Dossier Lombaria 09 2007

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IN COPERTINA Matteo Colaninno

Matteo Colaninno, 36 anni, è Presidente nazionale dei Giovani Imprenditori e Vicepresidente di Confindustria

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La Lombardia. Le aziende di famiglia. L’economia italiana. E l’impegno in Confindustria. Matteo Colaninno, Presidente dei Giovani Imprenditori, fotografa il quadro globale del tessuto produttivo del Paese. E indica l’unica strada che devono seguire gli under 40 per emergere. Rimboccarsi le maniche e darsi da fare di Andrea Pietrobelli

SOLO LE IDEE FANNO UN LEADER

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dee. Perché alla base dell’imprenditorialità c’è sempre un innovatore capace di trasformare un’intuizione originale in business. Continuità. Perché, nell’attuale economia globalizzata, la tradizione industriale italiana «ha ancora pieno diritto di cittadinanza ed è un patrimonio al quale dobbiamo rendere un grande merito». E, soprattutto esperienza «con la “e” maiuscola». Per crescere, umanamente e professionalmente. Matteo Colaninno indica la strada che le nuove generazioni di imprenditori devono seguire per dimostrarsi all’altezza delle sfide che impone il ricambio generazionale. Trentasei anni, Presidente di Confindustria Giovani e Vicepresidente della Piaggio, Colaninno ha scelto di impegnarsi nell’azienda di famiglia «senza forzature, naturalmente», sentendosi partecipe della vita di famiglia fin da ragazzo. Ispirato anche da un ambiente economicamente dinamico come quello della Lombardia, dove esiste un’imprenditorialità largamente diffusa. «Crescere in una regione dove si percepisce l’orgoglio del fare – ammette il giovane imprenditore - certamente

mi ha condizionato e incoraggiato nelle mie scelte». Ed è questa cultura che Colaninno individua come la base su cui costruire il futuro dell’economia nazionale. Che nelle aziende a conduzione familiare, spesso indicate come "tallone d’Achille" del tessuto produttivo, ha finora trovato solide fondamenta in grado di arginare i momenti di crisi. Presidente, il capitalismo familiare ha dimostrato ancora una volta di essere una delle colonne portanti del tessuto produttivo del nostro Paese. «Le Cassandre che vedevano in questo modello il volto della sconfitta dell’imprenditorialità italiana avevano previsto male, perché ancora oggi le aziende a conduzione familiare rappresentano uno dei punti di forza del nostro Pil. I dati micro e macroeconomici lo dimostrano. È ovvio che, soprattutto negli ultimi anni, hanno dovuto ristrutturarsi, dopo

«L’Italia è ai primi posti in Europa per natalità di impresa. E sono sempre di più gli imprenditori di prima generazione» 21


IN COPERTINA Matteo Colaninno


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Alcuni scatti fotografici che ritraggono Matteo Colaninno in momenti istituzionali e privati. 1- In compagnia di Luca Cordero di Montezemolo, Presidente nazionale di Confindustria. 2- Durante un intervento al 35° Convegno dei Giovani Industriali a Santa Margherita Ligure. 3, 4 - Accompagnato dalla moglie Giovanna. 5, 6 - Durante un’udienza dal Santo Padre, Papa Benedetto XVI 23


IN COPERTINA Matteo Colaninno

aver finalmente compreso che la chiusura rispetto alle forze dell’economia globalizzata rischiava di essere un diaframma fragile e assolutamente non duraturo. La concorrenza internazionale non poteva e non può essere respinta con atteggiamenti difensivi e passivi». In che modo si sono rinnovate? «Innanzitutto si sono ristrutturate finanziariamente e anche dal punto di vista organizzativo e dimensionale. Alcune di esse hanno compreso la necessità di fondersi con altre realtà, di attrarre investitori e manager esterni alla famiglia.Tutto questo ha permesso di continuare a portare in maniera efficace sui mercati internazionali l’unicità e la riconoscibilità dei prodotti e del brand italiani». Come si potrebbe definire questo brand? «È una qualità “immateriale”, qualcosa che può essere riscontrato in una dimensione emotiva del consumatore, il quale intravede nel design e nel gusto italiano un valore aggiunto e ricercato. Tut-

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gnali di ripresa dopo un quinquennio in cui l’economia italiana veniva data quasi per spacciata. È solo una congiuntura positiva oppure si tratta di una crescita sostanziale? «Sono dell’opinione che oggi ci siano le condizioni per un ulteriore balzo in avanti. L’economia è in buona salute e stiamo assistendo a una ripresa strutturale del tessuto produttivo, sebbene sia ancora molto fragile. Ma è solo la prima tappa di un percorso più lungo. Vorrei però dire che provo molto fastidio verso il pessimismo che ciclicamente si ripropone nel nostro Paese. Dieci anni fa veniva preannunciata il decadimento dell’economia italiana, e nei primi anni del 2000 sembrava che le economie «La concorrenza emergenti dovessero spazzarci via. A mio parere gli estera non può anni in cui il nostro Pil si to ciò è risconavvicinava allo zero non trabile nei essere respinta con atteggiamenti dovevano essere visti comoltissimi successi delle difensivi e passivi» me l’annuncio di una disfatta, ma come la dimoimprese della Penisola, perché il nostro Paese, strazione della capacità di resistenoltre a un potenziale di impren- za del nostro sistema imprendiditorialità straordinario, ha anche toriale di fronte a una crisi che ha la capacità di tradurre il suo vis- toccato tutte le maggiori econosuto storico e culturale in effica- mie mondiali». ci business plan. Anche in Piag- Se invece dovesse indicare un ergio stiamo avendo delle grandi sod- rore della nostra classe imprendisfazioni, grazie a un marchio ap- ditoriale? prezzato dai mercati mondiali «L’unica critica imputabile alla clascome quello della Vespa, prodot- se imprenditoriale italiana è di non to che, al di là della sua indubbia aver saputo interpretare immediaqualità tecnologica, è in grado di tamente quei segnali di mutatrasferire al consumatore qualco- mento che nell’ultimo periodo sa che va oltre la materialità del hanno di fatto ridisegnato il volprodotto stesso. Un brand affer- to della geografia economica del mato e conosciuto, poi, riesce a mondo. È il discorso a cui accentrainare intere filiere produttive, navo prima: apertura a nuovi cacreando così uno sviluppo che non pitali, a nuovo management, a tocca solo le grandi aziende, ma nuove competenze, a nuovi merche si riflette anche su quelle pic- cati e anche a nuove attività imcole realtà che crescono con l’in- prenditoriali. Ora stiamo recupedotto portando sviluppo e benes- rando bene e i risultati lo dimostrano, ma non dobbiamo comsere in tutto il territorio». Assistiamo da un anno a se- mettere l’errore di adagiarci pen-


sando di essere ormai lanciati come un treno a levitazione magnetica, perché c’è ancora molta altra strada da fare» . I dati positivi comunque non mancano. Un recente studio di Bankitalia registra come nel nostro Paese continuino a germogliare nuove imprese. «L’Italia è ai primi posti in Europa per tasso di natalità di impresa. Ovviamente il dato va confrontato con i tassi di sofferenza o addirittura di mortalità delle imprese stesse. Ma questo è un segno evidente che la nostra classe imprenditoriale dimostra di sapersi e volersi rinnovare. Negli ultimi anni Confindustria ha registrato una crescita tendenzialmente rilevante degli imprenditori di nuova generazione. Sono quindi sempre di più i giovani che decidono di mettersi in gioco e fondano aziende». Un dato in controtendenza rispetto all’immagine che viene solitamente dipinta dell’Italia, dove sembra che la generazione dei 30-40enni non riesca a entrare a far parte della classe dirigente. «Non penso che si tratti di questioni prettamente anagrafiche. Secondo me le difficoltà riscontrabili nel nostro ricambio generazionale dipendono dal fatto che non esiste un “mercato” in cui si possano contrapporre vecchie e nuove idee. Direi che in quest’ambito c’è una vera carenza di competizione, mentre persiste un sistema che predilige la cooptazione, la fedeltà all’esistente. Devo però sottolineare anche che alcuni giovani sono in parte corresponsabili di questa situazione perché sembrano non avere quella voglia di emergere, quel desiderio di cambiare la condizione economica e sociale del proprio Paese. Mancano di grinta». Questo da cosa può dipendere?

«Credo sia dovuto al fatto che la nostra condizione socio-economica è completamente mutata negli ultimi cinquant’anni fa. Il benessere forse ci ha fatto perdere quella “fame” che ha portato le altre generazioni a conquistarsi il futuro. Questo lo si può vedere, ad esempio, in quegli Stati chiamati ancora erroneamente “emergenti”, ma che stanno trainando l’economia mondiale. Inoltre, in particolare guardando alla politica, non ci sono più quei grandi luoghi di formazione per i ceti dirigenti che una volta riuscivano a mettere in campo figure altamente competenti. In questo, Confindustria è invece un punto di riferimento. Posso testimoniare come leader dei giovani che nella nostra associazione le cariche date agli under 40 non hanno una dignità solo nominale, ma tutti i dirigenti partecipano in termini attivi e costruttivi, sono chiamati a esprimersi e a condividere le responsabilità, confermando in ciò la lungimiranza della Confederazione che davvero investe sulle nuove generazioni. Del resto il Presidente Montezemolo è sempre stato molto attento alle proposte e alle istanze dei

giovani imprenditori, testimoniando una volontà di inserimento attiva e concreta all’interno dell’organizzazione». Cosa ne pensa, invece, di iniziative come il “Patto generazionale”? «Auspico che ci possa davvero essere un aiuto da questa iniziativa, ma io non l’ho firmato, perché credo che la società si debba sbloccare attraverso dei meccanismi non forzati. Il rischio è quello di restare fermi su intenzioni pure apprezzabili ma che poi non si realizzano concretamente. Il ricambio generazionale non può avvenire semplicemente mettendo al bando coloro che hanno superato una certa soglia di età. Ci vuole il giusto equilibrio: persone sagge, che hanno dato molto nel loro campo, devono affiancare, senza schiacciare, i giovani emergenti che conquistano ruoli di responsabilità, aiutandoli così a intraprendere la strada migliore senza dissipare le esperienze che sono state accumulate. Credo molto in questa sinergia. Ed è per questo che fatico a vedere nella fredda discontinuità di un patto a tavolino la soluzione migliore».

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ECONOMIA Analisi

É IL MOMENTO

DEL CORAGGIO L’impegno concreto della politica è necessario per consolidare la ripresa. Giuseppe Fontana, Presidente di Confindustria Lombardia, commenta i dati dell’ultima analisi congiunturale senza allarmismi davanti al sensibile rallentamento della produzione industriale di Sabrina Paoletti

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a locomotiva va, ma sembra avere il fiato corto». I dati congiunturali di Confindustria Lombardia parlano chiaro. È vero che gli indici della produzione industriale della regione mantengono quasi tutti il segno positivo, ma la crescita è sensibilmente inferiore a quella registrata nei primi tre mesi dell’anno. «Non dobbiamo trascurare alcuni segnali di raffreddamento – conferma Giuseppe Fontana, Presidente degli industriali lombardi -: la produzione industriale è passata dalla crescita tendenziale del +3,68% del primo trimestre 2006, al + 2,50% di quest’anno. Si tratta quindi di volumi decisamente contratti». La perdita di più di un punto percentuale è un risultato ancora più evidente se confrontato alle eccezionali performance degli ultimi tre trimestri 2006. Il motore economico italiano si raffredda, dunque, e questa inversione di tendenza si riflette conse-

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DATI CONGIUNTURALI

+2,50%

la crescita tendenziale della produzione industriale lombarda

+0,11%

la crescita del fatturato totale (dati deflazionati)

+0,59%

la crescita delle giacenze dei prodotti finiti (dato grezzo)

guentemente sull’intero Paese. «Il recupero di competitività non ha la velocità che servirebbe per agganciare l’Europa» continua Fontana. «Intendiamoci, gli indicatori sono ancora positivi, la produzione cresce più che nel resto d’Italia. Anche gli ordini restano su valori positivi, ma il fatturato è fermo e segna un sostanziale arresto, assestandosi su valori di crescita tendenziale intorno allo 0,11%, e quindi prossimi allo zero. Questa variazione pressoché nulla, unita a una variazione congiunturale ancora negativa (-0,29%) portano l’indice destagionalizzato a quota 94,4%, mostrando così un trend decrescente. Solo le imprese di grande dimensione mettono a segno un incremento del +0,80%. Diversamente dalle piccole e dalle medie aziende che registrano un saldo negativo del -0,65% e -1,46%. Segnali rassicuranti giungono invece fuori dai confini nazionali. La quota di fatturato estero sul totale mostra,


A lato, Giuseppe Fontana, Presidente di Confindustria Lombardia. Nella pagina a fianco, sopra, insieme al ministro per lo Sviluppo economico Pier Luigi Bersani. Sotto, con Luca Cordero di Montezemolo

con un’inversione di tendenza, segni di ripresa. Lasciato il punto minimo nello scorso trimestre (32,23%), la percentuale torna a salire, riavvicinandosi al 33%. Dopo molto tempo, risalgono anche le scorte. In particolare, le giacenze dei prodotti finiti crescono tendenzialmente dello 0,59%, mentre quelle dei materiali per la produzione crescono dell’1,85%. Insomma, le imprese tengono le quote di mercato ma sacrificano i margini. Dall’ultima analisi congiunturale, relativa ai dati per classe dimensionale, si nota che la differenze tra grandi, medie e piccole imprese si sono stemperate. Le grandi realtà registrano una velocità di crescita intermedia, che si assesta sul +2,39%, negli ultimi tre mesi sono state superate, con un leggerissimo vantaggio, dalle medie (+2,96%). A distanza di un punto percentuale, a quota +1,96% seguono, in coda, le piccole. Stesso podio per i dati relativi al tasso di utilizzo degli impianti che, sempre nel caso delle piccole imprese, scende al 75,81% mantenendosi negli altri due casi superiore al 77%. Molto differenziato è invece l’andamento settoriale della produzione che premia il settore della Pelle e delle calzature, che mette a punto un + 4,97% e quello siderurgico con un +4,43%. La maglia nera del trimestre spetta invece ai mezzi di trasporto, comparto che chiude in negativo al -0,32%. Insieme ai numeri, sembra essersi raffreddato l’ottimismo degli imprenditori e «anche le previsioni sono meno rosee». Questo emerge chiaramente dal «saldo tra chi si aspetta aumenti della domanda e della produzione e chi invece prevede diminuzioni. Un rapporto che resta positivo ma è in flessione per il secondo trimestre con-

