OSSIER
Emilia Romagna
OSSIER
In allegato al quotidiano
Il Giornale
RIVISTA DI POLITICA ECONOMIA MANAGEMENT
Gianfranco Fini, 56 anni, nato a Bologna.
GIANPIERO SAMORÌ
Per una finanza a misura d’impresa
FEDERICA GUIDI
VALENTINO VALENTINI
L’importanza del fare squadra AFFARI E LAVORO
Forlì - Cesena UOMINI DI LEGGE
Registrazione: Tribunale di Bologna n. 7578 del 22-09-2005
All’Italia serve più meritocrazia
GOLFARELLI EDIZIONI
Carlo Benini
GIANFRANCO FINI GIANPIERO SAMORÌ
Deciso. Pungente. Brillante. L’uomo che con determinazione Ha portato la regione all’eccellenza. Lavorando con e coraggio hasua sempre guardato al futuro spiega la sua idea grande impegno e passione. Forte della fiducia dei cittadini. di politica. E ora indica la strada per il rilancio del Paese Il Presidente del Veneto spiega la sua ricetta di Buon Governo
COPERTINA
GIANFRANCO
FINI
IL PAESE HA BISOGNO DI CREDIBILITÀ Governabilità. Sicurezza. E maggior tutela delle famiglie. E ancora, riforme: dalla Costituzione alle pensioni. Gianfranco Fini elenca i problemi prioritari del Paese e come possono essere risolti di Riccardo Cervelli
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ompito arduo intervistare in periodo di campagna elettorale Gianfranco Fini capolista, insieme a Silvio Berlusconi, del Popolo della Libertà per le elezioni della Camera in tutte le circoscrizioni nazionali. Il leader di An, che a dicembre ha accettato la proposta del Cavaliere di costituire un unico soggetto politico per la prossima legislatura con l’obiettivo di andare al governo, è infatti impegnato in un tour de force in giro per le piazze d’Italia. Obiettivo: spiegare, o meglio riconfermare, perché il Pdl, al di là delle somiglianze esistenti tra il suo programma e quello del rivale Partito Democratico, è l’unica coalizione che possa realizzare il rilancio dell’Italia in modo credibile. E dopo aver ribadito questo messaggio ed essersi convinto che gli italiani lo hanno recepito, negli ultimi giorni ha iniziato a spiegare come il Pdl, oltre a costituire da subito un gruppo unico al Parlamento, possa e debba trasformarsi in un partito unico. Passo che, ovviamente, deve essere sottoposto alle assemblee sovrane dei partiti interessati, in particolare An, formazione che Fini guida dalla sua nascita a Fiuggi. Senza contare gli anni in cui è stato ai vertici del Movimento Sociale, prima come delfino di Giorgio Almirante (che
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Foto Enrico Para
OTTIMISTA Nato a Bologna, 56 anni, è leader di An e candidato con il PdL alla Camera. Ăˆ stato vicepresidente del consiglio dei ministri nel terzo Governo Berlusconi
COPERTINA
«Una scuola efficiente è fondamentale per il futuro e lo sviluppo del nostro Paese. Il cuore della questione è proprio la meritocrazia»
lo volle prestissimo responsabile del movimento giovanile Fronte della Gioventù) poi più volte come segretario, incarico ricoperto in modo tutt’altro che burocratico, ma attivo nello sforzo continuo di adeguare il partito alle mutate condizioni storiche e sociali. Uno sforzo che negli ultimi anni ha portato al risultato di trasformare un partito bollato come “post fascista” in un partito che può essere considerato il rappresentante in Italia di una destra di respiro internazionale. Una destra pronta, in Italia, a dare il proprio contributo a una nuova formazione in grado di governare il Paese per guidarlo fuori dalle paludi in cui è caduto negli ultimi anni. Una situazione che, secondo Gianfranco Fini, non è più sopportabile. Da una tassazione eccessiva che soffoca l’imprenditoria a un aumento del carovita. Da una scuola dove non vige la meritocrazia e che viene periodicamente bocciata dalle indagini internazionali sulla capacità di fornire una formazione adeguata ai giovani allo scoppio di scandali come quello della “monnezza” in Campania e delle mozzarelle di bufala alla diossina che hanno dato il colpo di grazia all’immagine dell’Italia nel mondo. Un’immagine la cui credibilità può essere ricostruita solo se al governo, del Paese, delle regioni e delle città, andranno persone credibili. Presidente, l’inizio della campagna elettorale è stato soft mentre negli ultimi giorni si è alzato il livello dello scontro. Forse perché non siete sicuri di vincere? «Non credo che in quest’occasione i toni siano più accesi rispetto al passato. Le campagne politiche si sono sempre caratterizzate per forti dibattiti, fa parte della competizione elettorale. Sono convinto che gli italiani ragioneranno e in cabina esprimeranno un voto con l’obiettivo di dare al Paese un governo stabile. Per questo dico che il Popolo della Libertà vincerà le elezioni politiche, perché è più credibile. La sinistra, invece, oltre ad aver aumentato le tasse è arretrata culturalmente. Ha dimostrato di non avere gli strumenti adatti ad affrontare i gravi problemi che affliggono l’Italia. Tra questi la sicurezza intesa come ordine pubblico e la sicurezza sociale, intesa come problema economico delle famiglie». Secondo lei, dopo le elezioni, nel Pdl si comin-
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cerà a lavorare per creare un unico partito? «Dopo il voto del 13 aprile proseguiremo nel percorso avviato con la lista del Popolo della Libertà, con la quale ci stiamo presentando alle elezioni. Faremo un gruppo unitario in Parlamento e poi si aprirà la stagione costituente del partito unico del centrodestra sulla base di valori, regole e programmi condivisi. Ovviamente sarà possibile dar vita al Pdl come partito solo con il via libera di un congresso di Alleanza nazionale, che faremo in autunno, di Forza Italia e degli altri alleati, in cui si verificheranno le condizioni per andare avanti». In passato ha sostenuto con forza la necessità di effettuare riforme costituzionali. Secondo lei, questa sarà uno dei primi temi di cui si dovrà occupare il nuovo parlamento? Si potrebbe tornare a una nuova Bicamerale? «Senza dubbio le riforme costituiscono la chiave per modernizzare il Paese. Il centrodestra le fece quando era al governo, solo che la sinistra le boicottò appoggiando il referendum che bocciò le modifiche alla Costituzione. Adesso Veltroni in modo ipocrita le ripropone, copiando le nostre stesse proposte, come la riduzione del numero dei parlamentari. Mi auguro allora che dopo la vittoria del Pdl alle elezioni, il segretario del Partito Democratico sia coerente e voti a favore quando ripresenteremo le stesse misure. Si tratterà di una convergenza dell’opposizione in sede parlamentare su proposte condivise da tutti. Ma niente larghe intese». Un altro tema caldo è quello delle pensioni. Se vincerete, oltre agli aumenti annunciati da Berlusconi, farete una riforma previdenziale? «I pensionati hanno memoria e ricordano che, quando abbiamo governato noi, circa due milioni di cittadini videro aumentate le pensioni minime a 516 euro. La sinistra lancia proclami, noi lo abbiamo fatto davvero. È chiaro che per il futuro sarà necessario adeguare le pensioni all’inflazione, mettendole al riparo dal costo della vita. Non si può tornare alla scala mobile, ma si può pensare ad un paniere di beni essenziali per la vita dei pensionati». Tra le altre emergenze del Paese c’è quella di migliorare lo stato della scuola. L’Ocse ci ha messo agli ultimi posti per risultati della didattica.
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Foto Š Federico Tardito / LaPresse
COPERTINA
«Sono convinto che gli italiani ragioneranno e in cabina esprimeranno un voto con l’obiettivo di dare al nostro Paese un governo stabile»
Foto Enrico Para
I nostri studenti sembrano imparare meno degli altri. Forse la mancanza di meritocrazia fa sì che nella scuola il livello medio degli insegnanti si abbassi invece di crescere. Lei è laureato in magistero e ha insegnato. Come vorrebbe che ripartisse il lavoro per arrivare a una riforma definitiva ed efficiente del sistema scolastico? «Una scuola efficiente è fondamentale per il futuro e lo sviluppo del nostro Paese. Il cuore della que-
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stione è proprio la meritocrazia. È necessario introdurre la selezione per meriti nel mondo della formazione. Dobbiamo pretendere che i migliori, quelli che studiano di più e meritano di occupare i posti più adatti nella società, siano favoriti. La scuola e tutto il sistema economico devono tornare a insegnare un mestiere ai giovani per garantire loro la possibilità reale di entrare nel mondo del lavoro. E non fare invece come la sinistra, cioè dare a tutti un posto senza selezione e senza merito. Perché solo premiando i più capaci l'Italia, che sembra aver perduto la fiducia in se stessa e nel futuro, saprà ripartire e rilanciarsi in Europa e nel mondo». A proposito di rilancio, come pensa che l’Italia possa risollevarsi dal danno provocato dallo scandalo dei rifiuti e la diossina nelle mozzarelle di bufala? «Il nostro Paese può risollevarsi solo se i cittadini daranno fiducia al Popolo della Libertà, che ha già dimostrato di saper garantire governabilità e stabilità. L’Italia e gli italiani stanno pagando cari questi due anni di governo di Romano Prodi che, ricordiamolo, è il presidente e fondatore del partito con cui Veltroni si presenta alle elezioni. Come si può affermare di garantire il cambiamento se ci si presenta con quattro quinti del vecchio governo, o quando nel nome del rinnovamento decide di votare per il Pd persino l'ultimo nostalgico rimasto al mondo di Castro, che è il ministro Bianchi? Inoltre, Veltroni dovrebbe ricordarsi che anche Bassolino è un esponente del Pd. Per questo non possono essere credibili». Lei è nato in Emilia Romagna, regione rossa per eccellenza. Crede che la prospettiva politica stia cambiando? «L’Emilia Romagna è il prototipo del sistema di governo della sinistra. La nascita di Alleanza nazionale ha in parte modificato lo scenario politico regionale. Abbiamo saputo bene interpretare l’evolversi dei tempi, diventando forza di governo in realtà territoriali importanti come Bologna e Parma. La prospettiva politica è quella di una possibile alternanza. Il fatto stesso che mi faccia questa domanda oggi, dimostra quanto la politica regionale si sia evoluta negli anni a vantaggio del buon governo di centrodestra».
