiamenti dell’atteso anniversario di Nicolò Mulas Marcello
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VIAGGI DI ARCHITETTURA
Nella foto, una veduta del Palacio do Planalto
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È una delle capitali più giovani del mondo ed è l’unica città costruita nel ventesimo secolo a essere considerata dal 1987 patrimonio storico e culturale dell’umanità dall’Unesco. Brasilia festeggia quest’anno i suoi primi cinquant’anni di vita sorprendendo per la sua singolare storia e per le sue peculiari caratteristiche urbane. Nel 1956 il presidente Juscelino Kubitschek ordinò la costruzione della città. Kubitschek pensava così di stimolare l’industria nazionale, integrando distanti aree del Paese e popolando regioni inospitali. Migliaia di lavoratori arri-
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varono dalle coste povere del nord-est del Brasile sull’altipiano desertico dello stato di Goiás nell’entroterra del Brasile, per dare vita alla nuova capitale. Doveva essere la città del futuro, perfetta sintesi dell’architettura contemporanea e il risultato di un ambizioso programma politico ed economico. Costruita a tavolino, la città di Brasilia si snoda su due assi che secondo l’idea di base s’intersecano formando una croce. Seguendo la conformazione del territorio, però, la pianta ha assunto la singolare forma di un aeroplano. Il piano urbanistico e lo sviluppo architetto-
VIAGGI DI ARCHITETTURA
A sinistra, una veduta aerea di Brasilia; qui sotto, l’ex presidente Juscelino Kubitschek e il progettista Lucio Costa, ideatore del piano urbanistico di Brasilia
STORICA L’IMMAGINE IN B/N CHE RITRAE KUBITSCHEK E COSTA NELL’AREA ANCORA DESERTICA NELL’ATTO DI INDICARE SULLA MAPPA I LUOGHI DOVE POCHI ANNI DOPO AVREBBE VISTO LA LUCE IL LORO SOGNO
nico sono concepiti sulle idee del rigoroso modernismo di Le Corbusier. Il suo principale pianificatore urbano fu Lucio Costa, coadiuvato dall’architetto Oscar Niemeyer, che ne progettò i principali edifici pubblici. Niemeyer e Costa costruirono una città per 500.000 abitanti con edifici supportati da colonne che permettano di condividere con la natura lo spazio libero, appartamenti uguali per impiegati e dirigenti con spazi verdi e servizi. Frutto di un preciso e dettagliato disegno urbano la capitale obbedisce a rigidi criteri logistici secondo i quali sono state stabilite le zone
dedicate ai centri residenziali, commerciali, bancari e ospedalieri. Tutto risponde a un modello razionalistico che però col tempo ha dovuto anche adattarsi alle esigenze di vivibilità. Le due ali si snodano per 7 chilometri ciascuna, mentre nella “fusoliera dell’aereo” sono situati i ministeri, i palazzi governativi, il Senato e la Camera dei deputati e una futuristica cattedrale. Progettare dal nulla tutti gli edifici di una città è il sogno di ogni architetto e Oscar Niemeyer realizzò questo sogno dedicandosi allo sviluppo di una capitale che, espri-
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mendo una monumentalità unica e distintiva, non poteva essere confusa con nessun’altra città al mondo. Per raggiungere questo scopo Niemeyer diede vita a straordinarie opere architettoniche dal palazzo Itamaraty a quello del congresso, dalla cattedrale alla scenografica piazza dei tre poteri dove risiede l’opera “I guerrieri” dello scultore Bruno Giorgi, diventata col tempo il simbolo di tutti gli operai che hanno costruito la città in pochi anni. La bizzarra Cattedrale di Brasilia svetta nella spianata dei ministeri con la sua forma a corona dal colore bianco mentre all’interno sono presenti imponenti vetrate e tre grandi angeli che pendono dal soffitto in mistica sospensione sopra le teste dei fedeli. L’anima di Brasilia è concentrata
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nel quartiere governativo di Exio Monumental. Il Palácio do Planalto è sede del governo federale; di fronte sorge invece il Supremo Tribunal Federal. In entrambe le strutture il colonnato inventa disegni curvilinei che dal tetto si stagliano come alabarde puntate verso le finestre. Il palazzo del Congresso Nacional, sede di Senato e Camera, è costituito da due curiosi edifici a forma di scodelle: la camera dei deputati rivolta verso l’alto e il Senato dalla forma capovolta. La residenza ufficiale del presidente della Repubblica è il Palácio da Alvorada, dove ancora una volta Niemeyer fa uso di un porticato dove le curve abbracciano tutta la struttura come tende. Il Palácio dos Arcos (Itamary) è sede del ministero degli Affari
In alto, uno scorcio del Museo Historico e, sullo sfondo, la Cattedrale; nelle foto piccole, ancora la Cattedrale e un particolare delle vetrate che ne costituiscono la volta
esteri, un imponente edificio caratterizzato da un portico a colonne che si specchia in un laghetto artificiale. Seppur disegnata in un’ottica figlia della ragione, Brasilia attraverso Niemeyer si affida non solo a freddi angoli retti ma sfrutta uno stile più elaborato che ricerca la sinuosità delle forme curvilinee. Lo stesso architetto carioca sostiene: «Sto deliberatamente ignorando la giusta angolazione dell’architettura razionalista disegnata con riga e squadra a favore dell’audace entrata in campo di curve e linee rette offerte dal cemento armato». Nelle sue opere Niemeyer ha sempre sperimentato nuovi concetti architettonici servendosi del cemento armato per creare strutture spettacolari e con lui il modernismo
STO DELIBERATAMENTE IGNORANDO LA GIUSTA ANGOLAZIONE DELL’ARCHITETTURA RAZIONALISTA DISEGNATA CON RIGA E SQUADRA A FAVORE DELL’AUDACE ENTRATA IN CAMPO DI CURVE E LINEE RETTE OFFERTE DAL CEMENTO ARMATO
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In alto, ancora il Museo Historico e, nella foto piccola, un particolare di Palacio Itamary
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ha assunto una connotazione ancora più specifica. «Non è l’angolo retto che mi attrae – prosegue Niemeyer – né la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che mi attrae è la curva libera e sensuale, la curva che incontro nelle montagne del mio Paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo, l’universo curvo di Einstein». Il paesaggista Burle Marx diede poi un’ulteriore impronta significativa alla città cercando di creare negli abitanti un senso di appartenenza alla comunità per annullare le differenze sociali e culturali attraverso la condivisione degli spazi comuni e delle strutture di uso pubblico. La sua arte sfrutta l’emozione estetica catturando la
CIÒ CHE MI ATTRAE È LA CURVA LIBERA E SENSUALE, LA CURVA CHE INCONTRO NELLE MONTAGNE DEL MIO PAESE, NEL CORSO SINUOSO DEI SUOI FIUMI, NELLE ONDE DEL MARE, NEL CORPO DELLA DONNA PREFERITA. DI CURVE È FATTO TUTTO L’UNIVERSO, L’UNIVERSO CURVO DI EINSTEIN
percezione e la sensibilità dei cittadini ancora oggi a 50 anni dalla fondazione della città. Le sperimentazioni urbanistiche però denotano quanto sia difficile costruire un centro urbano da zero rispettando le esigenze di vivibilità e le necessità di una società in continuo divenire. Dopo 41 mesi di lavori Brasilia fu terminata e inaugurata il 21 aprile 1960, ma l’intuizione di un approccio razionale si è dovuta poi scontrare con la dinamicità dei suoi abitanti e il bisogno di ampliamento. Per questo una città nata senza semafori e senza una dimensione pedonale si è dovuta adattare a logiche più umano-centriche. La dimensione futuristica degli spazi e delle strutture architettoniche non è comunque mai tramontata e Brasilia
rimane una delle capitali più avveniristiche del mondo proprio come nella fantasia dei suoi ideatori. Una visione che si basava sull’astrattezza dal tempo e puntava sull’ampiezza di spazi sovradimensionati. Una concezione di città che forse voleva rispecchiare e ispirarsi allo slogan “Ordem e Progresso” impresso sulla bandiera del Brasile. Un’intuizione in cui le idee alla base del pensiero politico prendessero forma attraverso un ordine logico rappresentato da una città che anche architettonicamente rispondesse a regole ben definite. Storica è diventata l’immagine in bianco e nero che ritrae Kubitschek e Costa nell’area ancora desertica nell’atto di indicare sulla mappa i luoghi dove pochi anni dopo avrebbe visto la luce il loro sogno.
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>dar e for ma alle idee. Pr esente e passat o del genio italiano Giocattoli magnifici, ma utili e funzionali. Soprattutto, realizzabili. Il maestro italiano del design industriale, Giorgetto Giugiaro, spiega perché certe forme, certe idee conquistano il mercato. E avverte: «Se l’Italia vuole tornare a essere leader, deve ricominciare a sperimentare». Perché solo così può rinnovarsi davvero e continuare a dettare stile e tendenza nel mondo dell’automobile di Daniela Panosetti
Giorgietto Giugiaro nel suo studio
Auto, naturalmente. Ma anche treni e telefoni, logo e macchine da caffè, persino palloni. L’elenco degli oggetti firmati da Giorgetto Giugiaro, in quarant’anni di attività, sembra un estroso catalogo borgesiano. Variopinto, fantasioso, irregolare. Composto seguendo l’onda del desiderio e della curiosità. Ma rispettando sempre l’imperativo della funzione, della logica industriale. Perché ogni oggetto ha il suo fascino e la sua storia, ma poi, vada come vada, è destinato a essere prodotto in serie. E tra la spinta creativa e le esigenze di produzione, il designer deve sapersi districare con grazia e professionalità. Senza perdere l’entusiasmo di chi sa di poter creare giocattoli magnifici, ma utili, realistici e riproducibili. Italdesign è sinonimo di design automobilistico, ancora oggi l’attività principale del gruppo. Ma la firma Giugiaro compare su oggetti di ogni tipo. Cosa accomuna tutti questi progetti? «Che si tratti di disegnare un orologio o un’automobile, il processo creativo rimane fondamentalmente lo stesso. Bisogna guardare non solo alla creatività, all’architettura delle forme, ma anche alle logiche di sviluppo industriale. Perché l’oggetto poi va prodotto in serie. E questo implica una serie di vincoli di realizzazione che il creativo non può ignorare. Lo stesso principio ha guidato la nascita, nel 1981, della Giugiaro Design. Anche in quel caso, a muoverci è stata la curiosità: quando ad esempio la Nikon ci ha chiesto di occuparci della F5, ci siamo avventurati in un set-
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Qui sopra, Giugiaro assiste alle ultime fasi di lavorazione di un prototipo della Ferrari
tore in cui non eravamo specialisti». Come si concilia l’aspetto creativo con le esigenze puramente tecniche? «Le competenze specifiche le acquisiamo man mano, confrontandoci con gli esperti del settore che di volta in volta ci troviamo ad affrontare. Ma per fare questo occorre una grande umiltà, capire insieme al produttore ciò che si può o non si può realisticamente realizzare. La fantasia del designer, specialmente se giovane, tende a superare questi vincoli e spesso sta ai tecnici ridimensionare le proposte più ardite. Poi certo l’originalità è un concetto relativo: c’è tutto un modo di architetture, di forme, di vita che ci stimola e ci condiziona, a volte inconsciamente. In questo il designer è come una spugna: registra e immagazzina tutto ciò che vede, per poi rielaborarlo nel disegno. L’idea originale, spesso, non è che la risultante di tutte queste esperienze». Da dove parte questo processo creativo? «Il punto di partenza è sempre il desiderio, la capacità di immaginare ciò che personalmente si vorrebbe dall’oggetto. In questo il designer risponde a un egoismo puro e, alla fine, fa quello che gli piace fare. Ha le sue idee e le porta avanti, sperando che possano essere valide per tutti. Ci si appella ai desideri del mercato, ma la verità è che il progettista propone le forme scaturite dalla sua fantasia, le più disparate. E a volte accade che queste fantasie in-
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contrino i gusti inespressi del pubblico». C’è un momento in cui si capisce di aver trovato la “giusta forma”? «Esperienza dopo esperienza, errore dopo errore, a un certo punto si percepisce di essere sulla buona strada. Un po’ come succede a un compositore, che mette insieme le note e, alla fine, sente l’armonia. Del resto, se potesse, il designer seguirebbe un’idea fino all’estremo, verso una perfezione che pure è illusoria. Fosse per lui la creazione andrebbe sempre avanti, tentativo dopo tentativo. Ma non si può mantenere in vita l’oggetto all’infinito, a un certo punto bisogna “conchiuderlo”». Tra i suoi progetti più riusciti c’è senza dubbio la Fiat Panda. Com’è nato il suo design inconfondibile? «Quando è partito il progetto, si trattava di immettere sul mercato una vettura economica e spaziosa, capace di ospitare il motore della 126. Un mezzo di prima motorizzazione, resistente e adatto al trasporto, alle strade di montagna. La sfida era di ottenere il maggiore spazio possibile al minore costo. Di qui la forma squadrata, con linee e angoli retti, che è la soluzione di contenimento più logica e ha dato alla Panda quell’aspetto un po’ da frigorifero che poi è stato uno dei fattori del suo successo. Del resto creare un oggetto che costi poco, ma offra molto è molto più difficile che disegnare una Ferrari». Il modello è stato venduto per oltre un ventennio. Quali
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sono state le ragioni di questo successo? «Al primo impatto la Panda non fu capita dal pubblico a cui era rivolta, che magari preferiva acquistare una vettura usata, ma di prestigio piuttosto che un’auto nuova ma di bassa fascia. Quando poi anche le persone benestanti hanno iniziato a guidarla, si è rotto il tabù: un po’ come era avvenuto con i jeans, che nessuno indossava finché non ha iniziato a farlo Agnelli. Poi certo a lungo andare ha prevalso la logica del risparmio, ma credo che se la Panda ha vissuto così a lungo, nonostante una grande concorrenza, è anche per questo: perché non ha l’ambizione di voler essere quello che non può essere». Oggi sarebbe possibile riprodurre un successo così longevo? «Oggi siamo molto più volubili: il mercato è inondato di nuovi modelli dalla vita sempre più breve. Le tecnologie invecchiano rapidamente e la competizione si gioca sugli accessori, spesso inutili. Io viaggio da anni con macchine dotate di ogni gadget, ma l’unica cosa che mi interessa davvero è la spia della benzina. È inevitabile, del resto, che la tecnologia si ritrovi al servizio dei capricci dell’uomo. Perché ammettiamolo: l’auto è soprattutto un giocattolo, su cui spesso proiettiamo ambizioni, frustrazioni, speranze. Per questo si tende a volere sempre di più, mentre tutto quello che si dovrebbe chiedere a un’auto e di portarci da un luogo all’altro in modo rapido e sicuro. È a questo che deve servire la tecnologia, a permettere una qualità di spostamento impensabile fino a pochi decenni fa». A lungo lo stile italiano ha dettato legge sul design automobilistico. L’Italia mantiene questa eccellenza? «Il nostro proverbiale buon gusto è nato in un contesto molto particolare, quando l’assenza di mezzi costringeva a “fare molto con poco”. Di qui quello stile essenziale e raffinato che tutti ancora ci riconoscono e che è molto apprezzato nei nostri designer quando si recano all’estero. E tuttavia, non siamo più i leader. Per esserlo bisogna produrre un gran numero di vetture, proporre continuamente nuovi modelli. La nostra industria ha sofferto molto negli ultimi anni e obbiettivamente non ha potuto fare molto. Quando negli anni 70 lavorai la prima volta per la Hyundai era poco più di un capannone: oggi produce più della Fiat. Ma anche gli Stati Uniti sono stati superati da Cina, che per ora non ha ancora una propria identità, ma a forza di sperimentare la troverà ben presto». Torino in particolare ha una tradizione illustre in questo
CHE SI TRATTI DI DISEGNARE UN OROLOGIO O UN’AUTOMOBILE, IL PROCESSO CREATIVO RIMANE FONDAMENTALMENTE LO STESSO. BISOGNA GUARDARE NON SOLO ALLA CREATIVITÀ, ALL’ARCHITETTURA DELLE FORME, MA ANCHE ALLE LOGICHE DI SVILUPPO INDUSTRIALE campo. Sopravvive ancora? «Torino ha sofferto in modo particolare questa rivoluzione. L’arte dei nostri carrozzieri, in grado di soddisfare con piccole produzioni le esigenze di una clientela esclusiva, è stata messa in crisi dal progresso, che permette di modificare le linee di montaggio e personalizzare il prodotto senza grande spesa. Ancora una volta possiamo puntare sulla creatività. Ma oggi, per farlo, servono grandi numeri e grandi strutture». Auto minuscole ed enormi, essenziali e iperaccessoriate, solide e sofisticate. Lei quale preferisce? «Ne sperimento diverse, continuamente, adesso ad esempio sto facendo esperienza con un’ibrida. In questo modo, però, finisco per non avere un auto “mia”. Anzi, tendo a viaggiare su auto disegnate da altri. Non so perché, ma immagino che anche questo abbia a che fare con la curiosità».
