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SOMMARIO

128 158 Editoriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15 Marco Zanzi Luciano Tona Roberto Burdese Massimiliano Bruni Giancarlo Galan Mercati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .24 Ballarò, Vucciria, il Capo Porta Palazzo San Lorenzo Piazza delle Erbe

Curiosità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .102 Delizie autunnali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .104 Porcini e tartufi Mauro Valsecchi La salama da sugo L’aceto balsamico di Modena Delizie senza glutine . . . . . . . . . . . . . . . .108 Mattia Pintore

Antichi vitigni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .122 Erbaluce Sulle vie del gusto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .128 Franco Cardini Gianni Alemanno Sapori di casa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .138 Andrea Griminelli

Maestri gelatai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .110 Sapori artiginali

Cucina pavese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .142 Carlo Rossella Enrico Gerli

Piccole dolcezze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .112 Tra tradizione e tecnologia

Dall’antica vigna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .152 Pinot Doc

Il Piemonte è servito . . . . . . . . . . . . . . . .114 Antonio Cannavacciuolo

Il rosso senese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .154 Guido Bagatta Valérie Lavigne Castello Banfi Tenuta Ciacci Piccolomini d’Aragona

Prosciutto iberico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .46 Formaggi Dop . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .48 Toma piemontese Bra Raschera Robiola di Roccaverano Robiola di Murazzano Tradizione Casearia . . . . . . . . . . . . . . . . . .94 Il Castelmagno Il Gorgonzola

Cucina oltre confine . . . . . . . . . . . . . . . . .116 Andrea e Luca Mentasti Calogero Barone Fantasia a tavola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .120 Peperoncini Farciti

Nel cuore del chianti . . . . . . . . . . . . . . . .170 Poderi Brancaia

All’ombra del Monterosa . . . . . . . . . . .100 La Toma di Gressoney

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SOMMARIO

186 192 Dalle terre di Montalcino . . . . . . . . . .172 Il Brunello

A tavola con filosofia . . . . . . . . . . . . . . . .222 Gabriele Tomasi

Dalle terre senesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .174 Olio e vino Franco Bardi

Il noir a tavola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .228 Maigret e Nero Wolfe Wolfe, il raffinato

Tra storia e sapori . . . . . . . . . . . . . . . . . . .178 Il monastero di Monte Oliveto Maggiore Andrea Ricci

Protagonisti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .238 L’olio ligure Frantoio Portofino L’Alméoli

Chef reali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .186 Enrico Derflingher L’arte del ricevere . . . . . . . . . . . . . . . . . . .192 Xavier Salmon Scatti da gustare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .196 Carl Warner Cibo e arte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .202 Peter Weiermair Chez Tognazzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .210 Gian Marco Tognazzi Tatti Sanguineti

Aromi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .254 Il basilico genovese Tradizioni culinarie . . . . . . . . . . . . . . . . .264 Dal Colle di Nava

L’Amarone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .284 Luca Sartori Cantine Bertani Giancarlo Perbellini Tradizioni vitivinicole . . . . . . . . . . . . . .294 Celestino Gaspari I rossi della Valpolicella Cantine Santa Sofia Il Tai Rosso Regina del Garda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .302 Casaliva Le strade del vino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .306 Valerio Massimo Manfredi Aquileia Raffaella Nardini

Formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .266 John Arena Simone Murru

Una dinastia di viticoltori . . . . . . . . . .324 Roberto Felluga

Questione di gusti . . . . . . . . . . . . . . . . . . .274 Marco Müller

Nel cuore della Val D’aosta . . . . . . . . .328 Le uve de La Sourge

Appuntamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .280 Salone del Gusto

Vini d’alta quota . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .330

L’itinerario goloso . . . . . . . . . . . . . . . . . . .216 Firenze

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EDITORIALE

I luoghi del gusto e dell’avventura

di Marco Zanzi

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o spunto per la copertina di questo numero di Gusto ha origine da una fotografia di un originalissimo artista inglese, Carl Warner, che realizza stupefacenti paesaggi alimentari: i cosiddetti “foodscapes” che mostrano boschi, villaggi, colline, cascate, paesaggi marini e urbani fatti utilizzando prodotti alimentari comuni come il pane, la frutta, le verdure, gli ortaggi, i formaggi... Un divertente ed allegro Arcimboldo contemporaneo. In una di queste fotografie è rappresento il mercato di un paesino italiano, realizzato con pomodori, pane, melanzane, mandorle... Un “divertissement fotografico” sul mercato fatto con i prodotti che si vendono al mercato. Ma al di là del gioco, perché proprio i mercati sono diventati il tema centrale di questo numero di Gusto? La rivista della Golfarelli Editore è andata a visitare i mercati storici di Bolzano, Torino, Firenze e Palermo (altri però, altrettanto affascinanti, potevano essere

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considerati) perché continuano a essere ancora i “luoghi ” dell’identità alimentare del nostro Paese, un baluardo contro i cosiddetti nonluoghi. La definizione di nonluogo fu coniata qualche anno fa da un etnologo e antropologo francese, Marc Augè, che in un suo libro parlava di questa nuova categoria della realtà contemporanea. Un nonluogo è, per antonomasia, l’ipermercato. Di ipermercati, grandi o addirittura immensi, sono piene le città di mezzo mondo. Crescono come funghi e al loro interno si trova di tutto: dai negozi di ogni tipo ai bar, dai ristoranti etnici ai fast food, dai cinema alle discoteche… Insomma è un nonluogo che contiene tanti altri nonluoghi. E perché sono nonluoghi? Augè li definisce così poiché un nonluogo è privo di tratti distintivi, assomiglia a tutti gli altri presenti sul pianeta, in sintesi è la perdita di identità. Al contrario il mercato ha una forte, fortissima caratterizzazione identitaria. Il mercato è teatro di socialità fatto di colori, suoni, prodotti sui banchi ed è

una porta aperta sulla realtà alimentare del territorio circostante. Ma il mercato assolve anche un’altra funzione: la sua frequentazione può diventare un esperienza pedagogica, una forma di educazione alla qualità e uno stimolo alla creatività. Lo stesso Gualtiero Marchesi, il grande maestro della cucina italiana, ha riconosciuto la grande importanza formativa che ha avuto per lui andare, fin da giovanissimo, al mercato di Milano che si trovava vicino all’albergo dei genitori (l’albergo Mercato appunto). Al mercato non solo recuperava i prodotti di qualità e attingeva idee nuove, ma parlava con le persone e imparava, ne capiva gli orientamenti, le necessità, i desideri. Un mondo intero che poi trasferiva nella sua cucina. La visita al mercato può diventare così anche una piccola avventura urbana che ci si può concedere senza rischi e a bassi costi, un evento avrebbe detto Sartre - che esce dall’ordinario senza essere necessariamente straordinario ma, aggiungiamo noi, sicuramente interessante e affascinante.

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EDITORIALE

Creatività in cucina di Luciano Tona

Direttore didattico di Alma, Scuola Internazionale di Cucina Italiana

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atto del creare è proprio della mano intelligente, la stessa il cui indice divino si avvicina a quello dell’uomo appena concepito nella celebre raffigurazione della Cappella Sistina, in un contatto incompiuto, con uno spazio nel mezzo impercettibile, che rappresenta la tensione infinita dell’umano verso il sublime: dal tentativo di sfiorare la falange divina nasce l’arte. La creatività è un processo irreversibile, è la capacità di guardare vedendo, è il coraggio di rischiare, di perdersi su strade sconosciute, è l’essere coscienti che tutto si può realizzare perché l’idea è già materia nell’animo del creatore e aspetta solo la tecnica delle sue mani per prendere vita. Qui la creatività diventa la padronanza del propria professione. Il passaggio tra i due stati è questione di un attimo, un fugace carpe diem. Chi possiede il dono della creatività mal si rapporta con il tempo e la routine: il creatore è un inquieto e l’inquietudine che lo pervade lo spinge a essere un inconsueto. “La creatività è non copiare mai”, ma allo stesso tempo ogni invenzione creativa si poggia su qualcosa di già vissuto in modo straordinario e speciale. L’esempio di Coco Chanel ci racconta qualcosa di prezioso a riguardo: prima donna

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stilista della storia, ha rivoluzionato il concetto del vestire in modo adeguato al suo tempo, vissuta a cavallo dei due secoli passati ha costruito il suo mito sulla creatività, che come spesso raccontava “è vera se è copiata ” e diventa fonte d’ispirazione per altri. La creatività in cucina è un processo che merita un discorso a parte, poiché l’ars interviene a trasformare l’alimento, un bisogno primario, e come tale veicolo di salute e benessere, oltre che di piacere estetico. Il cuoco deve essere in grado di conciliare la ricercatezza e l’operazione tecnica, con un intento nutrizionale che rispetti le norme di sicurezza, le caratteristiche organolettiche dei prodotti, la ricchezza qualitativa della materia prima. Il piatto è un’opera d’arte che non può tenere conto soltanto di canoni estetici ed edonistici, è un’emozione che si esprime attraverso la conoscenza approfondita delle cotture più adeguate, dei tagli, dei tempi, dei sapori, degli spazi nella composizione. Il prodotto creato che non risponde a tali caratteristiche organolettiche precise di qualità e riproducibilità,è quello che viene definito un pezzo inflazionato, senza valore. Il cuoco è un artista che risponde con la sua responsabilità al giuramento di Ippocrate. Il cuoco crea partendo dalla sua idea, trasforma, plasma la materia rispettandola rigorosamente, come uno scultore che nello scalfire

il marmo terrà conto del verso e delle venature del blocco, e saprà come farlo affinché la materia si pieghi mansueta ai suoi gesti. L’essenza della creatività è infatti obbedienza, realismo: uno fantastico realismo. L’atto di mangiare potrebbe essere definito il primo esempio di opera d’arte interattiva multisensoriale, un rapporto fisico con l’opera, prima con lo sguardo, poi con l’olfatto, con il tatto e con l’udito, poi l’esperienza del gusto: le sensazioni al palato diventano emozioni vissute dallo spirito e dalla memoria di chi assaggia, il quale a sua volta trasforma l’opera, masticandola, ingoiandola, la fa sua nel metabolizzare il ricordo del suo sapore, la comunicherà agli altri, la descriverà e avrà voglia di riviverla e di condividerla. La creatività ricomincerà il suo percorso ciclico e metamorfico, dando vita a un racconto, a una riproduzione, a un’imitazione, a un viaggio nel tempo, dove secondo la proverbiale lezione “nulla si crea e nulla si distrugge”. Questo è il compito che la nostra scuola si prefigge: chiedere agli studenti di seguirci, di obbedire affinché la loro creatività si sveli per quello che è, attraverso la conoscenza approfondita della materia prima e del giusto modo di cucinarla. Questa è la “bottega” di Alma, dove la parola creatività non si pronuncia, è oggetto di riverenza, che fiorirà un giorno d’improvviso dalle parole “sì chef”!

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EDITORIALE

Il cibo e la nostra identità di Roberto Burdese

Presidente di Slow Food Italia

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l legame tra cibo e territorio è così stretto e indissolubile che si dovrebbe sostituire la congiunzione con il predicato. Il “cibo è territorio”. Se i territori fossero semplicemente suolo, supporto fisico alla produzione alimentare, avremmo calorie, lipidi, fibre, proteine... sterili valori chimici. Ma il cibo è un’altra cosa. Il cibo è parte integrante della nostra identità, della nostra storia, del nostro clima, del nostro modo di distinguerci dagli altri, l’unico modo che abbiamo di conoscere gli altri e noi stessi. L’Italia è un esempio straordinario di questo legame con le sue innumerevoli identità ed eccellenze agroalimentari. Non a caso vantiamo il maggior numero di Dop in Europa, lungo tutta la Penisola nascono (sarebbe meglio dire rinascono) mercati contadini e, dal canto suo, Slow Food con i propri presìdi tutela e valorizza quei prodotti appartenenti alla tradizione agricola e alimentare in pericolo d’estinzione. Abbiamo la consape-

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volezza del nostro patrimonio, ma sappiamo anche che molti sono i problemi e i pericoli. Diciamolo chiaramente: senza legame col territorio, il cibo perde elementi di qualità e perde soprattutto il carattere culturale. Battiamoci per questo perché già il nostro cibo quotidiano si è quasi completamente slegato dal territorio. I moderni sistemi di distribuzione ormai condizionano la produzione: oggi in larga parte l’agroindustria ha abolito (per necessità più che per scelta) la relazione con il territorio. In nome del mercato e del profitto abbiamo compromesso gli ecosistemi, assottigliato la biodiversità, standardizzato i gusti e spesso calpestato i diritti dei lavoratori. Con l’esplosione della globalizzazione il cibo è stato definitivamente sradicato dal suo contesto storico, è diventato mera merce. E allora l’alimento inteso con semplici valori economici e chimici (come dicevamo prima lipidi, fibre, proteine...) ci sta man-

giando: divora l’ambiente, i contadini, i consumatori. Demolisce il territorio, sia come concetto che materialmente. Il nuovo progresso, il possibile sviluppo futuro stanno proprio nel tornare a stabilire i giusti rapporti, le giuste priorità: cibo e territorio, cibo è territorio. E chi può farlo meglio del nostro Paese, emblema mondiale della buona tavola? Slow Food farà la sua parte, come sempre: “cibo +/= territorio” sarà lo slogan del Salone Internazionale del Gusto 2010. Alla nostra manifestazione di punta, infatti, si troveranno innanzitutto i territori, a guidarci verso i prodotti e i produttori, raccontandoci i mille legami che li hanno fatti nascere. Si potrà guardare il panorama complessivo, oppure avvicinarsi fino a vederne i dettagli. E a Terra Madre, il meeting delle comunità del cibo dai cinque continenti concomitante al Salone, emergeranno i produttori, le persone, con le relazioni che hanno con il territorio.

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La formazione nell’agroalimentare di Massimiliano Bruni Direttore del master in Food & Beverage management dell’Università Bocconi

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e imprese del settore alimentare si trovano a dover fronteggiare sfide sempre nuove e di crescente complessità, per affrontare le quali i responsabili aziendali devono disporre di strumenti e competenze manageriali. Le donne e gli uomini delle aziende agroalimentari sono chiamati a interpretare gusti e preferenze di consumatori sempre più esigenti e informati, così come a confrontarsi con nuovi concorrenti, spesso provenienti da Paesi che fino a qualche anno fa non erano presenti nello scenario competitivo e che ora lo sono grazie all’abbattimento delle barriere doganali e all’efficienza dei nuovi mezzi di trasporto. Del pari, essi devono sviluppare sistemi di offerta in grado di soddisfare le attese di operatori della distribuzione commerciale sempre più grandi e internazionali, dal potere contrattuale spesso sovrastante. Per competere con successo in un simile contesto non è più sufficiente fare dei buoni prodotti, per

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quanto rimanga presupposto imprescindibile che richiede competenze tecniche e capacità di innovazione. Alle conoscenze produttive è necessario affiancare competenze di marketing e di finanza, così come occorre saper gestire la dimensione economica dell’azienda attraverso il controllo dei costi, che costituiscono il punto di partenza per la costruzione dei prezzi e dei listini di vendita. Per ampliare il proprio raggio d’azione e cogliere le opportunità internazionali - che non sono venute meno neanche in questo periodo di crisi economica mondiale non basta esportare i propri prodotti, è necessario costruire articolate strategie di presenza all’estero. Questo richiede capacità di analisi di mercato e d’interpretazione delle differenti culture locali, così come di posizionamento competitivo e di comunicazione. Anche nel settore agroalimentare diviene sempre maggiore il ruolo della marca, la cui costruzione comporta competenze interfunzionali e interdisciplinari, che spaziano dalla

psicologia e sociologia dei consumi alla semiotica, dal marketing e dalla comunicazione aziendale al diritto. Chi, come il sottoscritto, si dedica alla formazione di donne e uomini con responsabilità gestionali nelle aziende agroalimentari sa che imprenditori e manager si confrontano oggi con una situazione molto più complessa del passato e che per questa ragione essi devono avere competenze assai maggiori e variegate di quanto non fosse necessario solo qualche anno fa. Le aziende, tanto di medie quanto di piccole dimensioni, devono dotarsi di persone capacità di sviluppare un pensiero strategico e di dargli attuazione. A questa sfida, che potremmo definire persino esistenziale, le scuole di formazione devono rispondere con programmi e iniziative che sappiano combinare il sapere manageriale con le specificità di settori che mantengono elementi distintivi e caratterizzanti, i quali discendono dalla speciale tipologia di prodotti e dal ruolo che essi hanno nell’alimentazione e nella cultura dei clienti e dei consumatori.

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la qualità italiana di Giancarlo Galan

Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali

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untare sulla qualità dei prodotti agroalimentari rappresenta la strategia per vincere la sfida competitiva sui mercati internazionali. La crescita registrata nell’ultimo decennio dalla domanda di prodotti che si collocano nella fascia dell'alta qualità e la tenuta sostanziale dell’export, anche nella fase più acuta della crisi economica, ne sono un'importante conferma. Il made in Italy mette in campo numeri da primato, come quello dei marchi Dop e Igp, il biologico, i vini Doc, la grande famiglia dei prodotti tradizionali. Tutti prodotti che hanno nel loro Dna un forte legame con il territorio d’origine, con la storia dei luoghi, con le tradizioni della gente. Un vantaggio di partenza, visto il trend positivo di questo segmento, che ha bisogno di essere sostenuto con interventi tesi a rafforzare la base produttiva e, soprattutto, la capacità di commercializzazione. In Europa, la qualità agroalimentare parla italiano: 211 marchi Dop e Igp, il 23% del totale Ue, con numeri che ben chiariscono l’importanza di tale primato. Il giro d’affari è valutato in 5,2 miliardi di euro alla produzione, che diventano 9,2 miliardi se riferiti ai prezzi di vendita al consumo, di cui un miliardo all’export. L’obiettivo, indicato anche dal Piano strategico nazionale sullo sviluppo rurale, è di allargare la base produttiva agricola -

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primo anello dell’intera filiera – per raggiungere quella massa critica necessaria per affrontare con adeguate misure di programmazione e marketing i mercati, anche quelli più lontani. Con importanti ricadute, salendo a ritroso la filiera, anche sui prezzi e quindi sui redditi dei produttori agricoli. Ampliando così quel grado di attivazione del sistema Dop e Igp, che a livello agricolo già coinvolge 80 mila produttori, 132 mila ettari coltivati e 46 mila allevamenti. L’altro grande primato italiano è quello dei prodotti biologici, i cui consumi (circa 2 miliardi di euro) crescono in continuazione, anche negli anni di maggiore crisi: + 6,9% nel 2009 e + 5,2% nel 2008. Un successo che beneficia di un’elevata fidelizzazione dei consumatori e del crescente fascino salutista che caratterizza sempre di più il rapporto tra stili di vita e alimentazione. Un segmento con buone prospettive future, sul quale si interviene con una serie di incentivi, per la maggior parte assicurati dai Programmi di sviluppo rurale (Psr), cofinanziati dall’Unione europea. Sempre i Psr concorrono a sostenere questo sviluppo con incentivi rivolti ai progetti di filiera e pacchetti per il biologico; una formula che, coordinando più misure, copre un raggio d'azione molto ampio: produzione bio sia vegetale che dell’allevamento,

riconversione, realizzazione o potenziamento degli impianti produttivi, strutture di commercializzazione. C’è poi il grande capitolo dei prodotti tradizionali, con 4.471 specialità censite a livello regionale: un’operazione avviata una decina di anni fa per evitare il rischio estinzione a seguito dell'entrata in vigore delle norme igienicosanitarie della Ue. Altra sfida strettamente connessa ai prodotti di qualità è rappresentata dal paesaggio, inteso non più, o non solo, come luogo fisico, ma come punto d’incontro dell’economia e della cultura, a tutti i livelli, di un territorio. Tutelare un paesaggio infatti, vuol dire valorizzare le produzioni tipiche locali, la cui immagine è strettamente legata alla qualità e alla bellezza dei luoghi di provenienza, rappresentando il vero punto di forza di un concetto sempre più diffuso di marketing territoriale. Legata a ciò, c'è anche l'attività agrituristica, un settore che prima degli altri ha interpretato in Italia il concetto di agricoltura multifunzionale, per diversificare l'attività e integrare il reddito. L’agricoltura italiana, ricca e complessa, rappresenta un mondo dalle infinite prospettive, che vanno tutelate, valorizzate e rafforzate per rilanciare l’intero comparto, rendendolo, sempre più, capace di rispondere in maniera positiva alle richieste e alle esigenze del mercato internazionale.

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Assessorato al Turismo della CittĂ di Palermo


MERCATI Ballarò, Vucciria, il Capo

Mercati Del gusto LA GIORNALISTA E SCRITTRICE MARCELLA CROCE RACCONTA I SAPORI, GLI ODORI E I COLORI CHE SPRIGIONANO I PIÙ ANTICHI MERCATI DI PALERMO

di Francesca Druidi

«I

mercati storici palermitani sono sorti nei luoghi dove gli arabi avevano i loro mercati mille anni fa». Lo ricorda Marcella Croce, giornalista e autrice di Guida ai sapori perduti, edito da Kalós (2009) e di Eat smart in Sicily, pubblicato da Ginkgo Madison Wisconsin nel 2008. Ma se «il Capo e Ballarò sono ancora vitali, La Vucciria, dopo alcuni lavori eseguiti a Piazza Caracciolo, è stata abbandonata dai clienti abituali e ha perso lo splendore che aveva quando Renato Guttuso la ritrasse nel suo celebre omonimo quadro. Molte botteghe hanno chiuso e in alcune zone ci sono più negozi di scarpe

che di alimentari». Il consumo alimentare, del resto, muta in maniera costante e, come sottolinea Marcella Croce, restaurare un mercato è più complesso che intervenire su un palazzo. I più antichi mercati di Palermo – Ballarò, La Vucciria e il Capo – restano comunque importanti cartine di tornasole grazie alle quali ricostruire le più tradizionali espressioni della gastronomia cittadina e, in generale, siciliana.

In apertura, il mercato il Capo di Palermo; sopra, la giornalista e autrice Marcella Croce www.marcellacroce.com

Quali specialità si trovano a Ballarò, La Vucciria e il Capo? «Rispetto al resto della città, nei mercati i macellai, che in Sicilia con perfetto spagnolismo sono chiamati carnezzieri, hanno un

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MERCATI Ballarò, Vucciria, il Capo

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maggiore assortimento di frattaglie. Sono “prelibatezze” che discendono dai cibi anticamente in vendita nel thermopolion greco: musso (muso di manzo), peri (piede), scannaruzzatu (esofago), strifizzi, testa di quagliata e centopelli (o librettino), tutte parti dell’intestino molle e della parte superiore dello stomaco, cioè la cosiddetta quarume (o caldume), i piedini di maiale (carcagnola), e le stigghiole, confezionate intrecciando una parte dell’intestino detto ziniero intorno a uno spiedo, costituito da steli di prezzemolo e dalle cime più verdi delle cipolle».

Mentre dal pescivendolo? «Regnano il pesce spada e, nel mese di maggio, il tonno fresco. Venditori specializzati vendono il baccalà, altri ancora le sarde sotto sale e le aringhe: la passione siciliana per questi gusti è forse una reliquia del grande successo riscosso in tutto il Mediterraneo dall’antico garum, la salsa che i romani ottenevano lasciando macerare al sole le interiora del pesce. I fruttivendoli vendono numerosi prodotti tipicamente siciliani come le zucchine lunghe oltre 60 cm e i cosiddetti tenerumi, cioè le foglie della stessa pianta, mangiate con la pasta, che costituiscono uno dei piatti tipici dell’estate. Si trovano, inoltre, le melanzane “tu-

Sopra, il mercato palermitano La Vucciria

Nei mercati i fruttivendoli vendono numerosi prodotti tipicamente siciliani Ottobre 2010


MERCATI Ballarò, Vucciria, il Capo

TRA ANTICO E MODERNO «I mercati di Palermo sono stati, sin dall’antichità, il luogo di scambio e transazione delle merci e pertanto sono stati costitutivi dello stesso tessuto urbano». A spiegarlo è Orietta Sorgi, dirigente del Centro Regionale per la catalogazione e documentazione dei beni culturali, nonché autrice di alcune pubblicazioni dedicate ai mercati storici del capoluogo siciliano. «Ballarò e il Capo hanno certamente origini musulmane, spazi adibiti alla raccolta e alla vendita dei prodotti alimentari che provenivano dai vicini villaggi agricoli o dai porti». Sorgi conferma, inoltre, quanto i mercati cittadini abbiano mantenuto un’ostinata resistenza al mutamento, malgrado i ripetuti interventi delle Pubbliche amministrazioni di spostarli in posti più idonei e funzionali. «Ciò non vuol dire che non abbiano subito trasformazioni, ma sono sicuramente fenomeni di lunga durata, luoghi in cui antico e moderno convivono in una sorta di miracoloso equilibrio». Nei mercati è, inoltre, possibile leggere la storia della Sicilia attraverso il cibo: questi spazi rivelavano in modo puntuale le scadenze agricole, dalle primizie stagionali ai

nisine”, più grosse, rotonde e chiare delle altre, le melanzane piccole di 10 cm, le perine, ma anche cedri giganteschi chiamati pipittuna». Prodotti tipici sono anche le olive. «Sì, le olive da tavola sono artisticamente sistemate su bancarelle specializzate: sembrano in equilibrio precario, ma al tempo stesso naturale, divise come sono in munzeddi (mucchietti) incorniciati da rametti di rosmarino, a seconda di fattori come sapore, qualità, provenienza e prezzo. Fra le olive nere, quelle grinzose, dette al fiore o acciurate, parzialmente lasciate maturare sull’albero in-

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diversi cicli della pesca, assurgendo dunque a indice delle colture principali dell’Isola e delle sue tradizioni. «Oggi tutto questo si è perso con la coltivazione in serra e si assiste, da un lato, a una diversificazione dell’offerta dovuta anche al cambiamento dei gusti alimentari, complici gli immigrati e la multi-etnicità, e dall’altro a una omologazione delle merci, dovuta al messaggio mediatico e pubblicitario». Ciò innesca una fase di transizione per i mercati palermitani: «in passato erano fenomeni circoscritti dentro la dimensione comunitaria del quartiere, oggi sono teatro di consumo ed edonismo partecipato soprattutto da immigrati, turisti e giovani che, nelle ore notturne, affollano le piazze dei mercati di Palermo». Ballarò resta per Orietta Sorgi il mercato più vitale, proprio in virtù della presenza massiccia degli immigrati e della vicinanza con le Università. Del resto, diversi mutamenti in atto: «Il tessuto originario di botteghe artigianali e piccoli esercizi di vendita o adibiti al trasporto – conclude – sono stati riconvertiti in pub, caffetterie e ristoranti».

vece che essere raccolte verdi, sono le migliori. Molto interessanti anche i banchetti per la vendita delle verdure selvatiche, tra cui i finocchietti, essenziali per la pasta con le sarde, normalmente venduti accanto ad altri prodotti dei campi come le lumache (babbaluci)». In che misura ritroviamo oggi la tradizione gastronomica palermitana nei prodotti venduti nei mercati cittadini? «A Palermo c’è un tipo di focaccia particolare detta sfincione. Oltre che nei panifici, è venduto da ambulanti specializzati, detti appunto sfinciunari, che si approvvigionano da un laboratorio

vicino a piazza Montevergini. Alcuni stanziano a Porta Carini davanti al mercato del Capo, spingono a mano il loro banchetto o si sono motorizzati con una lapa (Ape) fornita di piastra collegata alla batteria del veicolo, pronta a riscaldare il cibo. Lo sfincione sta allo sfincionaro come le panelle stanno al panellaro, anch’egli spesso motorizzato. Le panelle si inseriscono perfettamente in tutta una serie di cibi di strada che hanno la farina di ceci come ingrediente principale: una “moda” che è stata introdotta e propagata dagli arabi nel Medioevo durante la loro fulminea espansione. Con gli arabi arrivò l’abitudine di friggere e vendere

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MERCATI Ballarò, Vucciria, il Capo

Assessorato al Turismo della Città di Palermo

strada, un costume poi trasfe• per rito in piccoli negozi detti friggitorie: le crocchè di patate, dette cazzilli, le verdure in pastella e le melanzane a quaglia ne completano l’assortimento. Se le bancarelle del mercato sono gli altari, la friggitoria è il tempio della cucina di strada».

Rispetto al resto della città, nei mercati i macellai hanno un maggiore assortimento di frattaglie Ottobre 2010

Altre specialità che segnalerebbe? «A Palermo la frittola consiste in ciccioli fritti, cioè pezzetti di carne, grasso e nervi, tutti residui dalla preparazione della sugna. Coperta da un panno per tenerla in caldo, è venduta fuori delle osterie del Capo e di Ballarò. C’è

poi il pane con la milza, che nella città di Palermo -che ne è patriaè chiamato pani ca’ meusa o vastedda. I macellai vendono grassi e cartilagini di maiale in insalata, i fruttivendoli le verdure cotte o grigliate, alla Vucciria c’è ancora qualche poliparo, ma è ben poca cosa rispetto al numero di pentoloni con polpo bollito del passato. Al contrario, c’è un venditore di bottarga di tonno, specialità trapanese che a Palermo è ancora una specie di novità. Una menzione speciale va ai biscotti con le effigi dei Santi Cosma e Damiano che si confezionano nel panificio del Capo per la festa del 26 settembre».

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MERCATI Porta Palazzo

i sapori di torino PUNTO D’INCONTRO TRA VECCHI E NUOVI TORINESI. UN LUOGO CHE CONSENTE DI VIVERE UN AFFASCINANTE “AVVENTURA URBANA”. IL MERCATO DI PORTA PALAZZO RACCONTATO DA VITTORIO CASTELLANI, ALIAS CHEF KUMALÉ

di Francesca Druidi

È

Vittorio Castellani, in arte Chef Kumalé, giornalista e consulente esperto in gastronomia; sotto, il mercato coperto di Porta Palazzo

Luca Gaydou

il più grande mercato all’aperto d’Europa, quello di Porta Palazzo, che nasce storicamente come progetto di riqualificazione dell’ingresso settentrionale della città di Torino, affidato all’architetto Juvara. Nel corso dell’Ottocento quella che si chiamerà

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MERCATI Porta Palazzo

Immagine fornita da Vittorio Castellani che nel mercato di Porta Palazzo organizza i walk tour “Turisti per casa” www.ilgastronomade.com

piazza della Repubblica, attuale fulcro del mercato, assume la sua forma ottagonale e inizia a diventare luogo dedicato al commercio. I mercati si stabiliscono definitivamente a Porta Palazzo il 29 agosto 1835 e, da quel momento in poi, questo spazio rifletterà in maniera efficace l’identità del territorio e della sua popolazione. Basti pensare alla parte del mercato contadino al coperto, dove ancora oggi si vendono i prodotti stagionali piemontesi, tra cui erbe primaverili della tradizione locale, patate di montagna e zucche. «Con il programma Campagna Amica la Coldiretti ha avviato un’esperienza che potremmo definire di “chilometro zero”, coinvolgendo i produttori

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agricoli della provincia di Torino, che portano al mercato il frutto del loro lavoro generando un significativo collegamento tra città e campagna», sottolinea Vittorio Castellani, in arte Chef Kumalé, giornalista “gastronomade” che organizza per l’open market walk tour “multi-EAThnic” chiamati “Turisti per Casa”. Ma Porta Palazzo è sempre stato anche un punto d’incontro per i “nuovi piemontesi”, avendo saputo accogliere nei decenni i flussi migratori dal Meridione, ma anche dal Veneto, dalla Toscana, dall’Abruzzo. Uno degli aspetti che caratterizzano oggi il mercato è l’insediamento nel suo perimetro, intorno al mercato coperto, di numerose comu-

nità straniere. «Sono più di 1000 i prodotti esotici introdotti, con 143 comunità differenti, fa notare Chef Kumalé che vengono a Porta Palazzo per fare la spesa». Tra i prodotti più rappresentativi, si segnalano i mazzi di menta fresca dal Marocco, le erbe della Thailandia, i frutti tropicali del Sud America e asiatici, i sottaceti del Nord Africa, le spezie in arrivo dall’India o dal mondo arabo, l’incredibile pasticceria araba, acquistata anche dalla contessa Pralormo, i pani maghrebini preparati in casa e le acque aromatiche di fiori d’arancio. «Il mercato — conclude Castellani — identifica a tutti gli effetti una sorta di ombelico del mondo delle culture alimentari e culinarie».

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Agenzia per il Turismo di Firenze

nel cuore

di firenze I IL MERCATO CENTRALE DI SAN LORENZO STA CAMBIANDO PER FAR FRONTE ALLE SFIDE DEL PRESENTE. LO SPIEGA L’ESPERTO DI ENOGASTRONOMIA LEONARDO ROMANELLI

di Francesca Druidi

naugurato nel 1874 in occasione dell’Esposizione internazionale di Agricoltura, da sempre situato nella caratteristica struttura progettata da Giuseppe Mengoni, il mercato centrale coperto rappresenta il cuore pulsante del quartiere fiorentino di San Lorenzo. Come ricorda, infatti, il giornalista ed enogastronomo Leonardo Romanelli, «questo luogo è stato molto frequentato dagli abitanti del centro storico per fare la spesa, in un contesto “da mercato vecchio stile” dove tutti i generi alimentari sono rappresentati e dove si applica un concetto di risparmio vero e reale». Il mercato ha, però, inevitabilmente risentito delle difficoltà di accesso al centro e del conseguente svuotamento di quest’ultimo da parte dei residenti fiorentini, su-

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Agenzia per il Turismo di Firenze

MERCATI San Lorenzo

Qui si trovano il lampredotto e le frattaglie che altrove sono difficili da reperire

Leonardo Romanelli, giornalista, insegnante, autore e conduttore televisivo

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bendo un calo di popolarità che, tra i diversi effetti, ha portato ad alcune trasformazioni nelle attività commerciali del piano inferiore della struttura: «sono state aperte nuove attività secondo la logica della “gourmandise”, si vendono ad esempio olio tartufato e spezie particolari, un po’ staccate dall’idea di territorio e di tradizione e maggiormente legate a quelle che possono essere le preferenze dei turisti». Il mercato, come spiega Romanelli, si è sempre distinto per i banchi di frutta e verdura, situati al primo piano, e nel piano inferiore per le macellerie, le pollerie e le botteghe specializzate nella vendita di selezioni di formaggi e salumi di elevata qualità. «Qui si trovano il lampredotto e, in generale, frattaglie che altrove è difficile reperire. Forse più nel passato, ma il mercato è famoso anche per essere fornito di ottime erbe aromatiche». I recenti lavori di ristrutturazione ne hanno

modificato la configurazione: circa un anno e mezzo fa, quando gli interventi sono stati avviati, gli ortolani sono stati costretti a spostarsi provvisoriamente nella piazza esterna, all’interno di una tensostruttura. Nel frattempo, è stato però messo in discussione il futuro profilo del mercato. «Si sta valutando – afferma il giornalista – se il piano superiore debba tornare a essere occupato dagli ortolani o se non debba essere applicato un nuovo criterio, rendendo questo spazio nel cuore di Firenze un luogo vocato a esposizioni, dibattiti e manifestazioni inerenti all’enogastronomia». Il mercato cerca, in sostanza, una definitiva ripresa dopo la crisi degli ultimi anni. Romanelli suggerisce di «prendere a modello la Boqueria di Barcellona e comunque di creare più occasioni di consumo del cibo all’interno del mercato». Come insegna il costante successo della Trattoria Nerbone.

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MERCATI Piazza delle Erbe

l’anima

dibolzano È UN MERCATO ULTRASECOLARE CHE PROPONE IL MEGLIO DEL TERRITORIO. CI ACCOMPAGNA IN PIAZZA DELLE ERBE IL COMMERCIANTE GIOVANNI MESSORI

di Francesca Druidi

Ferrigato

È

dal 1960 che Giovanni Messori, prima da dipendente e poi in qualità di titolare di una bancarella di ortofrutta, vive la quotidianità del mercato di Piazza delle Erbe, diventando negli anni Ottanta il portavoce dei commercianti della Piazza. Le origini del mercato risalgono al 1300, ma nei secoli ha sempre conservato la sua vocazione popolare: centro vitale nel Medioevo, lo statuto del 1437 ne sancisce la vitalità commerciale, data dalla vendita di frutta, uva, pollame e uova. Negli annali storici, il mercato viene, infatti, descritto come “movimentato, chiassoso e multicolore”. Oggi mantiene la sua identità di «vetrina gastronomica di prim’ordine – racconta Messori, che lavora ancora a Piazza delle Erbe – caratterizzata dalla pulizia e dall’accuratezza nell’esporre la merce, ma soprattutto resta, coincidendo con il centro storico di Bolzano, un punto d’incontro delle genti della vallata e anche dei turisti». Esposti nei tipici banchetti verdi - che si tramandano di generazione in generazione oppure, come nel caso di Messori, da titolare a dipendente – si trovano la migliore frutta e verdura di stagione, come asparagi, uva, fragole e castagne, ma anche fiori, selvaggina, salumi, tra cui speck e salamini affumicati, e prodotti caseari. «Ero arrivato a esporre anche 2025 varietà di mele che la gente non conosceva», ricorda Messori. Oggi

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MERCATI Piazza delle Erbe

AST Bolzano

Giovanni Messori, commerciante in Piazza delle Erbe dove lavora dal 1960

Il mercato resta un punto d’incontro per la gente della vallata e anche per i turisti Ottobre 2010

si è ridotto il numero delle bancarelle, da 54 sono scese nell’arco di cinquant’anni a 24, e gli anni Duemila hanno visto l’applicazione di un nuovo statuto della Piazza che, pur tenendo conto dell’immagine che ha sempre contraddistinto Piazza delle Erbe, ha introdotto, per regolamentarle, nuove attività: «oggi – sottolinea il commerciante – sono operativi due banchi per la vendita del pane, che prima non c’erano, oltre ai tre alimentaristi, che si occupano della vendita dei salumi e dei formaggi, ai banchi dei fiori e a quelli di frutta e verdura,

con la novità della frutta secca». Nel mercato, che si tiene tutti i giorni (tranne il sabato pomeriggio, la domenica e i festivi), dal mattino alla sera, si possono reperire, tra l’altro, le tipologie di pane che appartengono alla tradizione ladina, tedesca e italiana, come il pane di farina nera e quello di segale. «Determinati pani della cultura alimentare tedesca sono abbinati a specifiche festività, ma ormai sono entrati a far parte delle abitudini degli italiani. Ogni etnia tende, infatti, ad assorbire dalle altre usi, tradizioni e culture». Anche a tavola.

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FORMAGGI DOP Toma piemontese

bontà e quantità RICCARDO ROSSO, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA DEL TOMA, CI PARLA DI UNO DEI FORMAGGI DOP PIÙ RAPPRESENTATIVI DELLA TRADIZIONE CASEARIA PIEMONTESE

di Michela Evangelisti

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l nome Toma nella tradizione popolare è stato sempre abbinato a indicazioni geografiche varie (Toma di Ormea, di Biella, ecc.) oppure a nomi di fantasia (Toma del Mulo, ecc.). Dall’unione di queste tradizioni è nata, nel 1996, la denominazione di origine protetta. A testimonianza della grande rappresentatività si presenta in due pezzature (piccola e grande) e nella versione a latte intero o a latte semigrasso. La produzione del formaggio Toma è, fin da epoca medievale, strettamente legata all’areale alpino piemontese e in particolare ai margari, che sfruttavano i pascoli montani nel periodo estivo per poi ridiscendere a fondovalle o in pianura nel periodo invernale. La sua distribu-

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FORMAGGI DOP Toma piemontese

Il Toma è fortemente legato al territorio: mangiare pane e toma era abitudine quotidiana delle famiglie contadine Gusto • 50

zione geografica copre gran parte del territorio del Piemonte; la maggiore concentrazione produttiva si riscontra comunque in poche aree: la provincia di Torino, la montagna biellese, l’alta Val Sesia e la pianura cuneese. Il Toma piemontese si presenta di forma cilindrica, con diametro di 20-30 cm, uno scalzo arrotondato inferiore ai 20 cm e un peso variabile tra i 5-10 kg. La crosta è in genere poco spessa, mentre la pasta è di colore giallo uniforme ma di intensità variabile nelle diverse tipologie individuate. Quali sono le sue peculiarità e come consiglia di con-

sumarlo? «Il Toma presenta caratteristiche gustative diverse a seconda della zona di provenienza e di lavorazione, a latte intero o semigrassa. Il suo sapore è intenso, armonico, di aroma fragrante e diviene più marcato con la stagionatura. Il prodotto molto stagionato è sicuramente il più caratteristico ed evoca profumo di sottobosco tendente alla castagna e alla nocciola. Il Toma è fortemente legato al territorio: mangiare pane e toma era abitudine quotidiana delle famiglie contadine. È un formaggio che si sposa perfettamente con la polenta sia dura che concia, con la fonduta

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FORMAGGI DOP Toma piemontese

• con le uova, con il riso in cagnone. Altrimenti il prodotto stagionato si può degustare accostato a un piatto di patate bollite, che ne stemperano un poco il gusto, accompagnato a un bicchiere di vino rosso importante, oppure, in estate, meglio prediligere un Toma meno stagionato: unito ai grissini e a un vino bianco fresco diventa un ottimo aperitivo». I processi di realizzazione sono mutati negli anni? «Sono stati introdotti sistemi di igienizzazione del latte, per garantirne la qualità, e fermenti lattici selezionati per migliorare la costanza del prodotto. Nella stagionatura sono stati introdotti sistemi di condizionamento controllato, per garantire caratteristiche costanti di ambiente. Tutte le innovazioni, comunque, sono sempre tese a migliorare la qualità, a favore del consumatore, mantenendo al tempo stesso il prodotto fortemente legato alla tradizione: nessuna innovazione ha stravolto il tradizionale sistema di produzione».

tra produttori piccoli e grandi e stagionatori. Le iniziative che cerchiamo di portare avanti, con mille difficoltà vista anche la piccola dimensione del nostro consorzio, si concentrano su due filoni basilari. Il primo è la promozione, con la quale cerchiamo di far conoscere il prodotto a un sempre maggior numero di consumatori, tramite la partecipazione a fiere, la pubblicità sui giornali, eventi organizzati con la collaborazione delle istituzioni pubbliche, quali la Regione Piemonte. L’altro filone è quello del contrasto alla contraffazione, con il controllo dei prodotti immessi sul mercato».

Il Toma presenta caratteristiche gustative diverse a seconda della zona di provenienza e di lavorazione

Come lavora il consorzio? «Le aziende iscritte al consorzio sono circa una quarantina,

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FORMAGGI DOP Toma piemontese

FRICC DEL MARGHÉ (FRITTO DEL MARGARO) Ingredienti per 4 persone: ·100 gr di burro biellese · 300 gr di Toma piemontese dop · 4 uova · foglie di timo serpillo

Preparazione: Far soffriggere il burro con l’aglio che poi andrà tolto. Aggiungere, nel burro schiumante, il formaggio e farlo fondere mescolando e quindi mettere le uova intere strapazzandole con il formaggio fino a fare rapprendere un po’ l’albume. Il piatto si serve caldissimo con polenta.

Il prodotto stagionato si può degustare accostato a un piatto di patate bollite, che ne stemperano un poco il gusto Ottobre 2010

Come il mercato ha reagito alla crisi economica? «Malgrado la grave crisi che ha colpito l’Europa intera, dobbiamo dire che il nostro mercato ha ben tenuto, anche se abbiamo registrato ultimamente una minor redditività delle nostre aziende. I mercati esteri ai quali ci rivolgiamo sono soprattutto quelli europei e statunitensi». Quali investimenti avete in previsione per continuare a promuovere il vostro prodotto? «Alla base degli investimenti

che vengono effettuati c’è la regola che mi piace chiamare delle due “q”: qualità in quantità. Per mantenersi su un mercato competitivo serve sicuramente qualità, ma serve una quantità idonea ad avere una ricaduta positiva e significativa sul territorio. Per mantenere il nostro prodotto unico abbiamo sempre come nostra guida il disciplinare di produzione legato alla nostra tradizione, che mutiamo solamente quando vi sono dei cambiamenti tecnologici che possono migliorare il prodotto senza stravolgerne l’unicità».