POLITICA
VALENTINO VALENTINI Nato a Bologna, 45 anni, è deputato di Forza Italia. Corre per il Pdl in Veneto
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Una strada presa per caso. Un lavoro costante e attento. Dove «ciò che conta è lo spirito di squadra e di servizio». Valentino Valentini, deputato di Fi, bolognese di nascita e candidato per il Pdl in Veneto, racconta la sua “rivoluzione liberale” di Francesca Buonfiglioli
IO, IMPRENDITORE DELLA COSA PUBBLICA
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ietro a un grande leader, c’è sempre una grande squadra. Potrebbe suonare più o meno così la declinazione politichese del noto detto popolare. Una squadra ristretta, nel caso del leader in questione, un insieme di volti più o meno conosciuti. Composta da amici di lunga data, con cui si sono condivisi progetti e successi, da persone leali e fidate. E da professionisti preparati che, magari, pur non avendo scelto la politica vi sono inciampati. «Non volevo entrare in prima persona in questo mondo. È successo così, in maniera graduale e ora la vivo come un impegno quotidiano. E lavoro con spirito di servizio». Ad ammetterlo è Valentino Valentini, deputato di Forza Italia nato a Bologna ma eletto, nella scorsa tornata elettorale, in Veneto, regione in cui corre anche quest’anno per il Pdl. Prima dell’impegno attivo in politica, Valentini è stato l’uomo che per quasi 10 anni ha seguito come assistente particolare Silvio Berlusconi, arrivando nel 2001 a diventare Capo dell’Ufficio della Presidenza del Consiglio. Un’avventura cominciata quasi per caso, dopo una laurea in Lingue e un master che lo ha portato, poco più che ventenne, a lavorare come interprete al Parlamento europeo. Un lavoro continuato fino a quando il suo curriculum non finisce nelle mani proprio di Berlusconi. Il Cavaliere l’ha scelta esclusivamente per le sue competenze. Quanto è importante oggi la meritocrazia? «È fondamentale. Il concetto di merito caratterizza tutta Forza Italia. Venendo dal mondo dell’impresa e dal mondo del fare, per Berlusconi ciò che conta davvero sono i risultati. Tutta la sua vicenda politica è permeata da un grande pragmatismo. Naturalmente, il solo curriculum non basta. Occorre sapere cogliere le occasioni con “i compiti” già fatti».
Per questo le liste, in questa occasione più che in altre, sono popolate anche da volti nuovi e da esponenti della società civile? «Questa è la vera rivoluzione che Berlusconi ha portato nel panorama politico italiano a partire dal '94. Una ventata di energia fresca che ha svecchiato la politica. Il presidente è riuscito, infatti, a travalicare, superandola, la natura ideologica stessa del partito di stampo novecentesco. Una forma intermedia tra società e governo, un diaframma totalizzante ormai datato che Berlusconi ha finalmente spezzato, desacralizzandolo. Per creare un rapporto nuovo, più diretto, tra leader ed elettorato, più vicino al modello americano». Molti però hanno accusato il Cavaliere di eccessivo personalismo. «Berlusconi ha sempre cercato il consenso personale, sulla scia di un modello presidenziale. Non solo, sprona costantemente chi lavora insieme a lui a fare lo stesso. Riesce a trasmettere, infatti, una volontà di scendere in campo in tutti gli esponenti e i militanti di Forza Italia. E ci fa sentire imprenditori della politica, quasi a prestito della politica. Molti hanno scritto e detto che Berlusconi ha vinto le elezioni solo perché possiede le televisioni. Invece, quello che non hanno capito, è che lui vince perché sa come usare il mezzo televisivo. E ha rivoluzionato, semplificandolo senza banalizzarlo, il linguaggio della politica». Questo rapporto personale ed esclusivo con gli elettori non potrebbe creare un vuoto nel momento di cambio della leadership? «È sempre stato lui la vera forza del partito. La classe dirigente si è formata nel tempo. Del resto l’idea di partito verticistico è il frutto dell’evoluzione socioeconomica che ha attraversato le grandi demo-
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POLITICA
crazie, e si può ritrovare negli Stati Uniti, in Germania e in Francia. Anche in questo caso emerge l’energia dirompente di Forza Italia che ha scardinato la forma tradizionale dei partiti: dalla nomenklatura da un lato al politbüro dall’altro. Berlusconi ha eliminato le entità intermedie e le “divinità”. Un partito è forte quando è forte il suo leader, mentre nei vecchi sistemi di partito il gotha toglieva ossigeno, e la possibilità a un leader carismatico di emergere. In Forza Italia e ora nel Pdl, invece, siamo tutti a servizio della politica, sentendoci nel nostro piccolo, un po’ imprenditori. La nostra formazione politica del resto non prevede certo il solito vademecum di partito, cerchiamo solo di seguire l’esempio del nostro leader. E questo accade a tutti i livelli, dalla classe dirigente all’elettorato e ai militanti». Oltre a una classe dirigente, nel tempo Forza Italia si è costruita un consenso dal basso. I circoli e i gazebo ne sono un esempio. «È vero. Ma a differenza della vecchia base dei partiti tradizionali, si tratta di entità intermedie non organizzate con una struttura rigida. Nel nostro caso, invece, ognuno si sente empowered, e partecipa alle attività con spontaneità ed entusiasmo. I tempi della politica e la sua fruizione sono cambiati nel tempo. E Silvio Berlusconi è riuscito, consapevol-
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«Silvio Berlusconi è riuscito a rivoluzionare il linguaggio della politica, semplificandolo senza banalizzarlo» mente o meno, a intercettare e catalizzare queste forze nuove». Dall’altra parte, anche Veltroni però si sta affermando come un leader carismatico. Che tipo di avversario è? «Dipende dal punto di vista. Si possono dare diversi giudizi su Veltroni, formali e di contenuto...». Prima quelli di forma. «Da un punto di vista formale, Veltroni è sicuramente un abile comunicatore che ha saputo svecchiare i modelli ingialliti del proprio partito. Insomma, diciamo che ci copia molto bene». Per la sostanza, invece? «I contenuti non sono assolutamente condivisibili. Gli va dato atto dello sforzo tremendo che sta compiendo e di quello che avrà davanti a sé per coprire e mascherare la sua vera natura, senza aver mai fatto una reale autocritica del suo passato comunista. Si presenta come il nuovo ma è in politica da 30 anni e ha rivestito praticamente tutti gli incarichi di partito, da segretario della Fgci ai vertici del Pci, fino alla nomina di direttore dell’Unità. Come dice Berlusconi, Veltroni incarna l’ultima mimetizzazione della sinistra. Inoltre dovrà risolvere i problemi che si creeranno all’interno del Pd, una realtà che è sì proiettata come unitaria ma che in realtà non lo è. Ora, in campagna elettorale, si applica la carta da parati per coprire e nascondere le crepe sui muri. Ma queste restano, sebbene la carta da parati sia bella». E cosa ne pensa invece delle candidature di Matteo Colaninno, Massimo Calearo da un lato e Antonio Boccuzzi, uno degli operai superstiti della tragedia alla Thyssen Krupp, dall’altro? «Sono nomi mediatici, candidature spot per dare l’idea di novità. Specchietti per le allodole funzionali a nascondere il fatto che, per il 70%, le liste del Pd sono composte da esponenti dell’attuale governo». Nel Pdl, invece, le candidature di Ciarrapico e Mussolini sono state lette come uno slittamento a destra della coalizione. «Per quanto ci riguarda, alcune nostre candidature, che comunque hanno origini e motivazioni diverse, sono state strumentalizzate e usate come cuneo. Non si capisce poi perché sia necessariamente il centro a dover andare verso destra e non il contrario». In questa campagna non solo il modo di comunicare dei due leader sembra assomigliarsi. An-
A destra, Valentino Valentini. È stato per quasi 10 anni assistente particolare di Silvio Berlusconi
che i rispettivi programmi sono simili. «Effettivamente quello del Pd è un programma in carta carbone, copiato dal nostro. Quindi carta straccia, come ha rimarcato il presidente. Veltroni però ha impostato la campagna elettorale in modo da fare dimenticare non solo il suo passato politico, ma anche i due anni di Governo Prodi e il precedente programma del centrosinistra che è stato pienamente disatteso. Si sta cercando insomma di trasformare queste elezioni in un referendum contro Berlusconi per evitare che si giudichi il precedente esecutivo». Al di là di tutto, però, Pd e Pdl rappresentano due novità all’interno del panorama politico italiano. Sono prove generali di bipolarismo? «Sicuramente Pd e Pdl sono due tentativi di giungere a quello che è bipartitismo. È ormai un’esigenza del nostro Paese. Ma, va detto, che i due soggetti politici hanno origini diverse. Il Partito Democratico è nato dal fallimento della precedente esperienza di governo di centrosinistra e la sua formazione è stata pilotata, orchestrata dall’alto. Una fusione a freddo condita dallo pseudo avvallo della base in occasione delle Primarie per eleggere il segretario. Noi, invece, abbiamo alle spalle 5 anni di governo in cui, anche se non sono mancati contrasti fisiologici, abbiamo dato risposte unitarie. La nostra unità è naturale. Lo si è visto in occasione della manifestazione del 2 dicembre scorso in Piazza San Lorenzo a Roma: due milioni di persone sotto bandiere diverse ma unite dagli stessi ideali. Le elezioni anticipate sono state solo un acceleratore al nostro percorso verso il partito unico. Un percorso partito dal popolo, dal basso in modo spontaneo. Non certo dalle dirigenze di partito». Ma la nascita del Pdl ha causato la perdita dell’Udc, un alleato storico del centrodestra. Crede che questo strappo potrà essere ricucito? «Non ho doti di preveggenza. Però è noto che lo strappo consumato con l’Udc deriva da lontano, ed è stato causato più dal tentativo di Casini di marcare la propria individualità di leader che dal sentimento degli elettori del partito che non credo abbiano nessun problema a riconoscersi nel programma e nei valori del Pdl. Per questo motivo credo che in seno all’Udc prevarrà il realismo che porterà a rivedere certe posizioni dei vertici. Da questa consapevolezza è scaturito l’appello di Berlusconi per il voto utile: Se c’è un sentire comune allora disperdere il voto non ha nessun senso». Una battuta sulle sue due regioni: l’Emilia Ro-
magna, dove è nato, e il Veneto dove è candidato per la seconda volta. Quali sono i punti di forza e le debolezze dell’una e dell’altra? «Direi che l’Emilia Romagna è una terra economicamente florida, dinamica e vitale. Purtroppo però questa vitalità è in distonia con il credo politico predominante. E questo è dovuto alla mancanza di alternanza. Il Muro di Berlino è caduto ovunque ma sembra ancora in piedi in questa regione. Questo immobilismo politico e la difesa spesso acritica della bandiera sono poi consolidati da una rete di rapporti economicamente murati. Il Veneto, invece, si trova a essere una regione che non trova più nella politica romana le risposte alle sue esigenze. Soffre del blocco, causato dall’ultimo governo, delle infrastrutture come il passante di Mestre e il Mose. Finora abbiamo perso tempo. C’è sempre più sete di federalismo, per una regione che, pur essendo in Italia a pieno titolo, marcia a un ritmo diverso dal resto del Paese».