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L’architettura è creazione e di conseguenza può diventare arte. Ma soprattutto deve rispettare il principio per cui «l’abitazione rispecchia l’anima di chi la abita», sottolinea Luisita Facchin. Nei suoi progetti niente viene lasciato al caso, in particolare il contesto, che può anche diventare fonte di ispirazione di Sara Marchegiani
>più che un progetto, un sogno chiamato casa
«L’ambiente diventa unico per ogni suo abitante». Questa la filosofia di Luisita Facchin, che nei suoi progetti punta a creare uno spazio «unico che trasmetta la tradizione e l’identità culturale di chi lo occupa». Il ruolo dell’architetto ha quindi assunto sfaccettature sempre più complesse perché realizzare
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una casa è come creare un vestito su misura. Non si può prescindere dal contesto nel quale si va ad agire perché solo avendo bene in mente il punto d’inizio si può arrivare a realizzare la casa dei propri sogni. I materiali rivestono inoltre un aspetto prioritario «perché scelta formale e scelta tecnica devono svilupparsi in
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contemporanea per dare vita a quanto il progetto richiede». Cosa significa nella società contemporanea “fare architettura”? «L’architettura deve essere intesa nella sua complessità, nulla deve essere tralasciato, quindi attraverso la
L’architetto Luisita Facchin è titolare dello Studio LF & Partners con sede a Milano, di cui segue un interno nella foto in basso Sopra, zona ingresso e soggiorno di una abitazione in via Terraggio a Milano
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rielaborazione di quanto la tradizione ci ha donato e grazie al fiorente periodo in campo tecnologico nel quale operiamo, l’architettura può divenire anche creazione e di conseguenza arte». Negli ultimi dieci anni il mondo della progettazione e dello spazio abitativo ha subito delle variazioni? «Lo spazio abitativo non viene più vissuto secondo i canoni tradizionali e ci siamo liberati dalla rigidità dei vecchi schemi funzionali. L’ambiente è diventato unico per ogni suo abitante, e per questo motivo ogni proposta progettuale deve portare in sé unicità e forte riconoscimento della tradizione dell’identità di chi lo occupa». Quando si ristruttura un fabbricato già esistente, in particolare se storicamente o naturalmente stratificato, come ci si deve comportare? «Quando si interviene su qualunque preesistenza, sia
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PROGETTAZIONE D’INTERNI
Nella pagina precedente, progetto d’interni di un loft in via Candiani a Milano. In questa pagina, recupero abitativo all’ultimo piano di Casa BoniPelitti a Milano, nuova costruzione a Ustica (PA) in collaborazione con l’Arch. Salvatore Palmisano, particolare di interno di una abitazione in via Terraggio a Milano. Tra i collaboratori dello studio gli architetti Paola Zonco, Davide Galleani, Andrea Corti
essa di carattere storico che attuale, la conoscenza della fabbrica e del proprio contesto diviene fonte ispiratrice. Nulla si può creare se non si conosce l’oggetto d’intervento; il contesto diviene caratteristica del progetto». La scelta di determinati materiali incide in alcuni casi sull’efficacia strutturale delle architetture, in altri sulla resa estetica. In tal senso, quali sono le strategie costruttive da adottare per non rischiare che un elemento materico prevarichi sull’altro? «La modernità ci aiuta a sperimentare e a realizzare qualunque idea. La tecnica nelle costruzioni è diventata pilastro portante e anima del progetto. Scelta formale e scelta tecnica devono svilupparsi in contemporanea per dare vita a quanto il progetto richiede. Importante è essere inclini alla sperimentazione di nuovi materiali, aprendo gli occhi a quanto
OGNI PROPOSTA PROGETTUALE DEVE PORTARE IN SÉ UNICITÀ E FORTE RICONOSCIMENTO DELLA TRADIZIONE DELL’IDENTITÀ DI CHI LO OCCUPA
ad esempio la natura ci può donare». Come è possibile utilizzare materiali naturali in fase di ristrutturazione di vecchi edifici? «Quando si interviene su una parte di storia la scelta iniziale è quella di mantenere nella sua interezza quanto il passato ci ha tramandato, oppure trasformare l’intervento e renderlo riconoscibile all’era nella quale si opera. Non esiste una regola fissa, ma tutto parte da un’ottima conoscenza dell’oggetto sul quale si interviene».
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L’estetica oggi è fondamentale. Ma non può e non deve trascendere dall’utilizzo di un oggetto. Sia nel product che nell’interior design. L’architetto Piet Billekens spiega, tra genesi e realizzazione, come viene ideato un progetto di Renata Gualtieri
>funzione d’uso e funzione estetica
L’idea vincente di un designer non è legata solo alla pura creazione estetica ma anche all’approfondito studio tecnico che sta dietro l’ideazione di un prodotto. Conoscendo le problematiche legate alla costruzione, alla produzione, alla confezione e alla distribuzione, tutti i fattori importanti legati all’introduzione di un nuovo prodotto sul mercato, diventa più facile creare oggetti che siano realmente apprezzati. «E guardare avanti, per un designer, risulta una delle doti necessarie e indispensabili per svolgere al meglio la professione creativa e un presupposto indispensabile per creare pro-
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dotti che si rivelino durevoli nel tempo». L’architetto Piet Billekens spiega la genesi di un progetto. Da cosa può nascere oggi l’idea di diventare designer d’azienda? «Dalla voglia di conoscere di persona le aziende per capire meglio cosa succede all’interno dopo avere progettato un prodotto. La mia esperienza personale è nata in realtà in un’azienda che non era esattamente preparata ad accogliere un designer. Si trattava di un’attività conosciuta per un prodotto tecnicamente molto affidabile e di ottima qualità che presentava un notevole contenuto innovativo e che si era trovata costretta
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In apertura, l’architetto Piet Billekens dello studio Foresee Design di Milano, e panoramica interna del Fluid Cafè, progetto realizzato nel 2005. Qui, di fianco, ingresso e render dello seduta showroom Acquatech www.foreseedesign.com
ad una maggiore attenzione al design e all’identità dell’impresa a causa della presenza di numerosi concorrenti». Quanto è importante il rapporto di collaborazione tra designer e azienda committente? «È fondamentale. Più sono le informazioni si ricevono da tutti i settori che compongono l’azienda è maggiore è la possibilità di progettare un prodotto di successo. Allo stesso momento, maggiore è il coinvolgimento delle persone che lavorano all’interno dell’azienda e più si può essere sicuri del risultato finale. Un altro aspetto positivo del lavorare a
LA COLLABORAZIONE CONTINUATIVA È UN ASPETTO CHE RENDE PIÙ SEMPLICE LA BUONA RIUSCITA DI UN PROGETTO, PERCHÉ FORNISCE LA POSSIBILITÀ DI PARTECIPARE ALLO SVILUPPO E ALLA CRESCITA DELL’AZIENDA stretto contatto con la produzione e con i fornitori è la conseguente profonda conoscenza dei materiali, della loro lavorazione e finitura. A proposito anche la collaborazione continuativa è un aspetto che rende più semplice la buona riuscita di un progetto, perché fornisce la possibilità di partecipare allo sviluppo e alla crescita dell’azienda». Cosa c’è dietro l’ideazione di un pro-
getto? «Personalmente prima di iniziare un progetto voglio conoscere ogni dettaglio legato al prodotto da sviluppare. Sostanzialmente cerco di partire dal cuore del prodotto, dalla sua parte più tecnica e razionale per poi passare alla parte creativa. In questo sono consapevole di procedere esattamente al contrario rispetto a tanti altri designer che
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In alto, progetto Horizon per Cesana; sotto, Concentric per NDW. Seguono, a fianco, lavabo Esclisse per Cesana; doccetta pull-out per NDW; rubinetti Elite per Bellosta
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sostengono che non bisogna lasciarsi condizionare dalla tecnica nella fase creativa. Rispetto a questo assunto non sono pienamente d’accordo, fondamentalmente perché riesco spesso a trovare l’innovazione estetica analizzando nel profondo il già esistente. Inoltre il fatto di interessarsi con estrema cura alla parte tecnica costruttiva del prodotto agevola il committente perché gli fornisce un progetto già in gran parte ingegnerizzato e dei time to market molto più brevi. Con un approccio di questo genere ogni tipo di progetto può essere realizzato senza difficoltà».
Un product designer come arriva a progettare un prodotto vincente e competitivo sul mercato? «Innanzitutto bisogna affrontare non soltanto la ricerca dal lato estetico ma eseguire anche un approfondimento tecnico e globale. Per fare un esempio, il rubinetto Billy per Nobili è nato analizzando i rubinetti esistenti sul mercato e in produzione presso Nobili. Vedendo come era fatto un semplice rubinetto con canna girevole e consultando riviste del settore, dove ho notato una ripetuta proposta del rubinetto industriale con molla altissima, ho pensato a un prodotto più commer-
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ciale ma con forte impatto industriale. Il fatto che la maggior parte delle cucine non sono ad isola e hanno pensili sopra il lavello mi ha portato a realizzare una molla più bassa senza togliere la comodità di poter sganciare la doccetta. La canna girevole intorno al corpo rubinetto rende possibile allontanare o avvicinare la canna e assicura la possibilità di avere la leva di comando a sinistra per chi è mancino». Cosa caratterizza il design degli oggetti elettronici per l’informatica? «Questo è un settore senza dubbio molto interessante dove molto è ancora rimasto inesplorato a livello di
design. Me ne occupo da un po’ di tempo e la prima cosa che ho notato è che questo ambiente permette di operare con molta libertà. Si trattano oggetti molto semplici a livello tecnico ma che richiedono un curato approfondimento progettuale a livello di impatto estetico ed ergonomico e permettono di sostenere e rinnovare l’image building dell’azienda». Product design e interior design: quale la differenza? «Oltre a parlare di forma e funzionalità un aspetto molto importante nell’interior design è la creazione dell’atmosfera dentro lo spazio, atmosfera che deve essere percepibile
anche stando fuori da questo spazio. Questo effetto è realizzabile lavorando molto con la luce, giocando con il tatto e con l’olfatto. E questo concetto si può applicare sugli spazi più diversi. Ad esempio ultimamente ho curato la progettazione di stand fieristici e spazi espositivi presso gli showroom. Ho progettato uno showroom per il negozio Aquatech a Milano, un showroom di arredo bagno, un locale chiamato Fluid Cafè sempre a Milano e un bar-ristorante a Florianopolis, Brasile. Tutte esperienze molto differenti tra loro e soprattutto molto distanti dal product design».
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Un progetto di interior design nasce dalla profonda comprensione di chi abiterà quello spazio. E sfrutta ispirazioni diverse, recupera elementi antichi. Così ogni ambiente è unico, diverso da tutti gli altri. Guia Valentina Adelasco e Cristiana Cantù Rajnoldi illustrano il loro concetto di interior design di Eugenia Campo di Costa
>ambienti a misur a d’uomo
“L’architettura abbraccia l’intero ambiente della vita e rappresenta l’insieme delle trasformazioni operate sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane”. Così William Morris definiva una disciplina che è nata dall’uomo e a questi è strettamente legata. Architettura e design si coniugano per soddisfare le esigenze di chi vivrà gli spazi che esse disegnano, strutturano, arredano. «Penso che l’interazione di architettura e design sia una componente fondamentale del nostro lavoro - afferma Guia Valentina Adelasco, titolare insieme a Cristiana Cantù Rajnoldi
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dello studio Zay di Milano -. Elementi architettonici e oggetti di design si coniugano in modo da apportare una visione artistica e creativa nella progettazione di elementi d’arredo». Spesso, per pigrizia o inesperienza, si affida l’arredamento della propria casa ad arredatori e interior designer che creano ambienti splendidi ma a volte un po’ asettici, poco in linea con la personalità di chi li vive. «Una casa deve riflettere la personalità di chi la abita – continua Guia Valentina Adelasco -. Trovo che la stretta collaborazione tra designer e committente sia fondamentale. L’uomo
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Qui sopra, Guia Valentina Adelasco e Cristiana Cantù Rajnoldi, interior designers dello Studio Zay di Milano. Nella pagina accanto e in queste immagini, alcuni loro progetti di interior design www.zay.it
e le sue necessità sono il punto di partenza di ogni nostro progetto, per questo la fase iniziale è incentrata sullo studio sociale dei comportamenti e delle abitudini del committente, al fine di creare dei percorsi abitativi su misura». Un atteggiamento in controtendenza soprattutto in un periodo storico dove l’omologazione è fortemente presente, i mobili sempre più spesso vengono realizzati in serie e alcuni elementi di arredo ricorrono in case dallo stile totalmente opposto. «Vogliamo creare ambienti unici – interviene Cristiana Cantù Rajnoldi -, ognuno con una propria identità,
stabilendo una connotazione individualista, creando arredi su misura e mai uguali». Ambienti che derivano da ispirazioni varie, tratte da viaggi ed esperienze, che diventano stimoli alla creatività. Così Oriente e Occidente, bianco e nero, Yin e Yang si fondono in un mix di stili, dal nordico occidentale al minimal orientale. «Ogni progetto viene sdoppiato per poi fondersi in un’unica soluzione abitativa, traendo il meglio da soluzioni diverse e ogni ambiente può essere rivoluzionato con pochi cambiamenti, apportando colore e vitalità». Anche vecchi oggetti e mobili antichi ri-
prendono vita, si modificano e si trasformano, trovano una nuova collocazione, perché «nulla deve essere sprecato soprattutto in tempi di crisi economica, ma tutto può diventare bello e apparentemente nuovo. I cambiamenti economici mondiali – conclude Cristiana Cantù Rajnoldi – hanno indotto a risparmiare sul superfluo. Per questo l’interior designer deve creare ambienti piacevoli da vivere che non costino una follia. È quello che amiamo definire “minimalismo del costo”, un design non solo bello da vedere, ma pratico e attento al risparmio».
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Un bilanciamento perfetto tra gli spazi, gli oggetti che li occupano e le persone che li abitano. Colori, forme e materiali. Questa è la dimensione in cui opera l’architetto di interni. Che, come sottolinea Alessandro del Giudice, «riempie gli spazi con lo spirito della conoscenza individuale» di Alberta De Pisis
>equilibri dinamici
INTERIOR DESIGN Dettagli di stile
Uno spazio delimitato. E la sua rielaborazione in chiave progettuale. Una lettura simbolica e sensoriale che ne definisce i limiti, ne disegna i confini. Finché una cosa non è più un’altra. L’attività professionale nel campo dell’architettura d’interni viene intesa come “trama narrativa aperta” dove la committenza, guidata con mano, diventa protagonista e lo spazio circoscritto dell’abitazione o dello spazio commerciale assume liberamente il profilo individuale del proprio personaggio. In
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Nella foto, l’architetto Alessandro del Giudice. Tra le sue committenze si annoverano marchi prestigiosi come “Cesare Attolini”, “ Miki House” www.artifexarchitettura.it
L’ARCHITETTURA DI INTERNI PARTE DA UN PICCOLO SEGNO, DA UNA SENSAZIONE CHE PRENDE FORMA effetti, è proprio sull’avventura individuale e sulle proprie esigenze che si realizza il progetto «partendo da un piccolo segno, da una sensazione, l’architettura vista dall’interno così prende forma e si riempie di spirito della conoscenza individuale» come sottolinea l’architetto Alessandro del Giudice che svolge un’intensa attività professionale nel campo dell’architettura per il commercio e architettura
residenziale. Dal suo punto di vista, il progetto viene inteso come “Idea artificiosa” che viene aggredita a 360 gradi. E le tecniche di rappresentazione permettono alla committenza di interagire in tempo reale alla stesura del progetto, «niente viene lasciato al caso, l’artigiano viene preferito al prodotto di serie e ogni minimo dettaglio viene curato con passione e dedizione».
>nuove spazialità riformano il consumismo Spazi concepiti sulla scia della commercializzazione. Schemi architettonici che guardano alla tradizione, in contesti urbani riprodotti come “città nelle città”. Sono gli outlet: strutturalmente dinamici e imponenti, contenitori di un’idea di consumo attraente, ludica. L’architetto Andrei Perekhodtsev, descrive gli outlet del futuro di Adriana Zuccaro
L’Outlet Serravalle Scrivia, (Al); segue, nella pagina a fianco, particolare dell’Outlet Barberino di Mugello (Fi). I progetti sono stati realizzati e messi in opera da Hydea di Firenze, di cui l’architetto Andrei Perekhodtsev (in foto) è responsabile della sezione architettura ed edilizia
Fuori dai pregiudizi di chi identifica una certa architettura quale contenitore vuoto da riempire di visitatori e di shopping addicted, i “superluoghi” del Ventunesimo secolo ripropongono il contesto cittadino di riferimento territoriale per accogliere funzioni di carattere terziario, ludico e di intrattenimento tipiche dei centri commerciali, ma in luoghi architettonici che centri commerciali non sono. Negli outlet, giovani “città nelle città”, veri motori delle trasformazioni urbane e del territorio, flussi di persone, investimenti e informazioni generate dalla società contemporanea, spingono nuove forme di consumo che livellano il potere d’acquisto per un welfare concepito dall’affollato circuito dei low-cost. Architetto senior, socio e responsabile del settore architettura ed
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edilizia della società Hydea di Firenze, Andrei Perekhodtsev chiarisce l’importanza degli outlet per il territorio che li ospita: decentrano l’iperdensità urbana, riqualificano aree dismesse, sviluppano le infrastrutture; propongono un’architettura “commercialmente” inedita, funzionale e “ri-creativa”, in cui anche il superfluo ha comunque un ruolo. Tra identità creativa, bagagli della tradizione e attualità incline alla globalizzazione, quali sono i principi progettuali cui l’architettura degli outlet non può prescindere? «È sempre molto difficile dettare delle regole generali. Lo studio architettonico degli outlet prevede innanzitutto che lo spazio pedonale interno sia articolato, ac-
IL FATTORE GLOBALIZZANTE CHE SARÀ INTRODOTTO NE LA REGGIA OUTLET DI MARCIANISE È L’IMPIANTO DI 10 MILA MQ DI PANNELLI FOTOVOLTAICI CAPACI DI GARANTIRE 268 MILA KWH, SUFFICIENTE PER ALIMENTARE 80 CASE E CON UN RISPARMIO ANNUO DI CIRCA 180 MILA KG DI CO2 cogliente, interessante, aperto al più vasto pubblico. A mio avviso l’idea dell’outlet ha origine dal piacere provocato nella gente dalla riapertura delle zone pedonali nelle città storiche europee, dove tutti sono liberi di passeggiare per le strade con negozi esclusivi affacciati
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IN RISPOSTA AL ALLA TRADIZIONE, ALLE STRUTTURE DEGLI OUTLET SONO STATI APPORTATI ELEMENTI DI RICONOSCIBILITÀ DEL LINGUAGGIO ARCHITETTONICO LOCALE, ELEMENTI DI FORTE IMPATTO COMPOSITIVO E VISIVO IN SIMBIOSI CON IL TERRITORIO CIRCOSTANTE
Qui, in alto, particolare dell’impianto termale Fonteverde, San Casciano dei Bagni (SI); a sinistra, prospetto del complesso ricettivoresidenziale in località Val di Luce, AbetonePistoia. Nella pagina successiva, in alto, panoramica della Cantina Santa Cristina Marchesi Antinori, Cortona-Arezzo; segue, a sinistra, Outlet Veneto Noventa di Piave (Ve); a destra, Outlet Castel Romano (Rm)
su piccole piazze lastricate e vie sinuose: addio allo stress del traffico cittadino. Questa idea di spazio urbano protetto, accogliente, sufficientemente attraente, pieno di ricordi e motivi tramandati da generazione a generazione, è stata adattata allo schema del centro commerciale ma, in risposta al “bagaglio della tradizione”, sono stati apportati elementi di riconoscibilità del linguaggio architettonico locale, elementi di forte impatto compositivo e visivo in simbiosi con il territorio circostante». Città nelle città: gli outlet vengono strutturati in architetture imponenti che trasformano un’area extraurbana in un vero polo di attrazione. «Occorre tener presente che questi “superluoghi” na-
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scono seguendo una precisa, se pure ovvia, strategia di mercato: occorre infatti che l’area di edificazione sia sufficientemente popolata, che possa essere raggiunta comodamente in auto e che non ci siano outlet concorrenti in zona. Non aspettiamoci, quindi, molti nuovi outlet in Italia. Anzi, precisi segnali indicano che il territorio è ormai saturo di centri commerciali tipo outlet, tant’è vero che i principali operatori europei del settore iniziano a orientare i loro investimenti verso i paesi dell’Est europeo e in Asia». Quali sono le similitudini e le ragioni che differenziano il vostro progetto dell’outlet realizzato a Noventa di Piave da quello che a breve verrà inaugurato a Marcianise?