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FORMAGGI DOP Bra

tradizione e territorio UNA TIPOLOGIA DURA, CHE APPARTIENE ALLA STORIA DEL PIEMONTE, E UNA TENERA, CHE RISPONDE AI GUSTI DELLE NUOVE GENERAZIONI. STIAMO PARLANDO DEL FORMAGGIO BRA, DEL QUALE CON L’AIUTO DI OSCAR GIORDANO, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA, ANDIAMO A SCOPRIRE LE CARATTERISTICHE

di Michela Evangelisti

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l Bra, che porta il nome della cittadina piemontese collocata sul confine tra le Langhe e la pianura cuneese, è una delle perle della produzione casearia piemontese. Oggi nel territorio di Bra non si produce neanche una forma dell’omonimo formaggio, e anche un tempo proveniva per la maggior parte dai paesi delle vallate e delle montagne di Cuneo. Furono tuttavia i commercianti braidesi a stagionare e a portare “il nostrale” sui mercati piemontesi e soprattutto liguri, dove, si dice, era molto ap-

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prezzato come ingrediente nella preparazione del pesto. Nel genovese è molto richiesto ancora oggi, come in tutta la Liguria e in Lombardia (nonostante la regione abbia una tradizione di formaggi importanti), mentre una parte del prodotto si rivolge ai mercati esteri, anche se si tratta di un’esportazione estemporanea, verso America, Francia e Germania. Le due tipologie prodotte, Bra tenero e Bra duro - doc dal 1983 - hanno ottenuto il riconoscimento della denominazione di origine protetta nel 1996. L’ingre-

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FORMAGGI DOP Bra

L’ingrediente fondamentale del Bra è latte di eccellenti caratteristiche, munto in zone limitate del Cuneese, lavorato e stagionato secondo tecniche che si rifanno a un’antica tradizione

diente fondamentale del Bra è latte di eccellenti caratteristiche, munto in zone limitate del cuneese, lavorato e stagionato secondo tecniche che si rifanno a un’antica tradizione. «I processi di realizzazione sono ancora tradizionali – spiega Oscar Giordano, presidente del consorzio di tutela –. Alcuni caseifici utilizzano ancora le vecchie tele di lino per avvolgere il formaggio nelle fasi di pressatura e formatura. Le nuove tecnologie introdotte sono poche: i polivalenti hanno sostituito i pentoloni, per aumentare le quantità e mantenere più co-

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stante la temperatura. Alcune innovazioni poi hanno coinvolto l’aspetto igienico, con l’avvento di macchine chiuse, asettiche, lavate in automatico al termine delle lavorazioni». Il tipo duro si presenta piccante e sapido al gusto, soprattutto se lungamente stagionato; più gradevolmente profumato e meno intenso il tipo tenero, avvolto da una crosta grigio chiara, elastica, liscia e regolare, che diventa più consistente e di colore beige scuro nel Bra duro. «Storicamente il Bra duro è sempre stato il più venduto – spiega Giordano

–. Viene realizzato con latte crudo, che non subisce trattamenti termici, decremato per affioramento, senza l’utilizzo della centrifugazione meccanica, e lasciato a riposare un giorno intero nelle vasche. Il suo aroma è importante e marcato. Il Bra tenero si è impadronito della scena negli ultimi 15/20 anni, a causa di un cambiamento del gusto. È infatti ottenuto dal latte pastorizzato, si presenta più dolce, delicato, meno saporito e articolato, più apprezzato quindi da un pubblico giovane. Le differenze di sapore derivano anche da una diversa

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FORMAGGI DOP Bra

La stagionatura in casse di legno gli conferisce un gusto e un profumo incredibili Ottobre 2010

stagionatura: 45 giorni per il tenero contro i 6 mesi per il duro». Caratteristiche tutte particolari presenta un tipo di Bra stagionato proprio nella cittadina che porta il suo nome e chiamato Braciuk (ciuk in piemontese significa ubriaco). Il tipo tenero, infatti, rifornito dagli alpeggi cuneesi, viene immerso nelle vinacce di Nebbiolo o Pelaverga, Dolcetto o Barbera. La stagionatura in casse di legno gli conferisce un gusto e un profumo incredibili; se ne pro-

duce una quantità molto limitata. I formaggi Bra tenero e Bra duro prodotti e stagionati nei territori dei comuni montani di cui all’art. 3 Dpr 16/12/82 possono portare la menzione di “alpeggio”. I formaggi Bra presentano uno scalzo di 7/9 cm leggermente convesso, le facce hanno diametro di 30/40 cm e il peso varia da 6 a 8 kg. Solo la presenza del logo sull’etichetta, riportante il caratteristico “omino” con le forme in braccio, e la scritta sullo scalzo ri-

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FORMAGGI DOP Bra

Richiedere il marchio è sicuramente una garanzia, oltre che una tutela del proprio palato Ottobre 2010

portante la dicitura Bra tenero/Bra duro, oltre al numero di casello, garantisce la provenienza del prodotto e l’autenticità, cioè la rispondenza ai requisiti specifici del Bra. Per una maggiore tutela del consumatore il consorzio Bra e le aziende produttrici vengono sottoposte a controlli da parte di un organismo esterno (Istituto Nord Ovest Qualità), che ha il compito di accertare la rispondenza del formaggio ai requisiti previsti dal disciplinare di produzione, ed in caso di esito positivo di autorizzare l’azienda all’uso del marchio di origine. Quindi richiedere il marchio è sicuramente una garanzia, oltre che una tutela del proprio palato. «Il Consorzio comprende 15 produttori, solo della provincia di Cuneo, alcuni appartenenti all’area montana –

illustra Giordano -. Coordiniamo azioni di promozione, vigilanza e controllo, per garantire il rispetto delle normative e dei disciplinari di produzione. Per la promozione la forma più utilizzata è quella della partecipazione a eventi e fiere e della sponsorizzazione di eventi locali. Insieme a Assopiemonte, associazione di 6 piccoli formaggi dop, abbiamo partecipato al salone del gusto al Lingotto di Torino e abbiamo in programma eventi anche all’estero, in Inghilterra, per favorire l’apertura di spiragli commerciali per l’esportazione». Come è preferibile consumare il Bra? Il presidente del consorzio propone abbinamenti interessanti e innovativi. «Il Bra duro, ad esempio, è ottimo con miele di acacia e castagno – conclude -, che, nel contrasto, ne esaltano le peculiarità».

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FORMAGGI DOP Raschera

Quel buon formaggio che lassù si fa UN FORMAGGIO CHE HA ORIGINI SULLE ALTE CIME E CHE ANCORA VIENE PRODOTTO SEGUENDO PROCEDIMENTI TRADIZIONALI. LI RIPERCORRIAMO ACCOMPAGNATI DA GIANNI SICCARDI, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA DEL RASCHERA

di Michela Evangelisti

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n un contratto d’affitto della fine del Quattrocento rinvenuto nell’archivio comunale di Pamparato, in provincia di Cuneo, un signorotto locale pretendeva “quel buon formaggio che lassù si fa” dai pastori che “menano le loro vacche a pascolar l’erba del prato Raschera”. L’Alpe Raschera, con una superficie di circa 620 ettari, rientra oggi nel territorio di Magliano Alpi, comune che deve l’appellativo “Alpi” proprio al fatto di aver ottenuto nel 1698, in virtù della separazione delle terre appartenenti al

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mandamento di Mondovì, le Alpi Brignola, Seirasso e Raschera. Da sempre su questi monti viene prodotto un formaggio particolare, che ha il nome di un lago e di un pascolo situato alle falde del monte Mongioie, a più di 2.000 metri di altitudine: il formaggio Raschera. «Esistono due tipi di Raschera – spiega il presidente del consorzio di tutela, Gianni Siccardi –. Il formaggio d’Alpeggio, ottenuto con latte crudo e con una stagionatura di almeno 60 giorni, e quello prodotto in tutta la provincia di Cuneo, realizzato con

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FORMAGGI DOP Raschera

Il Raschera si produce utilizzando gli stessi fagotti, le stesse tele, la stessa pressatura di una volta

latte termizzato, di bovine che non fanno pascolo, a seguito di una stagionatura di circa 30 giorni. L’Alpeggio eredita le sue caratteristiche dai fiori e dal carotene assunto dagli animali al pascolo, e quindi è particolarmente ricco di proteine e ha un colore giallognolo. Il suo gusto e il suo colore comunque sono molto variabili: cambiano a seconda del luogo preciso nel quale l’animale ha pascolato». La tradizione casearia artigianale locale ha imposto al formaggio Raschera la forma rotonda o quadrata. Quest’ultima si è affermata

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negli anni per la maggiore praticità di trasporto che consente. «L’Alpeggio nasce rotondo per diventare quadrato – sottolinea Siccardi –, ed essere trasportato più comodamente a valle sul dorso dei muli». All’inizio degli anni Settanta, per problemi di mercato e conseguentemente al depauperamento delle forze di lavoro giovanile che le zone di montagna subivano grazie alla politica filo-industriale allora imperante in Italia, si rischiava di perdere irrimediabilmente questo gioiello di produzione casearia-artigianale. «La produzione del formaggio

In apertura, la stagionatura delle forme di Raschera; sopra, una delle fasi di lavorazione del formaggio

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FORMAGGI DOP Raschera

L’Alpeggio nasce rotondo per diventare quadrato ed essere trasportato più comodamente a valle sul dorso dei muli Ottobre 2010

d’Alpeggio era stata parzialmente abbandonata – racconta il presidente –, finché una decina di anni fa non è nata una cooperativa molto attiva che ha fatto da traino a questo settore della produzione. L’industria di pianura ha investito molto sul prodotto, contribuendo a farlo conoscere e riconoscere. La vendita del formaggio Raschera oggi avviene soprattutto a livello locale e di nord Italia, con solo piccole quantità esportate verso Stati Uniti, Giappone e Norvegia». Il caseificio negli anni è cambiato, ma il formaggio si produce sempre nello stesso modo. La prima parte della lavorazione si compone dei seguenti momenti: al latte di vacca (a cui a

volte si aggiunge latte caprino od ovino per rendere il gusto del formaggio derivato più piccante), proveniente da due mungiture (quella della sera più quella del mattino), si addiziona nella quantità ritenuta ottimale caglio liquido, dopo aver riscaldato la massa fino a una temperatura di 27-30 gradi centigradi. Durante il riscaldamento, si deve aver cura di rimescolare continuamente il latte e di tenerlo sempre in agitazione affinché il calore sia meglio distribuito all'interno della massa stessa. Raggiunta la temperatura ottimale e addizionato il caglio liquido, il prodotto viene lasciato a riposo per circa 20 minuti, tenendo il recipiente che lo con-

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FORMAGGI DOP Raschera

La produzione del formaggio d’Alpeggio era stata parzialmente abbandonata, finché una decina di anni fa non è nata una cooperativa molto attiva che ha trainato il settore

tiene coperto con una tela di stoffa o di lana atta a impedire ogni dispersione di calore. Si ottiene così la cagliata, che viene successivamente rotta con la spatola (detta “spanuira”); poi, per almeno cinque minuti, si procede alla sbattitura con uno spino di legno di foggia caratteristica detto “sbatarela” (derivata dalla manipolazione della punta di un abete) e infine si provvede alla raccolta della cagliata separata dal siero (detto “prod”) con lenti movimenti rotatori. Questa cagliata, così separata dal siero, viene raccolta in una tela di canapa detta “curuira” da cui può scolare; dopo una decina di minuti, il tutto sempre avvolto nella tela, viene messo in forme di legno cilindriche con un diametro di 35/40 cm. (le cosidette “fascele”) munite di fori

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sul bordo atti al passaggio dell'eventuale siero ancora presente e quindi caricate con pesi per favorirne lo spurgo. Dopo una decina di minuti, si aprono le “fascele” e si impasta la cagliata con le mani sminuzzandola finemente; dopo di ché, raccolto nuovamente il prodotto nella “curuira” e successivamente nella “fascela”, si rimette sotto peso dove vi rimarrà per almeno 12 ore. Di qui lo si toglie come prodotto finito, pronto per la salatura e la stagionatura. «Il Raschera, soprattutto quello d’Alpeggio, si produce utilizzando gli stessi fagotti, le stesse tele, la stessa pressatura di una volta – conclude Siccardi –. La produzione invece dell’altro formaggio è stata nel tempo maggiormente meccanizzata».

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FORMAGGI DOP Robiola di Murazzano

Un formaggio storico RISALIREBBERO ADDIRITTURA AI CELTI LE ORIGINI DELLA ROBIOLA DI MURAZZANO, CHE GIORDANO CARLO, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA, SUGGERISCE DI METTERE IN TAVOLA COME GUSTOSO FINE PASTO

di Michela Evangelisti

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a storia delle tume delle langhe cuneesi è strettamente legata al paese di Murazzano, da sempre centro di produzione e commercializzazione. Nel 1982, quando si dovette scegliere un nome per identificare il futuro formaggio a denominazione di origine, alla fine si optò per Murazzano, che rendeva chiaro il legame al territorio e alla sua tradizione casearia. Le “tume di Murazzano”, infatti, hanno animato per anni i mercati locali dove le donne si recavano per vendere le produzioni di casa.

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FORMAGGI DOP Robiola di Murazzano

La robiola di Murazzano è ottima da accompagnare all’insalata di sedani e noci o da grattugiare sulla carne al posto del parmigiano Gusto • 78

Con il passare del tempo questo formaggio a latte ovino ha assunto caratteristiche sempre più tipiche e marcate, fino ad arrivare all’ottenimento della Dop. È la più antica e prelibata tra le robiole del Piemonte. Le sue origini risalgono addirittura ai celti: il termine “rubeola” stava infatti ad indicare il tipico colore rossiccio assunto dalla crosta del formaggio quando la stagionatura veniva prolungata nel tempo. Nelle Langhe il Murazzano è quasi l'emblema di una radicata tradizione contadina, che vede nella robiola un'essenziale fonte di sostentamento, frutto del duro lavoro della terra. Non ci si deve quindi stupire se le origini sono ammantate di leggenda. Una curiosa storia narra che un giovane pastore del luogo

fu derubato dal diavolo di una forma di tuma di famiglia e riuscì con uno stratagemma a farsela restituire. Ma con stupore notò che ne mancava una bella fetta: neanche il diavolo aveva resistito alla tentazione di assaggiare il famoso formaggio. La robiola di Murazzano, che si può ben definire un formaggio da tavola, si presenta all'origine fresca e grassa, prodotta nel caratteristico formato tondo e compatto. Secondo la tradizione dovrebbe essere utilizzato solo latte di pecora ma, recentemente, le forti richieste di mercato hanno imposto l'uso di una parte di latte bovino. Il decreto presidenziale che attesta la denominazione d'origine di questa preziosa toma fissa le percentuali massime di latte non ovino da utilizzare, col-

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FORMAGGI DOP Robiola di Murazzano

Neanche il diavolo ha resistito alla tentazione di assaggiare una fetta del famoso formaggio Ottobre 2010

locandole al di sotto del 40%. «Il Murazzano si realizza con il latte crudo e ne esistono due varianti, uno fatto con latte al 60% ovino e al 40% bovino e uno fatto con latte 100% ovino – spiega Giordano Carlo, presidente del consorzio di tutela –. È un formaggio semigrasso, fresco, con un sapore fine, delicatamente profumato, che ricorda il latte vaccino». L’alimentazione del bestiame ovino, ed eventualmente vaccino, deve essere costi-

tuita da foraggi verdi o affienati, provenienti dalla zona di produzione. Nella produzione viene impiegato il latte proveniente da due mungiture giornaliere; deve essere coagulato a una temperatura di 37°C, con caglio liquido diluito in acqua per aumentarne la dispersione sulla massa del latte. Dopo 30 minuti la cagliata è pronta per essere tagliata, in coaguli grossi che vengono fatti riposare per 10 minuti circa estraendo il siero che si è pro-

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FORMAGGI DOP Robiola di Murazzano

La nostra qualità ci distingue qualitativamente dai grossi caseifici e il nostro prodotto è apprezzato soprattutto nel Cuneese, nel torinese e nel milanese

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dotto; con il secondo taglio la dimensione dei grani si riduce a quella di una piccola nocciola. La pasta ottenuta viene posta nelle caratteristiche forme cilindriche a fondo forellato per la stagionatura. Durante il periodo della maturazione, il formaggio deve essere giornalmente lavato rapidamente con acqua tiepida. La durata del periodo di stagionatura varia da quattro a dieci giorni. «Il Murazzano ha alle spalle una tradizione secolare – prosegue il presidente –. Una volta quasi ogni famiglia della zona possedeva qualche bovino e una decina di pecore, e produceva il suo formaggio. Ora è tutto cambiato: il lavoro è duro, gli anziani sono stati costretti ad abbandonarlo e i giovani non vogliono portare avanti le tradi-

zioni. Da 30 produttori siamo arrivati a essere soltanto 4; per rispettare le regole della denominazione di origine protetta dobbiamo usare solo latte prodotto in zona, e questo ci crea delle difficoltà, perché le pecore attualmente non sono tante e danno poco latte. Io sono subentrato a mio padre e nonostante le mille difficoltà, porto avanti l’attività di famiglia. Il prodotto che si riesce ad ottenere comunque lo si vende con facilità: la nostra qualità ci distingue qualitativamente dai grossi caseifici e il nostro prodotto è apprezzato soprattutto nel Cuneese, nel torinese e nel milanese». Il consorzio, comprendendo solo quattro produttori, non ha tante forze e risorse. «Cerchiamo di partecipare alle fiere di settore,

ma con fatica – ammette Carlo – . Stiamo attendendo dal ministero un riconoscimento, per il quale abbiamo già raggiunto tutti i requisiti necessari, che dovrebbe portarci anche qualche contributo». Normalmente il Murazzano viene consumato alla conclusione del pranzo o della cena, in assoluta solitudine o abbinato ad altri formaggi piemontesi. Ideale è la degustazione con pepe e olio extravergine di oliva. Per quanto riguarda i vini, non ci si dovrebbe allontanare dalle Langhe; notevole è l'abbinamento con il Barbera d’Alba. «Il formaggio è ottimo da mettere in tavola a fine pasto – è il consiglio di Giordano Carlo –, da accompagnare all’insalata di sedani e noci, da grattugiare sulla carne al posto del parmigiano».

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FORMAGGI DOP Robiola di Roccaverano

Qualità inimitabile LAVORAZIONI ANCORA MANUALI E STRETTO LEGAME CON IL TERRITORIO E LE TRADIZIONI. IL PRESIDENTE DEL CONSORZIO PER LA TUTELA DELLA ROBIOLA DI ROCCAVERANO DOP, ULDERICO ANTONIOLI PIOVANO, SVELA I SEGRETI DI UN FORMAGGIO CHE SI ESALTA IN ABBINAMENTI ANTICHI E SEMPRE ATTUALI

di Michela Evangelisti

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n piacevole sapore di latte leggermente acidulo, molto fine, con un lieve sentore di caprino. Ecco cosa si prova gustando la Robiola di Roccaverano quando il formaggio è ancora fresco e ricco di fermenti vivi. Con la stagionatura, invece, la forma si ricopre di gradevolissime muffe, che agevolano l’aumento della cremosità del sotto-crosta, e al taglio evidenzia una pasta setosa. I retrogusti più vari, apportati dall’alimentazione a base di foraggio

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fresco e profumato, risaltano, insieme a un più accentuato sentore di capra.

Come va consumata la Robiola di Roccaverano? «La ricetta più semplice e più antica è quella di proporla con particolari abbinamenti: con l’aggiunta di un filo di buon olio extravergine d’oliva della vicina Liguria, quando il formaggio è fresco; con un buon miele, meglio se di castagno, oppure con una mostarda di Langa, anche detta

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FORMAGGI DOP Robiola di Roccaverano

Questa Dop non ha rivali sul mercato: è difficile da realizzare e il suo marchio è inimitabile

“cugnà” (a base di mosto d'uva, mele cotogne, pere, fichi, noci e nocciole) quando il formaggio è stagionato».

Come si ottiene il vostro formaggio Dop? «È un formaggio con caratteristiche uniche e inimitabili, per il suo stretto legame con il territorio e le tradizioni di questa zona. Le particolari lavorazioni che portano alla sua realizzazione non si trovano in nessuna parte del mondo. La lavorazione detta “lattica” rende il prodotto cremoso e deli-

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cato, dalla pasta molto fine, mentre la lavorazione del latte crudo di capra permette di mantenere inalterate le caratteristiche organolettiche apportate dal pascolamento dei greggi».

Come sono cambiati i processi di realizzazione con l’introduzione di nuove tecnologie? «Si è passati in molti casi dalla mungitura a mano a quella effettuata con la mungitrice. Nella lavorazione, naturalmente, si sono apportati miglioramenti e una

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FORMAGGI DOP Robiola di Roccaverano

maggiore attenzione all'igiene dei locali, con il risultato di una migliore qualità e salubrità del prodotto. Le lavorazioni, comunque, non consentono grandi stravolgimenti tecnologici: il lavoro viene effettuato prevalentemente ancora manualmente, come una volta».

Come mantenete alta la qualità del vostro formaggio? «La qualità si mantiene rispettando quella che è la tradizione di questo antico formaggio. La Robiola di Roccaverano subisce la concorrenza di molte imitazioni anche industriali, ma si differenzia attraverso un rigido disciplinare

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di produzione e una marchiatura che garantisce al consumatore l'originalità e la tracciabilità di tutta la filiera. Per questi motivi questa Dop non ha rivali sul mercato: è difficile da realizzare e il suo marchio (un sigillo del consorzio di tutela posto sulla confezione di ogni singola forma) è inimitabile».

A che mercati vi rivolgete? «Le vendite sono per lo più rivolte al settore specializzato e di nicchia. Recentemente, però, la Robiola si è affacciata anche sulla grande distribuzione, con ottimi risultati. All'estero viene apprezzata soprattutto in Germania, In-

La Robiola di Roccaverano subisce la concorrenza di molte imitazioni, ma si differenzia grazie a un rigido disciplinare di produzione

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FORMAGGI DOP Robiola di Roccaverano

È un formaggio con caratteristiche uniche e inimitabili, per il suo stretto legame con il territorio e le tradizioni di questa zona Ottobre 2010

ghilterra e Stati Uniti».

Quanti sono i membri del consorzio e quali attività promuovete per la tutela della Robiola Dop? «Attualmente vi sono 17 produttori, che ricoprono i tre i rami della filiera: allevatori, produttori di formaggio e stagionatori; questi ultimi hanno aziende agricole a conduzione famigliare, con il gregge e il proprio caseificio. Poi vi sono due produttori di latte che conferiscono il loro prodotto, un caseificio che raccoglie il latte e uno stagionatore. Le iniziative sono state orientate negli ultimi anni soprattutto verso l’approvazione di modifiche del disciplinare di produzione, che finalmente sono state accolte da Bruxelles. Vorrei ricordare le più

importanti: l’utilizzo obbligatorio del latte crudo, l’utilizzo del pascolamento nell’alimentazione delle greggi, il divieto di ricorrere a prodotti Ogm per l’allevamento degli animali, l’innalzamento della percentuale di latte crudo di capra, che viene attualmente usato al 100% nella produzione della Robiola di Roccaverano. Altre attività del consorzio sono il controllo su tutta la filiera di produzione, l'informazione al consumatore e la promozione. Conclusa la fatica delle modifiche al disciplinare, possiamo concentrare le nostre forze, con l'aiuto di Regione e Ministero, per far sì che un sempre maggior numero di produttori intraprenda l'esperienza di questo lavoro, con benefici per il territorio e per l'occupazione».

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TRADIZIONE CASEARIA Il Castelmagno

L’antica forma

color “erborin” ANCHE IL CASTELMAGNO, TRA I PIÙ ANTICHI E APPREZZATI FORMAGGI ITALIANI, POGGIA SULLA TUTELA DI UN IMPORTANTE CONSORZIO

di Aldo Mosca

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TRADIZIONE CASEARIA Il Castelmagno

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egli ultimi anni un mercato sempre più variegato e globale ha spinto i produttori a proteggere con più garanzie i cibi proposti al pubblico. In particolare i nostri formaggi, tra i principali simboli del gusto italiano nel mondo, si sono adeguati. Anche per il Castelmagno si è seguita questa politica, attraverso la costituzione di un consorzio nel 1984. «Certamente l’ottenimento della denominazione d’origine e l’aver costituito il consorzio di tutela sono stati due dei presupposti che hanno garantito l’aumento della produzione e il miglioramento qualitativo del formaggio Castelmagno» spiega Evanzio Fiandino, vicepresidente del consorzio. Nel 1996, ormai in piena Europa Unita, il formaggio Castelmagno venne promosso in sede Cee con la denominazione di origine protetta. Ed è cambiata, da allora, la fisionomia e l’età dei produttori. I primi fondatori hanno lasciato le loro aziende ai figli, i quali nella maggior parte dei casi continuano l’attività, cercando, pur tra mille difficoltà, di ampliarla e strutturarla al meglio secondo le nuove disposizioni comunitarie. Nuove generazioni che devono portare avanti una tradizione non soltanto casearia, ma anche culturale. Questo formaggio deve il suo nome al comune omonimo, situato tra le Alpi Marittime e le Alpi Cozie, in provincia di Cuneo, che ne è il maggiore fulcro produttivo e commerciale. L’origine del Castelmagno è antichissima, si pensa fosse già conosciuto nel 1100. «Che il Castelmagno fosse rinomato anche in tempi molto remoti lo dimostra il testo di

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una sentenza arbitrale del 1277, secondo la quale, per l’usufrutto di alcuni pascoli in contestazione fra i Comuni di Castelmagno e di Celle di Macra, si fissava come canone annuo, da pagarsi al Marchese di Saluzzo, una certa quantità di formaggi di Castelmagno, che è presumibile siano stati dello stesso tipo di quelli che si fabbricano attualmente» racconta Fiandino. E anche nella letteratura troviamo tracce di questo formaggio. In alcuni testi antichi si fa riferimento a un particolare gruppo di formaggi molto interessanti, sia dal punto di vista scientifico che da quello commerciale. Si tratta del gruppo comprendente i cosiddetti formaggi erborinati, o a pasta blu. «La denominazione “erborinatura” non ha nessuna etimologia tecnica, né tanto meno scientifica. Non è altro che la traduzione in italiano del vocabolo dialettale lombardo “erborin”, con il quale si indica il prezzemolo. La pasta di questi formaggi, infatti, lo ricorda per la presenza di speciali muffe, appartenenti al genere Penicillium, che la rende screziata di verde». Oggi, l’impegno dei cinque produttori e dei due stagionatori presenti nel consorzio è indirizzato alla sua tutela. Il Castelmagno originale si riconosce dalla presenza del logo sull’etichetta. Inoltre, il marchio a fuoco e il numero di casello garantiscono la provenienza del prodotto e la sua autenticità. «Il Consorzio Castelmagno e le aziende produttrici sono sottoposte a controlli da parte dell’organismo esterno, l’Istituto Nord Ovest Qualità, che ha il compito di accertare la rispondenza del formaggio ai requisiti previsti dal disciplinare di produ-

UN DOP CUNEESE Nell’anno 2009 sono state certificate 36.557 forme di Castelmagno Dop. Il formaggio è prodotto con latte di vacca, eventualmente addizionato con latte ovino e/o caprino in una percentuale che va da un minimo del 5% a un massimo del 20%. Il formaggio si presenta in forma cilindrica a facce piane del diametro di 15-25 cm, scalzo di 12-20 cm e un peso variabile dai 2 ai 7 kg. La stagionatura minima dovrà essere di 60 giorni. Il Castelmagno può essere prodotto, stagionato e confezionato nel territorio amministrativo dei seguenti Comuni della Provincia di Cuneo: Castelmagno, Pradleves e Monterosso Grana, da cui dovrà provenire anche il latte destinato alla produzione. www.ilcastelmagno.it - info@ilcastelmagno.it

zione» spiega il vicepresidente. Ma attenzione al colore dell’etichettatura. Infatti il Castelmagno Dop può fregiarsi della menzione aggiuntiva “prodotto della montagna”, in quanto tutta l’area di produzione si trova al di sopra dei 600 metri. In questo caso lo sfondo dell’etichetta sarà blu. Quando invece la produzione del latte e la caseificazione avvengono sopra i 1000 metri, il Castelmagno arrecherà in etichetta la dicitura “di alpeggio”. In questo caso il colore dell’etichetta sarà verde muschio.

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TRADIZIONE CASEARIA Il Gorgonzola

quel cremoso

“raffinato” SONO STATI I PRIMI A PRODURRE IL GORGONZOLA E MASCARPONE. E OGGI I FRATELLI BARUFFALDI PROSEGUONO SENZA INGANNARE LA TRADIZIONE

di Carlo Sergi

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Paolo Baruffaldi, a destra alcuni scatti effettuati all’interno dell’azienda di Castellazzo Novarese (NO) - www.eredibaruffaldi.com

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a provincia di Novara è una delle più eccellenti nella produzione del Gorgonzola. Un formaggio che rappresenta una vera e propria passione per moltissimi italiani e che nasce grazie a metodi di preparazione tradizionali, tipici del Nord Ovest. Ne è un esempio uno dei marchi più riconosciuti, Baruffaldi. Un caseificio che, da quattro generazioni, continua a essere gestito a livello familiare. Certo, in molti potrebbero storcere il naso pensando alla difficile coniugazione tra una tradizione casearia secolare e una richiesta di produzione decisamente elevata, quasi da piccola industria. «Il nostro prodotto potrebbe essere definito tutt’oggi artigianale» dichiara Paolo Baruffaldi. «Siamo riusciti a portare avanti i

metodi che abbiamo ereditato dal passato pur sostenendo volumi tendenzialmente crescenti». A essere cambiate, però, sono anche le preferenze dei consumatori. Cosa caratterizza il mercato caseario oggi? «Dobbiamo soddisfare le tendenze di una domanda geograficamente variegata e più esigente rispetto al passato. In questo risulta prevalente l’attenzione alle materie prime, rigidamente controllate, oltre che alle attrezzature e alle strutture, le quali devono essere necessariamente all’avanguardia». Dunque una produzione sempre più differenziata? «Esatto. Prevalentemente, la nostra


TRADIZIONE CASEARIA Il Gorgonzola

GNOCCHETTI DI FARINA ALLA SCAROLA E GORGONZOLA L’ANGELO Ingredienti per 4 persone: · 500 cc latte · 400 gr farina bianca · 100 gr burro · 1 uovo · sale

cere la scarola, finemente tagliata. A cottura ultimata sciogliere il gorgonzola nella scarola. Cuocere pochi minuti, aggiustare di sale e, se serve, di burro. Cuocere gli gnocchi e saltarli nel sugo.

Sugo: Ricetta fornita da Paola Naggi · 1 ceppo di scarola Ristorante Impero Sizzano (No) · 150 gr gorgonzola dolce l’angelo · burro, pepe, sale q. b. Preparazione: Portare il latte a ebollizione, unire il burro a tocchetti, salare, aggiungere la farina: il composto tende a compattarsi. Togliere dal fuoco e fare raffreddare; impastare con l’uovo e realizzare i gnocchetti. In una padella scaldare l’olio e cuo-

produzione si concentra sul Gorgonzola Dolce DOP L’Angelo, un formaggio dall’inconfondibile sapore, dolce e cremoso, apprezzato da un vasto pubblico; il Gorgonzola Piccante DOP Primula Verde, che si differenzia dal tipo dolce per le venature blu/verdi più accentuate, per la pasta più consistente e friabile e per il gusto più deciso; il Mascarpone Baruffaldi, ottenuto con il metodo tradizionale, senza conservanti, utilizzando panna di centrifuga freschissima e rigorosamente selezionata». E poi c’è il noto Pon, il vostro prodotto di maggior vanto. «Siamo stati i primi a produrlo, provando ad unire il gorgonzola e il nostro mascarpone tradizionale, si è

così ottenuto un prodotto cremoso dal sapore stuzzicante ma allo stesso tempo delicato. Questo prodotto rappresenta al meglio, in Italia e all’estero, l’idea di “formaggio” particolare e raffinato, che contraddistingue tutta la nostra linea». Quali riscontri ottenete sui mercati esteri? «La nostra azienda opera oltre confine fin dall’inizio degli anni Sessanta. Siamo stati pionieri nell’esportazione del gorgonzola e del gorgonzola e mascarpone. Attualmente l’export rappresenta una fetta importante del nostro fatturato. I mercati stranieri apprezzano in modo particolare tali prodotti in quanto sono formaggi unici nel loro genere».

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Il segreto del Palzola LA TECNOLOGIA NON DEVE SOSTITUIRE L’ARTIGIANALITÀ TRADIZIONALE ALLA BASE DELLA CREAZIONE DI UN BUON GORGONZOLA. L’ESEMPIO DELL’AZIENDA PALTRINIERI, CASA DEL CELEBRE E PLURIPREMIATO PALZOLA

di Filippo Belli

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eggenda vuole che il gorgonzola sia nato dalla distrazione di un casaro. Un prodotto che, meglio di altri, ha retto la flessione negativa che ha colpito il mercato alimentare. «Essendo un prodotto Dop – spiega Sergio Poletti, titolare insieme a Roberto Poletti dell’Industria Casearia Paltrinieri Renato -, il gorgonzola si inserisce in una nicchia di mercato per così dire “protetta”. Una garanzia che deriva proprio dalle rigide regole stabilite dal disciplinare di produzione. Un regolamento che prevede, tra le altre cose, la possibilità di produrre questa cremosità casearia soltanto in 17 provincie distribuite tra Piemonte e Lombardia. Dalla provenienza del latte, alla lavorazione e perfino la stagionatura. Oggi, la Paltrinieri produce circa 180mila forme di gorgonzola all’anno ed è autrice del celebre “Palzola”. Un prodotto che nasce grazie

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a metodiche artigianali e manuali. Un formaggio pluripremiato, vincitore nel 2009 del “Premio Blu Novara” per il miglior gorgonzola piccante e della “Grolla d’Oro” per il miglior gorgonzola dolce. «Da diversi anni l’azienda sta perseguendo una rigida politica di qualità – continua Sergio Poletti -, non soltanto intesa in termini di sicurezza igienico-sanitaria, di controllo di processo e standardizzazione del prodotto finito, ma soprattutto di rispetto delle tradizioni di produzione di un formaggio dalla storia antichissima». La creazione delle forme avviene, ancora oggi, utilizzando quella manualità e quei segreti tramandati oralmente da una generazione di casari a un’altra. Dal riempimento manuale delle forme, ai rivoltamenti, fino al selezionamento e all’incarto finale del prodotto, questo è il vero punto di forza di questa importante realtà novarese. «Le prime operazioni sono di

formazione e rottura delle cagliate, con la raccolta manuale del composto che viene posizionato in appositi fasceruoli avviati alla successiva fase di spurgo del siero e, da qui, all’inizio della loro stagionatura. Lasciate riposare ancora per qualche giorno, le forme vengono poi salate e, quindi, forate con appositi aghi. A partire da questo momento, l’aria entra in contatto con il penicillium glaucum introdotto già in fase di cagliata rendendo possibile, nei giorni a venire, la formazione delle caratteristiche venature verdognole». Alla qualità del prodotto, presso il Caseificio Paltrinieri Renato, si unisce il rispetto per l’ambiente e la natura. «Gran parte dell’energia necessaria alle diverse fasi di lavorazione – conclude Poletti - è prodotta infatti da un moderno impianto fotovoltaico da 100 Kw di potenza a impatto visivo e ambientale “zero” situato sulla sommità del tetto dello stabilimento».

Esterno e interno del Caseificio Paltrinieri Renato di Cavallirio (No) e una fetta del gorgonzola “Palzola” www.palzola.it

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ALL’OMBRA DEL MONTEROSA La Toma di Gressoney

Nel cuore

della valle DALLA TOMA ALLA FONTINA. MOLTI I FORMAGGI CHE NASCONO DAI PASCOLI DELLA VALLE DI GRESSONEY, COME RACCONTA ROBERTO RONCO

di Paolo Lucchi

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ALL’OMBRA DEL MONTEROSA La Toma di Gressoney

L’

Accademia Italiana della Cucina ha recentemente assegnato il XXII premio Dino Villani alla Toma di Gressoney. Una grande soddisfazione per l’azienda agricola Walser Delikatesse composta da Roberto, Erika e Davide. Un riconoscimento importante dato a questo noto formaggio a latte crudo dalla pasta tenera con un’occhiatura piccola e abbondante. «Il prodotto è molto apprezzato e rivela un sapore dolce e nocciolato – spiega Roberto Ronco, titolare dell’azienda -. Si crea a seguito di una stagionatura di circa due mesi. A maturazione inoltrata la Toma assume un gusto più deciso divenendo più consistente». Una ritualità artigianale che ancora oggi si trova in un vero e proprio angolo di paradiso della Valle di Gressoney, nel cuore della Valle d’Aosta. «Lavoriamo all’ombra del Monte Rosa, dove grazie all’erba dei pascoli di montagna otteniamo un latte dai sapori e profumi unici trasformandolo in formaggi dal gusto caratteristico ed inimitabile». Una passione, per la famiglia Ronco, che ben si coniuga a quella della buona tavola. Così, dalla creazione del prodotto, si passa all’elaborazione dei piatti tradizionali della valle. È dal ristorante “La Posta”, a Issime, in località Capoluogo, che Erika propone il suo menù. Tutto può essere arricchito dai formaggi del luogo. Come ad esempio il Fessilsüppu, piatto tipico di Issime composto da riso e fagioli bolliti conditi con Fontina, Toma e burro di panna fuso. «Tra i

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DOLCE SALATO Ingredienti per 4 persone: · Tomini Walser · Salse dolci · Marmellate di frutta. Preparazione: servire il Tomino Walser abbinato alle salse di Lambrusco o vellutate al Mirtillo oppure a confetture a piacere. Scoprirete un contrasto di sapore particolare e deciso, perfetto per aperitivi e spuntini

sapori più apprezzati – interviene nuovamente Roberto -, vi è senza dubbio la nostra Fontina Dop, ottenuta dalla lavorazione di latte crudo appena munto. Una pasta morbida dal sapore dolce e delicato, variamente intenso a seconda del periodo di stagionatura». Ma passare una giornata alla scoperta di questa realtà agroalimentare significa anche immergersi in un paesaggio e in un contesto culturale degno di nota. Nel Comune di Issime si può ammirare la Chiesa parrocchiale, nota per l’affresco della facciata raffigurante il Giudizio Universale e per l’altare maggiore in stile barocco, e scoprire le tradizioni legate agli antichi insediamenti Walser del XIII secolo. Pont Saint Martin invece regala ai visitatori un monumentale ponte di pietra a campata unica dell’epoca romana. Nelle vicinanze, il forte di Bard con il borgo medievale un vanto per tutta la regione.

Una fetta di Toma di Gressoney prodotta dall’azienda Walser Delikatesse. I punti vendita si trovano a Issime, in Loc. Tontinel, e a Pont-Saint-Martin www.walserdelikatesse.it

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CURIOSITÀ

Garanti della qualità PER PRODURRE MOZZARELLA PROVENIENTE DA LATTE DI BUFALA GARANTITO AL 100% BISOGNA ATTENERSI A RIGIDI CANONI COME LA CURA DELL’ALLEVAMENTO ATTRAVERSO L’UTILIZZO DI MANGIMI NATURALI. L’ESPERIENZA DI ROSARIO VECCHIONE

di Ezio Petrillo

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llevare le bufale ai piedi delle Alpi piemontesi. È questo forse il segreto della qualità non comune di un prodotto, la mozzarella, geograficamente legato ad altre Regioni. «Lavoriamo latte di bufala garantito al 100%, certificato e documentato. Gli allevamenti sono a Caraglio, in provincia di Cuneo. È la qualità dell’aria che ci consente di ottenere un latte tra i primi in Italia». A parlare è Rosario Vecchione.

Rosario Vecchione titolare dell’omonimo caseificio contatti@caseificiorosario.it

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C’è una particolarità nei metodi di allevamento? «Le bufale vengono alimentate da prodotti dell’azienda. Non compriamo mangime da nessuna altra parte. Da questo deriva il fatto che la qualità del latte che si lavora dipende da ciò che mangiano gli animali. Laviamo le bufale tutti i giorni con accuratezza, come fossero un bene prezioso».

Dove avviene la distribuzione? «Esportiamo in Francia e a Montecarlo mentre in Italia ci spingiamo non oltre Torino e provincia. Il nostro obiettivo non è quello di una distribuzione capillare, in quanto sono i ristoranti stessi a venire da noi per rifornirsi. La nostra produzione, in sostanza, è a chilometri zero». Quali vantaggi comporta questo tipo di produzione? «Abbiamo un’autobotte di proprietà con una capienza di 33 quintali, divisa in tre scomparti da 10. Così il latte quando viaggia non viene “sbattuto” e non si rompono le molecole che lo compongono. La mungitura poi avviene alla sera e già alle 4 del mattino siamo in lavorazione. Ciò ovviamente garantisce il massimo della freschezza possibile e, oltretutto, riusciamo a produrre circa ottanta tipi di formaggi provenienti da latte di bufala al 100%».

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DELIZIE AUTUNNALI Porcini e tartufi

frutti

autunnali CIBI D’ELITE, MA DAL GUSTO UNIVERSALMENTE RICONOSCIUTO. EMILIANO INAUDI PARLA DI PORCINI E TARTUFI. DALL’AFFERMATO MARCHIO DI FAMIGLIA ALLA SUA TAVOLA

di Paolo Lucchi

È

dal connubio dei tartufi bianchi d’Alba e dei funghi porcini che nasce la tartufata. Una crema dal profumo intenso ideale come condimento per i piatti caldi. Un prodotto che nasce da metodi rigorosamente artigianali e tradizionali e che, tra l’altro, ha segnato in buona parte il successo della Inaudi. «Già negli anni Cinquanta, in un piccolo negozio di alimentari di proprietà dei nostri nonni, i funghi porcini facevano la parte del Re durante le stagioni di raccolta» racconta Emiliano Inaudi, erede assieme al fratello Davide del noto marchio cuneese. Poi con gli anni avete proseguito su questa strada. «Credendo in questo frutto del bosco alla fine degli anni Sessanta, mio padre Clemente,

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DELIZIE AUTUNNALI Porcini e tartufi

TAGLIATELLE AL TARTUFO BIANCO Ingredienti per 4 persone: · 400 g di tagliatelle fresche · 4 cucchiaini di crema “La Tartufata” Inaudi · 200 ml di panna da cucina · 50 g di burro · parmigiano grattugiato (a piacimento) · sale e pepe

Preparazione: Sciogliere in padella il burro, aggiungere “La Tartufata” e la panna da cucina, miscelare bene e scaldare. Cuocere le tagliatelle in abbondante acqua salata, scolarle al dente e farle saltare in padella con la salsa al tartufo. A piacimento spolverare con parmigiano grattugiato.

assieme a mia madre, specializzò l’attività non solo nella vendita del prodotto fresco, ma anche nella sua lavorazione e il conseguente invasamento sott'olio. Funghi e tartufi sono simboli della cucina piemontese, e oggi come allora continuiamo a lavorarli dal nostro stabilimento a Borgo San Dalmazzo, dinanzi a un panorama di montagne mozzafiato».

prodotto tutta l’importanza che ha oggi».

Il tartufo è ancora oggi un cibo d’elite? «Più che mai direi. Soltanto alcuni decenni fa il tartufo non avendo la “fama” dei giorni nostri, non era così richiesto e i prezzi si mantenevano più abbordabili, data la quantità disponibile sul mercato. Non a caso nelle case dei contadini, durante le stagioni di raccolta si consumava senza dare al

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Come mai negli anni questo alimento ha conosciuto un successo così grande? «Con la promozione e la diffusione del tartufo a livello mondiale e il moltiplicarsi delle fiere dedicate al prodotto stesso, la richiesta è salita anno dopo anno. In realtà la quantità disponibile è comunque stabile e sempre dipendente dalla stagionalità, essendo il tartufo bianco un prodotto della terra non coltivato ma spontaneo». Qual è un suo menù ideale? «Se domani dovessi invitare qualcuno di speciale a casa mia gli proporrei come antipasto dei funghi porcini all’Aceto Balsamico di Modena IGP sott’olio di oliva, accompagnati

da prosciutto crudo di Parma, a seguire un risotto preparato con i nostri profumatissimi funghi porcini secchi e, di secondo, un filetto con crema “La Tartufata”. Per finire un gelato alle creme accompagnato dalle nostre albicocche secche al barbaresco».

Da sinistra, Emiliano Inaudi con Clemente Inaudi e Davide Inaudi www.inaudi.com

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DELIZIE AUTUNNALI Mauro Valsecchi

“dove il cibo è cultura” DELIZIOSE GENUINITÀ ARRIVERANNO NON PIÙ SOLO SULLE TAVOLE DEI GRANDI GOURMET. GRAZIE ALLA VALSECCHI ED ESPERYA

di Adriana Zuccaro Gusto • 106

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DELIZIE AUTUNNALI Mauro Valsecchi

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rofumo di bosco e muschio. Prelibatezze dettate dalle casualità della natura. I funghi, i diamanti dell’entroterra ligure, così come i tartufi, non compaiono tra i prati di montagna a suon di bacchetta magica. «Per i nostri mastri fungaioli la raccolta è una scoperta, imprevedibile, artificialmente incontrollabile». Mauro Valsecchi, portavoce della quasi secolare azienda di prodotti gastronomici italiani tra cui spiccano i porcini Testa Nera, annuncia l’interazione con Esperya. «L’enogastronomia d’alta qualità potrà contare su Valsecchi ed Esperya e le loro 1600 specialità, per arrivare non solo alle tavole dei grandi gourmet, ma anche alle semplici tavole degli amanti del gusto autentico».

Mauro Valsecchi è portavoce della Valsecchi di Serravalle Scrivia (AL). In queste pagine alcuni prodotti della Valsecchi e di Esperya www.valsecchifunghi.com - www.esperya.com

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Qual è il “fungo all’occhiello” della Valsecchi? «Alcuni lo chiamano “testa rossa”, alcuni “di montagna”, ma il nostro porcino Testa Nera arriva dalle zone, non solo della Liguria, tradizionalmente più ricche di funghi. Sono i più profumati, delicati anche quando seccati; i nostri emanano profumo di muschio e quando si odorano danno la sensazione di entrare nel bosco. Forse anche per questo i Testa Nera sono i più ricercati». Qual è il piatto che ne esalta il gusto? «Personalmente ritengo che le ricette più semplici diano ai funghi la possibilità di esprimere al meglio la propria essenza come, ad esempio, al forno insieme alle patate. Il cult della zona è il sugo ai funghi ma, saltando semplicemente la pasta con funghi all’aglio, olio e prezzemolo, l’aroma del Testa Nera delizia il palato come pochi altri piatti». Come nasce la collaborazione con Esperya? «Il comune denominatore è la ricerca di prodotti enogastronomici poco conosciuti e partico-

larmente pregiati. Fuori dagli scaffali dei supermercati, insieme ad altre molte aziende, proponiamo una gamma di particolarità e prelibatezze dalle indubbie qualità di livello alto; così come i salumi di cinta senese di Paolo Parisi, gli antipasti di verdure e funghi Valsecchi, uova bianche, formaggi sottoposti a speciali stagionature, dolci “atipici”, confetture e molto altro. Ad oggi, i nostri magazzini custodiscono 1600 varietà di prodotti per piatti e calici di una certa raffinatezza» Porterete i vostri prodotti di nicchia alle tavole più popolari? «L’iniziativa societaria si definisce proprio nel progetto di espandere la comune rete vendita. Grazie al sito Esperya e al nuovo claim “Dove il cibo è cultura”, non rinunceremo all’alto livello qualitativo di ciò che produciamo, commercializziamo e distribuiamo; incrementeremo solo le possibilità di scelta. L’intenzione non è quella di svilire il prodotto ma di renderlo più popolare, cioè di far mangiar bene anche a livelli di spesa minore».