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ECONOMIA Analisi

secutivo dopo circa un anno di continui miglioramenti» spiega Confindustria. Segnali non allarmanti ma che devono fare pensare. Soprattutto perché sintomi di un sistema che probabilmente non è ancora abbastanza forte per assestarsi e per colmare lacune infrastrutturali, sdoganandosi dalle fluttuazioni del mercato globale. Ne è un esempio la vertiginosa crescita dei prezzi delle materie prime che prosegue con vigore, mettendo a segno un +2,50%

rispetto ai prezzi dello scorso trimestre, consolidando un aumento su base annua è pari al +10%. Con il tono del “ve l’avevo detto” Fontana conferma questa situazione. «Non avevamo visto male - ribadisce - quando dicevamo che la ripresa era fragile e che non potevamo cantare vittoria, che gli sforzi compiuti dalle imprese dovevano essere accompagnati da interventi per la competitività del Sistema Paese convinti e incisivi». Decisionismo e coraggio sembra-

IDENTIKIT Giuseppe Fontana è stato eletto Presidente di Confindustria Lombardia dal 2005. Vicepresidente dell’Associazione industriali di Monza e della Brianza, insieme al fratello Walter ha costituito la Fontana Spa di Veduggio, divenuta poi Gruppo Fontana, leader nella produzione di bulloneria e viteria ad alta resistenza. Dopo essersi laureato alla Bocconi nel 1980, Fontana ha lavorato negli Stati Uniti prima di inserirsi nell’attività di famiglia. Oltre a essere Vicepresidente della Fontana Finanziaria Spa, Holding del Gruppo, è anche Consigliere di Amministrazione di alcuni Istituti bancari

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no infatti essere le uniche chiavi per risolvere in modo se non definitivo almeno organico questa situazione. A questo punto deve allora entrare in gioco la politica che finora sembra aver accantonato dalla sua agenda il tema “crescita”. Ma è su questo fronte che la situazione si fa un più complicata. «Purtroppo, dobbiamo registrare come manchi ancora la consapevolezza che sia necessario porre al centro il tema della crescita - afferma Fontana -. Abbiamo ora una vera e propria emergenza, un attentato alla competitività della Lombardia: il tracollo di Alitalia che rischia di penalizzare Malpensa. Un’azienda pubblica mal gestita minaccia un progetto strategico per il Nord che si fonda su un rafforzamento delle infrastrutture di collegamento per stare dentro la globalizzazione». Una priorità, una



L’OPINIONE Bruno Ermolli

Bruno Ermolli, 68 anni, è nato a Varese. Cavaliere del Lavoro, è uno dei più noti consulenti di strategie d’impresa italiani

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PER VINCERE SERVE IL CAPITALE UMANO Un tecnico d’impresa. Un Presidente innovatore. Ma anche un amante dell’arte e della musica. E soprattutto un grande sostenitore di tutto ciò che è italiano. Questo, e molto altro, descrive la filosofia manageriale di Bruno Ermolli, protagonista del panorama economico italiano di Lara Mariani

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er me, che sono un timido, tirare di scherma è stato fondamentale. Nella scherma infatti serve elasticità e prontezza di riflessi, ma anche grande ragionamento. Questo sport mi ha dato una visione molto simile a quella che avrei praticato nella mia carriera», racconta con grande semplicità Bruno Ermolli, presidente di Sinergetica, presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni di Giacomo Puccini e Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione delTeatro La Scala. Una carriera, la sua, fatta di continui successi. Iniziata come dirigente alla Mazzuchelli Celluloide, proseguita con la nascita e la presidenza di Sinergetica, nel lontano 1971. «Sinergia allora voleva dire mettere insieme capacità amministrative, finanziarie, industriali, produttive e di mercato». E oggi Sinergetica è una società di consulenza per le imprese che si muove in un mercato sempre più internazionale. Bruno Ermolli, però, di delocalizzazione non vuol neanche sentir parlare. O meglio, ac-

cetta di delocalizzare, ma con una ricetta tutta sua che difende gli interessi dell’imprenditoria lombarda, senza dimenticare il valore del Made in Italy. Qual è secondo lei il legame tra le imprese della Lombardia e il territorio? «È un legame che si declina in tre peculiarità. La magia della Lombardia e la sua grande operosità. Tutte le imprese lombarde non badano a risparmiare risorse e soprattutto il lombardo dedica anche parte del tempo libero al lavoro, il suo è un investimento continuo. Una seconda caratteristica è certamente la peculiarità dei prodotti: questa regione è fortemente industriale. È sempre stata radicata al territorio grazie alle specializzazioni che la manodopera doveva possedere. In un’epoca “terziaria” come questa la Lombardia tiene il passo con i tempi». La terza caratteristica? «L’autoinnovazione. Agli imprenditori lombardi è chiaro il concetto che chi sta fermo è perduto. La maggioranza delle imprese è alla costante ricerca del-

l’innovazione, mira all’efficacia e opera nel terziario. Ma a proposito devo anche muovere una critica costruttiva: le imprese lombarde sono poco internazionali soprattutto rispetto ad altre aree forti d’Europa, come Barcellona, Lione, il Badenburg». Come reagisce la Camera di Commercio di fronte a questa situazione? «C’è un grandissimo sforzo da parte della Camera di Commercio di Milano e in particolare della Promos, che io presiedo, a spingere queste imprese alla competizione su un mercato globale. Ciò non significa far sì che le imprese si espandano all’estero, ma anche solo renderle competitive nella propria città e nella propria provincia, contro chiunque dall’estero possa piombare e fare concorrenza». Possiamo quindi parlare di delocalizzazione anche in Lombardia, seppur con alcuni distinguo? «Delocalizzazione è un termine che io aborro e credo che il nostro sistema economico non deb-

«Gli imprenditori devono imparare a usare i nuovi strumenti della Finanza. Non pensano ancora a evoluzioni possibili per il sistema delle imprese»

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L’OPINIONE Bruno Ermolli

ba seguire questa strategia tout court. Perché portar via da Bovisio, da Mombello, o dalla Brianza un bel mobilificio, e trasferirlo in Marocco? Il legname si trova più facilmente in Marocco, ma lo stile e la cultura delle cose belle nel campo del mobile sono tipicamente italiani. Inoltre, è necessario progettare il prodotto non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche dal punto di vista artistico. L’optimum sarebbe procedere con una prima parte della produzione all’estero, per poi continuare e sviluppare l’oggetto in Italia, come solo i nostri artigiani sanno fare. In questo modo si possono ridurre i costi della manodopera, senza rischiare di perdere la cultura d’impresa». Secondo lei, quindi, la nuova formula di delocalizzazione quale può essere? «In generale il “cervello”, il know how d’impresa, deve rimanere dove è nato e dove si è evoluto. Per la parte strettamente hardware, della componentistica, invece si può accettare il modello di delocalizzazione. La qualità deve rimanere qui, la quantità può essere esportata». Quali sono gli strumenti a disposizione delle imprese per innovare e comunicare? «Lo strumento più importante per innovare è il metodo. Io ho sempre sostenuto che innovatori si diventa e non si nasce. Quando si ha un’idea, bisogna anche saperla realizzare. Serve poi un investimento finanziario, perché senza alcun dubbio, per rinnovare servono quattrini. E a quel punto è il settore bancario a dover aiutare le aziende a sviluppare l’innovazione. Altra componente fondamentale è il capitale umano, perché la persona, nonostante tutte le variabili, rimane il centro pulsante di ogni impresa». Questo vale anche nelle imprese più automatizzate?

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«Spingere le imprese alla competizione su un mercato globale non significa solo favorirne l’espansione all’estero, ma anche potenziare la competitività nella propria città e nella propria provincia»

«Sì, persino in quelle stile Charlie Chaplin. Anche nelle catene di montaggio l’uomo è al centro dell’impresa. Quanto più si investe nel capitale umano, tanto più si è vincenti». Le imprese lombarde, allora, hanno ancora un ampio margine di miglioramento? «Certo. Sia sociale che finanziario. Gli imprenditori devono imparare a usare i nuovi strumenti della finanza. Non pensano ancora a evoluzioni possibili per il sistema delle imprese, ai distretti o ad avvalersi di una partecipazione di terzi nella propria impresa. L’imprenditore lombardo non è ancora così smaliziato». Come lega la sua cultura ed esperienza imprenditoriale agli eventi e all’arte? «Sono Presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni di Giacomo Puccini, istituito dal ministero dei Beni culturali nel 2004. Le celebrazioni vanno dal 2004, centenario dell’opera Butterfly, di respiro internazionale, con lo scontro sentimentale tra Oriente e Occidente, al 2008, 150°anniversario della nascita di Puccini a Lucca. Quattro anni di celebrazioni, non solo per divulgare l’immagine del grandissimo autore, ma anche per testare il marketing culturale in Italia, terra in cui non c’è angolo che non abbia dato i natali a qualche genio. Stiamo sperimentando a Lucca le risorse strategiche, i fattori critici del successo del nostro Paese. Basti pensare alla bellezza del territorio della Lucchesia, dal mare alle colline, dalle opere architettoniche alla dolcezza diTorre del Lago, dalla bontà della cucina e del vino al teatro Giacomo Puccini o al Giglio di Lucca». E il successo della Scala, dopo un lungo periodo di crisi e dopo il suo intervento, come lo spiega? «La Scala è il teatro lirico più im-



L’OPINIONE Bruno Ermolli

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portante al mondo, e ha riavuto un grandissimo prestigio grazie agli investimenti del Comune di Milano: ora può ospitare le scenografie per opere diverse al mattino, al pomeriggio e alla sera. È l’unico teatro al mondo che è passato in soli dodici mesi da 165 alzate di sipario all’an-

stato contestato dalla propria orchestra». Tutto ciò avrebbe messo in ginocchio un gigante. «E invece siamo riusciti a trovare i 16 milioni. Abbiamo identificato la persona e abbiamo portato un francese a gestire la milanesissima Scala, dopo una mia

no a 260. Molto è dovuto alle maestranze e al Sovrintendente. Io sono intervenuto seriamente nel momento della crisi, quando si era creato un buco di bilancio di 16 milioni di euro. Un Sovrintendente era stato allontanato secondo me in modo errato, sei mesi prima della scadenza del contratto, e un direttore come Muti, alla Scala da 19 anni, era

ricerca in tutta Europa. Grazie a Stephan Lisner stiamo assistendo all’internazionalizzazione della Scala, con un’espressione artistica al massimo livello, che ci rende il teatro della lirica più importante al mondo». Il metodo che ha adottato in questo caso è lo stesso messo in pratica nella gestione d’impresa? «L’abilità di un tecnico consiste

CONSULENZA E IMPRESA Da giovanissimo Bruno Ermolli era già dirigente industriale nella Mazzucchelli Celluloide. Gli affidarono il settore innovazione: organizzazione, elaborazione dati, pianificazione. Insomma il comparto più innovativo nel mondo delle imprese negli anni Sessanta e Settanta. Già dirigente affermato, si mise in proprio con uno Studio professionale. Nel 1971 fonda Sinergetica che ancora oggi dirige e presiede. Tra il 1980 e il 1982 è Presidente dell’Associazione nazionale delle società di management. Ha fatto nascere la federazione del terziario avanzato, di cui è stato Presidente dall’85 all’89. Dalla consulenza delle pmi è poi passato alle grandi imprese italiane. Oggi non è solo un imprenditore, ma un consulente, un tecnico e soprattutto un grande innovatore.

nel capire le differenze. Quando ho a che fare con un’impresa nel campo delle telecomunicazioni e dei media applico metodi affini a quelli industriali. Quando invece mi occupo di Mediaset e de La Scala non adotto il metodo della gestione imprenditoriale, perché non valorizzerei il capitale umano che è predominante rispetto a quello finanziario».



DONNE AL VERTICE

Foto di Cristina Pica

IL VOLTO NUOVO

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DELL’EDITORIA Ha un cognome che non passa inosservato. Ma questo per lei non è mai stato un peso. Semmai un incentivo a fare sempre meglio. Alessia Berlusconi, giovane manager dal talento “genetico”, racconta di affetti presenti, ricordi passati e progetti futuri di Maria Elena Golfarelli

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emplice e spontanea. Ottimista e indipen- lusconi ci si aspetta sempre molto». dente. Così si definisce Alessia Berlusco- Da donna imprenditrice si è sentita più ni, figlia di Paolo e nipote di Silvio. Da lo- schiacciata o stimolata dal confronto con due ro ha ereditato un cognome “ingombrante”, ma uomini di successo come suo padre e suo zio? anche il rispetto per il prossimo e il senso della «Questo confronto è sempre stato un incentifamiglia. Una famiglia di cui è orgogliosa sin da vo. Non mi sento in competizione con nessuquando era bambina. Oggi, a 36 anni, è una ma- no di loro. La mia filosofia? Dare il massimo, nager promettente. È Direttore generale di consapevole che la vita non è una gara a chi arNewspaper, la casa editrice di periodici b2b pos- riva primo. Vince chi arriva nel rispetto delle seduta al 100 per cento dalla Pbf Paolo Berlu- regole del gioco». sconi Finanziaria (oltre a Espansione, pubblica Come sono i rapporti con la sua famiglia? il settimanale di informatica Week.it e i mensi- «La nostra è sempre stata una famiglia molto unili BancaFinanza e Il Giornale delle assicurazio- ta, soprattutto quando il nonno Luigi era anconi) ed è socia, insieme ad Antora vivo. I miei ricordi più emozionella Di Leo e Mario Viale, del- «Mio padre non è il nanti sono legati a lui. Il pranzo la International Media, la casa edidi Natale era veramente una giortrice che ha recentemente lancia- tipo che dà consigli, nata di gioia. Ci riunivamo tutti ma insegna to sul mercato un nuovo prodotad Arcore e noi nipoti, uno per volto, Gals Magazine. Ma il suo attraverso l’esempio. ta, eravamo chiamati a fare un breruolo più impegnativo e più belve discorso. Ricordo che ero terMi ha sempre lo, ammette, è quello di essere rorizzata da questo compito ma, lasciato libera di fare allo stesso tempo, non vedevo mamma di Jody e Davide. Il suo è uno dei cognomi più col’ora che arrivasse il mio turno. Ce le mie scelte» nosciuti d’Italia. Quanto un’erela mettevo tutta per essere all’aldità così importante ha penalizzato o, inve- tezza della situazione e compiacere il nonno. Doce, agevolato il suo cammino professionale? po la sua morte siamo rimasti molto uniti an«Il mio cognome è sempre stato ed è, ora più che se crescendo ognuno ha preso la propria strache mai, motivo di grande orgoglio. Apparte- da. Queste cose vanno così: ci si sposa, nascono nere a una famiglia così importante presenta dei figli, gli interessi cambiano e ci si allontana tanti vantaggi e chiaramente anche lati meno un po’. Ma l’affetto profondo e il senso di appositivi. Negli anni ho incrociato molte per- partenenza sono rimasti immutati. E poi abbiasone straordinarie e tanti opportunisti, ma mo la fortuna di avere ancora tra noi nonna Roquesto fa parte del gioco. Comunque gli ami- sa che, a 96 anni, è sempre un faro per tutti». ci di sempre ci sono ancora. I miei rapporti per- Ha mai avuto paura di non raggiungere gli sonali sono rimasti caratterizzati da semplici- obiettivi che si era prefissata? tà, spontaneità e rispetto. Quindi sì, professio- «Io sono un’ottimista di natura, ma gli eventi nalmente il mio cognome è stato spesso un pas- della vita mi hanno insegnato anche a essere reasepartout, ma è anche chiaro che da una Ber- lista e, possibilmente, prudente. Di norma, af-