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«Nelle progettazioni degli outlet, ciò che spiega la loro unicità è l’ispirazione rivolta alle tradizioni locali. Ogni progetto presenta elementi, sia a livello di grande scala volumetrico-compositiva, sia a livello di dettagli e materiali impiegati, che differenziano i centri l’uno dall’altro. Forse, l’unico fattore globalizzante che sarà introdotto per La reggia Outlet di Marcianise è l’impianto di 10mila mq di pannelli fotovoltaici capaci di garantire 268 mila Kwh, sufficiente per alimentare 80 case e con un risparmio annuo di circa 180mila Kg di Co2». Quali vincoli sono chiamati a rispettare gli architetti “specialisti del mondo outlet”? «I vincoli sono sempre tanti e variano a seconda del territori e del Comune in cui sorge la struttura. Forse il vin-
colo più interessante che c’è stato chiesto di rispettare è stato l’allargamento dell’alveo e il ripristino delle sponde del torrente Sieve a Barberino di Mugello per garantire lo scorrimento di una piena che ha una probabilità di ritorno ogni due secoli. Sono stati fatti ingenti investimenti per realizzare le sponde, rinforzarle, per arricchirle con nuove piantumazioni che hanno contribuito alla realizzazione di un’interessante opera di ingegneria naturalistica e di architettura del paesaggio. L’investimento connesso con le opere per l’outlet di Barberino è stato di 45 milioni di euro, di cui 11 sono stati spesi sulle opere viarie, la sistemazione a verde e l’adeguamento del fiume a dimostrazione delle ricadute positive dell’outlet sull’ambiente e sul territorio»
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>oltr e lo ster eotipo ver so l’inedito Le similitudini tra le diverse strutture outlet sparse nel nostro Paese e quelle estere, sono molteplici. Ma quando si tratta di dettagli architettonici, in Italia la qualità delle finiture è certamente più alta. L’esperienza di Giovanni Feltrin, associate director di Chapman Taylor Architetti di Adriana Zuccaro
Quadri assiali ripetuti. Linee spezzate che intersecano ambienti armonizzati in ripetizione: regolari nella struttura, dinamici nella fruizione. Per conferire identità architettonica alle aree commerciali contemporanee «il progettista deve essere in grado di tradurre in architettura vincente un sistema commerciale funzionalmente valido». L’incipit di Giovanni Feltrin, associate director di Chapman Taylor Architetti, società di respiro internazionale, con sedi sparse tra le grandi metropoli del mondo tra cui Milano, definisce l’attenzione da rivolgere ai “binari” insiti nella progettazione, anche di spazi commerciali come gli outlet. Tra la forma e la funzione. Quali sono stati i fattori che hanno determinato l’avvio di attività commerciali aggregate in spazi “outlet”?
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In apertura, prospetto laterale dell’outlet Le Grange di Cassino di cui, qui a sinistra, particolare del soffitto. In alto, panoramica aerea del Roncade Outlet Gallery, Treviso di cui a destra, prospetto esterno. I progetti sono stati diretti da Chapman Taylor Architetti di Milano: in foto, Giovanni Feltrin, associate director www.chapmantaylor.com
«In origine l’outlet nasce quale luogo deputato alla vendita di prodotti rimasti invenduti nei negozi tradizionali. Le stesse catene di negozi raggruppavano, infatti, tutti questi prodotti in uno “spaccio” per la loro successiva vendita a prezzi molto convenienti. Da qui è seguita l’aggregazione di più catene in un unico luogo per dare maggiore richiamo a questa nuova attività di commercio. Detto ciò, comprendiamo che l’outlet di oggi, recependo i principi originali, non può essere un oggetto troppo costoso e con costi di gestione troppo elevati, ma consentire il bilanciamento del conto economico delle singole attività derivante dalla vendita di prodotti scontati». In linea con l’evoluzionismo concettuale dei “superluo-
ghi”, quali caratteristiche strutturali definiscono la possibile frequentazione degli outlet? «Per rispondere alla domanda dei consumatori, è consigliabile sviluppare un outlet attraverso un percorso pedonale a cielo libero e quindi non climatizzato, piuttosto che un mall coperto con tutti i costi realizzativi e gestionali che ne deriverebbero. L’attenzione dei promotori si concentra, negli ultimi anni, non tanto sull’evoluzione da un concetto a “scatola” verso il villaggio “aperto”, perché di fatto sono due approcci specifici di due ambienti diversi, uno il centro commerciale, l’altro l’outlet, quanto piuttosto al trattamento delle facciate e delle finiture che accolgono gli aspetti della tradizione in cui si calano queste strutture».
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Qui, immagini relative al Centro Sarca, in provincia di Milano. Nella pagina successiva, immagini del Usce Shopping Center di Belgrado, Serbia
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In Italia, il XXI secolo ha accolto il boom degli outlet quale nuova forma commerciale “globalizzante”. Quanto incide la cultura dello shopping diversamente intesa da luogo in luogo? «Tralasciando gli aspetti architettonici che hanno innumerevoli forme di espressione, grazie alla specifica e, per certi aspetti, simile offerta commerciale proposta, le similitudini tra le diverse strutture outlet sparse nel nostro Paese e quelle estere, sono molteplici. Non si può dire la stessa cosa con le altre forme di aggregazione commerciale che riflettono invece le abitudini e le tradizioni di shopping specifiche di ogni Paese. Basti pensare che nel mondo anglosassone i principi di aggregazione di un centro commerciale non ruotano attorno a un iper-
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IL RAPPORTO TRA FUNZIONALITÀ E CARATTERE ARCHITETTONICO DOVREBBE ANALIZZARE NUOVE TENDENZE PER TRADURLE IN SOLUZIONI DI DESIGN E ASPETTATIVE DI SHOPPING
mercato come accade in Italia. Le differenze sostanziali tra le strutture di outlet in Italia e quelle estere sta più nella qualità dei materiali e delle finiture che qui da noi è decisamente superiore». La cultura dello spaccio aziendale su cui si fonda la natura dell’outlet dilaga con determinazione. Ma, in base al territorio in cui si opera, quali peculiarità presenta il dogma “outlet”? «Prendo spunto dall’outlet che stiamo sviluppando a Roncade, in provincia di Treviso. Siamo stati chiamati a trasformare un complesso di edifici industriali esistenti in un outlet per le grandi firme. L’approccio architettonico si distacca nel complesso dalla prassi comune di creare piccole “cittadelle” aventi forti riferimenti a ele-
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menti tradizionali locali e di fatto finti, puntando invece su un linguaggio contemporaneo nei materiali e nelle forme. Roncade Outlet Gallery vuole essere considerato un esempio di trasformazione urbana attraverso la realizzazione di un edificio con una propria identità architettonica e per tale motivo sarà il primo esempio in Italia di outlet di nuova generazione». Come è possibile riuscire a conciliare il concetto di spazio fruibile con il tentativo di proporre forme architettoniche emancipate dall’ormai obsoleto centro commerciale? «La pianificazione dell’outlet, per alcuni aspetti è molto più limitante dal punto di vista architettonico rispetto a un centro commerciale, probabilmente perché il mo-
dello architettonico di outlet più diffuso è chiuso nel suo stesso stereotipo. Lo sforzo di Chapman Taylor Architetti è invece quello di guardare all’innovazione e alla ricerca rivolta verso nuovi modelli commerciali amplificando ancor di più il rapporto tra funzionalità e carattere architettonico non più rivolto ad assecondare schemi commerciali predefiniti, a volte obsoleti, bensì analizzare nuove tendenze e abitudini tradotte in nuove soluzioni di design per soddisfare tutte le aspettative di shopping».
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Con una flotta ampia e diversificata, in perfetto equilibrio tra soluzioni tecnologiche avveniristiche e tradizione nautica, Ferretti Yachts si impone in un mercato in costante sviluppo e sempre più orientato all’eccellenza. Una storia costruita con passione, professionalità e grande esperienza, che ha portato il marchio a essere oggi un brand di culto per gli appassionati di nautica a motore e una tra le nuove icone del lusso made in Italy nel mondo. Fiore all’occhiello della fascia più alta della produzione del Gruppo è Ferretti Custom Line che rap-
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presenta il naturale proseguimento della produzione di imbarcazioni oltre gli 88 piedi di lunghezza dell’azienda romagnola. Le imbarcazioni Ferretti Custom Line nascono dalla collaborazione tra lo Studio Zuccon International Project che cura la progettazione della sovrastruttura e degli interni, e il gruppo Ferretti con il suo il centro di ricerca e progettazione navale Advanced yacht technology. Quali strumentazioni innovative sono presenti sulle imbarcazioni della linea?
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>yac ht design d’autor e il lusso c he navig a «Le imbarcazioni del gruppo Ferretti con la loro imponenza e le linee classiche rappresentano vere e proprio ville sul mare, una sorta di buen retiro per businessman amanti del mare che desiderano svegliarsi ogni mattino in un porto diverso, navigando in completo silenzio e con emissioni e consumi ridotti al minimo». L’estro dell’architetto Zuccon assicura crociere di elevato piacere di Renata Gualtieri
«Le imbarcazioni Ferretti Custom Line sono dotate di sistemi di controllo innovativi attraverso i quali è possibile gestire in modo immediato tramite touch screen, comandi, utenze, servizi e allarmi. Il primato tecnologico del Gruppo trova conferma negli stabilizzatori Anti Rolling Gyro, brevettati da Mitsubishi heavy industries ed esclusivi del Gruppo Ferretti in grado di ridurre oltre il 50% il rollio di una nave, responsabile del mal di mare durante l’ancoraggio in rada o in porto. A bordo sono presenti apparecchiature audiovisive collegate al si-
stema media server di Radiomarine in grado di supportare tutti i sistemi dislocati nelle cabine armatoriali, in quelle vip e negli spazi comuni. I maxi yacht, inoltre, aderiscono alle norme del codice Mca Short Range Compliant, dedicato a maxi yacht per elevarne gli standard di sicurezza». Da quali nuove esigenze di mercato e ultime tendenze del settore nasce la Navetta 33? «Si è delineata una nuova cultura, slow motion, per una navigazione più lenta e fluida, nel silenzio assoluto e nel
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IL CONTATTO CON L’ELEMENTO MARINO È AMPLIFICATO DALLE GRANDI VETRATE DEL PONTE PRINCIPALE, DELLA SKYLOUNGE E DELLE FINESTRE OPEN VIEW DEL PONTE INFERIORE: IN QUESTO MODO LA LUCE NATURALE ILLUMINA OGNI AMBIENTE
In apertura, l’esterno della Navetta 33 e, in queste pagine, alcune fotografie del suo interno. A destra, l’architetto Gianni Zuccon con la moglie, architetto Paola Galeazzi
massimo comfort. Il contatto con l’elemento marino è amplificato dalle grandi vetrate del ponte principale, della skylounge e delle finestre open view del ponte inferiore: in questo modo la luce naturale illumina ogni ambiente». Quali sono le differenze a livello estetico e di prestazioni tra le due versioni di Custom line quella a scafo planante e quella semi-dislocante? «Le differenze estetiche tra le due tipologie di imbarcazione sono legate alle diverse prestazioni. Le superfici della sovrastruttura delle imbarcazioni più veloci presentano un design caratterizzato da linee che tendono a esaltare il senso della velocità e a conferire maggiore dinamicità. Le superfici delle imbarcazioni semi-dislocanti invece presentano maggiore continuità, conferendo alla barca una forma più rassicurante». Esistono dei criteri vincolanti per l’arredamento interno? «Negli ultimi anni l’arredamento degli yacht ha risentito di una cultura tipicamente civile e più legata al concetto di casa, a causa dei tempi di permanenza a bordo sempre più lunghi. Il Gruppo Ferretti, pur rispondendo a que-
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Qui sopra, il nuovo progetto realizzato dalla Ferretti Custom Line, CL 124’
sta istanza, continua a ricercare nell’arredamento quelle soluzioni che esprimono l’essere barca attraverso interventi di design e operando sulla qualità di materiali». C’e’ possibilità di personalizzazione sulla scelta di materiali e tessuti e verso quali scelte si orienta lo stile Ferretti? «L’eccellenza dei maxi yacht Ferretti Custom Line si traduce in un prodotto semi-custom dove l’armatore interviene direttamente nella scelta di tutti gli elementi non strutturali, a partire dai decori, selezionabili tra materiali di pregio, fino ai complementi d’arredo in accordo con le tendenze più attuali e alla collaborazione con alcuni tra i migliori brand del made in Italy». Ha assistito a importanti evoluzioni nel mondo del design di yacht? «Fondamentale è stato il cambiamento tra superfici opache e superfici trasparenti. Grazie allo sviluppo della tecnologia del vetro si è potuto esprimere una cultura diversa dalle imbarcazioni mediterranee di molti anni fa perché ha prevalso la “cultura della trasparenza”. Il rapporto tra interno ed esterno ha modificato, per la mag-
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giore permanenza a bordo, il design delle barche stesse. Ferretti Custom Line esprime al meglio la nuova cultura, con un armonico equilibrio tra superfici opache e trasparenti: tutta la flotta si caratterizza per un ponte principale in cui domina l’elemento vetro che filtra la luce naturale in ogni ambiente. Nel ponte inferiore, l’inserimento delle grandi finestre “open view” donano a ogni cabina un punto di vista privilegiato verso l’ambiente naturale che circonda l’imbarcazione». Qual è il prossimo progetto per Ferretti Custom Line che vedrà la luce? «Ferretti Custom Line ha già presentato al salone di Cannes il progetto 124’ che sarà presto in acqua: la nuova ammiraglia della flotta planante porterà un’onda di rinnovamento nella storia di Ferretti Custom Line, allargando i suoi orizzonti, pur rimanendo fedele alla tradizione. Il 124’ sintetizza l’esperienza progettuale e costruttiva del cantiere con uno sguardo al futuro, coniugando armoniosamente eleganza, performance e soluzioni fortemente innovative per imbarcazioni di tale piedaggio».
> l’ar monia
dell’ir r e golarità
Un porto che si ispira al passato per guardare al futuro. La cornice è quella del borgo mediterraneo di Rodi Garganico, abbarbicato su di un promontorio roccioso. Amplificatore di suggestioni naturali e approdo per turisti di Simona Cantelmi
«L’oggetto architettonico non va inteso come un “grido” all’interno del complesso portuale e urbano,ma ne diviene parte integrante». Parola dell’architetto Fabrizio Capolei, autore del progetto insieme al fratello Pierfrancesco del Marina di Rodi, paese collocato nella costa settentrionale della penisola del Gargano in Puglia. Il porto non è solo una base importante per navigare lungo le coste pugliesi, ma anche porta di accesso privilegiata al suggestivo arcipelago delle Tremiti, alla Croazia, e alla vicina Grecia.