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dolcezze speciali BANDIRE IL GLUTINE SENZA RINUNCIARE AI PICCOLI PIACERI DELLA TAVOLA. GLI AMARETTI DI MATTIA PINTORE CONQUISTANO LA DIETA DEI CELIACI

di Belinda Pagano Gusto • 108

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DELIZIE SENZA GLUTINE Mattia Pintore

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eliachia. Se ne sente parlare spessissimo. Basta fare un giro nelle librerie: si moltiplicano i ricettari dedicati a questa nuova categoria di consumatori. Solo in Italia si contano ufficialmente 70.000 casi diagnosticati, anche se a detta degli esperti se ne potrebbero sfiorare 500.000. Recenti studi nel campo parlano di un incremento del 10 per cento ogni anno. La terapia? Una dieta senza glutine. Frumento, orzo, segale, farro, kamut, spelta, criticale e avena sono, in questi casi, gli alimenti da eliminare. Il mercato odierno offre sempre più prodotti alternativi. Mattia Pintore da tempo si occupa della produzione di amaretti specificatamente realizzati per persone celiache. «Penso che l’industria dolciaria sia molto propensa ad aprire il mercato in questa direzione. Il fabbisogno generale aumenta costantemente e la ricerca di prodotti senza glutine sta diventando, di anno in anno, fondamentale. L’aspetto più importante è che la qualità dei dolciumi rimanga comunque di standard elevato. Ma si sa: la bontà è, e sempre sarà, frutto della qualità». Il segreto dell’azienda? Nulla di più semplice e genuino: «Gli ingredienti sono tutti naturali. Lo zucchero, le armelline, le mandorle e l’albume. Il vero punto di forza è la ricerca e la certezza delle qualità della merce primaria. Ci assicuriamo infatti che tutti gli in-

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gredienti vengano forniti da aziende certificate e selezionate nel tempo». E il costo finale del prodotto? Come è noto, i prezzi degli alimenti per celiaci sono maggiori rispetto alla merce tradizionale. Tuttavia la problematica risulta relativa se si considera che il controllo costante, unito alla precisione qualitativa, riescono a garantire una sicurezza alimentare fondamentale per un celiaco. Inoltre, per quanto riguarda la produzione di amaretti, Mattia Pintore ci fa notare che «il disciplinare del 22 luglio 2005, adottato dal Ministro delle attività produttive e dal Ministro delle politiche agricole forestale, dichiara espressamente che la denominazione “amaretto” e “amaretto morbido” deve essere priva di ulteriori ingredienti aggiunti se non quelli autorizzati, e non viene previ-

sto alcun tipo di farina». La sua azienda segue alla lettera questo disciplinare. Se si considera che la farina costa notevolmente meno rispetto ad altri ingredienti e se si considera che l’azienda non ne utilizza, la realizzazione del prodotto comporta un incremento notevole dei costi di produzione. Precisa Pintore «si è sempre cercato di mantenere un parallelismo con la concorrenza, logicamente con notevoli sforzi e minori utili». Nulla di più sicuro, dunque, di un’azienda che dedica la sua produzione esclusivamente e interamente ai soli prodotti senza glutine, evitando anche la più piccola contaminazione. La celiachia è sicuramente una limitazione alimentare ma, grazie a realtà come queste, la si riesce ad affrontare con maggiore sicurezza.

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Amaretti di Mattia Pintore - wips@libero.it

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MAESTRI GELATAI Sapori artiginali

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golosità LA PAROLA “ARTIGIANALE” COSÌ TANTO ABUSATA, NON SIGNIFICA FATTO SUL POSTO E NEPPURE IN PICCOLE QUANTITÀ, BENSÌ “FATTO CON ARTE”. COME RACCONTANO I MAESTRI GELATAI DELLA MENODICIOTTO DI TORINO

di Aldo Mosca Gusto • 110


MAESTRI GELATAI Sapori artiginali

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iazza Castello, Torino. Colori, profumi e sorrisi dei golosi passano, entrano e fuoriescono da una delle tappe imperdibili per gli amanti di gelati e sorbetti. E proprio qui ad Aprile festeggerà i suoi primi 25 anni di attività uno dei marchi storici del gusto torinese. Menodiciotto è, in Piemonte ma ormai in tutto il mondo, un sinonimo di sapori artigianali e naturali. Una tradizione che ha fatto della qualità un cavallo di battaglia. Nata dalla necessità di avere gelati e sorbetti all’altezza delle aspettative di un famoso ristorante, di cui i fondatori di Menodiciotto erano all’epoca i titolari, l’azienda da sempre svolge una continua ricerca e sperimentazione di nuovi sapori, aprendo la strada a successive nuove mode. «Uno dei nostri claim consiglia al consumatore di affidarsi con fiducia solo al proprio palato, che con un po’ di buon senso lo porterà alla scelta dei migliori prodotti» spiega Luca Grassi, uno dei fondatori. È proprio con questa filosofia che la golosità è divenuta eccellenza nel colorato mondo del gelato made in Turin. «Per cogliere tutta la fragranza, i gusti alla frutta vengono prodotti secondo stagione, ed è solo grazie ad attente previsioni di vendita che Menodiciotto è in grado di rifornire i propri clienti quasi sino

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alla successiva». Una cosa è certa, il marchio, crescendo pian piano negli anni, non ha perso di vista la sua missione, vale a dire quella di proporre sorbetti e gelati di alto livello. Secondo gli storici titolari «la parola “artigianale” così tanto abusata, non significa fatto sul posto e neppure in piccole quantità, bensì “fatto con arte”». L’arte di fare un buon gelato non può infatti essere improvvisata, ma è frutto di continua ricerca e sperimentazione. «Ogni sapore richiede l’uso di materie prime, lavorazioni e processi diversi e non si limita all’aggiunta di sapori a una

base zuccherina standard». «Nel tempo il mercato della Menodiciotto - ci spiega Stefano Gallino, l’altro socio dell’azienda -, si è allargato rivolgendosi a numerosi ristoranti di livello, che cercano nei sorbetti e nei gelati un fine pasto all’altezza dei loro menù. «Non sono pochi gli chef che, volendo distinguersi con qualcosa di personalizzato, spesso utilizzano i prodotti Menodiciotto come base per le loro interpretazioni». E così, dalla sede torinese, molti ristoranti e gelaterie, anche se lontani dalle rotte distributive, vengono raggiunti sull’intero territorio Italiano.

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Il punto vendita della Menodiciotto a Piazza Castello, Torino www.meno18.com

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PICCOLE DOLCEZZE Tra tradizione e tecnologia

Un trionfo

di dolcezza È ATTRAVERSO UNA RICERCA MINUZIOSA E ACCURATA NELLA LAVORAZIONE, NELLA PRODUZIONE E NELLA DISTRIBUZIONE CHE È POSSIBILE OTTENERE CARAMELLE DI QUALITÀ. L’ESPERIENZA DI EUGENIO PINCI

di Ezio Petrillo

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l mondo della produzione di caramelle deve saper combinare tradizione e innovazione. L’artigianalità dei metodi di lavorazione si sposa con lo studio dei macchinari più moderni da impiegare nella cottura e nelle successive lavorazioni della massa zuccherina per ottenere caramelle con struttura, consistenza e masticabilità sempre più bilanciate. A parlare è Eugenio Pinci, Presidente del Gruppo Fida.

Eugenio Pinci, Presidente e amministratore delegato di Fida - www.fidacandies.it eugenio.pinci@fidacandies.it

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Come si consolida la qualità dei prodotti? «La prima cosa da fare è selezionare materie prime di alta qualità e avvalersi di fornitori qualificati. Si prosegue con il determinato rispetto delle ricette validate nel tempo e un assiduo controllo dei parametri (temperature, tempi) dei processi produttivi. È indispensabile, inoltre, verificare il prodotto finito prima che possa essere venduto con analisi chimico fisiche, sensoriali (assaggi) e il controllo della stabilità nel tempo». Qual è la particolarità del processo di produzione delle caramelle? «Il mondo delle caramelle è variegato e complesso. La peculiarità di questo comparto è che le materie prime di base impiegate per la lavorazione sono essenzialmente le stesse:

zucchero, sciroppo di glucosio e acqua, che vengono sapientemente dosate, miscelate e cotte. La cottura e le successive lavorazioni sono specifiche per il tipo di caramelle che si vuole produrre». Come viene scelto il packaging e a quali esigenze deve rispondere? «Il packaging deve assolvere ad alcuni requisiti fondamentali, in primis garantire l’integrità del prodotto. Deve essere un “contenitore” sicuro e funzionale che contribuisca a dare al consumatore una spiegazione di ciò che c’è al suo interno ed evocarne, attraverso colori e immagini, il valore aggiunto».

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IL PIEMONTE È SERVITO Antonio Cannavacciuolo

La cucina CHE UNISCE NORD E SUD INTRECCIA I PRODOTTI DEL PIEMONTE CON I SAPORI MEDITERRANEI DEI SUOI LUOGHI DI ORIGINE. AI FORNELLI CON ANTONIO CANNAVACCIUOLO, LO CHEF DEL GIOCO E DELL’ISPIRAZIONE ASSOLUTA

di Michela Evangelisti

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ato nella penisola sorrentina, da padre chef e grande artista decoratore, traffica ai fornelli da sempre. Ora delizia con i suoi piatti gli ospiti di Villa Crespi, una magnifica residenza affacciata sul lago d’Orta. Ha già passato 21 anni della sua vita ai fornelli, anche in grandi ristoranti stranieri. Cosa le hanno lasciato tutte queste esperienze e come hanno influenzato la sua attuale idea di cucina? «Tutte le mie esperienze lavorative, all’estero e non, mi hanno aiutato nella creazione e formazione di quelle che sono al momento le mie idee in cucina, il mio modo di creare e lavorare. Credo che le esperienze siano fondamentali per la realizzazione del bagaglio personale di ognuno di noi, dal quale possiamo trarre insegnamento per la

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quotidianità: nel bene e nel male, tutto quanto appreso dall’esperienza ti forma e aiuta costantemente». La sua cucina abbraccia l’Italia da nord a sud. Come esalta nei suoi piatti i prodotti tipici del territorio piemontese e come si sposano con la tradizione mediterranea che porta nel dna? «Mi piace giocare con i sapori, avvicinando i prodotti mediterranei e piemontesi, creando nuovi accostamenti in grado di esaltare gusti unici e di stuzzicare la curiosità dei miei clienti. Porto avanti una continua ricerca di innovazione, senza abbandonare mai la tradizione e l’unicità dei sapori. Di recente ho dato vita a un accostamento nuovo, quello del cubo di carne piemontese con la salsa di ostrica e caviale. Quale miglior esempio

Sopra, lo chef Antonio Cannavacciuolo

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IL PIEMONTE È SERVITO Antonio Cannavacciuolo

di unione tra nord e sud?». Quali sono i sapori locali che predilige e che più la ispirano? I formaggi piemontesi trovano posto nelle sue ricette? «Importante per me è valorizzare quanto di meglio il territorio ci offre, giocando con le stagioni e i differenti sapori che nel corso dell’anno si susseguono nei prodotti. Sfogo la mia creatività utilizzando nelle mie ricette formaggi piemontesi, carni, funghi, tartufi, dando spazio indistintamente a tutti questi prodotti».

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In cucina meglio la tradizione o la sperimentazione assoluta? Le capita mai di trarre spunto da ricette della tradizione culinaria piemontese? «Non credo esista nel mio modo di cucinare e creare una regola precisa, non mi impongo di seguire la tradizione o di essere moderno: lavoro guidato dall’istinto, creando il meglio per me e cercando di fare bene. Prendo spunto da quanto mi circonda, indifferentemente, dalla tradizione e dai prodotti della natura. Mi piace accostare, giocare, provare…amo la

tradizione, amo i sapori, e il resto viene da sé». Da 11 anni lavora con sua moglie nella splendida Villa Crespi. Quanto i colori della natura piemontese e le sue architetture influenzano la sua creatività in cucina? «Indubbiamente, da buon partenopeo, un’assolata giornata non può che rendermi più allego. Per il resto, la natura, la quiete e l’atmosfera romantica del lago d’Orta e di Villa Crespi mi aiutano stimolando il mio spirito creativo».

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CUCINA OLTRE CONFINE Andrea e Luca Mentasti

Sapori innovativi I SAPORI DI RIVOLI MA NON SOLO. LA CAPACITÀ DI COMBINARE LE TRADIZIONI A INGREDIENTI INNOVATIVI FA DI UN RISTORANTE UN PUNTO DI RIFERIMENTO SUL TERRITORIO

di Ezio Petrillo

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I castello a guardia del centro storico. Un dedalo di viuzze a disegnare l’arredo urbano. Una struttura cittadina che invita alle passeggiate a piedi e alla scoperta del territorio vicolo dopo vicolo. È così che, quasi per caso, si incontrano i sapori più autentici. Chiunque si trovi a passeggiare nel centro storico di Rivoli non può fare a meno di percorrere la “via maestra”, ovvero via fratelli Piol. Ispirati da questo nome i due fratelli Andrea e Luca Mentasti, hanno preso spunto per il loro ristorante La Piol-a dei Fratelli.

Andrea e Luca Mentasti, titolari del ristorante La Piol-a dei Fratelli a Rivoli step.gin@hotmail.it

Quali sono le specialità proposte dal ristorante? ANDREA MENTASTI «La cucina proposta esce dai confini piemontesi per esaltare i sapori dell’intero territorio nazionale. Siamo specializzati nelle più svariate produzioni culinarie, dalla carne al pesce. Il nostro scopo è quello di unire costantemente ricerca e creatività al rispetto della tradizione mediterranea». La degustazione di un piatto in abbinamento con un vino deve anche avvenire all’interno di un contesto particolare che possa

GAMBERONI CROCCANTI SU ZUPPA DI CECI E FRIARIELLI NAPOLETANI Ingredienti per 4 persone: · 12 Gamberoni · 12 fette di guanciale · 200 g. ceci sedano,carote, cipolle e rosmarino · 100 g. di friarielli · Un litro di latte · Sale e pepe q.b. Preparazione: Per la zuppa di ceci, mettere a bagno i ceci per 12 ore circa in acqua fredda. Scolare i ceci, sciacquarli e farli bollire ricoperti di acqua a fuoco lento con l’aggiunta di sedano, carota, cipolla e rosmarino tritati. Una volta cotti, scolare un po’ dell’acqua di cottura e frullare il tutto fino a ottenere una crema vellutata e omogenea. Tenere al caldo. Prendere i gamberoni, eliminare la buccia tenendo testa e coda e avvolgere con le fette di guanciale. Condire con olio e sale e cuocere in forno a 180° C per 5 min circa. A parte, far saltare i friarelli per scaldarli appena. In una fondina versare della crema di ceci sul fondo del piatto, adagiarvi sopra 3 gamberoni a raggera e i friarielli. Guarnire il tutto con i pomodorini e una “quenelles” di gelatina di vino Chianti. Servire caldi.

rendere i sapori ancora più piacevoli. In questo senso qual è la proposta del ristorante La Piol-a? LUCA MENTASTI «L’abbinamento dei piatti con i vini è un aspetto da non sottovalutare. I vini pregiati vengono conservati in una

suggestiva cantina dai muri con mattoni a vista e soffitto a volta. L’interno del ristorante è composto da due intime e accoglienti salette dallo stile giovanile e caratteristico. A nostro avviso è l’ambiente ottimale per un importante pranzo di lavoro o una cena romantica piuttosto che con pochi amici».

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CUCINA OLTRE CONFINE Calogero Barone

Come assaggiare

un’opera lirica TRASFERIRE LA QUALITÀ PROVENIENTE DALLA TRADIZIONE SICILIANA PIÙ AUTENTICA NEL PIENO CENTRO DI TORINO. L’ESPERIENZA DI CALOGERO BARONE

di Ezio Petrillo

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n piatto tipicamente catanese il cui nome vuole indicare un omaggio alla più bella opera del celebre compositore etneo Vincenzo Bellini denominata la Norma. L’omonima pasta di origini etnee, oggi, fa la fortuna di quei ristoranti che hanno deciso di trasferire il proprio know-how culinario dalla Sicilia verso altre Regioni italiane. È il caso di A Picciridda, ristorante che propone specialità siciliane a Torino, gestito da Calogero Barone.

Cosa offre il vostro menu e quali sono i sapori che vengono maggiormente esaltati? «Siamo specializzati nell’esaltare tutti i sapori della cucina siciliana, in particolar modo pesce e pizza. Facciamo anche sushi siciliano e ovviamente i dolci tipici della nostra regione come i cannoli ripieni di ricotta di alta qualità proveniente direttamente dalla Sicilia». Quale il piatto forte del ristorante? «Una specialità di cui andiamo particolarmente orgogliosi è la pasta alla norma. Gli ingredienti che compongono questo piatto sono costituiti da una copertura di fettine di melanzane fritte, condite con pomodoro, basilico e ricotta salata. Il tutto racchiude vari profumi della Sicilia».

Calogero Barone, titolare del ristorante A Picciridda in pieno centro a Torino, col figlio - barone.gio@hotmail.it

Di quanti professionisti del settore è composto lo staff de “A Picciridda”? «Ci sono dieci collaboratori che aiutano me e mio figlio. Per un ristorante, oltre ad offrire piatti di qualità, è fondamentale il modo in cui viene servito il cliente. Noi puntiamo molto al giusto mix tra cortesia e allegria».

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Ripieni di sole e di mare FANTASIOSI A TAVOLA, IDEALI PER L’APERITIVO. ECCO I PEPERONCINI FARCITI CHE SPRIGIONANO TRADIZIONE E VERSATILITÀ

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FANTASIA A TAVOLA Peperoncini farciti

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on c'è da stupirsi che in Piemonte possano esserci ricette tradizionali i cui ingredienti sanno di sole e di mare. Qui il peperone e l'acciuga hanno una storia dal gusto antico e autentico. «La ricetta dei peperoncini farciti consigliata da I Peperbuoni di Selcor Food è quella classica: raccogliere i peperoncini ciliegia al giusto grado di maturazione, svuotarli e lavarli a mano per conservarne tutta la freschezza, sbollentarli appena e, subito dopo, farcirli. Infine metterli sott'olio». A parlare è Eraldo Fogliati, titolare della Selcor Food insieme a Franco Fogliati e Pierluigi Bruno. «Una volta i peperoncini erano considerati un tipico piatto o stuzzichino invernale, poiché si preparavano a fine estate e si

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cominciava a consumarli in autunno fino ad esaurimento scorte; oggi invece accompagnano anche la bella stagione, sia a tavola, come antipasto, contorno o ingrediente di piatti freddi, che nel corso di un aperitivo, magari in terrazze sul mare o in locali di tendenza». La varietà del ripieno garantisce un surplus di sapore unico al peperoncino. «La farcitura tradizionale è quella dell'acciuga arrotolata intorno al cappero – specifica Fogliati - ma nel tempo anche quella di tonno si è conquistata molti ammiratori. Ora, grazie ai buongustai della nostra azienda, possiamo gustare i sapori pure del peperoncino ripieno di formaggio fresco». La selezione degli ingredienti provenienti dalle rispettive zone d'eccellenza, e la cura artigianale sono quel quid che assicura un

eccellente gradimento da parte dei consumatori. «Alla prova di degustazione, i commenti sono sempre molto positivi e, anche da parte di chi non ama il piccante, c'è apprezzamento per la particolare dolcezza che viene riscontrata. La coltivazione dei peperoncini ciliegia avviene in serra e, grazie a questa tecnica, si ottengono frutti con un ridotto tasso di capsaicina, l'alcaloide responsabile della piccantezza, e una maggiore dolcezza. Presenti nei supermercati italiani, I Peperbuoni sono distribuiti anche in Europa, ricevendo prestigiosi riconoscimenti come il francese Saveur de l'Année 2008».

In alto i peperoncini farciti prodotti dalla Selcor Food Srl di Grugliasco (TO) info@selcorfood.it

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ANTICHI VITIGNI Erbaluce

Tradizionalmente autentico FRESCA E VERSATILE. L’ARTE VINICOLA CONSERVA IL TERRITORIO VERSANDO IN CALICI IL BIANCO ERBALUCE DELLA CANTINA ORSOLANI

di Belinda Pagano

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asta un colpo d’occhio, un assaggio, l’ascolto di una storia, per capire quanto la passione accompagna la quotidianità. E se non bastassero semplici sensazioni, è sufficiente recarsi nel Canavese per ascoltare Gian Luigi Orsolani, portavoce della quarta generazione della Cantina Orsolani. Le emozioni fluiscono nel lavoro, il vitigno diventa vita. «La profonda passione che ci lega all’arte del vino, induce a conservare quello che il territorio offre, tentando costantemente di migliorarlo» e un tuffo nella storia racconta la vera natura di questo coinvolgimento emotivo. «Anche se ancora poco conosciuto, il vitigno autoctono Erbaluce risale a migliaia di anni fa. Noto presso gli antichi romani, è un vitigno di origine greca. È particolarmente longevo e la sua essenza sprigiona sentori di erbe aromatiche, frutta e agrumi». Dall’Erbaluce si ottiene un vino elegante, fine e fresco che si sposa con i migliori piatti della cucina mediterranea. «L’intera azienda si impegna a rispettare i

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Gian Luigi Orsolani, con il padre, oggi coltiva circa 20 ettari a vigneto con esposizioni perfette nella zona classica dell’Erbaluce www.orsolani.it

principi della sostenibilità ambientale perché la qualità del prodotto deve intendersi come qualità di tutto il sistema di filiera». Semplici formule, dunque, abbinate a una lavorazione prettamente artigianale conducono alle origini dei magici vini della Cantina Orsolani che dice «no ai fertilizzanti minerali, si agli impianti fotovoltaici e al basso impatto ambientale». È grazie a questa attenzione al territorio, unito alla passione e alla tradizione secolare, che il vino Erbaluce ha ottenuto prestigiosi premi. «Ultimo, i tre bicchieri sulla Guida ai Vini d’Italia 2011 edita dal Gambero Rosso per La Rustia 2009».

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LA RUSTIA · Vitigno: 100% Erbaluce di Caluso · Gradazione alcolica: 13°% volume · Colore: paglierino con tenue sfumature gialle luminose · Profumo: bouquet deciso con note di salvia ed erbe aromatiche mescolate a sentori floreali e fruttati di pera e cedro che chiudono con delicati cenni minerali · Sapore: al palato il vino si presenta serio, consistente, di grande pienezza propositivo di tutte le sfumature del terrorio · Abbinamenti: antipasti, primi di riso o di verdure, secondi di pesce in cotture delicate, crostacei freschi e insalate in genere

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Il nettare

Erbaluce SONO I FRUTTI DI UN METICOLOSO E PAZIENTE LAVORO MANUALE. BOLLICINE E NON, I VINI DELLA CIECK RACCONTANO LA VERSATILITÀ DELL’ERBALUCE

di Adriana Zuccaro


ANTICHI VITIGNI Erbaluce

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un legame forte, costante e appassionato quello che da sempre esiste tra la terra e chi la coltiva. Tra chi segue pazientemente la crescita di una vite per portare a tavola la spremitura dei sui grappoli, e ognuno di quei chicchi d’uva trasformati in vino. È un legame che solo le aziende agricole possono tramandare. «Il tratto peculiare che contraddistingue l’operosità della nostra azienda sta nelle sue dimensioni che, piccole e concentrate, ci consentono di esaminare, ogni singolo e lento processo produttivo e di avere un controllo diretto sulla qualità». Per Lia Falconieri, che insieme a Domenico Caretto conduce la Cieck di San Grato, nel torinese, l’armonia e la personalità dei vini sono «il frutto di un lento, meticoloso e paziente lavoro manuale. Perché in fondo il vino è un prodotto prettamente agricolo e, anche se può sembrare un’implicita ov-

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vietà, non tutti riescono a coglierne il reale significato». In soli sedici ettari di terreni situati nelle colline moreniche di Aglié, San Giorgio e Cuceglio, dal 1985 la Cieck impianta e preserva vitigni autoctoni canavesani: in primo luogo l’Erbaluce, a seguire il Barbera, il Nebbiolo e il Neretto di San Giorgio. «Produrre pochi vini destinati a un mercato di nicchia, se da una parte comporta alcune difficoltà di marketing, dall’altra rappresenta una forza perché – spiega Caretto – offre l’opportunità di proporre un prodotto che, pur essendo di tradizioni antichissime, in molte zone risulta essere ancora una novità». Vino di punta della gamma è senz’altro lo spumante brut metodo classico che «nato dall’elaborazione di uve Erbaluce selezionate per le loro caratteristiche di freschezza e integrità, tende a differenziarci da molte altre aziende della zona – spiega Lia Falconieri –. La Cieck nasce infatti come casa spumantiera, ma con il tempo ha aggiunto nella gamma il più quotidiano Erbaluce, l’elegante Misobolo, proveniente dal vigneto omonimo, e il T, in cui la ricerca e l’innovazione a partire dal vigneto giungono fino in cantina per dare vita a un grande vino bianco». Lo spirito che coniuga la tradizione al contemporaneo mondo del vino è rintracciabile anche nella partecipazione della Cieck a progetti di ricerca indetti dalla facoltà di agraria di Torino. «Abbiamo, ad esempio, preso parte

SAN GIORGIO ERBALUCE DI CALUSO SPUMANTE DOC

· Gradazione alcolica: 12,5 % volume · Profumo: fruttato, con sentori di crosta di pane, ricco di sensazioni floreali · Sapore: pieno, armonico, ricco di sensazioni acide, di gran nervatura, ma non spigoloso, ottimo retrogusto, leggermente aromatico, con giusta persistenza · Abbinamenti: ottimo aperitivo ma favoloso a tutto pasto con pesce, carni bianche e verdure

alla sperimentazione di forme diverse di allevamento del vitigno Erbaluce; alle ricerche fatte sull’Erbaluce passito e sulla realizzazione di un vino vendemmia tardiva che nelle nostre zone, per questioni di clima, implica tempi di attesa imprevedibili – afferma Caretto –. Abbiamo inoltre partecipato al recupero di alcuni vitigni che nel corso degli ultimi decenni erano stati abbandonati così che, dopo l’identificazione dei ceppi, li abbiamo rimessi in produzione». Di fatto oggi l’azienda agricola propone una gamma completa di vini del Canavese che, a partire dall’Erbaluce, declinato in tutte le sue versioni, si completa con vini rossi da uve esclusivamente autoctone coltivate in base alle tecniche tradizionali del territorio.

In apertura, Domenico Caretto e, in basso, Lia Falconieri tra le viti dell’azienda agricola Cieck di San Grato, Agliè (TO) www.cieck.it

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SULLE VIE DEL GUSTO Franco Cardini

Via Francigena, una strada solo italiana TRA LEGGENDE, TRADIZIONI E RICOSTRUZIONI STORICHE, FRANCO CARDINI RIPERCORRE IL TRATTO ITALICO DEL PIÙ GRANDE PERCORSO CHE COLLEGAVA FRA DI LORO I TRE PRINCIPALI CENTRI DI PELLEGRINAGGIO DELL’ANTICHITÀ

di Nike Giurlani

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antiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. Questi i tre principali santuari religiosi dell’antichità, mete predilette dei pellegrini che, giunti in Italia, si immettevano nel tratto italico chiamato via Francigena. «È sbagliato parlare di una via Francigena che da Canterbury arrivava fino a Roma – rileva lo storico Franco Cardini –. Tale errore nasce dal fatto che una parte della strada, nel tratto che collegava Piacenza a Roma, è stata ricostruita grazie al diario dell’arcivescovo Sigerico di Canterbury che, nel 990, partì dalla sua città alla volta di Roma per ricevere da Papa Giovanni XV, il pallium, una stola di lana, segno del suo incarico. «A creare ulteriore confusione ha provveduto la Bbc che, negli anni 80, realizzò un documentario sulla via Francigena traendo spunto dal viag-

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SULLE VIE DEL GUSTO Franco Cardini

A destra, un tratto della via Francigena e un particolare del santuario di San Martino a Lucca

gio di Sigerico e asserendo che il punto di partenza di questo percorso fosse Canterbury. Tali informazioni sbagliate hanno poi continuato a diffondersi, nonostante gli studiosi abbiano più volte cercato di smentire certe affermazioni» ribadisce lo storico. La via Francigena identifica quindi, secondo Cardini, solo il tratto italico del grande percorso di pellegrinaggio che unisce i tre centri religiosi della cristianità. «Si può parlare di una Francigena del Nord, che dal Monviso arriva a Roma e di una Francigena del Sud, che da Roma giunge fino in Puglia, dove si imbarcavano i pellegrini diretti alla Terra Santa». I viandanti prove-

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nienti dal nord ovest dell’Europa approdavano così in Italia dai passi del Monviso, «attraversavano il Piemonte, proseguivano verso il guado di Piacenza, arrivavano al passo della Cisa e – continua l’esperto – sicuramente si fermavano a visitare il grande santuario di San Martino a Lucca. Si ristoravano poi ad Altopascio, una cittadina toscana nella quale era presente un ordine ospedaliero, risalente all’XI secolo, composto da chierici e da molti laici che aiutavano i pellegrini e vivevano secondo le regole comunitarie». Il percorso proseguiva poi all’altezza di Acquapendente fino a Roma. Quando si parla di via Franci-

gena è poi importante attenersi al concetto di area di strada. «Si intende – spiega Cardini – l’area interessata a tutto il contesto territoriale attraverso cui passa una determinata strada». Per esempio, è un errore sostenere che «Poggibonsi è interessata al discorso culturale della via Francigena e San Giminiano deve esserne esclusa perché distante dal tracciato viario». Non ci si può limitare a un discorso lineare, «occorre, infatti, pensare alla circolazione di idee, di uomini e di prodotti che ruotavano intorno alla via Francigena, un percorso battuto non solo dai pellegrini, ma anche dai commercianti e dagli imperatori germa-

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SULLE VIE DEL GUSTO Franco Cardini

La via Francigena identifica il tratto italico del grande percorso di pellegrinaggio che unisce i tre centri religiosi della cristianità

In alto, le tappe principali della via Francigena

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nici quando andavano a Roma per essere incoronati dal Papa», sottolinea il professore. Ovviamente il passaggio dell’imperatore costituiva un evento importante per i paesi e le città che assistevano a questo passaggio. Da ricordare, per esempio, la discesa in Italia nel 1154 di Federico Barbarossa «che viene fortemente contrastata dai cittadini romani o le forti attese da parte del popolo italico nei confronti di Enrico VII, giovane ma debole imperatore, che doveva risollevare le sorti dell’Impero dopo decenni di guerre civili. È l’imperatore che Dante aspetta come fosse un secondo messia, ma che muore a Buonconvento

forse di malaria o avvelenato». Lungo la via Francigena, inoltre, iniziano a circolare le leggende cavalleresche dalle quali nascerà la poesia cavalleresca sia carolingia che bretone. «Una testimonianza forte è riportata sulla bellissima Porta della Pescheria nel Duomo di Modena, in cui si attesta che già all’inizio del XII secolo in Italia si conoscevano le storie di Artù e Ginevra». Una via, quindi, quella Francigena, ricca di fascino e mistero, dove le suggestioni religiose innescano leggende letterarie e anche tradizioni enogastronomiche più o meno veritiere, che continuano a caratterizzare i luoghi simbolo di questo percorso.

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SULLE VIE DEL GUSTO Gianni Alemanno

LE CHIAVI DI SAN PIETRO IL SINDACO DI ROMA, GIANNI ALEMANNO, ATTRAVERSO LE PAROLE DI GOETHE RICORDA: «LA COSCIENZA D’EUROPA È NATA SULLE VIE DEI PELLEGRINI»

di Nike Giurlani

I Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno

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l pellegrinaggio a Roma, in visita alla tomba dell’apostolo Pietro, era nel Medioevo una delle «tre peregrinationes maiores insieme alla Terra Santa e a Santiago di Compostela», sottolinea il sindaco Gianni Alemanno. «Posta al centro di quella vasta rete di strade e percorsi che ha segnato l’Europa del pellegrinaggio, Roma ha unito tutti i maggiori luoghi di spiritualità del tempo in un percorso nel quale la Capitale è stata

punto di raccordo tra l’itinerario di Sigerico e le Vie Francigene del Sud». Il primo cittadino racconta le iniziative per continuare a valorizzare questi luoghi religiosi e culturali. Come la Capitale ha acquistato nei secoli la fama di città ospitale? «Essere cittadino di Roma nell’epoca della latinità significava godere di benefici connessi alla cittadinanza romana, un privilegio esteso a molti popoli sottomessi, via via che i confini di Roma si allargavano in Europa. Nel periodo apostolico e post-apostolico nell’Urbe c’è stata una grande varietà culturale: l’ambiente giudeo cristiano, quello ellenico cristiano, e quello gnostico cristiano. Paolo scriveva ai romani e agli ebrei in modo diverso, tenendo conto dei destinatari. Roma ha goduto di una grande libertà culturale, con diversità di culto e di lingue, fino al IV secolo d.c. Nei confini dilatati dell’Impero d’Occidente, Roma veniva in contatto con la cultura greca, slava, latino-rumena, araba. Nell’Impero d’Oriente si doveva fare i conti con la cultura isla-

mica, in Terra Santa con quella ebraica. Credo che questo impasto abbia prodotto una fusione di spiriti e culture che l’ecumenismo della Chiesa ha rafforzato, nel rispetto di una pluralità culturale e di uno sforzo di accoglienza che è stato costante nei secoli». Quali le iniziative per continuare a portare avanti questa filosofia? «Molti i fori di dialogo promossi da Roma Capitale per risolvere i conflitti, l’ultimo è stato l’Ara Pacis Initiative, svoltosi a maggio, con la partecipazione di cittadini israeliani e palestinesi, in nome del dialogo possibile e della convivenza tra i popoli diversi nel segno del reciproco rispetto». Roma da sempre rappresenta il punto d’arrivo e di transito per molti pellegrini. Qual è la frequenza media dei pellegrini annuali? «La Cei consiglia agli operatori turistici di organizzare il viaggio religioso secondo finalità ecclesiali, affinché la

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SULLE VIE DEL GUSTO Gianni Alemanno

Una veduta della basilica di San Pietro

visita ai luoghi devozionali non si riduca al mero senso estetico, ma diventi strumento di annuncio evangelico. Si calcola comunque che l’Opera Romana Pellegrinaggi, solo nella Capitale, accolga 6 milioni fra pellegrini e semplici turisti. In generale, secondo i dati del nostro dipartimento turismo, ad agosto 2010 si sono registrati 663.365 arrivi e 1.702.575 presenze, con un incremento rispetto al 2009 dell’11,5% circa. Complessivamente, da gennaio ad agosto 2010, si sono avuti 5.315.794 arrivi e 12.835.595 presenze, con un incremento rispetto all'anno precedente del 9% circa. Parliamo sempre di turisti fra cui i pellegrini». Quali sono le iniziative e le strutture volte ad accogliere i pellegrini? «Il Vaticano, le parrocchie, i conventi e gli istituti religiosi hanno molta cura nell’organizzare l’accoglienza e selezionare gli itinerari che approdino alla visita alla tomba dell’Apostolo

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Pietro, complementari a questi luoghi di ricezione sono le ottime strutture alberghiere romane. Anche le Università di Roma - laiche e cattoliche, statali e private - hanno ospitato il pellegrinaggio della Croce, nelle giornate mondiali della gioventù. Per quanto riguarda l’impegno di Roma Capitale, nell’ambito degli interventi per riqualificare il Tevere, in vista della candidatura della città alle Olimpiadi 2020, faremo quanto necessario per rendere agibile al massimo i tratti del Lungo Fiume che possano riguardare i pellegrini». Fin dal Medioevo una delle vie più transitate dai pellegrini per giungere a Roma era la via Francigena, dichiarata Grande itinerario culturale nel 2004 dal Consiglio d’Europa. Come il Comune continua a promuovere questo percorso che vede Roma una meta fondamentale? «Ancora oggi, l’itinerario lungo la via Francigena accompagna il turista in famose città d'arte, in piccoli borghi

medievali, in monasteri, abbazie e pievi nascoste, in paesaggi incantevoli e sconosciuti. Luoghi di grandissima ricchezza religiosa e culturale, considerati patrimonio europeo,da salvaguardare. Una missione che la Consulta per gli Itinerari storici, artistici e religiosi del Governo italiano, presieduta dal ministro per i Beni e le attività culturali, ha l’impegno di realizzare attraverso la massima divulgazione e diffusione di questi percorsi densi di arte e spiritualità. Obiettivo cui si associa Roma Capitale, attenta alla valorizzazione dei luoghi simboli della Roma antica e tardo-antica, anche attraverso strumenti della comunicazione visuale e multimediale, messi a disposizione dall’accordo con il celebre motore di ricerca, Google Italia, con cui si sta attuando uno sforzo di diffusione via Internet del patrimonio dell’antica Roma». Ci sono altri progetti? «Quello interregionale, chiamato “Via Francigena”, di cui la Regione Toscana è capofila, in un’ottica di

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SULLE VIE DEL GUSTO Gianni Alemanno

La cucina romana ha un suo cuore autentico che continua a piacere nei secoli

sussidiarietà diretta a soddisfare le necessità dei pellegrini, veri protagonisti del cammino. Si tratta di un modo nuovo, sinergico, di divulgazione per conoscere i territori europei, andando alla scoperta di questi cammini spirituali, proprio perché come ha scritto Goethe “la coscienza d’Europa è nata sulle vie dei pellegrini”». Durante questo percorso, i pellegrini entravano anche in contatto con i prodotti e i sapori tipici dei luoghi visitati. Di fatto, quindi, al turismo religioso si è sviluppato parallelamente un turismo enogastronomico e certamente l’aspetto culinario è uno dei punti di forza di Roma. Come il Comune e sostiene e promuove questo tipo di turismo? «La premessa è che il pellegrinaggio, per definizione, è un percorso che si intraprende per motivi spirituali, è un evento ispirato da un impulso devozionale, e gode a Roma di una tradizione di accoglienza che si sostanzia in una offerta di prodotti, frutto di

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A sinistra, uno dei piatti tipici della cucina romana, il carciofo alla Giudìa

una curata filiera enogastronomica. A Roma ci sono due mercati per la promozione di prodotti a chilometro zero, sulla base dei presidi Slow Food e della collaborazione avviata con le organizzazioni agricole». Quali sono i monumenti e i luoghi della città medievale che vale la pena visitare? «Esistono degli scorci molto suggestivi della Roma del tardo Medioevo come la parte superiore del Tabularium in Campidoglio ricostruita in epoca prerinascimentale. Le Torri nel Foro di Traiano, gli arconi della Basilica di S. Prassede, certi scorci tra i rioni Regola e Parione. Sono solo esempi, anche perché sono numerose le Basiliche rifatte su più strati, con intarsi di epoche diverse: post cristiana, medioevale, rinascimentale e barocca. È il bello di Roma che non ha mai ricette pre-costituite con cui intrattenere i suoi ospiti. Venire per credere. E grazie ai progetti per il Secondo Polo Turistico, che sarà completato al massimo tra dieci anni, sarà

tutto più suggestivo». Quali i piatti forti della cucina romana che hanno alle spalle una lunga tradizione? «La pajata e la coda alla vaccinara, di cui si è parlato ultimamente per altri motivi, restano i piatti forti delle antiche trattorie romane e sono ancora oggi in grado di dare ai pranzi un immediato tocco conviviale che non guasta gli animi, specie se accompagnati dai piatti di pasta conditi con i sughi a base di carne o di pomodoro fresco, annaffiati dai vini della provincia romana. È una cucina che tradisce nel bene le sue origini pastorali e ha un suo cuore autentico che continua nei secoli a piacere». Immaginiamo di essere in epoca medievale. Se dovesse ospitare un pellegrino, quali piatti e prodotti vorrebbe che assaggiasse? «Direi l’abbacchio allo scottadito e i carciofi alla Giudìa e il pesce, nel Medioevo era conservato sotto sale anche per lunghi periodi».

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SAPORI DI CASA Andrea Griminelli

La musIca in TavoLa MUSICA E CIBO, UN’ACCOPPIATA CHE SPESSO RISULTA VINCENTE. NE È LA PROVA IL RAPPORTO CHE LEGA IL FLAUTISTA ANDREA GRIMINELLI ALLA CUCINA DELLA SUA TERRA

di Nike Giurlani

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a sua musica è conosciuta in tutto il mondo. Il suo stile inconfondibile e le sue interpretazioni profonde hanno conquistato le platee di molti teatri. Dopo aver viaggiato e vissuto anche in città straniere, il flautista Andrea Griminelli ha deciso di riappropriarsi delle sue radici e ha riscoperto così una passione per la sua terra d’origine, Correggio. Un luogo per lui particolarmente magico è il paesaggio ammirato dalle colline dove sorgono il castello di Canossa e il castello di Rossena. E proprio nella sua terra, presso il teatro Asioli, è stato recentemente insignito, insieme ad Andrea Bocelli, del Premio Pavarotti d’Oro 2010. Un

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Il flautista Andrea Griminelli

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SAPORI DI CASA Andrea Griminelli

Una veduta dalle colline reggiane

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legame profondo, intenso e che non lascia spazio a dubbi. Se gli si chiede qual è la cucina migliore che ha assaggiato nei suoi numerosi viaggi e soggiorni all’estero risponde senza esitazione «quella della mia terra». Che rapporto ha con la sua terra d’origine? «Dopo aver vissuto un po’ in tutto il mondo da Parigi a Londra a New York, ho preferito tornare nella mia terra, a Correggio, perchè ad un certo momento della mia vita ho sentito l’esigenza di ristabilire un rapporto più forte e profondo con le radici. In particolare ho voluto stabilirmi sulle colline del Reggiano, nella zona

del castello di Canossa, in quanto trovo che questo paesaggio non abbia nulla da invidiare alle colline toscane». Quando pensa a Correggio qual è il primo profumo o sapore che le viene in mente? «Sicuramente il pensiero va al parmigiano reggiano delle vacche rosse che rappresenta un prodotto di alta qualità, il più esclusivo di tutti e il suo sapore si lega perfettamente a tantissimi piatti della nostra tradizione, ma in generale impreziosisce e da quel tocco in più a tutte le ricette». Quale in particolare? «Senza dubbio mi viene in

mente un antipasto o un aperitivo particolarmente prelibato. Si tratta del parmigiano reggiano delle vacche rosse abbinato con l’aceto balsamico, il tipo stravecchio. Un altro piatto che ben si lega a questo straordinario sapore sono i cappelletti in brodo di cappone, tipici della nostra tradizione gastronomica». Con quale vino abbinerebbe quest’ultimo piatto? «Nel nostro territorio, la qualità più diffusa e rinomata è il lambrusco e al riguardo ne sceglierei uno particolarmente esclusivo: il Lambrusco Lini 910». Se dovesse abbinare il par-

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SAPORI DI CASA Andrea Griminelli

UN FORMAGGIO D’ALTA QUALITÀ: IL PARMIGIANO REGGIANO DELLE VACCHE ROSSE

La storia recente della razza reggiana, dimostra che la salvezza di questi animali è stata possibile solo attraverso il legame col prodotto più importante del suo comprensorio, il parmigiano reggiano. L’Associazione nazionale allevatori bovini di razza reggiana, nell’ambito delle iniziative di valorizzazione economica dei prodotti, e a fronte della forte richiesta dei consumatori, ha ritenuto fondamentale assumere un ruolo attivo per un riconoscimento affidabile e credibile del legame “razza-formaggio parmigiano reggiano”. Questa iniziativa è stata attuata attraverso l’istituzione di un marchio identificativo “Razza Reggiana”,

che è ceduto in uso ai produttori interessati, e, inoltre, è stato istituito il riconoscimento del marchio storico di “Vacche rosse”. L’utilizzo di entrambi i marchi deve sottostare a un severo regolamento di produzione. Tra gli elementi salienti perché si possa chiamare “parmigiano reggiano da latte di razza reggiana” sono previsti la produzione in purezza da latte di razza reggiana e almeno 24 mesi di stagionatura. In stalla, l’alimentazione è tradizionale ed è severamente vietato il piatto unico, mentre occorre impiegare almeno il 90% di foraggi del comprensorio e mangimi non Ogm.

migiano reggiano delle vacche rosse a una sinfonia, quale sceglierebbe? «Direi una sinfonia di Rossini, grande compositore di origine emiliano-romagnola, e in particolare l’accosterei a Il barbiere di Siviglia o La Cenerentola».

Il parmigiano reggiano delle vacche rosse rappresenta un prodotto di alta qualità, il più esclusivo di tutti Ottobre 2010

Proiettandosi in epoca medievale se dovesse ospitare un gruppo di pellegrini dove li condurebbe? «Imprescindibile una visita al castello di Canossa e al castello di Rossena che sorgono sulle nostre splendide colline, non lontano dalla mia residenza, da cui si può ammirare un paesaggio molto suggestivo. Poi li accompagnerei

in un punto di ristoro dove poter assaporare i prodotti tipici della nostra tradizione: la trattoria della Ghiara a Reggio Emilia». Dopo aver viaggiato in molti Paesi, qual è la cucina che preferisce? «Proprio recentemente ho trascorso un lungo periodo in Asia e mi sono nutrito a base di sushi. Ho apprezzato molto questo tipo di sapori, ma ritornato nella mia terra dove ho potuto riassapore i piatti della cucina reggiana, che sicuramente sono molto più saporiti e corposi, mi sono reso conto di un aspetto importante: i nostri prodotti sono sicuramente i migliori al mondo».

