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Nate per vincere
Maria Elena
Golfarelli
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onna e impresa. Un modello importante per l’Europa e per il mondo. Un binomio in corsa per dire, in tutte le lingue, che ciò che fa la differenza è il talento e non il genere. Le aziende nascono sulle idee e camminano sull’attività quotidiana. L’impresa, oggi più che mai, è fatta di lavoro duro, disciplinato e costante, di gioco di squadra. La passione che serve a trasformare il sogno in progetto, l’intuizione scintilla indispensabile per accendere gli impianti produttivi e, infine, ma non in ultimo, la forza. Ed è proprio dalla forza delle donne che nasce Nea. Quelle donne che si riconoscono nell’impegno, nel sacrificio, nella dedizione assoluta alle battaglie da vincere. Le donne oggi possono darci una mano a recuperare quel Dna di italianità sinonimo di coraggio e intraprendenza, entusiasmo per il proprio lavoro, senso di responsabilità. Per tornare a essere quel grande Paese che meritiamo di essere. La classe dirigente, fatta anche da grandi donne, deve farsi nuovamente esempio di virtù, nella politica come nel lavoro e negli affari, coltivando e diffondendo quel modello responsabile di fare impresa dove è l’etica che fa la differenza. Sono questi i principi che animano associazioni come Aidda, uno spazio unico dove le donne imprenditrici possono rappresentare se stesse, e nessun altro, con la sola forza dei propri risultati. Ma è anche l’ispirazione che muove, da sempre, la Fondazione Bellisario, che fa della cultura di genere lo stimolo per un
impegno nuovo, mai una corsia preferenziale. Le professioniste e le imprenditrici che intervengono in Nea sono differenti, senza dubbio, ma accomunate dallo stesso spirito d’intraprendenza: la capacità di tirare a sé le redini del proprio destino, indirizzandolo nella direzione voluta. Che si tratti dell’Associazione degli industriali, di iniziative sociali o di impresa, di professioniste il cui sostegno garantisce sviluppo e continuità alle aziende, lo stile umano e imprenditoriale di queste grandi donne ha qualcosa in comune. Sarà la sintesi di charme e determinazione, forse. O la sicurezza di chi ha saputo mostrare il proprio valore con l’evidenza dei risultati, accanto, e spesso al di là, del peso di un cognome piuttosto importante. Esempi di rara forza. La determinazione di Emma Marcegaglia, simbolo di un capitalismo gentile che, da erede di una famiglia di imprenditori, è oggi il più alto esempio di forza gentile. La generosità d’animo di Luna Berlusconi nel mettere tutta se stessa a servizio degli altri, coniugando la sua vicenda umana, di bambina farfalla, alla nobile causa di Debra Italia Onlus. L’infaticabile impegno umanitario di Maria Pia Fanfani che, con la serenità di chi sogna la pace, ci insegna come l’energia e la forza dell’amore non hanno età né confini geografici. L’avvocato, la mamma, la moglie e la first lady Michelle Obama, emblema di quell’energia che ha illuminato il difficile e buio 2009. A dimostrazione che il binomio donna e impresa non solo esiste, ma soprattutto sa essere vincente.
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Un esempio di vita
C
onosco donne e madri con una forza incredibile, che si prendono cura di creature fragili e delicate ogni giorno con un coraggio straordinario. A loro va il mio ringraziamento per l’esempio che ci danno nell’affrontare una malattia crudele quale l’epidermolisi bollosa, nota anche come “sindrome dei bambini farfalla”. Perché se non lo si vive, non si può immaginare cosa significhi avere un bimbo fra le braccia e non poterlo stringere al petto per paura di ferirlo. I bambini farfalla vivono quotidianamente nel terrore poiché la pelle, che per gli altri è una protezione, per loro è un incubo. Persino dormire, mangiare la pizza, scalzi sulla sabbia o andare in bicicletta può essere pericoloso. Bambini che si ha il terrore di toccare per paura di far loro del male. Io sono una bambina farfalla e lo è anche mia figlia Rebecca, ma siamo fortunate perché noi siamo affette da una forma lieve della malattia, l’unica che tende a migliorare nel tempo. La mia pelle ormai si è indurita, anche se non posso mai abbassare la guardia. E, soprattutto, devo vigilare sulla sicurezza di mia figlia. Ci sono cose che noi non potremmo fare, ma che facciamo comunque per la voglia di essere normali, pagandone poi le conseguenze. A un convegno sull’epidermolisi bollosa, ho conosciuto Paola Zotti, presidente di Debra Italia Onlus, e il professor Michele De Luca che da anni si dedica allo studio di questa sindrome. Era un periodo in cui vivevo con molta ansia la condizione di madre di una bimba farfalla e dovevo fare i conti con forti sensi di colpa.
Quel giorno ho capito che non si può vivere sotto una campana di vetro e ho visto l’opportunità di dare un significato al cognome importante che porto. Per questo è mio dovere lottare per queste creature che soffrono, impegnarmi per i malati, urlare per loro, lottare con loro. e dalla pagine di questa rivista voglio fare un appello alle persone sane. Nel nostro Paese non ci sono due milioni di malati rari, ce ne sono almeno sei. Perché in questo conteggio dimentichiamo sempre di contemplare il nucleo familiare. Infatti, quando si ha in casa un bambino malato, anche i genitori, i fratelli e le sorelle sono in un certo senso “malati”. Perché vivono la stessa emarginazione, l’identica frustrazione e le limitazioni che nessuno, a parte loro, può capire. Bisogna intervenire velocemente per dare pieno sostegno ai malati e alle loro famiglie. E, soprattutto, parlarne, perché c’è tanta disinformazione sul tema e quando si sta male e non si viene capiti, si sta ancora peggio. A tutte le mamme consiglio di rivolgersi all’Associazione Debra Italia Onlus per ricevere il supporto necessario ad affrontare nel modo più giusto la malattia, sia dal punto medico sia da quello psicologico. Nel 2009, l’Unione europea ha esortato gli Stati membri affinché si affrettino ad adottare piani nazionali specifici sulle malattie rare. In Italia c’è una legge proposta da mia madre, la deputata Mariella Bocciardo, sensibile a questo tema perché fa parte della commissione parlamentare per l’Infanzia e perché anche lei è una malata rara. La mia speranza è che qualcosa possa cambiare.
Luna
Berlusconi
10 > LA COPERTINA DI NEA > Michelle Obama > La donna dell’anno
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QUANDO LA DONNA È ROCCIA MICHELLE LA VAUGHN ROBINSON ERA GIÀ QUALCUNO QUANDO IL FUTURO MARITO ERA NIENTE. SI LAUREA IN LEGGE AD HARVARD. ESERCITA LA PROFESSIONE IN UNO DEI PIÙ PRESTIGIOSI STUDI LEGALI DI CHICAGO, POI LASCIA TUTTO PER DEDICARSI ALLA COLLETTIVITÀ COME DIRIGENTE DI ASSOCIAZIONI NO PROFIT. NON VIENE MAI MENO IL SUO IMPEGNO CIVILE AL QUALE SI DEDICA CON PASSIONE. DEMOCRATICA DA SEMPRE, ECOLOGISTA CONVINTA MA TIENE SOPRATTUTTO AL SUO RUOLO DI MAMMA. E’ STATA DETERMINANTE NELLA CAMPAGNA ELETTORALE DEL MARITO E OGGI GIOCA UN RUOLO CHIAVE PER L’IMMAGINE DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI. E’ LEI LA DONNA DELL’ANNO.
Michelle Obama durante la campagna elettorale che ha portato Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America
12 > LA COPERTINA DI NEA > Michelle Obama > La donna dell’anno
di Cesara Buonamici n un libro di uno specialista in biografie famose si legge che l’influenza di Michelle Obama fu decisiva nella scelta del vicepresidente: «Non vorrai – disse rivolta al marito, aspirante presidente degli Stati Uniti – avere i Clinton continuamente in fondo al corridoio?». E così sarebbe tramontata la candidatura di Hillary nel “ticket” democratico per la presidenza. A lei, sempre con la pressione della futura first lady, fu preferito John Biden.
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«Tutto questo impegno civile non le impedisce di avere un forte senso di sé come donna, come oggetto di desiderio maschile, alla ricerca costante della giusta espressività e femminilità» Una donna forte, anche un po’ incombente, quasi fisicamente, sulla scena americana. Una donna senza incarichi da parte del marito, che tuttavia si ritrova uno staff di 22 persone (per due terzi donne) a sua disposizione, dal capo Susan Sher, pagata 172mila dollari l’anno, giù giù fino alle ultime addette, pagate 36mila dollari. Alcuni accusano la nuova first lady di avere messo su un esercito di assistenti come mai si era visto prima, citando proprio Hillary che aveva solo tre persone, o Jackie Kennedy o Laura Bush che ne avevano solo una, oppure Mamie Eisenhower che pagava di tasca propria gli assistenti, senza metterli a carico del contribuente. Altri replicano che tutto questo non è giusto né vero, perché gran parte di quegli incarichi già esistevano nella precedente amministrazione. Tutto questo ci dice alcune cose fondamentali. La first lady ha da sempre avuto l’intenzione di giocare un ruolo chiave nella gestione dell’immagine pubblica della presidenza, pur volendo lei
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14 > LA COPERTINA DI NEA > Michelle Obama > La donna dell’anno
essere prima mamma, e quindi moglie del presidente, come dichiara in ogni intervista. Si impegna ad accompagnare le figlie Malia (10 anni) e Sasha (7 anni) ogni volta che può, vuole partecipare alla vita della scuola, vuole conoscere gli altri genitori, vuole essere normale fin dove può. Ma vuole anche essere un simbolo, una idea dell’America, al di là delle idee del marito che pure condivide. E la sua storia lo attesta. Una signora, molto ben tenuta, di 44 anni: è la signora Michelle La Vaughn Robinson. Nata nel quartiere modesto South Side della “città ventosa”, Chicago. Tutta un’altra storia rispetto al marito Barack che proviene dalle calde Hawaii. Il padre (Fraser) era addetto alle pompe dell’acquedotto della città, mentre la madre (Marian) era una segretaria. Altro familiare il fratello Craig, oggi allenatore di pallacanestro alla Brown University. Pur con queste origini umili, la signorina Robinson era già qualcuno nella sua città natale, quando il suo futuro marito non era ancora niente. Lei si era già spinta nella politica, non nel senso delle cariche pubbliche, ma in quello dell’impegno civile. Sì, perché il colore della pelle l’ha segnata. Nel riferire delle sue esperienze all’università, la prestigiosa Princeton, scriveva nella sua tesi di laurea sul tema I neri istruiti e i rapporti con la comunità nera: “Mi sembra che i
Incontri Sopra, la first lady americana in un incontro ufficiale con CLio Napolitano in occasione del G8 tenutosi a L’Aquila lo scorso luglio. A sinistra, Michelle Obama durante un discorso ufficiale ai cadetti della marina militare americana
bianchi prima mi considerino una donna nera e dopo una studentessa”. E sì che quanto a capacità di apprendimento non era certo seconda a nessuno, avendo imparato a leggere a quattro anni, conseguendo il diploma a 17 anni e la laurea a 21 a Princeton e quindi a 24 anni la laurea in legge a Harvard. E proprio grazie alla legge – lei lavorava in un prestigioso studio legale – incontra il giovane Obama. Lei poi lavorerà come assistente del sindaco di Chicago e quindi nel 1996 nell’università della stessa città occuperà una posizione dirigenziale in una società non profit per un centro di servizi alla comunità e, nel 2002, entrerà nel consiglio di amministrazione degli ospedali della città. Tutto questo per dire che questa donna, forte e con solidi principi, lascia la professione privata per dedicarsi a funzioni dedicate alla collettività, che è poi uno degli elementi che l’hanno colpita nella conoscenza del futuro marito che tanta passione dedicava agli stessi temi. Una tipa tosta, come si dice oggi, che ha barattato l’aiuto al marito nella campagna elettorale per la presidenza con
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Una mamma americana Il suo primo editoriale sulla stampa americana Michelle Obama non lo ha scritto da Firt Lady ma da mamma. Dalle colonne del quotidiano Us News & World Report, ha puntato l’attenzione sullo stato del sistema educativo americano e sulle sue preoccupazioni come madre di Malia e Sasha. “Abbiamo bisogno di nuovi leader”, ha scritto, “non sarà facile e avremo molto da fare, ma sono sicura che con una nuova generazione di leader nelle nostre classi potremo avere un effetto decisivo sui nostri ragazzi e sulla vita della nostra nazione”.
l’impegno da parte di lui a smettere di fumare. Una donna che esalta le qualità del marito ma che non esita a dire di lui che russa e che ha l’alito un po’ pesante al mattino. Una democratica convinta, lo era anche suo padre, che ama fare i discorsi su patria e famiglia, due temi molto cari ai suoi connazionali. Una donna che, a suo modo, sostiene la svolta ecologista americana voluta dal marito, approntando un orto biologico intorno alla Casa Bianca. Una figura complessa quella di Michelle Obama: tutto questo impegno civile non le impedisce di avere un forte senso di sé come donna, come oggetto di desiderio maschile, alla ricerca costante della giusta espressività e femminilità. Un grande dibattito, si fa per dire, si è sviluppato attorno alla sua passione delle braccia scoperte: un’area ritenuta a forte contenuto sessuale, e con una variante estetica fondamentale. Le donne, da una certa età in poi, tendono a non scoprire le braccia per timori estetici. La signora Obama invece ostenta quell’area, perché è tonicissima, solida, tornita, con buona pace di qualche moralista e l’invidia di chi vorrebbe fare lo stesso ma pensa di non potere. Una signora che non si ferma al
tubino nero, col quale non si sbaglia mai, specie se corredato da un filo di perle. Lei va giù dura col giallo, col viola, con colori che alcuni vedono deliberatamente scelti per mettere in risalto il colore della sua pelle. Una modalità che ha spinto, forse con eccesso di zelo, Vanity Fair a collocare la signora Michelle tra le dieci donne meglio vestite del mondo, e Vogue non le ha certo negato la copertina, appunto in abito viola e braccia scoperte ben visibili nella loro scolpitura di bicipiti e tricipiti. Lei è una mamma, lo dice e lo ripete, una mamma che vuole stare con le figlie, che non vuole essere considerata un consigliere del presidente, ma che rivela la sua vera identità anche in due insolite passioni che l’attraggono. Uno è l’Hula hop. Ricordate il cerchio che si fa roteare con abilità intorno ai fianchi? La prestanza e l’estetica fisica, anche nel movimento sono ben presenti nella sua personalità. L’altra passione è il Monopoli, gioco di abilità capitalistica, che richiede visione strategica e abilità nel trattare. Una compagna essenziale per il presidente che non ha esitato a definirla la “roccia” della sua famiglia. Così se un tempo per gli americani “The Rock” era il carcere di Alcatraz, ora è la signora Michelle Obama, roccia fuori e dentro.