A sinistra, Alessia Berlusconi, 36 anni, milanese. Tra i vari incarichi ricoperti, è membro del Consiglio di amministrazione del quotidiano “Il Giornale” e Direttore generale della casa editrice Newspaper Milano

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DONNE AL VERTICE

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Foto di Cristina Pica

fronto con entusiasmo le sfide cercando di prevedere tutte le insidie e gli ostacoli che si possono presentare lungo il percorso. Certo, ho avuto paura di non raggiungere le mete che mi ero prefissata. E, a volte, è anche accaduto. L’importante per me è sapere di avere fatto tutto il possibile e trarre preziosi insegnamenti dal mancato successo». Ha mai seguito i consigli di suo padre? «Adoro mio padre. Ma non è il tipo che dà consigli, lui insegna attraverso l’esempio. Chi lo conosce rimane colpito dalla sua umanità e generosità. Mi ha trasmesso tanti valori importanti, tra cui il senso della famiglia e il rispetto per il prossimo. Mi ha sempre lasciato libera di fare le mie scelte. Di questo lo ringrazio, anche se l’inesperienza mi ha portato a commettere tanti errori. Ed è stato così anche professionalmente. Non ho lavorato sempre con lui. Gestisco infatti diverse attività esterne al Gruppo. Sono socia, tra l’altro, di una casa editrice che pubblica magazine per teenager e di una società che disegna, produce e commercializza orologi. Ho imparato, inevitabilmente, a essere molto autonoma e indipendente. Di natura tendo a non porre problemi ma a proporre sempre nuove soluzioni, e ricorro a mio padre quando proprio non posso farne a meno». Come donna, quali sono le maggiori difficoltà in cui si è imbattuta? «La difficoltà è la stessa per quasi tutte le donne che lavorano, soprattutto se sono mamme: la mancanza di tempo. All’interno del Gruppo non mi occupo soltanto di Newspaper Milano, ma sono membro di diversi Consigli di Amministrazione, tra cui quello de Il Giornale. Ma il mio lavoro più importante è fare la mamma. Il momento più bello della giornata, infatti, è quando arrivo a casa e i miei due diavoletti mi aspettano nascosti sempre nello stesso posto, mi fanno “bau” e io fingo di essermi spaventata. Riuscire a conciliare tutto questo, affrontandolo con la stessa efficienza e lo stesso entusiasmo è la cosa più difficile».

Qual è stata la sua più grande soddisfazione? «Vedere i miei figli crescere con gli stessi valori che mi sono stati trasmessi». Attualmente, a quali progetti sta lavorando? «Al momento stiamo preparando il rilancio di Espansione, la storica rivista di economia che dal 28 settembre verrà allegata tutti i mesi a Il Giornale. Lavoriamo tutti moltissimo su questo progetto che rappresenta un passaggio importante per la nostra casa editrice. È un’esperienza motivante, anche perché sto lavorando con persone valide come il Direttore Marco Gatti. C’è molta sintonia tra noi. Sento che stiamo costruendo un buon prodotto». Nelle scelte editoriali, fa affidamento sull’istinto o si basa sulle valutazioni e le strategie dei suoi consulenti? «Analisi approfondite e rigorose sono sempre alla base del lavoro. Di fatto, poi, io mi considero sempre il primo lettore delle mie riviste, quindi quello che esce deve piacere prima di tutto a IDENTIKIT Alessia Berlusconi è nata a Milano, 36 anni fa. È sposata con Egidio Cinelli dal quale ha avuto due figli: Jody (4 anni) e Davide (2). È membro del Cda del quotidiano “Il Giornale”, Direttore generale e Board member della Newspaper Milano Srl, casa editrice della rivista Espansione, del settimanale Week.it e di altri mensili dedicati al mondo degli affari. Possiede insieme al padre il 51% di Solari.com, il principale distributore di decoder per il digitale terrestre in Italia; è membro del Consiglio di amministrazione della Pbf Srl (società finanziaria che controlla “Il Giornale” di proprietà del padre, Paolo Berlusconi), della concessionaria di pubblicità Arcus Pubblicità e IP Time. È membro della New Trend Factory Srl. Attraverso una sua società, la JED Srl, è socia, insieme ad Antonella Di Leo e Mario Viale, della International Media, la casa editrice che ha recentemente lanciato sul mercato il suo nuovo prodotto editoriale, Gals Magazine.

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DONNE AL VERTICE

Alessia Berlusconi insieme al figlio Jody

me. Certamente raccolgo suggerimenti e amo prendere le decisioni importanti in modo collegiale, condividendo obiettivi e strategie. Ma non riesco a trattenermi dal dare la mia impronta». Molte cassandre da anni prevedono la futura scomparsa del prodotto editoriale cartaceo. Anche lei ne è convinta? «Ne sono convinta solo in parte. La conversione del prodotto cartaceo sarà inevitabile per molti. Ma non per tutti. E, comunque, questo av-

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verrà con tempi e modalità differenti in base al segmento di mercato». Quali altri cambiamenti prevede in questo settore? «L’editoria tradizionale, intesa come erogazione di contenuti da parte dell’editore e la conseguente fruizione del lettore, non esiste più. Il panorama si sta profondamente modificando. Questo è un dato di fatto, ormai sotto gli occhi di tutti. Oggi il lettore esige sì informazioni precise e spunti di riflessione ma vuole anche partecipare attivamente alla creazione dei contenuti. E il luogo naturale dove ciò può avvenire è il web, infatti credo nella fusione tra questi due media». Secondo lei quale ruolo dovrebbe avere la politica nel rilancio dell’economia italiana? «Nel rispetto di una logica antitrust, la politica non deve mai dimenticare che la globalizzazione ci ha portato a un confronto con la concorrenza mondiale. Pertanto non bisogna mai ostacolare, bensì favorire, la crescita di «Mi considero quelle aziende italiane in sempre il primo grado di conquistare polettore delle mie sizioni di rilievo nel mercato. A volte invece semriviste, quindi bra proprio che il Sistequello che esce ma Italia sia affetto da una deve piacere a me grave forma di masochismo che penalizza e freprima di tutto» na le nostre imprese, concedendo sempre più spazio a quelle straniere». E in concreto cosa si potrebbe fare? «La risposta è scontata, quasi banale. Occorre meno pressione fiscale, più incentivazione allo sviluppo, e mobilità del lavoro. Ma probabilmente dovremo attendere ancora qualche mese perché il processo di liberalizzazione possa finalmente essere avviato». Chi può essere considerato il suo maestro? «Non penso di aver avuto nessun maestro, ma due mentori cui devo tantissimo. Per molti versi mi considero quindi un’autodidatta. In questi anni ho imparato molto leggendo libri, frequentando corsi, navigando nottate intere su Internet, tempestando di domande i miei colleghi e gli altri manager del Gruppo. Insomma, una vera rompiscatole». A chi si sente di dire grazie e a chi scusa? «Ringrazio chi ha avuto la pazienza di rispondermi e chiedo scusa a chi non ho ascoltato per mancanza di tempo».



STORIE DI SUCCESSO

Fare qualcosa che si ama. Condividendolo con amici. Questo il segreto, e la fortuna, di Piero Maranghi. Meneghino doc e Direttore di Classica, il canale satellitare tematico di Sky dedicato interamente alla grande musica. Il camaleontico imprenditore racconta passioni e professioni di Francesca Buonfiglioli

UN IMPRENDITORE “CLASSICO”

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icorda in modo nitido i pomeriggi passati a scorazzare per il Museo della scienza e della Tecnica che si trovava proprio dietro casa. Un luogo magico dove, un tempo, tra la polvere «si poteva fare qualsiasi cosa. Sedere su aeroplani e treni e mettere in moto macchine obsolete». Una sorta di «parco giochi» in cui, su tutto, spiccava il rosso della tenda di Umberto Nobile. «Provavo sempre una forte emozione davanti a quello che era, in realtà, solo un lenzuolo». Piero Maranghi racconta anche così Milano. La sua città, una delle grandi passioni della sua vita. Che ora però, secondo il direttore di Classica, sta attraversando «una fase di inconsapevolezza e inconsistenza». Un giro di valzer di quella «girandola» fatta di corsi e ricorsi storici che vive ogni città ma che è destinata, prima o poi, a concludersi. E nonostante il “fiato corto”, all’ombra della Madunina riescono comunque a emergere, secondo una legge “naturale” del tutto meneghina, eccellenze, qualità e occasioni. Emergono anche realtà straordinarie come la Scala, «il più grande teatro del mondo» verso la cui attuale gestione Maranghi non nasconde un «amore assoluto». Tante le passioni dell’imprenditore meneghino. Non solo Milano ma anche, e so-

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prattutto, la famiglia: «Non rinuncerei mai al tempo dedicato a mia figlia e a quello futuro che passerò con lei» afferma senza un attimo di esitazione. Poi, ancora, la musica, il mangiare, il buon bere e la televisione. Il suo segreto

- e la sua fortuna, ammette - è stato di trasformare questi “amori” in attività, tradurli in progetti. Riuscendo così a ritagliarsi e cucirsi addosso un’occupazione in grado di regalargli soddisfazioni non solo professionali. «E che dia gio-


IDENTIKIT Piero Maranghi è nato a Milano nel 1969 ed è l’ultimo dei quattro figli, una sorella maggiore e tre maschi, di Vincenzo Maranghi, banchiere braccio destro di Enrico Cuccia, Amministratore delegato di Mediobanca fino al 2003 e recentemente scomparso. Ed è bisnipote, da parte di madre, di Piero Portaluppi, noto Architetto milanese che fu Preside del Politecnico al quale è dedicata la Fondazione che lo stesso Maranghi presiede. Imprenditore multiforme, divide il suo tempo tra la direzione di Classica, canale Sky interamente dedicato alla musica classica, due librerie e un ristorante

A sinistra, un’esibizione di musica da camera. In alto, Piero Maranghi nel suo studio mentre nella foto sopra, la sede di Classica, il canale di Sky con sede a Milano, interamente dedicato alla musica classica

ia», sorride il quarto e ultimo figlio di quel Vincenzo Maranghi già delfino di Enrico Cuccia ed ex Amministratore delegato di Mediobanca. «Il mio gruppo – dice soddisfatto - si occupa di attività che sono state e sono le mie passioni. Come quelle per la musica classica e la tv che si sono unite» racconta il direttore del canale Classica di Sky. Erede di una famiglia importante, Piero Maranghi sembra sintetizzare in sé caratteristiche e gusti dell’intero albero genealogico. Come se avesse «rubato» dei pezzi a molti personaggi più o meno pubblici della famiglia, e molto diversi tra loro. «Ho tanti debiti – non fatica a confessare - che vanno parcellizzati». Così se l’amore per la musica e per l’arte sono stati ereditati dal ramo materno, l’interesse per la storia gli è stato trasmesso dal padre. Tante le figure di riferimento che lo hanno educato e ispirato, tra le quali Maranghi include anche chi non ha mai conosciuto personalmente come l’architetto Piero Portaluppi, nonno della madre, che fu Pre-

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STORIE DI SUCCESSO

side di facoltà al Politecnico. E il bisnipote che porta il suo nome dirige ora la Fondazione a lui dedicata. «La curiosità di saperne di più – racconta - ha generato in me il desiderio spontaneo quanto disordinato di sapere cose di architettura in generale. È stato uno stimolo». Sempre dalla famiglia Piero Maranghi ha ereditato anche «l’attenzione agli aspetti non solo professionali ma soprattutto umani nei rapporti di lavoro». È animato dalla convinzione che un imprenditore, un capo, non debba necessariamente solo ricevere ma dare. «Solo così si evita la solitudine dell’impren-

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tori di rami d’azienda diversi hanno rapporti di amicizia tra loro, che sono uniti da interessi che restano accesi anche quando si spegne la luce in ufficio». Un percorso professionale atipico, verrebbe da dire, costellato di passioni e da tanta curiosità. Che ha portato Maranghi a occuparsi di varie attività. «Una profonda ignoranza e un percorso scolastico disastroso hanno trovato compimento nella libreria», confessa. «Così come l’amore per il cibo e il buon bere lo hanno trovato nel ristorante». Va da sé che l’unione della passione per la musica classica con quella per la televisione hanno portato Maranghi alla dirigenza di Classica. «Un canale – ci spiega – che trae un giovamento e un vantaggio dalla desolante proposta dei palinsesti delle televisioni tradizionali». Classica offre produzioni, concerti, opere di qualità colmando, secondo il direttore, il «vuoto assoluto» e rispondendo alle esigenze di un pubblico troppo spesso ignorato dai palinsesti dell’etere generalista. Una UNA TV DA ASCOLTARE nicchia, certamente, che proprio per Classica è l’unico canale televisivo interamente dedicato alla grande musica. In onda sulla piattail fatto di essere taforma Sky (canale 728), Classica garantisce giorle, ha valore. «Le nalmente 20 ore di programmazione con un panicchie sono aree linsesto che abbraccia opere liriche, concerti, interessanti, dotate musiche da camera, spettacoli di danza classica di valore assoluto e moderna, approfondimenti, documentari, film, da ogni punto di arte, jazz fino alla musica di confine. Ciascun provista. Aree in cui è gramma è introdotto e commentato in video da possibile esprimere esperti attraverso un linguaggio fruibile sia dagli una libertà editoappassionati che dai conoscitori. Per garantire allo spettatore una programmazione varia e comriale maggiore». pleta, il palinsesto di Classica prevede ogni sera Classica è quindi alle 21 un nuovo appuntamento proponendo i più diventata un fenograndi interpreti, monografie, concerti e opere. meno di controtendenza in un moditore», sembra mettere in guar- mento in cui la musica di genedia. Il suo gruppo ha assorbito co- re vive anni difficilissimi, «a causì le caratteristiche della grande sa di un continuo distacco della famiglia, i cui componenti sono politica e dello Stato che, negli ullegati da rapporti umani e inte- timi anni, ha vessato la musica clasressi extra professionali: «Mi pia- sica di privazioni e di leggi sbace vedere che spesso i collabora- gliate». Per questo, ora più che mai,