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L’opera è stata realizzata dall’impresa Pietro Cidonio di Roma che la gestirà per i prossimi anni. Fondamentale è stato il sostegno del comune di Rodi, che dopo un secolo ha deciso di promuovere l’iniziativa, desideroso di fornire un nuovo volto all’area dopo un secolo di attesa. Un ambiente polifunzionale: barche, negozi, bar, ristoranti e spazi verdi. Le caratteristiche casette bianche e le viuzze intricate di Rodi sono state studiate e riproposte. Gli edifici del porto sono stati realizzati di piccole dimensioni e distribuiti in modo frammen-
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tato così da richiamare l’intricato impianto urbano del paese. Lo stesso può essere detto per la distribuzione delle banchine e dei pontili d’ormeggio a mare, che si presentano irregolari, allo scopo di evitare ai visitatori la sensazione di monotonia. L’architettura può essere definita “minuta”, fatta di edifici bassi, in linea con il contesto paesaggistico. «Per iniziare abbiamo pensato al modello della casa isolata, circondata da una serie di agenti naturali, i venti dominanti, le brezze, i suoni, le vedute. Il passaggio successivo è stato quello di pen-
sare a un gruppo di edifici che interagiscano tra loro, con l’idea di offrire un luogo confortevole». L’accesso pubblico si trova lungo il lato orientale del molo di sottoflutto, che conserva verso la spiaggia l’allineamento rettilineo dell’antico molo. Sulla sponda interna del porto, invece, è stato creato un piazzale, ricavato da un’espansione convessa: qui sorgono gli edifici e i negozi della marina. L’idea di base del progetto è la ripresa dell’estetica architettonica dell’antico borgo di mare, inserendovi, però, una nota di attualità. «La ma-
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In questa pagina, la torre di controllo del marina e la veduta notturna del borgo sul porto Nella pagina a fianco un particolare della torre e la sede dello yachting club www.capoleicavalli.it www.cidonio.it www.modimar.it www.marinadirodigarganico.it
trice formale del lavoro trova le sue radici nelle vecchie costruzioni del borgo» spiega l’architetto Pierfrancesco « ed ha portato alla realizzazione di piccoli fabbricati rivestiti con intonaco a calce e coperti con tetti di tegole. Una serie di costruzioni a un piano, all’interno del percorso/piazza che si affaccia sul mare». Il progetto si è posto l’obiettivo della ricerca della bellezza delle strutture e dell’armonizzazione con la natura circostante, anche attraverso un’adeguata illuminazione, e un’analisi cromatica dell’area. Il progetto ha seguito i criteri dell’architettura eco-compatibile: il rispetto per l’ambiente, l’utilizzazione del verde, l’impiego di materiali locali di tipo grezzo o che abbiano subito ridotti processi di lavorazione, a basso consumo energetico, e non nocivi alla salute dell’uomo. Il tutto mirando a un’efficienza energetica della costruzione, tramite iso-
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lamento termico e illuminazione naturale, e impiegando innovazioni tecnologiche alternative, come tecnologie solari per il riscaldamento e sistemi di raffrescamento naturali. Allo stesso scopo si è riposta attenzione alla recuperabilità e alla riciclabilità dei materiali in seguito alla demolizione delle costruzioni precedenti. L’impiego intelligente di materiali naturali è
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un elemento importante: la diga del porto (progettato dagli ing. A. Togna e L. Franco della società Modimar di Roma) è rivestita con massi naturali senza coronamento in calcestruzzo e gli scogli di calcare provengono dalle cave di Apricena, in provincia di Foggia. Questi sono disposti su lieve pendenza, con la parte di maggior porosità rivolta alle onde, in modo da as-
sorbirne al meglio l’energia. La conformazione del bacino interno è studiata per assicurare il massimo comfort agli utenti: la darsena si incunea verso terra fino all’altezza dell’attuale linea di riva, dove, in prossimità della radice del molo, è stato realizzato un parco verde urbano con parcheggi e passeggiate affacciate sul mare. Il disegno planimetrico è caratterizzato dalla presenza di due piazze rotonde circondate dall’acqua, una alla radice e l’altra all’estremità del molo di sottoflutto da cui si estende verso il mare un pontile su pali, per l’accosto estivo di traghetti per il trasporto passeggeri. La Marina di Rodi nasce e si sviluppa con il preciso scopo di creare un polo nautico attrezzato per assistere ogni tipo di imbarcazione, dal gommone al megayacht, con la capacità di ospitare qualsiasi manifestazione legata al mare.
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>è tempo di costr uir e fondamenta più solide Snellire la macchina burocratica. Favorire l’housing sociale. Garantire la qualità degli immobili. Per il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti «è tempo di fatti concreti» per rilanciare il settore delle costruzioni di Giusi Brega
Il 2009 è stato un anno in cui sono stati messi in campo numerosi provvedimenti per il settore delle costruzioni. Da quelli per l’emergenza Abruzzo, alla delibera Cipe per opere e scuole, il Piano casa 2, lo sblocco dell’housing sociale. «Questi provvedimenti importanti dimostrano che il governo ha ascoltato le nostre richieste» sottolinea il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti, il quale evidenzia, però, come «poco di quello che è stato deciso si sta realmente concretizzando». E questo soprattutto a causa «dei ritardi e delle lentezze della macchina amministrativa e burocratica» che impediscono a tutto il sistema di funzionare, di essere efficiente. «Pensiamo proprio alla delibera Cipe, che già da mesi ha stanziato 1 miliardo per le scuole e 825 milioni per le opere piccole e medie. Purtroppo da quel momento poco o
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nulla è stato fatto». Il presidente dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili ribadisce che «è ora, finalmente, di trasformare le decisioni prese in fatti concreti». Altrimenti il 2010 «rischia di essere un anno peggiore di quello che si è da poco concluso». Cosa preoccupa i costruttori? «Stanno per esaurirsi i portafogli ordini delle imprese, sia nel campo dell’edilizia privata che in quello degli appalti pubblici, molte aziende stanno chiudendo, soprattutto quelle più piccole. Sul piano occupazionale siamo già arrivati a 100mila posti di lavoro in meno. I vincoli del patto di stabilità, che fanno aumentare i tempi di attesa con cui le amministrazioni pubbliche pagano i lavori svolti e il problema del credito, che si sta drasticamente restringendo, non fanno che aggravare una situazione già di
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Nell’altra pagina, Paolo Buzzetti, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili. Accanto, un cantiere
per sé molto preoccupante». Nel nostro Paese il fabbisogno di case resta elevato. Come si pone Ance rispetto al piano che vuole dare una risposta alle fasce più deboli della popolazione che hanno difficoltà ad accedere al mercato abitativo? «I nostri dati mostrano che in Italia esiste un fabbisogno non soddisfatto pari a 350.000 alloggi. Gran parte di questa domanda potenziale viene proprio dalle fasce sociali più deboli: giovani coppie, anziani, studenti fuori sede. Per questo l’Ance ha da subito valutato molto positivamente il piano per l’housing sociale: un piano che mancava nel nostro Paese da almeno 30 anni e che, oltre a consentire di soddisfare il fabbisogno di case in vendita e in affitto, dovrebbe permettere anche la riqualificazione delle aree urbane che versano in stato di
degrado. Ma finora, tra discussioni e lentezze tipiche del nostro Paese, anche su questo fronte si è perso almeno un anno di tempo. Noi abbiamo spinto e sollecitato, e continueremo a farlo, affinché si possa finalmente partire, altrimenti il piano non servirà né a contrastare la crisi né a rispondere ai veri bisogni dei cittadini». Mercato immobiliare. Che fotografia emerge dalle analisi Ance? «La fotografia di un’Italia in cui non c’è stata né ci sarà alcuna bolla immobiliare, a differenza di quanto è accaduto in molte parti del mondo con la crisi economica globale. E questo non solo perché la domanda di case, come abbiamo detto, risulta ancora molto alta, ma anche perché l’indebitamento delle nostre famiglie è di gran lunga inferiore rispetto agli altri Paesi. Nonostante
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questo, tuttavia, il mercato immobiliare del nostro Paese ha iniziato a rallentare. Il 2009 è stato il terzo anno consecutivo di flessione delle compravendite. Questo ci preoccupa molto, soprattutto perché le banche stanno fortemente restringendo l’accesso al credito sia per le famiglie che per le imprese. Secondo i nostri dati in quasi tutte le regioni italiane l’erogazione dei mutui alle famiglie ha subito un pesante calo, soprattutto nel Mezzogiorno, addirittura con punte del -43% in Sicilia. Ma non basta: abbiamo calcolato che i mutui erogati nel nostro Paese sono i più cari a livello europeo. Per un finanziamento di 25 anni pari a 150.000 euro le famiglie italiane pagano quasi 16mila euro in più rispetto all’Europa. In altre parole è come se in Italia si pagasse il mutuo per 18 mesi in più. Le difficoltà di accesso al credito non rispar-
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miano le imprese del settore, che denunciano un forte inasprimento delle condizioni contrattuali. In un momento così delicato, per le imprese è difficile cambiare controparte e quindi il più delle volte le aziende devono accettare queste variazioni, essendo molto basso il loro potere contrattuale». Risparmio energetico, sostenibilità ambientale, sicurezza. In che modo la categoria si sta attivando per garantire la qualità degli immobili? «Sicuramente, all’uscita da questa crisi economica, il mercato delle costruzioni avrà dimensioni quantitativamente ridotte rispetto agli anni passati e si fonderà su una maggiore selezione dei prodotti. Ciò che dovrà emergere con forza sarà quindi proprio l'attenzione agli aspetti qualitativi del costruito, e cioè efficienza energetica, sicurezza,
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A sinistra, le case ricostruite in Abruzzo subito dopo il sisma che ha colpito il capoluogo nell’aprile del 2009
BISOGNA SFRUTTARE QUESTO MOMENTO PER FARE QUELLE RIFORME CHE L’ITALIA ATTENDE DA TEMPO SOPRATTUTTO NEL CAMPO DELLE INFRASTRUTTURE E DELL’EDILIZIA ABITATIVA
sostenibilità ambientale. Cambiare il modo di progettare, costruire, demolire e recuperare edifici all'insegna della qualità diventerà quindi un imperativo per le imprese, che dovranno rendersi maggiormente competitive e allo stesso tempo capaci di determinare benefici in termini di miglioramento della qualità urbana e delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. D'altra parte, non a caso un grande impegno dell'Ance riguarda i requisiti di qualificazione delle imprese, che devono essere selezionate sulla base della propria reputazione e capacità e non solo su certificati privi di valore. Vorremmo, poi, che questa cultura della qualità e il valore della storia delle imprese venisse acquisita dal mercato privato, per il quale chiediamo da tempo una vera qualificazione». Può il rilancio del mercato delle costruzioni influire sul
rilancio economico del Paese? «Indubbiamente. Ridare ossigeno alle costruzioni, avviando tutti i cantieri possibili, da quelli per le piccole e medie opere agli interventi per l’edilizia scolastica fino ai Piani casa 1 e 2, non solo significa salvaguardare migliaia di imprese e di lavoratori di un settore che ha sempre trainato il Pil del Paese, ma anche ottenere un importante effetto anticiclico e di rilancio dell’economia. A mio parere siamo a un punto importante di svolta. Abbiamo due possibilità: sfruttare questo momento per fare quelle riforme che l’Italia attende da tempo soprattutto nel campo delle infrastrutture e dell’edilizia abitativa, modernizzando il Paese, oppure tamponare le emergenze, ma senza riuscire a creare le condizioni per tornare a crescere».
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ORAMAI È FREQUENTE AFFIDARE LE PROGETTAZIONI A FIRME DELL’ARCHITETTURA MONDIALE. LA RICERCA DI FORME NUOVE È UNA TENDENZA MOLTO POSITIVA
>tecnologie avanzate per abitazioni ecosostenibili Roma caput mundi. Anche dell’ecosostenibilità. Marco Mezzaroma illustra i lavori intrapresi nella Capitale per dare vita al forse più grande complesso residenziale che sfrutta l’energia geotermica in Italia. E guarda alla periferia con intento produttivo. «Espansione e riqualificazione» di Giusi Brega
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EDILIZIA Edilizia ecosostenibile.Ormai la tendenza verso questo tipo di edilizia si è abbastanza consolidata. Tant’è che si stanno creando le condizioni affinché possa diventare un’opportunità comune. In quest’ottica, Roma è protagonista di una sorta di “esperimento”. Un’iniziativa apripista che, confermati i target in termini di resa e di rispetto ambientale, sarà sicuramente ripetuta in futuro. «Si tratta della costruzione di tre edifici, per un totale di circa 160 appartamenti», sottolinea Marco Mezzaroma, amministratore unico delle società del gruppo Mezzaroma. «È il primo intervento di queste dimensioni a Roma, forse addirittura anche a livello nazionale». Qual è la particolarità di questo intervento? «Stiamo costruendo tutti gli impianti di riscaldamento e di condizionamento utilizzando l’energia geotermica. Questo da una parte permette un notevole risparmio energetico, stimato intorno al 40%, rispetto agli impianti tradizionali. Dall’altra, garantisce il rispetto per tutte le tematiche ambientali perché utilizziamo fonti di energia naturali, cioè quelle del sottosuolo». Guardando agli ultimi anni, è possibile individuare delle nuove tipologie costruttive nell’edilizia residenziale? «È migliorata sia la qualità tecnico-costruttiva sia quella architettonica degli interventi nell’edilizia residenziale privata. Oramai è abbastanza frequente vedere affidate le progettazioni a grandi firme dell’architettura mondiale. C’è anche una ricerca di forme architettoniche nuove e questa, a mio avviso, è una tendenza molto positiva. Soprattutto c’è una maggiore attenzione al rispetto ambientale e al risparmio energetico. Voglio poi sottolineare che in alcune metropoli, come Milano, c’è anche il gusto per la ricerca di tipologie di immobili che derivano dalla tradizione statunitense, penso ad esempio ai loft. Anche se, in linea generale, in Italia siamo abbastanza tradizionalisti per quanto riguarda la casa che, il più delle volte, è intesa secondo i canoni più classici. Per quanto riguarda, invece, la superficie degli immobili, l’aumento dei prezzi al metro quadro registrato negli ultimi anni, ha spostato l’attenzione dell’acquirente verso appartamenti medio-piccoli. Tuttavia, l’appartamento di grandi dimensioni conserva sempre la sua fascia di utenza medio-alta, sebbene marginale rispetto alla media». A Roma c’è necessità di un’espansione residenziale? «Sì, ed è dovuta al crescente numero di persone appartenenti a fasce sociali medio-basse e all’arrivo di flussi di migranti. È stimato che nella capitale ci sia un deficit di abitazioni che si attesta intorno a qualche decina di migliaia di vani. Le zone di possibile espansione, oltre a quelle previste dal nuovo piano regolatore approvato l’anno scorso, potrebbero essere le aree di ricucitura e di recupero di quelle vaste periferie intorno alla cintura romana».
Nella foto in apertura Marco Mezzaroma, amministratore unico delle società del gruppo Mezzaroma. Sopra, degli operai al lavoro. Nell’altra pagina, in alto, un esempio di impianto geotermico e, in basso, il rendering di Palazzo Brunelleschi realizzato dal gruppo Mezzaroma
Parlando di riqualificazione, quali sono le zone che meriterebbero un intervento? «Penso a tutto il quadrante Est e alcune aree del quadrante Sud di Roma, così come la zona nel quadrante dell’Aurelia che potrebbero essere protagoniste di nuove soluzioni edilizie. Credo sia, però, fondamentale pensare a nuove edificazioni residenziali che vadano incontro anche alle esigenze di un mercato rappresentato dalle fasce più deboli della società». In che modo? «Prendendo in considerazione alcune iniziative importanti, come stanno facendo molti comuni, anche sulla spinta data dal Piano casa voluto dal governo. In tal senso vanno anche tutte quelle iniziative di progettazione di ristrutturazione pubblica, il cosiddetto social housing».
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>un’ar c hitettur a più sobria Edifici razionali e organici contestulmente. Materiali di qualità ma non leziosi. Il progetto urbanistico deve sapersi adattare alle caratteristiche dell’ambiente in cui sorge. Rispettandone la personalità. Roberto Moscardi fa un quadro degli elementi fondamentali dell’architettura urbanistica di Carlo Gherardini
Sopra, l’architetto Roberto Moscardi e, a destra, l’architetto Alejandro Patricio Sala, “project leader” dello studio che ha sede sia a Venezia che a Trieste. In alto, complesso terziario a Porto Marghera www.architettomoscardi.it
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Tutto nasce con logica. E in architettura non è importante realizzare un’opera specifica, che si faccia riconoscere per la sua originalità, quanto, piuttosto, è fondamentale progettare una struttura che sia prima di tutto razionale. «Riducendo gli sprechi ed evitando aggregazioni anonime e/o sovrastrutturate». E l’attuale crisi probabilmente promuoverà questa concezione più sobria dell’architettura, perché la recessione ha fatto comprendere che è necessario investire soltanto in progetti di valore. In questo senso «le attuali difficoltà economiche lasceranno spazio a una diversa qualità architettonica». In particolare, «per realizzare un buon progetto urbanistico – afferma l’architetto Roberto Moscardi - ci si deve attenere soprattutto ai piani attuativi». Si ottiene così una visione particolareggiata, che definisce già la posizione dei fabbricati, delle strade, delle piazze, all’interno della visione più ampia del contesto.