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CUCINA PAVESE Carlo Rossella

UN’INFANZIA TRA LE RISAIE TRA RICORDI E PIATTI TRADIZIONALI, CARLO ROSSELLA RACCONTA IL SUO RAPPORTO CON LA TRADIZIONE ENOGASTRONOMICA DI PAVIA, LA SUA CITTÀ NATALE

di Nike Giurlani

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n uomo di pianura, un uomo della Bassa, amante della tradizione, tanto da riuscire conciliarla con il suo essere vegetariano. Carlo Rossella, pur trascorrendo molto tempo a Roma, appena può torna nella sua Pavia. Una terra che si caratterizza soprattutto per la presenza delle risaie, tanto che Carlo Rossella ha scoperto la pasta solo da adulto. Purtroppo, però, molti prodotti che hanno caratterizzato la sua adolescenza sono scomparsi, come i caseifici e alcune culture che sono andate perdute perchè «non ci sono più le massaie di una volta». Molti piatti sono stati “snaturati”, per esempio i condimenti non sono più a base di burro, ma sono stati soppiantati dall’olio. Nonostante tutto, la cucina pavese conserva una

A sinistra, Carlo Rossella presidente di Medusa Film

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CUCINA PAVESE Carlo Rossella

magia e un fascino che Rossella ricerca anche quando è lontano dalla sua terra, per esempio accompagnando i suoi pasti con un ottimo bicchiere di Bonarda d’Oltrepò. Qual è il suo rapporto con Pavia? «Durante la settimana sono a Roma, ma torno ogni fine settimana perchè qui vive mia moglie, la mia famiglia, i miei amici. Inoltre, c’è la mia amata biblioteca e mi piace partecipare alla celebrazione della messa in latino». Quali sono i sapori e gli odori della tradizione culinaria pavese che predilige? «Sicuramente i minestroni con il

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riso, il risotto con i fagioli, il semolino o il riso con la zucca, un antico piatto della nostra tradizione. In generale prediligo i piatti a base di riso, prodotto molto diffuso nel nostro territorio. Pavia è, inoltre, una zona rinomata per i salumi, ma non sono piatti da me amati visto che sono vegetariano. In passato, era rinomata la produzione del taleggio, un formaggio prodotto dagli antichi caseifici, un’abitudine che però è andata scemando e che ha reso questo prodotto di difficile reperimento». Il suo vino preferito? «La Bonarda dell’Oltrepò è sicuramente il vino che prediligo, con il quale mi piace accompagnare i miei pasti non solo quando sono a

Le chiese romaniche di Pavia erano conosciute e visitate dai pellegrini che percorrevano la via Francigena Ottobre 2010


CUCINA PAVESE Carlo Rossella

Nella pagina precedente, il Ponte Coperto di Pavia; sopra, il risotto alle erbe e il chiostro della Certosa

Pavia. Si tratta di un vino un po’ frizzantino, dal sapore molto abboccato con un retrogusto di fragola. Si sposa perfettamente con la zuppa pavese, una ricetta a base di prodotti semplici, ma che non tutti sanno realizzare, ci vuole una vera e propria arte, un’arte molto amata anche da Francesco Morelli Francia». C’è un cibo che associa direttamente alla sua infanzia? «Senza dubbio il riso, ho scoperto la pasta solo da adulto. Mi piace il riso declinato in molte versioni: alla milanese, alle erbe, con il pomodoro. E poi, da sempre, adoro le frittate, con gli spinaci, con le zucchine e con le punte delle ortiche. C’è chi le mangia anche con le rane. Un piatto che mi porto dietro dall’infanzia e che ancora oggi apprezzo molto è il semolino di riso con il latte».

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Tra i piatti antichi tramandati fino ai nostri giorni, quali sono quelli più noti? «Il piatto antico per antonomasia è sicuramente il brasato. Altrettanto note sono le ricette a base di cacciagione, per esempio il fagiano, il cinghiale, la lepre in salmì, le pernici al forno o allo spiedo. Molto diffusi sono i bolliti e, inoltre i piatti con il maiale come il risotto con le cotiche. Un prodotto molto diffuso nella provincia di Pavia sono i chiodini, una qualità di funghi che viene preparata in umido. Prima che le acque fossero così inquinate, molto diffusi erano i piatti a base di pesce di fiume come gli storioni, la carpa, il pesce persico e le anguille». Se dovesse accogliere un gruppo di pellegrini in quali luoghi li porterebbe? «Prima di tutto organizzerei un tour

per le chiese romaniche della mia città, molto conosciute e visitate dai pellegrini che percorrevano la via Francigena diretti a Roma. San Michele, San Pietro in Ciel d’oro, sono davvero meritevoli; così come da non perdere sono le varie chiesette sparse nei paesini della Lomellina, tra cui Tromello. Anche San Giacomo della Cerreta, vicino a Belgioioso, merita una sosta. Immancabile poi una visita alla Certosa di Pavia e, più in generale, alla Pavia medievale». E se dovesse accompagnarli in un punto di ristoro per gustare i piatti tipici della tradizione, quale sceglierebbe? «Molte le trattorie note nel nostro territorio, tra le più conosciute ci sono Al Cassinino, il Bardelli, sul lungo Ticino, e sicuramente la Locanda Vecchia Pavia al Mulino».

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LA CUCINA PAVESE Enrico Gerli

ANTIchI saPOrI TRA RICETTE CORPOSE E PIATTI PIÙ SEMPLICI, LO CHEF ENRICO GERLI GUIDA GLI APPASSIONATI ALLA SCOPERTA DELLA PROVINCIA DI PAVIA

di Nike Giurlani

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iatti regionali a base territoriale. Questo il punto di partenza delle ricette realizzate dallo chef Enrico Gerli nel suo ristorante “I Castagni” nella provincia di Pavia. Una zona conosciuta a livello enogastronomico per prodotti di alta qualità e per il culto dell’ospitalità e della ricezione, noto fin dall’antichità. Pavia, rappresentava, infatti, una delle tappe costanti del viaggio dei pellegrini diretti a Roma e a Gerusalemme. Qui veni-

vano rifocillati, nelle chiese che fornivano questo servizio, con piatti semplici, ma nutrienti. «E chissà che non siano stati tra i primi a gustare la famosa zuppa pavese» commenta lo chef. Quali sono i piatti e i sapori che caratterizzano la cucina locale? «La provincia di Pavia non ha una tradizione uniforme per quanto concerne l’enogastronomia, ma si divide in due: la parte nord, dove siamo noi, e la parte sud. L’unico aspetto che accomuna le due culture è il riso, ma in generale c’è da fare un distinguo soprattutto per quanto riguarda le materie prime. Nella parte nord la specialità più famosa è l’allevamento dell’oca mentre a sud si predilige la produzione del maiale. Nel nostro territorio, inoltre, viene dato ampio spazio alla cultura dei legumi, in particolare del fagiolo. Quelli più conosciuti sono il fagiolo borlotto di Vigevano e quello di Gambolò». E quelle particolarmente rinomate anche nel vostro locale? «Due i piatti più tipici che da sempre rappresentano la nostra cultura: l’antipasto con il fegato grasso e la coscia d’oca cotta nel suo grasso, per lungo tempo. La coscia d’oca viene

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In apertura, marbré di fegato d’oca; nella pagina precedente, lo chef Enrico Gerli; sopra, una risaia della provincia di Pavia; in basso, coscia d’oca arrostita

disossata e riempita con il suo stesso salame d’oca e, infine, servita con un crostino di patate di pelle d’oca. Quest’ultima dopo essere stata cotta viene messa in padella per renderla croccante». Per quanto riguarda i vini? «Quella più famosa è la zona sud, rinomata sia per quantità che per qualità. Buoni livelli sono stati infatti raggiunti per quanto riguarda lo spumante metodo classico. L’uva più famosa e più nobile coltivata è il Pinot nero, sia vinificato in bianco per la spumantizzazione sia tonificato in rosso per il vino fermo anche da invecchiamento, quando ci sono importanti riserve». Ci sono dei piatti che risalgono alla tradizione medievale particolarmente noti? Quali, per esempio, quelli che veni-

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vano offerti ai pellegrini che percorrevano la via Francigena, diretti verso Roma? «La tradizione ci ha tramandato delle ricette che venivano preparate alla corte degli Sforza, in particolare all’epoca di Ludovico il Moro, ma erano piatti per nobili che non venivano certo offerti ai pellegrini. I viandanti trovavano nelle chiese, che venivano individuate grazie alla presenza di un segno di riconoscimento, il loro punto di ristoro. Qui si servivano piatti frugali e molto essenziali come, per esempio, la zuppa di legumi. Nella nostra cultura, particolarmente rinomata è la zuppa pavese. Questa ricetta si caratterizza per la presenza d’ingredienti semplici, tipici dell’alimentazione del passato: il brodo di pollame e il pane raffermo. Inoltre, quando il brodo bolle, viene aggiunto un uovo e, infine, viene servita con un po’ di formaggio grattugiato».

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www.carciofiamo.it

LA CUCINA PAVESE Enrico Gerli




www.cadelge.it

Dall’antica vigna DAL BONARDA AL RIESLING, ALLA CÀ DEL GÈ SI PORTA AVANTI UNA TRADIZIONE VINICOLA LUNGA QUATTRO GENERAZIONI

di Alessandro Tozzi

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rentasei ettari a 360 metri di altezza. Il rigoglio delle verdi colline oltre padane. È in questa cornice che la famiglia Padroggi, da quattro generazioni, crea alcuni dei vini e degli spumanti più rinomati dell’Oltrepo Pavese. Una produzione annua di oltre 180mila bottiglie. Così, mentre a Montalto Pavese si concentra la produzione di uve bianche e barbera, a Cigognola trovano le condizione pedoclimatiche ideali la croatina e l’uva rara. Dal Pinot Nero O.P. Doc, con il suo colore rosso rubino tenue con unghia granata e un sapore sapido e asciutto, al Barbera O.P. Doc Vigna Varmasì, ottenuto da uno dei vigneti più antichi dell’azienda, fino ad altri classici come il Riesling e il Moscato. Sono molti i vini prodotti

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da questa nota azienda agricola. Anche il Bonarda, armonioso e avvolgente, ha un grande successo, accompagnandosi idealmente ad alcune delle pietanze tipiche della zona, specialmente se a base di carne, salumi e arrosti. «Nella nostra cantina vengono ospitati moderni impianti per la vinificazione, la fermentazione controllata e per l’imbottigliamento – spiega Stefania Padroggi -. Inoltre abbiamo da poco inaugurato una sala di degustazione, dove poter apprezzare al meglio i vini dell’azienda abbinati ai prodotti tipici dell’Oltrepo». Oltre ai classici Doc, a Cà del Gè si producono, nelle annate di maggior pregio, il Riesling Filagn Long, il Bonarda la Fidela, il Tormento e il moscato passito Sabiò Pasi.

PINOT O.P. DOC METODO CLASSICO · Gradazione alcolica: 12,5% sul volume · Profumo: ampio, delicato, con sentori che ricordano la crosta di pane · Sapore: secco ed elegante, con una buona acidità · Abbinamenti: ottimo come aperitivo, è anche un vino da tutto pasto

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IL ROSSO SENESE Guido Bagatta

Ogni biscotto racchiude un ricordo LA TRADIZIONE E I SAPORI DELLA CITTÀ DEL PALIO ATTRAVERSO I RACCONTI DI GUIDO BAGATTA, UN MILANESE MOLTO PIÙ SENESE DI QUANTO SI POSSA IMMAGINARE

di Michela Evangelisti

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unga vita e vittorie alla Contrada della Selva. Questo motto potrebbe riassumere il rapporto con Siena di Guido Bagatta, giornalista, conduttore televisivo e radiofonico. Moderato nel suo rapporto con il cibo e il vino (per necessità) ma decisamente buongustaio, Bagatta non si perde un Palio e, anche se vive a Milano, il suo cuore batte in piazza del Campo. Ci accompagna lungo un personalissimo sentiero del gusto, che si snoda tra ricordi infantili e piccoli piaceri sempre rinnovati, tra cibi che odorano di tradizione e qualche consiglio pratico per chi ha in programma un fine settimana alla scoperta della gastronomia senese.

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Lei è molto legato a Siena. «A Siena ci sono le mie origini, lì affonda le radici la mia famiglia. Non ci ho mai abitato, ma da bambino ci trascorrevo lunghi periodi e tuttora mi capita di tornarci spesso, seguendo il richiamo del Palio e per ritrovare parenti e amici. La mia famiglia appartiene alla Contrada della Selva, che, lo dico con orgoglio, ha vinto la gara del 2 luglio quest’anno. Voglio raccontarvi un aneddoto, per spiegarvi il mio legame viscerale con questa festa che incarna lo spirito del popolo senese: una mia cugina, Rosanna Bonelli, è stata l’unica donna ad aver corso un Palio. Nell’estate del 1957 stavano girando in città il film La ragazza del palio, per la regia di

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IL ROSSO SENESE Guido Bagatta

Luigi Zampa; la controfigura dell’attrice ebbe un incidente e Rosanna ottenne la parte. Di lì cominciò ad accarezzare l’idea di correre davvero un Palio, ma lo zio, capitano della Contrada della Selva, non era d’accordo. Così finì per gareggiare per la Contrada dell’Aquila». Ci sono dei sapori del Senese ai quali è particolarmente affezionato, che le rievocano la sua infanzia e la sua famiglia? «Un sapore su tutti: quello dei ricciarelli, dolcetti tipici a base di mandorle, zucchero e albume d’uovo. Non quelli confezionati, ma quelli freschi, che si possono comprare sfusi alla pasticceria Nannini, ancora oggi una tappa obbligata per me ogni volta che torno a Siena. Purtroppo negli anni ho sviluppato un’allergia alle mandorle, e quindi sono costretto a controllare la mia golosità. Amo anche il panforte, non soltanto per il suo sapore ma perché è un dolce simbolico, che racchiude in sé tutta la storia dell’orgoglio senese. Adoro anche la finocchiona, un insaccato che però può rivelarsi traditore: non ci sono mezze misure, o è buonissima o è immangiabile!». Quali sono i piatti senesi che le

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mancano di più quando è a Milano? «Sicuramente la ribollita, originariamente una zuppa povera, uno dei piatti più diffusi della cucina contadina toscana. Poi il castagnaccio, preparato con la farina di castagna e arricchito con uvetta, pinoli, noci e rosmarino: anche questo dolce affonda le radici in un passato remoto, ed è una passione che ho ereditato da mio padre. Una specialità che invece non mi manca affatto è il pane toscano: troppo insipido, do

scandalo tra amici e parenti perché a tavola lo cospargo di sale». Cosa consiglierebbe a chi, passeggiando per Siena, viene colto da un improvviso appetito? «Quando passo da Siena non mi faccio mai mancare una cena al ristorante Guido, a un passo da piazza del Campo, che offre piatti della tradizione, a base di tartufo e funghi freschi, e magnifiche fiorentine. Oppure vado all’antica osteria Da Divo, che vale una visita anche soltanto per la sua location; le

In apertura, Guido Bagatta, giornalista e conduttore televisivo

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IL ROSSO SENESE Guido Bagatta

RICCIARELLI DI SIENA Ingredienti per 50 biscottini: · 400 g. di mandorle spellate · 400 g. di zucchero semolato · una bustina di vanillina · 1⁄2 limone (solo scorza) · due albumi · 300 g. di zucchero a velo · 50 ostie grandi Preparazione: Allargare le mandorle sulla placca del forno e infornarle a 70° per 20 minuti, così da far perdere loro gran parte dell'umidità. Farle quindi completamente raffreddare e frullarle con lo zucchero fino a ottenere una polvere fine e omogenea. Raccogliere la polvere ottenuta in una ciotola e unirvi 200 g. di zucchero a velo, la vanillina, la scorza grattugiata del limone. Amalgamare bene il tutto con le mani. In un'altra ciotola sbattere con una forchetta per 30 secondi gli albumi e aggiungerli, un cucchiaio alla volta, all'impasto di mandorle, sempre mescolando:

bisogna ottenere un composto sodo e che si possa modellare con le mani, perciò non unire altro albume se si è raggiunta la consistenza desiderata. Spolverizzare un foglio di carta da forno con tre cucchiai di zucchero a velo e stendervi sopra l'impasto allargandolo con un matterello (anch'esso spolverizzato con zucchero a velo), fino a raggiungere una sfoglia dello spessore di 1,5 cm.; con un coltello (sempre spolverizzato con zucchero a velo), tagliare dei rombi di 4x7 cm. e disporre ognuno di questi su un'ostia. Sistemare quindi i biscotti sulla placca da forno (se non ci stanno tutti, cuocerli in due tempi) e infornarli a 130° per 15 minuti (non devono colorirsi ma solo asciugare). Farli raffreddare completamente, ritagliare con le forbici la parte d'ostia sporgente da ogni biscotto e cospargerli con lo zucchero a velo rimasto lasciato cadere a pioggia da un colino.

sale sono ricavate in volte di tufo di origine etrusca e ha una cantina meravigliosa. Quando invece sono a Milano e mi prende la malinconia dei sapori della mia terra vado all’osteria La vecchia lira, dove sono sicuro, tra l’altro, di trovare degli ottimi vini toscani». A proposito di vini, le piace il Brunello? A quali cibi ama accompagnarlo? «Mi piace molto, ma anche in questo caso il mio fisico mi costringe alla moderazione. Il tannino è una

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sostanza che tollero con difficoltà, e mi procura dei forti mal di testa! Visto che è impossibile sapere esattamente quanto tannino aggiunto è presente nei vini - ne approfitto per aggiungere una nota polemica: occorrerebbero a questo proposito norme più severe - non posso esagerare con le quantità. Ma non posso negarmi un bicchiere di Brunello di qualità. Volete un consiglio su come esaltarlo? Accostatelo a una bella tagliata al sangue con patate e non sbaglierete».

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IL ROSSO SENESE Valérie Lavigne

La signora

del Brunello DA POCO APPRODATA NELLA VAL D’ORCIA, L’ENOLOGA FRANCESE VALÉRIE LAVIGNE SEMBRA GIÀ DIMOSTRARE UNA VERA PREDILEZIONE PER LA TRADIZIONE VITICOLA LOCALE

di Michela Evangelisti

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Vinitaly 2010 le nuove donne del vino sono emerse con i loro progetti, sempre più ambiziosi. Il più noto e strutturato è “Prime Donne”, che ha preso vita nelle cantine di Donatella Cinelli Colombini, immerse nel verde della Val d’Orcia. A rendere unica in Italia l’iniziativa è uno staff tutto al femminile, dalle cantiniere alle addette all’accoglienza turistica, fino alle agenti di commercio. La new entry in questo gineceo enologico è Valérie Lavigne, una vita dedicata alla ricerca all’Università di Bordeaux e un’attività di enologa consulente in alcune delle più importanti cantine del mondo, come gli Châteaux d’Yquem, Margaux e Cheval Blanc. Come si ottiene un Brunello di Montalcino di qualità eccellente? Quali sono i segreti della sua

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realizzazione e le caratteristiche distintive del “terroir” nel quale crescono i vigneti? «La viticoltura è la chiave della tipicità del Sangiovese sui terroir del Brunello. Per permettere la completa maturazione delle uve le vigne del Sangiovese devono essere di vigore moderato e produrre un raccolto ragionevole (circa 40 ettolitri per ettaro). Bisogna piantarle su un terreno ben drenato e ben esposto al sole. La densità della piantagione dovrebbe mantenersi attorno ai 5.000 piedi per ettaro e la taglia deve essere corta; i lavori e l’intralicciamento durante il periodo verde vanno svolti meticolosamente. Nella maggior parte dei casi, il raccolto verde è necessario, soprattutto per le viti giovani. La scelta del materiale vegetale riveste allo stesso modo una straordinaria importanza. I cloni del Sangiovese

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IL ROSSO SENESE Valérie Lavigne

devono avere un vigore medio, con grappoli disordinati e bacche piccole. L’aratura ha la funzione di favorire il radicamento della vigna, per permetterle di resistere ai cambiamenti climatici, come pioggia e siccità. La data del raccolto deve poi corrispondere alla maturità completa del frutto, evitando la sovra maturazione che compromette l’espressione del “terroir”. Gli scogli dai quali guardarsi durante la vinificazione e l’invecchiamento sono, infine, la sovra estrazione, l’ossidazione e l’eccesso di legno». Come possiamo riconoscere un Brunello eccellente? Quali sono le sue caratteristiche chimiche e sensoriali e quali sensazioni lascia quando lo si degusta? «Quello che distingue il Brunello di Montalcino è la singolare espressione del Sangiovese,

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cresciuto al confine più a nord, dove la sua maturazione è lenta e regolare. Il suo colore può essere rosso intenso, ma non è mai quello di un Bordeaux o di un vino del Sud. Al naso, gli aromi del Sangiovese evocano ciliegie candite, spezie, cedro, Avana. Questi aromi tipici del vitigno non devono essere mascherati da difetti olfattivi come quelli provenienti dall’ossidazione, dall’attenuazione del gusto, dall’acescenza o dal legno eccessivo e troppo grossolano. Al palato, il Sangiovese si caratterizza per la sua freschezza, come testimonia anche il livello relativamente basso di ph (da 3.4 a 3.5) del vino se comparato con altre varietà di vini rossi nel mondo. Il Brunello al gusto manifesta molta morbidezza, dolcezza, senza nessuna pesantezza. Può a volte essere severo nella sua giovinezza, a causa della concentrazione di tannino e

dell’acidità. È importante preservare la freschezza di questo tannino durante l’invecchiamento: deve evolvere verso la dolcezza e non verso la leggerezza e i toni dell’amaro. È ovviamente necessario, infine, garantire che l’alcol non squilibri il vino, enfatizzando il carattere astringente e secco del suo tannino».

In apertura, l’enologa Valérie Lavigne; sopra, vigne del Senese

Come bisogna conservare il Brunello? Qual è la cantina ideale? «Il Brunello di Montalcino deve essere nobilitato prevalentemente in contenitori di legno di sufficiente grandezza (qualche decina di ettolitri), per un lasso di tempo adeguato alla sua struttura e in cantine fresche. Anche la conservazione in bottiglia per qualche anno prima della consumazione deve avvenire in cantine dello stesso tipo».

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L’intensità sposa l’eleganza ALL’OMBRA DI UN CASTELLO MEDIOEVALE TOSCANO NASCE UN BRUNELLO CHE PUNTA AI MERCATI EMERGENTI. IL DIRETTORE GENERALE DELLA TENUTA CASTELLO BANFI, ENRICO VIGLIERCHIO, CI SPIEGA COME LE NUOVE STRATEGIE SI SPOSANO CON LA TRADIZIONE

di Michela Evangelisti Gusto • 160

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IL ROSSO SENESE Castello Banfi

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dagiata tra i fiumi Orcia e Ombrone, la tenuta Castello Banfi si estende nel versante meridionale del comune di Montalcino. Circa 3.000 ettari di proprietà, di cui oltre 800 dedicati a vigneti specializzati, «a testimoniare un patrimonio e un’esperienza produttiva unica». Ne parla Enrico Viglierchio. Come ottenete un Brunello di Montalcino eccellente? I procedimenti tradizionali si intrecciano con le nuove tecnologie? «Essenziale per ottenere un vino di qualità è lo sviluppo della vigna. I terreni vanno scelti con cura: la posizione e l’esposizione sono fondamentali, il microclima deve essere ottimale. La ricerca ci ha aiutato molto negli ultimi anni nell’analisi del suolo, nella conoscenza del metabolismo della vite, nello studio degli effetti del terreno sulla maturazione e sulla crescita dell’uva. Il Sangiovese ha bisogno di terreni poveri, che siano in grado di contenere la vigorosità di questa uva, ben ventilati ed esposti verso sud, e assolutamente privi di ristagni d’acqua». Cosa si prova degustando il vostro Brunello? «È davvero difficile oggettivizzare le sensazioni che il Brunello lascia al

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palato: nel suo sapore si alternano sapientemente quelle caratteristiche tipicamente toscane di eleganza e di struttura. Il Brunello ha un carattere deciso, quasi nervoso, e al tempo stesso è setoso nella tessitura. Non eccessivamente muscoloso, insomma, ma intenso e netto. Mi piace usare una metafora: se dovessi accostare il Brunello a uno sportivo, direi che non è un centometrista, ma un atleta che corre i 400 metri». Quali sono i cibi con i quali si sposa meglio? «Si abbina meravigliosamente con i formaggi toscani, con la carne o con primi piatti abbastanza strutturati. Esalta e accompagna alla perfezione sapori netti e decisi, come quelli della cacciagione». A quali mercati principalmente vi rivolgete? «In Italia il Brunello è apprezzato in tutte le regioni e, come rappresentante del made in Italy, si trova in abbondanza e di qualità in tutte le principali città d’arte. Ai mercati esteri storici, come la Svizzera, la Germania, l’Inghilterra, il nord Europa, dalla metà degli anni 80 anche gli Stati Uniti, si stanno aggiungendo i mercati emergenti: il prodotto ha attualmente molto appeal nell’est Europa e in Russia». Tra i premi e i riconoscimenti

In alto, Enrico Viglierchio, direttore generale della tenuta Castello Banfi; in alto a sinistra, una vista del Castello Banfi

Un carattere deciso, quasi nervoso, e al tempo stesso una tessitura setosa: ecco l’anima del Brunello 161 • Gusto


IL ROSSO SENESE Castello Banfi

• che avete ricevuto per il vostro Brunello, a quale siete più affezionati? «Il premio che apprezziamo maggiormente è il giudizio positivo dei critici e dei giornalisti, perché è su di esso che il consumatore fa soprattutto affidamento. Poi ci rendono particolarmente orgogliosi i premi che riconoscono non solo la qualità del vino, ma anche il contributo dato dall’azienda all’enologia italiana e alla diffusione del made in Italy enologico nel mondo».

POGGIO ALLE MURA BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG · Gradazione alcolica: da 13 a 14% vol. in base al decorso stagionale · Affinamento in bottiglia: 12 mesi · Aspetto: colore rosso malva, intenso e profondissimo · Profumo: complesso ma immediatamente accattivante, fresco e dolce. Prugna, ciliegia, confettura di more e lampone si uniscono a sentori di cioccolato, scatola si sigari, vaniglia e liquirizia · Sapore: corpo muscoloso e tonico, stupefacente in potenza e morbidezza, tannini dolcissimi e gentili

Quali le linee guida aziendali per il futuro? «Stiamo dedicando investimenti importanti alla tecnologia in cantina. Solo valorizzando e selezionando al meglio l’uva e gli acini, infatti, si possono raggiungere non solo una qualità oggettiva ma anche una forte caratterizzazione del vino, che diventa espressione dell’unicità della vigna e rappresentazione dello stile del produttore. Stiamo investendo energie anche in attività che ci portino ad essere sempre più presenti in mercati lontani, non solo con la vendita ma anche come portavoce della storia e della cultura uniche che stanno dietro i vini italiani. In azienda, infine, stiamo lavorando per un miglioramento continuo del livello di ospitalità offerto al nostro pubblico, proponendo non solo degustazioni ma anche servizi di ristorazione, eventi e seminari».

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IL ROSSO SENESE Tenuta Ciacci Piccolomini d’Aragona

Il nettare di Pianrosso PAOLO BIANCHINI, DELLA TENUTA CIACCI PICCOLOMINI D’ARAGONA, RIVELA COME NASCE UN BRUNELLO RISPETTOSO DEL TERRITORIO

di Michela Evangelisti

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n nome altisonante per una tenuta la cui storia affonda le radici nel secolo XVII, e che oggi è gestita con dinamismo e passione dai fratelli Paolo e Lucia Bianchini. Una passione ereditata dal padre Giuseppe, alla cui memoria hanno dedicato il Brunello Riserva Santa Caterina d’Oro, una tipologia prodotta solo nelle annate migliori, frutto di uve prima selezionate manualmente con rigore nei vigneti di Pianrosso e poi lasciate macerare a lungo sulle vinacce. Un vino di gran corpo, con lunga persistenza gusto-olfattiva, che si evolve ancora di più con

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l’invecchiamento in bottiglia. Quali sono i segreti della realizzazione del vostro Brunello? «La cura e l’attenzione nella conduzione dei vigneti sono fondamentali. Il Sangiovese è un vitigno difficile, che produce vini di altissima qualità solamente quando le condizioni di allevamento sono ottimali. Non serve nessun segreto, ma grande attenzione. Seguiamo meticolosamente la fase fermentativa, controllando le temperature e le estrazioni, dato che in quei 20 determinanti giorni si definiscono le caratteristiche qualitative dell’annata».

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IL ROSSO SENESE Tenuta Ciacci Piccolomini d’Aragona

Quali sono le peculiarità del territorio nel quale crescono i vitigni? «Siamo a sud di Montalcino nella magnifica Val d’Orcia, patrimonio Unesco, dove il clima è ottimale poiché il fiume porta la termostasi del mare che dista meno di 30 km in linea d’aria. Il monte Amiata ripara i vigneti dalle perturbazioni che arrivano da est e la collina di Montalcino li protegge dai venti del nord». Quali immagini evoca il sapore di un eccellente Brunello? «Degustando il nostro Brunello di Montalcino a occhi chiusi vedi scorrere nella mente tutti i colori e le immagini del magnifico territorio toscano, e ti sembra quasi di annusarne i profumi. Non puoi non sentirti contagiato da un senso di calma e di pace». Quali regole bisogna seguire per conservare al

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meglio il vostro Brunello? Insieme a quali sapori del territorio consigliate di metterlo in tavola? «Come tutti i grandi vini rossi da invecchiamento, anche il Brunello richiede la conservazione in posizione orizzontale, in ambiente privo di rumori e di luce, a temperatura costante, più vicina possibile ai 14° centigradi. Il suo gusto si sposa perfettamente con la cacciagione e le carni rosse in arrosto, con condimenti di carne, funghi e tartufo bianco».

In basso, Paolo e Lucia Bianchini, titolari dell’azienda Ciacci Piccolomini d’Aragona

Qual è la situazione del mercato nel settore? Quali sono le aree nelle quali il prodotto è particolarmente apprezzato? «La nostra produzione, superata la crisi economica che ha coinvolto anche il nostro settore, continua ad essere richiesta dai tradizionali mercati, come Stati Uniti, Canada, Europa, e ha sempre

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IL ROSSO SENESE Tenuta Ciacci Piccolomini d’Aragona

RISERVA VIGNA DI PIANROSSO SANTA CATERINA D’ORO BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG · Affinamento in bottiglia: superiore a 12 mesi · Aspetto: colore rosso rubino, tendente al granato · Profumo: profumi intensi, ampi e complessi. Fruttato, speziato, talvolta etereo; le note di frutta matura a bacca rossa si armonizzano piacevolmente con molteplici speziature · Sapore: al gusto è caldo, armonico, con tannini pronunciati ma morbidi · Servizio: a 18°, stappare un’ora prima della mescita e servire in calice di cristallo a forma “ballon”

• più successo nei paesi emergenti dell’Asia, dell’Estremo Oriente e dell’Oceania».

Il monte Amiata ripara i vigneti dalle perturbazioni che arrivano da est e la collina di Montalcino dai venti del nord Ottobre 2010

C’è un premio tra quelli ricevuti per il suo Brunello al quale si sente particolarmente legato? «Mi sento particolarmente legato al premio Internazionale Santa Caterina d’Oro, ricevuto da mio padre Giuseppe. Nel 2004, poco prima della sua scomparsa, è stato premiato per aver creato un’azienda modello, di livello mondiale,

dando sviluppo e occupazione e contribuendo a dare lustro al comune di Montalcino. Io e mia sorella Lucia abbiamo quindi deciso di nominare Santa Caterina d’Oro la produzione del nostro vino più prestigioso, la Riserva Vigna di Pianrosso». Quali i progetti e le prospettive di sviluppo dell’azienda per il futuro? «Semplicemente continuare a produrre un Brunello di Montalcino tradizionale, rispettoso della storia del territorio e della classicità del made in Italy».

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il rosso “frutto di Bacco” MODERNISTA E CLASSICA AL TEMPO STESSO, BARBARA WIDMER E LE ETICHETTE DI CASA BRANCAIA TESTIMONIANO UN LAVORO, QUELLO DEL VITICOLTORE, SENTITO COME PRIVILEGIO

di Adriana Zuccaro

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l prestigio di un vino come il Chianti è riconoscibile ai palati di tutto il mondo. Ma il preludio che annuncia la conquista di autentici “frutti di Bacco” è già nella terra. Perché sempre, e senza eccezione alcuna, «i grandi vini nascono solo da uve perfette». Ne è convinta testimone Barbara Kronenberg-Widmer che dirigendo da anni i poderi Brancaia, nel cuore del Chianti Classico, e il Brancaia in Maremma, tra colline di vigneti esposti a sud a guar-

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dare il mare, ha rafforzato, anno dopo anno, l’identità di un’etichetta che “distilla” storie di lavoro, di passione e prelibatezza. Cosa rappresenta per lei un grappolo d’uva? «Per me l’uva è vino, naturalmente. Ma fare vino, più che una professione, è un privilegio che si vive seguendo nel corso dell’anno un processo di produzione delicatissimo. Si vedono crescere e maturare

le uve, il mosto fermenta fino a diventare vino, si assiste al suo imbottigliamento, all’etichettatura, per poi scoprirlo nella carte des vins di un ristorante. Si tratta di un lavoro affascinante e variegato, ma anche molto difficile e sicuramente non romantico. Trovo invece che bere vino sia un’esperienza molto legata agli stati d’animo di chi solleva il calice». Cosa distingue i vini Brancaia? «Non facciamo alcun compromesso

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NEL CUORE DEL CHIANTI Poderi Brancaia

BRANCAIA IL BLU - IGT ROSSO TOSCANA · Uvaggio: 50% Sangiovese, 45% Merlot, 5% Cabernet · Gradazione alcolica: 14,5% volume · Temperatura di fermentazione: 30-32°C · Invecchiamento: 20 mesi in barriques. Segue un affinamento di 4 mesi in bottiglia · Abbinamenti: Piatti dai sapori marcati, carni rosse come manzo o agnello, selvaggina arrosto o in umido, selvaggina a carne rossa come piccione o fagiano

Barbara Widmer dirige le attività di Casa Brancaia, in Castellina in Chianti e in Radda in Chianti www.brancaia.it

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sulla qualità. Io e Martin Kronenberg-Widmer, insieme al team, lavoriamo costantemente, giorno dopo giorno, per raggiungere grandi obiettivi. Quando abbiamo iniziato nel 1981 non avevamo alcuna storia alle spalle, ma un grande entusiasmo. Così ad esempio abbiamo imbottigliato per la prima volta nel 1988 il nostro vino di punta, Il Blu, con quella che oggi è la tipica etichetta Brancaia: a quel tempo, molto moderna e inconsueta per molti consu-

matori. Dopo 20 anni l’etichetta è ancora moderna, ma anche elegante, intramontabile, un classico. Ed è proprio così che vediamo anche noi stessi. Modernisti, al tempo stesso classici, con un grande rispetto per il terroir». Dopo undici assegnazioni dei Tre Bicchieri del Gambero Rosso e dopo esser stati inseriti più volte nell’annuale top ten di Wine Spectator, come definirebbe la

formula che trasforma un vitigno in un buon vino? «La posizione, il suolo, il microclima, il vitigno, il clone, il lavoro, la resa e molti altri fattori contribuiscono alla creazione di un grande vino. Alcuni di essi sono sempre strettamente collegati alla natura. Ma per gli altri, in cui possiamo intervenire, il motto più importante a Brancaia e Brancaia in Maremma è “la migliore qualità possibile”. Bisogna procedere verso quella mèta senza compromessi. Riflettere sulle decisioni da prendere, rispondendo alle situazioni create di volta in volta dalle diverse annate. Non ci sono scelte giuste o sbagliate in assoluto, ma una regola imprescindibile: i grandi vini nascono “solo” da uve perfette». Vino e non solo. Casa Brancaia produce anche olio e grappa. «Per entrambi i prodotti applichiamo gli stessi criteri di qualità che seguiamo per il vino. La grappa, prodotta dalle migliori vinacce de Il Blu chiude la filiera di produzione. La distillazione viene effettuata in un impianto a vapore discontinuo, un procedimento artigianale che garantisce la miglior qualità del prodotto. L’affinamento poi in fusti di legno dona alla grappa Brancaia uno stile morbido e raffinato». E per l’olio? «L’olio è nella tradizione toscana da sempre, è parte integrante della cultura e del paesaggio stesso. Coltiviamo le varietà più tradizionali del Chianti: Moraiolo, Leccino e Frantoio, che vengono poi frante a freddo per preservare intatte le qualità organolettiche».

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Il Brunello di montalcino TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE, LA STORIA DELLA FAMIGLIA CIACCI. DOVE PASSIONE, ESPERIENZA E LAVORO DI SQUADRA DANNO VITA AL BRUNELLO DI MONTALCINO

di Giulio Conti Gusto • 172

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DALLE TERRE DI MONTALCINO Il Brunello

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a storia di Collosorbo nasce nel 1995 dalla divisione ereditaria dell’azienda di famiglia, presente a Montalcino e dedita alla coltivazione di cereali, oliveti e vigneti fin dal 1850. «La prima bottiglia di Brunello – racconta Giovanna Ciacci, attuale proprietaria della tenuta – è stata prodotta da mio padre Giuseppe Ciacci nel 1966 quando ancora si imbottigliava a mano e si attaccava l’etichetta con colla e pennello». Da allora molte cose sono cambiate: l’ammodernamento tecnologico sia in campagna che in cantina, nonché la ristrutturazione di molti fabbricati hanno permesso di razionalizzare tempi e spazi e di raggiungere obiettivi qualitativi sempre migliori, anche se le radici antiche che affondano nell’esperienza di vita vissuta e tramandata per generazioni sono vive e tangibili tutt’oggi. «La raccolta delle uve avviene ancora rigorosamente a mano dopo una severa selezione dei grappoli migliori, l’invecchiamento in legno è tradizionalmente affidato a grandi botti di rovere di Slavonia, il rispetto dell’ambiente e del paesaggio è da sempre considerato prioritario». Non a caso la scelta coraggiosa di investire grossi capitali nella realizzazione della cantina interrata o di consociare alcuni nuovi vigneti con i vecchi oliveti aziendali per

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salvaguardare il valore delle olivastre tipiche della bellezza del paesaggio toscano o ancora di scavare manualmente nel tufo per ristrutturare un antichissimo sotterraneo che oggi ospita l’invecchiamento del Brunello Riserva. Da queste scelte affiorano la forza e il carattere di Giovanna e delle sue figlie, Lucia e Laura, tre donne che prima di tutto credono nel lavoro di squadra. Giovanna si occupa della direzione generale dell’azienda, Lucia, agronoma, si prende cura dei vigneti, Laura, enologa, segue gli aspetti di cantina affiancata dalla consulenza di Paolo Caciorgna, stimato professionista ed amico, tutte e tre sviluppano insieme i contatti commerciali e le strategie di marketing; e poi ancora Daniele Guidotti, prezioso capo operaio e cellar master che lavora con la famiglia Ciacci da più di vent’anni, e un team di validi collaboratori che si occupano dell’ufficio, della campagna, della cantina respirando “aria di casa”. In quest’atmosfera, grazie al lavoro congiunto di tante mani e menti che operano insieme, nascono i vini di Collosorbo: il Brunello e il Rosso di Montalcino, tradizionali ed eleganti, e il Sant’Antimo Rosso, ultima scommessa aziendale, un blend di varietà internazionali , «un vino giovane e per i giovani, facile da bere e accattivante allo stesso tempo».

Giovanna Ciacci, proprietaria e conduttrice della Tenuta di Collosorbo sita a Castelnuovo dell’Abate, Montalcino (SI) www.collosorbo.com

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DALLE TERRE SENESI Olio e vino

Siena tra uliveti e cantine DENTRO L’AZIENDA AGRICOLA LA SOVANA PER RIPERCORRERE LA FILIERA DELL’OLIO DI QUALITÀ. EXTRAVERGINE E RIGOROSAMENTE SENESE

di Paola Maruzzi


DALLE TERRE SENESI Olio e vino

UN TRITTICO D’ECCEZIONE La gestione completamente manuale del verde, associata a un severo diradamento in fase di invaiatura dei grappoli, porta a ottenere rese intorno a 700/800 grammi per ceppo. La raccolta manuale dell’uva è fatta in piccole cassette. L’uva diraspata e selezionata in un doppio nastro di cernita cade per gravità all’interno dei serbatoi dove effettua una macerazione a contatto con le bucce per circa 25-30 giorni. Al termine di questa fase il vino viene travasato in botti grandi e piccole, con adeguato rapporto nuovo/usato a seconda dell’annata, dove svolgono fermentazione malolattica. Il vino assemblato e riportato in legno per un ulteriore anno di maturazione, prima di essere immesso al consumo viene affinato in bottiglia per circa 12-18 mesi. www.lasovana.com - www.lebuche.eu

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a verità è che assaporiamo i cibi attraverso i sensi. E paradossalmente la percezione meno rilevante è proprio quella del gusto. Fin qui niente di nuovo. I guru del marketing lo ribadiscono almeno sin dagli anni Sessanta. Così i consumatori di ieri e di oggi finiscono per scegliere i prodotti in base all'appetibilità delle confezioni, sempre più patinate. Alla semplice domanda se esista ancora una dottrina alimentare che riporti il palato al centro del mangiar sano, Giuseppe e Riccardo Olivi, titolari di una piccola azienda agricola del senese, rispondono tirando in ballo le certificazioni. «Funzionano da spartiacque e rendono riconoscibile la qualità, connotandola geograficamente e chiamandola per nome. Il

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“marchio di fabbrica” del nostro olio extravergine d'oliva è il Dop Terre di Siena». Per l'olio La Sovana il riconoscimento ufficiale arriva nel 2007 e insieme all'orgoglio di vedere consacrato un prodotto locale, ha portato anche un sensibile incremento nelle vendite. «Negli ultimi anni sta prevalendo un'attenzione inedita verso ciò che portiamo a tavola. È una sorta di ritorno alla “purezza” dei cibi genuini. E la filiera dell'olio ha saputo cogliere questa inversione di tendenza. Così la possibilità di coltivare gli olivi, e per di più avere a disposizione un frantoio, sono diventati dei privilegi molto apprezzati, che hanno ridato nuovo smalto al made in Italy». Insomma giocare su piccola scala può rivelarsi una mossa quanto mai azzeccata.

«Questo ci permette di lavorare il raccolto giornalmente, monitorando le basse temperature. Preferiamo puntare sulla qualità a scapito della quantità. Inoltre non trattiamo chimicamente le piante e questo ci permette di fare un’olivicoltura paragonabile a quella biologica». A detta di Giuseppe e Riccardo Olivi i consumatori autoctoni sono abbondantemente convinti, ma La Sovana pensa all'export. «Il nostro prossimo obiettivo sarà colpire i palati stranieri». E se l'extravergine non dovesse bastare a portare in giro per il mondo i prodotti toscani, a completare il quadretto idilliaco (questa volta è proprio il caso di dirlo) ci sono i vini: Tempore, Memento e l’autoctono Pugnitello formano il trittico di punta.

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DALLE TERRE SENESI Franco Bardi

oliva dopo oliva IL DOP TERRE DI SIENA INCORONA L’OLIO DI FRANCO BARDI. INTERAMENTE RACCOLTO A MANO. E GERARD DEPARDIEU SE NE LASCIA CONQUISTARE

di Paola Maruzzi Gusto • 176

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DALLE TERRE SENESI Franco Bardi

«È

l’umanità della gente di campagna che fa la ricchezza del paesaggio italiano, è una cosa di cui sono profondamente convinto perché in Italia ho sempre incontrato tanti contadini e piccoli produttori con un grande cuore, che amano il loro lavoro». Lo ha dichiarato in un’intervista Gerand Depardieu, la cui passione per la buona cucina pareggia quella per il cinema. E lo conferma fieramente anche Franco Bardi, che in queste parole si sente direttamente coinvolto. Svela infatti di aver ospitato, nel novembre dell’anno scorso, il noto attore nella sua casaazienda toscana, ubicata sulle colline di Trequanda, precisamente in località Petroio. Qui, gomito a gomito, per tre giorni, i due hanno seguito le fasi di raccolta e spremitura delle olive. Bardi ripercorre sul filo della memoria quell’inaspettata avventura, soffermandosi sullo stupore infantile di Depardieu nell’assistere al processo di estrazione a ciclo continuo. «Ne è nata un’amicizia, che dura tuttora. E non è un caso che il mio extravergine finisca dritto sulle tavole del ristorante parigino di Depardieu. Questo mi fa pensare che il buon cibo sia una forma d’arte». Dopo quest’affermazione viene quindi spontaneo puntare i riflettori sul vero protagonista di questa vicenda. Multipremiato e tenacemente attaccato al suo lembo di terra. È il primo identikit dell’extravergine Bardi e, di rimbalzo, di un modo di fare agricoltura che è rimasto fedele nel tempo. «Manualità, è questo il nostro

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“marchio” di fabbrica. Pur essendo consapevoli che la raccolta meccanica sia indubbiamente più veloce, noi preferiamo farlo a mano». Nelle terre di Bardi 2.800 piante d’olivo sono in grado di produrre 72 preziosissimi quintali di olio extravergine, destinati sia alla Dop Terra di Siena che all’Igp Toscano. «Molti pensano che la certificazione sia superflua tanto è forte il marchio di qualità del nostro territorio» scherza Franco Bardi. E intanto lascia trapelare l’orgoglio di appartenere a una categoria di agricoltori “vecchio stile”. Il Consorzio per la tutela dell’olio extravergine, Terre di Siena appunto, è nato 1998 proprio con lo scopo di ereditare questo patrimonio. Oggi le aziende associate sono 450, di cui 210 contano su un sistema di controlli grazie al quale sono in grado di piazzare sui mercati, locali e non, il prestigioso marchio Dop.

«L’etichetta è in grado di garantire non solo la qualità dell’olio, ma anche un modus operandi che affonda le sue radici nella tradizione». Il Consorzio ha provveduto alla nomina di un agente vigilatore che, in collaborazione con il competente ufficio del Servizio Repressione Frodi, svolge la propria attività ispettiva a garanzia del rispetto delle disposizione contenute nel disciplinare di produzione. Questa è la cornice istituzionale all’interno della quale si trovano tante realtà agronomiche differenti. Nel caso dell’ extravergine è sempre l’esperto Franco a condurci attraverso le specificità sensoriali dell’olio. «Si presenta alla vista limpido, di un bel colore verde e con riflessi dorati. Al naso il profumo è fruttato, richiama l’erba e il carciofo. In bocca torna il frutto, l’amaro si evolve fino al piacevole piccante di chiusura». È sufficiente fermasi qui.