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L’INCONTRO
PRAGMATICO Giancarlo Mazzuca, 60 anni, forlivese ex direttore di Quotidiano Nazionale e Carlino, ora corre per il Pdl alla Camera
SOGNO UNA POLITICA APERTA AL DIALOGO 38
Dopo 30 anni nelle redazioni, Giancarlo Mazzuca si prepara ad approdare a Montecitorio con il Pdl. L’ex direttore del Resto del Carlino salta dall’altra arte della barricata portando con sé voglia di discutere e di agire di Francesca Buonfiglioli
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ndro Montanelli sosteneva che i giornalisti devono restare fuori dal Palazzo. Una convinzione che lo portò addirittura a rifiutare la nomina di senatore a vita. «Mi diceva sempre che dovevamo combattere con l’unica arma che ci era congeniale: la penna» ricorda uno dei suoi allievi, Giancarlo Mazzuca, da qualche settimana ex direttore di Quotidiano Nazionale e Resto del Carlino, candidato per il Pdl alla Camera, alle imminenti consultazioni elettorali. Tuttavia il richiamo della politica reale è stato per Mazzuca più forte dell’insegnamento del maestro. Così il giornalista forlivese è passato dalle colonne del suo quotidiano alla campagna elettorale vera e propria. «È stata una scelta tormentata – ammette –. Da tempo, scrivendo di politica, mi rendevo conto che le cose non funzionavano, che le esigenze dei cittadini non trovavano risposte concrete». Disaffezione crescente della gente, ventate di antipolitica e un clima di sfiducia generalizzata. Da qui il dilemma. «Era giusto limitarmi a scrivere e riportare il disagio dei lettori o fare qualcosa di concreto?». Mazzuca sceglie la seconda opzione. «Anche perché – sorride – a una certa età ho pensato di voler fare qualcosa di attivo per la città dove vivo da tempo e per l’Emilia Romagna». Una regione che, a parere del candidato, è vittima di luoghi comuni, a cominciare da quello che la vorrebbe paradiso e isola felice d’Italia. Un territorio invece ormai sofferente sia da un punto di vista sociale che economico. «Questioni come la sicurezza – dice Mazzuca – l’immigrazione e il degrado non riguardano più solo le grandi metropoli, ma sono avvertite anche a Bologna e nel resto della regione. Economicamente, poi, occorre prendere atto della scomparsa delle storiche dinastie imprenditoriali che hanno fatto grande l’Emilia Romagna, oltre che dell’arretratezza a cui settori trainanti come il turismo sembrano essere condannati». Per voltare pagina, secondo Mazzuca, servirebbe allora un «intervento corale, un vero e proprio scatto d’orgoglio» da parte di tutti. Cit-
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L’INCONTRO
Nella fotografia sopra, Giancarlo Mazzuca in compagnia di Gianfranco Fini durante una puntata di “Porta a Porta”
tadini e imprenditori. L’Emilia Romagna e Bologna sembrano paradisi perduti. Ma cosa occorre per rilanciare questo territorio? «Non siamo più un’isola felice, dove tutto fila liscio. Così come Bologna non è più un’oasi di tranquillità, una città aperta pervasa da un’atmosfera godereccia. I fatti smentiscono questi stereotipi. La crescita economica si è arrestata, il tasso di criminalità è alto e il degrado è in aumento. È vero, rispetto ad altre zone d’Italia restiamo comunque un esempio da imitare, ma, rispetto a 30 anni fa, siamo in un preoccupante declino. Dobbiamo rendercene conto e agire. Questa situazione va superata non solo con le parole; serve pragmatismo. Anche questo mi ha spinto a scendere in campo. A Bologna ci si parla addosso, si organizzano dibattiti, ma in fin dei conti non si fa nulla di concreto. Per
«La regione non è un’isola felice. Anche Bologna non è più un’oasi di tranquillità, una città aperta e tutta pervasa da un’atmosfera godereccia» 40
migliorare occorre un intervento corale da parte di tutti i cittadini. Un autentico scatto di orgoglio». Anche da parte dei protagonisti del tessuto economico locale? «Certamente. Un altro luogo comune da superare è ostinarsi a vedere il tessuto economico emiliano romagnolo costellato di imprenditori disposti a rischiare. Non è così, oggi la propensione al rischio è molto diminuita anche nel turismo, una delle forze trainanti per l’economia romagnola, paragonabile a quello che la Fiat rappresenta per l’Italia. Una realtà rimasta ancorata a 30 anni fa, che non ha saputo adeguarsi ai tempi. Sono pochi gli imprenditori all’avanguardia e i volti nuovi in un settore sensibilmente in ritardo. Bisogna rimboccarsi le maniche e fare in modo che il turismo torni a essere un punto di forza, è da troppo tempo ormai che viviamo di rendita». Quali sono le altre problematiche che ha rilevato nel corso della sua campagna elettorale? «Sono principalmente di ordine economico. Molte famiglie non riescono a far fronte al caro vita e hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Occorre calmierare i prezzi e istituire controlli veramente
Foto Studio Ferrari - Bologna
L’INCONTRO
Nella foto sopra, da sinistra: Giampaolo Bettamio, Giancarlo Mazzuca, Michela Vittoria Brambilla e Filippo Berselli
do forte in Emilia Romagna. Cosa significa essere un rappresentante del Pdl in una regione storicamente rossa? «Fino a qualche anno fa in Emilia Romagna ci si vergognava quasi di essere di centrodestra. Oggi la gente non avverte più disagio e pare decisa a dire la sua. Per quel che mi riguarda ho sempre cercato il dialogo. A dimostrazione di ciò, la mia scelta politica non è stata bersaglio di critiche da parte degli “avversari”, anzi. Molti, conoscendomi come direttore e avendo apprezzato il mio lavoro, si sono complimentati. Per natura sono convinto che non serva scontrarsi, ma discutere. Forse sono un utopista, ma con le contrapposizioni nette non credo si riesca ad andare lontano. Meglio allora confermare le proprie convinzioni rimanendo sempre aperti al confronto». Nelle liste dei due schieramenti, e lei ne è un esempio, hanno sempre più spazio esponenti della cosiddetta società civile. Quale apporto crede possano dare al panorama politico italiano? «Sicuramente provenendo dalla quotidianità della professione è possibile portare in dote qualcosa di nuovo. L’importante è che il politico non di mestiere possa essere libero di fare qualcosa di positivo, senza subire l’ostruzionismo dei colleghi più navigati. Certamente non intendo aprire battaglie contro i professionisti della politica. Posso solo dare un contributo in ciò in cui sono esperto, offrire la mia esperienza. Il bilancio poi lo faranno gli elettori. Potrò
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comunque dire di averci provato, non certo perché tentato da Roma o da una poltrona in Parlamento, ma per seguire una scelta etica personale». Dal giornalismo alla politica. In molti direbbero da una casta a un’altra. Come vede il mondo dell’informazione dall’altro lato della barricata? «Ora che sono passato dall’altra parte dello steccato noto meglio i difetti dei giornalisti. Spesso restano ancorati a posizioni precostituite e vanno avanti su quella strada». E, da professionista, come definirebbe la campagna elettorale? «Mi pare che il confronto stia procedendo con toni pacati. Questo non può che farmi piacere anche se, purtroppo, gli argomenti strettamente programmatici sono emersi a piccole dosi. Credo sarebbe stato importante presentare un programma completo, per orientare meglio gli indecisi. I risultati si definiranno negli ultimi giorni, da chi riuscirà a conquistarsi quel 30% di voti degli incerti». Cosa le mancherà di più del mestiere? «Fortunatamente rimarrò editorialista del Carlino. Una volta fatti i giochi, potrò continuare a scrivere. In questo momento non l’ho fatto per evitare di avere vantaggi sugli altri candidati. Per quel che riguarda il mestiere in redazione, mi mancheranno le riunioni e la possibilità, ogni giorno, sabati, domeniche e festività compresi, di costruire qualcosa di concreto, fare il giornale ed essere valutato quotidianamente dai lettori. Spero di poter trasferire in politica il pragmatismo che messo in questi 7 anni di direzione».