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DALLE DONNE LO SLANCIO VERSO IL PROGRESSO Immaginano soluzioni nuove in vecchi contesti. Sanno essere credibili e innovative. Riescono a diventare un punto di riferimento nel loro settore, nonostante le difficoltà. Ecco perché le donne sanno essere grandi. Ed ecco perché vengono selezionate, ogni anno, dalla Fondazione Bellisario. Che le premia, per dir loro “grazie di esserci” di Giusi Brega Marisa Bellisario una volte disse: «Per una donna, fare carriera è più difficile, ma è più divertente». Un’eredità sintetizzata in una manciata di parole. Quella frase «è il messaggio che vorrei arrivasse alle nuove generazioni di donne italiane». È questo l’auspicio di Lella Golfo, motore e cuore della Fondazione dedicata a Marisa Bellisario, una delle figure professionali più prestigiose della storia dell’imprenditoria italiana, che da oltre vent’anni lotta per vedere riconosciuti i diritti delle donne e le pari opportunità. Marisa, ricorda Golfo, «è il simbolo della donna che è riuscita a imporsi in un mondo esclusivamente maschile con la sua voglia di lavorare, il suo altruismo, la sua sensibilità». E soprattutto in virtù di quelle capacità, alimentate da solide competenze, che le hanno permesso di rompere tabù, tagliare traguardi allora impensati e inanellare una lunga serie di successi. «Le donne hanno tutte le capacità per potersi fare strada da sole. E sono consapevoli che è necessario abbattere il muro che le relega ai margini». Dalle istituzioni al management. Questo malgrado «siano una preziosa risorsa dal punto di vista delle scelte strategiche, delle politiche del lungo termine, dell’attenzione al cliente e al lavoratore. In questo momento, fermo restando che credo nelle persone al di là del genere, le donne potrebbero essere davvero quella “marcia in più” necessaria al Paese per affrontare un momento di cambiamento e di difficoltà», osserva la presidente della Fondazione che, sul piano politico (è deputata per il Pdl) insieme alla senatrice Anna Cinzia Bonfrisco, sta portando avanti un’iniziativa legislativa per l’istituzione dell’Autorità garante della parità. L’obiettivo è valorizzare le professionalità femminili e affermare le pari opportunità in tutti gli ambiti, diffondendo una cultura che vede nella parità un’occasione di sviluppo e progresso. Così come sta facendo da vent’anni la Fondazione Marisa Bellisario, anche
IMPEGNO Nata a Reggio Calabria, Lella Golfo e vive a Roma. Il suo nome è legato all’ideazione della Fondazione Marisa Bellisario, di cui è attuale presidente e che, grazie al suo contributo, rappresenta un indiscutibile punto di riferimento per l’imprenditoria e la managerialità italiane. La sua storia nasce proprio con l’impegno sociale che diviene una vera e propria scelta di vita. È ancora una ragazza, quando si batte con determinazione per sostenere e difendere i diritti delle “gelsominaie” della zona Jonica. Nel 2003 è stata insignita del titolo di commendatore della Repubblica. Alle elezioni politiche 2008, è stata eletta deputato per il Pdl in Calabria
20 > L’IMPRESA DELLE DONNE > Lella Golfo > Una Mela d’Oro per ogni donna attraverso la premiazione di tantissime donne, che vengono insignite della “Mela d’oro”. Con quali criteri vengono selezionate le vincitrici della Mela d’Oro? «Le donne che ricevono il premio sono accomunate da un requisito: essere un paradigma dell’eccellenza nei settori della vita produttiva nazionale e internazionale. Ne premiamo la credibilità e la capacità di immaginare soluzioni nuove in contesti vecchi, le doti da innovatrici, il fatto di riuscire ad essere punti di riferimento nonostante una ancora diffusa reticenza a riconoscere alle donne un ruolo pubblico, che vada oltre le mura domestiche. Per il resto, i curricula che la Commissione esaminatrice vaglia ogni anno, parlano da sé. Sono il top, una risorsa che la fondazione riconosce e premia». Secondo la mitologia greca la Mela d’Oro andò “alla più bella”. La bellezza è ancora considerata un “mezzo” per fare carriera? «Confesso che questa diatriba sulla bellezza non è mai stato un mio problema. Tuttavia, con molta onestà, va detto che la bellezza aiuta, ma io sono abituata a ragionare sui meriti. Se penso rapidamente a tutti gli uomini che nel corso della storia hanno esercitato potere e ottenuto successo, non mi ricordo di personaggi poco avvenenti. Guardate Obama, è un incrocio perfetto tra un africano e un occidentale. Fisicamente prestante, con un’eleganza e un dinamismo fuori dal comune. Ma chi se la sentirebbe di dire che è presidente degli Stati Uniti solo perché è un bell’uomo? Nessuno. E vorrei che lo stesso criterio fosse applicato alle donne, la cui bellezza è, quasi sempre, l’esteriorizzazione di talenti che vanno oltre la bellezza stessa. È la natura che, evidentemente, fa belle le persone che dota di molti altri talenti». Qual è la situazione nel panorama nazionale per quanto riguarda le donne al potere e quali i parallelismi con gli altri Paesi? «La situazione italiana di donne al potere, in senso lato, è abbondantemente sotto la media dei paesi europei. Alla Camera dei deputati le donne sono al 21%, al Senato addirittura al 18% ed è da considerare che questi risultati costituiscono il massimo storico nella storia della nostra Repubblica. Nelle Autorità di vigilanza, che sono 9, siedono soltanto 3 donne, su un totale di 53 commissari. Se passiamo al campo delle società quotate in borsa, abbiamo calcolato un 6% di donne nei consigli di amministrazione, 167 su 2.831 posti. Peggio di noi fa solo il Portogallo».
UN’EREDITÀ IMPORTANTE Marisa Bellisario è stata una manager di livello internazionale, una pioniera delle telecomunicazioni, un esempio di parità dimostrata e di leadership femminile nel nostro Paese. Nel 1959, giovane neolaureata, rifiutò il posto fisso in banca per gettarsi nel più improbabile dei settori, quello dei computer. Entrò nella divisione elettronica della Olivetti. Nel 1963, l’Olivetti si fuse con la Bull, e già l’anno dopo tiravano venti di crisi. Si decise quindi la cessione della divisione elettronica alla General Electric e per Marisa Bellisario cominciarono i primi scambi internazionali. Nel 1965 si recò, per la prima volta, a New York e in breve tempo ottenne anche in America il pieno riconoscimento delle sue doti manageriali. Il decisionismo, le capacità e le competenze, coniugate con l’esperienza, ne fecero una indiscussa protagonista della Honeywell. Nel 1979, fu nominata presidente della Olivetti Corporation of America, carica che mantenne fino all’81, quando tornò in Italia per prendere le redini dell’Italtel che viveva una fase di acuta regressione. In qualità di amministratore delegato, Marisa dovette compiere scelte coraggiose e lungimiranti. E riuscì nel miracolo di trasformare un complesso di fabbriche da rottamare in un’azienda elettronica all’avanguardia. Un successo indiscusso che la consegnò ai manuali di economia come esempio di ristrutturazione di un’azienda pubblica e le fece guadagnare, nel 1986, il premio di manager dell’anno. La sua vita fu stroncata dalla malattia nel 1988. Con lei l’Italia perse una manager che sarebbe stata provvidenziale per lo sviluppo delle telecomunicazioni nel nostro Paese.
Nel Nord Europa la presenza femminile nell’imprenditoria e nel management aziendale è maggiore. Cosa si potrebbe “importare” nel nostro Paese? «L’esempio più dirompente di politica per le pari opportunità ci viene dalla Norvegia, dove dal 2004 vige l’obbligo per le imprese, a pena di scioglimento, di avere nei propri board almeno il 40% di donne. Quella legge ha raggiunto un risultato eccezionale, e le aziende norvegesi sono passate in cinque anni dal
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Lella Golfo (a sinistra) con Paola Balducci, avvocato e docente universitario, vincitrice della XXI edizione del Premio Marisa Bellisario, la Mele d’Oro dedicata, quest’anno, al tema “Donne per una Giustizia giusta”. Sotto foto di gruppo delle vincitrici della Mela d’Oro 2008, la cui cerimonia si è tenuta a Milano, la città dove Marisa Bellisario combatte e vince le battaglie più ardue della sua carriera. Una ventesima edizione, quella dell’anno scorso, incentrata su “Le donne progettano il futuro: innovazione, creatività, meritocrazia”
Le donne che ricevono il premio sono accomunate da un requisito: essere un paradigma dell’eccellenza nei settori della vita produttiva nazionale e internazionale 6 per cento di donne al 44%, al punto che anche Spagna e Francia stanno seriamente pensando di introdurre un vincolo analogo. Per noi quello norvegese è un modello positivo per quanto riguarda gli obiettivi, ma crediamo che sia necessario un aggiustamento che lo renda compatibile con la realtà economica e sociale italiana. Ad esempio lo scioglimento delle società che non si adeguano mi pare eccessivo. Per questo motivo nella proposta di legge che ho presentato, e che è in discussione alla Camera, si delega la Consob nella scelta delle sanzioni più opportune per le società quotate che non rispettino le prescrizioni della legge, la quale prevede il 30% di genere nei board». Quali sono i principali ostacoli in Italia per l’imprenditoria femminile? «Un welfare familiare scaricato interamente sulle loro spalle, e l’assenza di qualsiasi contributo da
parte dei partner uomini. Molto spesso le donne arretrano o rivedono i propri obiettivi di carriera per far fronte agli impegni familiari. La riforma di questo stato di cose va condotta su due piani, uno legislativo, che appresti gli strumenti conciliativi utili ad alleggerire il peso della famiglia per le donne, un altro culturale, che coinvolga anche gli uomini nell’assunzione di impegni e responsabilità da cui finora si sono tenuti lontani. Per esempio, nel 2008, 233.588 lavoratori hanno richiesto di usufruire del periodo di congedo parentale previsto dalla legge. Di questi, solo 17.207 sono stati papà. Ci tengo a precisare, comunque, che nonostante questi ostacoli, l’imprenditoria femminile italiana è viva e vivace, e nell’ultimo anno le imprese guidate da donne sono cresciute dell’1,5%, mentre nel complesso lo stock di imprese diminuiva dello 0,2%. Il trend positivo, quindi, c’è, ma va assecondato con interventi di riforma del welfare puntuali e concreti».
22 > L’IMPRESA DELLE DONNE > Laura Frati Gucci > Serve collaborare con la politica
DONNE COL DIRITTO DI AFFERMARSI Rompere il “soffitto di vetro” è l’obiettivo di tutte donne lavoratrici, mogli e madri. Secondo Laura Frati Gucci, presidente di Aidda «occorre creare una collaborazione tra le donne che sono in politica e le donne che sono a capo di un’impresa» DI NIKE GIURLANI Secondo il rapporto annuale dell’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere, da giugno 2008 a giugno 2009 sono state aperte circa 21mila nuove imprese rosa, registrando una crescita dell’1,5%. Non solo: in Italia, il tasso di disoccupazione delle donne è tra i più bassi d’Europa e, rispetto a sei anni fa, il numero di aziende al femminile registrate è cresciuto del 24%. Questa situazione può essere spiegata, secondo Laura Frati Gucci, presidente di Aidda, l’Associazione imprenditrici e donne dirigenti di azienda, con il fatto che «molte donne che non trovano un impiego all’altezza delle loro competenze “rischiano” mettendosi in proprio». Molte donne giungono a questa condizione per ovviare al reale problema del “soffitto di vetro”. Questa metafora, utilizzata per la prima volta nel 1986 in un articolo del Wall Street Journal, voleva mettere in evidenza che nel mondo del lavoro esistono delle barriere per tutte quelle donne che tentano di salire ai “piani alti”. Nel frattempo sono passati più di vent’anni e molti passi in avanti sono stati compiuti. Ma per il traguardo di una completa parità, molte cose devono ancora cambiare. Secondo Laura Frati Gucci, è tempo di passare ad azioni concrete per abbattere le barriere. E per raggiungere questo importante obiettivo, prima di tutto «occorre creare una collaborazione tra le donne che sono in politica e le donne che sono a capo di un’impresa, soprattutto in un momento di esternalizzazione dei servizi da parte di molte imprese». Come è da tempo stato dimostrato, infatti, le donne nei servizi riescono a dare con grande flessibilità maggiori risultati, ma per oltrepassare il limite delle piccole dimensioni e
Laura Frati Gucci, presidente nazionale di Aidda. Fa parte della commissione Pari opportunità del ministero del Lavoro e della VIII commissione consigliare del Comune di Firenze
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RAPPRESENTANTE NEL MONDO Il 28 ottobre a Yaundè in Cameroun, Laura Frati Gucci è stata nominata vicepresidente mondiale di Fcem (Femmes chefs d’entreprises mondiales). Fcem è una Ong, la più forte associazione mondiale di genere composta da imprenditrici e dirigenti che risiedono in più di 70 Paesi diffusi in cinque continenti, ai quali si aggiungono parecchi Paesi affiliati ed osservatori. Rappresenta oltre 500.000 imprenditrici. Durante il 57esimo Congresso dell’associazione, svoltosi a ottobre, le imprenditrici si sono confrontate sul tema degli strumenti per fronteggiare la crisi.
della frammentazione, bisogna «riuscire a creare una “rete” e darsi sostegni trasversali – continua il presidente di Aidda – dando la possibilità anche alle donne di ricoprire incarichi importanti. Basta vedere sempre le solite facce, i soliti uomini, magari “riciclati” dalla politica». Nel XXI secolo, insomma, non solo le donne hanno ancora difficoltà a ricoprire ruoli di potere, ma in molti casi si ripropone il problema della conciliazione dei ritmi di vita e di lavoro. Anche se qualcosa, forse, sta cambiando. «Le difficoltà di conciliazioni
comunque partecipi della gestione dei figli. La carenza che viene fortemente sentita in Italia è «la mancanza di adeguate strutture infrasociali» sottolinea Laura Frati Gucci. «Ma le donne hanno il diritto di poter svolgere il loro lavoro senza ansie e tensioni. Per questo motivo, per esempio, per semplificare la vita di molte mamme si potrebbero fissare degli appuntamenti per parlare con i professori, invece di passare ore e ore in coda ai colloqui. Inoltre la scuola dovrebbe garantire maggiori attività ricreative». Il problema è che ancora oggi, molte donne che ambiscono ad essere
Non si può più pensare di replicare un sistema basato sulla famiglia come è stato agli inizi del secolo scorso sono molte – sottolinea il presidente di Aidda – ma andiamo verso una società molto più responsabile e condivisa, dove i padri hanno un ruolo sempre più attivo con i figli». Con la legge 53, per esempio, è stato introdotto il congedo parentale, per permettere anche ai padri di assentarsi dal lavoro allo scopo di assistere i figli. Ma in una società come la nostra, purtroppo, questo tipo di mentalità non è riuscita ancora ad attecchire in maniera significativa, nonostante entrambi i genitori siano
professionalmente, senza rinunciare ad essere mogli e madri, cadono vittime di forti stress e sensi di colpa. Ma per vedere dei cambiamenti concreti occorre una riorganizzazione radicale della società perché «non si può più pensare di replicare un sistema basato sulla famiglia come è stato agli inizi del secolo scorso – conclude la presidente di Aidda –. Prima si prenderà coscienza che uomini e donne hanno pari diritto di affermarsi nel lavoro, prima verranno abbandonati frustrazioni e malesseri».
32 > QUOTE ROSA? > Maria Ida Germontani > La soluzione è un regime transitorio
LA LEGGE DELL’EQUILIBRIO In Italia la difficoltà delle donne ad essere inserite nei Cda delle società quotate in borsa rappresenta un’evidente anomalia. Per questo la senatrice Maria Ida Germontani ha presentato un ddl che punta dritto «a risolvere tale limite introducendo un criterio che mira ad assicurare l’equilibrio tra i generi» DI
È
GIUSI BREGA
vero. In Italia l’affermazione del principio di pari opportunità è costituzionalmente previsto. Eppure, basta guardare la rappresentanza nelle istituzioni pubbliche, nella dirigenza delle imprese e dei vertici di partito, per rendersi conto che il genere
femminile nel nostro Paese è scarsamente rappresentato. Al contrario di quanto accade nel resto del mondo, dove, già da diversi anni, si assiste a un’inversione di tendenza che vede la donna al centro della vita economica e politica. Donne che prendono decisioni strategiche, che hanno cultura e competenze di altissimo livello, e si avviano ad essere protagoniste determinanti dei prossimi scenari economici. «È questo il nuovo mondo femminile al quale deve porre attenzione la politica e al quale deve guardare chi si preoccupa di garantire pari opportunità» sottolinea Maria Ida Germontani, senatrice del Pdl, che ha recentemente presentato un disegno di legge sull’istituzione di quote rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Perché in Italia è soprattutto con riferimento alle alte professionalità che emerge con tutta evidenza uno degli aspetti più importanti del problema: «Le difficoltà che ancora oggi incontrano le donne ad accedere a posizioni di responsabilità all’interno delle aziende». Qual è la situazione dell’Italia in merito alla presenza femminile all’interno delle aziende?
La senatrice del Pdl, Maria Ida Germontani, componente della Commissione finanze e tesoro e relatrice del ddl sulle quote rosa nei Cda
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POCHE ITALIANE AL VERTICE Secondo il rapporto dell’associazione fra la società per azioni (Assonime) del febbraio 2009 sullo stato di attuazione del codice di autodisciplina delle società quotate, le donne presenti nei Cda delle società di Piazza Affari nel 2008 sono aumentate (+16%) e hanno raggiunto quota 158 con un peso pari al 5,4% sul totale dei consiglieri (2.949). Un dato in lieve, ma continuo aumento, se è vero che nel 2006 erano solo 125 e 136 l’anno successivo. Certo, ancora meno di una società quotata su due (sono 300 in tutto) ha una donna nel proprio Cda – una rappresentanza femminile è presente in 120 casi – ma sono sempre il 14% in più rispetto al 2007 (105) e quasi un terzo in più rispetto a due anni prima (93 nel 2006). Nel caso dei componenti dei collegi sindacali, la situazione è leggermente migliore: le donne sono il 4,7 per cento del totale – anche questo dato è in aumento (erano trentadue nel 2007, trentuno nel 2006) – ma quattro società (due nel 2007, nessuna nel 2006) hanno un collegio sindacale a prevalenza femminile.