PROGETTAZIONE URBANA
In alto, due immagini del complesso terziario a Venezia Mestre e, qui sopra, centro direzionale
Quali sono i parametri fondamentali che guidano un progetto urbanistico? «Ogni paese, naturalmente, ha tradizioni, sistemi, culture proprie, quindi i sistemi con cui intervenire variano a seconda delle caratteristiche peculiari del contesto. I parametri fondamentali da non perdere di vista sono la viabilità e i servizi. In questo senso, trovo assurdi i piccoli paesi satellite, situati fuori dal centro urbano. I paesi vanno organizzati. Gli ambiti sui quali si costruisce, i nuovi piani di lottizzazione, i piani di recupero devono essere sempre correlati con quello che è il modo di vivere in quell’ambiente». In che senso? «Naturalmente nell’intervento su un paese di montagna o su un paese che sorge sul mare ci sono delle differenze. Dovute anche al fatto che sicuramente il paese di montagna ha un carattere diverso, più chiuso. E così l’architettura deve evidentemente adattarsi a quelli che
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In alto, nuova piazza con residenze e a destra, complesso residenziale a Mogliano Veneto. Sotto, i collaboratori dello studio Moscardi
sono i temperamenti delle zone in cui interviene. Non possono essere fatti interventi forzati, ad esempio inserendo un aspetto, per quanto culturalmente interessante, tipico della cultura meridionale in un paese del nord. Si costruisce con una dimensione diversa da posto a posto, pensando a chi vive quei luoghi, alle sue abitudini, al suo stile di vita». Tra gli interventi di carattere urbanistico, quale ricorda in particolare? «Uno degli ultimi lavori, realizzato in una piccola città in
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provincia di Venezia. La sua evidente peculiarità è quella di essere un progetto di forte impatto dal punto di vista dell’immagine e nel contempo è attento alla qualità della vita delle persone. La piazza ha una dimensione adeguata, adatta ai tempi attuali: non abbiamo più bisogno delle bande, delle parate, quindi oggi non è più necessario fare delle piazze enormi. E i materiali degli edifici che stanno intorno alla piazza devono essere sobri. Fondamentale è anche il problema delle luci. Anche perché, in questi interventi di ricom-
PROGETTAZIONE URBANA
Dall’alto, Museo dell’Industria e del Lavoro MUSIL – Brescia. Miralles – Tagliabue EMBT, Massarente Architettura, Roberto Moscardi. Complesso Municipale, Roberto Moscardi, Alejandro Patricio Sala. Due rendering del Nuovo Palazzo del Cinema per la Biennale di Venezia, Klaus Kada; Massarente Architettura; Roberto Moscardi
posizione urbana, le luci non servono per illuminare, ma per far vedere. Le luci, gli scorci, gli angoli, la qualità dei materiali, questi sono gli elementi su cui puntare». Il vostro studio opera nell’espletamento di incarichi e nell’elaborazione di proposte e ricerche sia per l’ente pubblico che per organismi privati. Che differenza c’è nel lavorare per questi differenti tipi di committenza? «Lavorare per l’ente pubblico, significa avere a che fare con una committenza preparata, che dà indicazioni precise, è molto attenta al budget e permette di realizzare lavori anche molto interessanti. Invece nell’ambito del privato, salvo casi eccezionali, purtroppo oggi si è molto influenzati dal fattore economico. In certi casi il privato, colto e illuminato, sa dove arrivare e soprattutto che non ha senso giganteggiare perché alcune realizzazioni fin troppo stravaganti sono decontestualizzate. Con questo tipo di committente privato, che purtroppo rappresenta una minoranza, si riesce a portare avanti un dialogo». Come si sta adattando l’architettura ai cambiamenti economici mondiali? Quale futuro l’attende secondo voi? «Sono convinto che questa crisi si rivelerà vantaggiosa per l’architettura. Probabilmente si ridurranno gli sprechi, le disarmonie, le costruzioni enfatiche. Si è capito che vale la pena di investire su progetti realmente di valore. Opere di qualità non solo dal punto di vista dell’immagine, ma anche sotto l’aspetto dell’acustica, dell’ecosostenibilità. Penso che le attuali difficoltà economiche lasceranno spazio a una diversa peculiarità. Se fino adesso si è puntato più sulla quantità, magari in futuro si penserà di più alla qualità. E anche alla riqualificazione, che implica un risparmio non indifferente. Sarà necessario orientarsi sulla ristrutturazione dei vecchi edifici e sulla costruzione di strutture nuove, ma di miglior pregio».
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>sperimentar e dialo g ando Ogni progetto scaturisce sempre da una volontà narrativa. E «già nella fase del meta-progetto, volumi, superfici e materiali cominciano ad interagire, influenzando inevitabilmente la composizione architettonica». Perché declinare i materiali, secondo Francesco Steccanella, significa produrre vibrazioni di Laura Della Badia
Classe 1971, architetto, collabora con l’Università di Udine e ha uno studio a Portogruaro in cui, con diversi collaboratori, sviluppa progetti di architettura, architettura d’interni e di riqualificazione di spazi pubblici: Francesco Steccanella racconta il suo percorso professionale e un modo di fare architettura che parte sempre dai materiali e non rinuncia mai alla “narrazione”. Partiamo dal suo percorso professionale. Inevitabilmente avrà influenzato il suo modo di fare architettura. «Ho collaborato per 7 anni con l’Università di Venezia occupandomi di composizione architettonica; ora sono dottorando all’Università di Udine; collaboro ai corsi di progettazione e di tecnologia. Per me non esiste la composizione senza la tecnologia, ritengo indispensabile per un architetto non essere carente in nessuna delle due discipline. Io tendo a utilizzare i materiali in maniera molto agile: metalli, legno e materiali lapidei declinano inequivocabilmente la composizione volumetrica e spaziale delle mie composizioni. Non mi è possibile concepire un progetto per poi applicare una pelle qualunque; già nella fase
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del meta-progetto, volumi, superfici e materiali cominciano a interagire, definendo la composizione. Naturalmente cerco di approfondire molto la conoscenza dei materiali, per poterli impiegare correttamente e renderli espressivi». In quale dei progetti che ha realizzato, è più evidente il ruolo cardine dei materiali? «Un esempio è lo stand progettato quest’anno per l’azienda Il Casone (Marmomacc). Sono partito dal desiderio di sottrarre la pietra alla forza di gravità, renderla leggera; perciò ho pensato di ridurla in piccole lamine e comporre un tendaggio. Volevo spiegare che con la pietra si possono costruire convenzionali pareti divisorie ma anche partizioni leggere appese, tende che separano ma non chiudono, sonagli che funzionano con il semplice tocco di una mano. Qualcosa di simile, lo troviamo nel negozio Athos a Portogruaro: una pianta a C con un corridoio lungo trasformato in vetrina, e spazi modificati attraverso un rivestimento in legno: listelli sovrapposti a caso e con tagli di luce fra l’uno e l’altro, che si articolano in linee spezzate permeando tutti gli spazi. Il risultato è una sorta di “vibrazione”
SPERIMENTAZIONI
in apertura, Marmomacc, © G. De Sandre, Stand Il Casone – Verona 2009. Qui, in alto, negozio di abbigliamento Athos – Portogruaro (VE). Segue, esterno dell’Albergo Barbati Alto – Corfù, Grecia – 2009, progettato dall’architetto Francesco Steccanella © A.Parise, in foto www.francescosteccanella.it
CON LA PIETRA SI POSSONO CREARE USUALI PARETI DIVISORIE, MA ANCHE PARTIZIONI LEGGERE APPESE, TENDE CHE SEPARANO MA NON CHIUDONO, SONAGLI CHE FUNZIONANO CON IL SEMPLICE TOCCO DI UNA MANO
visiva: l’accostamento irregolare del legno deforma lo spazio de-gerarchizzandolo». Ricerca e creatività contraddistinguono quindi i suoi progetti. Anche quelli per ambiti più tradizionali, come il residenziali o lo spazi pubblico? «All’inizio di ogni lavoro, trascorro molto tempo sul sito, metabolizzo le sue istanze e coniugandole con le mie idee progettuali. Ogni progetto non può essere figlio solo di un’idea volumetrica, ma di un dialogo con il contesto: scaturisce sempre da una volontà “narrativa”. Piazza Matteotti,
a Concordia Sagittaria, era uno spazio vitale per il tessuto urbano e il mio intervento si è realizzato tramite mura che, se da un lato si innalzano a stringere la carreggiata, dall’altro fungono da contenitori per una tranquilla via cittadina, con spazi pedonali e giardini. L’argine stesso, realizzato in corten, vuole comunicare, con la sua matericità “corrosa”, una rivincita dell’acqua sulle arginature. Essere un giovane architetto, cosa significa oggi in Italia? e all’estero? «Il problema è che in Italia, spesso, soprattutto per i lavori pubblici, l’architetto viene scelto più per motivi politici, imprenditoriali, e meno sulla base di una valutazione delle reali capacità, salvo rare competizioni anonime. Ciò non significa che non si possa fare della buona architettura, ma è fondamentale stabilire un rapporto costruttivo con quei committenti “illuminati”. Le esperienze che ho avuto all’estero mi hanno posto di fronte a una committenza ha valutato i miei concept progettuali. È il caso dell’allestimento della Biblioteca Nazionale e del Museo Nazionale del Tchad, e di un progetto per un albergo a Corfù».
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>nuove identità r esidenziali La collina romana fa da piedistallo a un nuovo complesso residenziale di alto valore architettonico. In controtendenza agli anonimi blocchi condominiali «il mercato immobiliare dovrebbe puntare sempre alla qualità delle costruzioni». A ribadirlo, l’architetto Giorgio Zacutti di Adriana Zuccaro
La libertà creativa di un progettista passa sempre attraverso la lungimiranza della committenza. Arrendersi alla stereotipia dell’edilizia residenziale italiana, generalmente scarna e seriale, significa rinunciare alla qualità architettonica che, nonostante o in virtù dell’attuale congiuntura economica, è ciò che il mercato immobiliare richiede con più vigore. «Sebbene la costruzione di palazzine abitative abbia sempre indotto i committenti verso scelte mirate al guadagno piuttosto che al valore architettonico delle strutture, sembra che l’ovvietà del concetto “investire sulla qualità è sempre redditizio” stia facendo presa sui principali attori del settore». Il resoconto di Giorgio Zacutti, professionista esperto in architettura residen-
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ziale, prende spunto dalla recente direzione dei lavori per la costruzione di un complesso abitativo tra le colline di Roma. Commissionatogli da Misurina Tiberina Immobiliare e realizzato dall’azienda di costruzioni C.P.C., «il progetto del palazzo residenziale nasce dalle “ceneri” di una villa preesistente. Adempiendo le normative del testo unico – spiega l’architetto Zacutti – è stato possibile demolire l’edificio mantenendo però le linee strutturali portanti su cui erigere il nuovo. Con la collaborazione dello studio professionale Violante, è stato messo a punto un progetto che tiene conto non solo della qualità architettonica ma anche della valorizzazione del complesso residenziale contestualmente al verde parco che lo circonda». A dispetto del-
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In apertura, panoramica esterna del complesso residenziale in zona Cortina D’Ampezzo (RM) di cui le immagini seguenti: altro prospetto e un interno in fase di completamento. Il progetto è stato realizzato dall’architetto Giorgio Zacutti e Nicola Violante, da destra, rispettivamente in foto
L’EDILIZIA CONDOMINIALE INCITA I COMMITTENTI VERSO I SOLI GUADAGNI MA PER TRACCIARE LA STRADA GIUSTA BISOGNA COMPRENDERE CHE “INVESTIRE SULLA QUALITÀ È SEMPRE REDDITIZIO” l’ampia cubatura a disposizione e della possibilità di utilizzare al massimo ogni spazio abitabile «abbiamo optato per la presentazione di un progetto d’elite: sette appartamenti di oltre 200 metri quadrati l’uno, grandissimi terrazzi, quattro posti auto per abitazione e tagli spaziali diversificati. Sulla base di una strategia
prospettica di chiusure e aperture, con il prerogativo utilizzo di materiali di pregio, il complesso residenziale è costituito su un fronte da ampie vetrate e dall’altro da pannelli marmorei». Senza eccedere in architetture residenziali di lusso estremo, per l’architetto Zacutti «basterebbe incoraggiare tutte committenze verso investimenti poco più dispendiosi non solo per creare edifici abitativi di qualità ma anche per liberare il territorio da residenze obsolete e inadeguate». Se la corsa al guadagno immobiliare cambiasse direzione verso concreti parametri qualitativi «sarebbe finalmente possibile conferire valore architettonico anche a tutte quelle strutture condominiali che ormai affollano i nostri storici panorami urbani».
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>oltr e l’ef fimer o contempor aneo Travertino, mattone, intonaci tradizionali. I materiali dell’Urbe richiamano un passato da “reinvestire” in scelte estetiche contemporanee. Come? A spiegare l’eclettismo della professione Marco Fiorentino e Olimpia Riccardi di Roma di Adriana Zuccaro
Dalla spazialità abitativa a quella urbana, dall’interior design alla sperimentazione fin oltre i confini del fashion. L’arte architettonica, se pure coniugata a baluardi di una tradizione forte e talvolta invalicabile, esprime impulsi costruttivi le cui regole rispondono all’autenticità della coscienza creativa che ideandola, la concepisce. «In assoluta e consapevole assenza di indizi di “specializzazione”, l’architettura si realizza in progetti spesso inclini al recupero di elementi tradizionali, reinvestiti però in un’ottica di contemporaneità pensata
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per un’arte a misura d’uomo, esigente e affascinante». Quel che colpisce maggiormente, avvicinandosi ai progetti dello studio degli architetti Marco Fiorentino e Olimpia Riccardi, è infatti la mancata tendenza alla specificità settoriale, «atteggiamento di mestiere che non comporta necessariamente una visione “tuttologa” del proprio lavoro – chiarisce l’architetto Fiorentino –, ma che proprio a partire dalla specificità di questo, spinge a misurarsi con le diverse scale di intervento in un’ottica progettuale sostanzialmente ludica». A riprova del-
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Qui, particolari di ambienti abitativi realizzati dallo studio degli architetti Marco Fiorentino e Olimpia Riccardi (in foto), in Roma www.studioarchitetturafr.com
l’oculato eclettismo professionale dello studio Fiorentino e Riccardi, il campo della loro attività spazia dall’urbano al design, dall’arredo al fashion. «Dal punto di vista della professionalità, è naturale che le regole del gioco vengano stilisticamente autoimposte – afferma l’architetto Riccardi –, perché proprio a partire dall’assunzione di responsabilità, in quanto operatori-architetti, siamo chiamati a confrontarci con il risultato finale». Analizzando più da vicino le loro realizzazioni appare evidente la volontà di valorizzare, reinserendoli
in una visione estetica contemporanea, elementi compositivi derivati dalla tradizione architettonica dell’ambito territoriale in cui prevalentemente si svolge la loro attività, nonché Roma. Con tale intento «materiali tipici dell’Urbe, presenti nell’architettura della città fino alle soglie del Ventesimo secolo, come il travertino, il mattone e gli intonaci tradizionali coniugati ai segni tipici di quell’architettura, la colonna, l’arco a tutto sesto, il tetto a falde, si pongono a riaffermare il desiderio della continuità storica anche attraverso il controllo personale
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LA SPECIFICITÀ INSITA NELL’ARCHITETTURA, SPINGE A MISURARSI CON DIVERSE SCALE DI INTERVENTO IN UN’OTTICA PROGETTUALE SOSTANZIALMENTE LUDICA
In queste pagine, immagini di interior design e prospetti esterni di costruzioni abitative realizzate dallo studio di architettura Fiorentini e Riccardi
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della costruzione», spiega Fiorentino. L’assunzione degli incarichi professionali ha di conseguenza comportato, nella maggioranza dei casi, anche la direzione dei lavori, intesa questa non come mera assunzione di responsabilità amministrativa ma, soprattutto, come frequentazione dei cantieri con il preciso scopo di non delegare all’impresa esecutrice la soluzione delle problematiche sempre presenti nella fase di realizzazione del progetto. «Analogo atteggiamento di valoriz-
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SPAZI NON SOLO DA ABITARE MA DA VIVERE Dettagli costruttivi che non passano inosservati. Scelte progettuali che risaltano la coniugazione del “mattone” con gli spazi naturali. Ambienti curati in nome di un’arte da vivere in tranquilla solitudine o in momenti di collettiva convivialità. Sono le caratteristiche degli immobili progettati, realizzati e posti in vendita dallo studio di architettura Fiorentini e Riccardi. Borghi immersi in splendidi parchi naturali si arricchiscono di ambienti di straordinario comfort e design non solo interno. Vicino a luoghi di interesse culturale, le edificazioni dirette dallo studio Fiorentini Riccardi, una volta acquisite e vissute, si trasformano in fiabesche “casa dolce casa”
zazione di materiali e preesistenze è assunto nei confronti della progettazione di alcune residenze nell’isola greca di Paxos dove la materia prima è rappresentata dalla pietra locale; nella realizzazione dello show room Lamborghini – afferma Riccardi –, dove materiale della progettazione divengono le bielle e gli ingranaggi meccanici della nota casa automobilistica realizzati fianco a fianco nel laboratorio del fabbro artigiano; infine, nella realizzazione di modelli di calzature femminili di lusso, calzature gioiello la cui unicità è affidata alla sensibilità dell’architetto e al sano empirismo dell’artigiano». Un concetto di progettazione architettonica in cui gli architetti artigiani quindi, operano in contesti relativamente isolati, per scelta, dagli spazi omologanti dell’effimero contemporaneo.