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IN CORSA Carlo Giovanardi, 58 anni, modenese, è capolista al Senato in Emilia Romagna per il Pdl. Dopo aver lasciato l’Udc si è unito alla formazione guidata da Silvio Berlusconi
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SAREMO LA VOCE DELL’ALTERNANZA Ha lasciato l’Udc per fondare il movimento dei Popolari Liberali. E aderire al Popolo della Libertà. Il modenese Carlo Giovanardi, capolista al Senato in Emilia Romagna, affronta i temi chiave della campagna elettorale. E assicura: «Diventeremo una grande forza politica radicata nel territorio» di Giusi Brega
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n grande partito che, come accadeva ai tempi della Democrazia Cristiana, sia in grado di mediare al suo interno sensibilità diverse. Senza che la diversità di opinioni continui a generare nuovi soggetti politici. Un partito «popolare, democratico, di ispirazione cristiana» che rappresenti la «costola italiana del Ppe». Questo è l’obiettivo di Carlo Giovanardi, ex ministro per i Rapporti con il Parlamento, oggi capolista al Senato in Emilia Romagna per il Popolo della Libertà. Inoltre, secondo l’ex esponente dell’Udc, le prossime elezioni rappresentano un’importante opportunità per riunire filoni politici rimasti nell’ombra in un territorio come l’Emilia Romagna che è stato a lungo una roccaforte rossa. Il suo impegno politico è iniziato con la Democrazia Cristiana. Cosa ricorda con più nostalgia dell’esperienza in quel partito? «Ricordo un partito che aveva un forte radicamento sul territorio, dove c’era il rispetto per le varie componenti interne. E, soprat-
tutto, un partito che, nell’interesse del Paese, era in grado di proporsi unito nel momento elettorale. È stato così dagli anni ’40 fino al 1994, quando la Dc è scomparsa. Un grande partito, quello che può diventare il Popolo della Libertà». Com’è cambiata la politica negli ultimi anni? «Dal 1994 in avanti sono venute a mancare le figure chiave che hanno caratterizzato positivamente la Prima Repubblica. Personaggi che dovevano la loro presenza nella sfera politica alla loro forte personalità e al loro radicamento elettorale sul territorio. Lo stesso Silvio Berlusconi, un po’ sconsolato, ha detto che bisogna assolutamente tornare alle preferenze per permettere agli elettori di scegliere i parlamentari». Dopo la nascita del Popolo della Libertà, lei è uscito dall’Udc per aderire al Pdl. Come è avvenuta questa scissione? «Io e un numero straordinariamente alto di esponenti dell’Udc non abbiamo cambiato posizione politica dal 1994. Lo stesso non si può dire dell’Udc che non so-
lo ha mutato la propria posizione politica, ma addirittura il nome: non più “Unione dei democratici cristiani e di centro”, ma solo “Unione di centro”. E poi ha cambiato anche la propria classe dirigente presentandosi con De Mita, Pezzotta e Tabacci in una posizione che era quella di Martinazzoli nel 1994 e che noi, quando fondammo il Ccd assieme a Casini, rifiutammo per allearci con Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale. Posizione che abbiamo mantenuto fino al 2006 e che adesso è stata cambiata, voltando le spalle in maniera polemica come sta facendo Casini». Cosa pensa della dichiarazione di Casini secondo il quale Silvio Berlusconi vorrebbe comprare gli alleati facendoli rinunciare così alla loro identità? «È un’affermazione incomprensibile poiché una delle cose per le quali abbiamo lavorato in questi anni era la nascita della costola italiana del Partito popolare europeo. E proprio adesso che il Popolo della Libertà diventa un partito democratico popolare di ispirazio-
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PERSONAGGI
Sopra, Carlo Giovanardi, ex ministro dei Rapporti con il Parlamento, e Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa
ne cristiana riconosciuto dall’Europa come la costola italiana del Ppe, viene assunta questa posizione così polemica da sembrare quella di Marco Follini. Che, però, come è noto, è finito nel Partito Democratico». Qualora un numero minoritario, ma comunque consistente, di italiani decidesse di votare partiti diversi dal Pdl o dal Pd, ritiene che potrebbe essere messa in discussione la governabilità del Paese per la prossima legislatura? «Spero che, come accade in tutti i Paesi europei, a vincere sia una delle due forze politiche principali. E, ovviamente, faccio il tifo per il Pdl essendo capolista per il Senato in Emilia Romagna. Se così non accadesse, la governabilità dovrebbe passare attraverso il sistema che viene utilizzato negli
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altri Paesi europei in caso di pareggio, come è accaduto ad esempio in Germania con il cancelliere Angela Merkel. L’anomalia che ha portato la rovina del governo di centrosinistra è rappresentata dal fatto che, sebbene il risultato delle elezioni fosse un evidente pareggio, Romano Prodi ha comunque preteso di governare». Se il Pdl vincerà le elezioni, crede che sarà messa in cantiere una seria riforma istituzionale ed elettorale? «Walter Veltroni dice che bisogna diminuire il numero di parlamentari, differenziare i ruoli tra Camera e Senato, dare più potere al presidente del Consiglio. Tutto ciò era esattamente quello che noi avevamo fatto quando eravamo al governo. Sono tutti argomenti che oggi vanno ripresi, in primis la riforma della legge elet-
torale che presenta un’anomalia insopportabile: i cittadini possono scegliersi il sindaco, il consigliere comunale, il presidente della regione e i consiglieri regionali. Non si capisce perché non possano farlo anche con deputati e senatori». Con un ddl, peraltro bocciato, sulla chiusura anticipata dei locali notturni, e con la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, lei ha dimostrato un interesse particolare ai problemi della sicurezza. Come giudica la situazione attuale in materia? «La Fini-Giovanardi, tuttora in vigore, è una buona legge tant’è che in due anni di governo il centrosinistra non ha neanche provato a modificarla. Le misure adottate negli ultimi mesi, in particolare quella che prevede il divieto di somministrazione di alcolici nei
locali pubblici dopo le due di notte, hanno fatto calare notevolmente il numero di incidenti in cui sono coinvolti i ragazzi. Reputo dunque opportuno continuare in questa direzione». Quali sono le priorità da affrontare per il bene del Paese? «I concetti chiave sono: infrastrutture, energia, diminuzione delle tasse. E ancora sostegno alla natalità e rilancio delle politiche familiari. Senza dimenticare la questione della coesione sociale che permetta agli immigrati di integrarsi nella società italiana. È un aspetto importante da non sottovalutare se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi in una realtà incontrollabile caratterizzata da compartimenti stagni di etnie diverse che, non integrandosi tra loro, rischiano di creare conflitti permanenti e snaturare le radici cristiane del nostro Paese». Per quanto riguarda il fenomeno della prostituzione, cosa pensa della proposta di creare un quartiere dedicato a tale attività? «Un certo tipo di inserzioni che compaiono su molti quotidiani testimoniano che in alcune zone ci si è già attrezzati autonomamente per “lavorare” a domicilio. Questa forma di prostituzione si va ad aggiungere a quella di strada, a quella delle donne dell’Est sfruttate dal racket, a quella delle tossicodipendenti. Per questo motivo credo che allestire un quartiere dedicato significherebbe aggiungere un’altra offerta alla domanda di prostituzione senza eliminare le altre. Bisogna invece lottare contro tutte le forme di sfruttamento della prostituzione, nel quale rientra anche la riapertura delle case chiuse». C’è qualche problema particolare in Emilia Romagna per il quale pensa che potrebbe fare
qualcosa anche nella sua posizione di politico nazionale? «C’è una anomalia tutta emiliano romagnola: la mancanza di alternanza politica. In realtà come Modena, Reggio Emilia e Forlì comanda da 60 anni la stessa forza. Con il risultato che ci sono cittadini di serie A, che rientrano in questo circuito di potere, e cittadini di serie B, che non ne fanno parte. Si tratta di società ed economie politicamente bloccate e omologate che stanno pagando, soprattutto negli ultimi tempi, la stanchezza del mancato rinnovamento delle classi dirigenti. Han-
no dunque bisogno di uscire da questa situazione conservatrice». Sarà possibile scardinare questi baluardi di un unico partito politico? «Dieci anni fa c’è riuscita Bologna, storicamente di sinistra. La nascita del Pdl, un grande partito che potrà avere un forte radicamento territoriale, darà la possibilità di rendere competitiva anche quell’altra metà dell’Emilia Romagna che finora non è riuscita a esprimersi e che, dopo il 1994 con la scomparsa dei grandi partiti, aveva ancor meno possibilità di vittoria».