In apertura, Franco Bardi oliobardi@hotmail.com

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il monastero dei sapori INTORNO AL COMPLESSO MONASTICO DI MONTE OLIVETO MAGGIORE, LA TERRA PRODUCE DELIZIE E RACCONTA SECOLI DI STORIA. DON GIACOMO DESCRIVE L’ESSENZA DI QUEI COLLI DELLE CRETE SENESI

di Belinda Pagano Gusto • 178

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TRA STORIA E SAPORI Il monastero di Monte Oliveto Maggiore

A

sentir parlare don Giacomo si viene catapultati in una realtà diversa da ciò che la vita di città impone. Il portavoce della Congregazione Benedettina Olivetana, con semplici parole, riesce a riportarci nel passato, dove il rispetto della natura era concepito quale necessario elemento per la sopravvivenza dell’essere umano. Camminando tranquillamente per il grande complesso monastico di Monte Oliveto Maggiore, ci si sente sopraffatti dalla storia, da ciò che poteva essere la vita di un tempo, e viene voglia di tuffarsi nel passato per ritrovare i sapori di una volta. «L’abbazia fu fondata agli inizi del XIV secolo – spiega don Giacomo – ed è così estesa che potrebbe sembrare una vera e propria città. Ma una volta questo territorio non aveva le peculiarità di oggi; bisogna figurarselo semideserto, senza popolazione né campi coltivati. Oggi invece il monastero è circondato da vigneti, uliveti, campi e boschi che dissimulano profondamente la paesaggistica di un tempo». Le parole del padre benedettino ci guidano fra i vari complessi stuzzicandoci voglia di conoscenza, desiderio di saperne di più. «L’azienda agricola si trova all’interno del complesso monastico e risale addirittura al 1319. Oggi consta di ottocentocinquanta ettari di terreno, di cui metà sono boschi, pascoli,appezzamenti incolti e fabbricati, mentre l’altra metà è coltivata». Basta alzare lo sguardo verso i campi per rendersi conto della va-

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In apertura, panoramica del complesso monastico della Congregazione Benedettina Olivetana. Sopra, la cantina

stità dell’azienda. L’occhio viene subito catturato dai regolari vigneti che si estendono nella frazione di Chiusure di Asciano e invogliano, semplicemente osservandoli, a camminare lungo i filari, a toccare con mano le differenti uve, ad assaggiarne ogni singolo chicco. Un’aria diversa, intrisa di profumi e storia, si ritrova invece all’interno della cantina situata nei sotterranei del monastero, un luogo che suscita ricordi di culture antiche ancora oggi vivide nella quotidianità dell’azienda agricola. «All’abbazia appartiene una lunga tradizione di produzione del vino e ne è testimonianza la costruzione in mattoni “faccia a vista” della cantina trecentesca. L’abbazia, infatti, è stata il punto di riferimento e di raccolta, non solo delle proprie uve ma anche di quelle prodotte dai conta-

dini della zona – precisa don Giacomo –. La viticoltura del nostro territorio ha subìto nel corso dei secoli diversi mutamenti pur continuando a rappresentare una delle più importanti attività agricole del luogo». Nel 2002 è stato avviato un programma di rinnovo e incremento dei vigneti; sono state messe a dimora nuove barbatelle di Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot e Vermentino. «Nuovi impianti realizzati con la tecnica della moderna viticoltura ci regalano vini che si sposano a meraviglia con la cucina tipica toscana e con molti dei piatti della gastronomia italiana». Ma non è solo dai vigneti che la nostra curiosità è catturata: cinquemila piante di olivo dal fascino contorto e delicato, su una superficie di venticinque ettari, che si estendono

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TRA STORIA E SAPORI Il monastero di Monte Oliveto Maggiore

Scorcio di un cortile dell’abbazia - www.agricolamonteoliveto.com

colline senesi. «L’olivo è la • sulle pianta caratteristica della nostra campagna e ha un ruolo fondamentale: non solo fornisce olio eccellente ma è coltura integrante e radicata nel paesaggio». La raccolta delle olive, spiega pazientemente don Giacomo, viene ancora oggi effettuata a mano «con l’ausilio di scale, pettini e reti, l’olio viene estratto con metodo di spremitura “a freddo” e ha ottenuto il marchio Agriqualità della Regione Toscana. Un olio che possiede un flavor di fruttato di oliva verde; una leggera nota di amaro e di piccante delizia i palati più ghiotti». Il padre benedettino spiega inoltre come l’azienda agricola si occupi anche della coltivazione del terreno. «Ogni anno un terzo della superficie aziendale viene seminata, a rotazione, con il farro, o più

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specificatamente, con il “tritticum dicoccum” che si distingue dalle altre qualità per le dimensioni del chicco più grosse e per la tenuta in cottura». Ma non è finita qui. Si ritrovano grano duro e tenero, cece, orzo, favino, girasole ed erba medica, senza contare i quaranta profumati ettari riservati alla raccolta dei tartufi. Una varietà infinita di prodotti della terra, dunque, che hanno nella loro coltivazione radici storiche antiche e tradizioni secolari che emergono sia dal loro sapore che dall’ambiente circostante, intriso di storia e di fascino. «Ultima, ma non meno importante considerazione – precisa Don Giacomo –, è che la nostra azienda applica un modello di agricoltura rispettoso delle risorse naturali e della conservazione delle biodiversità. I principi su cui si basano le operazioni

colturali consentite sono ispirati al contenimento dell’erosione e al mantenimento della fertilità del terreno attraverso rotazioni delle colture e sovesci, riducendo le fertilizzazioni con prodotti di sintesi e il diserbo chimico». E se proprio non si riesce ad allontanarsi da questo storico complesso abbaziale, un antico casolare dell’abbazia è stato arredato e sistemato per accogliere chi è desideroso di fermarsi a dormire. «L’agriturismo, nel rispetto dell’antichità, è fedele alla tradizione mantenendo il gusto dei vecchi casali toscani, immersi nella natura e nella tranquillità». Collocato all’interno della cerchia del borgo di Chiusure, l’agriturismo è un mélange perfetto di storia e natura, regalando, con le sue antiche mura, magie di tempi andati e, con il suo belvedere, panorami mozzafiato.

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TRA STORIA E SAPORI Andrea Ricci

Dalla tavola degli antichi romani

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TRA STORIA E SAPORI Andrea Ricci

IL POLLO IN GALANTINA È UNA SPECIALITÀ CHE AFFONDA LE SUE RADICI NELL’ANTICA ROMA. OGGI, ATTRAVERSO UNA SAPIENTE PREPARAZIONE, VIENE PROPOSTO ANCHE ALLA GRANDE DISTRIBUZIONE. I METODI DI ANDREA RICCI

di Ezio Petrillo

G A sinistra, Andrea e Giuliano Ricci all’interno del salumificio Ricci specializzato nella produzione del pollo in galantina salumificioricci@libero.it

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ià presente nei superbi banchetti che deliziavano il palato degli antichi romani, il pollo in galantina affonda le sue radici in duemila anni di storia. Si narra infatti che Marco Gavio Apico gaudente patrizio romano, in una delle sue ricette gastronomiche, abbia tramandato un piatto a base di pollo ripieno, presente sulle tavole “dispendiose” e superbe dei grandi signori di allora. Dalla Roma dei patrizi ai nostri tempi, è rimasto intatto il fascino di un prodotto particolarmente elaborato che richiede una preparazione non semplice in cui la qualità delle materie prime gioca un ruolo fondamentale. Il salumificio Ricci oggi propone la preparazione artigianale del pollo in galantina, seguendo trattamenti rispettosi delle tradizioni più autentiche. «Il salumificio – spiega Andrea Ricci - è una piccola azienda a conduzione familiare, tutti i prodotti vengono elaborati artigianalmente. Siamo specializzati, in particolar modo, nella produzione del pollo in galantina. Grazie alla cura dei metodi

di preparazione, anche la grande distribuzione si è interessata a questa specialità». Devono essere diverse le caratteristiche qualitative da mettere in risalto quando si realizza un prodotto così particolare. «Il fattore principale – specifica Ricci - è l’accurata scelta della qualità della carne. Il sapore deriva tutto dalla capacità di scelta delle materie prime che costituisce la base di ogni produzione di qualità». La provenienza italiana è un rigido canone da rispettare per garantire un

prodotto di elevata qualità. «La carne usata è obbligatoriamente nazionale. La lavorazione viene effettuata manualmente e inoltre, il pollo è privo di coloranti. Nella preparazione va disossato, prima di tutto. Si rovescia proprio come un guanto, e nella parte rovesciata si mette sale e pepe. Per il ripieno, poi, ognuno ha una sua ricetta personalizzata. Gli ingredienti principali sono comunque petto di pollo, polpa di maiale macinato, uova, sale, pepe e funghi porcini, carote, parmigiano reggiano».

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CHEF REALI Enrico Derflingher

alla corte

della regina DA UNA PICCOLA LOCANDA SUL LAGO DI COMO ALLA CORTE DI RE E PRINCIPESSE. LO CHEF ENRICO DERFLINGHER HA REALIZZATO IL SUO SOGNO

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CHEF REALI Enrico Derflingher

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resciuto nelle cucine stellate internazionali più importanti, Enrico Derflingher è tra i più famosi chef al mondo. Nato nel lecchese, classe 1962, già da piccolo armeggiava tra le pentole della locanda da sempre proprietà di famiglia, a Fiumelatte, sul lago di Como. «Proprio lì è cresciuta la mia passione per la cucina» rivela. Passione che a soli 26 anni lo ha portato alla corte di Carlo e Diana di Inghilterra, scelto tra migliaia di aspiranti. Oggi gestisce 25 ristoranti, ed è, tra l’altro, lo chef patron dell’Armani Ginza Tower di Tokyo, tempio di “Re” Giorgio, Armani appunto. La sua cucina, amata in tutto il mondo, è la quintessenza dell’italianità. «Utilizzo solo prodotti tipicamente italiani, ingredienti

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che seleziono personalmente» garantisce, tradendo un pizzico d’orgoglio, indubbiamente meritato, visto il suo ruolo internazionalmente riconosciuto di ambasciatore della migliore tradizione culinaria italiana nel mondo. Da responsabile delle cucine della casa reale inglese lei è stato il primo cuoco italiano dopo una tradizione culinaria tutta francese. Cosa è stato apprezzato maggiormente della sua cucina? «Avevo 26 anni, e avevo fatto la gavetta in giro per il mondo. Avevo lavorato in posti come il Cipriani, il Villa San Michele, lo Splendido. Ero stato in Sardegna per l’Aga Khan e in dieci ristoranti tre stelle Michelin. Durante un concorso, sono stato selezionato per andare a lavorare

In apertura, Enrico Derflingher ai fornelli; in questa pagina, due piatti preparati dallo chef

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CHEF REALI Enrico Derflingher

• come chef personale dei principi del Galles, a Kensington Palace. Sono stato il primo italiano a lavorare lì. Il principe Carlo è un amante dell’Italia e, con quella scelta, aveva deciso di dare una svolta alla tradizione, puntando sulla cucina italiana piuttosto che su quella classica. Lì sono stato sei mesi in qualità di secondo chef e poi sono stato promosso come responsabile di Kensington Palace. L’anno dopo sono diventato responsabile di tutte e sei le cucine della Casa reale. Sono stati tre anni fantastici in cui, al seguito dei principi, ho girato il mondo in tutte le visite di Stato. Ho realizzato cene molto belle in onore dei Reali delle altre case regnanti, da

quelli di Spagna a quelli di Giordania, Belgio, Norvegia. Ho portato loro la mia cucina». Come si decide il menu di un grande evento della Casa Reale? «Dipende. A volte capita di cucinare per due persone, altre per i duemila ospiti di un garden party. Quando ci sono cene ufficiali cui partecipano altri reali, tramite ambasciata si trasmettono liste prestabilite dove vengono indicati i cibi che un ospite non gradisce o a cui è allergico. Una volta saputo questo, si prepara una proposta di menu e la si scrive su di un libro che si chiama “royal book”; a quel punto, il responsabile dell’household, che in quel caso

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CHEF REALI Enrico Derflingher

• era la principessa Diana, sceglie tra le proposte i piatti da preparare. Vengono dunque stampati i menu che, in seguito, sono archiviati».

Dall’alto, la regina Elisabetta II d’Inghilterra, George Bush e Gorbachov lo chef con Giorgio Armani

Qual è stato il menu che le è rimasto nel cuore? «Potrei dire l’ultimo, quello che ho preparato per la cena di chiusura dei mondiali in Sud Africa all’interno dello stadio, alla presenza di Nelson Mandela. Ma, in realtà, sono tantissimi. Da quello che ho preparato al G8 l’anno scorso a L’Aquila a quello per il presidente Napolitano quando è venuto a Tokyo. Tuttavia, a pensarci bene, il menu per me memorabile fu quello che preparai in occasione della prima volta in cui un presidente americano, Ronald Reagan, incontrò un presidente russo, Mikhail Gorbaciov, a

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Buckingham Palace. A quella cena c’era anche l’allora vicepresidente George Bush senior, per il quale poi sono andato a lavorare». Si ricorda le portate che preparò per l’occasione? «Un antipasto a base di fiori di zucca, con ricotta, olive nere e olio extravergine di oliva; tagliolini con scampi, zucchine e pomodorini; per secondo, una costoletta di agnello proveniente dall’allevamento dei principi e, per finire, un semifreddo alla

In tutte le cucine del mondo preparo solo piatti italiani e solo con prodotti del nostro Paese che seleziono personalmente Ottobre 2010

crema con ciliege». Qual è il suo piatto che ha riscosso maggiore successo tra i Reali? «Non un piatto solo, ma una filosofia di cucina dove ogni pietanza è preparata con quattro o cinque ingredienti al massimo, tutti freschissimi, e il cui sapore è singolarmente distinguibile, anche masticando ad occhi chiusi. In tutto, un migliaio di ricette che ho portato in giro per il mondo». Qual è il suo piatto preferito? «Spaghetti, pomodoro e basilico». C‘è un legame tra i prodotti della sua terra d’origine e la cucina che propone? «Assolutamente sì. In tutte le cucine del mondo preparo solo

piatti italiani e solo con prodotti del nostro Paese che seleziono personalmente e che, tra l’altro, hanno il mio marchio». Quali sono i suoi prossimi progetti? «Attualmente, gestisco 25 ristoranti, compreso il ristorante di Giorgio Armani a Tokyo, all’ultimo piano dell’Armani Ginza Tower. Disegnato da Fuksas, recentemente è stato premiato come uno tra i migliori dieci ristoranti dell’Asia. Il primo dei miei ristoranti è stato aperto quattro anni fa in Giappone e si chiama “Officina di Enrico”. Adesso sto lavorando per aprire un’altra “Officina di Enrico” a Mosca, per un personaggio molto importante, e poi una collaborazione con il re di Abu Dhabi».

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L’ARTE DEL RICEVERE Xavier Salmon

I banchetti del Re Sole A VERSAILLES, ALL’EPOCA DI LUIGI XIV. DOVE IL SOVRANO ANIMAVA LA CORTE CON RICEVIMENTI MEMORABILI, OGGI RIEVOCATI DA XAVIER SALMON

di Lara Mariani

L’

Europa è piena di memorie storiche e gastronomiche da sviscerare. Tradizioni che nei secoli in alcune zone sono state trascurate, dimenticate. Non in Francia, dove Parigi e Versailles sono stati fondamentali epicentri di creatività artistica e gastronomica, la cui fama riecheggia ancora oggi. Perché già ai tempi di Luigi XIV, la cucina era un’espressione irrinunciabile dello splendore della cultura francese. Ed è proprio nella magnifica corte del Re Sole che ci addentriamo, attraverso le parole di Xavier Salmon, per ritrovare e ricostruire l’opulenza dei banchetti, la straordinaria varietà di pietanze e gli usi e costumi che accompagnavano ogni evento, comprese le rigide regole di etichetta che

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trasformavano tutti gli atti in presenza del sovrano in un cerimoniale quasi sacro. Come è rappresentata la vita alla corte di Versailles nelle creazioni artistiche? «I soggetti della vita di corte sono relativamente rari nella pittura al tempo di Luigi XIV ma più presenti nelle riproduzioni. Si registra però un’importante eccezione: su richiesta di Luigi XIV furono tessuti a partire dall’inizio del suo regno una serie di Arazzi chiamati “L’Histoire du Roy” che miravano a celebrare conquiste militari come l’assedio di Douai et de Lille e alti fatti politici come l’incoronazione e il matrimonio del sovrano». In queste occasioni si orga-

nizzavano anche feste e ricevimenti. «Le feste principali che animavano la vita di corte erano legate alla nascita, al matrimonio e alla morte. Anche il ricevimento di ambasciatori stranieri poteva dare luogo ad altrettante feste. Determinate stagioni erano poi contrassegnate da balli, rappresentazioni teatrali e concerti. Luigi XIV aveva inoltre istituito le serate da appartamento: riceveva di sera, più giorni alla settimana, i membri della corte organizzando divertimenti che si svolgevano nel salone del suo appartamento reale. L’anno era quindi continuamente puntellato da varie feste».

In apertura un interno della reggia di Versailles, scelta come residenza reale da Luigi XIV nel 1661

C’erano particolari regole di etichetta da rispettare?

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L’ARTE DEL RICEVERE Xavier Salmon

«Ogni avvenimento della vita del sovrano era oggetto di un’etichetta particolare che metteva in azione i membri della casa del re, permettendo a quelli che avevano acquisito incarichi presso la corte di esercitarli rispettando le severe regole di protocollo. La nascita non dava mai luogo alle stesse regole di un funerale, il ricevimento degli ambasciatori rispettava alcune istruzioni che erano differenti da quelle messe in campo per un ballo. Le memorie del duca di Saint-Simon o quelle del marchese di Dangeau sono brulicanti e ricche di aneddoti che riferiscono quanto ciascuno era impegnato a far rispettare le sue regole, le sue prerogative nell’ambito dell’etichetta». A parte i nobili residenti a

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Versailles chi partecipava ai ricevimenti? «I nobili e i cittadini erano regolarmente invitati alle feste di Versailles. La priorità era data ovviamente ai membri della corte e talvolta era necessario far evacuare alcuni spazi di Versailles invasi dai curiosi Parigini, affinché i cortigiani potessero prendere posto. Spesso era sufficiente essere vestiti correttamente e per gli uomini portare la spada al fianco, per poter assistere a questi avvenimenti. Decisamente pubblica, la vita di Luigi XIV si consegnava in tutto il suo complesso, sia nella dimensione ripetitiva e quotidiana sia nella dimensione festiva». Quali particolari cibi si preparavano durante i ricevimenti?

«La corte brulicava di assaggiatori, rosticcieri, salumieri, mercanti di prosciutto droghieri, fornitori di legumi, di verdure e di frutta. E poi burrieri, lattai e panettieri. Questi mestieri apparivano regolarmente nei documenti contabili. Le forniture più importanti riguardavano la rosticceria, il pesce, il vino e la carne».

Uno scatto tratto dal film Vatel, maestro di cerimonie morto suicida per non aver compiuto il suo dovere di cuoco

Quali carni erano più apprezzate? «Il manzo, il vitello e il montone erano i più consumati. La carne era presente anche nel brodo, nelle minestre, nel paté e nei ragù. Mentre la carne di porco è sparita progressivamente dalla tavola del re, esclusi il lardo, i maialini da latte e il prosciutto, il pollo, le galline, il cappone, l’ana-

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L’ARTE DEL RICEVERE Xavier Salmon

Xavier Salmon, oggi direttore del patrimonio e delle collezioni del castello di Fontainebleau, è stato curatore di Versailles dal 1993 al 2006

Decisamente pubblica, la vita di Luigi XIV si consegnava in tutto il suo complesso, sia nella dimensione ripetitiva e quotidiana sia nella dimensione festiva tra e i piccioni erano molto apprezzati. Il tacchino in particolare era riservato alle feste. Le spezie di provenienza orientale, lo zucchero, i grassi vegetali e il formaggio apparivano sulla tavola del sovrano tutti i giorni, così come nelle feste». Invece la preparazione degli altri alimenti come veniva gestita? «Il panettiere era istallato direttamente al castello e lavorava soprattutto il pane di frumento, che era allora considerato il migliore. Luigi XIV mangiava soprattutto la mollica perché aveva una cattiva dentatura. Frutta e legumi venivano soprattutto dall’orto del re diretto da La Quintinie. Cavoli, broccoli, funghi, cardi, carciofi e piselli provenivano dall’Italia, mentre fragole

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e aspargi erano coltivati a Versailles in serre calde. Gli ortaggi e la cacciagione costituivano l’insieme dell’approvigionamento delle cucine». C’erano particolari tecniche per la conservazione delle vivande? «Il cibo era conservato nelle cucine o negli spazi nel seminterrato ventilati, che beneficiavano dell’adduzione idrica e permettevano di conservare le derrate deperibili. L’acqua era conservata nelle fontane di stagno dove la sabbia aiutava il filtraggio». E cosa si beveva abitualmente alla corte? «Il vino dominava rispetto all’acqua che proveniva dalle sorgenti de

la Bièvre. I vini della zona dello Champagne e della Borgogna erano i più prezzati a Versailles. Mentre vini meno pregiati erano serviti ai funzionari e ai personaggi secondari della corte. Liquori profumati e bevande ghiacciate erano molto alla moda a quei tempi». Quante persone erano coinvolte nell’organizzazione dei ricevimenti? «I banchetti erano organizzati dalla Maison de la Bouche du roi. La Bouche doveva assicurare l’approvvigionamento, la preparazione il servizio di tutto il cibo destinato al re, ai suoi figli, ai suoi invitati e ai suoi ufficiali. Sotto la direzione del grand maître de la Maison-Bouche lavoravano ben 500 persone, assistite da 160 ragazzi».

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Car l Warner

SCATTI DA GUSTARE

L’arte del cibo SONO CHIAMATI FOODSCAPES, I GUSTOSI PAESAGGI ALIMENTARI DEL FOTOGRAFO CARL WARNER

di Francesca Druidi

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ampi di grano e farro, mari di salmone, città di formaggio. E poi nuvole di mozzarella, alberi di broccoli o peperoni, cespugli di prezzemolo e basilico. Non è un sogno. È l’invitante mondo dei “foodscapes”, nati dal connubio tra food, cibo, e landscapes, paesaggi, frutto della creatività del fotografo Carl Warner, che per molti anni ha lavorato nel settore pubblicitario e oggi è conosciuto in tutto il mondo grazie ai suoi innovativi lavori, raccolti nel libro Carl Warner’s Food Landscapes, in uscita a ottobre per Abrams. Warner utilizza prodotti culinari freschi - frutta, verdura, formaggi, pane, pasta - per comporre scenari alimentari in 3D di grande fascino e suggestione, fotografati a strati dal primo piano

fino allo sfondo, poi assemblati in fase di post-produzione e ritoccati digitalmente. Sono «un invito al sorriso – racconta Warner – ma soprattutto al mangiare sano». Perché ha scelto proprio il cibo come soggetto privilegiato del suo lavoro? «Nutro un grande amore per il cibo e mi piace mangiare, come del resto a molte persone. Ma il cibo per me rappresenta soprattutto un’importante fonte di ispirazione perché identifica una materia organica che presenta analogie con i più significativi aspetti del mondo naturale. Inoltre, le persone si relazionano facilmente al cibo e, di conseguenza, riconoscono l’inventiva in ciò che faccio apprezzando le abilità necessarie a creare questo tipo di immagini».

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Car l Warner

SCATTI DA GUSTARE

Come realizza i suo celebri paesaggi alimentari? «Il processo creativo inizia con un’idea, proveniente da un cliente oppure da qualcosa che vedo, sia questo un paesaggio particolare oppure ingredienti in grado di suggerirmi un’intuizione. Lo scenario prende così forma nella mia mente e poi lo riporto su carta sotto forma di schizzo. Da qui decido quali ingredienti saranno utilizzati e lavoro con il mio food stylist e con il realizzatore di modelli per costruire la scena sui grandi piani da lavoro nel mio studio. Questo può richiedere diversi giorni, dipende dalla

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complessità dell’immagine, e per gli scatti si procede a strati in modo da lavorare in maniera veloce con i prodotti freschi». Il volume Carl Warner’s Food Landscapes è appena uscito edito da Abrams. Quale tappa rappresenta nell’ambito del suo percorso? Sarà pubblicato anche in Italia? «Il libro costituisce una sorta di portfolio dei lavori che ho realizzato negli ultimi dieci anni, riunendo tutti i paesaggi alimentari più conosciuti e qualche novità. Le foto sono corredate dai miei commenti relativi a cosa le hanno

ispirate e sono accompagnate anche da alcuni schizzi. Il volume riporta, inoltre, dei dietro le quinte mostrando scatti in cui io e i miei collaboratori siamo intenti a costruire i set. Il libro è disponibile in Inghilterra su Amazon o sul mio sito internet (www.carlwarner.com), ma speriamo di trovare presto un editore italiano che ne acquisti i diritti». C’è un messaggio, una sensazione che cerca di trasmettere in particolare con i suoi scenari? «Mi piace far sorridere le persone.

Nella pagina precedente, Tuscan Kitchen; sotto, Cart Balloons, entrambe opere del fotografo Carl Warner

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Car l Warner

SCATTI DA GUSTARE

I paesaggi formati con il cibo sono bizzarri, estrosi e divertenti. Lo definisco il “piacevole inganno”: il mio lavoro diventa uno strumento per promuovere il mangiare sano, l’educazione nutrizionale e una corretta alimentazione. Sono felice che così i miei paesaggi possano rendere felice la gente, facendo al contempo qualcosa di buono e positivo per il mondo». In che modo è solito osservare e poi scegliere il cibo per le sue creazioni? «Vado personalmente a fare acquisti oppure incarico il mio food stylist di presentarmi più proposte tra le quali poter scegliere. Inoltre, frequento spesso mercati e ristoranti. Amo viaggiare e andare alla ricerca di nuovi ingredienti».

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Come si declina oggi la relazione tra arte e cibo? «Ritengo che il cibo sia uno degli aspetti maggiormente importanti delle nostre vite, delle nostre società e delle nostre culture. Celebrarlo nell’arte significa celebrare l’elemento primario che ci sostiene. Una cultura fondata sul mangiare sano identifica un mezzo capace di congiungere famiglie e comunità, offrendoci un senso di unità. Piaceri semplici quali coltivare il cibo, preparare un pasto e condividerlo con gli amici e le persone care, è ciò che ci unisce nella nostra umanità. Valorizzare questo attraverso i paesaggi alimentari, creati con il cibo che mangiamo, è per me una spontanea connessione fra la bellezza della natura e la sua generosità».

A fianco, il fotografo Carl Warner; sopra, la copertina del libro Carl Warner’s Food Landscapes (Abrams, 2010) che include tutte le immagini finora mostrate

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CIBO E ARTE Peter Weiermair

l’arte è servita ARTE E GASTRONOMIA SI INCONTRANO SIA SULLE TAVOLE DEI PITTORI SIA SU QUELLE DEI RISTORANTI. PETER WEIERMAIR SPIEGA COME LE OPERE RACCONTANO LE TRADIZIONI ALIMENTARI E COME I PIATTI DEGLI CHEF DIVENTANO PURA ARTE VISIVA di Nicolò Mulas Marcello

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In apertura, Natura morta con pappagallo di Jan Davidsz de Heem (1650); in questa pagina, Peter Weiermair, storico dell’arte, editore e curatore di mostre

l cibo ha sempre rivestito un ruolo importante all’interno dei riti umani. Un momento di aggregazione o di raccoglimento, di spiritualità o di abbondanza, significati che vanno al di là del semplice nutrimento. Nell’iconografia artistica il cibo interviene come celebrazione della realtà popolare, ma anche come simbolismo mistico fino ad arrivare alla pura filosofia come accade per l’ arte contemporanea. Dalle opulente e coloratissime tavole imbandite dei pittori fiamminghi ai barattoli di zuppa Campbell di Andy Warhol, passando per le nature morte quasi stilizzate di De Pisis, il racconto dei sapori rivive

attraverso l’arte e le sue innumerevoli espressioni. Le suggestioni visive evocate da un banchetto di corte riprodotto su un dipinto rappresentano anche una fonte storica che testimonia la disponibilità degli alimenti dell’epoca, i gusti alimentari e talvolta anche curiosità culinarie. Oltre la bellezza, è importante il valore simbolico che alcuni cibi e oggetti possono rappresentare. Duchamp, considerato uno dei padri fondatori della contemporaneità, in alcune sue opere disponeva concettualmente elementi gastronomici e Dalì diceva che “la bellezza sarà commestibile o non sarà”. Gli alimenti sono un leit motiv di

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CIBO E ARTE

Peter Weiermair

VIENNA: UNO SGUARDO AL CONTEMPORANEO Attraverso l’occhio dei suoi artisti la città di Vienna diventa oggetto di una interessante esposizione. Fino al 10 gennaio 2011 sono in mostra alla Galleria Marie-Laure Fleisch di Roma alcuni tra i maggiori protagonisti dell’arte austriaca contemporanea. «La mia idea – sottolinea Peter Weiermair, curatore della mostra dal titolo “Vienna” – è stata quella di confrontare una generazione come quella di Wurm e Rainer con quella di artisti più giovani». Il ritratto di Vienna che emerge dall’esposizione è quello di una città con un forte legame con la filosofia e con i cambiamenti culturali. Ed è proprio questa la tesi di Weiermair secondo cui l’arte contemporanea è profondamente influenzata dalla cultura del paese e dalla società. «Gli artisti più vecchi in questa mostra come Rainer partono dal dopoguerra e continuano le avanguardie dell’ ultimo secolo coniugando varie caratteristiche della cultura austriaca». La mostra presta particolare attenzione al disegno e ai lavori su carta ma dà spazio anche a un artista come Werner Reiterer che per

l’occasione ha creato un’installazione interattiva. «Reiterer invita il visitatore a essere attivo. Quando il visitatore urla c’è una lampada che accompagna questo suono. Lui è molto interessato a questa relazione tra suono e luce, dietro una forte base di psicologia». Tra le opere esposte ci sono anche quelle di Erwin Wurm che con il suo lavoro stimola la partecipazione psico-fisiologica del pubblico. E tra le generazioni più giovani troviamo artisti come Maria Bussmann e Michael Ziegler: «La Bussmann parte dalla conoscenza di Lichtenstein e dei filosofi francesi. Fa quasi un commento visuale di trattati filosofici. Mentre Ziegler parte dall’arte come una situazione post moderna, piena di citazioni e poi sente naturalmente il cambio del clima, ma è sempre presente quell’amore per la psicologia, per la relazione tra anima e corpo». La mostra rappresenta un’opportunità importante per conoscere le varie sfaccettature dell’arte contemporanea di Vienna, una città che continua ad avere un legame particolare con la filosofia.

• La cucina è un’espressione della cultura visiva, oltre che naturalmente del gusto

tutta la storia dell’arte e la rappresentazione artistica del cibo stimola in vari modi oltre alla dimensione visiva anche gli altri sensi così come ad esempio la gastronomia della cultura nipponica o la nouvelle cuisine diventano vera e propria arte in tavola. «Nel lavoro di preparazione e consumo del cibo – sostiene Peter Weiermair, storico dell’arte e editore – rivivono nozioni, concetti e atteggiamenti che possiamo ritrovare nelle arti della nostra cultura». Qual è il legame che c’è tra l’arte e il cibo?

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«Il cibo è espressione di cultura in tutti i Paesi. In Italia il cibo, che io come austriaco amo molto, è espressione di una tradizione storica della cultura, ma anche della cultura di oggi. Nella tradizione giapponese il cibo ha una grande qualità visuale, probabilmente più forte della qualità gastronomica dei piatti. Questo perché i cuochi nipponici riescono ad esempio a confezionare piatti che sembrano frutta, mentre invece si tratta di pesce oppure la carne dà l’illusione di essere verdura. In tutto il mondo, così come in Europa, e anche in Austria, la cucina è un’espressione della

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CIBO E ARTE

Peter Weiermair

Per Pierre Bonnard gli alimenti sono espressione di una vera e propria gioia di vivere

In alto, Peter Kubelka, regista sperimentale austriaco

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cultura visiva, oltre che naturalmente del gusto». C’è un artista o un’opera in particolare che riesce in maniera significativa a stimolare in qualche modo il gusto? «Penso in maniera particolare a Matthew Barney. Lui è per me una delle grandi figure che riescono a coniugare tanti elementi nella propria arte tra cui anche il cibo. Un altro nome è quello di Hermann Nitsch, artista molto conosciuto in Italia, che nel simbolismo delle sue rappresentazioni coinvolge anche l’atto di mangiare. Inoltre, anche la filosofia di Peter Kubelka. Lui è un filosofo della cucina, una grande figura austriaca, un regista sperimentale, è uno dei più

importanti personaggi della filosofia del gusto. Attraverso le sue performance Kubelka mostra come nel lavoro di preparazione e consumo del cibo rivivano nozioni, concetti e atteggiamenti che possiamo ritrovare nelle arti della nostra cultura». Lei ha organizzato a Bologna una mostra sulle nature morte dal titolo “La natura della natura morta”. Nelle nature morte il cibo ha un’importanza fondamentale. Qual è il significato degli ingredienti gastronomici che vengono rappresentati nell’arte? «Le nature morte storiche, ad esempio quelle dei paesi fiamminghi, hanno un contenuto filosofico come quello che appartiene al Ventesimo secolo.

Nell’arte del Novecento gli elementi venivano rappresentati più per la loro bellezza. Prendiamo Morandi o De Pisis, per loro la bellezza è l’argomento, mentre invece per gli artisti spagnoli il tema è più filosofico: ogni frutto o elemento gastronomico è un simbolo, una metafora di qualcosa. Ci sono poi anche le nature morte della vanitas dove, ad esempio, viene rappresentato il formaggio non più mangiabile, cose che diventano marce, ecc. Questo per l’Ottocento non è valido. Gli artisti ottocenteschi hanno continuato nell’iconografia della natura morta classica. Pierre Bonnard, ad esempio, lui rappresenta gli alimenti e gli oggetti senza questi legami filosofici, ma come espressione di una vera e propria gioia di vivere».

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CHEZ TOGNAZZI Gian Marco Tognazzi

Uno chef in scena «IN CUCINA HO IMPARATO A CONOSCERLO E A CAPIRE COME DECLINAVA IL SUO MODO DI ESSERE NEL CINEMA E IN CUCINA». UN RITRATTO DI UGO TOGNAZZI DALLE PAROLE DEL FIGLIO GIAN MARCO

di Renata Gualtieri

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CHEZ TOGNAZZI Gian Marco Tognazzi

“L’

attore a volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere”, scriveva Ugo Tognazzi nel libro L’Abbuffone. «Senza l’una delle due passioni stava male. Aveva bisogno di stare con le persone, del cinema e non, di stare in cucina e inventare e divertirsi – ricorda il figlio Gian Marco – e non poteva pensare di avere una giornata senza incontri gastronomici, libri di cucina, copioni da leggere». L’intento era quello di avere una vita priva di momenti morti e la cucina gli ha riempito le occasioni in cui sentiva questo senso di immobilismo dovuto alla sensazione che il tempo intorno a lui era fermo e non aveva fatto qualcosa di nuovo e di pratico per se stesso. “Io ho il vizio del fornello” si legge nel libro L’Abbuffone. Ma com’è nata la passione di

suo padre per la cucina? «Credo che risalga a quando lui ha iniziato a vivere una vita da single, si è trasferito prima da Cremona a Milano e poi a Roma, forse allora avrà scoperto l’amore per i fornelli. Avrà capito di essere bravo, si sarà divertito e immagino che da lì sia partita quella che poi è diventata una passione che ha portato avanti nel tempo con una dedizione quasi superiore a quella del mestiere dell’attore». Ha dichiarato di aver ricevuto un’educazione sentimental-gastronomica. Cosa ha imparato a tavola e dall’arte culinaria di suo padre? «Per poter attirare l’attenzione di mio padre, bisognava frequentare per forza la cucina, perchè quando era a casa trascorreva l’80% del suo tempo ai fornelli sempre preso da tutte le cene che organizzava quasi ossessivamente. Avevo capito che

Stare vicino a mio padre in cucina rendeva il nostro rapporto più continuo

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CHEZ TOGNAZZI Gian Marco Tognazzi

stargli vicino in cucina e farmi veder interessato alla preparazione dei piatti avrebbe portato il nostro rapporto a farsi più continuo. Quando mio padre si è appassionato all’arte culinaria, di cucina ne parlavano solo lui al maschile e Ave Ninchi al femminile, non era una moda. Ho imparato a conoscere sia meglio lui che capire quanto il suo modo di essere veniva applicato sia nel cinema che in cucina allo stesso modo, cioè con un’ampia dose di rischio, con esperimenti molto arditi che potevano, quindi, riuscire bene o malissimo. Lui amava rifare una ricetta che conosceva a menadito cambiandola, rischiando pure che non gli venisse bene. Dunque, da lui senz’altro ho capito che nella vita

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occorre rischiare». “La più grande soddisfazione è l’approvazione degli amici-commensali” si legge nel libro. Quali sono i suoi ricordi legati alle frequenti cene che avvenivano in casa Tognazzi? «Gli aneddoti sono tantissimi e riguardano sempre la dinamica di serate particolari. Cercava sempre l’approvazione dei commensali che chiaramente rispecchia l’esibizione a teatro o al cinema. Lo si fa per il pubblico, più che per se stessi, così come chi cucina ha più frenesia nel vedere il risultato e il giudizio dei propri amici. Una cena particolare veniva organizzata metodicamente ed era quella dei 12 apostoli che ogni tanto rischiava anche di essere l’ultima

Cercava l’approvazione dei commensali, cosa che rispecchia l’esibizione a teatro o al cinema

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CHEZ TOGNAZZI Gian Marco Tognazzi

FARFALLE FUCSIA, UNA RICETTA “ROSA SHOCKING”, SCRITTA A PENNARELLO DALLO CHEF UGO TOGNAZZI

Ingredienti per 4 persone: · 400 gr. di farfalle · 2 barbabietole cotte · 40 gr di burro Preparazione: Soffriggere la cipolla con il burro e l’olio, bagnare con il vino bianco e aggiungere la barbabietola tagliata a dadini, salare e pepare. Passare il composto al mixer con la panna. Rimettere al fuoco con il limone spremuto per pochi attimi, aggiungere il parmigiano grattugiato e condire le farfalle cotte al dente. Servire nei piatti singoli decorando

cena, visto gli azzardi che prendeva in cucina; alla fine i commensali, molto amici ma anche molto cattivi, dovevano necessariamente dare un giudizio sui piatti con una sorte di votazione che partiva da eccezionale, ottimo, buono, sufficiente, cagata, grande cagata, grandissima cagata. Ricordo che una volta, non so se con coscienza per fargli uno scherzo, ricevette 12 grandissime cagate e lui andò direttamente a dormire lasciando tutti a tavola». Diceva Ugo Tognazzi: “Come a Proust ogni oggetto sussurrava ricordi lontani o sepolti, così in me ogni cibo ram-

con il basilico tagliato a striscioline. Si può arricchire il piatto preparando anche la salsa allo scalogno, mettendo al fuoco in un pentolino due scalogni tritati con un bicchiere di vino bianco, finché non sia ridotto di un terzo. Passare al mixer con 2 dl di panna, sale e pepe. Rimettere al fuoco e cuocere fino a che non sia diventata una crema.

menta tempi perduti o ritrovati”. Quale odore, sapore o quale piatto le ricorda suo padre e la sua infanzia? «Mio padre ha subito come delle fasi lunari, passando dalla cucina macrobiotica a quella francese, dall’orientale alla mediterranea, quindi diventa difficile indicare solo un piatto sia per l’abbondanza di ricette che conosceva sia per la quantità di varianti all’interno della stessa ricetta. Ci sono però dei ricordi di un certo tipo di preparazione di una carbonara molto particolare, così come delle polpette, della ribollita col cavolo nero o del risotto alla milanese; lui preparava spesso questi piatti

Nella pagina accanto, Ugo Tognazzi mentre mangia la maionese e una scena tratta da La grande abbuffata di Marco Ferreri e una scena del Satyricon di Gian Maria Polidoro

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CHEZ TOGNAZZI Gian Marco Tognazzi

QUELL’USO SMODATO DELLA PANNA NEI PRIMI

«Ugo nella vita era un capofila, era un leader, un maestro, uno chef». Il giudizio del critico Tatti Sanguineti e le sue curiosità sull’arte culinaria di Ugo Tognazzi Il famoso utilizzo della panna nei primi era uno dei pochi errori nella vita di questo grande uomo che fu uno dei campioni dell’uso della pasta nei primi. «Io – ricorda il critico Tatti Sanguineti (nella foto) – scrissi un testo in occasione della morte di Ugo Tognazzi, in cui facevo l’elogio dell’uomo, dell’attore più importante nella storia della vita degli italiani, che ha molto pesato nella vita materiale di questo Paese perché fu testimonial della campagna per il divorzio e di tutta una serie di campagne civili che lo videro protagonista. A fianco a tutta una serie di medaglie e meriti che vanno riconosciuti gli va però imputato un unico neo,

anche quando mangiavamo in famiglia, cosa che non avveniva spessissimo perchè quasi tutti i giorni avevamo ospiti a casa sia a cena che a pranzo». Quale è il suo rapporto con i fornelli? Si è mai trovato a provare una “colorata e saporita” ricetta di suo padre? «Tra le ricette dalle tinte più vivaci, che ho preparato anch’io qualche volta, c’è quella delle farfalle fucsia. Sembra un piatto colorato con gli evidenziatori, eppure è fatto completamente con ingredienti naturali, senza nessun tipo di aggiunta. C’era anche un risotto azzurro che fece in occasione dei mondiali. Anche

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l’introduzione della panna in molti primi, una cosa molto opinabile». Oggi molte scuole di pensiero culinario contestano questo addebito all’arte culinaria di Tognazzi, che comunque esprime al meglio il suo genio e la sua fantasia. «Nella vita era un capofila, era un leader, un maestro e uno chef – aggiunge Tatti Sanguineti». Organizzava nella sua villa lo “Scolapasta d’oro”, mitico torneo di tennis fra vip del mondo dello spettacolo degli anni 50-80 in cui preparava cene dal menù appositamente studiato per la premiazione. «Ma – conclude Sanguineti – era senz’altro più bravo con lo scolapasta che con la racchetta».

le ricette che lui disegnava a mano e che sono tutte nel libro La mia cucina sono estremamente colorate. Lui era gelosissimo dei suoi pennarelli con cui disegnava le sue ricette. Una cosa che lo faceva molto irritare era tornare a casa dopo essere stato fuori e accorgersi che io e mia sorella avevamo decimato la sua riserva di pennarelli. Io mi sono cimentato ai fornelli e avrei, anzi ho, la sua stessa passione, però credo di essermi dato un freno da solo poiché sono anch’io un attore e tifo per la sua stessa squadra; per cui un’altra passione in comune avrebbe potuto dare adito di pensare che la scomparsa prematura di un padre come lui e

la sua assenza, mi avesse spinto a voler ripercorrere la sua vita». A quale cibo, come avviene per la pera nel racconto di “Afrodite in cucina”, riconosce un potere afrodisiaco? «Al sushi. Poi ci sono poi dei gusti atavici, che si tramandano inconsapevolmente: mia figlia, ad esempio, ha 4 anni e mangia il limone a morsi - una cosa atipica per un bambino - e ha una passione per le caldarroste. Io ho una forte ascendenza verso il peperoncino fresco e il piccante, ma quello per fortuna ancora non la coinvolge, è una cosa a cui faccio fatica a rinunciare così come a una semplice pasta al pomodoro».

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Firenze Prêt à manger UN “DOLCE” PERCORSO LUNGO L’ARNO PER GUSTARE BUDINI DI RISO, TORTE E GLI IMMANCABILI PROTAGONISTI DELLA TRADIZIONE DOLCIARIA TOSCANA: I CANTUCCI

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L’ITINERARIO GOLOSO Firenze

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on sono fiorentina ma adoro questa città, nella quale trascorro molto del mio tempo da gourmande. Sarà un piacere guidarvi in un goloso tour delle pasticcerie e dei luoghi “dolci” di Firenze. Cominciamo dalla colazione e partiamo con Piansa, un locale in cui gli appassionati del caffé potranno godersi le miscele più raffinate accompagnate da cornetti, paste e i tanto rinomati budini di riso, tutto di produzione rigorosamente artigianale (Caffetteria Piansa, Viale Europa, 128/130 - www.caffepiansa.com); sempre per i budini di riso, ma anche per le celebri sfogliatelle ed i più “salutisti” cornetti integrali e di soja (da provare quello con i semi di sesamo riempito di confettura d’albicocca) è d’obbligo un passaggio al Caffé Pasticceria Imperiale (Via Ludovico Cigoli, 33 - 055701101). Per incontrare la borghesia fiorentina, magari la domenica mattina, accomodatevi da Minni per un espresso e le barchette, tanto care a rinomati palati gourmet (Pasticceria Minni, Via A. Giacomini 16 www.pasticceriaminnifirenze.com) o allo storico Gilli che si affaccia su Piazza della Repubblica (Gilli, Via Roma, 1/r - www.gilli.it). Alla pasticceria Stefania, invece, non potete perdere il cappuccino, uno

dei migliori della città, e le celebri mignon, di rara qualità, a cui difficilmente resisterete qualora aveste l’ambizione di conservarle fino a cena. Se poi vi capitasse di passarci al pomeriggio, è d’obbligo il bombolone caldo delle 16 (Pasticceria Stefania, Via Marconi26/r www.pasticceriastefaniafirenze.com). Impossibile arrivare in Toscana senza pensare ai cantucci, magari con il vinsanto. Io vi propongo un cantuccio diverso, quello de’Macci, la cui ricetta Andrea Bianchini (dell’Accademia Maestri Pasticceri Italiani) ha trovato nel cassetto di un vecchio mobile in quella che è la zona degli antiquari e dei restauratori; questo biscotto è arricchito con il cioccolato ed il cacao nell’impasto, il caffé e le nocciole. Se passate dalla Bottega del Cioccolato, però, non potrete resistere alla sacher monoporzione (se vi basta) “prêt à manger” ed alle altre squisite torte di tutte le misure, come la foresta nera. Su ordinazione i mini babà al cioccolato e i tanto richiesti macarons che Bianchini e Michele Bernacchioni vi prepareranno sicuramente più volentieri se arriverete consapevoli del fatto che, al tempo dei Medici, furono proprio i fiorentini a portarli in Francia (La Bottega del Cioccolato, Via de’ Macci, 50 e

UN’INSOLITA GUIDA Valeria Carbone, siciliana cresciuta in Lombardia e toscana per scelta. Sociologa, specializzata in turismo e comunicazione enogastronomica, si è occupata per diversi anni di un master sul tema presso l’Università di Siena. Insegna comunicazione del food Presso l’Istituto europeo del design di Roma e per il Laboratorio internazionale di studi enogastronomici a Venezia. Parallelamente porta avanti l’attività di relazioni pubbliche ed eventi, rivolta principalmente all’enogastronomia d’eccellenza. Ha una grande passione per i dolci!