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>geometrie di spazi e volumi Lo spazio crea emozioni. Ed è estremamente legato alla percezione sensoriale. Affinché un ambiente susciti una sensazione di benessere in chi lo vive, il progetto deve sapere coordinare armoniosamente linee, materiali, suoni, luci e spazi. Perché, come afferma Paolo Talso, «l’architettura è un gioco tra volumi» di Eugenia Campo di Costa
L’uomo non è svincolato dallo spazio che vive. La sua percezione dell’ambiente non si limita alla componente visiva e sensoriale. Va oltre, coinvolge la sfera emotiva e l’interiorità più profonda, fortemente connessa con la struttura originaria dell’esistenza. Ecco perché alcuni ambienti risultano oppressivi o angoscianti e altri infondono invece una sensazione di benessere. Un benessere inteso come “fruizione emotiva dello spazio” e ottenuto attraverso «una sapiente calibrazione di volumi, luce e materiali». Progettare lo spazio significa
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creare percezioni, emozioni, costruire benessere psicofisico, coordinando elementi materiali e immateriali che l’architetto, come un buon regista, deve saper far dialogare in modo armonico ed equilibrato. «Un progetto è fatto di tanti punti – spiega l’architetto Paolo Talso, docente del Laboratorio di Costruzione dell’Architettura 2 Campus Leonardo -: conoscenza, scienza, coscienza, congiunti tra loro da linee. Sono le linee dell’infinito che determinano la luce del progetto stesso». Quali sono gli elementi che entrano in gioco nel tra-
AMBIENTI DA VIVERE
Nella foto grande, Skytower a Milano: intervento di sopraelevazione e recupero del sottotetto. A destra, dall’alto, giochi di pavimentazione con acqua nella terrazza, vista degli interni, due immagini di loft in Milano. Nella pagina successiva, in alto sala fitness e passerella distributiva della Palestra Downtown di Milano, sotto palazzina di uffici di Industria chimica a Bergamo. Architetto Paolo Talso (nella foto), www.paolotalso.com.
smettere una sensazione di benessere a chi vive un determinato spazio? «Trovo che l’elemento fondamentale per ottenere un giusto equilibrio dello spazio sia il rapporto fra il pieno e il vuoto. Ogni cultura ha le sue tendenze. In Occidente siamo abituati a riempire i cassetti della scrivania, ad avere mensole e tavoli colmi di oggetti che ci danno la sicurezza di avere a portata di mano ciò di cui potremmo aver bisogno. Viceversa la cultura orientale è caratterizzata da ambienti minimalisti in cui si vede solo
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AMBIENTI DA VIVERE
«IL VERO BENESSERE STA NELLA DIVISIONE DELLO SPAZIO, NELL’EQUILIBRIO TRA PIENI E VUOTI, MATERIALI, LUCI E SUONI»
ciò che è necessario, e si lascia molto spazio al vuoto. Noi occidentali siamo abituati a riempire il vuoto, ma ci siamo avvicinati a culture differenti adottando a volte uno stile che dà una sensazione di pulizia e razionalità ma crea anche un’atmosfera fredda e apatica. Il segreto per ottenere la sensazione di benessere che cerchiamo è il giusto equilibrio degli spazi». Che tipo di rapporto si instaura tra i cinque sensi e il progetto architettonico? «Il gioco dei sensi è strettamente legato alla realizzazione del progetto. Ovviamente il primo pensiero va alla vista e all’importanza dell’immagine che restituirà il progetto, ma in architettura anche l’olfatto è importante. Ad esempio l’odore del legno può suscitare sensazioni ed emozioni. Quindi un parquet in legno naturale può essere un valore aggiunto. Rispetto all’udito, non sempre la perfetta insonorizzazione è sinonimo di benessere. A volte, quando ci si sposta da un ambiente rumoroso a uno molto silenzioso, il forte silenzio paradossalmente può diventare ronzio, rumore». I materiali possono contribuire a dare benessere? «Sono importantissimi. Ho voluto chiamare lo studio “Laboratorio di Architettura” proprio perché nella mia filosofia è cruciale avere a disposizione i materiali, vederli e toccarli. Amo sperimentare in studio, cercare di conoscerli sia da un punto di vista tecnologico che emozionale. In genere preferisco i materiali naturali, anche se spesso oggi vengono sfruttati dei materiali compositi che alla vista assomigliano al legno, al ferro, al vetro, ma di fatto non restituiscono le stesse vibrazioni emotive». Lei ha progettato abitazioni private, uffici, spazi commerciali, centri sportivi. Come cambia la concezione dello spazio che trasmette benessere se si lavora a un’abitazione privata o a un ufficio? «Non esiste differenza tra un’abitazione privata, un ufficio o un centro benessere. Il vero benessere sta nella divisione dello spazio, nell’equilibrio tra pieni e vuoti, materiali, luci, suoni. In un progetto architettonico quello che rimane fondamentale è percepire le peculiarità dei committenti. L’architetto deve conoscere l’utente finale e immedesimarsi. La casa firmata dell’architetto che riproduce solo se stesso attraverso il proprio stile non può creare benessere al committente».
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di Lucrezia Gennari
Una risposta celere all’emergenza post sisma. Gli otto edifici residenziali antisismici nelle località di Bazzano e di Paganica 2 dell’Aquila sono stati costruiti al fine di ottenere massima durabilità, facile manutenzione e soprattutto un buon comfort abitativo. Come spiegano gli architetti Renato Guidi e Roberto Santori
>l’Aquila rinas ce
L’Aquila risorge. E lo fa attraverso la ricostruzione di edifici residenziali antisismici. A tempi record. In meno di 90 giorni sono stati realizzati otto edifici composti in coppie contrapposte nelle località di Bazzano e Paganica 2. Tali fabbricati, creati su piastre indipendenti antisismiche, fornite dal Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sono contraddistinti da alta qualità e impiantistica ad elevato risparmio energetico e sono stati progettati e costruiti in modo da ottenerne massima durabilità, facile manutenzione e soprattutto un buon comfort abitativo. A curarne la progettazione architettonica preliminare, definitiva ed esecutiva, la società Bioedil Progetti. Realizzati dall’associazione temporanea tra le imprese Eschilo 1, capogruppo, e Cogeim, mandataria, di grande esperienza nel settore, gli edifici ormai fanno parte dello sky-line dell’Aquila. «Ognuno di questi edifici – spiega l’architetto Renato Guidi della Bioedil Progetti – è composto di tre piani, due corpi scala, ventidue al-
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loggi e ha garantito una nuova abitazione a circa 80 persone». Tutte le scelte progettuali sono state effettuate al fine di garantire brevi tempi di realizzazione, flessibilità dei tagli degli alloggi, qualità architettonica, alto controllo d’impatto ambientale, risparmio energetico. «Le scelte dei sistemi costruttivi – interviene l’architetto Roberto Santori - si sono subito orientate verso sistemi prefiniti o facilmente assemblabili, come una struttura composta da pilastri, travi in ferro e solai in lamiera gregata o tamponature, infissi e pacchetti murari realizzati con una produzione industriale il più possibile finita. Dopo l’individuazione dei materiali si è proceduto a una progettazione architettonica che, dando una modularità di 6,00 x 6,00 ml, ha consentito di aggregare sei alloggi al piano terra e otto alloggi ai due piani superiori. Nella maglia sono stati anche inseriti cavedi (0,70 x 1,10 ml) alternati a garanzia di un pre-assemblaggio impiantistico a servizio di tutti i bagni e tutte le cucine opportunamente posizionate in asse e contrapposte». I bagni
AMBIENTI DA VIVERE Nella pagina accanto, in alto la pianta tipo degli edifici realizzati in coppie contrapposte nelle località di Bazzano e Paganica 2. Sotto, l’architetto Roberto Santori e, in basso, l’architetto Renato Guidi. Al centro in alto, foto esterna della vetrata del corpo scale, sotto veduta generale dell’intervento in località Paganica. A sinistra vista interna dell’ingresso agli appartamenti e vista dei balconi frangisole www.bioedilprogetti.it info@bioedilprogetti.it
e le cucine sono stati progettati per tutti gli alloggi in maniera identica. L’adozione di questa scelta costruttiva ha consentito di ottenere una grande flessibilità alloggiativa e tempistichedi realizzazione brevi. «La struttura – continua l’architetto Guidi -, tutta montata con operazioni a secco tranne nel getto di completamento sulla lamiera gregata del solaio, è stata coibentata per un isolamento termico e acustico con una tamponatura composta verso il lato esterno di pannelli “Isopan isoparete piano 1000” di 10 cm di spessore, coibentazione, in lana di roccia spessore 5 cm, intercapedine e, nel lato interno, pannelli di tipo Fiberock di spessore 1,28 cm. A completare le facciate sono stati posti in asse verticale infissi in alluminio elettrocolorato. Tale loro posizionamento ha permesso di assemblarli per i tre piani, in officina». Gli impianti termici centralizzati assicurano, nel periodo invernale, una temperatura di 20° C, mentre i pannelli solari e i pannelli fotovoltaici sono stati pensati e collocati in modo da consentire
il più facile montaggio e la più corretta manutenzione. La facciata degli edifici, con i suoi arretramenti e partiture finestrate, crea tre blocchi contraddistinti. «Le due grandi vetrate che sottolineano maggiormente la differenza tra i blocchi – conclude l’architetto Santori - hanno la funzione di illuminare i percorsi verticali di collegamento ai piani e all’interno creano una zona “belvedere” protetta di grande suggestione ambientale e paesaggistica. Tale movimento di piani nelle facciate ha permesso di tinteggiare diversamente i volumi. La realizzazione di terrazze che svolgono anche una funzione di frangisole d’estate e di protezione dagli agenti atmosferici d’inverno sono un richiamo a una edilizia tipica del paesaggio. Inoltre, il particolare andamento della finitura della copertura, formato da travi lamellari e pannelli in legno, assicura una corretta localizzazione dei captatori solari garantendo oltre alla flessibilità nel loro posizionamento anche un ostacolo visivo per non compromettere gli archetipi scelti».
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L’architetto Paolo Venezian ha il proprio studio a Mirano (VE). Si occupa di progettazione nell’ambito dell’edilizia residenziale, commerciale, direzionale, artigianale e turistico-ricettiva, principalmente nell’area del Triveneto venezian_paolo@libero.it
di Eugenia Campo di Costa
Un’ex area industriale si trasforma in moderni appartamenti. Coniugando gli elementi innovativi con quelli preesistenti. Nonostante rimangano facilmente distinguibili tra loro. Perché, come afferma l’architetto Paolo Venezian, è importante che «i nuovi fabbricati si armonizzino con quelli recuperati e con il paesaggio circostante»
>tr a pas s at o e moder nit à
AMBIENTI DA VIVERE
Recuperare un’area industriale dimessa, nella prima periferia di un centro urbano dell’entroterra veneziano. L’intervento, guidato dall’architetto Paolo Venezian, è avvenuto su uno scopificio sorto agli inizi del secolo scorso e ampliatosi progressivamente. «Una volta persa l’originaria vocazione produttiva – afferma l’architetto Venezian -, l’area, di cospicue dimensioni e localizzata in posizione strategica, ben servita dalla rete infrastrutturale, è rimasta per molti anni inutilizzata, finché finalmente è stato possibile riconvertirla a fini abitativi». Il progetto, sviluppato con la Soprintendenza Archeologica per il Veneto, si è posto l’obiettivo di preservare e recuperare tutti i manufatti di maggior pregio architettonico, che nel tempo erano divenuti elementi caratterizzanti e identitari del paesaggio urbano. «Si è proceduto alla demolizione delle parti superfetative o prive di valore tipologico-formale, sostituendole con edifici di nuova costruzione. La porzione centrale del corpo di fabbrica posto lungo la viabilità di accesso dell’insediamento, che risultava avulsa e non amalgamata con le restanti parti, è stata sostituita da un nuovo manufatto con struttura metallica, che riprende
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formalmente l’iterazione delle coperture a doppia falda, tipica dei fronti esistenti, e che, sospeso su snelle colonne, funge da portale d’ingresso per l’intero comparto, divenendone uno dei nuovi elementi identificativi». Si è cercato di coniugare la modernità con le preesistenze, senza tuttavia cadere nel mimetismo: «I nuovi fabbricati si amalgamano e dialogano con quelli recuperati - conclude l’architetto Venezian -, ma risultano facilmente distinguibili da questi ultimi, esplicitando il principio progettuale utilizzato, fondato sul rispetto per il passato e le sue testimonianze, ma nel contempo sul rifiuto della mera riproposizione di un linguaggio consolidato».
>il made in Italy delle costr uzioni si a pr e allo scambio globale Sostenibilità e innovazione. Nei materiali così come nelle tecnologie del costruire. Sono le linee guida della terza edizione di Made Expo, la manifestazione internazionale dedicata a edilizia e architettura. Giulio Cesare Alberghini, amministratore delegato di Made eventi, ne illustra contenuti e indirizzi di Francesca Druidi
«Oggi si registra una nuova cultura del progettare, caratterizzata da una ritrovata attenzione per la sostenibilità e l’innovazione, tangibile sul mercato sia sul fronte dei consumatori finali, che per quanto concerne i progettisti, le imprese e i committenti». Giulio Cesare Alberghini, amministratore delegato di Made eventi, società organizzatrice del Made Expo, in programma dal 3 al 6 febbraio 2010 a Fiera Milano Rho, delinea lo scenario in cui attualmente si muove il mondo delle costruzioni, presente alla terza edizione della manifestazione con un’offerta a 360 gradi, che comprende la filiera dell’edilizia, dell’architettura e del design. «L’evento rappresenta lo specchio di quanto avviene oggi nel mercato, lasciando emergere le tendenze e i fermenti che riguardano i modi di costruire,
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le tecniche e l’impiego dei materiali». Il Made Expo diventa, inoltre, un’importante occasione di confronto e di discussione sulle prospettive di ripresa dell’economia planetaria e del ruolo che, in Europa e in Italia, potrebbero giocare le aziende e gli operatori del settore edile e immobiliare. L’edizione 2010 di Made Expo verterà in particolare sui temi della sostenibilità ambientale e dell’innovazione. Come si declinano questi elementi nell’ambito della filiera delle costruzioni? «Oggi materiali e tecniche innovative ci permettono di cambiare l’approccio al modo di costruire nei confronti dei vari tipi di territorio e di situazione. Che sia sismica, come ci ricorda il terremoto in Abruzzo, oppure che riguardi la “fame” di energia, tema domi-
APPUNTAMENTI
Sotto, Giulio Cesare Alberghini, amministratore delegato di Made eventi, società organizzatrice del Made Expo, l’evento. Nelle immagini, alcune momenti dell’edizione 2009
nante nei prossimi anni. Questi strumenti ci consentono di intervenire in maniera adeguata e innovativa. Un dato sicuro è l’esponenziale crescita della ricerca in direzione della sostenibilità e dell’innovazione». Al di là dei proclami, crede che in Italia siano state gettate le basi per una vera cultura sostenibile? «Ripeto, sarà l’energia il vero motore in tutti i processi costruttivi e progettuali nei prossimi anni. Per quanto riguarda l’Italia, sono sostanzialmente soddisfatto perché la sostenibilità è un’esigenza che nasce dalla base, dal mercato, piuttosto che da quanti offrono soluzioni per il costruire. È, quindi, soprattutto la richiesta dell’utenza a portare le aziende, i progettisti, gli studiosi e gli scienziati verso questo orientamento. Si evidenzia allo stato attuale una sorta di convergenza
IL LEITMOTIV DELLA MANIFESTAZIONE È L’INTERNAZIONALITÀ. L’OBIETTIVO È FARE DI QUESTO EVENTO UNA GRANDE PIATTAFORMA INTERNAZIONALE DI TIPO FIERISTICO VOTATA AL MERCATO GLOBALE naturale. È, inoltre, piuttosto recente il decreto legislativo del governo che riduce i valori limite di trasmittanza termica richiesti per usufruire degli incentivi fiscali del 55% nel 2010, a conferma di una maggiore attenzione anche da parte delle istituzioni». In che modo Made Expo riesce a cogliere le sfide e le istanze che gravitano intorno all’architettura, all’edilizia e al design?
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«Fin dal suo esordio, l’evento ha saputo alimentare un contatto estremamente ravvicinato e diretto con il mondo delle imprese e della ricerca. Se, da un lato, sono stati sviluppati rapporti proficui con le università italiane, dall’altro, sono state portate avanti con le aziende tematiche e confronti, sfociati in incontri e appuntamenti durante le giornate di svolgimento della manifestazione. Si è creato, di conseguenza, una sorta di feedback, di risposta alle diverse istanze emerse. Sono 186 i convegni di Made Expo 2010. E questo numero non rende solo l’idea del nostro impegno, ma rivela soprattutto la specificità che caratterizza ogni verticalità del settore, che sia la pavimentazione, l’isolamento oppure il design. Esistono verticalità tali da imporre ragionamenti critici per raggiungere perfor-
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mance migliorative rispetto alle edizioni precedenti». Può tirare un breve bilancio del road show promozionale che ha anticipato l’edizione 2010? «I road show sono fonte di grande soddisfazione non solo per la valenza della manifestazione, ma soprattutto perché la tecnologia, da una parte, e il design e le performance, dall’altra, che l’Italia è capace di realizzare, sono riconosciuti a livello internazionale. Il made in Italy, quindi, non è soltanto uno slogan, ma un’opportunità vera di lavoro e di riconquista dei mercati, non solo quelli del vecchio Continente, ma anche dei paesi dell’area del Mediterraneo e della fascia nord-africana. La costante innovazione è una strada intrapresa da molte aziende presenti in fiera, oltre a identificare una chiave di lettura importante per af-
APPUNTAMENTI
Nella pagina a fianco, in basso, alcune immagini del progetto primo classificato del concorso InstantHouse, promosso da FederlegnoArredo in collaborazione con la Regione Lombardia e il Politecnico di Milano, in mostra a Made Expo
IL MADE EXPO RAPPRESENTA LO SPECCHIO DI QUANTO AVVIENE OGGI NEL MERCATO, LASCIANDO EMERGERE LE TENDENZE CHE RIGUARDANO I MODI DI COSTRUIRE, LE TECNICHE E L’IMPIEGO DEI MATERIALI. LA MANIFESTAZIONE HA SAPUTO ALIMENTARE UN CONTATTO ESTREMAMENTE RAVVICINATO CON IL MONDO DELLE IMPRESE E DELLA RICERCA
frontare le emergenze, come la crisi economica, anche nel prossimo futuro». Quali sono i paesi stranieri maggiormente rappresentati all’interno della manifestazione? «La Germania è il paese più rappresentato, seguito da Svizzera, Francia e Spagna, nazioni caratterizzati dalla fortissima presenza di aziende capaci di produrre export considerevoli». Quale esperienza i paesi esteri possono apportare all’Italia? E cosa noi possiamo insegnare? «Il modello italiano è quasi unico in virtù della capacità di coniugare la piacevolezza della forma e del design con un efficace impiego di tecnologie e materiali. Può arrivare a definirsi un marchio di fabbrica. Certo anche la Germania, soprattutto sul versante tecnologico, è
in grado di trovare grandi soluzioni. Ma ritengo che questo tipo di confronti non possa che giovare al settore, contribuendo ad alimentare e arricchire i mercati globali. Come è facile intuire, non esiste più come punto di riferimento una dimensione esclusivamente nazionale». Quali sono gli obiettivi futuri? «Il leitmotiv che ha accompagnato fin dall’inizio la manifestazione è l’internazionalità. L’obiettivo è fare di questo evento una grande piattaforma internazionale di tipo fieristico votata al mercato globale. Anche perché lo scambio con culture e modalità progettuali diverse porta vantaggi anche al mondo della produzione locale. L’attenzione ai mercati internazionali resta la nostra mission prioritaria per il futuro».