«Analizzando i dati che riguardano il nostro Paese e mettendoli in relazione con le altre realtà europee, si evince che la presenza delle donne nei Cda delle aziende italiane è estremamente bassa. Si nota anche che a un anno dal conseguimento del diploma di laurea neanche la metà delle donne lavora, contro il 57% degli uomini. E la stragrande maggioranza di quelle che lavorano svolge un’attività poco remunerativa e sottodimensionata rispetto al titolo di studio. Per cui, a cinque anni dalla laurea, il divario con i colleghi maschi aumenta ulteriormente. Uno degli aspetti più importanti del problema riguarda la sfera delle alte professionalità, ovvero le difficoltà che le donne riscontrano nell’accesso a posizioni di responsabilità all’interno dell’azienda. In Italia abbiamo donne come Emma Marcegaglia e Diana Bracco, tra le donne manager più potenti del mondo secondo la classifica stilata dal Financial Time. Ma non basta. La composizione dei Cda delle società del Mib30 mostra una
situazione critica: su 466 cariche consiliari, soltanto 11 sono ricoperte da donne. In 22 di queste società, non siede nessuna donna. Mentre soltanto in due, la Fininvest e la Saipem, il peso femminile supera di poco il 10% del consiglio». Come ci posizioniamo all’interno del panorama europeo? «Per quanto riguarda l’Europa, l’Italia si trova al ventinovesimo posto su 33 Paesi censiti per numero di donne presenti nei Cda delle società quotate con il suo 4% degli amministratori, contro una media dell’Unione europea a 27 membri dell’11%. Dietro di noi, solo Malta, Cipro, Lussemburgo e Portogallo. Molti Paesi stanno lanciando azioni positive per aumentare il numero di donne nei consigli. Come ad esempio la Norvegia, che dal gennaio 2006 ha inserito l’obbligo per le società quotate in borsa di riservare alle donne una parte dei posti all’interno del consiglio di amministrazione, con
34 > QUOTE ROSA? > Maria Ida Germontani > La soluzione è un regime transitorio
l’obbiettivo di raggiungere quota 40%. Per chi contravviene, è prevista una sanzione molto pesante, ovvero la cancellazione dal registro delle società». Da questo stato di cose nasce la sua iniziativa legislativa. Come funziona? «Il ddl prevede che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. L’equilibrio si intende raggiunto quando il genere meno rappresentato all’interno dell’organo amministrativo ottiene almeno un terzo degli amministratori eletti. Questo però soltanto per due rinnovi». È la particolarità di essere “transitorio” a tutelarlo dall’accusa di incostituzionalità? «Esattamente. Nel 1994 ci fu una legge sulla quote in politica che poi venne dichiarata incostituzionale dalla Corte perché contravveniva al principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Poiché, invece, questo ddl prevede un limite, ovvero il raggiungimento di un certo equilibrio, ci mettiamo al riparo dall’essere tacciati di incostituzionalità. Inoltre, non si fa riferimento a uomini o donne, ma al “sesso meno rappresentato”. Si tratta in un certo senso anche di abitudine, un obbligo che dopo due rinnovi porterà all’automatismo».
generi». Ma nel XXI secolo, è possibile che si debba avere necessità di istituire quote rosa? «In questo senso si sono fatti dei passi avanti, ma non c’è ancora il cambiamento culturale che tutti auspichiamo. Sono in tanti, soprattutto uomini, a dire che non c’è alcun bisogno di istituire delle quote rosa, che spesso sono considerate discriminanti. Ma purtroppo siamo ancora nella situazione in cui è necessario prevedere dei sistemi di garanzia di questo
LA SITUAZIONE IN EUROPA Le donne al vertice delle imprese italiane sono poche, molto meno della media europea. Ma da una ricerca della società Cerved sulle donne manager si scopre che le imprese guidate dalle donne vanno meglio rispetto alle altre, accrescono più velocemente i ricavi, generano più profitti, sono meno rischiose. Secondo le statistiche della Commissione europea, l’Italia è al ventinovesimo posto (su 33 Paesi censiti) per numero di donne presenti nei Cda delle società quotate in borsa. Secondo i dati di Noreena Hertz del Centre for international business dell’università di Cambridge, facendo base cento, le donne nei Cda sarebbero 22 in Svezia, 18 in Danimarca, 11 in Gran Bretagna, 7 in Germania e nei Paesi Bassi e solo 2 in Italia. Molti Paesi si sono mossi introducendo codici di comportamento per le imprese quotate, come la Spagna o la Svezia, o arrivando a imporre l’obbligo di quote di rappresentanza femminile, come la Norvegia.
Anche in Italia, come nel caso della Norvegia, saranno previste sanzioni per le aziende che non si adeguano? «Sarà la Consob, con il proprio regolamento, a prendersi il compito di emanare un regolamento che stabilisca le sanzioni per le società che non ottemperano all’obbligo dell’equilibrio dei
genere perché altrimenti non si sbloccano alcune situazioni. Anche donne che fino a poco tempo fa erano contrarie alle quote rosa, adesso dicono di essere favorevoli a una norma che fissi la presenza femminile nei Cda perché, spesso, il merito non basta».
38 > LA FORZA DELLE DONNE > Mara Carfagna > Il coraggio e l’impegno
CON DECISIONE VERSO UN MONDO MIGLIORE A partire dal reato di stalking fino al progetto “Italia 2020”, Mara Carfagna ha dimostrato di avere molto a cuore il futuro delle donne in Italia. Da quando ricopre il ruolo di ministro delle Pari opportunità, si è fatta portavoce di tutti coloro che ancora non vedono riconosciuti i loro diritti di Nike Giurlani
guardo attento, ma deciso. Determinata, ma che si lascia anche andare a sorrisi inaspettati. Mara Carfagna, pur essendo una delle ministre più giovani del nostro governo, non si è mai tirata indietro di fronte alle avversità, ai problemi e agli scontri. A testa alta e con grande volontà, da quando ha assunto l’incarico di ministro delle Pari opportunità, non si è fermata un attimo, dimostrando di credere fino in fondo nel suo ruolo e nella reale possibilità di passare dalle parole ai fatti. Sempre attiva nel promuovere iniziative di sensibilizzazione e di tutela, ha anche cercato di creare un dialogo con gli altri Paesi, in particolare per difendere i diritti delle donne.
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Recentemente si è recata a Londra, invitata dal governo inglese, per visitare il Croydon Rape Crisis Centre, il centro di crisi per le vittime di stupro e il Croydon Women’s Aid, il rifugio per le vittime di violenza domestica. In questa occasione ha incontrato il ministro delegato per le Donne e l’uguaglianza del Regno Unito, Maria Eagle, alla quale ha proposto «una strategia comune, fatta di collaborazione e sinergie interna-
zionali, per portare il problema della violenza contro le donne all’attenzione di tutti i governi del mondo» affinché «non siano soltanto le donne ad occuparsene». I due ministri si sono anche confrontate sui rispettivi progetti: il “Piano antiviolenza” italiano e il “Together we can end violence against women and girls: a strategy” britannico, per trovare una sinergia di intenti. Un altro importante impegno che va ad aggiungersi a quelli già presi e ai tanti risultati già ottenuti dal ministro. Primo fra tutti l’istituzione del reato di stalking. In concomitanza della “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”, celebrata lo scorso 25 novembre, il ministro Carfagna ha voluto stilare un primo bilancio dopo un anno di iniziative a tutela del mondo femminile. «Grazie al nostro governo – ha ricordato – ora le donne italiane hanno degli strumenti in più per difendersi, nuove leggi che tutelano la loro sicurezza. Il principale di questi strumenti è il reato di stalking, creato lo scorso febbraio, che ha già liberato oltre quattromila donne italiane dai loro incubi quotidiani fatti di persecuzioni, violenze,
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Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità
Chi viola una donna deve pagare senza sconti e chi è vittima deve denunciare senza reticenze. Non bisogna infatti dimenticare che la violenza sessuale, secondo l’Organizzazione Mondiale della sanità, ancora nell’anno 2009 è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 15 e i 44 anni
soprusi. Le denunce sono state in media diciassette al giorno, e ben 723 persone, uomini ma anche donne, sono finite agli arresti». Riguardo a questo reato inoltre «sono state introdotte aggravanti per i reati di violenza sessuale, che hanno raddoppiato la pena per i partner e per gli ex compagni, eliminato i benefici premiali come gli arresti domiciliari per chi si macchia di colpe tanto gravi e istituito la difesa gratuita per le vittime». Sul fronte della violenza sulle donne, insomma, l’obiettivo del ministro Carfagna è quello di mantenere il livello di sicurezza sempre alto, perché «non bisogna dimenticare che la violenza sessuale, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ancora nell’anno 2009 è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 15 e i 44 anni». Per questo motivo è stato anche potenziato il numero verde anti-
40 > LA FORZA DELLE DONNE > Mara Carfagna > Il coraggio e l’impegno
violenza 1522, cercando innanzitutto di dargli maggiore visibilità. Il messaggio deve essere chiaro: «Chi viola una donna deve pagare senza sconti, e chi è vittima deve denunciare senza reticenze». A quanto pare, però, qualcosa è già cambiato visto che le violenze sessuali sono calate del 7% e che «sempre più donne si rivolgono al 1522 per chiedere aiuto, denunciare, riconquistare il loro futuro». Perché come ha sottolineato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le violenze contro le donne sono “crimini contro l'umanità”. Ma purtroppo l’umanità continua ad essere mi-
STOP ALL’OMOFOBIA Il ministro per le Pari opportunità si è fatta portavoce di un’importante campagna di sensibilizzazione, quella contro l’omofobia, che spesso genera comportamenti violenti e discriminatori nei confronti delle persone omosessuali. «Capita ancora troppo spesso che gli omosessuali vengano giudicati non in quanto persone capaci come altre di aiutare e di amare il prossimo, ma in base a un aspetto privato: il loro orientamento sessuale». Ma l’omofobia, come ha sottolineato con forza il ministro «è una malattia dalla quale si può guarire». Questo il motto presente nei volantini, negli opuscoli e negli spot per la televisione e il web. La campagna di comunicazione «è la prima mai realizzata da un governo italiano e vuole contrastare le violenze e le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale», e ha un’importanza fondamentale nell’attesa che si arrivi ad una legge al riguardo.
nacciata anche da orribili atti barbarici perpetuati nei confronti di bambine e adolescenti, vittime di mutilazioni ai genitali femminili. Anche su questo fronte, Mara Carfagna si è impegnata molto, perché questo tipo di abusi possono essere contrastati. Occorre però una collaborazione da parte degli immigrati in Italia. A questo scopo, il ministero ha creato un numero verde, al quale risponderanno le forze di polizia, che registreranno e faranno presente alle autorità le segnalazioni che perverranno. Questo strumento «rappresenta un aiuto concreto per denunciare eventuali abusi», spiega il ministro, ed è necessario «perché questo terribile fenomeno culturale è presente anche nel nostro Paese». In molti ne sono all’oscuro «ma come ministero stiamo finanziando progetti di contrasto e sensibilizzazione, mandando in onda uno spot rivolto principalmente ai genitori immigrati e ora anche attivando un numero di assistenza telefonica». Un’altra battaglia nella quale ha creduto fermamente fin all’inizio il ministro Mara Carfagna è stata quella contro le difficoltà che le donne incontrano ogni giorno nel mondo del lavoro. A tale scopo il ministro per le Pari opportunità, insieme al collega del Welfare Maurizio Sacconi, ha recentemente presentato un piano d’azione per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro attraverso misure concrete. “Italia 2020” è il nome del progetto sulla diffusione dei nidi familiari, il potenziamento dei servizi di cura, la creazione di albi di badanti e babysitter appositamente formate. Ma include anche un sostegno economico a chi lavora da casa tramite telelavoro e degli sgravi fiscali sul lavoro delle donne del Mezzogiorno. «Il governo ha già stanziato 40 milioni di euro – spiega Mara Carfagna –, che presto arriveranno in Conferenza unificata per la distribuzione, dal momento che saranno le Regioni a gestirli, attraverso bandi pubblici». L’Italia, continua, deve infatti impegnarsi per colmare «il gap occupazionale e salariale tra uomo e donna. È im-
SitoG8 ANSA foto Ettore Ferrari
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Il gruppo delle first Lady con il ministro Mara Carfagna durante la visita al centro terremotato de L'Aquila nel secondo giorno del vertice G8
L’Italia deve colmare il gap occupazionale e salariale tra uomo e donna. È importante sostenere e aiutare le donne che hanno bisogno di lavorare e di dedicarsi, al contempo, alla famiglia portante sostenere e aiutare le donne che hanno bisogno di lavorare e di dedicarsi, al contempo, alla famiglia». Creare una società nella quale sia effettivamente possibile parlare di parità e di integrazione è sicuramente un aspetto fondamentale dell’impegno del ministro e di tutta la società, ma come ha sottolineato il ministro, i mali che colpiscono le donne, fin da giovanissime, sono molti e occorre una maggior attenzione nell’in-
dividuarli. L’attenzione del ministro si è infatti anche concentrata sui casi di disturbi alimentari, che rappresentano la prima causa di morte per malattia delle ragazze tra i 12 e i 25 anni. «Le statistiche ci dicono che almeno il 3% della popolazione soffre di anoressia o bulimia nervosa, oltre 200mila donne nel nostro Paese sono colpite da questo genere di disturbi – commenta – si tratta di una vera e propria emergenza che, oltre ad essere affrontata dal parlamento, va prima di tutto riconosciuta nelle nostre case o tra le persone che frequentiamo». I sintomi di un malessere psicologico spesso sono evidenti, ma il problema è che vengono sottovalutati. Per combattere queste situazioni di disagio, per aiutare figli, sorelle e amiche, il ministero per le Pari opportunità ha creato la piazza virtuale TimShell, nata con l’intento di favorire una sana alimentazione e di prevenire e combattere i disturbi del comportamento alimentare.
42 > LA FORZA DELLE DONNE > Emma Bonino > Voglia di mordere il mondo
“PARI O DISPARE” CONTRO LA DISCRIMINAZIONE Lo sguardo di Emma Bonino sulla condizione della donna italiana. Ancora troppo in difficoltà nel suo ruolo di madre, moglie, imprenditrice o impiegata. E le difficoltà dimostrano che non sono state fatte le scelte giuste. È ora di invertire la rotta, senza piagnistei, con interventi concreti DI
LARA MARIANI
ono anni che anima le iniziative radicali, le lotte per i diritti civili, umani, politici. E soprattutto lotta per la posizione della donna. E dopo tanti anni le cose da cambiare sono ancora molte e le questioni da porre innumerevoli. Perché, anche se «dal punto di vista legale abbiamo forse raggiunto la parità, in realtà permane una condizione di disagio complessiva delle donne, persistono alcune antiche discriminazioni nelle condizioni di lavoro e si continuano a compiere scelte che non ne valorizzano meriti e competenze». Ed effettivamente basta osservare le statistiche sulle donne al vertice della politica, delle istituzioni, delle imprese, delle banche per registrare che il maschilismo è ancora culturalmente imperante nella nostra società. Cosa si dovrebbe fare a livello mediatico per riequilibrare l’immagine della donna? Perché i cliché al femminile sono così duri a morire? E che ruolo hanno le donne stesse nel perpetuare quest’immagine mortificante? Ma soprattutto, spostando lo sguardo dalla politica e dalla televisione, cosa si dovrebbe fare per le donne comuni, quelle che lavorano ogni giorno con sacrifici enormi? Chi meglio di lei può rispondere a tutte queste do-
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mande. Lei che con la sua energia ha animato tante battaglie, lei che è stata definita la più irrequieta delle politiche italiane, lei che sa che il lamento non porta da nessuna parte e da sempre si impegna non solo per denunciare, ma soprattutto per cambiare quello che non va. L’epoca del femminismo è finita e le veraci manifestazioni oggi sono solo un ricordo. Eppure i nodi da sciogliere sono ancora tanti. «Non sono una di quelle che pensa che basta essere donna per essere migliore, né che si debba trasformare la meritocrazia in un feticcio, ma se in Italia si introducessero seriamente dei parametri meritocratici le donne avrebbero maggiori possibilità. I dati che ci vengono dall’università dimostrano che le donne hanno risultati migliori degli uomini, ma
Emma Bonino, vicepresidente del Senato
poi c’è una disparità di accesso al mondo del lavoro. Proprio sulla parità di trattamento in Francia stanno sperimentando il curriculum anonimo senza età, razza o sesso, un tentativo per rimediare ai pregiudizi e alle disuguaglianze che esistono anche da noi ma in misura maggiore». Ha qualche progetto in attivo a proposito? «Stiamo mettendo in moto un Comitato dal nome “Pari o Dispare” contro le discriminazioni di genere a cui partecipano molte donne e anche uomini. Il lavoro è complesso vista la portata del tema, ma abbiamo scelto di essere molto concrete e speriamo efficaci. Il primo obiettivo è quello della valorizzazione del merito e del talento delle donne italiane che, a causa di un sistema inadeguato di welfare, con regole e gestione al maschile, rimane risorsa criminosamente mortificata e spesso offesa. Invece, con il Comitato “Pari o Dispare” abbiamo deciso, da un’idea della professoressa Kostoris, di spingere per un organo di garanzia, cosa che molti altri Paesi hanno già e che la direttiva 54 dell’Ue prevede e incoraggia, per vigilare sulle discriminazioni di genere, sanzionare i comportamenti delle aziende pubbliche e private che discriminino le donne, promuovere i comportamenti virtuosi e inclusivi».