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L’ITINERARIO GOLOSO Firenze

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Via Gioberti 41/r – www.andreabianchini.net). Appena più in là, spostandosi da Sant’Ambrogio verso il Duomo, la cioccolateria Vestri propone, sempre freschissimo nel periodo natalizio, il Panbalestrone, un panforte che nasce nel medioevo tra Valdichiana e Valdarno e viene riscoperto, solo nel Seicento, dal Redi che ne trascrive la ricetta; Vestri la rielabora e la ripropone usando materie prime di alta qualità (Vestri, Borgo degli Albizi, 11/r – www.vestri.it).

Cullandoci ancora nel cioccolato non è possibile non fermarsi da Claudio Pistocchi, autore di una delle torte più imitate, la tortapistocchi, appunto. Ottima la classica o quella agli agrumi di Sicilia, con i canditi, ma quelli veri, garantiti dalla serietà e dall’amore di Corrado Assenza. C’è una novità nella produzione di Pistocchi perchè alla classica, già senza uova, né burro, né farina, né zucchero aggiunto hanno negato anche il cacao; nasce un dolce che coniuga il cioccolato bianco e le arance siciliane,

delicatamente bilanciati (Pistocchi, Via ponte di mezzo, 20 – www.tortapistocchi.it). Nella città del “giglio” non poteva mancare, infine, un dolce dedicato ad un fiore tanto evocativo: ecco Iris cake della Pasticceria Gualtieri. Questo dolce non ha sicuramente farina, è ricoperto da una glassa di zucchero fondente e ha un gusto e rimanda a sapori lontani custoditi in una ricetta, rigorosamente segreta (Pasticceria Gualtieri, Via Senese, 18/r www.pasticceriagualtieri.com). A Firenze, però, è possibile acquistare i biscotti (e che biscotti!) anche al ristorante, semplicemente entrando tra le 10 del mattino e mezzanotte, con una pausa tra le 15 e le 18. Questa è l’idea curiosa e sicuramente fortunata di uno chef di prestigio,

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Nella pagina accanto, la vetrina della pasticceria Gilli; in basso, i cantucci al cioccolato e nocciole; a destra, una sfogliatella

Assunto “Asso” Migliore, che ha lanciato la linea della sua deliziosa pasticceria secca, I Peccati di Eva, dedicata alla moglie, la sua critica più esigente. Proprio ad Eva lui faceva trovare, ogni giorno nel taschino, un biscotto a mezza sfera con la nocciola. Tra gli altri prodotti i baci di dama al pistacchio, con farina di pistacchi di bronte e cioccolato bianco Valrhona; i frollini con il mais e la lavanda e i diamanti, frolle al caffé o al limone, con un colletto di zucchero. (Bistrò del Mare, Via Lungarno Corsini 4/r www.bistrodelmare.it). Per i golosi impenitenti, come la sottoscritta, per fortuna esiste Volume, a Santo Spirito, che dolci e crepes li serve fino a notte ed è aperto tutti i giorni; restando in centro è possibile sedare la voglia di un cornetto caldo alle 3 del mattino, alla pasticceria Vinci e Bongini ma, se arrivate prima, l’offerta è maggiore (via Canto Rivolto, 2).

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IN VINO VERITAS Gabriele Tomasi

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IN VINO VERITAS Gabriele Tomasi

bere con

filosofia ARMONIA, ELEGANZA ED EQUILIBRIO: PARLARE DI UN VINO SPESSO È COME PARLARE DI UN’OPERA D’ARTE. L’OPINIONE DI GABRIELE TOMASI, DOCENTE DI ESTETICA

di Riccardo Casini

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l vino è un indiscusso protagonista della tavola da millenni. Ma quale rapporto intrattenevano con esso i grandi filosofi del passato? E soprattutto, è possibile considerare l’esperienza degustativa in una chiave estetica? Gabriele Tomasi, docente di Storia dell’estetica all’Università di Padova, ha provato a spiegarlo in un libro (o un divertissement, come lo considera lui stesso) dal titolo Un bicchiere con Hume e Kant. «Parto dall’idea – spiega – che l’esperienza estetica sia un’esperienza in sé gratificante di certe caratteristiche degli oggetti. Secondo tale concezione non solo un dipinto, una sonata o una veduta sono potenziali fonti di valore estetico, ma anche molti degli oggetti di cui facciamo uso quotidianamente, come un vaso di fiori. La condizione è che essi

sostengano il tipo di attenzione propria dell’esperienza estetica. Ora, ciò dipende dal fatto che possiedano delle proprietà che i filosofici chiamano “estetiche”. Si tratta delle proprietà indicate da termini come elegante, equilibrato o armonico. Ho scelto questi esempi perché si tratta di parole ricorrenti nelle note di degustazione. Ciò suggerisce che il vino può possedere proprietà estetiche e che la degustazione può configurarsi come un’esperienza estetica». Il vino allora si può assimilare a un’opera d’arte? «Direi di no, anche se in realtà non ci sono argomenti conclusivi. Sappiamo che, per ragioni ontologiche, non tutto può diventare opera d’arte, ma forse non abbiamo ancora una comprensione soddisfacente di cosa sia un oggetto artistico.

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IN VINO VERITAS Gabriele Tomasi

Questo stato di cose suggerisce prudenza. Candidare il vino allo status di oggetto artistico mi appare una forzatura rispetto alle nostre intuizioni di base sul valore dell’arte e sul ruolo che essa gioca nella vita umana. Credo corrisponda meglio a tali intuizioni considerare il vino come un oggetto estetico, ossia metterlo sullo stesso piano dei tanti oggetti che sono fonte di esperienze in sé di valore, ma che non consideriamo opere d’arte benché possano avere molte delle proprietà estetiche che sono tipiche delle opere d’arte». Nel saggio La regola del gusto Hume individua alcune caratteristiche del “buon giudice”. Sono assimilabili a quelle di un moderno sommelier? «Hume è alla ricerca di un criterio da opporre all’idea

Gabriele Tomasi è docente di Estetica all’Università di Padova. Fra le sue pubblicazioni, “Il salvataggio kantiano della bellezza” (1993), “Significare con le forme: valore simbolico del bello e espressività della pittura in Kant” (1997), “La voce e lo sguardo. Metafore e funzioni della coscienza nella dottrina kantiana della virtù” (1999), “La bellezza e la fabbrica del mondo. Estetica e metafisica in G.W. Leibniz” (2002) e “Ineffabilità. Logica, etica, senso del mondo nel Tractatus di Wittgenstein” (2006). Lo scorso mese di giugno è uscito infine “Un bicchiere con Hume e Kant. Divertissement estetico-metafisico” (Edizioni Ets, 142 pagine).

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dell’uguaglianza naturale dei gusti. Perciò cerca di mostrare che le valutazioni estetiche non si equivalgono, che il giudizio di alcuni ha un valore normativo. Hume pensa in particolare a critici con le seguenti caratteristiche: “un forte buon senso, unito a un sentimento squisito”, cioè a una capacità di percepire qualità, come quelle estetiche, che possono essere piuttosto sottili ed elusive, “accresciuto dalla pratica, perfezionato dall’abitudine ai confronti e liberato da tutti i pregiudizi”. Secondo Hume, la valutazione concorde di giudici con queste caratteristiche è “la vera regola del gusto e della bellezza”. Come si vede, si tratta di caratteristiche che possono definire anche un buon degustatore». Che rapporto ha lei invece con il vino? «È complesso come immagino sia per tutti. A volte si beve per il piacere del vino, qualche volta per l’alcol, più spesso perché il vino concorre al piacere sociale in cui si gode della reciproca compagnia, di quei beni inestimabili che sono l’amicizia e l’amore». Quali vini preferisce? «La mia linea è quella del buon vino quotidiano, quello del bottiglione.

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IN VINO VERITAS Gabriele Tomasi FILOSOFI E VINO Quale rapporto intrattenevano i grandi filosofi con il vino? Nell’introduzione del suo libro, Tomasi ricorda che a Hume venne prescritta quotidianamente «una pinta inglese di vino chiaretto» (claret) dal medico cui si era rivolto per quella che fu diagnosticata come «la tipica malattia dello studioso», forse una lieve depressione. Kant invece, secondo uno dei suoi biografi, esigeva che in tavola ci fosse «buon vino, nei primi anni rosso, più tardi bianco». A quanto sembra preferiva il Médoc. A tavola, racconta Jachmann, «come lui, ciascun ospite aveva davanti a sé una bottiglietta di un quarto e generalmente nessuno beveva più di quella piccola misura, benché ci

Quando devio, cerco vini di corpo pieno, dal bouquet intenso, con sentori di frutti rossi di bosco e di spezie. Tra i miei preferiti ci sono il Negroamaro, il Montepulciano e l’Aglianico. Devo però dire che in enologia inclino verso una forma di nominalismo: preferisco parlare di bottiglie piuttosto che di vini. E alcune delle bottiglie migliori che ho bevuto non erano dei vini appena nominati. A livello geografico, se la vite vi è coltivata, mi piace bere il vino dei luoghi in cui mi trovo. Per il resto, vino quotidiano a parte, di solito lo scelgo pensando alle persone con cui lo berrò, al cibo che deve accompagnare e guardando al prezzo. Molti vini importanti appartengono alla categoria dei beni di lusso: come le macchine sportive e gli abiti di alta moda, non fanno parte della mia esperienza». Nell’introduzione del suo libro si legge anche che l’apprezzamento del vino è un’attività intersoggettiva.

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fossero sempre a portata alcune bottiglie di riserva». A volte Kant teneva accanto a sé anche «una bottiglia altrettanto piccola di vino bianco, per poter variare quando il rosso gli sembrava troppo astringente». Wasianski ricorda invece che, dopo la minestra, Kant era solito bere «un misto di mezzo bicchiere di vino drogato, vino ungherese e vino del Reno». «Kant – spiega Tomasi – riconosceva che il vino apre il cuore ed è un veicolo di quella qualità morale fondamentale che è la sincerità. Perciò ammetteva che “un po’ e per breve tempo” si possano superare i limiti della sobrietà. Certo poi non doveva prendere l’auto per tornare a casa».

Quali sono allora i luoghi e i contesti migliori per la sua degustazione? «I manuali di degustazione suggeriscono di farlo in silenzio perché occorre prestare attenzione al vino senza farsi condizionare dal giudizio altrui. Penso sia giusto, ma non essendo un assaggiatore, preferisco degustare con qualcun altro. Scambiandoci le reciproche impressioni, spesso si coglie meglio ciò che il vino ha da offrire in termini di profumi, gusti, aromi e, naturalmente, di proprietà estetiche. Il punto dell’intersoggettività è comunque teorico, ha a che fare con la natura pubblica dell’esperienza estetica e del linguaggio con cui descriviamo le nostre impressioni sensoriali. D’altra parte, anche se si beve da soli, non si è mai soli. In un vino che è espressione di un territorio, incontriamo il lavoro e la passione di persone, qualcosa che ci riporta a quel rapporto con la terra che è parte della nostra comune umanità».

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IL NOIR A TAVOLA Maigret e Nero Wolfe

detective gourmet A TU PER TU CON IL MISTERIOSO UNIVERSO CULINARIO DELLE DUE ICONE DEL NOIR. CON GIANFRANCO MARRONE ALLA RICERCA DI INDIZI E RICETTE

di Paola Maruzzi

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Gianfranco Marrone, ordinario di Semiotica nell'Università di Palermo

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l cibo è materia narrante. O meglio, la finzione letteraria ha una bocca e uno stomaco, più o meno verosimili a seconda dei casi. Attraverso la messa in scena dei corpi transitano e vengono metabolizzati gli umori culturali delle epoche. Dalle cene di Trimalcione ai banchetti pantagruelici di Rabelais fino alla madeleine di proustiana memoria: sono solo alcuni esempi di come l’enogastronomia sia entrata di diritto nella storia della letteratura. Così una moltitudine di piatti e ricette sono state romanzate e rese celebri, tanto da rendersi inseparabili da autori o personaggi. In tal senso il filone noir ha con il cibo un rapporto privilegiato, quasi viscerale. Qui l’universo culinario - popolare o

raffinato, consumato tra le scartoffie dell’ennesimo caso da risolvere o gustato nell’intimità delle mura domestiche - acquista un significato inedito. Si fa pensoso e funzionale allo scioglimento dell’intreccio poliziesco. A ragione, Gianfranco Marrone parla di «detective gourmet, di cui Nero Wolfe e Maigret sono un po’ i capostipiti ideali. Attraverso la loro spassionata attitudine per la buona cucina, il calcolo e il raziocinio scoprono una dimensione corporale e intima. Così “inchiodare” i personaggi alla tavola diventa un pretesto per indagare la loro psicologia tormentata. Allo stesso tempo gusti e sapori diventano delle lenti sensoriale che ingrandiscono la realtà. Si pensi a Camilleri e al suo Montalbano,

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IL NOIR A TAVOLA Maigret e Nero Wolfe

POLLO ALLA MAIGRET

che indubbiamente ha degli aspetti maigrettiani. C’è un momento in cui la preparazione degli arancini e la risoluzione del caso procedono in maniera simmetrica, hanno cioè la stessa struttura. È un po’ come dire che saper cucinare, quindi combinare gli ingredienti giusti, significa saper decifrare il mondo». Ma tra crimini e ricette è sempre esistito questo gioco di rimandi? «No. Questo non accadeva con gli investigatori ottocenteschi, che avevano un rapporto molto parco con il cibo. Parlerei quasi di astinenza. Pensiamo ad esempio a Sherlock Holmes: si limita a essere una perfetta macchina celebrale, non ha una vita private e sentimentale. Guarda caso non mangia mai durante le indagini».

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Invece grazie alla penna di Rex Stout e Georges Simenon i piaceri gastronomici, per lungo tempo rimossi, riaffiorano prepotentemente per caratterizzare il personaggio e strizzare l’occhio al lettore, «che è goloso di ristoranti così come di bassifondi. Così crimini e criminali, puntualmente smascherati da geniali detective, diventano gli ingredienti di un “ricettario” morale e pedagogico che celebra il trionfo della razionalità e del bene». Tracciata la cornice, Gianfranco Marrone entra nel vivo della questione e parla di Nero Wolfe e Maigret come antesignani di due tendenze speculari. «È normale, quindi, che in materia culinaria si riflettano gusti e tendenze contrapposte. Il primo è alla ricerca di cibi raffinati, scru-

Ingredienti · 1 pollo ruspante · 50 g di burro e di lardo, · 20 cipolline bianche, · 1 mezzo chilo di patate · prezzemolo · sale e pepe Dopo aver sciolto il burro in una teglia da forno di grandi dimensioni, adagiare il pollo insaporito con sale e pepe, lasciandolo dorare in forno e avendo cura di bagnarne spesso la superficie. Tagliare a dadi il lardo e buttarlo in acqua bollente per circa dieci minuti. Scottare in padella una ventina di piccole cipolle bianche, e nel frattempo ricavare circa trenta piccoli cubetti dalle patate sbucciate. Quando il pollo è a metà cottura aggiungere nella teglia tutti gli altri ingredienti, in maniera che ne tocchino il fondo, e proseguire la cottura a fuoco basso. Prima di servire spolverare con un po’ di prezzemolo tagliato fine.

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IL NOIR A TAVOLA Maigret e Nero Wolfe

ANATRA BRASATA ALLA NERO WOLFE

Ingredienti · 1 anatra · 50 gr di burro · 1 kg di rape · pepe · 100 gr di lardo · sale · 12 cipolline · prezzemolo · erbe aromatiche · 1 tazza di brodo

Pulite l’anatra, mettetela in una casseruola con il burro e doratela da ambo le parti. Aggiungete il lardo a pezzi, le cipolline e lasciate cuocere ancora per cinque minuti mescolando. Dopodiché unite le erbe aromatiche, sale, pepe e le rape sbucciate; aggiungete il brodo e lasciate cuocere per un’ora a fuoco medio. Poi togliete dalla casseruola l’anatra e le verdure e fate ridurre il sugo di cottura per la metà. Mettete la carne e le verdure su un vassoio e ricoprite il tutto con il sugo.

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• polosamente confezionati dal cuoco-artista Fritz Brenner. Il secondo, invece, consuma piatti popolari, preparati secondo la tradizione casalinga o dei veraci bistrot parigini. Mentre per Nero Wolfe l’esperienza del cibo trascende dall’indagine in senso stretto, Maigret è totalmente immerso nel consumo quotidiano di piatti e bevande. Ed è proprio attraverso le molle percettive e sensoriali che la cucina riesce a far scattare che si arriva al chiusura del caso. Con Maigret la gastronomia viene sdoganata e forma un tutt’uno con la riflessione intellettuale». Pur con le dovute differenze, bisogna poi sottolineare che entrambi

i detective sono buongustai, ma non si “sporcano le mani” preparando da soli i piatti. Hanno appunto qualcuno che lo fa al posto loro. «Gli chef in questione, da un lato Brenner e dall’altro la moglie di Maigret, sono soprattutto dei consiglieri. Insomma “condiscono” i piatti con consigli che si rivelano preziosi nello scioglimento del caso poliziesco. Questo decreta quanto l’universo culinario sia complesso e sfaccettato. L’enogastronomia, riletta in chiave noir, ha un risvolto nient’affatto frivolo». Vale dunque la pena addentrarsi nelle pieghe di sobborghi e bassifondi per ripercorrere le file di alcune celebri ricette.

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IL NOIR A TAVOLA Wolfe, il raffinato

l’antesignano del mangiare slow SOTTO INCHIESTA L’UNIVERSO GASTRONOMICO DI NERO WOLFE. RAFFINATO, MISOGINO E METODICO. L’ANALISI DI ENZO TUMMINELLO

di Paola Maruzzi

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on più di sei commensali a tavola. Di più rovinano il pranzo. È una delle regole che costellano la rigida dottrina alimentare di Nero Wolfe, senza dubbio il detective più “ingombrante” nella storia della letteratura noir. Se non dovesse convincere, basti ripensare alla possente corporatura di Tino Buazzelli, l’attore che sul piccolo schermo veste i panni del personaggio di Rex Stout. Enzo Tumminello ripercorre gli itinerari gastronomici del commissario. E scopre che per Wolfe il rapporto con il cibo è fatto di silenzi e solitudini. Mangiare diventa così un’azione celebrare, in cui la lentezza del rituale prefigura un lavorio mentale implacabile. «In questo senso si può parlare di Nero Wolfe come un antesignano inconsapevole dello slow food. Lo vediamo masticare piano e assaporare ogni boccone con precisione chirurgica. L’attenzione quasi maniacale verso la qualità

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degli ingredienti scelti e messi insieme dal fidatissimo cuoco, è davvero sorprendente. Insomma Nero Wolfe, pur essendo decisamente una buona forchetta, non ingurgita la prima cosa che gli capita sotto mano. E non è casuale che si rechi raramente fuori per pranzare o cenare. Tutto si svolge nell’intimità delle mura domestiche. Tutto viene tenuto sotto stretta sorveglianza». Nella dieta “wolfeiana” altra cifra distintiva è l’abbondanza, che cozza con uno stile di vita necessariamente sedentario. «Tuttavia l’alimentazione ipocalorica, contornata da piatti a base di carni e torte di mele, non sfocia mai nell’eccesso. C’è sempre un equilibrio - mentale e corporale - che gli permette di non stravolgere le percezioni sensoriali, il gusto prima di tutto». E la nazionalità dei piatti? «Il nostro detective è un accanito difensore della cucina americana, anche se non disprezza quella europea. Ma in questo senso non è un “purista”. Ama le mescolanze e

le ricette bizzarre, a patto che siano raffinate. In alcuni casi propone persino degli accostamenti poco ortodossi che potrebbero far rabbrividire gli chef italiani. Un capitolo a parte lo merita la scelta dei vini, rigorosamente di marche francesi. All’altezza temporale in cui vive Nero Wolfe – parliamo degli anni Trenta - non è ancora esploso il fenomeno dei vini californiani come lo conosciamo oggi. La birra, invece, viene ingurgitata – questa volta è proprio il caso di dirlo – lontana dai pasti. Il nostro detective è davvero goloso di questa bevanda. Arriva a sfiorare persino i sette litri al giorno. Ma vale comunque la stessa regola: la dismisura alcolica non prende mai la tangente dell’ebbrezza. Wolfe riesce a tenersi saldamente ancorato alla sua lucidità. C’è un episodio in cui lo vediamo custodire scrupolosamente i tappi delle bottiglie in un cassetto, così da tenere monitorata la sua passione». Lo stomaco di Nero Wolfe è

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IL NOIR A TAVOLA Wolfe, il raffinato

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IL NOIR A TAVOLA Wolfe, il raffinato

Enzo Tumminello, autore di Orchidee a tavola

Nero Wolfe è in un certo senso antesignano dello slow food. Mangiare è un atto pensoso Gusto • 234

quindi scandito da bioritmi regolari e metodici. «D’altronde non poteva che essere altrimenti. Siamo di fronte a un cultore del raziocinio e questo non può che riflettersi sulle abitudini alimentari». Tumminello continua toccando un nocciolo spinoso nella psicologia del detective, che naturalmente ha un corrispettivo culinario. «La dichiarata misoginia. Al contrario del collega Maigret che si lascia cullare dai pranzetti casalinghi della moglie, Wolfe è convinto che le donne non siano brave ai fornelli. Mangiare non è per lui un’esperienza sensuale e viscerale, motivo per cui è alla spasmodica ricerca di un distacco estetico. Il piacere del pasto deve avere una cornice elegante e raffinata». Per Tumminello c’è però un’ecce-

zione: si tratta delle famigerate “salsicce a mezzanotte”. Un piatto semplice e gustoso, che Wolfe assaggia la prima volta in Europa. E ne rimane misteriosamente incantato. «Così, pur sforzandosi, non riesce ad archiviare il “caso”. Quel sapore funziona un po’ come la madeleine proustiana: riporta a galla qualcosa di sommerso. Alla fine, da bravo investigatore, Wolfe riesce a scovarne la ricetta». Infine, cosa succede quando dentro una pietanza succosa si nasconde l’arma del delitto? «Il cibo avvelenato viene vissuto come una vera e propria profanazione. Un simile episodio succede solo una volta. E non a caso l’omicida è una donna. Tutto torna nel complesso gioco di rimandi psicologici tra crimini e gastronomia».

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PROTAGONISTI L’olio ligure

Una fragranza inconfondibile CARLO SIFFREDI ILLUSTRA L’ATTIVITÀ DEL CONSORZIO DELL’OLIO DOP RIVIERA LIGURE PER VEICOLARE AL MEGLIO LA PRODUZIONE CERTIFICATA DEL NOSTRO PAESE

di Renata Gualtieri

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ll’interno di un mercato sempre più complesso e concorrenziale è necessario distinguersi con un prodotto dalle caratteristiche uniche. L’Olio Dop Riviera Ligure è un olio 100% ligure, tracciato, controllato anche dal punto di vista chimico-fisico e sensoriale. Il consumatore non sempre sa come scegliere un olio in base all’etichetta ma «chi legge “Riviera Ligure”– assicura Carlo Siffredi, presidente del Consorzio Olio Dop Riviera Ligure – può stare certo che tutto il processo produttivo, dalla coltivazione delle olive fino all’olio in bottiglia, è svolto in una specifica area geografica (Riviera dei Fiori, Riviera

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del Ponente Savonese o Riviera di Levante); che vi è un ente di certificazione autonomo che effettua controlli sul campo, assicura la tracciabilità del prodotto ed effettua prelievi sull’olio; che l’olio immesso in commercio con il contrassegno numerato sul collo della bottiglia ha superato analisi chimiche e che è stato assaggiato da esperti che ne hanno valutato i parametri organolettici; che dopo essere stato immesso in commercio viene monitorata la sua qualità con prelievi condotti dagli organismi di vigilanza, tra cui il Consorzio di tutela dell’Olio Dop Riviera Ligure». Il Consorzio ha recentemente scoperto 15 illeciti su 45

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PROTAGONISTI L’olio ligure

controlli. Sono previste sanzioni pecuniarie per questo illecito amministrativo? «L’azione di vigilanza svolta sull’Olio Dop Riviera Ligure immesso in commercio e sull’olio extravergine che si presenta al consumatore facendo riferimento al territorio ligure, ha un forte carattere di prevenzione: in caso di illeciti infatti il Consorzio informa le aziende e pone in atto una prescrizione di adempimento che fino a ora si è dimostrata efficace, poiché sta conducendo all’immediata eliminazione dell’illecito da parte del soggetto contattato, sia esso confezionatore che commerciante. Nella maggior parte dei casi all’origine dell’illecito c’è solo una scarsa conoscenza della normativa e tutti i soggetti

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esprimono apprezzamento per le iniziative di incontro a carattere formativo e informativo sviluppate dal Consorzio. Ad ogni modo, la legge prevede un sistema di sanzioni amministrative pecuniarie con multe da poche migliaia a decine di migliaia di euro secondo il tipo di infrazione. L’obiettivo è sempre la tutela del consumatore a fronte di responsabilità non solo dei produttori, ma anche dei commercianti così come degli organismi di controllo e dei Consorzi per quanto concerne i prodotti Dop/Igp». Come viene svolta l’azione di controllo e vigilanza? «Il controllo e la certificazione del prodotto vengono svolti dalle quattro Camere di Commercio

Olio Riviera Ligure è un marchio da veicolare il più possibile: è un prodotto che porta il nome del suo territorio liguri, autorizzate dal ministero delle Politiche agricole ogni tre anni sulla base di un articolato piano di controllo. La vigilanza è realizzata in stretto coordinamento con il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, il quale approva ogni anno il piano di attività proposto dal Consorzio. L’azione, basata sul regolamento comunitario che disciplina la protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine protetta dei prodotti agroalimentari, si svolge su tre livelli: monitoraggio degli

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PROTAGONISTI L’olio ligure

• adempimenti presso le aziende della filiera, verifiche ispettive presso i punti vendita con prelievi di campione ed esame delle etichette in commercio, monitoraggio sulla rete per quanto concerne il commercio elettronico e la presentazione dell’olio ligure al consumatore». Quanti sono i soggetti coinvolti nella filiera produttiva e quale contributo garantisce al territorio in termini di indotto economico e occupazione? «Le imprese iscritte al Piano dei controlli sono più di un migliaio: di queste circa 600 operano continuamente nel processo produttivo dell’Olio Dop Riviera Ligure in ogni campagna olivicola, con circa 500 olivicoltori, una trentina di frantoiani e una settantina di imbottigliatori. Il fatturato annuo della produzione Dop si aggira intorno ai 5 milioni di euro, mentre il fatturato al consumo è di circa 8 milioni di euro. Si va dalle piccole aziende olivicole che imbottigliano l’olio prodotto con le proprie olive fino ad aziende leader nel settore». Cosa prevede il “patto di filiera”, iniziativa pilota unica nel panorama nazionale? «Il patto è un’iniziativa partita tre anni fa - nata dall’esigenza di salvaguardare l’anello più debole

della filiera, ovvero gli olivicoltori che prevede l’indicazione di prezzi minimi per l’acquisto delle olive da cui proviene l’Olio Dop Riviera Ligure. Nel tempo il patto è andato evolvendosi, con un ruolo sempre più attivo svolto dal Consorzio che, a fronte di buone prassi facoltative adottate dagli olivicoltori e dai frantoiani, eroga un premio del patto di filiera sotto forma di rimborso del 60% sul costo del contrassegno numerato: per intenderci, viene pagata parte delle spese sostenute per apporre il bollino apposto sul collo di ogni bottiglia di Olio Dop Riviera Ligure. Attualmente è in discussione il nuovo patto di filiera. In questa fase, come Consorzio, stiamo affrontando una serie di incontri specifici che cercheranno di tenere conto delle aspettative delle diverse categorie: olivicoltori, frantoiani e confezionatori». Quali sono le principali destinazioni di mercato dell’olio e quali strategie possono favorirne ulteriormente la diffusione oltre i confini? «Gli oli a denominazione di origine, come più in generale i prodotti Dop, hanno come interlocutore privilegiato la grande distribuzione. Nel caso del Riviera Ligure la distribuzione moderna rappresenta oggi circa il 60%.

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PROTAGONISTI L’olio ligure

Il patto di filiera prevede l’indicazione di prezzi minimi per l’acquisto delle olive Tuttavia, una caratteristica importante e specifica dell’olio ligure è la vendita diretta al consumatore, che rappresenta circa il 20% del prodotto Dop totale. Il 10% va invece al dettaglio tradizionale e specializzato e al settore Horeca. Il flusso di export rappresenta una quota di circa il 10%, che si distribuisce principalmente nei paesi dell’Unione europea e del Nord America con presenze qualitativamente importanti nei paesi arabi e in Giappone. In un’ottica strategica, sono molto importanti le iniziative condotte in modo congiunto con gli altri Consorzi di prodotti Dop più conosciuti (ad esempio formaggi, carni, ortofrutta) per veicolare al meglio la produzione certificata del nostro paese».

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Che importanza riveste la promozione delle eccellenze alimentari regionali? E con quali campagne il Consorzio contribuisce a promuovere in Italia e nel mondo le qualità dell’olio Dop Riviera Ligure? «L’informazione, ma ancor più un linguaggio condiviso quando si parla di olio in Liguria, si rivela di importanza strategica in una regione come la nostra la cui immagine è legata a doppio filo alla sua vocazione olivicola. In territori come questo, dove le piccole produzioni di nicchia assumono importanza, è bene sposare il concetto di Dop che tutela maggiormente sia il produttore che il consumatore. Diversamente, la produzione rischia di “annacquarsi” nell’extravergine italiano, subendo la concorrenza dei prezzi più bassi legati alle grandi

produzioni del sud che hanno costi di produzione e livelli qualitativi diversi. Olio Riviera Ligure, quindi, è un marchio da veicolare il più possibile: è un prodotto che porta il nome del suo territorio. Il Consorzio partecipa alle più importanti fiere ed eventi a livello nazionale e, in collaborazione con il ministero e l’Associazione italiana dei Consorzi delle indicazioni geografiche, anche a livello internazionale. Molta attenzione è rivolta ai ristoratori di qualità e ai futuri chef degli istituti alberghieri. Infine, il Consorzio promuove campagne su larga scala destinate a far conoscere la qualità del prodotto Dop Riviera Ligure al grande pubblico, senza il quale verrebbe a mancare l'ultimo e più importante anello della catena, ovvero il consumatore finale».

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PROTAGONISTI L’olio ligure

L’oro giallo

della Riviera L’OLIO È IL PRINCIPE INDISCUSSO DELLA TAVOLA MEDITERRANEA. LO CHEF FLAVIO COSTA ESALTA LE VIRTÙ DELLE VARIETÀ LIGURI

di Riccardo Casini

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ra i protagonisti della cucina ligure, un posto di rilievo spetta sicuramente all’olio. Nonostante si tratti di un condimento universale, questa regione ne ospita diverse varietà che negli anni hanno ottenuto la denominazione di origine protetta, tutelata da un Consorzio nato nel 2001 e oggi comprendente circa 500 soci tra olivicoltori, frantoiani e confezionatori. Le tre zone di provenienza dell’olio Dop (Riviera dei fiori, del Ponente savonese e di Levante) ospitano coltivazioni di olive di diverse qualità: Lavagnina, Pignola, Frantoio e, soprattutto, la “regina” Taggiasca. A illustrarci virtù e possibili utilizzi del vero “oro giallo” della Liguria è Flavio Costa,

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giovane chef (classe 1970) del ristorante Arco Antico di Savona: aperto nel 1999, dal 2003 “stellato” Michelin, è risultato il primo in regione secondo la nuova guida 2011 del Gambero Rosso, che gli attribuisce 86 punti, appena 4 in meno dei 90 necessari per raggiungere le ambite tre forchette. «Nel mio ristorante – spiega – utilizziamo esclusivamente olio ligure, che costituisce la base del 90 per cento dei nostri condimenti. D’altra parte sarebbe un peccato non sfruttarlo: la nostra filosofia sposa in pieno i prodotti del territorio, e l’olio è uno dei principali. In sala utilizziamo esclusivamente olio da oliva taggiasca di varie zone, sempre però nell’ambito della Riviera di Ponente. In cucina invece trova posto anche una piccola

A fianco, Flavio Costa, chef del ristorante Arco Antico di Savona

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PROTAGONISTI L’olio ligure

CREMA DI ZUCCHETTE TROMBETTA CON SEPPIE AL NERO E SCORZETTE CANDITE DI LIMONI Ingredienti per 4 persone: · 1 kg di zucchette trombette · 400 gr di seppie · 500 gr di olio extravergine · 1 limone non trattato · 200 gr di acqua · 100 gr di zucchero · 2 scalogni · 1 porro · brodo di pesce Preparazione: Pulire e tagliare a dadi le zucchette, portare a bollore l’acqua salata, aggiungervi le stesse con due scalogni e lasciare bollire fino a cottura. Pulire e tagliare a dadini piccoli le seppie tenendo a parte le sacche del nero ben integre. Tagliare finemente il porro e farlo stufare in poco olio, aggiungervi le seppie, rosolare

ancora un po’ e bagnare con il nero di seppia precedentemente frullato con il brodo di pesce, salare e portare a cottura per circa 15-20 minuti. Per la preparazione delle scorzette portare a bollore un pentolino d'acqua ed aggiungervi le bucce tagliate a julienne, farle bollire una sola volta per 3 minuti in maniera che restino un poco amarognole, quindi scolarle e versarle nello sciroppo preparato con 200 gr d'acqua e 100 gr di zucchero, cuocere fino a quando non risulteranno trasparenti (circa 5 minuti). Finire la crema frullando in un mixer a bicchiere le zucchette con un po’ della loro acqua e aggiungervi a filo l'olio. Mettere in una fondina una cucchiaiata di seppie, le scorzette, un rametto di aneto e qualche fiore di rosmarino.

percentuale di biancolilla». Quali sono le qualità dell’olio da oliva taggiasca? «È un olio delicato, fruttato, che non va a incidere molto sul piatto. Al contempo molte varietà della Riviera di Ponente presentano un retrogusto di carciofo, che costituisce la vera particolarità della zona. Di certo queste sono le varietà che meglio si adattano alla cucina ligure. Ovvero quella che anche io, pur rivisitandola, posso dire di fare». Ma con quali piatti si

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sposa meglio? «È perfetto su molti crudi, sul pesce in generale e sulle emulsioni, calde e fredde, che proponiamo. Come detto, la varietà di Ponente ha un retrogusto di carciofo che le dona un’impronta particolare pur mantenendo una certa delicatezza. E’ una caratteristica che rende questo olio perfetto per le pietanze che richiedono un condimento delicato ma che si senta al palato, come la crema di zucchette trombette con seppie al nero e scorzette candite di limoni, uno dei miei piatti “storici”».

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OLIO LIGURE Frantoio Portofino

oli da collezione OLIVE TAGGIASCHE E PRODUZIONI MONOCULTIVAR. COSÌ IL FRANTOIO PORTOFINO REINVENTA L’OLIO LIGURE INSEGUENDO I PALATI D’ELITE

di Paola Maruzzi

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OLIO LIGURE Frantoio Portofino

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i sono nomi che scivolano addosso senza lasciare traccia e altri che portano scritta la forza evocativa dei luoghi. L’olio Frantoio Portofino appartiene indubbiamente a quest’ultima categoria. Prima che essere un prodotto alimentare, delimita un campo d’appartenenza: alle terre liguri naturalmente e, perché no, anche a uno stile di vita esclusivo. Cibi e sapori oscillano e cambiano in base a coordinate spaziali, temporali e sociali. Ed è proprio su quest’ultimo “marcatore” che si gioca la partita del Frantoio Portofino. Per-

ché i palati non sono tutti uguali. Ci sono gusti alla portata di tutti – chiamiamoli pure commerciali – e altri decisamente elitari. Cristina Santagata racconta perché la sua azienda, sulla piazza da oltre un secolo, ha scelto di dare vita a un olio di nicchia. «In un momento di crisi come questo abbiamo preferito alzare il livello, puntando a un consumatore consapevole e convinto di investire sulla qualità. La nostra ambizione è quella di creare un prodotto a edizione limitata, che sappia accettare la sfida dei mercati “ricercati”. E infatti, attraverso un accordo con il biscottificio Grondona, abbiamo delibera-

tamente scelto di contare esclusivamente sulla vendita al dettaglio, scavalcando il canale della grande distribuzione. In questo modo la scrematura della domanda è quasi fisiologica». A ricordare il prestigio dell’olio c’è una confezione elegante studiata appositamente. «La fasciatura dorata viene fatta a mano. E questo rende ancora più prezioso il contenuto». Ma la qualità non è solo una questione di resa estetica. Dentro le appariscenti confezioni c’è tutto il sapore, dolce e mandorlato, dell’oliva taggiasca, il fiore all’occhiello delle coltivazioni.

Sotto, Cristina Santagata info@frantoioportofino.it

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OLIO EXTRAVERGINE FRANTOIO PORTOFINO · Zona di provenienza: Riviera di Levante · Varietà di olive: 100% lavagnina · Metodo di raccolta: manuale agevolato · Colore: da giallo a giallo verde · Sapore: fruttato leggero prevalentemente maturo con retrogusto di mandorla e carciofo · Impiego: si abbina idealmente a tutti i tipi di piatti, particolarmente indicato per accompagnare pesce e crudità

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OLIO LIGURE L’Almèoli

Dal cultivar

taggiasca LA PRODUZIONE DI UN OLIO DI QUALITÀ NASCE DA DIVERSE COMPONENTI. BISOGNA AMARE LA NATURA E IL TERRITORIO, INNANZITUTTO, PER TRADURNE IN SAPORI LE PARTICOLARITÀ E LE BELLEZZE. L’ESPERIENZA DI ROBERTO GUALDESI

di Ezio Petrillo

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bbandonare la città con i suoi ritmi frenetici per dedicarsi alla campagna e ai suoi prodotti. Una scelta di vita che denota amore per il territorio e passione per la natura più autentica. È anche attraverso tali decisioni che nasce un prodotto di alta qualità. «L’olio Almèoli è un extravergine di oliva da cultivar taggiasca. Si tratta di un prodotto morbido, delicato, per un uso a tutto tondo in cucina». A parlare è Roberto Gualdesi, titolare dell’azienda agricola “L’Uga Murella”. «La produzione dell’olio extravergine di oliva da cultivar taggiasca è stata la base di partenza dell'attività aziendale. Durante la lavorazione alla tradizione si affiancano le più moderne tecniche di frangitura ed estrazione. In tal modo il sapore e il profumo di Almèoli coincidono con i requisiti che, un tempo, si potevano trovare nell'extravergine fatto in famiglia per autoconsumo». Dagli oliveti di montagna situati a 400-600 metri sul livello del mare,

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nasce la selezione I Tecci. «Attraverso questo prodotto – spiega Gualdesi - , abbiamo cercato di esaltare le peculiarità dell'oliva taggiasca di montagna, provando a portare all'estremo le finissime caratteristiche olfattive e gustative di questa eccellenza. La cura nei tempi di raccolta, la velocità nel trasformare il frutto in essenza, la rinuncia ai maggiori quantitativi di produzione hanno portato questo extravergine in pochi anni ai vertici della produzione italiana. L’olio I Tecci è da usarsi quasi esclusivamente a crudo e da interpretare su piatti che normalmente temono di essere sovrastati da altri sapori, quali crostacei crudi e carpacci di pesce e di carne». Nel frattempo, oltre all’olio, si è deciso di incominciare, quasi per gioco, la produzione di aglio di Vessalico. «Siamo entrati a fare parte di quel piccolo gruppo di persone che con la loro fatica mantengono conosciuta, in Italia e all'estero questa pregiatissima varietà di aglio italiano che è infatti anche presidio Slow Food».

Roberto Gualdesi, titolare dell’azienda agricola “L'Uga Murella” di Borghetto d'Arroscia (IM) sarà presente al Salone del Gusto 2010 presso lo stand del presidio Slow Food dell’aglio di Vessalico (Liguria) www.ugamurella.it - info@ugamurella.it

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Dalla terra alla tavola MARIO ANFOSSI, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA DEL BASILICO GENOVESE DOP, INDICA I MERCATI INTERESSATI E I PROSSIMI OBIETTIVI DELL’ ASSOCIAZIONE

di Renata Gualtieri

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uando si parla di Basilico Genovese Dop bisogna distinguere due tipologie di prodotto: il basilico per il mercato fresco confezionato in mazzetti e quello per l’industria alimentare commercializzato sfuso o semilavorato tritato con sale e olio. Dopo un inizio difficile e pieno di diffidenza sia da parte dei produttori che da parte degli operatori commerciali il Basilico Genovese Dop ha raggiunto un livello accettabile di diffusione a livello regionale sia nei mercati ortofrutticoli che nel banco fresco della grande distribuzione. Al momento il successo maggiore si è ottenuto con il semilavorato usato soprattutto per produrre pesto. «I produttori di pesto – commenta Mario Anfossi, presidente del Consorzio di tutela del Basilico Genovese Dop – hanno

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apprezzato quasi subito la possibilità di potere finalmente distinguersi, evidenziando il fatto di utilizzare un ingrediente Dop dove, oltre alla bontà è garantita anche la tenerezza della foglia, in quanto il disciplinare limita a impiegare porzioni di pianta integre con massimo 4 coppie di foglie vere, praticamente solo la punta della pianta. Attualmente abbiamo rilasciato ben 41 autorizzazioni ad apporre in etichetta la dicitura con “Basilico Genovese Dop”. Il consumatore viene così a conoscenza dell’esistenza della nuova Dop non dal prodotto presente sul mercato fresco ma dalla salsa, seconda solo a quella di pomodoro in campo internazionale. Il pesto così etichettato raggiunge, oltre al mercato nazionale, anche quello europeo e dell’Est. Altri sbocchi sono gli Usa e il Canada, spingendosi anche in Indonesia, Cina e Giappone».

In che misura l’ambiente della Liguria e le tradizioni sulle tecniche di produzione tramandate nel tempo consentono di ottenere un prodotto inimitabile e da tutelare? «Sono elementi essenziali, anche le prove di laboratorio effettuate per “convincere” la Commissione europea hanno dato dei risultati evidenti, confermando le differenze tra il basilico coltivato all’interno della zona della Dop e quello di altra provenienza». La presenza e la riconoscibilità sul mercato offre al consumatore la possibilità di conoscere e apprezzare il prodotto e quindi di aumentarne la domanda. In questo processo la questione della corretta etichettatura e tracciabilità del prodotto è fondamentale. Quale ruolo svolge il Consorzio in tal senso e quali

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AROMI Il basilico genovese

A destra, Mario Anfossi, presidente del Consorzio di tutela del Basilico Genovese Dop

• garanzie offre in particolare al consumatore? «Siamo partiti dall’informazione ai produttori, poi ai commercianti e infine ai consumatori. Il Basilico Genovese Dop è sempre riconoscibile dalla presenza del marchio, garantendo al consumatore la provenienza del prodotto e le regole tradizionali di produzione che sono imposte dal disciplinare. Le Camere di Commercio della Liguria, che sono l’organo di controllo preposto, verificano e vigilano sulle produzioni certificate». Quali le previsioni per il futuro e le prossime strategie oltreconfine? «Diffondere sempre di più il

marchio attraverso il pesto, grazie a grandi produttori italiani come Fres.Co. e soprattutto Rana, che ultimamente è portato sul mercato tre salse contenenti Basilico Genovese Dop. Attendiamo che “atterrino” sui nostri campi sia Buitoni che Barilla. Ci aspettiamo un aumento di richiesta anche da industrie alimentari estere che attualmente, nei vari Paesi della Comunità europea,comprano semilavorato per prodursi il pesto secondo le esigenze dei propri consumatori. La grossa novità sia in Italia che oltreconfine sarà quella che il consumatore, conscio dell’esistenza di questa eccellenza, andrà a ricercarla sul banco della verdura fresca riconoscendone facilmente la confezione e il marchio, già oggi presente sulle etichette del miglior pesto genovese». Quante aziende fanno attualmente parte del Consorzio e con quali iniziative l’associazione contribuisce a diffondere questo marchio tra gli operatori del settore? «Attualmente al consorzio sono

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iscritte 30 aziende che rappresentano circa l’85% della produzione certificata. Sono state molte le iniziative promozionali sia per il mercato del prodotto fresco che per quello delle conserve alimentari. Entrambi possono esibire in etichetta il logo Basilico Genovese Dop, se decidono di usare solo basilico certificato. Il Campionato mondiale del Pesto al mortaio ha visto il Basilico Genovese Dop protagonista in un evento che è ormai di portata internazionale. È sempre importante diffondere la conoscenza del disciplinare di produzione che prevede la coltivazione delle piante con metodi a basso impatto ambientale, il rispetto dei parametri di qualità, delle modalità di raccolta e di confezionamento». Il consorzio ha presentato il proprio marchio, proponendo un patto di filiera. Quali soggetti coinvolge? «Ha dato buoni risultati il patto con i ristoratori che, impegnandosi a utilizzare solo Basilico Genovese Dop, possono esporre il marchio del prodotto evidenziandolo nei loro menu».