STORIE DI SUCCESSO

INTUIZIONE E TALENTO DI FAMIGLIA

Genialità, senso per gli affari, inventiva. Sono caratteristiche che si possono ereditare? Sembra di sì. Alessandro Rosso, figlio dell’imprenditore dei viaggi Franco Rosso, racconta l’esperienza lavorativa fatta accanto a suo padre. E di quanto abbia contribuito a farlo diventare un uomo di successo di Micol Lavinia Lundari

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Nella foto grande la galleria Vittorio Emanuele a Milano che ospita il Town House Gallery, il primo luxury hotel a sette stelle in Europa. Sotto a sinistra, Alessandro Rosso, proprietario dell’albergo e imprenditore nel mondo dell’Incentive

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a storia delle più importanti aziende italiane “racconta di famiglie”. Del passaggio di mano, di padre in figlio, dell’attività. Del trasmettere sapere e conoscenze affinché non vadano perduti. Questo ha fatto sì che buona parte dell’economia nostrana si ritrovi oggi nelle mani della cosiddetta “seconda generazione di imprenditori”. Sono gli eredi dei grandi nomi dell’industria e del terziario che negli anni della ricostruzione e del Boom economico si sono fatti strada, accendendo il motore del nostro Paese. Molti dei protagonisti del mondo imprenditoriale di oggi sono proprio i figli di ieri, quei figli cresciuti nell’azienda paterna che quasi riportano all’idea dei mestieri appresi in bottega, a fianco del maestro, con pazienza e spirito d’osservazione. Capaci di fare tesoro di questa esperienza per costruirsi una propria realtà, si sono impegnati a ottimizzarne i profitti e a espanderli. Alessandro Rosso è

un esempio calzante del dinamismo di questa “seconda generazione” che ha potuto contare su una figura familiare importante ma che, allo stesso tempo, è riuscito a costruire un suo percorso indipendente. Il padre Franco è il fondatore del tour operator Francorosso che ha fatto sognare i viaggiatori italiani portandoli alla scoperta dei cinque continenti. Il figlio Alessandro staccatosi dall'azienda paterna nel 2002, è diventato in brevissimo tempo leader italiano nel settore dell’Incentive Travel con la “Alessandro Rosso Incentive”, ha ideato l’Icebar a Milano, primo locale realizzato interamente in ghiaccio e, sempre nel capoluogo lombardo, ha aperto il Town House Gallery, primo hotel a sette stelle in Europa e secondo al mondo dopo il Burj Al Arab di Dubai. Ma come è possibile dare il via a una seconda generazione che raccolga l’eredità paterna e la investa in un progetto totalmente nuovo? Lo racconta lo stesso Ales-

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STORIE DI SUCCESSO

sandro Rosso. «Fin da bambino sono stato abituato a viaggiare e, grazie a mio padre ho visitato tutto il mondo. Ho imparato a lavorare proprio sul campo, forte della sua presenza accanto a me». Un’esperienza da sogno per un ragazzino che, appena suonava la campanella d’uscita della scuola, correva in ufficio da papà. Le prime carte d’imbarco le ha staccate a sedici anni. Destinazione: l’Africa subsahariana. Quelle terre addomesticate, negli anni, per diventare le mete esotiche sognate e rincorse tutto l’anno da italiani e non solo. Giovanissimo, Alessandro Rosso aveva già dimestichezza con il merchandising, anche se su scala ridotta. «Il mio primo lavoro è stato vendere oggetti sui voli charter di papà, pioniere italiano nel settore dei tour operator». E proprio il contatto diretto con il padre è stato una palestra di crescita professionale oltre che una scuola di vita. «Lavorare al suo fianco è stato entusiasmante e molto educativo. Con lui ho potuto imparare come nasce un viaggio dall’abc, come ci si prende cura di ogni dettaglio, come si parla e ci si relaziona con l’ospite e con il personale stesso». Già. L’importanza del fattore umano. Un elemento che la classe dirigente italiana può tralasciare e «Per far funzionare non che è la nervatura stesuna piccola o grande sa della nostra cultura, economia serve fatta di legami stretti, di passione, ma anche vicinanza quotidiana, di una rete di rapporti rispetto e stima amicali e familiari che per i collaboratori» è essenza stessa della società italiana e che l’imprenditoria nostrana ha saputo trasferire anche nelle strutture aziendali. E lo ha fatto costruendo mattone dopo mattone, stretta di mano dopo stretta di mano, imprese in cui le risorse umane non sono solo un numero sulle tabelle del bilancio economico, ma la voce più attiva ed efficiente del sistema industriale. E Alessandro Rosso questo l’ha capito da tempo: «Ci si deve prender cura dei propri dipendenti e delle loro famiglie considerandoli nella loro totalità di persone e non come risorse meramente strumentali. Solo così è stato possibile creare un ambiente di fiducia nelle mie svariate esperienze lavorative. Ho iniziato a lavorare con la mia famiglia e ora ne ho ricreata un’altra con i miei collaboratori in un contesto di stima reciproca». Rosso, non c’è dubbio, ha le idee chiare: al centro dell'impresa ci sono le risorse umane. E l'imprenditore «non deve dimenticare di essere una persona, con i suoi limiti e con i suoi errori. Non può pensare di essere infallibile. Deve saper delegare, e quindi deve necessariamente fi-

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In questa pagina, sopra: Alessandro Rosso insieme a Maurizio Cadeo, assessore all'Arredo e al Decoro urbano del comune di Milano; a sinistra in compagnia della moglie; Sotto, lo staff della Alessandro Rosso Incentive al gran completo. Nella pagina a fianco, alcune immagini di Alessandro Rosso in momenti istituzionali


STORIE DI SUCCESSO

Un’immagine del Town House Galleria di Milano, il primo hotel sette stelle in Europa, inaugurato nel 2006

I NUMERI DEL TOWN HOUSE GALLERIA 1 200

valigie rifatte per i clienti

25

palchi nel Tempio della Musica

1.500.000

turisti attraversano la Galleria V. Emanuele II

400

bottiglie di Champagne stappate

24

Suite uniche a disposizione

110.000

pagine dedicate sui motori di ricerca

7

premi Nobel ospitati

1

Presidente della Repubblica ospitato

7

Stelle, l’unico in Europa

1300 1 150

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Presidente della Comunità Europea ospitato

articoli apparsi sulla stampa internazionale grande Maitre Alessandro Troccoli scarpe lucidate per i clienti

7

grandi designer hanno scelto questo hotel

1

grande Chef Giacomo Gaspari

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pickup all’aeroporto con le Bentley

500

scatole di caviale servite agli ospiti

21

servizi sulle reti televisive italiane e non

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concerti presso l’Ottagono

darsi dei suoi collaboratori più vicini, e al contempo prendersi cura delle loro necessità, delle loro esigenze». Essere imprenditore significa saper gestire il presente, ma anche il futuro: «Chi dirige un’impresa deve saper anticipare eventuali situazioni problematiche trovando una soluzione per tempo, ancor prima che queste si verifichino». Dunque, non serve la sfera di cristallo per essere imprenditori, ma fiuto per cogliere le prospettive del futuro che devono guidare l'azione nel presente. E il presente di Alessandro Rosso è questo: la sua azienda ha conquistato la leadership in Italia e ora affronta la sfida internazionale lanciandosi anche sul mercato americano, potendo contare su oltre vent’anni di esperienza nel campo dell’Incentive perché il suo team è composto da esperti che provengono dalle migliori esperienze d’Europa. Un imprenditore così, una ricetta per l'economia italiana ce l’ha? Lui si trincera difensivo. «Si tratta di una domanda complessa – allarga le spalle – e posso rispondere solo in riferimento al mio particolare settore». Ma poi concede un'ipotesi di rilancio: «Il segreto del successo, che vale innanzitutto per la mia esperienza, è la grande passione e dedizione che non solo il management, ma anche tutti i dipendenti e i collaboratori devono possedere. Quindi penso che per far funzionare una piccola o grande economia ci debbano essere im-



GRANDI FAMIGLIE

SENZA LE RADICI Tre settori di attività: costruzioni, turismo ed enogastronomia. E tre figlie alle quali lasciare un’eredità fatta di beni materiali e di passioni, valori e senso di appartenenza.Vittorio Moretti svela la ricetta che ha permesso al suo Gruppo di arrivare al successo. Quando l’impresa si sposa con la terra di Silvia Di Persio

I

mmaginazione o pragmatismo? Razionalità o istinto? Di certo, senso degli affari, ma non privo di quella visionarietà genericamente attribuibile agli artisti di maggior calibro. Quale che sia la formula che rende tale un self made man, permettendoci di identificarlo con la persona che a partire da propri mezzi comuni realizza fortune fuori dal comune, certo è che di Vittorio Moretti, Presidente della Holding Terra Moretti, è oggi possibile parlare in questi termini. E se di fortuna si tratta, a voler considerare un gruppo imprenditoriale che raccoglie le due sub-holding, rispettivamente nel settore delle costruzioni e nel settore del vino e del turismo, quest’ultimo ufficialmente riconosciuto come “esemplare” nel campo della viniviticoltura, di fortuna bi-

sogna parlare soprattutto per ciò che riguarda il territorio nazionale o locale sul quale esso attua e sul quale ritorna, arricchendolo e valorizzandolo. Perché ciò con cui immediatamente ci si confronta, al contatto con l’opera di Vittorio Moretti, è la sensazione di trovarsi di fronte a una imprenditoria tutta nutrita di valori saldi, di passioni e di creatività, dai tratti marcatamente individuali. Passioni come quella per la vela, della quale afferma: «Mi piace la tecnica applicata all’elemento naturale e io stesso ho fondato un cantiere seguendo questa passione che unisce il piacere di progettare a quello di stare all’aria aperta, respirando a pieni polmoni». Oppure passione per i sapori, i paesaggi, il patrimonio storico, l’arte, sempre filtrati dalla volontà di raggiungimento dell’ec-

cellenza, di realizzazione dell’immagine “sana” ed “essenziale” di ognuno di essi. Tutto ciò alla base dell’imprenditoria di questo lombardo d’adozione nato in Toscana, a Firenze, vissuto a Milano per studio, e trasferitosi giovane in Franciacorta, nei luoghi dov’erano nati i suoi genitori e dove trascorreva le vacanze della sua infanzia dai nonni. «Mi sono trasferito in Franciacorta per avviare una mia attività di costruzioni e da allora sono sempre vissuto qui. La famiglia Moretti è da lunghe generazioni presente a Erbusco. Da uno studio che ho commissionato è emerso che i Moretti hanno vissuto qui sin dal ‘ occupandosi prevalentemente di costruzioni. Per me è stato importante poter dare continuità ad una tradizione che in parte si era persa nella nostra famiglia e sape-

PROGETTI ENOTURISTICI DI TERRAMORETTI Terra Moretti Spa è una subholding del Gruppo Moretti specializzata nel turismo e nell’enogastronomia. Questa struttura raggruppa le Cantine Castaldi, Petra e Bellavista, e i centri alberghieri di lusso “L’Albereta” di Erbusco e “L’Andana” nei pressi di Castiglion della Pescaia. A Francesca Moretti, enologa, è affidata la responsabilità del progetto vitivinicolo, mentre la primogenita Carmen, che segue le attività turistiche e alberghiere, è oggi AD dei due alberghi e Vicepresidente della Holding Terra Moretti 80

L’ALBERETA Il relais L'Albereta è un'antica dimora che la famiglia Moretti ha trasformato in un’esclusiva residenza di campagna

TENUTA BADIOLA Nel cuore della Maremma, 500 ettari sono coltivati a vigneto e olivo e circondano un lussuoso resort battezzato “L’Andana”


NON C’È BUSINESS

Vittorio Moretti con la moglie Mariella e le tre figlie. Da sinistra: Carmen, Francesca e Valentina

CONTADI CASTALDI Un’azienda vitivinicola che produce oltre 500mila bottiglie di Franciacorta DOCG e circa 80mila delle altre tipologie DOC Terre di Franciacorta

PETRA La Tenuta Petra si estende su 300 ettari di vigneti, boschi e uliveti. Vanta una cantina la cui struttura si pone all'avanguardia nel settore

BELLAVISTA Le cantine Bellavista rappresentano l’immagine e il prestigio della Franciacorta. Amministratrice dell’Azienda è Francesca Moretti 81


GRANDI FAMIGLIE

LA SINERGIA DI TERRAMORETTI

Sopra, Vittorio Moretti patron del Gruppo Moretti. Sotto, una suggestiva immagine del resort L’Andana

re di avere nel dna questo mestiere mi ha incoraggiato nelle scelte fatte». Dopo le costruzioni l’interesse per la viniviticoltura e la volontà di fare di qualche ettaro vitato sullo scorcio della collina Bellavista, quel modello che oggi rappresenta in Italia e nel mondo. E chissà se anche per la scel-

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Negli anni ’70 il primo nucleo del polo vitivinicolo Bellavista inaugura la grande viticoltura dello champagne franciacortino, cui si affianca la Contadi Castaldi nel 1991, improntata alla ricerca e all’innovazione. La stessa ricerca che, per il settore vitivinicolo, aprirà la strada a settori produttivi complementari come il Sistema di Costruzione Cantine Moretti, sviluppato dalla divisione edilizia del gruppo. Poi lo sviluppo delle attività ricettive in modo complementare a quelle produttive: nascono così il Relais & Chateau L’Albereta e il Golf Club Franciacorta, mentre la necessità della diversificazione produttiva porta a Petra, nella stessa Toscana che pure vedrà l’esportazione del modello produzione-ricezione attraverso Andana Tenuta La Badiola, in partnership con il gruppo Alain Ducasse. Stesso modello di sviluppo di attività sinergiche per il polo edile che abbraccia Moretti Interholz, produttrice di legno lamellare, il cantiere nautico Maxi Dolphin e Moretti Ovest.