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PROTAGONISTI
SENZA IL MERITO NON C’È CORSA Rimettere al centro la cultura d’impresa. Per permettere al Paese di crescere e di affrontare con successo le sfide dell’economia internazionale. Federica Guidi, direttore generale di Ducati Energia e candidata alla presidenza nazionale dei Giovani di Confindustria, elenca le priorità per ridare vigore allo sviluppo. Che può rianimarsi solo se si comincia a premiare la meritocrazia di Andrea Pietrobelli
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a sua parola d’ordine? Impresa, impresa e ancora impresa. La prossima missione? Diffondere quel patrimonio di idee e valori su cui si è fondato lo sviluppo del nostro Paese. Una cultura che deve essere al più presto rimessa «al centro del dibattito pubblico nazionale». Federica Guidi, direttore generale di Ducati Energia e attuale vicepresidente dei Giovani di Confindustria, è ormai giunta alla fine della sua corsa per conquistare la presidenza lasciata da Matteo Colaninno. Un testa a testa con il marchigiano Cleto Sagripanti che, negli ultimi mesi, l’ha sempre vista in vantaggio, grazie a un consenso trasversale in tutta Italia. A partire dal Sud, quasi completamente schierato a favore dell’industriale bolognese. «La cultura d’impresa può diventare una delle nostre maggiori risorse – spiega convinta –. Il settore industriale ha già dimostrato di possedere alcuni strumenti che possono essere trasferiti positivamente al resto della società». Perché, per affrontare con successo le sfide del futu-
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ro e superare la crisi che attanaglia l’economia internazionale, l’Italia deve necessariamente cambiare forma mentis, «diventare meritocratica, garantire la certezza del diritto e dei tempi della giustizia, mettere al centro del sistema delle istituzioni cittadini e imprese». Una filosofia che è diventata il cuore del programma che Guidi ha scritto per guidare i Giovani Imprenditori di viale dell’Astronomia in un mercato sempre più difficile da interpretare e in un’economia destinata a mutare ancora nei prossimi anni. Lei sembra destinata a succedere a Matteo Colaninno. Che eredità vi ha lasciato? «La sua presidenza è stata senz’altro di altissimo profilo. Ha saputo mixare egregiamente argomenti di ampio respiro economico, come quelli sulla libertà del mercato, a temi di matrice assolutamente industriale, più concreti, come il family-business, modello che tutto il mondo pareva rigettare e che noi abbiamo invece sostenuto, apportandovi anche importanti proposte innovative. Tutto questo ha
avuto un riflesso nei comitati che noi vicepresidenti abbiamo cercato di portare avanti negli ultimi tre anni. Quindi si può parlare senz’altro di un’eredità pesante. Colaninno ha rafforzato e continuato ad accreditare il movimento dei Giovani Imprenditori come un interlocutore di primissimo piano all’interno dello scenario nazionale. Chi prenderà il suo testimone si troverà davanti una sfida bellissima e, insieme, difficile». Come giudica la sua decisione di scendere in politica? «Ho già detto in più di una occasione che deve essere valutata come una scelta personale. Matteo, oltre a essere stato il mio presidente, è anche un caro amico, una persona che stimo in termini di capacità personali e meriti. Credo abbia preso una decisione coraggiosa, perché ha lasciato il suo mondo per un ambiente sconosciuto. Valuto dunque con favore il fatto che ci siano dei giovani che, come lui, decidono di ricominciare da zero per rendersi disponibili a spendere energie per il bene del no-
IN POLE Federica Guidi, 38enne imprenditrice bolognese, è direttore generale di Ducati Energia. Dal 2005 è vicepresidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria con delega per l’Economia e la Finanza d’impresa. È candidata per il rinnovo della presidenza nelle prossime elezioni previste per il 24 aprile
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stro Paese. Voglio però sottolineare che il mondo dei giovani imprenditori e la politica sono due cose completamente distinte, per cui non bisogna mettere in relazione la scelta di Colaninno, che personalmente rispetto, con il mondo degli imprenditori». Sempre parlando di Confindustria, mentre le donne fanno ancora fatica a raggiungere posizione di vertice, con l’elezione alla presidenza nazionale di Emma Marcegaglia, in viale dell’Astronomia accade il contrario. È un’ulteriore conferma di come il mondo imprenditoriale sia in anticipo su certi temi rispetto al resto del Paese?
«La nostra associazione da sempre valuta più il merito e le capacità personali che non il genere. L’elezione di Emma Marcegaglia è la dimostrazione che le donne non devono essere aiutate nella propria carriera perché possono farcela da sole. Hanno solo la necessità di essere messe in condizione di poter dedicare al proprio lavoro lo stesso tempo e la stessa tranquillità d’animo di un collega maschio. Per il resto penso sia giusto giudicare le persone in base alle loro competenze, evitando distinzioni di genere. Certo è, però, che l’elezione di Emma Marcegaglia, prima donna alla guida di Confindustria, rende eviden-
te come certi tabù si possano infrangere molto facilmente. Basta scegliere di privilegiare il merito». Quello della meritocrazia è un tema da sempre caro soprattutto ai Giovani Imprenditori. «Premiare la capacità, la competenza, le doti personali è l’arma più efficace per fare crescere un Paese. Non a caso abbiamo messo la parola “meritocrazia” al centro di tutto il nostro programma, sapendo che anche il settore industriale deve ancora fare completamente suo questo termine». Nonostante qualche brillante eccezione, l’Italia rimane un luogo dove la generazione under 40 fatica ancora a trovare spazio nella classe dirigente. «A mio parere nel mondo industriale il problema del ricambio generazionale non è così urgente. Se parliamo di altri ambiti, come ad esempio la politica o l’ambiente universitario, allora il discorso cambia. Nel mondo economico credo che i giovani imprenditori diano dei segnali di vitalità molto rilevanti. Ci sono moltissimi under 40 attivi che hanno fondato un’impresa di prima generazione o hanno ereditato un’azienda di famiglia, molto spesso rivestendo incarichi quasi più da manager che da imprenditori. Persone che si sono preparate, che si sono laureate, che hanno fatto master, esperienze all’estero e che ogni giorno sono su un aereo per andare in giro per il mondo a vendere i propri prodotti». Forse la cosa che differenzia di più l’Italia dagli altri Paesi è che da noi un 40enne viene ancora considerato come un giovane. «In questo effettivamente siamo in ritardo. Solitamente all’estero In queste pagine, due fotografie di Federica Guidi. Dal 1996 lavora alla Ducati Energia, dove ha cominciato nel ruolo di direttrice dell'ufficio acquisti e della logistica
i quarantenni sono già a metà della loro carriera. Però, se parliamo di passaggio generazionale, a mio parere nel mondo industriale il problema non sussiste. Le Pmi, infatti, continuano a essere un punto di forza della nostra economia. Negli ultimi 15 anni hanno fatto emergere ai loro vertici figure specializzate e preparate. Un imprenditore che ha la fortuna di avere dei figli che vogliono proseguire il suo lavoro sa che non si tratta di “un’investitura divina”. Anche nelle imprese di famiglia infatti serve meritocrazia. Per prendere il timone di un’azienda servono abnegazione e studio, voglia di crescere. Solo così si possono ottenere risultati. Il nostro sistema di imprese, poi, ha assolutamente bisogno di giovani capaci, dinamici, desiderosi di formarsi, di conoscere e viaggiare». Crede che manchino leggi per favorire i giovani nella scelta dell’imprenditoria? «Più che leggi, che già sono in soprannumero, credo serva un po’ più di buona volontà da parte di tutti gli attori coinvolti nel mon-
«Il nostro sistema di imprese ha assolutamente bisogno di giovani capaci, dinamici, desiderosi di formarsi e di andare in giro per il mondo» do economico. Quando si parla di venture capital o di start up occorre che ci siano le condizioni per dare fiducia e supporto a chi intende avviare un’impresa di prima generazione. Bisogna dare la possibilità ai giovani di avere i fondi e le risorse necessari. Oggi, invece, sono spesso costretti a chiedere ai genitori prestiti o firme per ottenere finanziamenti». Più in generale, parlando delle elezioni politiche ormai imminenti, quali sono le manovre che attende con più urgenza per supportare il tessuto produttivo? «Dal futuro governo mi aspetto tantissime cose. Il settore industriale ha innanzitutto la necessità di essere messo nelle condizioni di competere al meglio su scala internazionale. Poi serve una riflessione sul mondo del lavoro, affrontando la questione della flessibilità, attuando norme che per-
mettano di lavorare di più. È, poi, indispensabile diminuire il carico fiscale. Ma, sopra ogni cosa, noi imprenditori ci aspettiamo di vedere al più presto sanata la discrasia nei tempi che esiste tra politica e industria. Un’azienda sa che ritardare anche solo di un mese lo sviluppo di un nuovo prodotto significa uscire dal mercato. Invece in politica sembra che tutto sia sempre procrastinabile a tempo indeterminato». Un atteggiamento che rischia di portare il nostro Paese allo stallo. «Oggi basta il primo comitato “anti-qualcosa” per bloccare la costruzione di un’opera. L’Italia è perennemente in mano a qualche veto, a qualche no, a qualche opposizione che non fa progredire. Non possiamo più aspettare, servono atti concreti e veloci per tutto ciò che è necessario allo sviluppo del Sistema Paese».