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AROMI Il basilico

Pesto ma non solo IL BASILICO HA MILLE UTILIZZI NELLA CUCINA LIGURE. GLI ESEMPI DELLO CHEF LUCA COLLAMI DEL RISTORANTE BALDIN DI GENOVA

di Riccardo Casini

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ra le diverse varietà di basilico, quello genovese è uno dei più noti, avendo anche ricevuto negli anni passati la denominazione di origine protetta. Ingrediente fondamentale del pesto, il basilico gode comunque di vita autonoma sulla tavola ligure. È d’accordo Luca Collami, uno dei Jeunes restaurateurs d’Europe, nonché chef del ristorante Baldin di Genova (Sestri Ponente) che ha ottenuto una stella dalla guida Michelin 2010. «Il basilico è un elemento gestibile in mille modi – spiega – e può essere utilizzato nelle insalate o per aromatizzare varie pietanze. Oltre a ciò, può costituire l’ingrediente base



AROMI Il basilico

FLAN DI BASILICO Ingredienti per 4 persone: · mezzo litro di besciamella · 2 mazzi di basilico · 100 gr di pinoli · 2 spicchi di aglio · 200 gr di formaggio grattugiato · 2 uova · pangrattato · sale e pepe · olio

Preparazione: Pulire i mazzetti di basilico, togliendo una foglia per volta, poi metterlo nel mortaio e aggiungere sale, pinoli e aglio. Schiacciare con il pestello (o in alternativa con il frullatore) e in questo modo creare il pesto aggiungendo poco alla volta olio e formaggio. Una volta ottenuta la consistenza voluta, aggiungere la besciamella, le uova e il pan grattato. Mettere in stampi da flan e cuocere in forno per 30 minuti a 180 gradi. Una volta cotto, sformare e salsare con una crema di formaggio grana, precedentemente fatta con panna da pasticceria al cui interno è stato sciolto il grana grattugiato.

• Sotto, lo chef Luca Collami del ristorante Baldin

per altri condimenti, come l’olio che utilizzo per la caponatina di verdure, e che si crea semplicemente emulsionando al frullatore olio, basilico e ghiaccio, necessario per non fare ossidare le foglie. Oltre a ciò, non si può ovviamente trascurare il ruolo del basilico all’interno del pesto, un elemento a sé, che in cucina vive di vita propria. Essendo anche un condimento d'immensa tradizione e territorialità in Liguria, nel mio ristorante e nella mia cucina ha un ruolo fondamentale e principe. È curioso ricordare però che nell’antichità il condimento era fatto solo di aglio, pinoli e formaggio; il basilico arriverà in seguito». Quali sono i piatti con i quali

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si abbina meglio? «Le idee sono svariate. Mi viene semplice collegarlo a un minestrone, a una trofia, a un buon sugo di pomodoro fresco. Io lo utilizzo molto come elemento rafforzativo su pesce crudo o sulle insalatine tradizionali rivisitate in chiave marinaresca, come il “condiggiun” di seppie, un’insalata di terra con fagiolini, patate e altro». Quali sono le caratteristiche del buon basilico genovese? «Senza dubbio il colore verde acceso e la foglia piccola a forma di cucchiaio, che in dialetto infatti si chiama “accuppettae”. Il terreno su cui cresce, poi, deve essere scosceso verso il mare e rivolto verso il sole».

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TRADIZIONI CULINARIE Dal Colle di Nava

scopriamo la cucina bianca IL COLLE DI NAVA, SEPPUR VICINO AL MARE, PRESENTA TRADIZIONI CULINARIE TOTALMENTE DISTANTI DAI SAPORI MEDITERRANEE. LA PASTA FRESCA DEI FRATELLI PORRO

di Paola Maruzzi

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TRADIZIONI CULINARIE Dal Colle di Nava

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icini al mare dal punto di vista geografico, distanti per quel che riguarda la cucina. È lungo le pendici delle Alpi Marittime che si scoprono i sapori della Cucina Bianca, così chiamata perché acromatica, in quanto fatta di farinacei, latticini, ortaggi e frutti poco coloriti tra cui spiccano le patate, i porri, l'aglio, le rape, i gherigli, le castagne e altri prodotti spontanei raccolti sui sentieri della transumanza. Siamo insomma lontani dai prodotti della cucina mediterranea. «La secolare transumanza agricola e pastorale ha unito le popolazioni della montagna ligure, del cuneese e delle valli occitane; si è sviluppata così una singolare gastronomia etnica, relativa appunto ai prodotti della cosiddetta Cucina

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Bianca». A parlare sono i fratelli Stefano e Roberto Porro, titolari di un pastificio che sorge nella splendida conca di Nava, in provincia di Imperia. «Il pastificio è impegnato da sempre nel recupero della tradizione culinaria per far conoscere ai consumatori finali I Sapori del Colle di Nava e, grazie all'ottima qualità delle materie prime e alla cura nella preparazione dei prodotti, ha ottenuto un importante successo in tutto il ponente ligure e il Piemonte. La nostra produzione è costituita da venticinque tipi di pasta fresca con altrettante tipologie diverse di preparazione che vanno dalla pasta fresca all'uovo, alla torta di verdura fino alla focaccia e alla pizza. Tutte le lavorazioni vengono effettuate nel grande rispetto delle tradizioni e curate nell'uso dei

più moderni e sofisticati metodi produttivi». L’attenzione nella preparazione e nel metodo di congelamento molto avanzato permette di garantire freschezza e fragranza. «È attraverso questa peculiarità che il consumatore riceve, in maniera quasi pervasiva, il sapore delle cose fatte in casa». La piena valorizzazione del territorio avviene grazie alla scoperta delle sue specialità culinarie, ma non solo. «Nell'agosto 2002 i comuni di Briga Alta, Cosio d'Arroscia, Mendatica, Montegrosso Pian Latte, Pornassio e Triora hanno costituito un'associazione denominata “Strada della Cucina Bianca, Civiltà delle Malghe” il cui scopo principale è proprio quello di invogliare il consumatore ad una sorta di viaggio tra i nostri sapori».

In alto i metodi di lavorazione del pastificio gestito dai fratelli Porro www.fratelliporro.com info@fratelliporro.com

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FORMAZIONE John Arena

L’integrazione passa anche dalla cucina UN PONTE TRA L’ITALIA E IL RESTO DEL MONDO PER PREPARARE I PROFESSIONISTI STRANIERI E AVVICINARLI ALLA NOSTRA CULTURA CULINARIA PIÙ AUTENTICA. LE RIFLESSIONI DI JOHN ARENA, PRESIDENTE DELL’ISTITUTO CULINARIO PER STRANIERI

di Ezio Petrillo

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o scopo è quello di promuovere l’eccellenza dei nostri prodotti all’estero e insegnare ai professionisti stranieri di domani l’arte culinaria italiana. All’interno dell’Icif, l’Istituto culinario italiano per stranieri, non si formano solo chef, ma anche manager che sappiano

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conciliare l’aspetto produttivo a quello gestionale. La tradizione della nostra cucina, ai giorni nostri deve sapersi combinare con capacità imprenditoriali. Il mercato globale quasi impone la necessità di una formazione adeguata, sia teorica che pratica in questo comparto. Per questo c’è bisogno di

strutture che sappiano preparare a 360 gradi i ristoratori del domani. «L’Icif è un’associazione senza fini di lucro nata a Torino nel 1991, per l’intuizione e la volontà di un gruppo di chef italiani di prestigio internazionale e di opinion leader del settore, con l’intento di qualificare, tutelare e

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FORMAZIONE John Arena

promuovere l’immagine della cucina e dei prodotti tipici italiani, diffondendone la conoscenza ai professionisti stranieri». A parlare è John Arena, presidente in carica dell’istituto che oggi svolge il ruolo di ponte metaforico tra l’Italia e le culture culinarie di diversi Paesi. «La formazione sulla cucina e sui prodotti italiani va diversificata a seconda della nazione a cui si rivolge il corso. Per tradizione, ad esempio, i Paesi orientali sono molto distanti dalla nostra cultura gastronomica e bisogna quindi partire dai concetti base, tranne che per il Giappone, ove la cucina italiana è ben affermata e conosciuta da tempo. Da quasi vent’anni gli chef giapponesi vengono a frequentare i nostri corsi e l’apertura di molti ristoranti italiani garantisce la diffusione di

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prodotti italiani di eccellenza, indispensabili per creare una cucina autentica, che rappresenti il nostro territorio. La Corea segue la scia del Giappone, imitandolo; mentre la Cina, nazione con una cultura antica e ben radicata, è affascinata dal modo di vivere italiano e, soprattutto i giovani, sono entusiasti dei piatti della nostra cucina regionale, ma la formazione di nuovi professionisti è più complessa e laboriosa. Anche per questo motivo abbiamo aperto una scuola Icif direttamente a Shanghai, dove istruiamo studenti provenienti da scuole alberghiere cinesi desiderosi di apprendere i segreti della nostra tradizione culinaria». L’esperienza diretta con i sapori deve avvenire anche attraverso veri e propri tour enogastrono-

mici sul territorio. L’apprendimento della cultura culinaria di un luogo non può prescindere da una conoscenza in qualche modo pervasiva di quel luogo stesso. «L’Italia è un Paese molto variegato dal punto di vista culturale – continua Arena – che unisce tradizioni culinarie differenti. Per questo motivo l’organizzazione di tour enogastronomici è fondamentale per poter comprendere direttamente sul territorio come avvengono le varie produzioni. L’esperienza del gusto e quella del viaggio, in tal senso, non possono non intrecciarsi». A partire dal 2011, l’Icif proporrà un master in Food management, per fornire maggiori competenze dal punto di vista tecnico e manageriale a professionisti e studenti di scuole alberghiere. La globaliz-

In alto,John Arena, presidente dell’Istituto culinario per stranieri

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FORMAZIONE John Arena

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zazione, in sostanza, influenzerà sempre più le nuove prospettive della formazione. «Il futuro del nostro istituto è proiettato su nuovi mercati che si stanno avvicinando con grande interesse alla cucina italiana. Possiamo citare la Russia e l’Ucraina. In Turchia abbiamo da poco aperto un ufficio di rappresentanza per il reclutamento di studenti, viste le numerose richieste pervenuteci. Abbiamo anche siglato un importante accordo con una Scuola delle Filippine, che ha iniziato a inviare in Italia i propri studenti per un approfondimento sulla cucina e sul vino. Un’importante novità, dal secondo semestre del 2011, saranno i corsi di Food management, rivolti soprattutto a professionisti del settore e a studenti di scuole alberghiere ita-

liane, che potranno acquisire specifiche competenze tecniche e manageriali necessarie per gestire le diverse attività di una cucina di una struttura alberghiera o di un ristorante». I numeri di iscritti dell’istituto torinese sono in continua crescita. Ciò denota un interesse sempre maggiore da parte dei giovani stranieri alla nostra cultura culinaria. Una maggiore integrazione tra i popoli passa anche attraverso una conoscenza reciproca dei rispetti sapori. «In questi anni abbiamo diplomato circa 2.700 studenti – conclude Arena – provenienti da ogni parte del mondo. Molti di questi sono oggi professionisti affermati e proprietari di ristoranti italiani di alto livello. In Giappone, ad esempio, sono attualmente 98 i ristoranti italiani gestiti da chef diplomati all’Icif».

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FORMAZIONE Simone Murru

Istruttori

di sapori SCOPRIRE LE PECULIARITÀ DELL’OFFERTA CULINARIA DEI NOSTRI TERRITORI. CONOSCERE LA VARIETÀ DEI SAPORI ITALIANI ATTRAVERSO LA VOCE DI CHI FORMA GLI OPERATORI DEL FUTURO. L’ESPERIENZA DI SIMONE MURRU di Ezio Petrillo

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all’olio extravergine agli aceti aromatici, dalle paste fresche al pane, passando per l’immortale tradizione della pizza, dei dolci e dei gelati all’italiana. Questi sono solo alcuni degli argomenti su cui è incentrata la formazione dei giovani allievi stranieri iscritti all’Icif. «I corsi tematici di cucina italiana sono stati creati appositamente per offrire una preparazione completa, dagli ingredienti base fino al menu completo e all’arte di servirlo a tavola». A parlare è Simone Murru, chef istruttore dell’istituto torinese.

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L’immagine della cucina e dei prodotti tipici italiani all’estero. C’è stato un cambiamento di prospettiva negli anni da parte degli operatori stranieri? «Percorsi di formazione approfonditi sulla nostra cucina non possono che aiutare gli operatori stranieri a comprendere appieno le caratteristiche millenarie della nostra tradizione. Dal canto nostro, negli anni abbiamo registrato una partecipazione sempre maggiore non solo degli studenti, ma anche di professionisti provenienti da altri Paesi, magari semplicemente incuriositi dallo studio dei nostri sapori.

Per questo accanto a master e corsi specialistici, offriamo anche corsi amatoriali per chi è interessato al settore, senza l’idea svolgere necessariamente in futuro questa professione». Quali devono essere le peculiarità dell’insegnamento della cucina italiana? «L’insegnamento di una materia così importante non può prescindere dall’utilizzo di prodotti autentici. Obiettivo fondamentale del nostro istituto è quindi quello di trasmettere agli studenti l’importanza dell’utilizzo di materie prime di eccellenza per la buona riuscita di un autentico

A destra Simone Murru, chef istruttore dell’Icif

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FORMAZIONE Simone Murru

In alto, allievi dell’Icif alla scoperta del ricco panorama enogastronomico italiano

Percorsi di formazione approfonditi sulla nostra cucina non possono che aiutare gli operatori stranieri Ottobre 2010

piatto italiano, e renderli consapevoli del fatto che la qualità e la provenienza dei prodotti devono essere considerati elementi essenziali nel loro lavoro». In che misura la varietà dei prodotti regionali italiani è un punto a nostro favore? «Il fatto che ci siano cibi così diversi in ogni regione è senza dubbio una fonte di ricchezza. Noi docenti ci confrontiamo ogni giorno con l’insegnamento di argomenti che riguardano prodotti appartenenti a varietà diverse che cambiano a seconda della regione. Questo aspetto ri-

guarda in particolar modo l’olio extravergine, le paste fresche e ripiene e i sughi tradizionali». Quanto la cucina italiana, comunque molto legata alla tradizione, lascia spazio alla creatività e all’innovazione? «Bisogna garantire il giusto connubio e non far prevalere l’uno o l’altro aspetto. Senza sperimentazione anche la tradizione più radicata si svilisce. Quando, invece, si cerca di stupire a tutti i costi, spesso si finisce in un vicolo cieco. È questo il consiglio principale che diamo ai nostri giovani allievi».

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Apt di Chioggia


QUESTIONE DI GUSTI Marco Müller

ICHE mIeI saPORI GUARDAnO A oriente È UN ESPERTO SINOLOGO. LA DIREZIONE DELLA MOSTRA DEL CINEMA LO HA PORTATO A VENEZIA. MARCO MÜLLER TRACCIA UN PERSONALE EXCURSUS GASTRONOMICO. TRA LA SERENISSIMA E L’ORIENTE

di Francesca Druidi

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roduttore, direttore di importanti festival cinematografici, tra cui Pesaro, Rotterdam, Locarno e oggi Venezia, la più antica rassegna filmica del mondo. Marco Müller, non va dimenticato, è anche un esperto sinologo. Dai suoi studi di orientalismo e antropologia svolti in Italia fino alla specializzazione e al dottorato conseguiti in Cina, Müller può essere considerato il primo e maggior diffusore in Occidente del cinema cinese, attraverso l’attività saggistica, la consulenza a festival per retrospettive e sezioni monografiche, ma anche attraverso la produzione di numerosi film indipendenti cinesi, tra cui Diciassette anni di Zhang Yuan, premio per la regia a Venezia 1999. L’attuale direttore della Mostra di Venezia sembra, del resto, destinato alla multi-culturalità fin

dalla nascita, essendo suo padre italosvizzero e avendo sua madre natali italo-brasiliani-greco-egiziani. Una propensione che si trasferisce anche a tavola. Esiste un piatto del patrimonio gastronomico veneziano al quale non sa rinunciare? «Tra i miei piaceri proibiti, vanno senz’altro annoverati i sardoni freschi, spinati e fritti, un piatto tipico della tradizione veneziana. I miei bacari di riferimento, quando mi vedono passare, mi avvertono subito se i pescatori ne hanno portati di freschi. Anzi, diciamo che faccio quasi apposta a transitare di fronte alle loro porte. I sardoni sono assolutamente imbattibili così come i moscardini, nella stagione giusta. Presto particolare attenzione al

Marco Müller, sinologo e attuale direttore della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Fondazione La Biennale di Venezia

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QUESTIONE DI GUSTI Marco Müller

ATTENTI AI CLICHÉ DEL MADE IN ITALY La gastronomia italiana è presente in molte pellicole cinematografiche straniere. Non sempre con risultati apprezzabili. «Sono sempre stato profondamente irritato – confessa Marco Müller – quando negli ultimi anni ho visto sullo schermo cuochi italiani, perché spesso la rappresentazione degenera in macchietta. Basti pensare a uno dei nostri attori più straordinari, Sergio Castellitto, che nel momento in cui ha dovuto interpretare un cuoco nel film Bella Martha (Ricette d’amore è il titolo italiano, ndr), i piatti che cucinava e soprattutto il modo erano quanto di più prevedibile potesse esserci». Per Müller, sarebbe bello se il cinema riuscisse a trascrivere gli sviluppi che oggi caratterizzano la cucina italiana, dove convivono tradizione e innovazione.

non mi faccio mancare le • calendario: moeche, quando c’è un “pusher” che me ne trova di vere dell’Adriatico e, finita la Mostra, faccio in tempo ad andare a Chioggia per le masanete, pietanze cui non rinuncerei facilmente». Ci sono punti di contatto e di divergenza tra il gusto veneziano e quello orientale? «Nella cucina storica veneziana dell’ultimo secolo o in quella innovativa contemporanea, preparare il pesce è un’attività che detiene un primato che, salvo pochi chef giapponesi, l’Asia ci deve ancora invidiare. L’unico punto di arretramento lo individuo nel crudo: bisogna in alcuni casi studiare ancora come si taglia, ma conosco ad esempio due pescivendoli del Lido che preparano il taglio per il sashimi

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come se fossimo al mercato del pesce di Tsukiji a Tokyo». Quali sono i piatti e i sapori asiatici che predilige? «Preparo regolarmente cucina cinese, indiana e giapponese. Ho un regime di base fatto di riso, soia, tantissime verdure e, in generale, tutti i piatti che possono essere saltati e fiammati molto rapidamente. Una delle poche cose che non riesco a trovare nei bacari è quel tipo di cucina saltata con fiamma altissima che rende i cibi croccanti, mantenendo inalterato all’interno quel nucleo di giusti sapori degli ingredienti». Quanto è lontana la cucina cinese consumata in Italia da quella realmente preparata e mangiata in Cina? «Qualche settimana prima della

Nella cucina veneziana preparare il pesce è un’attività che detiene un primato che, salvo pochi chef giapponesi, l’Asia ci deve ancora invidiare

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QUESTIONE DI GUSTI Marco Müller

• Mostra di Venezia, ero a Roma con i curatori della retrospettiva de La situazione comica (per la 67esima edizione del Festival di Venezia, ndr) e Carlo Verdone. Si è trattato quasi di un pasto funebre, abbiamo infatti consumato un pasto strepitoso con le lacrime agli occhi: la mia cuoca di riferimento tra i ristoranti cinesi della Capitale partiva a settembre per il Canada. Era, dunque, l’ultima occasione di gustare tutti i tipi di ravioli fatti in casa. A Roma, i ristoranti cinesi sono decine e a Venezia li ho provati tutti. Ogni volta vado a parlare con i proprietari e il cuoco. Però fatico in Laguna a trovare qualcosa che si avvicini ai sapori e ai profumi della Cina». Quali sono gli aspetti magari poco conosciuti da evidenziare per quanto riguarda questa

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gastronomia? «La freschezza degli ingredienti e la necessità che tutto sia preparato all’ultimo momento». Se dovesse scegliere un vino, la sua scelta su quale ricadrebbe? «In questo periodo sto mettendo a frutto la mia esperienza trevigiana. Ho vissuto più di due anni a Treviso quando mi occupavo di Fabrica Cinema e con regolarità facevo la spola tra i luoghi della produzione vinicola: Conegliano, Valdobbiadene, Montello e Refrontolo. Sono legato alle nuove sperimentazioni, alcuni prosecchi extra-dry e Cartizze non hanno nulla da invidiare agli champagne francesi. E il confronto tra un’area gigantesca come quella della denominazione controllata dello champagne e un’area molto più piccola come

quella del prosecco, rende merito ai migliori produttori veneti». Oggi il cinema è una delle arti più soggette alle dinamiche della globalizzazione e, riflettendo il presente, traduce sul grande schermo questa istanza. Quali forme assume oggi il rapporto tra cinema ed enogastronomia? «Nella mia esperienza di produttore, una delle prime mosse dopo aver scelto gli ambienti reali in cui girare il film, era esplorare la regione alla ricerca dei migliori prodotti enogastronomici e, in qualche modo, far affascinare la troupe alle caratteristiche di quel luogo attraverso la scoperta dei diversi vini, piatti e prodotti. E quando questo aspetto entra a far parte del processo produttivo di un film, forse si vede anche nell’opera».

Sopra, due immagini del mercato del pesce di Tsukiji a Tokyo

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APPUNTAMENTI Salone del Gusto

Cibi plurali IL LINGOTTO OSPITA L’OTTAVA EDIZIONE DELLA FIERA INTERNAZIONALE DEL GUSTO. TRA NUOVE GEOGRAFIE ENOGASTRONOMICHE TROVA POSTO L’IMPATTO ZERO SUL TERRITORIO

di Paola Maruzzi

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ducare, tutelare e promuovere, percorrendo trasversalmente l’universo delle abitudini alimentari. Triplice obiettivo per l’ottava edizione del Salone del Gusto 2010, voluto dalla fondazione Slow Food, dalla regione Piemonte e dalla città di Torino. Partner d’eccezione l’associazione Terra Madre. Il Lingotto apre così le porte a contadini, artigiani, grandi chef e “semplici” buongustai provenienti da ogni parte del mondo. Il principio guida è appunto la mescolanza. Di idee, esperienze, sapori e naturalmente di identità culturali. Che il cibo non sia solo materia organica lo sanno bene i promotori di Slow Food,

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che anche quest’anno torna a “presidiare” l’evento con le immancabili degustazioni. Ma, come sempre, la buona cucina è un mero pretesto per parlare d’altro. Mangiare è, infatti, il rituale che più di tutti lega l’uomo al territorio. O meglio, i prodotti locali raccontano e declinano le biodiversità: questo è il vero filo conduttore dell’iniziativa. Non è quindi azzardato tentare di mappare la geografia enogastronomica del pianeta, mescolandone le carte. All’interno dello spazio del Grande Mercato, cuore “narrante” del Salone, la suddivisione degli espositori non segue più le vie tematiche ma l’origine e la produzione degli alimenti. In questo modo l’orientamento

percettivo del visitatore si ritrova letteralmente spiazzato e piacevolmente colpito. Quest’anno l’avanscoperta dei sapori più disparati procede di pari passo con il principio dell’ecosostenibilità. Così torna con prepotenza una tematica già affrontata nel 2008: l’attenzione a ridurre l’impatto dell’uomo sull’ambiente. In tale ottica gli organizzatori hanno messo a punto 22 nuove idee, sviluppate dal Politecnico di Torino e Slow Food, in collaborazione con l’Università di Scienza gastronomiche. L’obbiettivo è quello di dar vita a un “sovrastruttura” intelligente. Tutti i supporti grafici e gli allestimenti sono, infatti, realizzati con materiali ecosostenibili e, a chiusura

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APPUNTAMENTI Salone del Gusto

Il principio guida è la mescolanza. Di idee, esperienze, sapori e naturalmente di identità culturali

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APPUNTAMENTI Salone del Gusto

Il cibo si sposa con l’ecosostesibilità. Obiettivo di quest’anno è ridurre l’impatto ambientale della Fiera Gusto • 282

della Fiera, verranno rigorosamente riciclati. Tanto per fare degli esempi, i teli utilizzati per la grafica diventeranno delle borse realizzate da Sciolla Company, mentre sul banco di Slow Food è possibile acquistare accessori per l’abbigliamento realizzati con teli in Pvc e moquette recuperati da precedenti manifestazioni. Inoltre il sistema di raccolta interna ed esterna punta a raggiungere il 70 per cento di differenziazione dei rifiuti. Anche il sistema di illuminazione e consumo energetico viene tenuto sotto controllo attraverso l'utilizzo di led e apparecchiature a basso consumo. Tra le

innovazioni, il protagonista di quest’anno è senza dubbio il Qr code, strumento che permette di fornire all’utente maggiori informazioni e curiosità su un determinato prodotto diminuendo l’uso del supporto cartaceo tipico di brochure e flayer. Roberto Burdese, presidente di Slow Food Italia, sottolinea come «quest’insieme di iniziative abbia messo in relazione virtuosa oltre trenta aziende e soggetti, che prima di adesso non si conoscevano». Un motivo di orgoglio che rafforza e arricchisce di nuovo senso il percorso verso un politica alimentare buona, pulita e giusta.

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L’AMARONE Luca Sartori

Un vino di raffinata finezza POCHE ED EFFICACI CONCESSIONI ALLA TECNOLOGIA. TUTTO IL RESTO È TRADIZIONE DELLA VALPOLICELLA. LO ASSICURA LUCA SARTORI, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DI TUTELA

di Michela Evangelisti

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l consorzio per la tutela dei vini Valpolicella Doc è una realtà associativa tra viticoltori, vinificatori e imbottigliatori, attiva sul territorio ormai da più di 30 anni e al servizio della qualità dei vini Valpolicella. Il consorzio esercita un controllo totale sulla filiera del prodotto vino, dal vigneto alla bottiglia, in un contatto pressoché quotidiano con le singole realtà produttive, da quelle a conduzione famigliare sino ai grandi gruppi del settore. Quali sensazioni si provano degustando un Amarone eccellente? «Le sensazioni credo si possano riassumere in quattro parole: elegante sontuosità e raffinata

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finezza. Di fatto, essendo un vino in cui la mano del produttore e la microzona di provenienza fanno la differenza, i descrittori sono infiniti. Ciliegia, a volte sotto spirito, marasca, violetta, spezie, cioccolato, pepe nero, ma anche caffé, vaniglia, erbe fini, solo per citarne alcuni e dare un'idea della molteplice varietà riscontrabile. Parliamo di un vino che, a dispetto della categoria a cui appartiene, diventa facile a bersi anche per le donne, proprio perché evoca atmosfere calde e vellutate di grande piacevolezza». Dove sono i segreti della realizzazione di un Amarone di qualità? «Innanzitutto nella cernita delle uve, dove la sapienza dell’uomo diventa un fattore insostituibile. Poi nella

tecnica dell’appassimento, dove le uve attendono circa 120 giorni prima di essere pigiate. I fruttai, in cui la temperatura e l'umidità sono rigorosamente tenute sotto controllo, e i serbatoi in acciaio, dove è possibile seguire la fermentazione in tutte le sue fasi prima dell’affinamento nel legno, sono l'unica concessione alla tecnologia. Tutto il resto è storia e tradizione della Valpolicella». Con quali sapori del territorio l’Amarone si sposa meglio? «L’Amarone si può intendere come vino da tutto pasto, anche se privilegia piatti di grande struttura, in cui addirittura il vino stesso diventa uno degli ingredienti. Ecco allora il risotto all’Amarone, il brasato con lo stesso, la carne bollita tipica della

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Nella pagina a fianco, Luca Sartori, presidente del consorzio di tutela

tradizione veronese, la cacciagione, i formaggi stagionati e tutti i piatti robusti che in questo vino trovano il complemento ideale. Ma è anche vino da meditazione, per un piacevole dopocena, magari davanti a un caminetto nelle lunghe serate invernali». Quanti produttori sono coinvolti nel consorzio e quali iniziative comuni portate avanti per la tutela e la promozione dell’Amarone? «I produttori di uve in totale sono circa 2.500, di cui 1.800 iscritti al consorzio, e 168 sono le aziende imbottigliatrici. La tutela viene assicurata da un rigoroso piano di controllo di rispetto del disciplinare di produzione, che viene applicato da un ente autorizzato dal

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Ministero. La promozione viene portata avanti direttamente dal consorzio attraverso una serie di azioni quali workshop e degustazioni indirizzate sia ai paesi in cui la conoscenza dell'Amarone è già consolidata, sia ai paesi emergenti. Azioni alle quali tutti i produttori sono invitati a partecipare in prima persona». Come stanno andando le vendite? «Se consideriamo le difficoltà del periodo che stiamo attraversando, che penalizzano in particolar modo i vini di alta gamma quali l’Amarone, direi decisamente bene. Il 2010 sembra essere orientato verso un aumento di circa il 20% nelle vendite per un totale di circa 10/11 milioni di bottiglie».

Quali linee guida seguirete per continuare ad affermare l’unicità del vostro vino? «Credo che l’esclusività dell’Amarone risieda nell’Amarone stesso. Il riconoscimento della Docg ne è la prova evidente. La sua unicità è dovuta a un insieme di fattori irripetibili quali i vitigni autoctoni, la tecnica dell'appassimento e la zona di produzione, che creano un “unicum”, il vero e solo valore aggiunto che distingue questo vino da un altro. La divulgazione di tutto ciò può avvenire solo attraverso una promozione mirata ed efficace, dove tutti gli attori della nostra denominazione diventano parte attiva nel comunicare la storia, la tradizione e l’orgoglio per il territorio nel quale abbiamo la fortuna di abitare».

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Il cashmere

dei vini UN’ISOLA ENOLOGICA CHE HA ATTRAVERSATO INDENNE UN SECOLO E MEZZO DI STORIA E CHE, SPIEGA IL PRESIDENTE EMILIO PEDRON, VUOLE CONTINUARE A DARE CERTEZZE AGLI AMANTI DELL’AMARONE

di Michela Evangelisti Ottobre 2010

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e Cantine Bertani hanno celebrato nel 2007 il loro 150° anniversario di attività: una tradizione che si riversa in vini presenti nei menu dei ristoranti più prestigiosi, non solo in Italia ma anche in Europa, e un punto di riferimento per la produzione dell’intero territorio veronese. Bertani possiede oggi circa 200 ettari di vigneti nelle principali aree Doc della provincia di Verona, oltre alla splendida villa settecentesca a Novare e alla cantina di Grezzana, cuore pulsante e quartier generale dell’azienda. Quali sono le peculiarità della vostra cantina? «Possiamo dire che Bertani, con 152 anni di gestione familiare alle spalle, è il padre nobile dell’Amarone. Lo produciamo dal ’58, da quando ha iniziato a diffondersi. Ancora oggi

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L’AMARONE Cantine Bertani AMARONE DELLA VALPOLICELLA CLASSICO DOC · Zona di produzione: le uve provengono dai vigneti della tenuta Villa Novare, ad Arbizzano di Negrar, nel cuore della Valpolicella Classica · Affinamento in bottiglia: almeno 12 mesi · Aspetto: colore rosso intenso, con sfumature granato · Profumo: spiccano al naso le note tipiche di prugna, di ciliegia e di marasca · Sapore: si apre in bocca con tutti i frutti a bacca rossa che si ripetono per lunghezza, addolciti da note di vaniglia su di una stoffa morbida e spessa

viene confezionato nella stessa bottiglia, nasce dagli stessi terreni, incarna la stessa tradizione e lo stesso stile. In cantina abbiamo una raccolta di bottiglie della annate storiche, alcune delle quali negli anni sono state acquistate da clienti affezionati,

Sopra, Emilio Pedron

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presidente della Repubblica: sono vini che emozionano ancora».

come i più noti ristoranti della zona. Il nostro segreto sta nell’aver resistito alle tentazioni della moda, al rischio di adattarsi a gusti diventati man mano sempre più facili. I procedimenti che seguiamo sono quelli tradizionali: maturazione naturale, cernite delle uve in percentuali bassissime, uva a riposare in soffitte di legno, 100/120 giorni di riposo, vinificazione tradizionale con fermentazioni lentissime, 6 anni di affinamento in vecchie botti di rovere e poi almeno 2/3 in bottiglia. Il nostro è un vino longevo, che diventa una sorta di rituale per gli amatori».

Cosa si prova degustando il vostro Amarone? «È un vino dai colori intensi ma trasparenti, il cui sapore di prugna, ciliegia, marasca, frutta secca, vira col passare del tempo verso la liquirizia e le spezie. Al palato è avvolgente ed elegante; la sua rotonda morbidezza ricorda il cashmere più raffinato. Lo consiglio accompagnato a brasato di manzo, carni rosse molto cotte, o a fine pasto, abbinato ai grandi formaggi».

Con una storia così sostanziosa alle spalle, ha qualche aneddoto da raccontarci? «L’Amarone è figlio del Recioto dolce. Bertani conserva in cantina una scorta di Recioto/Amarone del 1928. Murata durante la guerra, perché la cantina era stata occupata dai tedeschi, era stata dimenticata da tutti. La riscoperta è avvenuta nel 1984. Una delle preziose bottiglie è stata donata al

Qual è la vostra mission per il futuro? «Non tradire mai i clienti. Abbiamo il dovere etico di rispettarli: devono riconoscere in ognuna delle nostre bottiglie una certezza. Non inseguiamo facili espansioni quantitative. Abbiamo addirittura eliminato tutta l’annata 2002, perché non poteva raggiungere la qualità da noi ricercata».

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Protagonista dei men첫 pi첫 raffinati


L’AMARONE Giancarlo Perbellini

DESTREGGIANDOSI TRA ERBE SPONTANEE E PRODOTTI DI STAGIONE, LO CHEF GIANCARLO PERBELLINI ESALTA SAPIENTEMENTE NELLE SUE PROPOSTE IL GUSTO IMPORTANTE DELL’AMARONE

di Michela Evangelisti

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ella memoria di ognuno di noi trovano spazio ricordi legati a sapori e profumi che ci riportano indietro nel tempo, a quando eravamo bambini e ci deliziavamo i sensi con le pietanze preparate dalla mamma o dalla nonna. Giancarlo Perbellini, chef del ristorante Perbellini a Isola Rizza, Verona, si propone di far provare ai suoi clienti le stesse emozioni, anche se con accostamenti e tecniche moderne. È una sfida impegnativa, che solo la passione per il suo lavoro può stimolare. Perbellini conduce il ristorante di famiglia da 18 anni e, pur amando

sperimentare, rimane legato alla storia e alla stagionalità del territorio.

Sotto, lo chef Giancarlo Perbellini

Che genere di cucina propone e come valorizza nei suoi piatti i sapori locali? «Nella nostra cucina amiamo interpretare i prodotti locali di stagione: in primavera soprattutto mi lascio ispirare dalle erbe spontanee, come i “carletti” (i fiori del luppolo) e i “bruscandoli” (piccolissimi asparagi selvatici), e dal pesce di lago. In inverno, invece, il maialino non manca mai dai nostri menù. Il 50% della nostra cucina è moderna e creativa, ma manteniamo sempre vivo il legame con i

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L’AMARONE Giancarlo Perbellini

RISOTTO MANTECATO ALL’AMARONE CON RAGÙ DI SCAMPI E PEPERONI DOLCI Ingredienti per 4 persone: · 300 gr Riso Carnaroli · 12 scampi sgusciati e puliti · 100 gr peperoni gialli e rossi · 2 dl Amarone · 1l brodo vegetale bollente · 80 gr burro · 30 gr parmigiano grattugiato · olio extra-vergine d’oliva q.b. · sale e pepe q.b. · cerfoglio 4 rametti di guarnizione Preparazione: Tagliare 8 scampi a dadi tenendone 4 di guarnizione. Spellare i peperoni e prepararne una dadolata fine. In una casseruola tostare il riso a secco, bagnarlo con metà dell’Amarone e lasciar sfumare. A poco a poco aggiungere il brodo

bollente e continuare la cottura rimestando con un cucchiaio di legno. In una padella con un goccio di olio, scottare i peperoni, salarli e peparli. In un tegamino ridurre il restante Amarone con 20 gr di burro. A parte rosolare con un filo di olio gli 8 scampi a pezzetti e i 4 interi, salare e pepare. Quando il risotto è quasi pronto aggiustarlo di sale e pepe, versarvi i peperoni e poi toglierlo dal fuoco mantecandolo con un filo di olio, il restante burro ed il Parmigiano. Servire il risotto guarnendolo con la dadolata di scampi, rifilarlo con la riduzione di Amarone mettendo poi al centro uno scampo intero ed un rametto di cerfoglio.

• sapori della tradizione».

Nella nostra cucina amiamo interpretare i prodotti locali di stagione. In inverno il maialino non manca mai dai nostri menù Ottobre 2010

Come utilizza l’Amarone nelle sue ricette e in abbinamento a quali specialità lo consiglia? «Una ricetta che amo proporre ai miei clienti è quella del risotto con Amarone, peperoni e scampi. In inverno poi prepariamo molti piatti che si abbinano

magnificamente con il re della Valpolicella, piatti dai sapori pieni e robusti, perché è un vino importante, con un’alta gradazione alcolica. È prefetto ad esempio in accompagnamento al guanciale di vitello brasato con patate e porri (che è uno dei nostri piatti alla carta), oppure al maialino con mele, pesto di noci e salsa di acciughe».

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TRADIZIONI VITIVINICOLE Celestino Gaspari

La mia idea di autoctono CELESTINO GASPARI, SIMBOLO DELLA VALPOLICELLA, È UNA METAFORA VIVENTE DEI SUOI VINI. COMPLESSO, VIVACE, INCREDIBILMENTE LEGATO ALLA SUA TERRA

di Piero Moretti

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Celestino Gaspari, titolare dell’Azienda Agricola Zymè di San Pietro in Cariano (Vr) - www.zyme.it

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na produzione di alta classe, destinata prevalentemente ai mercati internazionali. Sono otto i vini che la nota azienda agricola Zymè, a San Pietro Cariano, nella Valpolicella, presenta al mondo. L’autore è Celestino Gaspari, fondatore della Casa. Uomo di pensiero quanto d’azione, è uno degli enologi italiani più preparati e raffinati, con un carnet ricco di risultati importanti e un curriculum che ha le sue radici formative negli undici anni trascorsi lavorando a fianco del suocero Giuseppe Quintarelli. In ordine di tempo, l’ultima creatura di Celestino Gaspari è un Valpolicella Classico Superiore, nominato semplicemente “Val”, che sta sicuramente per Valpolicella «ma anche per Valore».

Zymè è partita producendo grandi vini innovativi, come l’Harlequin e il Kairós, o l’Oseleta vinificata in purezza. Perché ha poi deciso di rivolgere la sua attenzione ai classici del territorio? «Per la mia azienda questi tre classici, il Valpolicella giovane ‘Reverie’, il classico superiore e l’Amarone, costituiscono il prodotto-punto di forza. Sono la dimostrazione ulteriore che ai muscoli preferisco l’eleganza, esattamente ciò che offrono le nostre uve Corvina, Corvinone e Rondinella. Se dovessi pensare a un vino di riferimento, mi viene subito in mente il Borgogna piuttosto che un Bordeaux. Per la percentuale consentita dal protocollo, nei miei Valpolicella utilizzo altre due uve autoctone, l’Oseleta e la Croatina. Lo

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TRADIZIONI VITIVINICOLE Celestino Gaspari

I TRE CLASSICI I frutti di base che accomunano i classici di Celestino Gaspari sono la ciliegia e la marasca, tipici in Valpolicella. «Il Reverie è giovane, fresco, fruttato, di compagnia, rispecchia l’identità delle nostre uve, Corvina, Corvinone e Rondinella. Il Classico Superiore è un Valpolicella più strutturato, maturo, complesso, ma anche questo rispettoso delle sue origini e, ancora una volta, di facile beva. Infine, il nostro Amarone è aristocratico, porta la sapienza del vissuto, la conoscenza del suo territorio: complesso, ricco ma anch'esso in veste elegante e di amichevole beva».

faccio per conservare l’espressione autentica dei vini di questa zona, i loro valori organolettici come il colore aperto, cromaticamente vivace. E poi, solo frutti arrivati alla vendemmia con un bilanciamento ottimale, senza eccedere nel difetto o nella forzatura. Grande cura, attenzione e sensibilità, dalla selezione delle uve fino alla bottiglia, per ottenere equilibrio, forza ed eleganza. Questo per me è, e deve essere, il risultato».

Cosa rappresenta per lei “la ricerca dell’autoctono”? «È un po’ come cercare se stessi, per trovare risposte che non possono venire dall’esterno. Così, la ricerca dell’autoctono è cercare in un vino quello che ha dentro di sé e farlo uscire nel giusto punto di incontro, per raggiun-

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gere quell’equilibrio in cui tutto è perfetto. Anche se non coincide con la definizione ufficiale, io considero autoctoni i vitigni che sono da almeno un secolo su un determinato territorio, a patto che esprimano precisi e specifici valori che possono appartenere solo a quella terra, a quel particolare clima e al tradizionale metodo di vinificazione di quell’area».

Alcuni vostri vigneti sono collocati in paesaggi naturali dove un impianto di viti non te lo aspetti, anche difficoltosi da raggiungere e da lavorare. Quali sono le ragioni di questa scelta? «Perché ricerco la simbiosi con l’ambiente. Ho scelto di impiantare vigneti in zone vergini, selvatiche, con piante perenni, su terreni che non

hanno mai avuto coltivazione di vite, perché la pianta assorba dal contesto ambientale profumi e sapori diversi, che si traducono nel vino in proprietà organolettiche particolari, come nell’Harlequin e nel Kairós. Anche la nostra cantina ha un forte connotato ambientale. Si trova in un’antica cava di “pietra madre”, non sono pietre sovrapposte, ma è ancorata alla terra, così con il vino si instaura un rapporto tra corpi vivi, un continuo trasferimento di energie. Un luogo dello spirito, quindi, non solo un edificio produttivo e commerciale. E poi, qui, l’escursione termica tra estate e inverno è di soli 7°C, tra i 12°C e i 19°C, e sull’umidità la pietra ha un effetto spugna, la assorbe quando è parecchia, la trasmette quando è poca».

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Alla corte di Valpolicella UN BORGO ANTICO COME LE TRADIZIONI VITIVINICOLE DELLE COLLINE VERONESI. DOVE I ROSSI SPRIGIONANO SENTORI DI SPEZIE E FRUTTA

di Adriana Zuccaro

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TRADIZIONI VITIVINICOLE I rossi della Valpolicella

www.valentinacubi.it

MORAR - AMARONE DELLA VALPOLICELLA CLASSICO · Gradazione alcolica: 15,5 % volume · Zona di produzione: Monte Tenda, Monte Crosetta, Rasso · Uve: Corvina 70%, Corvinone 25%, Rondinella 5%. · Aspetto: rosso granato intenso, aristocratico e di buona ampiezza · Bouquet: spezie a volontà contornate da sensazioni di frutta matura · Abbinamenti: carni rosse, selvaggina, formaggi stagionati

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u un versante della valle di Fumane, nel cuore di uno dei più significativi territori a vocazione vitivinicola d’Italia, la Valpolicella, si erge un borgo settecentesco dalla corte aperta verso le colline. È la sede dell’azienda agricola Valentina Cubi le cui cantine rappresentano l’esempio di un processo di modernizzazione delle tecniche di lavorazione dell’uva unito mirabilmente all’antica tradizione vinicola locale. Ogni attività svolta, sia in vitigno sia in cantina, riflette quel legame tra la cultura e l’ambiente che da sempre caratterizza questo luogo. Ed è proprio a rinvigorire questa stretta relazione che Giancarlo e Valentina Cubi, durante i lavori di ristruttura-

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zione degli antichi immobili, hanno scelto di mantenere le caratteristiche e le tipologie originali della struttura. «Con il termine dei lavori di ristrutturazione della cantina abbiamo dato il via all’imbottigliamento dei nostri rossi tra cui l’Iperico, un Valpolicella Classico dai profumi intensi di frutta a bacca rossa, il Meliloto Recioto Classico, unico nel suo genere per la sua intensità cromatica e gusto-olfattiva, e il Morar Amarone Classico, un rosso granato dai sentori di spezie e frutta, dal sapore ampio e vellutato apprezzato in tutto il mondo». Vi è poi l’Arusnatico, un Valpolicella Classico Superiore Ripasso ottenuto dall’omonima tecnica che «prevedendo una seconda fer-

mentazione sulle vinacce del Recioto – spiega Valentina Cubi –, sfrutta i residui di mosto-vino trattenuti, conferendo maggior struttura a un prodotto dalle caratteristiche ineguagliabili». Ultimo nato è “qb”, un Igt delle Venezie che oltre alle antiche uve Corvina, Rondinella e Molinara racchiude un 30% di Sangiovese e Cabernet grazie al quale assume un colore granato con riflessi violacei e una nota fra liquirizia e spezie. «Con l’acquisizione di nuovi terreni alle porte di Verona, abbiamo avviato anche la produzione di vino biologico, – racconta Valentina Cubi – interamente prodotto e vinificato all’interno della modernissima sede concepita per ospitarlo».