Quindi l’Unione europea si rivela attenta a questi temi? «Sì, ma spesso le indicazioni delle direttive europee vengono svuotate di qualsiasi significato nella fase di recepimento nell’ordinamento nazionale. Invece i mezzi che l’Europa ci consente e anzi auspica vanno usati, proponendo un modo nuovo e una visione d’insieme meno lamentosa e sconsolata, puntando invece su una lucidità di analisi, sul monitoraggio e un continuo e quasi fastidioso pungolo verso le istituzioni. Insomma vorremmo fare pressing, se altre donne e uomini ci aiuteranno e comprenderanno lo spirito di questa iniziativa». Cosa si dovrebbe fare a livello mediatico per riequilibrare l’immagine della donna? «L'immagine della donna in televisione è generalmente deprimente. In quella italiana poi gli stereotipi al femminile raggiungono vette ineguagliabili. A qualsiasi ora del giorno possiamo verificarlo di persona: dalla velina sempre svestita, anche in contesti invernali dove gli uomini sono rigorosamente coperti, all’angelo del focolare che letteralmente gode di fronte all’efficacia di Mastrolindo, o ancora la commessa accogliente e ironica, ma se solo si azzarda a fare carriera si trasforma inesorabilmente nella Meryl Streep del
44 > LA FORZA DELLE DONNE > Emma Bonino > Voglia di mordere il mondo
che volendo non solo abbiamo diritti e ragioni, ma anche i numeri della ragione».
Diavolo veste Prada. I cliché al femminile sono duri a morire ma, va detto, anche grazie al contributo attivo di donne che si prestano felicemente a perpetuare quest’immagine mortificante. Un altro degli obiettivi del Comitato “Pari o Dispare” è proprio quello di creare un osservatorio Rai sugli stereotipi nella comunicazione e cambiare le regole seguite dalla Tv in materia di immagine delle donne». Il contributo della politica in questo caso quale deve essere? «La politica ha il dovere di agire applicando le buone pratiche e facendolo in fretta, prima che si arrivi a una situazione di esasperazione e di totale mortificazione del talento, della forza e della resistenza delle donne italiane. Possiamo rimettere in moto un paese e rendere consapevoli e più libere le
Mettendo da parte politica e televisione, come vede la situazione delle donne “comuni”, quelle che lavorano ogni giorno, con determinazione e grandi sacrifici. Per loro cosa si dovrebbe fare? «Garantire maggiori servizi. In Italia si santifica la famiglia, al punto da inventare il Family Day, solo per scoprire che siamo il fanalino di coda in Europa quanto a servizi a sostegno delle donne nel momento in cui più ne hanno bisogno. Così siamo ancora un Paese dove persistono grandi difficoltà a conciliare casa e fabbrica, casa e ufficio, casa e impresa, casa e consiglio comunale. Il che significa che non sono state fatte le scelte politiche giuste. Però, dopo tanti anni di mugugni, di incubazione, di ripensamenti, forse qualcosa si sta muovendo in termini di energia, di “voglia di mordere il mondo” da parte delle donne. Vedo con piacere che si sono rimesse a discutere e a ritrovarsi per scambiare idee e promuovere iniziative. Spero che l’epoca del lamento sia finita». In una recente intervista lei accennava al rigore sabaudo che l’ha guidata nel corso della sua carriera e alle battaglie che ha condotto nel corso della sua vita politica. Quali sono quelle di cui è più orgogliosa? «Di quelle in corso e che dobbiamo ancora vin-
La politica ha il dovere di agire applicando le buone pratiche e facendolo in fretta, prima che si arrivi a una situazione di esasperazione e di totale mortificazione del talento, della forza e della resistenza delle donne italiane donne attraverso delle politiche che non dobbiamo neppure inventarci, giacché tutti i paesi civili ci sono già arrivati e hanno ampiamente sperimentato con successo. Ci stiamo provando a fare squadra, femministe e non. Non sempre è facile, visto che le donne stesse non sempre si sono date la possibilità di fare sinergia e comprendere
cere. Se mi guardo indietro tutte quelle che attengono alla dignità della persona e delle donne in particolare in Italia e nel mondo, passando per l’istituzione della Corte penale internazionale fino alla moratoria universale sulla pena di morte e alla battaglia più recente contro le mutilazioni genitali femminili».
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CLIO NAPOLITANO: «LE COSE CHE DANNO SOSTANZA E SPERANZA PER IL FUTURO» Madrina d’eccezione per i 40 anni del primo nido pubblico in Italia, la first lady Clio Napolitano ricorda come i nidi «sono essenziali oggi più di ieri, per creare una convivenza civile. Sia nei confronti dei bambini che devono avere un’educazione, sia nei confronti delle mamme che devono essere aiutate in questa vita moderna frenetica ad avere un buon rapporto con i figli» di Federica Gieri
© Foto Rodolfo Giuliani - Schicchi
La classe per sottrazione. La fede al dito. E nulla più. Solo un foulard che vira al blu, a sottolinearle il volto. Su cui spiccano occhi scuri, molto vivaci e soprattutto pungenti di chi la vita l’ha vissuta in prima linea. Con energia. E forse anche un po’ controcorrente. Viaggia leggero la signora Clio. Con understatement. Pochi gli uomini del Quirinale al seguito. Imponente, ma molto discreta la presenza di uomini dell’Arma e della Polizia. D’obbligo perché la signora Clio, nata Bittoni è pur sempre la signora Napolitano. La first lady.
«Queste strutture oggi sono essenziali
più di ieri, per creare una convivenza civile sia nei confronti dei bambini sia nei confronti delle mamme» A Bologna arriva puntuale a mezzogiorno. In treno. Palazzo d’Accursio, il Comune, l’ha invitata sotto le Due Torri per festeggiare i 40 anni del “Patini”, il primo asilo nido pubblico in Italia, la cui apertura anticipò di due anni la legge nazionale del 1971. E che oggi accoglie 41 bimbi seguiti da 9 educatrici e 5 dade. «Un’esperienza bellissima nella sua originalità» la definirà più tardi la signora Napolitano, mettendo in risalto la
Per non dimenticare. Dopo il compleanno del nido, Clio Napolitano ha chiesto di visitare il museo sul disastro di Ustica, vicino alla sede dell’asilo, non prima di aver incontrato le amministratrici pubbliche locali. Saputo del desiderio della first lady di vedere il museo, la presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage del 27 giugno 1980, Daria Bonfietti, ha aperto la struttura e ha accompagnato la signora Clio nella visita. «È rimasta senza parole e mi ha detto che è valsa davvero la pena di fare lo sforzo di dare vita a questo museo», ha riferito Bonfietti.
48 > L’INCONTRO > Clio Napolitano > Sostenere i nidi per sostenere il futuro
lungimiranza di quella scelta. «Sapevo che Bologna è sempre stata all’avanguardia con le strutture scolastiche – aggiunge la prima signora della Repubblica, ammettendo di essere veramente emozionata –, ma ignoravo il nido Patini e la diffusione che aveva avuto questa esperienza». Una semina a sostegno della genitorialità che ha generato più di 50 nidi gestiti direttamente dal Comune, una trentina privati, ma convenzionati. Ad attenderla, in via Saliceto 3, nel cuore del quartiere storico della Bolognina, un bouquet di rose bianche. Oltre alle massime autorità: il prefetto, Angelo Tranfaglia, il questore, Luigi Merolla, i presidenti di Regione e Provincia, Vasco Errani e Beatrice Draghetti, e il “padrone di casa”, Flavio Delbono, il sindaco. Il quale ha
In apertura Clio Napolitano e Franca Patini, figlia dell’imprenditore Aldo che realizzò il nido.
influenza e proteggere così i piccoli ospiti. Visita la struttura, gli spazi gioco, pranza con i bambini. Cucinano le dade: antipasto con prosciutto grana e pomodorini, risotto con la zucca, sformato di zucchine e polpette con le carote. «Nella sua semplicità – osserva -, in questo suo modo di essere antico, in questo asilo si sente che c’è una sostanza». Spegne la candeline della maxi torta colorata dei quattro decenni. Premia, con una spilla del Comune, le prime dade che hanno lavorato al Patini. Non si sottrae al rito delle foto. A
Fu il primo nido d’infanzia italiano. Nacque per aiutare le mamme operaie ad accudire i propri bambini. Il nido “Patini” accolse i primi bimbi nell’ottobre del 1969 grazie alla donazione dell’edificio da parte di Aldo Patini, per onorare la memoria dei genitori Carolina e Giuseppe. Per quell’epoca, il Patini fu una vera rivoluzione. Cominciò a funzionare con 30-35 bambini dai tre mesi ai tre anni e con un orario giornaliero dalle 7 alle 19 per venire incontro alle esigenze delle mamme lavoratrici. L’organizzazione, dagli arredi agli spazi, dai materiali al personale, fu pensata per accogliere i piccolini, il loro diritto al gioco e il bisogno di una sana e corretta alimentazione. Nel 1986 fu inaugurata la nuova scuola dell’infanzia attigua al nido. Nel 1992, il quartiere valutò la necessità di ampliare il nido, collegando le due strutture: l’ex sede di scuola dell’infanzia fu destinata al nido (fino a 41 posti medi e grandi) e venne realizzato il Centro genitori bambini “Piccole invenzioni” con annesso nido part time (26 posti) nella struttura oggetto della donazione.
sottolineato come la presenza della signora Napolitano «significa che questo non è un anniversario provinciale, si sta festeggiando l’orgoglio di essere bolognesi, una comunità che ha fatto scuola. Questo è un pezzo della nostra storia». Infila le soprascarpe azzurre, come tutti, per non introdurre germi e infezioni in tempi di
chiunque le chiede uno scatto insieme, dice sì. Affabile. Nessun muro formale con le mamme, i papà e i nonni dei bimbi del nido in festa. Clio Napolitano interpreta il ruolo di first lady a modo suo. Al punto che durante la visita al museo sul disastro di Ustica, quando Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime della strage del 27 giugno 1980, la
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«È importante che
chiama “presidente” per alcune volte, non le risponde. «Poi – riferisce Bonfietti – mi ha spiegato che non era abituata ad essere chiamata così e per questo non aveva risposto. “Mi chiami Clio”, mi ha detto». Anticonformista e non convenzionale. Come del resto è per carattere. Non è mai stata una moglie
attenzione. «Ho capito – sottolinea la signora Napolitano – qual è lo spirito educativo e di integrazione». Il Patini «è un’esperienza che trovo molto positiva. Queste sono le cose che danno sostanza e speranza al futuro». Tuttavia c’è un ma, avverte la signora Napolitano. «Avere queste strutture significa un investimento e spesso non si investe abbastanza in questi nidi – rileva –. Queste strutture oggi sono essenziali più di ieri, per creare una convivenza civile. Sia nei confronti dei bambini che devono avere un’educazione, sia nei confronti delle mamme che devono essere aiutate in questa vita moderna frenetica ad avere un buon rapporto con i figli». Sempre riferendosi agli investimenti insufficienti, la moglie del presidente della Repubblica, precisa: «Rispetto alla mia generazione si è fatto anche
da “accompagnamento”, anche se per il marito ha scelto di fare delle rinunce (quando divenne presidente della Camera lasciò per senso di opportunità l’attività legale per la Lega delle cooperative). Avvocato del lavoro con la passione per la politica, ha trascorso la vita a fianco del compagno sposato in Campidoglio. Ma è sulla valenza del nido che si sofferma la sua
abbastanza. Però è chiaro che i servizi e le strutture sono una cosa essenziale per una convivenza civile, pacifica e sostanziale rispetto ai problemi». A tal punto, che «è importante che l’educazione cominci presto, per un approccio positivo sia per i bambini che per i genitori, alla vita e anche alla democrazia. Queste sono le cose che danno sostanza e speranza per il futuro».
l’educazione cominci presto, per un approccio positivo sia per i bambini che per i genitori, alla vita e anche alla democrazia»
50 > LAVORO E FAMIGLIA > Paola Pelino > Non solo scuole d’infanzia
VERSO IL NIDO CONDOMINIALE Il governo è al lavoro per centrare l’obiettivo di Lisbona. E coprire così il 33% di richieste per il nido. Parola della deputata azzurra Paola Pelino. È già partita la realizzazione di nidi aziendali nelle pubbliche amministrazioni. Il sogno? «Avere una Tagesmutter in ciascun condominio italiano per consentire alle mamme di lasciare il figlio appena fuori dal loro appartamento senza dover rinunciare al lavoro» DI
Le maniche sono rimboccate. «Sicuramente nell’ambito dei servizi per la famiglia, c’è ancora molto da fare, ma l’importante è avere cominciato». Pragmatica come solo un’imprenditrice prestata alla politica sa essere, Paola Pelino, deputato Pdl e segretario nella commissione Lavoro di Montecitorio, guarda avanti. A ciò che va fatto per potenziare i servizi alla prima infanzia, quelli cioè per i bambini 0-3 anni. «Negli ultimi anni – osserva l’onorevole azzurra – la percentuale di posti a disposizione nei nidi tradizionali è salita del 5%. Il trend è positivo e nel 2009 il governo ha investito molte risorse». L’agenda di Lisbona stabilisce che per il 2010 ogni Paese Ue debba avere tanti asili da soddisfare almeno il 33% della domanda. L’Italia, dato Istat è ferma all’11,7%. Come si colma il divario? «È vero, l’Italia è lontana dagli obiettivi di
FEDERICA GIERI
Dai confetti alla politica Prima ancora che onorevole Pdl, Paola Pelino nasce imprenditrice, essendo socia e membro del Cda della Fabbrica Confetti Pelino di Sulmona (L’Aquila). Fondata nel 1783 da Berardino Pelino e tramandata di padre in figlio, l’azienda vanta la produzione di confetti secondo l’antica formula della tradizione confettiera senza amido, né farina. Prima donna ai vertici dell’azienda dopo sei generazioni al maschile. Terminati gli studi, Paola Pelino ha svolto per oltre vent’anni l’attività di responsabile del marketing e pubbliche relazioni dell’azienda di famiglia. A conferma della sua professionalità, è stata insignita dell’onorificenza di Commendatore della Repubblica italiana e del premio Marisa Bellisario.