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BASTA PAROLE OCCORRONO FATTI
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uesta regione non è più quella di una volta». È secco il giudizio di Elio Massimo Palmizio, milanese di nascita ma bolognese di adozione, che fa un’analisi della situazione economica e politica dell’Emilia Romagna. La regione, secondo il deputato azzurro, sfatando i luoghi comuni che la dipingono come un paradiso italiano, non sta attraversando un periodo di svuluppo e crescita. E le cause sono diverse. A partire dalla scomparsa delle grandi dinastie imprenditoriali che hanno fatto grande l’economia locale. O la mancata alternanza politica che caratterizza alcune città, vere e proprie roccaforti rosse. Che crea una situazione di stallo. A queste motivazioni si aggiunge la necessità di infrastrutture adeguate. Di politiche fiscali che non penalizzino le imprese. È in quest’ottica Palmizio, che è candidato al Senato per l’Emilia Romagna nelle liste del Popolo della Libertà, vede le prossime elezioni come «un’opportunità per Bologna e per l’Emilia Romagna di
Le criticità di Bologna e dell’Emilia Romagna. Da risolvere attraverso il “Buon governo” di persone competenti. Per uscire da un immobilismo che non porta né sviluppo né ricchezza. È l’analisi di Elio Massimo Palmizio. Che ammonisce: «È arrivato il tempo di agire» di Giusi Brega uscire da quell’immobilismo che le caratterizza ormai da troppo tempo». Lei è il presidente del primo Circolo del Buon Governo di Bologna. Ma qual è il suo personale concetto di “buon governo”? «Il “buon governo” è quello gestito da persone capaci che vogliono portare il nostro Paese al livello economico e sociale che gli spetta, ovvero ai primi posti in Europa e nel mondo. L’Italia ha molte criticità da affrontare. Contribuire a risolverle significa mettere in pratica un “buon governo”». A quali criticità fa riferimento? «Mi riferisco alle errate politiche fiscali applicate alle aziende e alla burocrazia amministrativa. Per non parlare della mancanza di infrastrutture adeguate e alla poca competitività delle nostre imprese nei confronti dei mercati al di fuori dell’area euro. In più, abbiamo una politica retributiva e di lavoro che risulta essere ingessata a causa del costo del lavoro troppo alto se paragonato a quello dei Paesi emergenti. Per non parlare delle resistenze che si incontrano ogniqualvolta si proponga una maggiore flessibilità nel lavoro e maggiori garanzie per i dipendenti, resistenze che tutelano solamente chi il lavoro lo ha già e non chi deve trovarlo». E qual è il suo ideale di “buon governo” per l’Emilia Romagna? «Va detto che la sinistra ha governato bene l’Emilia Romagna. Ma solo fino a un certo periodo, dopo il quale, il modello di governo portato avanti riELIO MASSIMO PALMIZIO Nato a Milano, 53 anni, risiede da anni a Bologna. È in corsa al Senato nelle liste del Popolo della Libertà
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«Dobbiamo capire che è inutile contrapporsi a livello economico e politico. Dobbiamo concentrarci sui problemi della città» sultava non essere più adeguato perché troppo invasivo. Il settore pubblico interviene costantemente su tutto lasciando al privato poco spazio per agire. Credo che in una situazione diversa, caratterizzata da un più facile accesso al credito, le adeguate strutture e infrastrutture, in cui i privati abbiano più libertà per agire al meglio, possa portare più ricchezza a tutta la regione». Quale, invece, quello per Bologna, la città in cui vive? «I problemi sostanziali di questa città, purtroppo, non sono mai stati affrontati fino in fondo. Primo fra tutti la mancata comprensione che l’Università rappresenta una ricchezza fondamentale. Bologna non offre niente ai suoi studenti. Si sarebbe dovuta fare in passato un’operazione di spostamento dell’Ateneo verso la periferia con collegamenti infrastrutturali con il centro città. È fondamentale comprendere che non è produttivo contrapporsi a livello economico e politico, ma piuttosto concentrarsi sui problemi della città. Non è possibile che ogni volta che si cambia Giunta tutto quello che era stato intrapreso venga abbandonato completamente. Bologna ha bisogno di crescere, soprattutto in termini di infrastrutture. Ma invece di parlarne in continuazione bisognerebbe passare finalmente ai fatti». Bologna e l’Emilia Romagna sono casi di mancata alternanza politica. Secondo lei questo dato di fatto rappresenta un limite? «Rappresenta lo stesso limite che ha subito il Paese quando per 50 anni ha governato la Democrazia Cristiana. Senza dubbio un eccellente partito, ma che non ha avuto un ricambio. Il fatto che in Emilia Romagna né il Pdl né il Pd possano vantare “maggioranze bulgare” potrebbe creare le giuste condizioni per un’alternanza politica, sia in Regione che in città». L’Emilia Romagna ha sempre avuto la fama di essere una delle regioni più fiorenti d’Italia. È ancora così? «Quando ho iniziato a lavorare in Publitalia avevo un contatto diretto con le grandi aziende di marca che un tempo caratterizzavano questa regione e che, adesso, sono sempre di meno. Chiuse, vendute. L’Emilia Romagna, e Bologna in particolare, sta diventando una terra di “rentier”, persone che vivono di rendita. E questo non porta né sviluppo né ricchezza da ridistribuire».
Di cosa ha bisogno il tessuto produttivo locale? «Indubbiamente di infrastrutture. Sarebbe innanzitutto auspicabile una diminuzione del trasporto su gomma sviluppando ferrovie locali. E poi si deve finalmente iniziare a dare credito non solo a chi ha del mattone ma anche a chi ha delle idee». Quale valore hanno i circoli del Buon Governo all’interno del Pdl? «I circoli del Buon Governo rappresentano una componente culturale e politica importante di Forza Italia che, a sua volta, è parte costitutiva del Pdl. Questo a differenza di altri circoli culturali che sono esterni a Forza Italia, pur essendo nel Pdl. I “Buon Governo” hanno fondamentalmente un progetto culturale e prevedono una serie di incontri e conferenze sui temi che riguardano le varie realtà locali visto che sono declinati per provincia e per città. In questo modo si permette a ognuno di scegliere il “Buon Governo” che affronta i temi a lui più vicini». Possono essere considerati uno strumento efficace per combattere l’ondata di antipolitica e di sfiducia che sta attraversando il Paese? «Poiché il sistema partito da qualche anno non è molto amato dagli italiani, probabilmente è più facile per il cittadino avvicinarsi a un’associazione culturale che si occupa anche di politica piuttosto che a un partito vero e proprio. Anche perché, poiché all’interno dei “Buon Governo” si tende a non dare una struttura gerarchica come invece avviene nei partiti, è più facile emergere per chi ha i numeri giusti e buone idee». Lei è candidato con il Pdl al Senato per l’Emilia Romagna. Se eletto, quali saranno le attività cui si dedicherà in particolare? «Sicuramente la politica estera, una delle attività di cui mi sono occupato maggiormente quando ero deputato al Parlamento, dal 1996 al 2001. E poi, siccome per cinque anni ho fatto parte del consiglio dell’Authority sul volontariato nel settore Onlus, mi occuperò sicuramente di temi sociali che riguardano il terzo settore. Nel programma del Pdl esiste un capitolo che riguarda appunto il terzo settore e affronta il tema della modifica del libro primo del Codice civile dedicato alle associazioni. Questo perché il terzo settore, in questo momento, è normato da una serie di leggi tutte di carattere fiscale, mentre è opportuno dargli un inquadramento civilistico e poi, su questa base, apportare norme di natura fiscale».
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DECISA Anna Maria Bernini, insegna Diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Economia dell’Università di Bologna. Fa parte del comitato promotore dell’associazione FareFuturo
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AFFRONTO LE SFIDE CON ENTUSIASMO La politica attiva ha bisogno, oggi più che mai, di una «motivazione culturale» e di valori. Deve saper raccogliere e rielaborare le esigenze della società civile. Lasciando il primato a un’autentica meritocrazia. Questi gli obiettivi dell’associazione FareFuturo. Come spiega Anna Maria Bernini, avvocato e professore universitario di Daniela Panosetti
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l passaggio dalla società civile alla politica è un’esperienza che hanno sperimentato in molti. Ma il cursus di Anna Maria Bernini, candidata alla Camera per l’Emilia Romagna per il Pdl, si colora di un entusiasmo particolare. Perché l’avvocato e professore bolognese non ha dubbi, quando si tratta di rispondere alla domanda su cosa l’abbia spinta a questo salto. «Una motivazione culturale» dice senza esitazioni. Il che non è affatto scontato. Così come non è scontato lo sguardo scaturito da tale motivazione che, del fenomeno politico, prova a cogliere gli strati più profondi. Strati fatti soprattutto di valori. «Senso del dovere, prima di tutto. E poi – sottolinea – merito e responsabilità. E naturalmente controlli, senza i quali la responsabilità semplicemente non esiste». Principi che non sempre oggi si trovano appaiati. E che insieme fanno emergere «un’accezione sana di meritocrazia: l’unica salvezza per il nostro Paese, soprattutto quando si parla di giovani». E i giovani, Bernini li conosce bene. Perché in vent’anni di attività universitaria e accademica, gli ultimi sei presso la facoltà di Economia dove insegna Diritto pubblico comparato, ha potuto toccarne con mano esigenze e aspirazioni. Ma anche dubbi e insoddisfazioni. «I ragazzi – dice –sono portatori di valori molto più alti di quanto si creda. Occorre solo abituarli all’idea che non esistono solo diritti, ma anche doveri». È da qui che bisogna partire per co-
struire «una cultura politica per la nuova classe dirigente, di cui i partiti hanno incredibilmente bisogno, ma che non va confusa in nessun caso con la politica dei partiti». Un’intuizione, questa, che il presidente di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini ha posto alla base della Fondazione FareFuturo, nata un anno fa, di cui Bernini è membro promotore. Un’esperienza che ha contribuito in modo decisivo alla sua decisione di candidarsi. In che modo è avvenuto il passaggio alla politica attiva e quale ruolo ha svolto l’esperienza in FareFuturo? «Devo dire che il mio avvicinamento alla politica è stato un allunaggio morbidissimo: sono entrata in una fondazione che ho subito percepito come impegnata in una sana politica culturale, un approccio che mi è assolutamente congeniale, e la passione ha fatto il resto. Del resto, lo scopo di FareFuturo è quello di tracciare una via culturale di avvicinamento alla politica per la società civile, attraverso una serie di attività trasversali, sebbene ispirate da una matrice di centrodestra. Con una vocazione propositiva, quindi, ma proposta dal basso, dal corpo vivo della società di cui mi sento pienamente espressione. All’interno della fondazione ho poi trovato la stessa apertura culturale che caratterizza da sempre la docenza universitaria che è per definizione “ospitale” nei confronti delle varie catego-