ta della trasposizione dello stesso modello franciacortino nelle terre di Toscana, non abbia influito un po’ di quel legame familiare con i luoghi prescelti. “Luoghi della memoria” diversi ma, comunque, luoghi da re-immaginare, da guardare con gli occhi del futuro. Gli stessi con i qua-

li il Vittorio Moretti bambino immaginava il suo avvenire: «Come tutti i piccoli usciti dalla guerra, quelli erano gli anni dell’infanzia, avevo soprattutto voglia di fare. Vidi un film che mi colpì: “La donna più bella del mondo”, era la Lollo. Decisi che sarei diventato qualcuno. Per me questo significava non diventare chissà cosa, ma essere felice, avere una bella famiglia, fare quello che sentivo e soprattutto mantenere la volontà del fare». Un fare che, tassello dopo tassello, ha riattualizzato concretamente quel Made in Italy indicatore di bellezza e qualità non soltanto nello spazio immaginativo degli stranieri in visita, per riportarlo nei margini di un sogno profondamente italiano. Nell’alveo di una passione tutta italiana che si sviluppa da quel “piccolo nocciolo” che da sempre definisce la più sana imprenditoria nazionale: famiglia, amicizia, passioni comuni. Il legame tra vita privata e vita professionale appare molto stretto nella



GRANDI FAMIGLIE

«Il successo degli italiani sta nella loro capacità di mantenere l’equilibrio tra emozione e regola»

Francesca Moretti con gli enologi Mattia Vezzola e Mario Castaldi

sarà un solo successore, ma più successori. Le mie tre figlie, già coinvolte, attraverso la consulenza dello Studio Ambrosetti, e attraverso l’entrata di nuovi manager, nella riorganizzazione della governance del Gruppo, dovranno creare, con i dirigenti e con i 500 dipendenti, le basi per il futuro. Con Oliviero Toscani, pro-

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fessionista molto attento al valore umano, stiamo pensando a iniziative che diano valore a tutto questo patrimonio. In fondo, le nuove aziende che ho fondato sono nate sempre per garantire futuro anche alle nuove generazioni. Altrimenti tutto sarebbe stato inutile e avrebbe poco senso». Oggi Vittorio Moretti ha

66 anni, si definisce un uomo realizzato e di ritirarsi a “vita privata” neanche a parlarne. «Io non penso proprio di andare in pensione - afferma con un piglio di orgoglio - e ho sempre fatto solo quello che mi piaceva, anche lavorando. Certo, ora non mi occupo della gestione, mi occupo semplicemente di quello che può essere l’immagine, di tutto quello che può dare qualcosa di più all’azienda. Così, avendo risolto il problema della gestione io sono già di fatto in pensione. Poi magari mi prendo degli spazi, andando in giro, facendo dei viaggi oppure andando in Sardegna dove ho una casa. Vado a Petra o all’Andana e sono immerso in una realtà meravigliosa. Insomma non è un lavoro, no?». Giungendo a conoscerlo un po’ meglio, è evidente che ogni particolare d’immagine veicolata dall’azienda, lo rispecchi e ne rispecchi il concept of life. A partire dal logo che apre il sito web del Gruppo: un’organizzazione grafica, a forma di spirale, che rappresenta le diverse imprese che ne fanno parte. Che si irradia da un nucleo centrale, la Terra. E le origini familiari che, proprio in quella terra, sono radicate. Infatti, quando si chiede al patron Moretti se esiste una figura alla quale, nella sua vita, si è ispirato, lui risponde emozionato ma senza esitazione: «Mio nonno». «Aveva un piccolo podere - continua a raccontare - e mi ha insegnato come allevare gli animali, curare l’orto e coltivare la vigna. Mi ha dato consigli di “governo” e di vita. Lezioni che ancora oggi sono valide».



STILE ITALIANO

Ha lavorato con le aziende pi첫 prestigiose del mondo. Ha creato il brand Twin DdM e una serie di prodotti che rappresentano non solo un modo di vestire, ma una filosofia di vita. Daniele di Montezemolo svela la filosofia che si nasconde dietro al suo marchio. E, da vero uomo di marketing, rivela la ricetta per far decollare il Sistema Italia di Laura Pasotti

INVENTARSI UN BRAND 96


Daniele di Montezemolo, classe 1954, vive tra Stati Uniti, Europa e Italia. Si occupa di brand extention. Con la sua Twin DdM ha creato un nuovo concetto di abbigliamento per l’uomo che ama viaggiare e che ama vestire classico ma con uno spirito internazionale

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ngaro, Benetton, Rizzoli, Paramount, BBC e Lucas Film si sono affidati a lui per la propria “brand extention”. È l’uomo che ha creato il progetto P Zero per Pirelli e Riva e che ha inventato la cravatta “doppia”. Stiamo parlando di Daniele di Montezemolo che con la sua Twin DdM ha inventato un nuovo concetto di abbigliamento: un’intera gamma di prodotti a doppio uso

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STILE ITALIANO

contraddistinti dall’asola che, a conferma della filosofia di Twin, da un lato è brand e dall’altro è passante per auricolari. Prodotti classici ma resi innovativi dalla tecnologia dei materiali, dalla funzionalità e dalla leggerezza. «Ho creato un intero armadio per un unico individuo: me stesso» afferma Daniele di Montezemolo. «Ho pensato a proposte molto diverse tra loro da utilizzare durante il giorno a seconda delle occasioni e delle esigenze». Lei vive tra Stati Uniti, Europa e Italia. Come definirebbe il suo rapporto con la Lombardia? «È una domanda divertente. Ho un rapporto strano con la Lombardia. Mi sento dicotomico. Mi trovo benissimo dal lato professionale ma umanamente preferisco il Sud. Con i lombardi lavoro benissimo ma hanno un limite di riservatezza oltre il quale non si riesce ad andare. E poi in Lombardia mi manca la luce: Milano è una città in bianco e nero ed è difficile viverci se si è abituati al colore». In che modo, secondo lei, questo lato del carattere lombardo si riflette sull’economia e sulla produttività? «Quello che ho appena detto può essere facilmente smentito. Milano è l’unica città veramente internazionale d’Italia, l’unica vera metropoli. Roma è una città fantastica con un numero di stranieri altissimo ma, a differenza di Milano, non comunica con loro. Non credo che ci siano molti turisti che vanno a Milano per visitare la città, fatta eccezione per il quadrilatero della moda. A Milano a essere internazionale è il mondo degli affari». Ma Milano riesce a comunicare e valorizzare il business? «Sì, usando la strada del business hanno attratto un numero elevato di stranieri. Milano li sa accogliere e sa dialogare con loro». Possiamo dire che la Lombardia è il volto dell’Italia all’estero? «Certamente sì. È sicuramente uno dei volti positivi e più belli che abbiamo del nostro Paese». Quali sono le caratteristiche

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LE TAPPE DI UNA CARRIERA 1954

1990

Nasce a Roma. Dopo la Laurea in Giurisprudenza vive per alcuni anni tra Stati Uniti, Francia e Inghilterra

Fonda la Daniele di Montezemolo e Associati Licensing con cui presta consulenza nel settore della brand extention


STORIA DI UN SUCCESSO

1999

2006

Nasce la Twin DdM che, dopo il successo della cravatta doppia, sviluppa anche una nuova gamma di prodotti

Twin DdM e Pentar, la società di investimento guidata da Maurizio Romiti, sottoscrivono un accordo di collaborazione

Il marchio Twin DdM nasce nel 1999 da un’idea di Daniele di Montezemolo: un concetto di abbigliamento innovativo destinato a coprire un’ampia nicchia di mercato medioalta. Ormai celebre la cravatta doppia, il primo prodotto lanciato sul mercato e brevettato da Daniele di Montezemolo che, pur mantenendo un criterio di assoluta classicità, si presenta reversibile nei colori, materiali e fantasie. Il marchio Twin DdM si rivolge a un uomo che ama vestire classico, raffinato ma con uno spirito internazionale, un uomo che viaggia molto e desidera un abbigliamento multifunzione da utilizzare in diverse occasioni e per affrontare situazioni impreviste. I prodotti Twin sono stilisticamente classici ma sono resi innovativi e moderni dalla tecnologia dei materiali, dalla funzionalità di utilizzo, dalla grande leggerezza e dal comfort. I particolari sono estremamente curati e i dettagli rendono alcune proposte assolutamente uniche. Con Twin, Daniele di Montezemolo ha creato una nuova filosofia: i prodotti non creano una collezione ma un vero e proprio concetto di abbigliamento. Non più solo cravatte, sciarpe e cinture ma anche originali capispalla, pantaloni, camicie sempre accompagnate da maglieria di altissimo livello. Tutti i prodotti Twin sono riconoscibili grazie all’asola, che, a conferma della filosofia Twin DdM, ha un doppio uso: da una parte è marchio e dall’altra è passante per auricolari. Una produzione tutta Made in Italy quella di Twin, identificabile non dall’etichetta ma dall’inedita e spiccata identità di ogni capo. Tutti i prodotti Twin, come afferma lo stesso Daniele di Montezemolo, non sono in sovrapposizione ma sono sovrapponibili, ossia indossabili anche l’uno sull’altro.

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STILE ITALIANO

Daniele di Montezemolo, una laurea in Giurisprudenza con lode. Ha creato la Twin DdM nel 1999

dell’imprenditore lombardo? «È difficile rispondere. La media della classe imprenditoriale della Lombardia è certamente più alta che in altre regioni ma, e questo è il paradosso, è livellata per eccesso. Le vere eccellenze, in altre parole, sono rare. Se dovessi dare un voto a questa terra sarebbe comunque altissimo, nonostante abbia il difetto di non avere il mare. Credo che il clima determini il carattere e il modo di vivere. A Milano si vive poco per strada e la vita è “indoor”, dentro le case.

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«La moda insegue il bello, io invece ho scelto di puntare su prodotti che abbiano una funzione al di là dell’estetica» A Roma invece si vive per strada ed è molto più facile parlare con le persone, anche sconosciute. Il clima ha portato i lombardi a vivere in casa e li ha resi diffidenti e riservati». Qual è invece l’identikit dell’imprenditore italiano? «In Italia l’imprenditore è abbandonato a se stesso e deve contare sulla propria capacità di trovare op-

portunità e nuovi mercati. Credo che questa sia la nostra natura. Non siamo capaci di organizzarci a livello nazionale. Siamo bravi a lavorare da soli. In altri Paesi, invece, l’aiuto da parte di organizzazioni statali è molto forte. Penso ad esempio alle campagne di promozione del “sistema Francia” inteso in senso globale: vino, formaggi, turismo. In Italia non esistono». Quindi manca collaborazione e gioco di squadra. «Sì. Mi sembra che ognuno pensi a se stesso. In Italia l’individualismo è molto forte. A volte però può essere un vantaggio perché consente di sviluppare l’ingegno per inventarsi un business nuovo». Il suo, quindi, è uno sguardo pessimista sul futuro? «Direi di sì. Verso la fine degli anni Settanta discutevo con l’Istituto Commercio estero negli Stati Uniti di piani di investimento. Siamo nel 2007 e ancora non ho visto niente. Forse mi sbaglio ma credo poco al sistema Italia». A suo avviso che cosa servirebbe per cambiare le cose? «L’Italia dovrebbe cambiare mentalità e il governo dovrebbe prenderne atto. Ho l’impressione che, sotto questo aspetto, la politica italiana sia piuttosto miope. Viviamo quotidianamente lo scollamento esistente tra il mondo politico e il Paese reale. La visione della politica è di brevissimo respiro, pensa all’oggi e alla convenienza del singolo o del momento. Ma per un cambio di mentalità ci vuole tempo e una politica a lungo termine». Quindi è dalla politica che dovrebbe arrivare la scossa. «L’imprenditore non può agire che per se stesso. È la politica che deve pensare all’organizzazione del Paese. Faccio un esempio: in Veneto, un tessuto produttivo straordinario fatto di un’incredibile quantità di piccole aziende, le



STILE ITALIANO

Matteo Zucchi, 46 anni, Amministratore delegato del gruppo Zucchi, leader nella biancheria per la casa

Il suo cognome è entrato nell’immaginario collettivo degli italiani. Matteo Zucchi, Ad dell’omonima azienda leader nel settore della biancheria per la casa, oggi lavora per traghettare l’eredità del marchio verso il futuro. Nuovi mercati da conquistare e internazionalizzazione. Ecco come la qualità e la tradizione italiane tengono il passo con i tempi di Francesca Buonfiglioli

IL RE DEL BIANCO 102


È

il carattere a fare la differenza. Insieme a una certezza: «Circondarsi di persone che dicono ciò che pensano e che fanno ciò che dicono». Sorride Matteo Zucchi, schietto ed elegante signore di lini, cotoni e spugne che vestono la casa. Non una questione da poco, in Italia. Dove la tavola e il letto sono simboli di una sacralità pagana che scandisce una quotidianità custodita gelosamente fatta di gesti e di affetti. Almeno nell’immaginario collettivo. «Perché - fa notare l’Amministratore delegato dell’azienda di famiglia - anche se si tratta di un settore più “tradizionalista” rispetto all’abbigliamento, ha subito l’influsso sia dell’evoluzione dello stile che delle profonde trasformazioni che la casa e i relativi spazi interni hanno attraversato negli ultimi decenni». Le crescenti esigenze di praticità hanno infatti “violato” il «“vissuto” della biancheria» facendo «perdere al prodotto molti dei suoi contenuti di tradizione o di investimento, come nel caso del corredo. Di conseguenza le motivazioni di acquisto si sono modificate». Quarantasei anni. Musicista per passione. Già nonno e con una laurea in ingegneria aerospaziale conseguita al Politecnico di Milano, oggi Matteo Zucchi guida «con entusiasmo» un’azienda dal fatturato consolidato di 300 milioni di euro. Un gruppo storico, frutto del lavoro della sua famiglia che oggi lo controlla per il 55%. Per questo Zucchi sente di vivere una doppia responsabilità: «Riportare l’azienda verso un percorso di sviluppo garantendo una gestione manageriale adeguata a un gruppo quotato in borsa, senza però perdere i valori di un’azienda di origine familiare». Zucchi è un gruppo quotato in Borsa che però nasce da un’azienda a conduzione familiare. Ma il tessuto imprenditoriale italiano è ancora fatto di piccole medie realtà. È una forza o una debolezza dell’economia italiana? «Dinamicità, velocità di movimento e imprenditorialità sono stati e ancora sono gli elementi che, unitamente alla creatività che molti Paesi ci invidiano, hanno portato l’Italia a eccellere in alcuni settori industriali, tra i quali il tessile. Il fenomeno dei distretti, il cui effetto non è stato trascurabile nel raggiungimento di tali risultati, ha contribuito a realizzare una rete di sostegno che le singole aziende non sarebbero riuscite a creare singolarmente. L’apertura dei mercati

Sopra, un particolare della Zucchi Collection. Il Gruppo possiede anche la Bassetti e, in Francia, Jalla e Descamps

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STILE ITALIANO

ha tuttavia fortemente modificato le regole del gioco ponendo spesso le aziende di fronte alla necessità di fare scelte più nette rispetto al passato. I cambiamenti richiedono però spesso risorse economico-finanziarie che non sempre realtà di dimensione medio-piccola riescono a reperire. Inoltre, molte delle aziende a conduzione familiare si trovano oggi ad affrontare anche un cambio generazionale, cosa che non sempre favorisce la velocità e l’efficacia decisionale». Cosa si potrebbe fare allora per rendere più competitivo il sistema Italia? «Bisognerebbe sfuggire dalla tentazione di fare più finanza e meno impresa e tornare a lavorare sulle fondamenta del sistema e dei suoi componenti. In Italia dovremmo inoltre abbandonare l’abitudine troppo diffusa di scambiare le parole per fatti». Tornando al cambio generazionale, quali doti le sono state maggiormente necessarie per condurre l’azienda? «Cinque anni di esami universitari mi hanno insegnato ad affrontare gli importanti “appuntamenti professionali” ponendo attenzione non solo alla preparazione in termini di contenuti ma alla loro presentazione, cercando di renderli il più possibile chiari, semplici e comprensibili. Credo comunque che oggi siano le caratteristiche personali e caratteriali a fare la differenza. Leadership, determinazione, da non confondersi con arroganza o spregiudicatezza, saper anticipare i fenomeni sono capacità che solo parzialmente si formano attraverso esperienze professionali.