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«Il sostegno alla formazione di nuove famiglie e lo sviluppo di servizi per la prima infanzia sono impegni concreti del governo. L’accordo prevede che vengano realizzate cinquanta nuove strutture, che ospiteranno 1.000 figli dei dipendenti delle amministrazioni centrali» Lisbona. Sono certa, però, che entro il 2010 il nostro Paese sarà in grado di raggiungere la soglia fissata. Il gap, comunque, il governo lo sta colmando, realizzando nidi aziendali nelle pubbliche amministrazioni». Attraverso l’intesa tra Pubblica amministrazione, Pari opportunità e le Politiche della famiglia? «Esatto. Il sostegno alla formazione di nuove famiglie e lo sviluppo di servizi per la prima infanzia sono impegni concreti che questo governo intende realizzare. L’accordo prevede che vengano appunto realizzate, in tutte le sedi delle pubbliche amministrazioni, cinquanta nuove strutture, che ospiteranno circa 1.000 figli dei dipendenti delle amministrazioni centrali». Quali saranno le risorse a disposizione? «Il governo ha già destinato 25 milioni di euro, di cui 18 milioni saranno stanziati dal dipartimento per le Politiche della famiglia e 7 milioni dal dipartimento per le Pari opportunità. A questi si aggiungeranno, come promesso dal ministro Brunetta, quelli del dipartimento per la Pubblica amministrazione che utilizzerà parte dei risparmi provenienti dal graduale innalzamento dell’età pensionabile delle donne del pubblico impiego. Dal 2010, si raggiungeranno i 40-60 milioni
52 > LAVORO E FAMIGLIA > Paola Pelino > Non solo scuole d’infanzia
per finanziare 80-100mila posti in asilo nido in 10 anni. Queste risorse saranno integrate attraverso cofinanziamenti delle amministrazioni centrali e periferiche, arrivando così a 80-100 milioni di euro l’anno corrispondenti a 7-10mila posti di asili nido l’anno. Il protocollo, inoltre, prevede che il dipartimento della Funzione pubblica realizzi un’indagine sulla rete dei servizi educativi per la prima infanzia nelle pubbliche amministrazioni su tutto il territorio nazionale. La mappatura servirà per definire nuovi
obiettivi, tempi, modalità e risorse per realizzare un programma più ampio di istituzione di “nidi aziendali” e per realizzare degli interventi mirati nelle zone dove i servizi per l’infanzia risultano particolarmente scarsi e insufficienti». L’Italia vista dai nidi è un paese a mille velocità. Con un grande divario Nord-Sud. Al Nord liste di attesa più o meno lunghe, ma presenza di strutture. Al Sud liste di attesa senza o quasi risposta. Come si garantisce una pari opportunità di accesso ai servizi? «C’è un grosso divario tra Nord e Sud con particolare riferimento all’occupazione femminile. La maggiore presenza di nidi la troviamo nel Nord con la regione Lombardia, in primis, che ha il più elevato numero pari a 617 strutture e circa 27mila posti disponibili. A seguire, ci sono l’Emilia Romagna, con 540 strutture e oltre 23mila posti e la Toscana, con 399 nidi e circa 14mila posti. Ultimo il Molise,
con soli sei asili per 219 posti disponibili. Gli asili, in Italia, sono presenti soltanto per il 17%. Nel loro insieme il 59% è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% al Centro e il restante 14% al Sud. Si sta lavorando molto in questo periodo per creare nuove strutture che possano garantire l’accesso al servizio a tutti in maniera equiparata». Non solo asili. Pge o Tagesmutter: il governo incentiva queste esperienze che, purtroppo, anziché essere integrative ai nidi, appaiono sempre più oggi alternative alla lista di attesa per entrare nei nidi. «Il servizio Tagesmutter “Madre di giorno”, punta a facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia per le mamme e ad aumentare il tasso di occupazione femminile. Il Pge e la Tagesmutter non voglio essere un’alternativa alle liste d’attesa dei nidi, ma, grazie al forte impulso del ministro Mara Carfagna, vogliono riassumere i benefici di un’asilo nido e, nello stesso tempo, quelli dell’affidamento del piccolo a un parente, per esempio un nonno. Le mamme possono, dunque, contare su professionisti di impegno comprovato, a due passi dalla loro casa, in un ambiente prossimo a quello dove vive il bambino. Il sogno che vorremmo realizzare è quello di avere una Tagesmutter in ciascun condominio italiano per consentire alle mamme di lasciare il figlio appena fuori dal loro appartamento senza dover così rinunciare al lavoro». Per favorire la permanenza di un genitore tra le mura domestiche almeno durante il primo anno di vita del bambino, sono previsti interventi ad hoc? «Il ministero per le Pari opportunità sta portando avanti uno studio per incentivare la normativa per i congedi parentali. Così da rispondere al diritto di entrambi i genitori nella cura della prole in tenera età. Gli schemi di congedo parentali sono un importante strumento di conciliazione e di tutela del benessere dei figli».
54 > DIBATTITI > Fiamma Nirenstein > Religione e identità
Sbaglia chi considera la moschea
alla stregua di una chiesa o di una sinagoga
IL POTERE DEI SIMBOLI Religione e politica vanno tenute separate, sempre. Senza dimenticare che l’appartenenza a un popolo è un concetto complesso, fatto di molti aspetti, abitudini, credenze. La riflessione di Fiamma Nirenstein di Agata Bandini
essun simbolo religioso è sempre soltanto un simbolo, ma possiede una sua profondità, una capacità più o meno scoperta di “parlare d’altro”. Non c’è pratica di culto che non finisca per prolungarsi, secondo diversi gradi e livelli, ad ambiti più ampi della cultura e della società: vita familiare, rapporti affettivi, diritti civili. E, naturalmente, sistemi politici. Che si parli di minareti adagiati in valli svizzere o crocifissi nelle aule italiane, il principio è, nei presupposti, lo stesso. Ma è sulle modalità di questo contatto, di questo rimando inevitabile tra religione e cultura, che occorre fare dei distinguo. Decisi, specifici, perentori. Senza indulgere in paure diffuse o ingenue condanne. Ma anche senza eccedere nelle esaltazioni. «Non amo chi celebra a occhi chiusi la propria cultura – afferma ad esempio Fiamma Nirenstein – ma credo vada sottolineato che solo la cultura ebraico-cristiana ha prodotto la democrazia. Di questo dobbiamo essere fieri. Le due sfere, religione e politica, non vanno tuttavia confuse – aggiunge – come fa ad esempio l’Islam, che oltre
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a essere una religione, è un sistema di pensiero, per il quale esiste una vera e propria fusione tra la vita come insieme di regole civili e politiche e il credo religioso. È il principio della Sharia, che rende la religione allo stesso tempo un’ideologia e una strada politica». La presenza islamica in Occidente è preziosa e ricca di spunti, che potrebbero portare a un fruttuoso arricchimento reciproco. «Ma perché questo avvenga – precisa Nirenstein – bisogna avere il coraggio di guardarla per quella che è, ovvero una presenza molto problematica e, per certi versi, antagonista alla nostra». Da qui, secondo l’onorevole, si deve partire per dirimere l’intrico che oggi domina il rapporto tra religione e politica: dall’islamofobia,
55 Fiamma Nirenstein, giornalista e scrittrice, è vicepresidente della commissione Esteri della Camera dei deputati
56 > DIBATTITI > Fiamma Nirenstein > Religione e identità
«concetto assurdo», diventato un alibi per non parlare e conoscersi a vicenda, alle false credenze su Israele, «paese laico, esattamente come l’Italia», che lotta «non per la religione, Dio ce ne scampi, ma per la vita. Per rimanere in vita». La recente questione dei minareti in Svizzera ha dato una nuova sfumatura al problema dell’integrazione religiosa in Europa: non si proibisce l’esercizio del culto, ma la costruzione di un suo luogo simbolo. Che ne pensa? «È un argomento delicatissimo, che richiede una profonda conoscenza e consapevolezza, che pochi hanno, dell’Islam, dove tutto ciò che riguarda la vita religiosa riguarda anche la vita politica. Bisogna dunque fare molta attenzione, perché quando si parla di sfera religiosa, per un musulmano, si parla di una sfera totale, che copre tutti gli aspetti della sua vita, dalle leggi ai rapporti sociali, compresa la condizione della donna, aspetto particolarmente importante. Per questo, sbaglia chi considera la moschea alla stregua di una chiesa o di una sinagoga, peraltro già tra loro non paragonabili. Il punto è che nel mondo islamico non esiste un confine tra culto e politica. La Sharia è, direttamente o indirettamente, alla base di ogni Stato arabo, ma è una legge molto diversa dalla nostra per quanto riguarda in particolare i diritti umani. È qui che la sovrapposizione con un mondo come il nostro diventa impossibile. Anche perché è un mondo che l’Islam considera per la maggior parte sbagliato, da correggere, un mondo in cui non si è compreso qual è la vera fede e il corretto comportamento e che deve dunque essere convertito alla vera fede: la loro».
«Quella dell’islamofobia è un’idea semplicemente pazzesca, imposta a forza dallo stesso mondo islamico, ormai maggioritario all’Onu, sfruttando la preoccupazione diffusa, ma comprensibile, di fronte all’insorgenza, questa sì oggettiva, di una Jihad islamica molto accentuata, che ha saputo attrarre ed eccitare la fantasia di molti musulmani, soprattutto giovani, verso l’idea di una “conquista del mondo”. Tutto ciò crea apprensione, è chiaro, ma non si tratta di fobia, quanto di domande, punti interrogativi. Che però non possono essere sciolti se, con l’alibi appunto dell’islamofobia, si impone di fatto il silenzio dell’Occidente e una sorta di
Quella dell’islamofobia è un’idea semplicemente pazzesca, imposta sfruttando la preoccupazione diffusa di fronte all’insorgenza di una Jihad islamica molto accentuata
Sempre più spesso si parla esplicitamente di islamofobia. Non c’è il rischio che questa idea diventi un alibi proprio per i fondamentalisti, sia islamici che cristiani?
acquiescenza da parte dell’Islam moderato, che senz’altro è la maggioranza, ma non si fa mai davvero sentire. Invece, lo ripeto, bisogna avere il coraggio e l’onestà, da entrambi i versanti, di parlarne. E di condannare ciò che è sbagliato senza la minaccia costante di essere tacciati,
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sbagliando clamorosamente, di islamofobia». Islamofobia, odio per l’Occidente, antisemitismo. Da dove si può partire per disinnescare questo fuoco incrociato? «Solo e semplicemente dal proibire che queste orribili forme di provocazione e incitamento all’odio vengano propagate attraverso Internet e la stampa internazionale. E mi riferisco in particolare alla preoccupante rinascita di un antisemitismo classico, una diffamazione gratuita e incessante, a cui nessuno sembra sapersi contrapporre e che ha finito col corrompere anche le menti dell’Occidente. Si
permette che gli ebrei vengano accusati di brutture indicibili, torture, stragi di bambini, apartheid, quando la realtà è del tutto opposta. Israele è l’unico stato del Medio Oriente dove i rappresentanti della minoranza, in questo caso palestinese, non solo siedono in parlamento, ma possono esprimersi liberamente senza timore di saltare in aria da un giorno all’altro. Perché Israele, questo bisogna sempre ricordarlo, è uno stato laico, una nazione, non è la terra di una religione né un paese confessionale. La precettistica ebraica si è intersecata nel corso dei millenni con le vicende di un popolo che ha sempre lottato per la propria sopravvivenza, forgiando un’identità che non si limita alla professione di un culto, ma anche e soprattutto
Europa, ritorno alle origini Ha presentato recentemente, insieme all’onorevole Isabella Bertolini, un progetto di legge per l’inserimento del riconoscimento delle radici cristiane italiane all’interno della Costituzione. Ma il tema della cultura religiosa è già da tempo al centro degli interessi dell’onorevole Michaela Biancofiore (nella foto). «È molto difficile oggi affrontare questi temi con la serenità necessaria – afferma – ma sarebbe sbagliato ignorare, in nome di un frainteso politically correct, che certe dinamiche ci pongono di fronte a una scontro di civiltà, dove quella cristiana, fondata sulla vita, finisce col trovarsi impotente di fronte a una civiltà che non teme la morte, come quella propugnata dal fondamentalismo islamico». L’Italia, spiega Biancofiore, «è la culla della religione cristiana ed è stata tra i Paesi fondatori dell’Unione Europea, che nelle intenzioni dei costituenti originari aveva alla base proprio quei principi di uguaglianza e libertà che sono intrinsechi alla cultura giudaicocristiana», ricorda l’onorevole. E per questo, aggiunge, «il nostro Paese dovrebbe fare da capofila in un processo che, negli auspici di molti, porti al riconoscimento della comune matrice cristiana dei vari Stati in una nuova costituzione europea, che vada oltre il trattato di Lisbona, ponendo una serie di riferimenti culturali e valoriali forti, come famiglia e solidarietà, in grado di cementare un sentimento di appartenenza ancora troppo debole». Il provvedimento, insomma, ha un valore simbolico, più che sostanziale, «come segnale culturale e senza alcuna finalità politica», precisa Biancofiore. «Il laicismo e il relativismo imperanti stanno distruggendo la nostra società, opponendo a valori sempre più dimenticati una serie di disvalori, che invece vanno combattuti senza esitazioni. Perché – conclude – l’Europa che sognavano i fondatori, da Adenauer a Schumman senza dimenticare il nostro De Gasperi, non era solo un’entità economica e finanziaria, ma una comunità culturale».
al concetto di appartenenza a un popolo. Per questo, la maggior parte degli israeliani porta, come amo dire, una kippà trasparente: in Israele la cultura è impregnata del sistema di valori dell’ebraismo e la maggior parte della popolazione, pur essendo laica, così come le istituzioni dello Stato, si identifica in questo messaggio fortemente ebraico dell’“iè tov”, andrà bene, un messaggio fatto di coraggio, senso di sacrificio, voglia di andare avanti nonostante tutto, in libertà e democrazia».
58 > IL CUORE DELLE DONNE > Maria Pia Fanfani > Donarsi è il più bel dono
LA NECESSITÀ DI PORTARE AMORE Ovunque si sia levata una richiesta di aiuto, è sempre stata pronta a partire. Ha quasi novant’anni, ma non ha perso un grammo di quella vocazione a “dare” che, appena ventenne, iniziò a guidare i suoi passi inquieti. Maria Pia Fanfani racconta di sé. E di molto altro DI
DANIELA PANOSETTI
Maria Pia Fanfani, vedova di Amintore Fanfani, si dedica all’impegno umanitario dal 1942, quando fondò l’associazione Primo Aiuto. Dal 1983 è presidente dell’Onlus Sempre insieme per la pace. Ha pubblicato numerosi libri e partecipato a missioni in tutto il mondo, al seguito di Croce Rossa e Onu in particolare
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erti concetti, soprattutto se stemperati di alti ideali e propositi, a lungo andare rischiano di perdersi nell’astrattezza. Così è per la solidarietà: parola desueta, eppure abusatissima, troppo spesso brandita come un facile passepartout per dare un tocco etico a ben altri scopi e necessità. E invece, concetti come solidarietà richiedono concretezza. Molta
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concretezza. Perché abbracciano questioni fin troppo terrene, come cibo, abiti, medicamenti: l’attrezzatura minima per la sopravvivenza. Necessità umanitarie tra le quali Maria Pia Fanfani, che la solidarietà sa bene cosa sia, annovera anche altri beni, meno evidenti ma non meno importanti: «La comprensione – spiega con una sorta di placida fermezza, che non stupisce se si pensa alla sua vita –, la capacità di parlare e ascoltare, di essere amici con queste persone, farle sentire parte di qualcosa, di un aiuto che non deve venir meno». Settant’anni di missioni in ogni angolo del mondo, ma è questa verità, soprattutto, che l’infaticabile “signora Fanfani” porta con sé. Esperienze che oggi racconta nel suo ultimo libro, Lady Non Stop, «un taccuino di bordo – precisa –, un’odissea nel degrado e la violenza di tutti quei luoghi del mondo dove ancora immense ricchezze permangono accanto a immense povertà». Il tutto in forma di inedito glossario, dove ogni voce è una figura incrociata nel corso di una vita. A partire dal marito, Amintore Fanfani, fino a Madre Teresa di Calcutta. Tessere di un mosaico storico e umano, che alla fine, come sempre dovrebbe essere, riesce a restituire la giusta concretezza a una solidarietà effettiva, impegnativa e vissuta in prima linea. E proprio per questo dolorosa.