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>TRA ANTICO E MODERNO Da mercoledì 24 a sabato 27 marzo 2010 presso il quartiere fieristico di Ferrara si svolgerà la XVII edizione di Restauro – Salone dell’arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali. Una manifestazione importante, per numero di espositori e attenzione al territorio di Simona Cantelmi
Un evento che promuove le eccellenze del Made in Italy nel campo del restauro, dalle nuove tecnologie al recupero di elementi dell’architettura urbana e alla conservazione del patrimonio artistico e monumentale. Un punto di riferimento per gli operatori del settore, poiché saranno presenti circa trecento espositori, tra produttori di materiali, allestimenti museali, centri di restauro, università ed enti pubblici; si realizzeranno convegni internazionali e più di cento incontri tecnici. Il Salone è patrocinato dalla
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presidenza del Consiglio dei ministri e dal ministero degli Affari esteri e si svolge in collaborazione con l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna e il ministero per i Beni e le attività culturali. Proprio quest’ultimo rappresenta il maggior promotore di restauri in Italia. «Il Mibac riveste il ruolo di principale espositore e punto di riferimento per tutta la fiera» afferma Carlo Amadori di Acropoli, ente che ha organizzato l’evento. «Mibac non significa soltanto presenza dei suoi principali istituti, come l’Opificio
delle pietre dure o l’Istituto centrale del restauro, ma anche soprintendenze e centri che si riconoscono nel ministero come presenza attiva nel processo di tutela del patrimonio». Il Salone è storicamente la manifestazione fieristica sul restauro, come sostiene l’architetto Carla Di Francesco, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna. «È stata la prima, ed è certamente quella più in vista fra tutti quelli che si interessano di restauro, di conservazione e di beni culturali in generale. Ed è la più fre-
RESTAURO Il Salone di Ferrara
In alto a sinistra, l’architetto Carla Di Francesco, direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia Romagna. Nelle altre foto, restauratori al lavoro
quentata dagli espositori. Per questo è anche un punto di forza del territorio ferrarese, a cui noi vogliamo dare impulso». Una novità importante dell’edizione di quest’anno è proprio la più stretta collaborazione fra ministero e strutture territoriali, come il Comune e la Provincia di Ferrara, per far sì che le attività presenti in città in quei giorni siano partecipi di ciò che avviene al Salone: «Ad esempio organizzeremo visite guidate», prosegue Di Francesco «non solo nei musei, ma anche nei cantieri ferraresi per ad-
detti ai lavori. La partecipazione della città al Salone è una novità che quest’anno potrà coinvolgere molto di più il pubblico». Saranno rappresentate tutte le tematiche del restauro e dell’intervento sui beni culturali. «Solo per citare alcuni settori, ci sarà la sezione riguardante l’editoria, davvero specialistica, quella di museologia e museotecnica, più legata ai temi della conservazione e della valorizzazione; poi l’archivistica, le biblioteche, insomma, tutti i livelli dei beni culturali. Il Ministero sarà presente con
LA PARTECIPAZIONE DELLA CITTÀ AL SALONE È UNA NOVITÀ CHE QUEST’ANNO POTRÀ COINVOLGERE MOLTO DI PIÙ IL PUBBLICO
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Qui sopra, Carlo Amadori di Acropoli, ente organizzativo l’evento
CON LE NUOVE TECNOLOGIE C’È UN LEGAME INDISPENSABILE, NECESSARIO AI FINI DELLE INDAGINI SUI MATERIALI, SUI DEGRADI DEI BENI STORICO-ARTISTICI
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una sua struttura molto ampia». Interverranno al Salone i restauratori e le ditte che producono i materiali per il restauro di diversi supporti, inclusi i cartacei: fra gli stand degli istituti centrali di restauro ci sarà quello della patologia del libro. Il Salone è anche una vetrina importante per mostrare i progetti di restauro in corso, come spiega Carlo Amadori. «A Restauro verranno presentati due progetti davvero di rilievo: il restauro del complesso delle mura difensive di Malta e quello dalla Torre dell’Orologio a Istanbul. In en-
trambi i casi la professionalità italiana ha svolto un ruolo di primo piano, poiché, per quanto riguarda il primo, fondamentale è stato il lavoro del Diaprem dell’Università di Ferrara, mentre per il secondo progetto ed esecuzione sono appannaggio di aziende italiane, soprattutto emiliano-romagnole». Un evento di questa portata è una possibilità importantissima di scambio di informazioni tecniche. «È un’occasione di interazione fra i diversi mondi e le persone che li compongono» continua Carla di
RESTAURO Il Salone di Ferrara
Francesco. «Ad esempio può capitare che un certo operatore del settore che lavora a Venezia non conosca una ditta che invece si trova a Palermo. Si tratta di un’occasione preziosa, in cui la circolarità delle informazioni è garantita». I numerosi convegni e incontri tecnici tratteranno diversi argomenti, ma uno spazio rilevante sarà riservato ai temi caldi del momento, come quello della difesa dei beni culturali da terremoti o catastrofi naturali. Nel campo dei saloni del restauro sicuramente quello di Ferrara è il più
importante. «La politica del nostro Ministero» prosegue Di Francesco «è stata uniforme, sia nei confronti di Ferrara sia di altre fiere che nel frattempo si sono presentate, come quella di Venezia o di Firenze. Esistono anche realtà di rilievo, che però devono essere aiutate a crescere. Resta il fatto che il Salone di Ferrara è il primo». Le nuove tecnologie e il web risultano essere indispensabili anche nel campo del restauro e dei beni culturali. «C’è un legame indispensabile, necessario ai fini delle indagini sui materiali, sui
degradi dei beni storico-artistici. Un legame strettissimo di tipo strumentale. Le nuove tecnologie e l’informatica sono sostegno a tutte le attività. Poi col web si possono diffondere tutte le conoscenze che di volta in volta si acquisiscono. Anche questo settore è molto presente al Salone. È vero che il nostro mondo si è trasformato con questi sostegni, però aiutano. Non sostituiscono assolutamente il lavoro dei professionisti, c’è sempre il restauratore che si mette lì e lavora con le mani e l’intelligenza».
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>UN PER CORSO D ELLA MEMORI A
Un punto di incontro tra il restauro archeologico e il risanamento conservativo. L’architetto Matteo Cuppoletti illustra il processo che grazie alla sinergia avviata con Costruzioni Edilferro di Porto Viro ha ridato splendore agli spazi abbandonati dell’antica chiesa di San Martino in Sottomarina di Chioggia. Tra stati cromatici e materia, un percorso teso a valorizzare un importante patrimonio artistico e culturale per giungere a una restituzione rigorosa e pulita del complesso architettonico di Renata Gualtieri
Non è frequente imbattersi in un restauro interessante e stimolante quanto quello dell’ex chiesa di San Martino di Chioggia. Nel caso di sistemazioni architettonico-paesaggistiche, il riferimento operativo è quello della prassi consolidata del restauro archeologico, dove l’obiettivo è quello di conservare l’aspetto e la materia del costruito, preservandone il più possibile l’autenticità fisica e morfologica. «Niente deve essere aggiunto all’esistente a meno che non sia strettamente funzionale alla sua conservazione» spiega l’architetto
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Matteo Cuppoletti. Le scelte sviluppate dal progettista per l’ex chiesa di San Martino, in armonia con le indicazioni della Soprintendenza di Venezia, si sono mosse in tale direzione, restituendo alla città di Chioggia un edificio di grande interesse. «Ci siamo persuasi - spiega Cuppoletti del fatto che la linea progettuale più corretta e adeguata da intraprendere per il recupero funzionale di questo spazio andasse ricercata in un giusto equilibrio tra il restauro di tipo archeologico e il classico risanamento conservativo. Si è quindi attuata una
RESTAURO Chiesa di San Martino
Immagini del restauro dell’anitca chiesa di San Martino in Sottomarina di Chioggia. A sinistra il monumento in stato di pre-restauro. Un attento studio illuminotecnico sottolinea il contrasto interno/esterno conferendo un fascino ancor più suggestivo alle antiche mura
NIENTE DEVE ESSERE AGGIUNTO ALL’ESISTENTE A MENO CHE NON SIA STRETTAMENTE FUNZIONALE ALLA SUA CONSERVAZIONE. LE SCELTE SVILUPPATE DAL PROGETTISTA DELLA CHIESA DI SAN MARTINO SI SONO MOSSE IN TALE DIREZIONE, RESTITUENDO ALLA CITTÀ DI CHIOGGIA UN EDIFICIO DI GRANDE INTERESSE
organica serie di interventi mirati a valorizzare questo emblematico contesto architettonico privo di copertura, nel rispetto del suo significato storico culturale per poter recuperare uno spazio così significativo e importante non solo per la Parrocchia di San Martino ma anche per tutta la comunità di Sottomarina». L’obiettivo dell’intervento è stato quello di valorizzare dal punto di vista prestazionale e funzionale questo suggestivo “spazio” affinché potesse accogliere oltre alle tradizionali attività oratoriali e parrocchiali anche altre polivalenti
attività artistico-culturali. Considerando la necessità di conservare tutti i lacerti di rivestimento parietale in marmorino di pregiata fattura e importanti per la definizione dei caratteri storico-artistici dell’intero manufatto, si è intrapreso il lungo intervento di restauro con l’obiettivo di consentire, talvolta anche in modo evocativo, una corretta lettura di quella che era la “pelle” del monumento al tempo in cui veniva utilizato. La scelta del tipo di pavimentazione da realizzarsi all’interno dell’antica chiesa di San Martino ha condotto
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RESTAURO Chiesa di San RESTAURO Martino
Immagine della nuova sede dello studio dell'architetto Matteo Cuppoletti (Chioggia). studio@cuppoletti.it Restauro realizzato con la Costruzioni Edilferro di Porto Viro (RO) www.costruzioniedilferro.it
alla realizzazione di un elemento “pulito e neutro” in calcestruzzo lisciato con finitura al quarzo, questo “tappeto nuovo” staccato dalle possenti mura perimetrali da una fascia di rispetto di ciotoli bianchi è stato posto a una quota di circa 10 cm sopra la soglia d’ingresso al fine di preservare le strutture archeologiche rinvenute durante le fasi iniziali di scavo. Anche per la chiusura del portale che identifica il “nuovo” accesso all’antica chiesa di San Martino si è optato per una scelta “trasparente” al fine
di facilitare la fruizione e la lettura del monumento con l’installazione di una sobria cancellata che riprende le semplici linee delle inferriate delle grandi aperture presenti in facciata. Il risultato che ora possiamo constatare (valorizzato da un attento studio illuminotecnico) è frutto anche della passione delle Maestranze di Edilferro Costruzioni che in questi anni ha investito molto nel restauro monumentale con sempre maggior capacità e competenza. Un altro interessante risultato della
collaborazione tra l’architetto Cuppoletti ed Edilferro consiste nell’originale restauro del piano nobile di un palazzetto del seicento, che si affaccia nel centro del famoso Corso del Popolo di Chioggia, dove l’architetto ha trasferito la nuova sede dello Studio. La scelta di far convivere in modo dinamico ed equilibrato le presenze antiche della struttura con la tecnologia più moderna ha dato luogo a un ambiente ideale dove dar vita a progetti dagli alti contenuti etici ed etetici
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>L’ARTE DA VIVERE
Il restauro non è solo pulizia. È fatto di interventi profondi, spesso mirati non solo a riportare un’opera alla bellezza originaria, ma anche a ripristinare a pieno l’utilizzo di stanze o interi palazzi. L’esperienza di Pierfranco Bagarotti e Alberto Mottadelli Simona Cantelmi
Far rifiorire l’arte. Non solo a scopo turistico ma anche e soprattutto per viverla. È il fine di chi lavora a progetti di restauro di edifici e palazzi di grande valore storico e, allo stesso tempo, che possiedono una funzionalità utile per la comunità. Il medesimo obiettivo se lo è posto Pierfranco Bagarotti, che si è occupato del restauro del Palazzo Vescovile di Pavia, risalente alla seconda metà del Cinquecento e attribuibile a Pellegrino Pellegrini. L’edificio necessitava di un’opera di riqualificazione a vari livelli, per recuperare completamente l’uso di tutti gli am-
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bienti: ciò implicava l’attuazione di lavori sia rilevanti, come il restauro di volte affrescate, sia di precisione, come ad esempio la sistemazione delle scaffalature dell’Antica Biblioteca Vescovile, la quale, assieme all’Archivio Storico Diocesano, conserva documenti antichissimi e unici. «La Diocesi di Pavia» spiega Bagarotti «voleva rendere fruibile un percorso museale integrato, tra chiese e siti monumentali di estremo significato storico-artistico, culturale e didattico, e il palazzo rientrava in questo programma». Si tratta di un progetto di risanamento di tutti i lo-
cali. «La committenza ha constatato la preziosità di alcune sale decorate a grottesche cinquecentesche e ha espresso la volontà di riutilizzare gli spazi, nel rispetto dei valori storici e, dove questi valori erano meno evidenti, di ristrutturarli per ridonare piena vita all’intero edificio, naturalmente sempre con approvazione della Soprintendenza di competenza». Il palazzo si sviluppa su quattro piani e su ciascuno sono stati realizzati interventi. La volontà di recuperare le forme originali è costante per ogni tipo di operazione, anche per quanto riguarda i pavimenti. «Al-
RESTAURO Palazzo Vescovile di Pavia
In apertura, una visuale della corte del Palazzo Vescovile di Pavia, dopo il restauro. Qui, a sinistra, Sala dei Vescovi; a destra, scalone monumentale realizzato da Pellegrino Pellegrini; infine dettaglio delle grottesche che ornano i soffitti del Palazzo. I lavori di restauro sono stati eseguiti su progetto dell’architetto Pierfranco Bagarotti e dell’Ing. Alberto Mottadelli, in collaborazione con gli architetti Elena Mottadelli, Marco Mottadelli e Danilo Duroni studio.bagarotti@virgilio.it - studio.mottadelli@fastwebnet.it
cune pavimentazioni non erano coerenti con le caratteristiche originali degli ambienti e, per realizzare un recupero il più fedele possibile, occorreva una scelta di pavimentazioni in cotto o in legno di qualità, colore e formato in armonia con la conformazione delle stanze». Oltre ai pavimenti, sono stati recuperati alcuni soffitti originali. Si è attuato un restauro conservativo anche di alcune parti mobili di valore: «Per il legno, ad esempio, si è operato un trattamento antitarlo mediante iniezione insetticida con potere abbattente, snidante e penetrante, con tossicità
tollerabile, che non alteri la struttura del legno». Sono state ristrutturate scale in varie parti dell’edificio, ma certamente di grande valore è il restauro dello scalone monumentale, creato nel 1566 da Pellegrino Pellegrini. Per ripristinare il totale utilizzo dell’intero palazzo da parte della Curia e dei visitatori, erano necessari interventi con il fine di mettere in sicurezza la struttura: «servivano nuovi ascensori, idonei per un facile uso da parte di tutti, compresi disabili, dell’intero edificio» spiega l’architetto Bagarotti. «Inoltre occorreva un adeguamento alle normative antincen-
dio e impiantistiche. Un ruolo rilevante nel lavoro di restauro è rappresentato dall’inserimento di nuovi impianti di riscaldamento, raffrescamento ed elettrici nel rispetto delle eminenze artistiche. Sono state attuate soluzioni tecnologiche in grado di garantire un comfort climatico e un’illuminazione in armonia all’ambiente, oltre ad aver contemporaneamente realizzato un sistema domotico e informatizzato al passo con le esigenze funzionali degli utenti». Lodevole è anche l’opera delle maestranze pavesi impegnate nei lavori di recupero e restauro.