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il re Amarone L’ECCELLENZA ENOLOGICA VENETA È SPESSO RICONOSCIUTA NEI CALICI DI AMARONE. COSÌ DALLE CANTINE SANTA SOFIA È GIUNTO FINO ALLA CASA BIANCA

di Adriana Zuccaro

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TRADIZIONI VITIVINICOLE Cantine Santa Sofia

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legante, fine ed equilibrato. Lo stile dei vini classici veronesi Santa Sofia è ambasciatore nel mondo di un territorio che ha molto da raccontare. Dall’Amarone al Gioè, dal Recioto all’Arlèo, dal Montegradella al Ripasso, «la pigiatura soffice e la fermentazione a bassa temperatura sono una regola per tutti i vini che assumono identità propria nelle nostre cantine». Alla guida dell’azienda Santa Sofia fin dal 1967, l’appassionato enologo Giancarlo Begnoni, insieme ai figli Luciano e Patrizia, persegue una strategia dell’eccellenza enologica. «Coniughiamo l’esperienza del passato e l’indispensabile contributo della tecnologia per ottenere, dalle migliori uve delle zone classiche doc del Valpolicella, Bardolino, Soave, Lugana e Custoza, vini rossi armoniosi e di grande stoffa e bianchi delicatamente profumati e di piacevole beva». L’Amarone, il vino re della Valpolicella, ha fatto il suo debutto con l’annata 1964 nelle cantine storiche Santa Sofia e con la sua particolare etichetta fustellata traccia il solco di un design inconfondibile. «All’Amarone Classico, maturato in botti di rovere di Slavonia, nelle annate di particolare pregio, affianchiamo il Gioè Amarone, la riserva di cantina che – spiega Begnoni –

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lasciamo maturare sia in botti di rovere di Slavonia che in carati da 225 litri di rovere di Allier». A Pedemonte, una delle zone più affascinanti e temperate delle colline veronesi, la visita all’azienda Santa Sofia è tappa irrinunciabile per l’enoturismo e non solo. Il colonnato palladiano a bugnato gigante che incornicia l’ingresso alla villa cinquecentesca, sede dell’azienda, sembra volere abbracciare e custodire la terra su cui si erige. Ed è proprio in occasione del quinto centenario della nascita di Andrea Palladio, genio dell’architettura classica, che «abbiamo prodotto un’edizione limitata di Amarone della Valpolicella Doc Classico 2003, nominata, non a caso, De Divino Palladio». Poco dopo la bottiglia numero 44 ha raggiunto la Casa Bianca in occasione dell’insediamento del 44° Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, «in un ponte ideale tra la Valpolicella e Washington accomunate tanto dal genio palladiano quanto dalla passione per il buon vino». Ma non sono solo gli Stati Uniti a condividere il piacere offerto dal bouquet dei vini Santa Sofia; presenti in quaranta Paesi, rappresentano l’alta scelta diffusa tra i ristoranti e le enoteche più prestigiose del mondo.

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AMARONE DELLA VALPOLICELLA D.O.C. CLASSICO · Gradazione alcolica: 15% volume · Affinamento: 8-12 mesi in bottiglia · Aspetto: colore rosso rubino carico tendente nel tempo al granato · Sapore: profumo caratteristico e molto intenso. Sapore delicato, pieno, caldo, vellutato · Abbinamenti: grandi arrosti, selvaggina da pelo e formaggi stagionati

Giancarlo, Patrizia e Luciano Begnoni della storica azienda Santa Sofia di Pedemonte di Valpolicella (VR) - www.santasofia.com

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TRADIZIONI VITIVINICOLE Il Tai Rosso

Alle porte dei colli Berici IL TAI ROSSO PORTA IL “LUSSO” DELLA GENUINITÀ FUORI DALLA TERRA D’APPARTENENZA. I COLLI BERICI. DOVE FLUTTUANO GLI AUTENTICI SAPORI DEI VINI LE PIGNOLE E NON SOLO

di Adriana Zuccaro

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erra. Manualità. Scrupolosa dedizione. Nel Veneto del vino, la terra accoglie le mani di chi la lavora e le ringrazia con «frutti che portano il “lusso” della genuinità al di fuori del proprio territorio di origine». Così i vini, gli oli e le grappe dell’azienda agricola Le Pignole raccontano la forza e la peculiarità di sapori che solo i colli Berici possono donare. «Da anni ormai l’azienda è impegnata in un progetto che mira alla valorizzazione del terroir locale, producendo vini che ne esprimano pienamente il carattere. Tanto attraverso i vitigni autoctoni, Tai rosso in primo luogo, quanto con gli internazionali che qui hanno trovato un buon acclimatamento». Paolo Padrin, portavoce dell’azienda gestita insieme a Gianna Bortolamai, racconta

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un’eredità raccolta e ampliata all’insegna del rosso, il Tai fermentato nelle cantine Le Pignole insediate nel comune di Brendola, conosciuto come “la porta dei Berici”. In Italia, la tradizione vitivinicola veneta è tra le più radicate. Come si traduce tale realtà a Le Pignole? «La peculiarità dei vini Le Pignole deriva innanzitutto dall’autoctonicità del nostro Tai rosso e non dall’ultimo Garganega. Entrambi i vitigni sono tra i più presenti sui colli Berici. Oggi, probabilmente, parlare di vitigni autoctoni può sembrare un po’ ridondante, ma proprio perché è l’unica Doc riconosciuta in Italia e introvabile in qualsiasi altra parte, il Tai rosso è per noi qualcosa di definitivo, di straordinariamente particolare».

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TRADIZIONI VITIVINICOLE Il Tai Rosso

TORENGO 2007 COLLI BERICI DOC · Uve: Tai rosso · Vigneti: le uve provengono dall’area dei colli Berici, comuni di Brendola e di Altavilla Vicentina · Affinamento: 9 mesi in barrique di secondo passaggio. 4 mesi in bottiglia · Profumo: buona complessità, note di erbe aromatiche, lampone e pepe nero · Abbinamenti: molto versatile, si sposa con carni al forno come il capretto, formaggi stagionati ma anche pesci saporiti

Cosa lo rende speciale? «Il vino maggiormente rappresentativo dell’azienda è il Torengo, prodotto con le uve autoctone di Tai Rosso che vinifichiamo recuperando un’antica tradizione del luogo. Vuole che le uve siano portate a piena maturazione e il vino affinato per alcuni mesi in botti di rovere. Per avere un’idea del risultato, basti pensare che il nostro Tai Rosso è uno stretto parente del Grenache, coltivato nel sud della Francia e conosciuto come il “vino dei Papi”. Alla grande struttura e longevità, il Tai Rosso porta in dote dal territorio dei Colli Berici una notevole freschezza, che dona al Torengo un’acidità spiccata e una caratteristica nota di speziato, con sentori di pepe finale. Il lampone chiude all’olfatto la magia del gusto».

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Il vino “va sempre a braccetto” con l’olio. Anche a Le Pignole? «Alla gamma dei nostri rossi, bianchi, spumanti e passito, si aggiungono non solo l’olio extra vergine di oliva Muraroni ma anche la grappa di Torengo e la gelatina di vino Tocai rosso Torenghina. Dal 2009 abbiamo inoltre avviato l’associazione di imprese ViLLa, Vicenza Luxury Labels, che riunisce attualmente 8 aziende agricole e artigianali, espressione dell’eccellenza nell’ambito delle tipicità enogastronomiche del territorio vicentino. Tra queste, i liquori Brunello, i tartufi, i formaggi affinati di Prelibatesse, le soppresse di Casa Berica, il riso, l’asparago bianco, il caffè Sabana e altro ancora, portano “il lusso” della genuinità fuori dal territorio di origine».

Paolo Padrin e Gianna Bortolamai dell’azienda agricola Le Pignole di Brendola (VI) www.lepignole.com

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REGINA DEL GARDA Casaliva

oro del garda A NORD PER RIBALTARE LA GEOGRAFIA AGRONOMA NAZIONALE. PERCHÉ LE PIANTE D’ULIVO NON SONO PREROGATIVA DEL MEZZOGIORNO. LO DIMOSTRA L’OLIO DEL GARDA

di Paola Maruzzi

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uel ramo sul lago del Garda. Viene voglia di rimaneggiare il celebre incipit manzoniano per raccontare l'ennesima storia, creativa e tenace, della piccola imprenditoria italiana. E d'altronde il bresciano Ugo Caldera, titolare di un’azienda che si occupa dell’intera filiera dell’olio, ha un po' il piglio del personaggio romanzesco. Ha viaggiato da una sponda all'altra del Mediterraneo – Grecia, Nord Africa e Spagna – per poi tornare al punto di partenza, Garda appunto. Qui, a due passi dalle acque dolci, ha voluto sfatare un millenario luogo comune: le piante d'ulivo non sono prerogativa del Mezzogiorno. Possono crescere, maturare ed eccellere anche nel settentrione. «Siamo nel punto più a nord in cui si coltivano gli ulivi. Naturalmente le difficoltà a cui andiamo incontro sono numerose, ma altrettante sono le particolarità organolettiche del nostro olio. Naturalmente non solo un pioniere. Sin dall’antichità in questo

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lembo di terra, dalla morfologia e dal clima singolari, è stato votato alla coltivazione e alla produzione dell’olio». Per la precisione si chiama Casaliva la pianta autoctona regina del Garda. Come definire la spremitura dei suoi frutti? Quando Ugo Caldere parla di oli preferisce non essere sbrigativo, liquidando la domanda con un generico “buono”. Bisogna essere puntigliosi e allora vale la pena passarne in rassegna le caratteristiche. «L’unione di fattori microclimatici e i parametri restrittivi rendono il nostro olio certificato Dop. Se nel resto del mondo un normale extravergine può avere 20 mg di perossido, il nostro olio deve mantenersi molto più basso. Se solitamente viene accettato un tasso di acidità dello 0,8 per cento noi dobbiamo mantenerci sullo 0,5 per cento. Percentuali chimiche e certificazioni non sono irrilevanti. Per chi coltiva e produce olio i numeri sono la cartina di tornasole della qualità». Stesso motivo per cui a Ugo Caldera non convince molto un termine inflazionato come extravergine. «Significa tutto e niente. È come dire vino rosso. I fattori chimici sono molto facili da ottenere ma ben diverse sono le virtù specifiche dei Dop».

GARDA DOP BRESCIANO · Zona di provenienza:Garda occidentale (bresciano) · Varietà di olive: leccino e casaliva 90%, frantoio 10% · Metodo di estrazione: ciclo continuo · Colore: giallo con riflessi verdi · Profumo: fruttato delicato, caratterizzato da note di mandorla fresca ed erbe di campo con un leggero fondo di vaniglia · Sapore : elegante, dolce con un piacevole fondo amaro gradevolmente piccante · Impiego: si consiglia l’utilizzo su tutti i piatti dal sapore delicato (pesce di mare e di acqua dolce, verdura, carni bianche, pasticceria fine)

A sinistra, Ugo Caldera info@oleariacaldera.com

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LE STRADE DEL VINO Valerio Massimo Manfredi

A tavola c’è l’essenza

della Roma antica L’ARCHEOLOGO VALERIO MASSIMO MANFREDI RACCONTA LE ABITUDINI ALIMENTARI DEI ROMANI DISTINGUENDO TRA LA CUCINA UMILE E L’ALIMENTAZIONE RICCA DELLE CLASSI SUPERIORI

di Renata Gualtieri

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quileia è identità e memoria di una storia che ancora oggi si ritrova nei ristoranti, nelle piazze o nei caffè della città. «Tutte le nostre terre – commenta l’archeologo Valerio Massimo Manfredi – sono fortemente romanizzate e le nostre lingue e tradizioni ne sono una prova ineludibile». A conferma di ciò basta ricordare la rassegna enogastronomica del luogo “A tavola con gli antichi romani”. «Tutte le volte che ho fatto delle conferenze ad Aquileia ho trovato un pubblico molto partecipativo, è quell’interesse comune che si trova si trova spesso tra la gente nel nostro Paese». La colonia romana di Aquileia fu fondata nel 181 a.C. divenendo un punto di partenza per la spedizioni esplorative militari.

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Ma come si nutriva l’esercito romano? «Il pane o la focaccia cotta sulla brace erano alla base della loro alimentazione, poi, se capitava l’occasione, avranno anche avuto provviste diverse. Gli uomini dell’esercito portavano con sé il grano in chicchi, perché più facilmente trasportabile, lo pestavano, lo macinavano e poi lo impastavano volta per volta. Non utilizzavano farina perché con l’acqua e l’umidità poteva corrompersi. Prova ne è il fatto che cento anni prima durante la spedizione di Lucullo in Asia minore, essendo venuto a mancare il grano ed essendosi dovuti nutrire di carne, ci fu una specie di epidemia di dissenteria perché la carne, già difficile da digerire, si deteriora facilmente».

A sinistra, Le rose di Eliogabalo, di Lawrence Alma-Tadema, (1888); sotto, l’archeologo Valerio Massimo Manfredi

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LE STRADE DEL VINO Valerio Massimo Manfredi

• L’esercito portava con sé il grano in chicchi perché più facile da trasportare

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Aquileia era anche un centro di soggiorno invernale per le legioni dell’esercito romano, ma anche residenza imperiale. Quali erano i cibi più ricorrenti nella cucina degli antichi romani? «Da una parte vi era una cucina più povera ma più sana, non adatta per un esercito in massa, che prevedeva i formaggi, le verdure, le uova, la frutta e i legumi, molto utilizzati durante le spedizioni e buoni per fare delle zuppe che avevano anche un contributo proteico. Mentre per l’alimentazione delle classi superiori, dal Corpus di Apicius, abbiamo notizia di una cucina evidentemente di ispirazione orientale, molto speziata che prevedeva l’utilizzo di salse, fatta di carni molto elaborate, ripiene e di cacciagione. Il famoso garum era una salsa micidiale per i nostri gusti di oggi e pesante da digerire. Sulla Fortuna Maris, una nave trovata nell’entroterra ferrarese, ho visto di persona, che a bordo c’erano ossa di maiale su cui si distingueva bene l’uso del falcione; quasi sicuramente erano animali vivi

che stavano a bordo e che venivano macellati volta per volta. Già nell’Anabasi di Senofonte si racconta di romani che, quando potevano farlo, acquistavano nei villaggi. In Oriente per esempio trovavano il vino di Palma, che però faceva venire il mal di testa, mentre nella parte orientale dell’Anatolia, compravano la birra». Cosa resta oggi delle ricette di Apicio, il più antico cuoco di Roma? «Un’usanza che resta, in alcune parti d’Italia è quella di concentrare il mosto fino a farne una specie di crema densa, che poi si aromatizza. Era un dolcificante a buon mercato, nutriente. Nel manuale di Apicius c’è una ricetta che dice “perna cum sapa acida”, quindi questo sapa esisteva. Augusto invece, ritornando all’alimentazione romana, mangiava caseum bubulum manu pressum, che potrebbe essere qualcosa di simile alla mozzarella, ed effettivamente i romani preferivano i formaggi freschi».

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STRADE DEL VINO Aquileia

IL VINO che viene

dal passato DA AQUILEIA FINO AL BORGO DI CLAUIANO. UN PERCORSO PER SCOPRIRE I VINI LOCALI, TRA CUI SPICCA IL REFOSCO DAL PEDUNCOLO ROSSO, DISCENDENTE DEL PUCINUM, IL VINO PREFERITO DA LIVIA, SECONDA MOGLIE DELL’IMPERATORE AUGUSTO

di Renata Saccot Gusto • 310

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STRADE DEL VINO Aquileia

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ono tredici i Comuni che, dall’entroterra al mare della provincia di Udine, formano la strada del vino di Aquileia, l’unica riconosciuta dalla Regione Friuli Venezia Giulia. In questa fascia della pianura friulana - puntellata da testimonianze dell’Impero romano, da castelli medievali e borghi rurali - il tempo è ancora scandito dalla natura poiché «i fiumi di risorgiva Ausa e Natissa sono gioielli naturalistici che non hanno nulla da invidiare agli altri corsi d’acqua italiani», precisa Roberto Fornasir, presidente dell’associazione Strada del Vino di Aquileia. «Qui – continua il presidente – ogni paese ha le sue tradizioni tutte da scoprire sia dal punto di vista culturale che enogastronomico ovviamente». Lungo il percorso si possono trovare 900 ettari di vigneti dove le aziende vinicole associate producono vini bianchi, come il Friulano, la Malvasia, il Sauvignon, il Traminer aromatico, lo Chardonnay e il Pinot grigio. Per quanto riguarda i rossi, si trovano Cabernet franc, Cabernet sauvignon e Merlot. Il re dei vitigni rossi autoctoni è, il Refosco dal Peduncolo

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rosso, «un vino che rispecchia perfettamente il popolo friulano, per certi versi rigido, duro, testardo e caparbio», sottolinea con fierezza Fornasir. Quali sono le caratteristiche che rendono unica questa strada? «Quella di Aquileia è l’unica strada del vino della regione. Non si inventa una strada del vino, le aziende e i comuni aderenti hanno degli standard qualitativi da rispettare, parametri e leggi che li vincolano. L’unicità poi è data sicuramente dal brand Aquileia, vale a dire il marchio friulano più famoso al mondo». Quali sono le peculiarità comuni, in termini di valori e di identità, che legano le aziende associate alla strada del vino di Aquileia? «La strada copre quasi tutto il territorio della provincia di Udine e va dal comune di Trivignano Udinese, fino a sud di Aquileia, passando per l’antico borgo medievale di Clauiano e Palmanova, la città stellata. L’itinerario comprende 13 Comuni associati

Sopra, la Basilica di Aquleia

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STRADE DEL VINO Aquileia

certificati. Poi ci sono ristoratori, enoteche, alberghi, bed and breakfast, agriturismi e produttori di altri beni agricoli; tutti devono accettare i parametri fissati per le rispettive categorie».

Sopra, la cartina della Strada del Vino di Aquileia; a destra, Roberto Fornasir, presidente dell’Associazione

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volontariamente e circa 45 aziende sia agricole che non. Per le aziende aderenti ci sono da rispettare alcuni parametri qualitativi: il vino, rigorosamente imbottigliato, deve avere la denominazione Doc, certificata dalla Camera di Commercio e ogni azienda deve disporre di locali adibiti all’ospitalità e all’assaggio del vino, anch’essi

Quali sono le eccellenze enogastronomiche del territorio che meritano di essere segnalate? «Sicuramente alcuni presidi Slowfood, i formaggi di capra o di vacca, le marmellate del territorio di Fiumicello, la mortadella e i wurstel fatti in casa, la lonza salata e speziata; tutti cibi unici che si possono gustare solo in queste zone perché provare un prodotto dove si produce, con la maestria e l’entusiasmo del produttore stesso, cambia l’assaggio. Lo stesso prodotto assaggiato lontano dalla fonte di produzione è diverso perché non si conosce il “campanile” che c’è alle spalle. Certo è possibile gustare un Refosco in qualunque posto, ma farlo nel nostro territorio è un’esperienza unica in quanto questa è una terra che è sempre stata di confine e di battaglie. Qui si sono combattute le più grandi guerre a cui il nostro Paese ha preso parte, per cui l’intensità dei profumi e degli aromi dei nostri prodotti è data anche da questo: da un territorio stupendo, ma di frontiera, di “combattimenti”».

sono il borgo medievale di Clauiano, Palmanova, il Borgo di Strassoldo a Cervignano, che è rimasto quasi invariato nel corso dei suoi 700 anni; non può mancare poi una visita ai fiume di risorgiva Ausa e Natissa di Aquileia». C’è qualche aneddoto particolare, nel presente o nel passato, legato a questa strada? «Si narra che duemila anni fa Livia, la sposa dell’imperatore Augusto, visse 86 anni - allora la vita media di vita era intorno ai 40 anni - perché beveva il pucinum, il Refosco dal peduncolo rosso. Infatti, questo vino è ricco di coloranti rossi, gli antociani appunto, che hanno una funzione antiossidante dimostrata da ricerche e studi. Attualmente si sta cercando di ottenere creme antiossidanti a scopo estetico dai nostri rossi colorati». Quali gli eventi di promozione turistica più significativi per

Quali, in un ideale percorso, le tappe che devono assolutamente essere considerate per coglierne al meglio l’essenza? «Oltre all’Aquileia romana, dalla quale poi si dipanavano le vie romane della zona, come la via Annia e la via Julia Augusta, altre città da visitare

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STRADE DEL VINO Aquileia

REFUSCO DAL PEDUNCOLO ROSSO RISERVA 2001 · Gradazione alcolica: 13-13.5% vol. a seconda dell'annata · Colore: rosso rubino, cristallino, consistente con archetti fitti · Profumo: abbastanza intenso e persistente, fruttato di frutti di bosco come mora, con note di pepe e cannella · Gusto: secco, caldo, morbido, fresco, tannico, sapido, di corpo, intenso, abbastanza equilibrato e abbastanza persistente con retrogusto amarotico, armonico · Affinamento: in barriques di primo, secondo e terzo passaggio per 18 mesi. Dopodiché si assembla con il vino ottenuto dalle uve appassite, in percentuale del 5%-8% a seconda dell'annata e un ulteriore passaggio per 6 mesi in botti grandi. Viene poi imbottigliato dove riposa ancora 6 mesi Servire a 18°

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• avvicinare i turisti a questa realtà? «Il 20 settembre si è conclusa “Friuli Doc”, che vede riunite numerose associazioni enogastronomiche della riviera friulana, tra cui quella dei pescatori di Marano e Grado e quella della zucca di Bagnaria Arsa; un’altra iniziativa realizzata in collaborazione con il comune di Cervignano è “Terra e Fiumi”, si tratta di mostre o fiere sull’enogastronomia. Inoltre, partecipiamo alla manifestazione “Storia dei sapori” a Palmanova e ai “patroni di Aquileia”; coordiniamo “V’incanto”, una manifestazione che abbina la degustazione di vini del territorio a temi musicali, unendo cultura ed enogastronomia; infine, c’è “A tavola con gli antichi romani”, manifestazione in cui i ristoratori locali, richiamandosi a ricette originali della Roma imperiale, propongono menu di quell’epoca utilizzando cibi e vini del territorio. La risposta dei visitatori è ottima, i turisti arrivano soprattutto dall’Austria e dalla Russia, visto che le origini

dell’ortodossia russa partono proprio da Aquileia. Il Friuli è una bellissima regione dove la gente è brava nel proprio lavoro, un po’ nella promozione e nel marketing». Qual è il suo vino preferito? Perché? «Il Refosco. Le bottiglie per legge devono essere numerate, le mie portano la data di nascita di mia figlia Beatrice, per cui per me è come un figlio. Lo amo come amo questo territorio perché in fondo in quel Refosco ci sono anche io. Il Refosco è un vino tenace e non potrebbe nascere altrove perchè la tenacia, la caparbietà sono la caratteristica che unisce tutti i friulani. Nel 452 d.C. Attila distrusse Aquileia e diede il colpo di grazia all’Impero romano d’Occidente, ma il Refosco sopravvisse. Il terremoto del 1976 ha colpito duramente questi luoghi, ma il Friuli è rinato; anche per questo il Friuli e il Refosco sono indissolubilmente connessi».

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STRADE DEL VINO Raffaella Nardini

Il vino che unisce

terra e mare RAFFAELLA NARDINI, SOMMELIER E PROFONDA CONOSCITRICE DEI VINI DEL BASSO FRIULI, APRE LE PORTE DELLA STRADA DEL VINO DI AQUILEIA. SVELANDO COLORI E PROFUMI DEI GRANDI VINI DELLA ZONA

di Camilla F. Gargano


STRADE DEL VINO Raffaella Nardini

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a promozione di un territorio spesso parte dall’esaltazione dei frutti di quella terra. Si tratta di un processo in cui le parole d’ordine sono la qualità e il legame con la zona di appartenenza. In Friuli Venezia Giulia ci sono più di 18.000 ettari di vite e se si sommano i vini a denominazione di origine a quelli a indicazione geografica tipica il numero di aziende vitivinicole interessate raggiunge le 9.000 unità. All’interno di questo variegato universo di vitigni rossi e bianchi, di cui fanno parte alcuni tra i più conosciuti e apprezzati vini italiani, ci sono quelli della zona Doc Friuli Aquileia. Qui nascono, tra gli altri, i bianchi Malvasia istriana, Verduzzo friulano, Pinot e i rossi Merlot, Cabernet e Refosco dal peduncolo rosso, «il più importante degli autoctoni della nostra zona», tiene a precisare la sommelier Raffaella Nardini, delegata dall’Associazione sommelier italiani per il Basso Friuli.

Ci sono altri vini da aggiungere? «La strada di Aquileia collega il mare all’entroterra per questo motivo vi si trovano sia bianchi che rossi, sia vini autoctoni che vitigni internazionali. Tra i bianchi, spiccano il Friulano, da uve Tocai Friulano produciamo soprattutto

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vitigni internazionali quali Chardonnay, Müller Thurgau, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Riesling, Sauvignon e Traminer in particolare; per quanto riguarda i vini rossi abbiamo la produzione di Cabernet, inteso come uvaggio di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon; poi abbiamo il Cabernet Franc in purezza e il Cabernet Sauvignon in purezza; il Merlot e, importantissimo, il Refosco dal peduncolo rosso, il più importante degli autoctoni della nostra zona: un vitigno che ha trovato il suo habitat naturale nella zona di Aquileia».

produzione minore è la qualità, quindi noi tendiamo a ridurre la produzione a favore della qualità. Oggi i consumi sono diminuiti, ma chi ama il vino preferisce bere meno e meglio».

Quali sono i numeri della zona? «La maggior parte dei vini della strada di Aquileia sono a denominazione di origine controllata. Non vi sono Docg e una percentuale limitatissima, il 5%, può fregiarsi del marchio Igt. Dal punto di vista quantitativo la produzione di vini bianchi è leggermente superiore a quella dei rossi, di cui il Refosco dal peduncolo rosso rappresenta una buona percentuale. Queste zone potrebbero produrre molto di più di quanto in realtà fanno: il disciplinare prevede una resa di 120-130 quintali per ettaro; chiaramente maggiore è la

Dal punto di vista organolettico quali sono le loro caratteristiche? «I bianchi di questa zona sono soprattutto vini dai profumi intensi, fruttati e floreali; i Sauvignon e i Traminer hanno un corredo aromatico decisamente superiore, derivante non solo dalla fermentazione, ma dai profumi dell’uva stessa e per questo si chiamano aromatici. I nostri vini sono freschi, intendendo con freschezza il contenuto di acidità che li rende molto piacevoli alla beva. Caratteristica importantissima dei nostri vini bianchi è la sapidità, sono vini “saporiti” per usare un termine più facile da intendere, e

Sopra, la sommelier Raffaella Nardini

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STRADE DEL VINO Raffaella Nardini

La strada di Aquileia collega il mare all’entroterra per questo motivo vi si trovano sia bianchi che rossi, sia vini autoctoni che vitigni internazionali

questo è dovuto alla vicinanza con il mare. Anche i vini rossi si impongono all’attenzione per i loro meravigliosi colori, piuttosto intensi, che vanno dal porpora al rubino, per passare poi a colori più granati quando si parla di vini maturati in legno. Sono fruttati, profumati, hanno un discreto contenuto di tannini, tanto da renderli adatti a periodi di maturazione in legno». In una sorta di classifica ideale, quali i vini “eccellenti” per peculiarità, annata e vitigno?

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«Un posto importante merita il Friulano per il quale l’annata 2009 è stata ottimale; il 2010 sarà sicuramente ideale per i vitigni aromatici perché abbiamo avuto grandi escursioni termiche dal giorno alla notte che aiutano la preparazione dei profumi. Per il Refosco, il nostro vino rosso più importante, l’ideale sarebbe avere autunni caldi perché il Refosco è un vino tardivo, quindi ha bisogno di parecchio tempo per maturare. C’è anche da dire che avendo in questa zona varie tipologie sia di vini autoctoni sia internazionali, sia vitigni precoci che tardivi, può

accadere che un’annata ottima per un vino, lo è di meno per un altro. Ad esempio, il 2003 è stato l’anno del grande caldo che ha avuto delle rese molto basse, invece il 2004 è stato l’anno dell’abbondanza; qualitativamente possiamo dire che il 2003 è stato migliore del 2004, però nel 2003 hanno sofferto molto i vini bianchi, perché il grande caldo non ha permesso la produzione di profumi; è stata invece un’annata ottima per i rossi. Detto questo, segnalerei il Refosco del 2003, del 2006 e anche del 2009, soprattutto quello che sta ancora maturando in legno. Tra i bianchi, segnalo il

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STRADE DEL VINO Raffaella Nardini

• Friulano e i vini aromatici, quindi il Sauvignon e il Traminer aromatico, senza distinzione di annata». C’è un vitigno che esprime al meglio l’anima della zona? «Anche se viene prodotto con percentuali non elevate, il simbolo di questa zona è il Refosco dal peduncolo rosso. È un vino che si presenta strutturato, dai colori che vanno dal rubino intenso con riflessi violacei fino ad arrivare al granato molto profondo quando è stato affinato; ha un bel contenuto tannico e, quando è giovane, si presenta fresco, fruttato, molto piacevole, con un tannino ancora un po’ crudo; mentre quando è più maturo si presenta con un bouquet molto più complesso, ampio, con

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sentori speziati, più morbido ed equilibrato, quindi facile da degustare. È un vino che si esprime molto bene in abbinamento con la cucina locale». Qual è quindi il connubio perfetto? «Con il Refosco giovane, un abbinamento interessante è quello con un nostro piatto tipico locale che in friulano è brovade e muset, cotechino, quindi un insaccato di maiale cotto, con la brovade, rape che vengono lasciate per lungo tempo sotto le vinacce e poi cotte e proposte con questo insaccato di maiale; mentre per un Refosco affinato in legno e un bouquet più complesso, l’abbinamento giusto è con carne stufata, magari cucinata

con il Refosco stesso, che poi viene bevuto oppure anche con la selvaggina, in particolare con la lepre in salmì». Dovendo fare qualche nome, quali etichette segnalerebbe? «In questa zona abbiamo una realtà molto varia, fatta di aziende estremamente piccole a gestione familiare e aziende più grandi che si propongono a un mercato molto più ampio. Entrambe le tipologie hanno i loro prodotti di punta, inserite nelle guide più importanti di Italia. Fare dei nomi sarebbe limitativo e sarebbe un peccato lasciare fuori qualcuno. Le eccellenze riguardano soprattutto la tipologia del prodotto più che le singole aziende».

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UNA DINASTIA DI VITICOLTORI Roberto Felluga

Il verde Collio I VINI, MA NON SOLO, DI UNO DEI NOMI STORICI DELLA CULTURA VITIVINICOLA FRIULANA. DALLE PAROLE DI ROBERTO FELLUGA

di Pierpaolo Marchese

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nizia oltre cento anni fa il rapporto tra la famiglia Felluga e il mondo del vino. In Istria, terra di origine di quella che possiamo considerare una vera e propria dinastia di viticoltori. Giovanni inizia a produrre vino già nella seconda metà del 1800. Con le generazioni successive aumenta sempre di più la produzione vitivinicola che entrerà poi nel Dna di questa famiglia. La grande intuizione avviene dopo la Grande Guerra, quando i Felluga si trasferiscono in Friuli, trovando nel Collio la loro terra d’oro. Ogni collina ha il proprio microclima, e i terreni arenari e marnosi sono l’habitat ideale per i

vigneti e la produzione di vini di grande qualità. Una terra speciale, ricca, che otterrà, tra le prime in Italia, il riconoscimento Doc nel 1964. In questi anni Marco Felluga, dà grande impulso all’attività di famiglia. A lui, formatosi alla scuola di enologia di Conegliano, si deve il percorso dell’innovazione, della qualità e della ricerca che ha portato al grande successo l’azienda. E oggi, a proseguire la strada tracciata dai suoi predecessori, è il figlio Roberto, a capo delle aziende Marco Felluga di Gradisca d’Isonzo, 100 ettari dove si producono per lo più vini bianchi, tra cui il Collio Molamatta, Ribolla Gialla, Mongris, e della Russiz Superiore di Capriva del Friuli, terra di eccellenza, in particolare dei noti Collio Bianco Col Disôre e Collio Rosso Riserva degli Orzoni.

Tra vino e natura Il Relais Russiz Superiore di Capriva del Friuli è ricavato dalla ristrutturazione di antichi rustici annessi alla foresteria dell’omonima azienda. Circondato dai 100 ettari della tenuta, si trova in una splendida posizione da cui si abbracciano con lo sguardo le dolci colline del Collio. Un’occasione per apprezzare il territorio, tra passeggiate a piedi o in bicicletta, gustando i sapori tipici della sua tradizione. Su richiesta, vengono inoltre organizzati soggiorni personalizzati, tour e cene gourmand nei ristoranti del luogo fino alla vicina Grado. A pochi chilometri, inoltre, gli amanti del green potranno godere dell’esclusivo campo da golf di Capriva del Friuli, mentre gli appassionati di storia si ritroveranno vicini ai siti archeologici di Cividale e Aquileia. www.russizsuperiore.it - relais@russizsuperiore.it

Anche lei, come suo padre, pone una precisa filosofia produttiva al marchio. «Lavoriamo affinché tradizione e ricerca vadano avanti di pari passo. È importante, dal mio punto di

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UNA DINASTIA DI VITICOLTORI Roberto Felluga

COLLIO BIANCO COL DISÔRE · Gradazione alcolica: 13,5% volume · Affinamento in bottiglia: 1 anno, vino di grande struttura che si presta all’invecchiamento · Aspetto: colore giallo paglierino intenso con riflessi oro-verdi · Profumo: elegante, ricorda i fiori di acacia e di pompelmo, accompagnato da fondo vegetale e note dolci · Sapore: avvolgente in bocca, si presenta morbido, con un buon estratto. L’equilibrio tra sapidità e freschezza porta a un finale molto lungo che si sviluppa in note calde e ammandorlate

In apertura, Roberto e Marco Felluga www.marcofelluga.it

vista, il legame che da sempre unisce la produzione delle due aziende al territorio».

Come si gustano i vostri vini bianchi? «Si prestano a essere bevuti relativamente giovani, ma possono essere lasciati ad affinare alcuni anni per ritrovare delle complessità con sentori minerali e di frutta matura molto interessanti». Lei ha realizzato il Collio Pinot Grigio Riserva Mongris, il Collio Sauvignon Riserva Russiz Superiore e il Collio Pinot Bianco Riserva Russiz Superiore. Vini nuovi; quale riscontro hanno ottenuto? «Sono etichette presenti da pochi anni sul mercato ma già molto apprezzate; da queste terre si possono ottenere vini bianchi di struttura e di grande longevità.

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Devo inoltre dire che, pur essendo specializzati nella produzione di vini bianchi, non è da meno la qualità dei rossi, sia autoctoni che internazionali».

Lei ha da sempre il pallino della ricerca. «Vero. È un punto di forza sia nella coltivazione dei vigneti che nella vinificazione delle uve per un’azienda. Ciascun vino ha un proprio tempo e un proprio luogo di fermentazione e maturazione. Ogni vendemmia è diversa da un’altra. E pertanto è importante e affascinante saper interpretare la natura. E tutto questo è anche una sfida che si può vincere mettendo assieme la propria storia, la propria esperienza con la conoscenza e la ricerca. Non si finisce mai di imparare». Oltre ai vini, presso l’azienda Russiz Superiore ha

aperto un suggestivo Relais. Come è nata l’idea? «Recentemente alcuni ospiti sono rimasti incantati dalla nostra chiesetta circondata dai vigneti e ci hanno chiesto di poter celebrare qui i loro matrimoni. I paesaggi nel Collio sono molto belli e pertanto abbiamo pensato, assieme a mia moglie Elena, di proporre un luogo in cui poter soggiornare sommersi nella natura e conoscere da vicino il nostro universo enologico. Così, oltre al comfort del Relais si affianca una serie di proposte per ospiti ed enonauti. Si va dalle visite guidate in cantina con degustazione dal lunedì alla domenica, o alla scoperta del Collio tra le vigne o diverse piste a piedi o con le biciclette che mettiamo a disposizione per i nostri ospiti. Su richiesta organizziamo pranzi e cene, cui vengono abbinati i vini delle nostre due aziende Marco Felluga e Russiz Superiore».

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“Ebbrezza”

valdostana IL PROFUMO AMPIO E PIENO DI FRUTTA ROSSA MATURA. IL SAPORE APPAGANTE E RICCO. ECCO LE UVE DE LA SOURCE

di Adriana Zuccaro

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NEL CUORE DELLA VAL D’AOSTA Le uve de La Source

VALLE D’AOSTA DOC TORRETTE · Vitigno: Petit Rouge 90% Vien de Nus e Fumin 10% · Vigneto: Quart, Villeneuve, Saint Pierre · Affinamento: 3 mesi circa · Bouquet: frutta rossa, ciliegie, prugne · Densità: 6500-6800 piante per ettaro · Vinificazione: a temperatura controllata di 26-28°C

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opra la pianura scavata dalle acque della Dora Baltea, nel cuore della Val d’Aosta, il castello di Saint-Pierre tacito sovrasta il paesaggio, inebriato dalle uve de La Source. L’azienda agricola della famiglia Celi-Cuc, di cui Stefano Celi è l’anima, raccoglie l’eredità vitivinicola tramandata da generazione in generazione. «Concentriamo le nostre conoscenze e passioni nei 7 ettari di terra investita a vigneto specializzato Doc; ne curiamo la coltura e l’allevamento scegliendo le migliori tecniche agronomiche per ottenere vigneti che esprimano al meglio le loro potenzialità, non solo tipicamente valdostane». Fin dalla realizzazione dei nuovi impianti, l’azienda La Source ha investito ogni risorsa nella scelta dei portainnesti più idonei e, naturalmente, nella scelta dei vitigni. «Oltre agli internazionali Syrah,

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Gamay, Müller Thurgau, Shiraz e Arvine – spiega Stefano Celi, perito agrario classe 1971 –, è stato dato ampio spazio a vitigni autoctoni con prevalenza di Petit Rouge, ma anche Premetta, Vien de Nus, Fumin e Cornalin». Dalla terra alla bottiglia, la trasformazione delle uve raccolte avviene nella moderna cantina sita in località Bussan Dessous di SaintPierre. «L’attenta selezione delle uve che si effettua in fase di prevendemmia permette di portare in cantina un prodotto da trasformare sano e con le migliori caratteristiche per la realizzazione di vini dalle elevate caratteristiche». Tra questi, come un padre che guarda la prole, Stefano Celi descrive il primo rosso de La Source, Torrette. «È forse il vino più importante dell’azienda, piuttosto potente e strutturato, non teme alcuni anni di invecchiamento. Un leggerissimo passaggio in legno di

medie dimensioni ne favorisce la maturazione senza essere percettibile al palato. Il profumo è ampio, pieno, di frutta rossa matura, ciliegie, prugne. Il sapore è appagante, sembra quasi che l’uva si sia dimenticata la fatica che fa per crescere e maturare, per manifestarsi ricca, matura e dolce».

In apertura, panoramica del castello di Saint-Pierre alle cui spalle, in località Bussan Dessous, ha sede l’azienda La Source www.lasource.it

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Ad alta quota SOTTO IL MONTE BIANCO NASCONO GLI SPUMANTI MIGLIORI D’EUROPA. IL CASO DE LA CAVE DU VIN BLANC DE MORGEX ET DE LA SALLE

di Andrea Moscariello

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ra le realtà produttive vinicole più alte d’Europa, con il suo vitigno autoctono, il priè Blanc, con le sue viti franche di piede, non innestate, che si inerpicano fino a 1200 metri di altitudine, La Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle ha toccato quota 150mila bottiglie annue. Nel primo decennio di attività di vinificazione la Cave ha raddoppiato il numero dei soci, attualmente un centinaio, e incrementato del 100% la propria produzione. Certo, il dato produttivo può sembrare ridotto rispetto ad altre realtà vitivinicole, ma occorre ricordare che questo rappresenta oltre il 90% delle uve raccolte nei Comuni di Morgex e La Salle, per un totale di 20 ettari di superficie, e, soprattutto, che le caratteristiche geomorfologiche del terreno presentano scarsa possibilità di espansione. Un contesto non semplice, che ha però permesso la nascita di Spumanti me-

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todo classico a Denominazione di Origine Valle d’Aosta Blanc de Morgex et de La Salle nei dosages brut ed extra brut, spumanti, metodo classico. A questi prodotti enologici di pregio si affianca un vino altrettanto particolare, lo Chaudelune, vinificato a dicembre da uve che hanno resistito alle prime nevicate e gelate. Questo vin de glace, raro e prezioso, acquisisce una singolare concentrazione zuccherina e aromatica che lo rende unico nel suo genere. Il Vallée d’Aoste Blanc de Morgex e La Salle Doc, nella versione tradizionale, e altri pregiati vini bianchi completano la gamma. Pur essendo possibile acquistare i vini della zona presso le enoteche e gli esercizi commerciali della piccola e grande distribuzione, la Cave du Vin Blanc dispone di una sala di degustazione con annesso punto vendita e di un ristorante di pregio. Su prenotazione è offerta la visita alla cantina e ai vigneti più alti d’Europa.

BRUT CLASSICO · Gradazione alcolica: dagli 11,5 ai 12,5° · Aspetto: giallo con riflessi verdognoli · Profumo: note di frutta, di fiori bianchi (lillà, glicine e mimosa) · Sapore: cremoso, morbido, fresco, con un finale di netta mineralità

Un esterno de La Cave du Vin Blanc De Morgex et De La Salle presso La Ruine – Moregex (Ao) info@caveduvinblanc.com

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Dal Petit rouge DA UN ANFITEATRO NATURALE NASCONO GLI STORICI VINI DELLA COOPÉRATIVE DE L’ENFER

di Andrea Moscariello

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ià all’inizio del XIV secolo Rodolphus de Avisio possedeva una vigna a Gollyz Richard. E da oltre 700 anni, proprio in questa località, nell’alta Valle d’Aosta, si continua a produrre un vino storico: l’Enfer d’Arvier. Tra i primi valdostani a ottenere la Denominazione di Origine Controllata, nel 1972, questo prodotto dal sapore corposo e intenso nasce prevalentemente grazie ai vigneti posti alla sinistra orografica della Dora Baltea, nel comune di Arvier. Un vero anfiteatro naturale, scavato da profondi gradoni che interrompono la pendenza della montagna, permettendo alla vite di svilupparsi nelle condizioni migliori, originate da una costante e fortissima irradiazione solare che riscalda il suolo, al punto da fargli meritare l’appellativo di “enfer” (inferno). Nel 1978 nasce la Co-Enfer, cooperativa che gestisce l’intero processo di atti-

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vità vitivinicola. Centosette soci impegnati in una produzione esclusiva, di nicchia, che non supera le 50mila bottiglie all’anno. Un vino realizzato per l’85% con uve del vitigno autoctono Petit rouge. Dal 2005, grazie all’ingresso di nuovi soci, si è resa possibile la realizzazione di nuovi vini, il Valle d’Aosta Pinot Gris Soleil Couchant e l’autoctono Valle d’Aosta Mayolet, che assume il nome di Vin des Seigneurs. Attualmente la nuova cantina in cui è ospitata la cooperativa si avvale di tecnologie avanzate pur rispettando la classica architettura di montagna e i tradizionali protocolli di lavorazione. Dal 2007, inoltre, ospita il marchio Quattremilles mètres Vins d’Altitude, simbolo della sinergia tra alcune storiche cantine valdostane, la Co-Enfer, La Cave du Vin Blanc e la Crotta di Vegneron, realtà che hanno scelto di consociarsi al fine di produrre vini spumanti realizzati con metodo classico, italiano e ancestrale.

MAYOLET VIN DES SEIGNEURS · Gradazione alcolica: 12,5° · Aspetto: rubino rosso · Profumo: Presenta interessanti note speziate che vanno dal timo alla maggiorana, fino a sensazioni di ciliegie selvatiche e muschio · Sapore: Fresco e giovane. In bocca si sviluppano delle interessanti note di mandorla e di foglie di the verde, con un finale leggermente tannico e sapido.

La Coopérative De l’Enfer ad Arvier (Ao) www.coenfer.it

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www.lacrotta.it

Tra Nus e Chambave LA CROTTA DI VEGNERON PUNTA ALLA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO PER SOSTENERE I VITICOLTORI

di Pierpaolo Marchese VALLE D’AOSTA CHAMBAVE MUSCAT 2009 · Gradazione alcolica: 13,5 % volume · Aspetto: giallo paglierino, riflessi verdolini, cristallino · Profumo: di buon impatto, fine, aromatico, floreale, fruttato. Si riconoscono albicocca, salvia, timo e pesca · Sapore: Vino di buon corpo, consistente, secco, delicatamente alcolico. Porta a una sensazione di aromaticità fresca e di elegante sapidità

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ai 450 agli 800 metri sul livello del mare, per lo più in sinistra orografica del fiume Dora Baltea, si incontrano le vigne con cui si producono i vini de La Crotta di Vegneron. Una cooperativa nata nel 1980 al fine di valorizzare la viticoltura delle zone di Chambave e Nus. Produzioni nate già in età medievale ma che hanno rischiato di scomparire. È stato grazie alla collaborazione delle singole micro aziende viticole che la tradizione enologica del territorio è potuta sopravvivere. La zona di produzione è privilegiata da un particolarissimo microclima che vanta scarsissime precipitazioni. Per questa ragione sono pochi i parassiti che attaccano la vite, con un conseguente utilizzo di antiparassitari molto basso. Ed è proprio nella conoscenza del territorio che si concentra gran parte dell’impegno profuso dalla società, che da anni porta avanti lo studio dell’interazione del

terreno, del clima, della forma di allevamento e del sesto d’impianto per orientare al meglio il viticoltore, in tal modo indirizzato al meglio su dove e come piantare. Tra i vini più noti de La Crotta di Vegneron vi è senza ombra di dubbio il Valle d’Aosta Chambave Muscat , che da sempre caratterizza i vigneti di questa zona dove , le elevate escursioni termiche giornaliere consentono di mantenere un’equilibrata spalla acida e un’aromaticità delicata. Ma sono molte le produzioni della cooperativa. Tra i passiti si annoverano il il Valle d’Aosta Nus Malvoisie Fletri “Nonus” e il Valle d’Aosta Chambave Moscato Passito “Prieure”. Nella linea superiore vi sono il Valle d’Aosta Chambave Superieur “Quatre Vignobles”, il Valle d’Aosta Nus Superieur “Crème” e il Valle d’Aosta Fumin “Esprit Follet”. E poi il Valle d’Aosta Gamay, il Valle d’Aosta Pinot Noir e il Valle d’Aosta Cornalin, solo per citarne alcuni.

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