“Per combattere insieme l’estrema povertà, ovunque essa sia”. È il motto che Maria Pia Fanfani ha voluto per l’associazione Onlus Sempre insieme per la pace, che presiede dal 1983 e che, diretta da Cristina Varesani, aiuta ogni anno 150 istituti e 20mila persone. In Italia e ovunque vi sia un appello a cui rispondere
«Il mondo ha fatto tanto, in questi decenni, e c’è molto volontariato in ogni paese. Ma gli indigenti sono talmente tanti che, purtroppo, non è mai abbastanza»
In un mondo sempre più individualista, impegnarsi per il benessere altrui è sempre più difficile. Cosa significa per lei “solidarietà”? «Significa prima di tutto recarsi di persona nei
luoghi della povertà, andare a consegnare di propria mano gli aiuti di cui c’è bisogno. E non parlo solo di cibo e beni materiali, ma di amore, carezze, comprensione. Sono necessari entrambi: essere generosi nel dare ed esserlo anche nella presenza, nell’avere un colloquio con queste persone, diventare loro amici. Per non farle sentire escluse dal mondo o dimenticate». Come ha iniziato a occuparsi di missioni umanitarie? «Avevo vent’anni quando creai l’organizzazione Primo aiuto e da allora ho percorso tutto il mondo. Fu mia madre, però, a indicarmi la strada: mi diceva “vedrai, questo impegno diventerà un mestiere, perché la povertà non si ferma e anzi aumenterà sempre più”. Fu lei ad avvertirmi delle difficoltà che avrei incontrato, di trovare l’umiltà di chiedere denaro, quando necessario. Per fortuna venivo da una famiglia benestante, per cui ho sempre cercato di dare del mio. E anche dopo aver sposato Amintore, nel 75, non ho mai preso nulla dallo Stato italiano».
60 > IL CUORE DELLE DONNE > Maria Pia Fanfani > Donarsi è il più bel dono
Nel libro racconta che l’incontro con Madre Teresa segnò una svolta in questo percorso. Cosa accadde? «Era un periodo in cui mi trovavo a corto di risorse e tornando da una missione Madre Teresa, con cui era nato un legame profondo, mi diede coraggio, esortandomi a fare sacrifici. Mi disse di vendere i miei gioielli, come le perle che avevo al collo, così avrei potuto continuare ad aiutare chi ne aveva bisogno. E lo feci. Ma l’insegnamento più grande che mi ha lasciato è quello di stare vicino a chi soffre senza far pesare in alcun modo questa vicinanza e questo donare. Perché nessuno si senta isolato o dimenticato». Si occupa di solidarietà dal 1942. Come sono cambiate le emergenze da allora? «Non sono cambiate, perché i poveri sono rimasti quelli che erano. Certo il mondo ha fatto tanto, c’è molto volontariato in ogni paese, si sono costruiti ospedali, scuole orfanotrofi. Ma gli indigenti sono talmente tanti, talora addirittura troppo difficili da raggiungere, che purtroppo non è mai abbastanza. Per quanto possa apparire utopico, credo ci si debba davvero impegnare a trovare un modo per cancellare la povertà, ridistribuendo le ricchezze, che sono ancora molte nel mondo, non dico in parti uguali, ma almeno tali da fare in modo di ridurre le peggiori disparità».
Rwanda e in Ossezia, dopo la strage di Beslan. In Africa arrivai da sola, erano già tutti scappati per la guerra civile, ma c’erano 55 bambini che dovevano essere portati fuori confine, per strapparli alla furia dello scontro tra Hutu e Tutsi. Mi avventurai al seguito di un generale, attraversando strade minate, e non solo riuscii a portarli via, ma tornai in seguito per altri 150, accompagnandoli in Italia perché fossero amorevolmente curati. A Beslan andai insieme a Bertolaso, persona capacissima e di gran coraggio. Non portai aiuti, ma regali,
«Solidarietà significa recarsi di persona nei luoghi della povertà, per portare gli aiuti di cui c’è bisogno. Non solo cibo e beni materiali, ma amore, carezze e comprensione»
Qual è stata la missione più difficile? «È difficile dirlo, non c’è Paese in cui non mi sia trovata davanti ad almeno un episodio che non mi lasciasse una ferita al cuore. Le esperienze più forti, però, sono state in
perché si trattava di famiglie benestanti, colpite dalla perdita terribile di questi figli innocenti. Vi rimasi 10 giorni, con le madri, le nonne, nei cimiteri, e ho ancora nel cuore il loro strazio». La figura di suo marito ha segnato la storia e la cultura del nostro Paese. Lei nel privato
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come lo ricorda? «Quando ci sposammo, dovetti ovviamente fare delle rinunce, legate al suo ruolo istituzionale, e mettere da parte la mia vocazione umanitaria. Ma poi gli appelli erano così toccanti e urgenti che fu lui a stesso a dirmi di andare, di seguire la mia missione come lui seguiva quella di occuparsi del suo paese, che amava moltissimo. Era un uomo severo nel pubblico, ma allegrissimo a casa e pieno di talento: suonava il pianoforte in modo meraviglioso e amava molto dipingere. Ha
lasciato diversi bellissimi quadri e creare un piccolo museo, una galleria per ricordare questo suo lato artistico, è il mio prossimo progetto. La mia vita con lui fu molto serena e molto bella. Mi ha insegnato tante cose, che porto ancora oggi nel cuore come doni preziosi e che mi aiutano a percorrere sentieri dove mi sento forte proprio grazie al suo ricordo». Fu il capo della Croce Rossa a chiamarla “Lady non stop”. Quali sono i suoi prossimi progetti? «Devo dire che se a 87 anni riesco a condurre una vita ancora attiva e impegnativa, a
sostenere questi ritmi e questi impegni, è soprattutto grazie a un angelo che ho accanto a me, Livia, che ha prima assistito mio marito e che ora è per me una cara amica e una presenza insostituibile. Grazie a lei e ad altre persone speciali, come la mia amica Elsa Peretti, della fondazione Nando Peretti, spero di continuare ancora a lungo a dare aiuto con la mia associazione “Sempre insieme per la pace”, diretta da Camilla Varesani, bussando a
tutte le porte, per quanto sia difficile. Quest’anno, ad esempio, data la crisi e la mancanza di sponsor, si prospettava per i miei assistiti un Natale non dico povero, ma di certo misurato. E invece è arrivato dal cielo, inviato dalla Madonna, alla quale io credo molto, un amico di cui non posso fare il nome, grazie al quale riusciremo ancora una volta ad avere una festività ricca e felice. Perché la mia speranza rimane questa: che un giorno la povertà possa finire e che in quei luoghi che conosco così bene non ci si imbatta più in corpi denutriti e sofferenti, ma in bambini sorridenti, scampoli di felicità».
62 > SPERANZE > Marina Catena > Le armi della solidarietà
Ufficiale dell’esercito italiano e operatrice umanitaria. Marina Catena ha 40 anni e un background professionale forse unico nel suo genere. Ha lavorato in Kosovo per due anni come consigliere speciale della missione di pace Onu e poi in Iraq e in Libano. Oggi dirige l’ufficio parigino del Programma alimentare mondiale. Il presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy ha voluto premiarla decorandola come Chevalier dell’ordine nazionale al merito della Repubblica francese: è la prima donna italiana a ricevere questa alta onorificenza.
QUANDO L’UMANITÀ VINCE
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Due figure distinte, che troppo spesso si sono trovate lontane. Eppure lei, Marina Catena, le riveste entrambe. Come? Lo spiega in questa intervista, che oltre alle sue esperienze contiene qualcosa di pi첫, le sue speranze. Che sono anche le nostre DI LARA MARIANI
64 > SPERANZE > Marina Catena > Le armi della solidarietà ell’immaginario collettivo è difficile conciliare l’immagine dell’esercito con quella delle missioni umanitarie. Eppure un’eccezione esiste. Lei è l’unica donna, anzi l’unico essere umano in tutto il globo, ad essere contemporaneamente un funzionario umanitario delle Nazioni Unite e un soldato. Tanto che è stata definita ironicamente un “ogm”, un organismo che ha incredibilmente messo in contatto due mondi che sembravano incompatibili. E oggi, mentre ci si interroga su come uscire dall’Afghanistan, se avere più soldati o più aiuti allo sviluppo, la sua storia è emblematica, racconta del dialogo difficile ma necessario tra questi due mondi apparentemente inconciliabili. «Esercito e organizzazioni umanitarie saranno presto destinati a parlare una lingua comune. Il militare rimarrà tale e il suo obiettivo sarà sempre la sicurezza e la stabilità, mentre quello dei funzionari umanitari rimarrà l’assistenza, l’aiuto. Ma dovranno imparare a lavorare in maniera complementare, perché pragmaticamente hanno bisogno l’uno dell’altro». E speriamo che la storia di Marina Catena in quanto soldato, in quanto operatore umanitario, ma soprattutto in quanto donna, diventi un monito, un esempio per intervenire laddove guerra e povertà, violenza e odio hanno fatto già ormai troppi danni.
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Qual è il contributo che una donna può apportare in un mondo quasi totalmente al maschile come quello dell’esercito? «L’Italia è stata l’ultima nazione della Nato ad aprire le porte alle donne nel 2000, ed è per questo motivo che le donne non sono ancora numerosissime all’interno delle forze armate. Ma proprio perché siamo arrivati per ultimi lo abbiamo fatto con cognizione di causa. L’Italia ha imparato dall’esperienza degli altri Paesi e l’ha messa in pratica con una grande consapevolezza. E quello che mi sento di affermare con sicurezza è che il contributo femminile in questo mondo ancora quasi esclusivamente maschile è quello della prossimità». Cosa intende? «Una donna soldato è esattamente uguale a un militare maschio, la differenza è che nelle azioni di conflitto e nelle missioni effettuate in paesi come l’Afghanistan e il Libano le donne riescono a costruire un ponte, a riempire un vuoto che gli uomini non possono colmare. In questi Paesi infatti deve essere una donna ad avvicinare
il mondo femminile, perché gli uomini non possono farlo in alcun modo. E questo è il vero valore aggiunto dell’essere donna in tali situazioni». Lei ha dichiarato che si è sempre “trovata durante tutta la vita a essere l’unica donna”. Di tutte le truppe militari al mondo, le donne sono solo il 2%. Secondo lei si tratta di una resistenza da parte delle donne, ovvero sono loro a non essere inclini alla partecipazione, oppure ci sono ancora delle barriere che ne impediscono l’ingresso? «Io non parlerei di barriere, anzi il numero di donne è in crescita. Semplicemente il loro arrivo nelle forze armate è recente, quindi fisiologicamente ci vuole un po’ di tempo. Non penso che ci sia reticenza o rifiuto da parte loro. Tutt’altro. E spero che questo numero cresca
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catrici all’indomani del conflitto. Infatti, mentre gli uomini avevano combattuto gli uni contro gli altri, le donne possedevano un grande potenziale di neutralità. E proprio sulla neutralità delle donne si è ricostruita la nazione. Allo stesso modo le serbe sono diventate le protagoniste della ricostruzione, anche perché in parecchi casi gli uomini erano stati catturati. E quindi in tutto il territorio distrutto dalla guerra il testimone della ricostruzione è stato preso in mano decisamente dalle donne».
Perché proprio nelle missioni di pace? «Faccio solo un esempio. Il Kosovo. Dopo la guerra molte donne avevano subito ogni tipo di violenza. Chi poteva parlare con loro se non un’altra donna? Qualcuno che potesse capirle ma che fosse estraneo al nucleo familiare, estraneo ai ricordi terribili che avevano di quell’esperienza. Il sentimento di prossimità in questi casi è impagabile».
Come operatore umanitario, invece, quali sono gli ostacoli che ci si trova più spesso ad affrontare? «Io lavoro per il programma alimentare delle Nazioni Unite. La funzione del Pam è materialmente quella di portare aiuti alimentari a milioni e milioni di persone ogni anno. Ogni aiuto è disciplinato e calcolato precisamente, ma le difficoltà sono innumerevoli. Innanzitutto la sfida delle risorse: mancano più o meno 40 milioni di dollari per sfamare tutti quanti e ormai le persone affamate hanno raggiunto quota un miliardo. Inoltre ci sono enormi problemi logistici e di sicurezza. Recentemente hanno ucciso cinque nostri colleghi a Islamabad e, inevitabilmente, continuano a spararci addosso tutti i giorni. Anche per questo il dialogo, la collaborazione, la simbiosi con l’esercito è fondamentale».
Cosa l’ha colpita di più dell’esperienza in Kosovo? «Sono rimasta lì due anni e mi occupavo del dialogo con la popolazione femminile. In quel paese le donne kosovare hanno avuto un fondamentale ruolo di pacifi-
Il livello di rischio è alto per entrambi. «Certo. È un lavoro diverso ma sia che tu abbia addosso un’uniforme oppure no, sei in prima linea. Per questo motivo i due mondi si sfiorano e devono dialogare».
progressivamente, anche perché sono indispensabili, soprattutto nelle missioni di pace».
66 > LA VOCE DI NEA > Barbara Serra > Raccontare il Medio Oriente
UNO SGUARDO SU DUE MONDI Poteva essere un azzardo. Ma lavorare ad Al Jazeera, per Barbara Serra, si è rivelata un’esperienza preziosa. Che le ha donato una visione d’eccezione su due realtà, Islam e Occidente, più vicine di quanto si creda. E più complesse di quanto le rispettive immagini possano far pensare di Daniela Panosetti n canale arabo, ma pensato per un pubblico internazionale. Così è nata tre anni fa l’idea di Al Jazeera English, con sedi in Inghilterra, Usa, Malaysia, Quatar. E tra i reporter che l’hanno vista nascere, nel 2006, per poi accompagnarla in questi primi anni, c’era anche Barbara Serra. Italiana di nascita, danese di crescita, inglese d’adozione. Il nostro pubblico ha imparato a conoscerla da poco, grazie a una vetrina settimanale a TvTalk, su Rai Educational. Ma per gli inglesi questa giovane italiana, determinazione nordica e fascino mediterraneo, è stata la prima anchorwoman non di madrelingua a presentare un tg nazionale. L’Italia e la Sardegna, terra d’origine del padre, hanno però lasciato più di una traccia nella sua vita. In Sardegna ha avuto la prima esperienza in tv e in Sardegna ha scelto anche di sposarsi, un anno fa. «Da bambina era lì che trascorrevo le vacanze estive – racconta –. Lì riconosco le mie radici, come la testardaggine tipica del carattere sardo, che credo di aver ereditato». Che però, per una giornalista, può essere una qualità. «Del resto, se non lo fossi – ammette – non avrei neppure intrapreso l’avventura ad Al Jazeera».
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Lei si è unita alla squadra di Al Jazeera English fin dall’inizio. Qual è il bilancio di questa esperienza, oggi?
«Quando nel 2006 ho firmato il contratto, è stato un po’ un salto nel buio, perché il canale non era ancora in onda, non esisteva. Ma oggi sono molto felice di com’è andata e credo che sia stata la decisione giusta. Non solo perché il canale sta andando molto bene e rappresenta una voce necessaria nel panorama del newsmaking internazionale, ma anche a livello personale, per le esperienze che mi ha permesso di vivere. Quello che ho imparato qui in tre anni non credo avrei potuto impararlo altrove. Poi, certo, è chiaro che ogni emittente è diversa: la Bbc è diversa dalla Rai, così come Sky lo è dalla Cnn. Ma Al Jazeera English rimane una realtà unica, perché è il primo canale internazionale rivolto a un pubblico mondiale, ma che non viene dall’Occidente». In questi anni lei ha senza dubbio sviluppato una sorta di “doppio sguardo” sulle due realtà. Cosa l’Occidente dovrebbe imparare dal mondo arabo e viceversa? «Sicuramente la più grande lezione dell’Occidente è la democrazia, che manca nella maggior parte dei Paesi arabi. Dal mondo arabo dovremmo, invece, imparare un maggiore relativismo, la consapevolezza che la propria realtà non è l’unica valida e degna di diritti. Questo non significa che l’Occidente non percepisca le enormi
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Barbara Serra, 34 anni, giornalista e conduttrice televisiva. Dal 2006 fa parte della redazione londinese di Al Jazeera English
«Cosa significa aver vinto
in Afghanistan? Quando si stabilisce chi ha vinto o perso? Quando si potranno ritirare le truppe? Tutto questo è ancora da definire» differenze culturali sociali al suo interno, anzi. Il problema è semmai credere che il nostro modello debba essere quello dominante: è in questo che l’esempio del mondo arabo può essere illuminante, nel ricordarci non tanto che ci sono
culture diverse, ma che hanno pari dignità». In Afghanistan è stato rieletto Karzai. Cosa significa questa conferma per il mondo islamico e, di rimando, per quello europeo? «Di sicuro l’elezione è stata eseguita in modo scorretto, dando dunque un cattivo esempio di democrazia. O meglio, possiamo dire che in questo caso la democrazia non ha funzionato. Poi bisognerebbe anche capire la posizione dei vari paesi e delle truppe che sono in Afghanistan. Cosa significa aver vinto in Afghanistan?