Sotto, la campagna pubblicitaria di Brio Bassetti e, a fianco, quella di Descamps, marchio leader in Francia

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Personalmente il continuo desiderio di apprendere nuove cose, la fortuna di avere incontrato nel tempo persone che ho stimato e stimo profondamente e dalle quali ho cercato di imparare il più possibile, insieme a un po’ di umiltà e capacità di ascolto penso siano stati alcuni degli ingredienti che mi hanno aiutato a crescere. Senza dimenticare l’aiuto che mi hanno dato la famiglia e le mie passioni, la musica e lo sport, nell’affrontare il lavoro». E l’aspetto più difficoltoso? «Non permettere ai successi personali di intaccare la capacità di rimettersi costantemente in discussione». «Occorre garantire una Com’è cambiagestione manageriale to il settore del tessile negli uladeguata senza timi anni? perdere i valori di «Il settore tessiun’azienda familiare» le-casa è rimasto relativamente stabile in Italia, dove il nostro gruppo sviluppa circa il 50% del fatturato. Ciò nonostante le sue caratteristiche si sono modificate anche a seguito dell’evoluzione dei canali e delle formule distributive. Il dettaglio indipendente detiene ancora le maggiori quote di mercato ma la grande distribuzione è cresciuta e, in alcuni casi, questa crescita è stata accompagnata da una tendenza a banalizzare il prodotto amplificando la separazione tra le fasce più alte del mercato e le così dette commodities».


IDENTIKIT Matteo Zucchi, 46 anni, milanese, una laurea a pieni voti in Ingegneria aerospaziale presso il Politecnico di Milano alle spalle, è Amministratore delegato del gruppo di famiglia. “Baby nonno”, ex sportivo agonistico, nel tempo libero continua a praticare sport e ama suonare con gli amici. Affetti e passioni che rappresentano le necessarie «valvole di sfogo» dal lavoro. Lavoro di cui sempre con «passione, fantasia e creatività» vive la dimensione competitiva. «Anche se è spesso una competizione con me stesso» ammette. Le difficoltà maggiori? «Trovare un equilibrio non sempre facile tra risultati di breve e continuità dell’impresa. E non permettere ai successi personali di intaccare la capacità di rimettersi costantemente in discussione».

Negli anni ‘90 la vostra azienda è stata caratterizzata dall’espansione in Francia. La dimensione europea è vantaggiosa per un’azienda? «Il nostro mercato ha dimensioni molto piccole. È sufficiente pensare che la spesa media per abitante è intorno ai 25 euro annui mentre le spese per l’abbigliamento hanno dimensioni 20 volte superiori. Le dimensioni dei letti e le consuetudini, poi, cambiano da Paese a Paese. È quindi difficile crescere se non aumentando il livello di internazionalizzazione che, nel nostro caso, ha richiesto lo sviluppo di presenze stabili in altri Paesi come Germania, Spagna e Grecia e l’acquisizione di marche e relative quote di mercato, come è avvenuto in Francia con Descamps e Jalla. La dimensione raggiunta, oltre a garantirci posizioni di leadership, ci consente di poter fronteggiare una concorrenza che diventa sempre più globale e che come tale richiede masse critiche crescenti». Quindi la delocalizzazione produttiva è ancora una strada percorribile. «Ogni azienda deve valutare attentamente le decisioni in relazione alle caratteristiche e ai fattori chiave di successo del proprio business specifico. In assoluto si può dire che produrre commodities a costi europei è una scelta difficilmente sostenibile. Nel nostro caso la supply chain vede oggi un mix di produzioni europee, dove il gruppo ha mantenuto il presidio diretto di tutta la filiera pur se in dimensioni più contenute rispetto al passato, ed extraeuropee. Relativamente a queste ultime, le scelte che stiamo operando privilegiano partnership e alleanze che, oltre a garantire qualità, costituiscono una base per l’introduzione delle nostre marche nei mercati emergenti. Qualità e decentramento produttivo non sempre antitetici: credo si tratti di trovare un giusto equilibrio in funzione dei diversi segmenti di mercato in cui si è presenti».

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ARTIGIANI DELLA MODA

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A LEZIONE DI MADE IN ITALY Uno spazio a metà tra sartoria napoletana e club esclusivo per gentlemen. Eleganza e stile sono le parole d’ordine per entrare in Laboratorio italiano. La società di Giustiniano Tomacelli ora punta ad Est organizzando corsi su come si realizza un vestito “all’italiana” di Giusi Brega

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iustiniano Tomacelli Filomarino è un affascinante nobile di origine napoletana. Un gentiluomo d’altri tempi che nel 2003, insieme a quattro illustri amici, ha aperto a Milano un negozio esclusivo dove eleganti uomini d’affari acquistano capi di alta sartoria, fatti su misura da mani esperte. L’idea è venuta per caso. Ma si è sviluppata con ingegno. D’altra parte stiamo parlando di un management di tutto rispetto. I nomi dei soci? Marco Tronchetti Provera, Massimo Moratti, l'architetto milanese Piero Castellini, l’industriale tessile Luciano Barberis Canonico. E Giustiniano Tomacelli Filomarino. Anima, Presidente e Amministratore delegato della società. Tutti accomunati dal desiderio di vestire con stile e dall’insoddisfazione per l’appiattimento di gusto che spesso caratterizza l’offerta nell’abbigliamento maschile. Così hanno deciso di comune accordo di creare un laboratorio di sartoria su misura e realizzare abiti e accessori secondo i propri gusti. «La filosofia del progetto è semplice - spiega Tomacelli - Quando non trovi qual-

Giustiniano Tomacelli Filomarino, Amministratore Delegato e Presidente di Laboratorio Italiano

cosa, la fai». E quando la fai bene, la insegni. Sempre loro, infatti, l’iniziativa di organizzare a Milano corsi di sartoria Made in Italy per stranieri. Più che un laboratorio, una fucina di idee. Ci può raccontare come è iniziata questa avventura? «Io e i miei amici stavamo trascorrendo un weekend insieme chiacchierando del più e del meno. A un tratto, ci siamo ritrovati a parlare della moda e della scarsità dell’offerta che il mercato faceva a uomini come noi, dai gusti un po’ sofisticati. Ci lamentavamo dell’abbigliamento massificato, poco elegante. Poi il colpo di genio.

Ci siamo detti: “Perché non facciamo come i vecchi principi e i cardinali che si facevano confezionare abiti e accessori su misura?”. Da qui l’idea di un laboratorio con modelli che fossero espressione della migliore tradizione, valorizzata al tempo stesso dalle moderne tecniche di confezione. All’inizio creavamo i capi solo per noi. Ma ben presto, poiché le cose erano belle e ben fatte, abbiamo offerto questa opportunità anche agli amici». Com’è strutturato? «L’attività è suddivisa in due filoni: da una parte c’è il laboratorio vero e proprio dove si creano capi e accessori; dall’altra c’è tutto il settore relativo alla ricerca di nuovi tessuti, tagli e modelli. All’interno di Laboratorio Italiano lavorano cinque sarti, cui si aggiungono quelli che operano per noi esternamente. Abbiamo scelto i migliori “Maestri sartori” presenti sul mercato mentre a garantire la qualità della nostra materia prima è Luciano Barberis Canonico, con la sua azienda leader nel settore tessile». Cos’è l’eleganza per lei? «L’eleganza è tutto ciò che un uo-

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ARTIGIANI DELLA MODA

lari. Oltre a essere una sartoria, il Laboratorio è anche un circolo, un punto di incontro e di confronto fra pochi e selezionati “bon vivant”. Una sorta di club, dove divertirsi e risolvere il problema pratico del vestirsi bene. Spesso e volentieri vengono gli amici, e gli amici degli amici, a bere un drink. E se ne approfitta per fare quattro chiacchiere». E di cosa parlate? «All’interno di La«Abbiamo attuato con boratorio Italiano si la Cina una politica ritrovano ogni giorno banchieri, avdi trasferimento vocati, medici, Amdel know how del ministratori dele“vestire all’italiana”» gati. Gli argomenti dei discorsi, di conseguenza, sono i più disparati. A parte con Massimo (Moratti), con cui si parla quasi sempre di calcio. L’atmosfera è davvero piacevole. E il posto è molto bello e elegante». E lei è qui ad accogliere amici e clienti? «Non sempre. Perché buona parte del mio tempo lo dedico alla ricerca: vado in giro per fabbriche a cercare tessuti nuovi, tagli particolari. È un aspetto di questo lavoro che mi appassiona molto. Poiché è mio desiderio ampliare la parte del “leisure wear” è importante poter offrire qualcosa di particolare ai nostri clienti». Qual è il vostro mezzo di promozione? «Il passaparola di un cliente soddisfatto in assoluto è il miglior strumento pubblicitario. Quando Sopra, due foto degli interni. Oltre a essere una sartoria, il Laboratorio è anche sono arrivato a Milano, più di trenun circolo per “bon vivant”. A fianco, Giustiniano Tomacelli Filomarino ta anni fa, una delle prime cose che mo riesce a esprimere di se stes- la frequentata, nell’aver consue- ho fatto, da buon napoletano, è stata andare alla ricerca di un sarso. È impossibile da definire. È tudine con lo stile e la qualità». to. Quando l’ho trovato gli ho detun modo di essere, di comportar- Chi si rivolge a voi? si. Di camminare, di muoversi». «La nostra clientela è costituita to “Non ho una lira, però non posEleganti si nasce oppure lo si da imprenditori, top manager, so vivere senza un bel vestito. professionisti che si rivolgono a Facciamo un patto: io ti pago un diventa? «Quasi sempre lo si deve nasce- noi con la certezza di trovare i tes- tanto al mese e tu mi fai tanti vere. È difficile diventarlo. Perché suti migliori, un taglio perfetto stiti. E, nel frattempo, ti faccio pubil segreto dell’eleganza sta nell’aver- e la cura minuziosa dei partico- blicità”. È stato un contratto lun-

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Foto di Renzo Chiesa

Sopra, ancora un interno di ulara un interno di una i dedeli . L’istitl


ARTIGIANI DELLA MODA

ghissimo durato fino alla sua morte, dieci anni fa». Il Financial Times ha dedicato un articolo alla vostra iniziativa di insegnare ai partner esteri come si realizza un vero abito "Made In Italy". Di cosa si tratta? «L’iniziativa è nata dalla nostra intenzione di espanderci andando a inserirci in altri mercati, in particolar modo quello della Cina. Da sempre tacciati di essere meri imitatori del brand italiano, i cinesi si sono mostrati invece entusiasti di venire in Italia per un anno a imparare come si realizza il vestito sartoriale per poi aprire, per nostro conto, una sartoria

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«I clienti si rivolgono a noi con la certezza di trovare i tessuti migliori, un taglio perfetto e la cura dei particolari» nel loro Paese. Si tratta di una politica di trasferimento del know how del “vestire all’italiana”, o meglio alla napoletana, perché Napoli vanta una tradizione sartoriale di tutto rispetto». Intendete replicarla? «Sì. Il prossimo autunno Laboratorio Italiano ripeterà l’iniziativa per i partner indiani e nel 2008 ospiterà la Russia, tra i mercati più promettenti sulla scena glo-

bale, ai quali l'Italia potrà accedere attraverso un'offerta vantaggiosa nei prezzi e forte di una notorietà affermata a livello mondiale. Il progetto mira a rivoluzionare lo stato di stallo che la moda internazionale vive da ormai troppo tempo». Cosa ne pensa della globalizzazione? «Dalla globalizzazione tutti abbiamo da guadagnare. Ma bisogna sapersi adeguare». Quali sono i vostri progetti per il futuro? «Vorrei sviluppare l’attività in modo tale da poter offrire alla nostra clientela, accanto agli abiti sartoriali su misura, anche del prêtà-porter che rispecchi sempre le caratteristiche di eleganza, cura del dettaglio e qualità delle materie prime per le quali Laboratorio Italiano è conosciuto e apprezzato». Il fatto che i soci siano tutti di fede interista è un caso o è uno dei motivi alla base della sinergia aziendale? «Un socio milanista non l’avremmo mai preso. Sto scherzando! In realtà è stato un caso. Marco Tronchetti Provera e Massimo Moratti sono interisti. Barberis è agnostico. Io sono napoletano e il Napoli ce l’ho nel cuore. Ma ho dei fantastici ricordi di quando, da ragazzo, sognavo con la grande Inter di Herrera. Era il periodo di Gianni Brera, “il poeta del calcio” che riteneva che la difesa dell’Inter fosse un’arte e che uno 0 a 0 potesse essere più affascinante di un 8 a 0. Per questo io posso definirmi più che altro un interista “cerebrale”. Massimo lo è con l’anima. Gli si illuminano gli occhi. Lui è un vero tifoso. Il vero tifoso interista non pensa al bel gioco. Deve vincere e basta. Il massimo della soddisfazione per un interista è vincere 1 a 0 all’ultimo minuto su autogol di Maldini».