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rie sociali con diverse vocazioni professionali, aspettative, aspirazioni». Com’è nata FareFuturo e con quali obiettivi? «La fondazione, che Fini ha fortemente voluto e che attualmente presiede, si propone come laboratorio di idee e centro di ascolto, in grado di raccogliere le istanze e i suggerimenti dei cittadini per poi veicolarli verso le istituzioni. Con la prospettiva di elaborare disegni di legge, ad esempio, ma soprattutto di formare una cultura politica per la futura classe dirigente. È in quest’ottica che va letta l’istituzione della nostra scuola in tecniche legislative, comunicazione politica e marketing del territorio. Ma anche i diversi tavoli tecnici che, nel mio caso, sono stati determinanti nella decisione di candidarmi: veri e propri workshop su questioni di politica
quotidiana». Fondazioni come FareFuturo, ma anche i Circoli del Buon Governo, si propongono come realtà intermedie tra società e politica. Si può ricucire lo strappo tra cittadini e classe dirigente? «Sono movimenti prepolitici che coagulano consensi e curano una certa categoria di elettori, cercando di ampliarla il più possibile. Se mi si concede un paragone un po’ azzardato ma calzante, direi che fondazioni come la nostra hanno una funzione “emostatica”. Quella, letteralmente, di “tamponare” la dispersione della base sociale rispetto al mondo della politica attiva. Per fare questo, il primo requisito è, semplicemente, “essere bravi”. Occorre mostrare quanto i politici stanno cambiando. Io credo nella cultura del fare. E credo che l’unico modo
«La politica è essenziale, non possiamo farne a meno, né banalmente disprezzarla. Tutti viviamo di politica, quotidianamente. Estiste infatti la politica delle istituzioni e la politica fatta dalla società civile» 100
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Nella foto sopra, l’avvocato Anna Maria Bernini con il padre Giorgio, ex ministro primo Governo Berlusconi
possa essere un vantaggio? «Credo sia un vantaggio, perché quando parlo di politica sento in me una carica positiva contagiosa, come un virus. Inoltre, pur arrivando da esterna, in modo in un certo senso indipendente, mi sono sentita accolta, addirittura quasi accudita dal partito, che mi ha mostrato un’estrema disponibilità. C’è stata una collaborazione assoluta e immediata, un vero e proprio interscambio: ho cercato di portare i miei temi e in cambio mi sono state insegnate le modalità più adatte ad affrontarli in un’ottica elettorale. A dimostrazione del fatto che siamo ormai un partito unico, non semplicemente un contenitore elettorale». Suo padre, il professor Giorgio Bernini, è stato ministro nel primo Governo Berlusconi. Cosa le ha lasciato la sua esperienza politica? «Quella di mio padre è stata un’esperienza molto particolare. Si era appena usciti da Tangentopoli ed era dunque un periodo di grande fermento, in cui si parlava di nascita della seconda Repubblica, con governo composto in buona parte di tecnici, che ha segnato lo start up dell’attività politica del presidente Berlusconi. Era, «Dobbiamo renderci conto che i nostri ragazzi insomma, un momento di grande sono portatori di valori molto più alti di quanto entusiasmo. Ed è proprio questo sento di condividere con l’espesi possa credere. Occorre solo abituarli all’idea che rienza politica di mio padre: l’entuche non esistono solo diritti, ma anche doveri» siasmo di una fase nuova». logna e il compito di traghettare l’esperienza nella regione è stato affidato proprio a lei. «L’idea di tentare un radicamento anche nella nostra regione nasce da una strategia di marketing del territorio: non si tratta solo di formare i futuri deputati, ma anche i futuri amministratori locali. Proprio a partire dalle specificità del territorio fonderemo una scuola con sede locale ma che sarà aperta anche alle regioni vicine. La vocazione che vorrei infondere in questo progetto è quella di raccogliere persone che condividono istanze comuni, per sviluppare iniziative a partire dal contesto in cui sono destinante a intervenire. Anche da un punto di vista di rappresentanza politica, del resto, è vero che esiste un mandato parlamentare che si deve svolgere presso le istituzioni centrali. Ma esiste anche la cura del proprio territorio. Io mi sento “prodotta” dall’Emilia Romagna e dell’Emilia Romagna mi impegno a esprimere le istanze». Lei è considerata uno dei volti nuovi della politica del centrodestra. Crede che il fatto di arrivare alla politica in modo per certi versi inaspettato
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UN’ECCELLENZA MADE IN ROMAGNA Strutture ospedaliere in Italia e all’estero dotate delle più sofisticate tecnologie sanitarie. Un impegno costante a favore della ricerca e della formazione in campo medico, termale e biomedicale. È il Gruppo Villa Maria, importante holding della Sanità privata, guidata da Ettore Sansavini di Marilena Spataro
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Nella foto, la hall di Villa Maria Cecilia, la prima struttura ospedaliera del Gvm realizzata nel ’73 a Cotignola, un piccolo centro della Romagna. Nel riquadro Ettore Sansavini, 62 anni, di Lugo, presidente della holding Gruppo Villa Maria
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a prima struttura ospedaliera del Gruppo Villa Maria viene realizzata nel ’73 a Cotignola, un piccolo centro della Romagna. Ettore Sansavini, nella sua veste di amministratore delegato la trasforma in un’eccellenza cardiologica dove alle attrezzature d’avanguardia si aggiunge uno staff medico di specialisti e chirurghi di prim’ordine. Divenuto, in breve tempo, una
holding, con cliniche e strutture sanitarie in tutte le regioni italiane e, in parte europee, il Gvm non solo allargherà il suo raggio d’azione in molti altri settori collegati alla Sanità, ma comincerà un processo d’integrazione con il Servizio Sanitario regionale e nazionale. Come e quando nasce l’idea di fondare il Gruppo Villa Maria? «Il Gruppo Villa Maria rappresenta una tappa importante del mio per-
corso imprenditoriale nella Sanità. Seppur formalmente costituito nel corso del ’92, già sul finire degli anni ’70 era nelle mie intenzioni creare una rete di strutture ospedaliere accomunate dalla loro vocazione per l’alta specialità e com-
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SANITÀ
Nelle foto accanto, interni di una clinica del Gvm. A destra la sala conferenze
COLLABORAZIONI I rapporti tra il Gvm e il mondo accademico si vanno consolidando. Spesso le sedi del Gruppo sono, infatti, luoghi di attività didattiche e di stage per diversi atenei italiani. Con le università emiliano-romagnole sono state definite intese che vedono il Gruppo impegnato sui diversi fronti dell’acquisizione nell’organico di cattedratici, attivazione di corsi e master universitari, sostegno e collaborazione scientifica nella realizzazione di dottorati di ricerca, finanziamento di linee di ricerca clinica
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plessità medico chirurgica». Il Gruppo oggi vanta eccellenze che gli conferiscono un prestigio di livello europeo. Inoltre investite parecchio in ricerca e innovazione tecnologica. Tutto questo come è stato recepito dal Servizio sanitario nazionale e regionale? «L’attuale assetto del Servizio sanitario nazionale e i costi per sostenerlo efficacemente impongono a tutti gli attori che operano al suo interno una seria riflessione sui
doveri di ognuno, prima ancora che sui diritti. Per questa ragione, da anni, ritengo prioritaria la costante capacità di innovare nel comparto salute. Tuttavia, il quadro normativo generale non si presta a sostenere questo approccio, in quanto risente ancora, da parte dell’amministrazione, di ataviche rigidità nel condividere con gli operatori privati le fasi di programmazione strategica. Pertanto, il ruolo riconosciuto agli ospedali privati accreditati viene definito, di anno in anno, da accordi con i quali si definiscono le attività ritenute necessarie dalla Regione e dalle Asl». I rapporti sono esclusivamente di carattere sanitario o anche relativi alla ricerca e agli investimenti? «I rapporti contrattuali hanno un’unica matrice assistenziale, mentre con protocolli e accordi contrattuali il Gruppo Villa Maria, le sue strutture ospedaliere e l’omonima Fondazione concorrono nella realizzazione di studi, ricerche scientifiche e progetti di spin off industriale, assumendo quali interlocutori privilegiati le Università e i centri di ricerca». Il Gruppo Villa Maria in Emilia Romagna ha realizzato, nel 2005, un fatturato di 117 milioni di euro, dando lavoro a 1.499 persone. In questi due anni tali cifre si sono incrementate? «La capacità di crescita è strettamente collegata alla capacità di innovare e qualificare eccellentemente l’offerta di prestazioni sanitarie. Il Gruppo Villa Maria ottiene da anni apprezzabili risultati cui si accompagna una crescita costante. Tutto questo grazie alla sua coerenza e alla capacità di tradurre le enunciazioni di principio in operatività e strategia d’impresa».
Si tratta, quindi, di un’importante realtà produttiva e imprenditoriale, la cui valenza non è soltanto quella di creare vantaggi ai cittadini e agli utenti di questa regione, ma anche di alimentare un indotto in molti altri campi collegati. «Il processo di differenziazione che si è accentuato in questi ultimi anni è stato stimolato da due fondamentali esigenze: da un lato, quella di strutturare al nostro interno una serie di servizi ancillari rispetto al nostro processo industriale principale costituito dalla gestione dei processi di cura. Da qui l’interesse per l’ingegneria clinica, l’edilizia ospedaliera, la qualità e tutela dell’ambiente, l’igiene ospedaliera, e così via. Dall’altro, di dare valore al nostro knowhow gestionale e assistenziale sanitario, traducendolo in intuizioni brevettali e in vere e proprie iniziative industriali come nel ca-
so dell’Eurosets di Medolla, una nostra azienda appartenente al settore merceologico gomma-plastica che produce e commercializza dispositivi biomedicali ed è situata nel distretto biomedicale dell’Area nord di Modena». Riguardo alla ricerca e al rapporto con le università, specie con quelle di Ferrara e Bologna, pensa sia possibile creare un sistema integrato? «Il Gruppo Villa Maria dialoga storicamente con il mondo accademico. Nel corso degli ultimi anni questi rapporti si sono fatti più solidi, tanto che noi stessi siamo diventati sede di attività didattiche e di stage per diversi atenei italiani. In particolare, con le università emiliano-romagnole, a noi più prossime, abbiamo definito intese che ci vedono impegnati sui diversi fronti dell’acquisizione nel nostro organico di cattedratici, dell’attivazione di corsi e master uni-
versitari, di sostegno e collaborazione scientifica nella realizzazione di dottorati di ricerca, di finanziamento di linee di ricerca clinica. Quindi, per noi è dato per scontato un sistema che ci veda integrati con l’Università». Tutto questo impegno a più livelli potrebbe sfociare in un riconoscimento formale e nell’integrazione completa all’interno del sistema sanitario? «Sono maturi i tempi per una rivisitazione dei rapporti e dei ruoli tra erogatori privati e pubblica amministrazione. Cogliendo la capacità e la duttilità di chi ha dato prova di saper fare impresa sanitaria con obiettivi di eccellenza e qualità, e ha dimostrato di volere essere parte di un sistema che, mi auspico, sia sempre più pubblico nelle funzioni e non nella sua totale architettura, saremo in grado di creare le premesse per la vera svolta».