68 > LA VOCE DI NEA > Barbara Serra > Raccontare il Medio Oriente
Quando si stabilisce chi ha vinto o perso? Quando si potranno ritirare le truppe? Tutto questo è ancora da definire». In Iran invece la situazione sembra inasprirsi. Come si evolverà la situazione dell'informazione? «È impossibile dirlo. O meglio io non ho gli elementi per farlo. So solo che è molto difficile fare giornalismo in Iran e che chi lavora in quel contesto incontra ogni volta grandi ostacoli. È anche vero però, che l’Iran è un Paese popolato da giovani, che riescono a comunicare con altri mezzi, attraverso internet ad esempio. Non tutte le strade, quindi, sono chiuse. Ma almeno per ora le difficoltà di informazione rimangono pesanti». Lo scorso maggio ha seguito il viaggio di Papa Benedetto in Medio Oriente, un evento importante, anche dal punto di vista simbolico. Qual è stato il momento più significativo di questa
esperienza? «Dal punto di vista personale sicuramente l’incontro privato col Santo Padre, avvenuto alla fine del viaggio. Come giornalista, però, il momento più toccante è stata la celebrazione della messa a Betlemme. Per noi europei, sempre più lontani dalla religione, la presenza del Papa è qualcosa di scontato. Vedere invece tutto quel fervore, quella folla accorsa a vederlo sotto il sole cocente del Medio Oriente, sapere che si trattava di cristiani, sì, ma palestinesi, dunque davvero una minoranza della minoranza, una parte minore di un popolo già di per sé oppresso, ecco quello è stato senza dubbio un giorno che non dimenticherò».
70 > TESTIMONIANZE > Gabriella Giammanco > Con la Sicilia nel cuore
TUTTE LE BELLEZZE DELLA MIA TERRA Dall’impegno per gli animali vittime della strada, alle iniziative culturali in grado di promuovere un’idea diversa della sua terra, la Sicilia. Gabriella Giammanco, giovanissima deputata, si fa strada nel mondo della politica italiana. Sempre con la Sicilia nel cuore DI SOFIA
ROSSI
alermitana doc, giovanissima (classe 77), con una spiccata vocazione per la politica. Questa è Gabriella Giammanco. Ex giornalista del Tg4, di origini bagheresi, ha lasciato la carriera di giornalista per candidarsi con il Pdl al parlamento italiano. La ragione che l’ha spinta a entrare in politica? «La coscienza civile e l’amore per il mio Paese», risponde. Il suo obiettivo è, dice, la volontà di «contribuire a diffondere una rinnovata cultura della res publica». Tra le sue iniziative, in questi mesi si è battuta incessantemente per trasformare in legge la sua proposta per modificare il Codice della strada a favore degli animali. «La maggior parte dei cani vittime della strada – spiega Gabriella Giammanco – perde la vita molto tempo dopo l’incidente, rimanendo abbandonata per ore sul ciglio della strada, tra dolori lancinanti e l’indifferenza dei passanti».
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Gabriella Giammanco. Laureata in Scienze della comunicazione e giornalista professionista, è deputata per il Pdl
La Commissione trasporti della Camera dei deputati ha approvato la sua proposta di legge per modificare il Codice della strada. Che cosa l’ha spinta ad attuare una legge a loro favore? «Il profondo rispetto che provo nei confronti di tutti gli esseri viventi, in particolare di quelli più indifesi e bisognosi di maggiori tutele. La legislatura italiana si approssima ad adottare un principio che rappresenta una tappa fondamentale del cammino di civiltà. Cani, gatti, animali da lavoro o protetti, vittime di incidenti stradali, avranno finalmente diritto a un intervento di soccorso, che dovrà cercare di garantire chi provoca loro un danno. In caso contrario, si pagherà una sanzione
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amministrativa che può arrivare fino a 1.500 euro. Soccorrere un animale vittima della strada è un dovere morale, oltre che civico, di tutti noi».
I siciliani amano mettersi in gioco, forse anche per riscattarsi da un percorso storico a tratti difficile e doloroso. In questo senso la carriera di Tornatore è emblematica
Dal mondo del giornalismo, alla politica. Oggi rifarebbe la stessa scelta? «Sicuramente. Ho sempre seguito con grande passione la politica per la mia professione di giornalista, ma mi limitavo a esserne una spettatrice. Oggi ho l’opportunità di confrontarmi in prima persona con i problemi della gente e di essere coinvolta nelle vicende politiche che stanno facendo la storia del nostro Paese. Sento forte il peso della responsabilità che si accompagna al mio ruolo e il senso del dovere che anima il mio lavoro quotidiano. Adoperarsi per il bene comune è quanto di più bello possa offrire la politica, ma mi piacerebbe che ognuno di noi capisse che anche con semplici gesti si può contribuire a migliorare la società in cui viviamo». Lei è la prima parlamentare donna di origini bagheresi della storia, che ha ideato e promosso, presso il ministero dei Beni culturali, l’evento “Aspettando Baaria”, legato al nuovo film di Giuseppe Tornatore. Quanto questo film ha contribuito ad allontanare quegli stereotipi negativi che troppo spesso vengono attribuiti alla Sicilia? «È ora che s’inizi a parlare della Sicilia per tutte
svolto in location d’eccezione mi è sembrato una buona idea». La recessione non sta certo risparmiando la Sicilia, anzi. Quali sono al momento i punti di forza della sua Regione su cui occorre investire per tornare a un segno positivo? «La ricchezza della Sicilia sta nella varietà dei
«Adoperarsi per il bene comune è quanto di più bello possa offrire la politica, ma mi piacerebbe che ognuno di noi capisse che anche con semplici gesti si può contribuire a migliorare la società in cui viviamo» le cose belle che quest’isola, crocevia di culture diverse, può offrire. Non sopporto che se ne parli solo quando si discute di mafia o di disoccupazione. I siciliani amano mettersi in gioco, forse anche per riscattarsi da un percorso storico a tratti difficile e doloroso. In questo senso la carriera di Tornatore è emblematica. Ho ideato “Aspettando Baaria” per contribuire a diffondere della Sicilia e di Bagheria un’immagine positiva. Un evento culturale che ha coinvolto per due giorni ospiti illustri e si è
suoi paesaggi. Una natura che lascia senza fiato, in cui s’inseriscono siti archeologici di grande valore e percorsi enogastronomici di altissima qualità. Bisognerebbe puntare maggiormente sul turismo, investire nel settore della piccola e media impresa e nella produzione di energie alternative, come quella solare e quella eolica. Ritengo, inoltre, che investire nelle produzioni cinematografiche e televisive sfruttando le peculiarità della nostra isola sia un ottimo sistema per creare nuovi posti di lavoro».
72 > FORMAZIONE > Giorgia Meloni > Largo ai giovani
PROTAGONISTI DEL PROPRIO FUTURO Facilitare l’accesso alla professione attraverso un ponte tra mercato del lavoro e mondo della formazione. Permettere alle università di dare le migliori opportunità ai migliori talenti. Perché i giovani sono stanchi di sentirsi dire che il futuro è loro. Come sottolinea il ministro della gioventù Giorgia Meloni: «Bisogna consegnarglielo davvero» di Giusi Brega iovani e lavoro: un binomio caratterizzato da una condizione generale di fragilità e di incertezza nel futuro. La collocazione all’interno del mondo del lavoro, alla fine del percorso di studi, è il punto forse più critico dell’intero arco professionale. Da quel momento in poi prenderà forma un cammino che si potrà aprire a fortunate opportunità, oppure sfociare in un susseguirsi di ruoli subalterni da cui è difficile venir fuori. Situazione aggravata anche dal fatto che, fin troppo spesso, vi è una contraddizione fortissima tra il valore dell’istruzione e la sua remunerazione. Questo fa sì che i giovani si sentano “sfruttati” dal mercato del lavoro. L’unica risposta da dare in questo momento è quella «di un coinvolgimento vero e concreto dei giovani nel tessuto sociale italiano. Dalla società civile, al lavoro, anche alla politica». A ribadirlo il ministro della Gioventù Giorgia Meloni, che non usa mezzi termini: «Non bastano affermazioni paternalistiche e vuote sul fatto che il futuro è dei giovani: bisogna dimostrare un reale interesse a che le nuove generazioni possano davvero prendere le redini al momento opportuno».
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In che modo è possibile ridare ai giovani ottimismo e fiducia nei confronti del loro futuro lavorativo? «Occorre fornire loro gli strumenti adeguati. Ad esempio un sistema formativo basato sulla meritocrazia, che consenta a tutti di partire dallo stesso piano e premi con il conseguimento del traguardo chi è in grado di arrivarvi per merito. E lo si può fare solo abbattendo le barriere che i ragazzi si trovano di fronte. È necessario ad esempio colmare il metaforico fossato che separa Università e
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Giorgia Meloni, 32 anni, ministro della Giovent첫
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mondo del lavoro e che vede i neolaureati italiani magari culturalmente più preparati dei colleghi europei, ma privi persino degli strumenti basilari per affrontare serenamente l’accesso alla professione. Infine, credo si debba mettere finalmente da parte il sistema “gerontocratico” italiano che, nel lavoro, nella società, in politica prima di tutto, preferisce premiare chi ha qualche anno in più sulla carta d’identità piuttosto che chi è davvero bravo e capace, in nome di un “privilegio dell’esperienza” che non può essere considerato sufficiente». Lei ha parlato della necessità di creare un ponte tra mercato del lavoro e mondo della formazione. A tale scopo è stato istituito il Global Village Campus. Come è articolato il progetto e quali finalità si pone? «La formula del Global Village Campus è decisamene pionieristica e innovativa per quanto riguarda l’esperienza italiana. Cinque settimane in un contesto d’eccezione, il Polo Universitario di Pomezia, per far incontrare giovani laureati e mercato del lavoro. Seicento ragazzi, 120 laureati per ogni settimana, veri e propri talenti selezionati dalle università di tutto il territorio nazionale hanno partecipato tra settembre e ottobre ad un’esperienza unica di formazione, orientamento ed incontro con le più importanti aziende italiane ed estere. Global Village Campus è soprattutto un progetto pilota: nasce con la precisa vocazione di indagare, e se possibile mettere a punto, un modello scientifico e di riferimento per l’aggregazione, la socializzazione dei giovani nonché l’individuazione di strumenti di selezione di talenti da proporre ad aziende capaci di un immediato assorbimento. L’obiettivo è creare un format ripetibile in tutte le università italiane desiderose di offrire le migliori opportunità ai propri migliori talenti. E, tra i primi risultati concreti, il Global Village Campus ha dimostrato che colmare efficacemente il divario tra Università e mondo del lavoro si può. Lo ha dimostrato l’interesse in prima battuta della Sapienza, il più grande ateneo d’Europa, e poi quello delle aziende coinvolte: quasi tutte, di fronte al livello di
preparazione dei ragazzi, hanno deciso di incrementare anche del cento per cento l’offerta di posizioni professionali all’interno delle rispettive squadre. Tutte quante, inoltre, ci hanno esortato a scendere in campo al più presto con una seconda edizione». Qual è il suo giudizio in merito al piano di azione per l’occupabilità dei giovani italiani presentato dai ministri Gelmini e Sacconi lo scorso settembre? «Il piano “Italia 2020” è un programma molto significativo: parla di promuovere il merito, facilitare la transizione dalla scuola al lavoro, rilanciare la formazione tecnico professionale, patrimonio essenziale perso il quale si genererebbero meccanismi disastrosi. Credo che occorra far di tutto perché da manifesto qual è si trasformi in azione concreta. Occorre passare urgentemente dalle buone intenzioni alle iniziative pratiche perché il dramma epocale di una generazione non può aspettare oltre. I giovani italiani si trovano alle prese con un mercato del lavoro che troppo spesso ne sfrutta l’opera, senza restituirgli in cambio né uno stipendio decente sul breve periodo, né un minimo di certezze nel lungo.
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«Non bastano affermazioni paternalistiche e vuote sul fatto che il futuro è dei giovani: bisogna dimostrare un reale interesse a che le nuove generazioni possano davvero prendere le redini al momento opportuno»
Per non parlare di tutti gli ostacoli posti di fronte a chi vuole intraprendere una carriera nelle libere professioni. Personalmente, non credo che la soluzione al dramma del precariato o della prima occupazione passi semplicemente per la buona volontà dei giovani italiani, ma attraverso serie ed urgenti riforme strutturali. Non solo del mercato del lavoro, ma dell'intero sistema Italia». Un forte segnale da parte del governo è stato dato dal ricambio generazionale in politica. Cosa può fare la politica per i giovani e cosa i giovani per la politica? «Quello che la politica deve continuare a fare è aprire sempre più spazi ai giovani. Non si tratta solo della necessità di coinvolgimento ideologico, ma pratico e fattivo. Forze nuove in politica significano idee nuove, una visione del mondo più attuale, una maggiore capacità di comprendere e affrontare i cambiamenti e le sfide del quotidiano. Questo non significa, ovviamente, eccedere in zelo pensionando senza mezzi termini chiunque abbia superato una certa “data di scadenza”: spazi e opportunità devono seguire il merito, le capacità e l’esperienza, a prescindere dall’età anagrafica così come dal sesso».
C’è chi individua la causa dei fenomeni di degenerazione del mondo giovanile nell’ormai generalizzato senso di incertezza e precarietà che caratterizza questa generazione. Cosa ne pensa? «Non condivido affatto la visione di un mondo giovanile “degenerato”. Gli stessi che oggi scuotono la testa alla vista delle nuove generazioni non sono stati, a loro tempo, né migliori né peggiori, e hanno ricevuto lo stesso trattamento e la stessa considerazione da chi li ha preceduti. Fatte le debite premesse, sicuramente le descrizioni delle cronache e dei media ci ripropongono quasi quotidianamente una visione della gioventù tutt’altro che positiva: fannulloni, privi di ideali e obiettivi, divisi sul solo dilemma di essere “velina” o “tronista”, eterni bambini che si crogiolano nell’idea di poter vivere ad oltranza mantenuti dai genitori, se non, ancor peggio, addirittura bulli, vandali e facinorosi. Ma questo non è uno spaccato veritiero e obiettivo della situazione reale. Certo, episodi di “degenerazione” ci sono, ma sono una goccia in un mare ben diverso. La “degenerazione” finisce sui giornali perché fa molto più rumore, proprio come nel proverbio fa l’albero che cade a dispetto della foresta che cresce. Nella nostra nazione, però, c’è una foresta in crescita fatta di giovani impegnati nello studio, nel lavoro, nel volontariato e nello sport. Ragazze e ragazzi che credono in qualcosa di importante, vogliono realizzarlo e sono pronti anche a sostenere grandi sacrifici per tagliare il proprio traguardo personale. Ecco chi sono davvero i giovani in Italia».