MODA Guglielmo Miani

Progettare a lungo termine. Coniugando l’impronta artigianale con la produzione industriale. Ecco la ricetta per conquistare i mercati globali. Larusmiani questa scommessa l’ha vinta. Guglielmo Miani, Amministratore delegato, spiega come di Micol Lavinia Lundari

UN’ECCELLENZA

NATA IN FAMIGLIA

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IDENTIKIT Gugliemo Miani, nipote del fondatore della sartoria Larus, dal marzo 2006 è Amministratore delegato della Larusmiani mentre Presidente è suo padre Riccardo. Si è laureato in Imprenditoria e Finanza al Babson College di Boston (USA). È entrato nell’azienda di famiglia nel 2000, occupandosi inizialmente del controllo tessuti e poi si è spostato nel settore dello sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero. Recentemente si è impegnato a rafforzare la divisione abbigliamento della Larusmiani con l’acquisizione della sartoria Clad.

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radizione e modernità sono i valori bandiera del made in Italy. Occorre quindi saper coniugare il knowhow e la creatività che solo il nostro Paese sa produrre. Puntando su uno spirito industriale e commerciale che consenta di conquistare nuove fette di mercato. Ma anche sfruttando i lati positivi della globalizzazione, che può diventare una vetrina per l’eccellenza italiana. È questa la scommessa dell’imprenditoria che nasce in famiglia. Lo conferma Guglielmo Miani, Amministratore delegato della Larusmiani, un’impresa familiare il cui nome ha varcato i confini nazionali. Un’azienda di successo nata come sartoria impegnata nella distribuzione dei tessuti inglesi. Che sviluppandosi presto su scala industriale è diventata un simbolo del “saper fare” italiano. La storia dell’azienda è costellata di successi e premi. Come è cambiata la produzione nei decenni? «Sono state molte le soddisfazioni. Mio nonno è stato insignito dalla Regina Elisabetta II del titolo di Officer of the most excellent order of the British Empire, e poi in Italia è stato fatto Commendatore, proprio per i meriti nella commercializzazione dei tessuti inglesi in Italia. Nel Do-


A sinistra, un interno e l’esterno di due spazi vendita Larusmiani nel capoluogo lombardo. Mantenendo la qualità dei tessuti, oggi l’azienda nata 85 anni, fa è ancora un punto di riferimento della produzione Made in Italy. Una strategia indovinata, visto il grande successo riscontrato anche all’estero, in particolare in Germania, Francia, Giappone, Stati Uniti e Canada

poguerra l’allora Larus produceva i tessuti più belli ed esclusivi al mondo. Poi con la nascita della generazione di stilisti italiani negli anni Sessanta e Settanta i gusti sono cambiati. È nata la necessità di tessuti molto più moderni e innovativi, diversi da quelli inglesi che sono classici, pesanti e tradizionali. Oggi l'export della divisione Larusmiani è superiore al 50% del totale, un indice per capire l'importanza assoluta del mercato estero». Cosa significa guidare la Larusmiani e come riesce a conciliare il lavoro con gli impegni della vita privata? «Per me è un onore guidare

un'azienda di famiglia con tradizioni e valori forti che porta il nome di mio nonno. È una situazione bellissima che mi rende orgoglioso. Lavorare e guidare un'azienda familiare è oggi, secondo me, una situazione vincente perché si hanno obiettivi a lungo termine. Le aziende mediograndi, invece, essendo partecipate da private equity e in Borsa, non possono avere una visione a lungo termine, ma a medio o breve termine. Questo perché devono soddisfare gli azionisti che non sono disposti ad aspettare dieci anni per avere degli utili, ma al massimo uno, due, tre anni. La massimizzazione della mission

aziendale in questi casi non è costruire un'impresa solida a lungo termine. In queste condizioni è più difficile lavorare. Si perdono visioni proiettate nel futuro che sono necessarie per un'azienda che fa un prodotto di eccellenza, di nicchia. E che di quella nicchia vuole essere leader incontrastato. La qualità purtroppo in questi casi è la prima a farne le spese, perché si ragiona in termini di abbattimento dei costi». L'azienda di famiglia ha dunque una progettualità diversa? «Senz'altro. L'imprenditore che guida un'impresa di questo genere deve impostare valori e

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MODA Guglielmo Miani

particolari e interessanti per una fascia alta di mercato. Che non cerca il prezzo prima di qualsiasi altra cosa: cerca piuttosto la qualità, il servizio, la creatività. Il prezzo viene solo in un secondo momento». Allora il bene di qualità, o di qualità estrema, non è affatto minacciato dalla globalizzazione. «Assolutamente no. Anzi, per noi italiani, che creiamo prodotti di assoluta eccellenza, la globaSotto, Guglielmo Miani. Entrato nel 2000 nell’azienda fondata dal nonno lizzazione è un'opportunità. Il maomonimo, dallo scorso anno è Amministratore delegato di Larusmiani de in Italy è importante per la creazione dei tessuti e dei prodotti finiti grazie alla struttura di sensibilità, creatività e servizio che le aziende mettono a disposizione dei clienti. È questo che premia. Il prodotto finito italiano, che sia un abito, una camicia, un giaccone, ha un'immagine diversa, da dolce vita, del bel vivere. Questo è il suo valore aggiunto. In Italia si possono fare ancora i migliori abiti al mondo: ci sono artigiani, purtrop«Sono orgoglioso po sempre meno nudi guidare l’azienda merosi, che creano prodotti incredibili». di famiglia. È una Un’artigianalità a risituazione vincente schio di “estinzioperché permette ne” o che possiamo ancora recuperare? obiettivi a «Sta agli imprenditolungo termine» ri tutelare questa artigianalità, in modo da tutelarla perché non sia “inghiottita” dai lavori più di moda che sono i classici lavori di servizi, non legati all'arte di un creare qualcosa». Ci sono ancora zone legate all'artigianato in cui si può investire? «Sì, senz'altro. Larusmiani ha acquisito una sartoria con una quarantina di sarti, la Clad. Si tratta di una delle tre sartorie industrializzate d’Italia: sono dei veri e propri laboratori. Bisogna cercare di mantenere la struttura e allevare e crescere persone più giovani che

obiettivi a lungo termine, collaborando con tutte le figure dell’azienda». A suo giudizio qual è lo stato di salute dell'industria italiana? «Si dice che il tessile stia vivendo da alcuni anni un periodo di crisi. Ma la globalizzazione per noi è un'opportunità, non una minaccia: quasi il 25% di incremento di fatturato registrato nel-

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l'anno scorso è un segnale molto positivo. Un mercato che sta crescendo notevolmente è la Cina. Può sembrare paradossale, ma anche lì c'è un mercato di alto livello, anche i cinesi cercano di differenziarsi dalla concorrenza. Sono sempre più alla ricerca di prodotti unici, esclusivi, di nicchia, proprio quelli che fa Larusmiani. Prodotti di altissimo livello,



MODA Guglielmo Miani

UNA STORIA DI QUALITÀ E INNOVAZIONE Sartoria negli anni Venti. E poi boutique e gruppo leader del Made in Italy. Da sempre marca status symbol dell’eleganza e del lusso, Larusmiani ha saputo attraversare i decenni senza perdere l’artigianalità che il mondo ci invidia La Larusmiani festeggia 85 anni di attività. È nata come sarcon la tradizione familiare che l’ha creata e portata avanti toria nel 1922 dall’idea di Guglielmo Miani, nonno dell’attuanegli anni. La natura artigianale dell’impresa si evolve in prole omonimo Amministratore delegato dell’azienda. Il nome getto industriale cercando di mantenere, però, l’impronta tinon trova origini familiari, piuttosto viene dalla parola latina pica del Made in Italy e del know-how universalmente ricoper indicare il gabbiano: il richiamo va al fatto che tra le prinosciuto al nostro Paese nel settore del tessile e dell’abbime produzioni dell’impresa della famiglia Miani vi fossero gliamento. Oggi Larusmiani è sinonimo di lusso e di eccelquelle degli impermeabili su misura, impermeabili come le lenza. Riccardo Miani, oggi Presidente dell’azienda, ha ali del gabbiano. Il taglio del puntato molto sulla dinastro della prima boutique visione tessuti, orientanavviene negli anni Quarandosi soprattutto verso i ta: alla bottega artigiana Lafinissaggi speciali del rus di via Manzoni a Milano cotone e di altre fibre nasi possono acquistare non soturali. Il grande succeslo impermeabili e abiti fatti su so riscontrato all’estemisura, ma anche, in breve ro, in particolare in Gertempo, i migliori tessuti inglemania, Francia, Giapsi. Negli anni Settanta si suspone, Stati Uniti e Caseguono le aperture di nuonada, è l’indice di una vi negozi nel pieno centro del scelta indovinata. OgSopra, alcune foto storiche dell’azienda. A sinistra, Giulio capoluogo lombardo che gi proprio la divisione Andreotti e al centro Aldo Fabrizi, clienti della Larusmiani promuovono il marchio Latessuti è diventata il corus. Possedere un suo capo re business dell’aziendiventa allora uno status symbol per tutta la classe dirigenda, con i 2 milioni di metri venduti dalla sola collezione Late italiana e la clientela internazionale di alto livello. La quarusmiani nel 2005 in Italia e all’estero. L’azienda ha saputo lità è l’impronta che Riccardo Miani mantiene quando prennobilitare una fibra povera come il cotone portandola a livelde in mano le redini dell’azienda. Una qualità che attraverli di eccellenza. Tra i cotoni oggi impiegati dalla Larusmiani, sa tutte le fasi della produzione: la scelta della materia prici sono il West Indian Sea island cotton (morbido come il cama, l’assoluta eleganza del taglio, la cura attenta del dettashmere), il Wind isle cotton (un tessuto antivento) e lo Spinglio. L’azienda prosegue il suo percorso con il nome Laruker drill (impiegato dall’esercito inglese nella Seconda guersmiani che coniuga il passato già importante dell’azienda ra mondiale per sopportare i caldi del deserto).

devono essere motivate. E non è facile, è una sfida importante, che può garantire la leadership di mercato». Quali sono i mercati più complicati da conquistare? «Senz'altro quello statunitense. Con il dollaro così debole è l'unico mercato che negli ultimi due anni non è cresciuto, almeno per quanto riguarda la divisione tessuti. Occorre sottolineare che oggi il bacino di utenza e della clientela è molto più allargato. Certo si tratta di avere le forze distributive commerciali giuste e necessarie per andare a colpire e conquistare nuovi mercati. Per questo nell’ultimo periodo abbiamo rafforzato la nostra struttura commerciale. Raccoglieremo i frutti

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nei prossimi anni». Le esigenze dei clienti esteri sono le stesse di quelli italiani? «È molto difficile generalizzare, bisognerebbe vedere mercato per mercato. Però più si offre un prodotto di nicchia, più il cliente si aspetta un certo tipo di servizio». Come riuscite ad affrontare il mercato cinese? «Bisogna innanzitutto avere forza distributiva e un'adeguata struttura commerciale. E capire le necessità del mercato, perché ogni mercato ha esigenze diverse. Ad esempio in Cina esistono precisi standard qualitativi a cui ci si deve adattare, sono una sorta di barriere in entrata. È necessario conoscerle e farle proprie. Un discorso stilistico è per forza

legato a differenze di gusto che si registrano da un Paese all'altro. Tutto parte allora da una ricerca di mercato: tanto più il Paese è lontano, non solo geograficamente ma soprattutto culturalmente, tanto più deve essere approfondita la ricerca». Il futuro della Larusmiani. Cosa le rimane ancora da realizzare? «C'è sempre da fare. Bisogna continuamente agire. La struttura che abbiamo creato in quest'azienda fa sì che l'imprenditore, l'Amministratore delegato, imposti una mission a lungo termine, e che dia un’impronta sempre più manageriale, facendo crescere le persone e dando loro spazio».



RITRATTI DI DONNA

TUTTA LA MIA VITA IN UN OBBIETTIVO

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Foto di Ruy Texteira

Grazia Neri, milanese, nel 1967 ha fondato l’agenzia fotogiornalistica che porta il suo nome e di cui è Presidente ed Exhibitions Director

È stata rapita giovanissima dalla fotografia. Una passione che ha trasformato in professione. Ottenendo un successo costruito, passo dopo passo, con talento, tenacia e determinazione. Tanto che il suo nome è diventato un marchio. Ecco un’istantanea di Grazia Neri. Indiscussa “signora della fotografia italiana” di Giusi Brega

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RITRATTI DI DONNA

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a maggior parte delle fotografie che corredano gli articoli di riviste e giornali è siglata con il suo nome, Grazia Neri, accanto a quello di uno dei centinaia di fotografi rappresentati in tutto il mondo dalla sua agenzia. Era poco più che una ragazzina quando si è avvicinata per la prima volta al mondo della fotografia e, da allora, di strada ne ha fatta tanta. Una carriera costruita sul talento genuino e sulla tenacia, con un carattere forte ma discreto che mai ha ostentato i successi raggiunti. Lei, donna pratica e decisa, da buona milanese non ama

Foto di Alessandro Rizzi/Grazia Neri

IDENTIKIT

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Grazia Neri inizia giovanissima a lavorare come traduttrice e redattrice presso l'agenzia giornalistica Newsblitz e nel 1967 apre la propria agenzia riuscendo a conquistare la fiducia dei più rinomati fotografi, delle testate giornalistiche più prestigiose e delle agenzie più impegnate diventando un riferimento per le agenzie e i fotografi di tutto il mondo. Più recentemente ha acquisito la rappresentanza dell’agenzia VII, dell’agenzia Polaris e della WPN. È regolarmente invitata a far parte delle giurie dei più prestigiosi concorsi internazionali di fotogiornalismo. Ha partecipato come lettrice a seminari sul fotogiornalismo in Italia, nei Paesi dell'Est europeo e negli USA. Le avventure lavorative più recenti includono l'organizzazione di una propria galleria e la circuitazione di mostre fotografiche presso altri spazi espositivi. Molte le edizioni di libri di fotografia cui ha lavorato. Nel 2001 ha ricevuto il premio Memorial “Elvira Puorto”, assegnato a donne impegnate nella fotografia. Ha un figlio giornalista che la affianca nella direzione dell’agenzia.