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>nuovi luo ghi urbani per i contesti metr opolitani In passato alla base di ogni progetto urbanistico c’erano dei parametri ben precisi. Oggi invece si preferisce il progetto evento. Ma occorre invertire questa tendenza. La soluzione per Marco Facchinetti e Marco Dellavalle esiste e si chiama masterplan di Sara Marchegiani
RICOSTRUZIONI TIPOLOGICHE Masterplan
Luoghi nei quali svolgere più attività, ben disegnati, dove gli spazi pubblici interagiscono con le aree edificate, nascono non solo da un buon progetto. È importante infatti anche una corretta applicazione e una giusta impostazione di regole, parametri, indici e indicazioni urbanistiche. Oggi però nel nostro Paese, secondo Marco Facchinetti e Marco Dellavalle, si guarda meno alle regole e più alla «grande firma». Al contrario l’utilizzo del masterplan rappresenta lo strumento ideale per coordinare tutti quegli elementi che interagiscono in uno spazio, realizzando così una pianificazione urbanistica armoniosa e funzionale. In molti sentono l’esigenza «di una nuova ricostruzione tipologica, inspiegabilmente andata perduta». Perché il masterplan è la strada giusta per la costru-
zione di luoghi di qualità? Marco Facchinetti: «La storia ci insegna che è sempre stato così, almeno fino agli anni successivi alla ricostruzione. I luoghi che più apprezziamo e nei quali più ci riconosciamo sono stati disegnati coordinando lo spazio aperto, lo spazio verde, le quinte costruite, le funzioni da insediarvi, con una cura che andava dalla scelta dei materiali alla selezione delle migliori viste. Storicamente, il coordinamento di tutti questi aspetti che solo il progetto urbano può dare, è stato usato per la creazione di spazi nei quali le autorità o le potenze del momento si sono riconosciute. Oggi, almeno nel
La consulenza per il nuovo PGT di Canzo ricostruisce attentamente lo stato dei luoghi, degli spazi aperti, degli spazi pubblici e delle aree verdi. Lo scopo è comprendere attentamente la natura degli spazi, i loro materiali, il rapporto tra il suolo e il piede degli edifici, per ricostruire un ambiente capace di attrarre nuovamente le funzioni che un tempo lo rendevano vivo. www.fdainternational.it
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RICOSTRUZIONI TIPOLOGICHE Masterplan
Marco Facchinetti è ricercatore presso il Politecnico di Milano, Dipartimento di Architettura e Pianificazione, dove insegna Urbanistica. Partner di Fda International insieme con Marco Dellavalle, è visiting professor presso la State University of New York, USA. Da anni si occupa, nella sua attività professionale e nella sua attività scientifica e di ricerca, del governo dei risultati fisici delle trasformazioni alle quali i contesti urbani sono stati sottoposti negli ultimi anni. Ha pubblicato in Italia e all’estero molti esiti delle sue ricerche, e come progettista è attivo in Italia, in Europa e in America con alcuni importanti processi di riqualificazione urbana
Marco Dellavalle, urbanista, partner di Fda International con Marco Facchinetti, è esperto nella ricerca, nella sperimentazione e nella definizione di sistemi regolamentativi innovativi all’interno degli strumenti di pianificazione: da anni si occupa di elaborare scenari strategici di trasformazione e di governarli, con l’obiettivo principale della loro attuazione, con la costruzione di palinsesti normativi agili, efficaci e applicabili effettivamente. Insieme con Marco Facchinetti si occupa della pianificazione e della progettazione di alcuni importanti contesti italiani e stranieri
NEL PROGETTO DI LAINATE ATTRAVERSO LA COSTRUZIONE DI UN PROGRAMMA INTEGRATO DI INTERVENTO SIAMO RIUSCITI, IN UN CONTESTO PARTICOLARE, A FAR DIALOGARE DIVERSI ASPETTI nostro Paese, quest’uso si è perso, nella consapevolezza errata che un grande spazio nasca da una grande firma o dall’attuazione di regole meccaniche. In America invece le regole sono ancora importanti e anche noi ce ne avvaliamo nei nostri Piani di Governo del Territorio». Quali sono i progetti che vi vengono richiesti? Marco Dellavalle: «Molti ci chiedono di ricostruire i loro luoghi urbani tradizionali, come se ci fosse bisogno di
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una nuova ricostruzione tipologica nel nostro Paese, inspiegabilmente andata perduta. Nel progetto di Lainate attraverso la costruzione di un Programma Integrato di Intervento siamo riusciti, in un contesto particolare, a far dialogare diversi aspetti. Il panorama che sorge ai lati dell’autostrada A8 infatti è tipicamente suburbano e disperso, ma allo stesso tempo strettamente connesso con i nuovi punti notevoli del paesaggio metropolitano: la fiera, l’Expo e Malpensa. Le torri previste dal progetto hanno il ruolo di unire idealmente questi importanti elementi. Il disegno al suolo delle funzioni, degli spazi, delle forme costruite e il rapporto tra le quinte edificate e gli spazi aperti riprende invece un dialogo più minuto, più attento al locale e agli utenti che potranno usare l’area, indipendentemente dall’essere parte di un sistema territoriale più ampio».
>una dimensione più urbana per le ar ee industriali Integrare aree produttive, come le zone industriali fuori dalle città, con edifici adibiti a servizi per i dipendenti delle aziende rappresenta un’opportunità di valorizzazione della superficie, anche sul piano architettonico. L’esperienza di Camillo Marazzini e Rinaldo Fappani di Nicolò Mulas Marcello
L’annoso dibattito che vede scontrarsi l’idea di aree industriali isolate con la necessità della presenza di strutture che offrano attività collaterali alla sfera produttiva ha sempre contraddistinto i piani urbanistici delle città. Il Comune di Somma Lombardo ha deciso di unire le due idee individuando una superficie per sviluppare un piano di riordino delle aree produttive supportate da strutture che svolgano funzioni integrative come attività e servizi medici, ristorazione e somministrazione di alimenti e bevande, uffici direzionali per le aziende, centri convegni e aree espositive, centri di sorveglianza per la sicurezza e istituti di credito nonché uffici postali. Una serie di servizi che oltre
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ad agevolare i lavoratori che prestano servizio nell’area, restituisce alla zona industriale una dimensione più cittadina. Il Comune di Somma Lombardo ha fatto sua questa politica e ha individuato, a circa un chilometro dall’aerostazione di Malpensa, una parte del proprio territorio inserita nel piano attuativo con la proposta “Insediamenti Produttivi di Via Processione”. «L’intenzione è di sviluppare quella porzione territoriale, posta sull’asse aeroportuale della Malpensa, per le attività della piccola e media impresa motore del tessuto operativo lombardo» come sottolinea l’architetto Camillo Marazzini a cui è stato affidato il progetto assieme al geometra Rinaldo Fappani. L’area
RIQUALIFICAZIONE Aree produttive
In apertura, corte interna del progetto di “Insediamenti Produttivi di Via Processione”, Somma Lombarda (MI) di cui, qui, due particolari. In foto, l’architetto Camillo Marazzini e il geometra Rinaldo Fappani www.studiomarazzini.com
L’OBIETTIVO DEL PIANO È REALIZZARE UN CENTRO CON MATERIALI DI QUALITÀ E A BASSA EMISSIONE PER CONTENERE E RISPARMIARE ENERGIA OLTRE CHE PRODURLA acquistata dalla società San Gabriele SO.G.IM prevede la costruzione di tre edifici di cui due paralleli tra loro e uno di testata con cortile interno per gli utenti del futuro centro servizi. «Sulla base degli indirizzi dettati dal regolamento attuativo – continua Marazzini – è stata dominante la scelta della tipologia architettonica da inserire nel contesto territoriale che a parer nostro doveva essere il meno invasivo possibile proponendo un edificio tradizionale e piacevole nella composizione architettonica». Tutto il comparto attuativo è ai margini del Parco del Ticino con le sue problematiche e priorità di tutela della flora e della fauna stanziale e migratoria con riferimento di sostentamento
dato dal fiume. L’area è circondata da boschi e da spazi aperti destinati all’agricoltura e per questo si potranno insediare solo le attività non pericolose. L’accesso è perpendicolare alla rotatoria di via Processione che divide il quadrante centrale dal quadrante dei servizi e verde urbano. Ai due piani interrati con rampa di accesso laterale sono posti i locali di servizio, impiantistici e i parcheggi con 150 posti auto per gli esercenti e per i clienti. L’area verde presenta un prato con essenze autoctone a cespuglio e ad alto fusto che circonda il tutto, valorizzando la struttura e l’insieme circostante. «Il sistema edificatorio progettato – prosegue l’architetto - ha voluto un luogo di aggregazione esterno posto tra i tre edifici con fontana rettangolare centrale. In questo modo viene garantito uno spazio comune che è necessario per le attività di sosta (ristorante e bar) e quelle di esercizio istituzionale (banche, ufficio postale e per i convegni)». Percorrere, sostare e colloquiare nello spazio centrale e nei percorsi laterali rappresenta un’opportunità per il comparto produttivo localizzato in quella area. «Il secondo obiettivo, non meno importante del solo aspetto architettonico, è realizzare un centro con materiali di qualità e a bassa emissione per contenere e risparmiare energia oltre che produrla». Contenere e produrre energia è l’obiettivo previsto dal progetto e della società committente. Un impianto di circa 2000 mq di pannelli fotovoltaici verrà collocato sulla copertura degli edifici, questo garantirà al territorio una potenza di 200 KW. «Non abbiamo sottovalutato l’assetto geologico del territorio e la resistenza antisismica dell’edifico. La struttura portante sarà costruita con resistenza antisismica superiore ai vincoli oggi in vigore per la zona d’intervento».
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>meno bur ocr azia per le oper e pub blic he Le realizzazioni pubbliche sono spesso rallentate da meccanismi burocratici esasperanti. «Oggi più che mai occorre una solidità amministrativa che consenta di snellire le pratiche e renderle più agevoli». Il punto di vista dell’architetto Mirko Roncelli di Francesco Sottil
«Per quanto riguarda le opere pubbliche, è importante sottolineare che una amministrazione locale si trova a dover programmare non solo le grandi opere, ma anche quegli interventi di sistemazione e completamento dell’esistente, che fanno parte del vivere quotidianamente il territorio». Questa è l’opinione dell’architetto Mirko Roncelli a proposito delle realizzazioni pubbliche nel nostro Paese. «Le opere per migliorare la viabilità e le strutture dei servizi per il cittadino – continua Mirko Roncelli – sono quelle che assorbono la maggior parte delle risorse degli amministratori». Secondo l’Architetto bergamasco, una corretta programmazione delle opere pubbliche, sia annuale che triennale (come del resto prevede la legge), oltre a priorità e programmi chiari e condivisi, permette a una Amministrazione di procedere con una gestione corretta, efficace e realistica, anche nella previsione dei tempi. «Questo è importante – chiarifica Roncelli – perché i passaggi delle procedure imposte dalla legge, dall’affidamento dell’incarico professionale alla realizzazione dell’opera, sono spesso lunghi e complessi».
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REALIZZAZIONI Opere pubbliche
Nella pagina accanto, sopra, render della piazza di Costa Valle Imagna (Bg). Sotto l’architetto Mirko Roncelli. In questa pagina, ampliamento del cimitero di Cene (Bg)
NEL MIO RUOLO DI CONSULENTE DI ENTI LOCALI, HO LAVORATO A FIANCO DI SINDACI E ASSESSORI DI VARIE TENDENZE POLITICHE, CHE HANNO SEMPRE MESSO AL CENTRO LA CORRETTA GESTIONE DELLA “RES PUBBLICA” E DEI SERVIZI AL CITTADINO Oggi per realizzare un’opera pubblica, dal momento che viene affidato l’incarico al momento che venga realizzata, ci si impiega non meno di due anni. È così? «Nella realtà di un comune medio-piccolo, la capacità e la competenza del Sindaco, degli amministratori e degli uffici preposti e l’intesa con il progettista, fanno la differenza sui tempi e, spesso, anche sui costi. È vero quindi che in comuni di certe dimensioni possono passare due anni o più, prima di realizzare un’opera. Ma per realtà più piccole, si riescono a sfruttare tempi più contenuti». Nel settore delle opere pubbliche la recessione si sta facendo sentire? «La crisi, ha coinvolto anche le Amministrazioni pubbliche che, non incassando più oneri, non riescono a fare fronte alle normali spese di bilancio e di conseguenza devono tagliare dove possono. Per noi progettisti, gli incarichi di progettazione di lavori riguardanti la fascia dei medi-piccoli comuni, si sono drasticamente ridotti».
A quale progetto sta lavorando? «Sto seguendo la fase esecutiva della nuova piazza nel comune di Costa Valle Imagna. Qui il concetto di piazza è portato avanti non tanto come spazio delimitato, ma come “centro del paese”: un punto di socializzazione sul modello dell' Agorà dell'antica Grecia. Nel progetto è prevista la sistemazione di un piazzale esistente davanti al Municipio, integrato con un ulteriore area, affiancata, a una quota più alta di cm. 150, raggiungibile grazie a una rampa carrabile e una scala circolare che racchiude una fontana, anch’essa su due livelli, che fa un po’ da cerniera tra i due spazi. Spazi che sono completati da altre piccole “piazzette nella piazza”. Completa il quadro una strada che porta alla vicina contrada, che si avvale di una zona a parcheggio e una piazzetta con pavimentazione in porfido davanti al municipio e alla farmacia (che si affaccia sulla sottostante piazza principale). Un’opera molto articolata che darà un nuovo volto al paese».
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Sotto, l’ingegner Michele Navach. A fianco , la nuova torre di controllo e annesso blocco tecnico uffici a servizio dell’aeroporto di Lampedusa. Nella pagina accanto, sotto, un interno della torre di controllo di Lampedusa e, sopra, la nuova torre di controllo e annesso blocco tecnico uffici a servizio dell’aeroporto S. Anna di Crotone. Nell’altra pagina, pensilina S.G. La Rena (CT) e, sotto, concept design dell’aeroporto di Carabao www.seas-srl.com
>pr o gettar e il volo «Architetture di pregio in aeroporto possono rappresentare il biglietto da visita del Paese in cui si atterra». Michele Navach fa il punto sulle infrastrutture aeroportuali e sui criteri essenziali nelle scelte progettuali che devono rispettare i parametri di funzionalità e sicurezza, senza trascurare l’impatto estetico degli edifici di Eugenia Campo di Costa
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Il Paese sembra mirare allo sviluppo delle infrastrutture atte al commercio e al turismo. Ne deriverà un intensificarsi del traffico aereo, con la conseguente necessità di implementare le infrastrutture, i servizi per i passeggeri e le strutture per l’assistenza al volo. Pensato come struttura prettamente funzionale, anche l’aeroporto, con gli edifici che ne implementano i servizi, deve avere una certa valenza architettonica. Tale da fungere da vero e proprio “biglietto da visita” della città in cui sorge. Nel progettare gli aeroporti, architetti e ingegneri mirano non solo alla funzionalità, ma anche ad adottare soluzioni che prediligano l’aspetto estetico. «Sono convinto che l’impatto visivo di una struttura aeroportuale trasmetta l’“idea” del luogo in cui sorge – afferma l’ingegner Michele Navach di S.E.A.S. Solution for Engineering Architecture & Security, che progetta e dirige opere in ambito aeroportuale – per questo penso che vada posta una grande attenzione anche all’effetto estetico delle strutture».
INFRASTRUTTURE Aeroporti
Quali parametri bisogna tenere in considerazione nella progettazione di un aeroporto? «La progettazione, come qualunque attività in ambito aeroportuale, è fortemente vincolata dal complesso di norme e regole legate alla sicurezza della navigazione aerea nonché da quelle atte a garantire, in primo luogo, la sicurezza degli utenti e la massima operatività degli addetti ai lavori. Partendo da questo presupposto si cerca di sviluppare soluzioni architettoniche compatibili con le esigenze aeroportuali che tuttavia vadano oltre la mera funzionalità e possano quindi caratterizzare anche esteticamente l’intera struttura, armonizzandola con le peculiarità del luogo». Nella progettazione delle strutture che compongono un aeroporto quali criteri secondo lei devono essere seguiti? «Al di là dei fabbricati aventi una funzione esclusivamente tecnica, quali hangar, cabine elettriche o centrali tecnologiche, nella progettazione si cerca sempre più di dare una certa razionalità al territorio aeroportuale e un’omogeneità
di linguaggio agli edifici più rappresentativi, come le torri di controllo o gli air-terminal con i relativi uffici». Gran parte del vostro lavoro riguarda le torri di controllo. Come intervenite su questo tipo di struttura e quali sono i vostri ultimi progetti in questo senso? «Le torri di controllo sono edifici destinati ad ospitare il complesso delle attività relative alla assistenza al volo. Nella loro progettazione la funzionalità deve essere coniugata all’impatto estetico. I nostri ultimi lavori in questo
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INFRASTRUTTURE Aeroporti
«AL DI LÀ DEI FABBRICATI AVENTI UNA FUNZIONE ESCLUSIVAMENTE TECNICA, NELLA PROGETTAZIONE SI CERCA SEMPRE PIÙ DI DARE UNA CERTA RAZIONALITÀ AL TERRITORIO AEROPORTUALE E UN’OMOGENEITÀ DI LINGUAGGIO AGLI EDIFICI PIÙ RAPPRESENTATIVI»
senso riguardano la nuova torre di controllo dell’aeroporto S. Anna di Crotone,(appena completata) la cui forma in pianta, nel complesso, ricorda l’ala di un aeroplano. Nel progetto della nuova torre di controllo dell’aeroporto di Lampedusa, (in fase di realizzazione) invece, si è prestata particolare attenzione al contesto, ispirandosi all'idea di una villa mediterranea, la cui composizione articolata fra rientranze e sporgenze crea un gioco di ombre a contrasto del clima arido dovuto alla collocazione geografica. Infine è in fase di progettazione la torre di controllo
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dell'aeroporto di Palermo in acciaio e vetro ancora coperta da “velo”». In che modo l’architettura aeroportuale riesce ad essere ecosostenibile? «Gli enti aeroportuali richiedono sempre più spesso la realizzazione di sistemi volti al risparmio energetico e a garantire una piena sostenibilità dell’architettura. Il nostro Studio si impegna continuamente nello sviluppo e nell’applicazione delle nuove tecniche finalizzate al risparmio energetico e alla sostenibilità dell’architettura. Una semplice pensilina di copertura di un’area parcheggio, ad esempio,grazie anche alla lungimiranza a alla apertura a nuove soluzioni da parte dei vertici di ENAV s.p.a., potrà essere sfruttata come supporto per pannelli fotovoltaici con cui alimentare i vicini uffici».
Organizzare lo spazio verde. Tenendo conto di regole precise. Per le quali sono fondamentali competenze tecniche e botaniche. Perché il giardino è parte dell’abitazione che circonda, e deve essere in armonia con essa di Lucrezia Gennari
>l’ar te di cr ear e giar dini
SPAZI VERDI
«Il giardino deve divenire la stanza più grande e composta della casa». Così parla Massimo Menichelli, giardiniere-arboricoltore esperto nella realizzazione di giardini, sottolineando l’importanza dell’armonia tra lo stile dell’abitazione e del suo arredamento e il giardino che la abbraccia. «Per progettare uno spazio verde – prosegue Menichelli – è indispensabile conoscere le piante, ma anche le procedure e i materiali, confrontandosi con altre discipline tecniche e artistiche». Progettare il verde è realizzare un’opera d’arte. Concepire il disegno e tradurlo in pratica non è semplice. È fondamentale l’organizzazione del cantiere e interagire quanto più possibile con il paesaggista per evitare eventuali errori di valutazione e interpretazione. «La natura ci offre una costante fonte di ispirazione per tutte le realizzazioni. Per questo motivo la nostra filosofia operativa si basa su due presupposti: rispettare, amare e imitare la natura senza mai forzarla e interpretare le esigenze del cliente, traducendole in un sogno realizzabile».
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A sinistra Massimo Menichelli. Nelle altre foto alcune realizzazioni dell’azienda Menichelli, laeder nel settore dell’ambientazione a verde www.menichelli.it