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L’OPINIONE
NAVIGATO Filippo Berselli, 66 anni, nato a Bologna. È stato cinque volte deputato e due volte senatore di An. Nel III Governo Berlusconi ha ricoperto l’incarico di sottosegretario alla Difesa. È candidato al Senato per il Pdl
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ECCO LE RIFORME PER IL RILANCIO Cambiamenti del sistema elettorale e della struttura parlamentare. Differenziazione delle carriere dei magistrati. Aumento delle risorse per la Difesa. Risoluzione dei problemi infrastrutturali dell’Emilia Romagna. Filippo Berselli, senatore di An, snocciola le sue priorità per il prossimo governo di Matteo Cusumano
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a vocazione per la politica è arrivata dopo la laurea, quando da giovane procuratore legale si è trovato a difendere gratuitamente alcuni giovani militanti di destra. Da allora Filippo Berselli ha iniziato una lunga carriera che lo ha portato dai consigli di circoscrizione di Bologna alla Regione, alla Camera al Senato. Prima nel Msi, poi in An e ora nel Pdl. Una storia politica costellata di impegni ministeriali, in commissioni e come firmatario di disegni di legge su diverse tematiche, dal turismo alla Difesa, alla Giustizia. In questa intervista spiega quali sono i problemi del Paese e della sua Regione per i quali si batterà nella prossima legislatura. Quando ha iniziato a fare politica? «Ho cominciato abbastanza tardi, dopo l’università. Prima ho studiato, mi sono laureato in Giurisprudenza e poi, come giovane procuratore legale, ho iniziato a difendere giovani di destra coinvolti in episodi di violenza politica. In quel periodo mi sono avvicinato al Movimento sociale italiano. Agli inizi degli anni Settanta, quando i consigli di circoscrizione non venivano ancora eletti dalla popolazione, fui designato dal gruppo consiliare del comune di Bologna a rappresentare il partito nel consiglio del quartiere San Donato di Bologna. Uno dei più rossi. Nel 1975 sono stato candidato alle elezioni regionali e sono arrivato secondo dietro a Pino Romualdi. Alle successive Amministrative sono risultato primo. Da allora sono stato eletto cinque volte alla Camera e due al Senato». Avvocato e politico. Come suddivide il suo tempo tra le due attività? «Mi dedico soprattutto alla politica. Per fortuna ho due figlie in gamba che mandano avanti lo Studio. Oltre a essere senatore sono anche sindaco di Montefiore Conca, l’unico comune della Romagna con un primo cittadino di destra». Come vive il fatto di fare politica sia a livello lo-
cale che nazionale? «Quando sono diventato sottosegretario alla Difesa mi è stato chiesto se preferivo essere chiamato sindaco o sottosegretario. Ho risposto sindaco senza esitazione. È gratificante essere sindaci perché si viene eletti direttamente dai cittadini. Non ho sensi di colpa per avere sottratto il posto di sindaco a qualcun altro, perché sarebbe stato sicuramente un sindaco di sinistra. Tra un anno si svolgeranno ancora le elezioni nel mio comune e sono già stato sollecitato a ripresentarmi». Cosa ne pensa del fatto che i programmi dei due più grandi soggetti politici sono molto simili? «In Italia non abbiamo un partito repubblicano e uno democratico, uno conservatore e uno laburista. Abbiamo un centrosinistra e un centrodestra. Per questo, anche se i due programmi sono simili, ci sono delle differenze di fondo. Noi siamo veramente per ridurre le spese, Prodi invece le ha aumentate». In passato ha sostenuto la necessità di effettuare riforme costituzionali. Pensa che la prossima legislatura sarà la stagione giusta? «Deve esserlo. Nell’ultima legislatura abbiamo visto un’Italia paralizzata e incapace di cogliere la ripresa. Due legislature fa avevamo proposto riforme costituzionali che prevedevano una sola camera legislativa, mentre l’altra poteva essere regionale. Chiedevamo la riduzione del numero dei parlamentari, istanza oggi fatta propria da Veltroni, e maggiori poteri al premier. Se tutti sosteniamo le stesse cose possiamo varare una riforma che porti il nostro sistema a livello europeo. Noi queste riforme le avevamo già iniziate». Si è molto discusso della necessità di una riforma elettorale. Lei cosa ne pensa? «Dobbiamo assolutamente farne una. Sono schifato dalla legge attuale e dal modo in cui abbiamo formato le liste. Con questa legge i deputati e i senato123
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Filippo Berselli a una edizione della Mille Miglia. Il senatore è anche sindaco di Montefiore Conca, Rimini
ri vengono designati, non eletti. Si è dovuto negare la candidatura a persone che l’avrebbero meritata. Personalmente sono per applicare il sistema in vigore per le regionali in Emilia Romagna e in tutte le regioni a statuto ordinario, a eccezione della Toscana. Un sistema che prevede il proporzionale, con circoscrizioni più piccole, su base provinciale. Si potrebbero prevedere listini bloccati, formati dai partiti, validi solo per la quota che rappresenta il premio di maggioranza». E per quanto riguarda la Giustizia, invece? «Veltroni si deve rendere conto che è impossibile andare avanti così. Mi riferisco, per esempio, allo scandalo delle intercettazioni. Bisogna poi arrivare a distinguere le carriere, o almeno le funzioni, dei magistrati inquirenti e giudicanti. In Italia un giudice non è un giudice ma un pubblico ministero, cioè una parte. Facciamo in modo che chi entra in magistratura debba scegliere che tipo di magistrato vuole diventare. Nell’attuale processo il Pm non è una parte come l’altra. È un giudice che lavora fianco a fianco con il Gip. Il magistrato che decide la causa deve avere una carriera diversa da chi effettua le indagini». All’inizio della campagna elettorale si è aperto un dibattito sull’ammissibilità di candidati con procedimenti penali in corso. Qual è la sua opinione? «La mia posizione è quella della Costituzione. Quando ho letto sui giornali che qualcuno sosteneva l’inopportunità di candidare indagati ho pensato che le liste le avrebbero fatte i giudici. In Italia abbiamo due grandi giurisdizioni: di merito e di legittimità. Per chi ha una condanna passata in giudicato per reati gravi c’è l’interdizione dai pubblici uffici. Secondo me, un partito può scegliere, nella sua autonomia, di non candidare una persona con
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una condanna passata in giudicato che preveda una pena, poniamo, superiore ai dieci anni. Sarebbe un ragionamento che seguirei. Non quello di chi sostiene che non si possa candidare qualcuno indagato o condannato in primo grado». Lei si è occupato anche di Difesa. Come giudica la situazione delle nostre forze armate? «Purtroppo già con il Governo Berlusconi si è assistito a una riduzione delle risorse. L’Italia spende l’1,5% del Pil per la Difesa e a causa della congiuntura economica sfavorevole si è andati indietro invece che avanti. Invece dobbiamo investire di più. L’Italia è presente in tante regioni del mondo per garantire la sicurezza. Non dobbiamo correre il rischio di fare brutte figure con gli altri Paesi, anzi dobbiamo competere con loro a livello di aerei, mezzi di difesa, equipaggiamento. Anche perché le nostre forze armate devono essere integrabili con quelle delle altre nazioni, non solo per addestramento ma anche per equipaggiamenti e armamenti». Nella scorsa legislatura è stato primo firmatario di un disegno di legge per la riqualificazione dei centri storici e dei “borghi antichi d’Italia”. Qual è il senso di quel Ddl? «La situazione del mio comune è drammatica. Ci troviamo a 15 chilometri da Riccione e abbiamo un turismo di rimbalzo. La nostra situazione è simile a quella di tutti i paesi che non si trovano in una posizione geografica favorevole. Quella dei piccoli comuni delle dorsali appenniniche è ancora peggiore. Bisogna fare in modo che a livello regionale e provinciale non si diano risorse a tutti nello stesso modo, perché ci sono comuni avvantaggiati e altri svantaggiati. Nel nostro caso la provincia non ha concesso la realizzazione di aree artigianali e industriali. Ci sono comuni pieni di seconde e terze case e altri che hanno solo prime case e quindi potrebbero vedere le proprie risorse calare con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa». Quali sono i problemi prioritari dell’Emilia Romagna che dovrebbero essere affrontati? «Sono problemi infrastrutturali. Il tratto Bologna-Firenze dell’A1 è come un imbuto: è impossibile prevedere quanto ci si metterà a percorrerlo. Il nodo autostradale di Bologna rischia di bloccare la circolazione da Milano all’Adriatico, da Trieste a Roma a causa di un solo incidente. Sono due problemi non solo regionali ma nazionali, a cui il prossimo governo dovrà assolutamente mettere mano».