perdere tempo. Poche parole e tanti fatti. E tra i fatti ci sono 40 anni di attività, quasi 9 milioni di fatturato annuo, un milione di immagini archiviate, la produzione di mostre fotografiche, l’organizzazione di una propria galleria. Il suo segreto? Determinazione, passione e 14 ore di lavoro ogni giorno. Perché per diventare un professionista occorre tanta dedizione. Cosa la attrae della fotografia? «Sin da quando ero ragazza sono affascinata dalle differenti reazioni che la medesima fotografia è in grado di suscitare in ciascuno di noi in base alla nostra sensibilità, cultura, stato d’animo. La fotografia ha un impatto emozionale che difficilmente è possibile ritrovare in un testo scritto». Quando ha iniziato ad interessarsi a questo mondo? «Subito dopo aver terminato il liceo linguistico, sono entrata in un’agenzia giornalistica. Qui c’era anche un laboratorio fotografico e mi sono subito appassionata. Oggi sembra tutto facile, immediato. Le macchine fotografiche digitali hanno cambiato il modo di rapportarsi alle immagini. Ma allora era tutto nuovo, per me e per la mia generazione. Chiedendomi come mai in Italia la fotografia fosse per così dire “male commercializzata”, ho studiato tutta la normativa relativa al copyright, e, dopo aver fatto la freelance per alcuni anni, ho deciso di aprire un’agenzia in un piccolo ufficio in via Manzoni a Milano. Era il 1967». Si è rivelata subito un’intuizione vincente o ha fatto fatica ad affermarsi in questo particolare settore? «Ho costruito tutto passo dopo passo. Con caparbietà e tanta buona volontà. Non ho avuto grandi difficoltà. E quelle che ho avuto le ho affrontate, come accade a tutti quelli che lavorano». Com’è predisposto il lavoro all’interno della sua agenzia? «Il lavoro è organizzato tendenzialmente in due macroaree. La prima è quella relativa all’attualità e viene gestita la mattina molto presto. Disponiamo di un solido canale distributivo sia in Italia - attraverso dei venditori che ogni giorno raggiungono le varie redazioni giornalistiche per proporre il materiale - sia all’estero - grazie alla nostra rete telematica attraverso la quale ci colleghiamo direttamente con agenzie e giornali di oltre 15 Paesi in tutto il mondo, per garantire la distribuzione immediata delle immagini di attualità. Nel corso degli anni abbiamo affiancato alla tradizionale attività di distribuzione un settore dedicato alla produzione di materiale ad hoc che si occupa soprattutto di attualità e personaggi della cultura, della politica e dello spet-


Foto di Alessandro Rizzi/Grazia Neri Foto di Alessandro Rizzi/Grazia Neri

«Fin da ragazza ero affascinata dalle differenti reazioni che la medesima fotografia è in grado di suscitare in ciascuno di noi»


Foto di Alessandro Rizzi/Grazia Neri

RITRATTI DI DONNA

tacolo e può contare su fotografi in tutta Italia e nelle principali sedi internazionali». Come decide cosa produrre e cosa no? «Al mattino siamo soliti fare una riunione di redazione. Ci sediamo così intorno a un tavolo e parliamo, ci confrontiamo. Tiriamo fuori delle idee e le trasmettiamo al fotografo. In eguito verifichiamo la copertura delle spese e l'interesse da parte delle testate giornalistiche e valutiamo come intervenire di volta in volta». Oggi si utilizza esclusivamente il digitale o c’è ancora chi usa la pellicola? «La rivoluzione digitale è iniziata da circa 13 anni e, in realtà, non è ancora terminata. Circa l’80-90%

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dei fotografi utilizza esclusivamente il digitale, sebbene si usi ancora la pellicola per alcuni lavori, in particolar modo quelli di approfondimento». Quale futuro immagina per la sua professione? «Si tratta di un’attività in continua evoluzione e, in questi quarant’anni, l’agenzia si è fatta trovare preparata ai mutamenti del mercato. Già oggi Grazia Neri non è più soltanto un'agenzia ma anche una galleria, organizza mostre, cura libri. Abbiamo una compagnia, Emage, che produce filmati digitali di attualità, e poi Sportshots, la sezione sportiva che lavora in digitale». Lei è stata per anni Presidente della Gadef, associazione che si batte per la tutela dei diritti d’autore della fotografia. Com’è la situazione in Italia? «La tutela del copyright è maggiormente garantita in Francia e nei Paesi anglosassoni piuttosto che da noi. Da anni mi batto affinché i giornali si impegnino a rispettare il contenuto morale ed estetico delle fotografie e la citazione del fotografo posta accanto alle immagini. E fortunatamente la situazione sta migliorando anche in Italia. Pur«Mi batto affinché troppo, con l’avvento digitale le regole del i giornali rispettino del copyright sono da reiil contenuto ventare». morale ed estetico Cosa consiglia a chi vuole diventare fotodelle fotografie e reporter? la citazione del «Innanzitutto di frefotografo accanto quentare una buona scuola di fotografia, alle immagini» conoscere almeno un paio di lingue straniere e studiare bene le regole del copyright per non inquinare il mercato. E poi vivere pienamente il mondo della fotografia, andando ai festival e visitando le mostre dove guardare le foto di altri fotografi, senza il timore di mettersi in discussione, ma anzi cercando volontariamente il confronto. Il confronto è sempre produttivo. Bisogna imparare ad essere severi nel giudicare il proprio lavoro e mettersi in rapporto con persone che siano in grado di dare validi consigli».



SOCIETÀ E TENDENZE

Signore del “bel vivere”. Amante dello stile e dell’unicità. Esteta assoluto. Un modo d’essere e un modello quasi irrimediabilmente scomparso. Giuseppe Scaraffia, scrittore e giornalista, presenta la fenomenologia del dandy meneghino. Spirito contradittorio di una città discreta di Giusi Brega

ESISTONO ANCORA I DANDY A MILANO?

“I

l dandysmo non è morto e non morirà mai”. Perché la società ha ancora bisogno di questo specchio che ne svela irriverente le contraddizioni attraverso la contraddizione stessa. E allora “Eterna superiorità del dandy. Ma cos’è il dandy?” si chiedeva Charles Baudelaire. Il dandy è un individuo autonomo. Aristocratico. Solitario. Incurante dell’avere, preferisce occuparsi del suo essere attraverso la singolarità di una vita mai banale. “Perché il dandy è una sorta di ironico santo, un eremita mondano, un martire di lusso”. Non è democratico né “politically correct”. Lo si trova al di fuori dei luoghi

comuni, lontano dalle moltitudini, “i branchi di pecoroni, le adunate di partito e i gruppi organizzati”. A tutte queste omologazioni egli oppone il suo essere libero da ogni schema. Ma è possibile individuarlo nella realtà lombarda? «La naturale sobrietà, il rifiuto dell’ostentazione, la predilezione per un lusso invisibile sono delle innegabili qualità lombarde. In un simile terreno il dandysmo si esplica nel modo più discreto e impercettibile» afferma Giuseppe Scaraffia, ricercatore all'Università La Sapienza di Roma e autore del libro “Dizionario del Dandy”. La Lombardia, terra di grandi uomini e grandi idee, forse nasconde ancora qualche esemplare di “esteta del sublime”. E Milano, città che tutti tollera o che tutti ignora, forse custodisce ancora qualche “fuoriserie” degno di nota. Da Carlo Gavazzeni a Philippe Daverio, da Carlo Orsi ad Andrea G. Pinketts. Ognuno di loro è dandy a suo modo. Necessariamente unico e originale. Perché il dandysmo è un fiero oppositore del conformismo, dell’omologazione, della griffe: tutte cose, semmai, che caratterizzano l’essere snob. E non bisogna confondere mai un dandy con uno snob. Come diceva Philippe Jullian, uno snob sta a un dandy come una beghina qualsiasi sta a Santa Teresa d’Avila. Quindi non è sufficiente atteggiarsi. Bisogna esserne persuasi dal profondo. Altrimenti si rischia di apparire solo banalmente straNella foto a sinistra, Giuseppe Scaraffia, nato a Torino 57 anni fa, autore del libro “Dizionario del Dandy”, un vademecum sul dandysmo oggi edito da Sellerio

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In questa pagina, alcuni scorci di Piazza Duomo a Milano, cittĂ in cui sopravvivono alcuni “esemplariâ€? di dandy, e due ritratti di rappresentanti celebri del genere. A sinistra, Beau Brummel uno dei primi dandy e a destra lo scrittore Marcel Proust

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SOCIETÀ E TENDENZE

Sopra, un ritratto del Conte Robert de Montesquiou, esempio di “dandy di scuola brummeliana”. Sotto, lo scrittore irlandese Oscar Wilde che, secondo l’analisi di Scaraffia «si diverte a provocare il conformismo della moda con delle scelte al limite della vistosità»

IL DIZIONARIO DEL DANDY Smanioso di affascinare ancor più che piacere, dotato di fine senso dell’umorismo, raffinato sino all’esasperazione: questo è il dandy. Il libro di Giuseppe Scaraffia, «Dizionario del dandy» (Edizioni Sellerio) ne delinea il ritratto attraverso una serie di aneddoti, citazioni e racconti sui più illustri dandy tra Otto e Novecento.

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vaganti. Essere dandy è tutta un’altra cosa. Professore, come descriverebbe il dandy? «Il dandy è una persona che crede, come il grande naturalista Buffon, che lo stile sia l’uomo. Che si possa diventare un’opera d’arte vivente. Che abbia senso esprimere le proprie idee più profonde, la propria concezione del mondo attraverso una serie di scelte estetiche e di comportamento. Nessuno più del dandy è convinto che l’originalità sia il frutto di una lunga, ininterrotta ricerca». È una figura che esiste ancora oggi? «Il dandy esiste ancora anche se la sua sopravvivenza è continuamente messa in forse dalla società dei consumi che massifica rapidamente ogni sua scelta originale. Questa non è una novità. Già il primo dandy, Beau Brummel, lo aveva sperimentato e aveva reagito stoicamente, spegnendo le tinte che sceglieva e semplificando ulteriormente il taglio degli abiti». Come lo si può riconoscere? «Oggi come nell’Ottocento esistono sostanzialmente due tipi di dandy. Quello alla Brummel che fa coincidere l’eleganza con l’impercettibilità, e quello alla Wilde che si diverte a provocare il conformismo della moda con scelte al limite della vistosità. Il dandy di scuola brummeliana lo si riconosce dalle scelte volutamente spente e da quella che in gergo viene chiamata la “divisa” che può essere un colore o una marca ricorrenti. Un esempio perfetto è il conte Robert de Montesquiou, ritratto da Giovanni Boldini in un celebre quadro e da Marcel Proust nel barone Charlus della sua “Ricerca del tempo «Il dandy esiste perduto”. Nella te- ancora anche se la la di Boldini, Montesquiou porta uno sua sopravvivenza è dei suoi celebri abi- continuamente messa ti grigi con i botto- in forse dalla società» ni foderati di stoffa e una cravatta pastello della sua immensa collezione proveniente dalla manifattura londinese di Liberty. Niente di straordinario se non la perfetta armonia delle tinte, la perfezione del taglio e della posa. “Sembro un levriero col cappotto” diceva, senza false modestie, il conte. Ma ecco il tocco inedito, il manico del bastone di porcellana blu, che segnala la differenza tra il dandy e l’uomo elegante. Per individuare il dandy di scuola wildiana c’è solo l’imbarazzo della scelta tra i segnali, dal garofano verde di Oscar Wilde al fiore di plastica di Franco Maria Ricci». Quale personaggio del panorama lombardo attuale a suo parere può essere identifi-



SOCIETÀ E TENDENZE

CHI È GIUSEPPE SCARAFFIA Nato a Torino nel 1950, si è laureato in Filosofia con Remo Cantoni all'Università Statale Milano e lavora all’Università di Roma La Sapienza dal 1976. Collabora al supplemento letterario del "Sole 24 Ore", “Io donna”, a “Style”. Autore televisivo, in coppia con Silvia Ronchey, ha scritto e condotto programmi culturali per la RAI, collaborando con il DSE, Videosapere, con RAISAT, con RAI1, RAI2 e RAI3. Oltre alle cinque edizioni dell’Altra Edicola (vedi Aldo Grasso Enciclopedia della televisione) ha realizzato con Silvia Ronchey una serie di interviste ai grandi vecchi, iniziata con quella a Ernst Junger per i suoi 100 anni. Nel corso della sua carriera, ha intervistato Lévi-Strauss, Hillman, Lodge, Waldrop e Vernant sui grandi temi dell’attualità, dall’apocalissi all’amore. Ha scritto 12 libri, di cui 10 saggi. SEGNI PARTICOLARI: Onori: è cavaliere della cultura in Francia. Oneri: insegna la letteratura francese all’università di Roma la Sapienza. Hobby: mercatini e libri vecchi. Detesta: le persone noiose, le riunioni collegiali, i libri dei debuttanti e i film italiani. Ama: l’ironia, la bontà, la sensibilità, il paradosso. Particolarità: è l’unico italiano che non sa l’inglese. Vizi: la golosità e la vanità.

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cato come un vero dandy? «Dandy veri e propri, cioè personaggi interamente dediti al progetto di diventare un capolavoro vivente, non ce ne sono più. Esistono tuttavia personaggi che si avvicinano a questa definizione. Sul versante colorato abbiamo avuto Emilio Tadini, spesso sul pericoloso confine con l’eccentricità. E abbiamo con il suo arcobaleno di panciotti e papillon. Con una maggiore sobrietà anche Carlo Gavazzeni potrebbe ambire a entrare nella tavolozza. Invece a Vittorio Sgarbi, che avrebbe tante cose per far parte della categoria di ascendenza brummeliana, manca sempre quell’impercettibile violazione che contraddistingue il dandy. Lo stesso si può dire per lo squisito Carlo Orsi. Resta irraggiungibile il ricordo di Dino Buzzati, interamente vestito di nero con una sottile cravatta in tinta zampillante dal candido colletto rinserrato su se stesso. A metà strada tra i due schieramenti troviamo personaggi come Giovanni Gastel, abile a mescolare l’aulico col prosaico, riuscendo ad apparire, come Drieu La Rochelle, “ben malvestito”». Quali doti bisognerebbe avere per essere un vero dandy? «Per essere un vero dandy è indispensabile un grande senso dell’umorismo, soprattutto su se stessi. E un notevole stoicismo. Il dandy, sostiene Baudelaire, deve vivere e morire davanti allo specchio. Deve saper essere perfetto anche quando è solo, come Max Beerbohm nei suoi impeccabili completi di lino «Il dandy deve vivere bianco sulle colli- e morire davanti ne di Rapallo. Deve rimanere sem- allo specchio. Deve pre un perfetto essere perfetto anche egotista, una per- quando è solo» sona cioè lucidamente consapevole della vanità di ogni cosa, al di sopra dei rumori e delle lotte del mondo, un frivolo monaco, solo in mezzo ai clamori di una festa o sulla sabbia del deserto». È un modo di essere oppure ci si può atteggiare a tale? «È entrambe le cose. Nel senso che eleganti si nasce, ma dandy lo si può solo diventare tramite un intenso lavoro su di sé che sopravvive anche alle delusioni maggiori della vita. Un esempio per tutti il conte Boni de Castellane che, in punto di morte, aveva insistito per mettersi in abito da sera. Altrimenti non avrebbe potuto ricevere una visita importante come l’estrema unzione».



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