80 > STILI D’IMPRESA > Rosalba Casiraghi > Oltre la forma, dentro la sostanza
IL VALORE DELL’INDIPENDENZA Innovare i modelli di governance senza necessariamente imitare l’estero, ma puntando ai principi di trasparenza e moralizzazione. Rosalba Casiraghi riflette sul ruolo dei consiglieri d’impresa in Italia. Augurandosi che lo “stile femminile” faccia un giorno da esempio, e non solo da eccezione DI DANIELA PANOSETTI
understatement, per Rosalba Casiraghi, non è solo un invidiabile tratto del carattere, una questione di indole e di stile. È una qualità molto sostanziale, che a ben guardare rappresenta un valore, forse addirittura il più importante, posto al cuore della sua professione: quella di consigliere e amministratore indipendente. Allo stesso tempo in prima linea, ma dietro le quinte, nel vigilare e all’occorrenza indirizzare le sorti delle aziende che, proprio in nome di questi valori, hanno deciso di affidarsi alla sua figura. Aziende pubbliche e private, attive nei campi più diversi: dalla finanza al commercio, dall’associazionismo alle realtà cooperative. Una trasversalità di orizzonti che Casiraghi ha sperimentato in prima persona, attraverso trent’anni di carriera e un gran numero di incarichi per alcuni dei più importanti gruppi italiani. È anche grazie a questa lunga esperienza che nel 2004 ha voluto partecipare alla fondazione di Nedcommunity,
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di cui è anche presidente: la prima associazione italiana che mette al centro figura e ruolo dei componenti non esecutivi di organi societari di amministrazione e controllo, riunendo sotto il suo ombrello sindaci, consiglieri di sorveglianza e amministratori non esecutivi, ma anche esperti e studiosi interessati al mondo, continuamente in evoluzione, della corporate governance. Il tutto, all’insegna di un valore impegnativo ma fondamentale: l’indipendenza. Perché per parlare davvero di “buon governo”, spiega Casiraghi, occorre «coraggio, obiettività e molta competenza». Ma
Prima donna a sedere nel consiglio di sorveglianza di Banca Intesa, Rosalba Casiraghi è stata sindaco revisore di diversi gruppi primari come Pirelli e Telecom e consigliere per un gran numero di aziende italiane. Attualmente presiede il collegio sindacale di Banca Cassa di Risparmio di Firenze, nonché diverse società di consulenza e analisi finanziaria, tra cui Rating Srl, di cui è anche fondatrice
82 > STILI D’IMPRESA > Rosalba Casiraghi > Oltre la forma, dentro la sostanza
anche la capacità di scommettere su una cultura imprenditoriale fondata su quei principi di etica e trasparenza, senza i quali nessuna gestione è davvero efficiente. Nedcommunity nasce sotto l’insegna dell’indipendenza: una parola, e un valore, piuttosto impegnativi nel mondo d’oggi. Cosa significa per lei “indipendenza”? «Essere indipendenti significa potersi esprimere con obiettività di giudizio. Solo così si è in grado di contribuire a creare un valore che duri nel tempo, che si sieda in un consiglio d’amministrazione o in qualsiasi altra attività. Ma per essere obiettivi, prima di tutto bisogna essere competenti, conoscere, essere informati, cosa che richiede un grande impegno. Poi segue la qualità più importante: il coraggio». In cosa si traduce concretamente la funzione di terzietà nel ruolo di sindaco e consigliere? «Per la norma la qualifica di indipendente è uno stato di fatto: l’assenza di legami di ogni tipo con chi conduce la società o con i suoi proprietari. Ma evidentemente non basta, bisogna andare oltre la forma e guardare alla sostanza».
controllo per evitare quella che si chiama “l’estrazione dei benefici privati”». Le vicende congiunturali dell’ultimo anno hanno portato a un generale desiderio di revisione dei valori posti alla base del sistema economico-finanziario. Ognuno sembra avere qualcosa da dire a riguardo, ma un rimedio “forte” non si è ancora imposto. Qual è la sua personale idea, o anche solo il suo auspicio, in questo senso?
«Se ci si attiene alle norme, la qualifica di indipendente è uno stato di fatto. Ma evidentemente non basta, bisogna andare oltre la forma e guardare alla sostanza»
Lei ha lavorato per grandi imprese, cooperative, associazioni, banche. In quale contesto l’attività di governance è più complessa e perché? «È più complessa quando ci sono soci o gruppi di soci che riescono a esercitare un controllo di fatto con poco capitale di proprietà, spesso tramite le cosiddette scatole cinesi e i patti di sindacato. È evidente che in questo caso ci può essere un maggior conflitto fra gli interessi di questi soci e quelli collettivi e va quindi aumentato il
«Quando si è di fronte a situazioni di crisi, la tendenza è di cercare i colpevoli là dove è più facile colpire, ma non è detto che si centri il bersaglio. Talvolta in una logica populista si trovano rimedi apparentemente severi, ma che spesso servono a poco, se non sono addirittura dannosi. Non serve aggiungere norme e regole, vanno invece fatte rispettare quelle che già ci sono, che è più difficile». Si fa un gran parlare di trasparenza e responsabilità d’impresa. In base alla sua conoscenza di-
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retta del contesto italiano, crede che la nostra cultura d’impresa nazionale abbia assimilato questi principi? «Certamente nell’ultimo decennio c’è stata una fortissima evoluzione culturale nel mondo delle imprese e in particolare nella governance delle società. Per fare un esempio, quando ho iniziato la mia attività, i consigli d’amministrazione erano molto spesso delle rappresentazioni, dei minuetti che servivano a ufficializzare decisioni già prese in altre stanze. Oggi invece, grazie anche alla presenza degli amministratori indipendenti, sono diventati luoghi dove si prendono decisioni consapevoli e sempre più nell’interesse collettivo». Esiste uno stile femminile d’impresa? O le va-
riabili determinanti sono altre? «In parte esiste uno stile femminile. Non so quanto potrà ancora durare, ma oggi c’è. Alle donne è necessario un maggior impegno, e questo aiuta a non essere superficiali, c’è poi un approccio etico non ancora inquinato. Credo che più donne nei consigli d’amministrazione possano essere un ulteriore elemento di moralizzazione». Da dove viene, oggi, l’innovazione nel campo della gestione d’impresa? Da quali modelli, figure e settori arrivano gli stimoli più interessanti per la governance?
Competenza e autonomia Prima e unica associazione nel suo genere in Italia, Nedcommunity è una comunità composta da amministratori non esecutivi e indipendenti, sindaci, consiglieri di sorveglianza. Presieduta da Rosalba Casiraghi, è stata fondata nel marzo 2004 a Milano da dieci professionisti di spicco del settore, con l’obiettivo di promuovere l’evoluzione dei modelli di corporate governance in Italia verso forme sempre più innovative
«Oggi l’innovazione è fondamentale. Spesso però la si confonde con il copiare quello che hanno già fatto altri all’estero, magari oltre oceano, che poi non è detto che sia buono e che vada bene per noi. Anzi. Bisogna quindi fare largo alla creatività nostrana, anche nel campo della corporate governance. Sembra un tema che può dare poco spazio alla fantasia, ma vanno rotti vecchi schemi e logiche che imbrigliano una corretta gestione e un efficace controllo. Bisogna sperimentare strade nuove che portino un reale buon governo nelle nostre società e le facciano crescere».
84 > ECONOMIA > Anna Maria Bernini > A sostegno delle Pmi
UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE PER L’ECONOMIA Una forte tutela per le Pmi. Dagli ammortizzatori sociali ai protocolli d’intesa con le banche per garantire il credito. Quanto al Sud, il federalismo fiscale gli ridarà la capacità di credere in se stesso. Anna Maria Bernini, deputata Pdl, propone la nascita di un’assemblea costituente sociale su base territoriale per far ripartire il motore economia DI AMELIA PIANA reare un’assemblea costituente sociale su base territoriale per far ripartire il motore economico del Paese. A lanciare l’idea è l’onorevole Anna Maria Bernini del Pdl, che vede in questo “strumento” «un luogo di incontro e di proposte per l’economia aperto a tutti i soggetti del mondo del lavoro, dell’impresa e dei territori. La politica e le istituzioni hanno bisogno di relazionarsi maggiormente con la società, ascoltandola e condividendone spunti e soluzioni pratiche».
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Anche le banche devono confrontarsi. «Gli istituti di credito possono e debbono fare molto. Come il governo ha fatto molto per loro, specialmente nel momento più difficile di una crisi finanziaria prima ed economica poi. Il ministro Tremonti ha talvolta dato la sensazione di bacchettare le banche, colpevoli di chiudersi a riccio, congelando le linee di credito. Non a caso, nelle Prefetture è stato approntato un presidio di Osservatorio permanente per monitorare lo stato dell’arte dei finanziamenti e dei crediti alle Pmi». Gli interventi del governo riusciranno a tutelare le Pmi? «A causa della crisi, Tremonti ha dovuto tenere in ordine i conti pubblici con una politica di ragionato
Anna Maria Bernini, deputata del Popolo della Libertà
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«Non solo la crisi economica, ma anche le politiche su immigrazione, sicurezza internazionale, alimentazione, energia ricadono sotto la giurisdizione Ue. L’Europa deve condividere i problemi e fornire soluzioni strutturali complessive» rigore che ha in parte attuato e in parte programmato a breve termine: detassazioni, sgravi sul costo del lavoro, Iva e fiscalità di vantaggio. Non dimentichiamo che la ricetta Obama ha previsto un ritorno massiccio dello Stato in economia per evitare il fallimento dei pilastri del sistema capitalistico americano. In Italia non è accaduto. Siamo riusciti a mantenere la barra dritta, forti di un welfare perfezionabile, ma di cui siamo orgogliosi. Da una parte, si è intervenuti con gli ammortizzatori sociali per arginare la disoccupazione; dall’altra si sono tutelati il risparmio e la centralità dei correntisti, supportando le banche e stabilendo con le stesse protocolli di intesa a garanzia del credito al consumo e all’impresa. La stessa moratoria sui mutui è una vigorosa boccata di ossigeno per le Pmi. Nei prossimi provvedimenti economici, il governo ha in animo di orientarsi in modo ancora più incisivo nella direzione delle Pmi. E i segnali di ripresa e uscita dalla crisi apriranno finalmente la fase-due della nostra economia: modernizzazione e sviluppo». La congiuntura può essere risolta a Bruxelles? «Non solo la crisi economica. Anche le politiche relative a immigrazione, sicurezza internazionale, alimentazione, energia e ad altri ambiti che ricadono sotto la giurisdizione Ue. L’Europa deve condividere i problemi e fornire soluzioni strutturali complessive. Gli stati nazionali sono una condizione necessaria, ma non più sufficiente, per
governare crisi ed emergenze che hanno assunto sempre di più forme globali. Le scorse elezioni europee hanno sancito l’avanzata del centrodestra. Il Ppe è il primo partito e il Pdl è il primo partito nel Ppe. Noi italiani possiamo fare molto per rendere l’Europa unita, forte ed efficiente». Guardiamo in casa: c’è una soluzione al divario Nord-Sud? «Una ricetta salvifica no, ma un metodo di lavoro ben preciso, sì. Non voglio in questa sede fare una disamina della questione meridionale che non ha portato molta fortuna politica ai suoi sostenitori, spesso traducendosi proprio in quei mali da cui il Sud deve affrancarsi: assistenzialismo, finanziamenti a pioggia, clientelismo, criminalità organizzata. Il federalismo fiscale che porterà la democrazia economica nei territori e la responsabilità degli enti locali su scelte politiche fiscali e amministrative, ridarà al Sud la capacità di credere in se stesso e nella propria capacità di riscatto. Già ora il Mezzogiorno conosce piccole e medie imprese che lavorano bene, giovani manager e operatori scesi coraggiosamente in campo. Pianificare meglio la formazione europea, modulare i salari in relazione ai contesti sociali, territoriali e produttivi aziendali, mi sembrano importanti ipotesi di lavoro da approfondire. La modernizzazione economica e le riforme di cui si farà portatore questo governo si specchiano nel Sud, anche come porta verso il Mediterraneo. La risposta non è certo in velleitari partiti del Sud, specchio di malesseri e disagi esistenti, ma troppo spesso strumentalizzati da chi vuole lasciare il meridione prigioniero del proprio passato».
100 > LAVORO > Renata Polverini > La contrattazione decentrata
PRIMO OBIETTIVO IL SECONDO LIVELLO Le parti sociali, le organizzazioni sindacali e le associazioni datoriali conoscono da vicino le caratteristiche dell’impresa interessata e le potenzialità del territorio. Per questo, secondo Renata Polverini, segretario nazionale Ugl, la contrattazione decentrata è un valore aggiunto DI SOFIA
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n’intesa storica, che dopo 15 anni cambia le regole della contrattazione fissate con il precedente protocollo del 1993, frutto di una congiuntura economica ormai superata e che rendeva necessario un aggiornamento». Così, all’indomani della firma dell’accordo interconfederale dello scorso aprile, Renata Polverini commentava la riforma degli assetti contrattuali italiani. I punti salienti dell’intesa, come noto, riguardano la durata triennale dei contratti, l’eliminazione dell’inflazione programmata per il calcolo degli aumenti salariali e l’incentivazione della contrattazione di secondo livello. Soprattutto quest’ultimo aspetto assume particolare importanza per il segretario generale dell’Ugl, perché «permette di fare qualche passo in avanti per una maggiore partecipazione dei lavoratori alla vita d’azienda, obiettivo particolarmente caro all’Ugl».
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Quali sono i maggiori vantaggi della contrattazione decentrata? «La contrattazione decentrata è demandata alle organizzazioni sindacali e alle associazioni datoriali che trattano avendo ben presente quelle che sono le caratteristiche dell’impresa interessata e le potenzialità del territorio. Ad esempio, le
imprese aquilane localizzate nell’area del sisma stanno fronteggiando una situazione più complessa e difficile di quelle nelle altre province. Hanno necessità diverse rispetto alle aziende di Pescara o di Chieti. Attraverso una corretta contrattazione di secondo livello, datore di lavoro e organizzazione sindacale possono tracciare un percorso per recuperare produttività, inserendo gli elementi per assicurare la partecipazione dei dipendenti agli utili e alla gestione aziendale». Tempo fa si era tornati a parlare di gabbie sala-
Renata Polverini, dal 2006 segretario generale Ugl. Nata nel 1962, è il più giovane dirigente a capo di un sindacato italiano e l’unica donna a ricoprire questo ruolo. “Figlia d’arte”, si è avvicinata giovanissima all’impegno sindacale, prima seguendo la madre, delegata sindacale della Cisnal, (Confederazione italiana sindacati nazionali dei lavoratori) e poi intraprendendo lei stessa il percorso che l’ha portata alla rappresentanza nazionale.
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riali. Si tratta di uno strumento che potrebbe avere collocazione in questo nuovo scenario della contrattazione salariale? «L’Ugl è sempre stata contraria a questo strumento obsoleto che ha già dimostrato di non funzionare e che non aiuta a migliorare i salari. Obiettivo che invece ci siamo impegnati a raggiungere firmando l’accordo che riforma le regole della contrattazione e premia la produttività. I salari differenziati rischierebbero, invece, di inficiare l’efficacia di questo accordo. E certamente sarebbero forieri di discriminazioni tra i lavoratori, minando il clima di coesione sociale che con grande sforzo stiamo cercando di mantenere». Ingabbiare gli stipendi non potrebbe essere, comunque, uno strumento per aiutare le famiglie in crisi del Nord? «Il potere d’acquisto si sostiene in maniera diversa. Per questo abbiamo sollecitato parlamento e governo a varare una riforma fiscale che premi la famiglia con l’introduzione del quoziente familiare. Una proposta indicata nel programma di governo e non in contrasto con il federalismo fiscale. Proprio come accade in altri Paesi europei, come la Francia. Si avrebbe così un sistema fiscale più equo, in termini di distribuzione della ricchezza, con vantaggi evidenti sia per le famiglie del Nord che per quelle del Sud. Peraltro, uno studio del nostro Istituto di ricerche, Iper Ugl, sfata il mito che comunque al Nord il costo della vita sia sempre più alto rispetto al Centro o al Mezzogiorno».
questa sede che si possono studiare accorgimenti per rilanciare l’occupazione e la produttività. Con l’auspicio che si arrivi presto ad una norma o a un avviso comune di valorizzazione della partecipazione dei lavoratori in azienda».
In che modo, quindi, è possibile rilanciare occupazione e produttività di tante aziende in difficoltà? «L’accordo sulla riforma dei contratti sottoscritto con Confindustria prevede che, in caso di crisi eccezionale, la contrattazione di secondo livello possa derogare al contratto nazionale. Quindi, piuttosto che imporre dall’alto, si dovrebbe rimandare alla contrattazione fra le parti. È in
Ad oggi, qual è l’adesione delle aziende italiane alla contrattazione decentrata? «Sino ad oggi la contrattazione di secondo livello è concentrata solo in alcune aree del Paese, soprattutto al Nord, e in aziende medio grandi. Per questo abbiamo sollecitato il governo a sostenere e rafforzare la riforma dei contratti, anche con incentivi fiscali, per aumentarne la diffusione».
«Con l’obiettivo di migliorare i salari, l’Ugl ha firmato l’accordo che riforma le regole della contrattazione e premia la produttività»
112 > GRANDI EVENTI > Emilia Guarnieri > Meeting di Rimini
UN INCONTRO CHE EMOZIONA Trent’anni fa nasceva il Meeting di Rimini. Un appuntamento oggi di rilievo internazionale. Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting, racconta un’esperienza che emoziona. Perché «a qualunque latitudine l’uomo è mosso da un desiderio di verità e di bene che è universale e inestirpabile» di Alma Santilli È sempre difficile dire se è più emozionante ascoltare la testimonianza di un ragazzo che passa la giornata a un cancello, con l’unico scopo di dire a chi arriva che di lì non si può passare e che poi ti racconta che lui, facendo quel lavoro per una settimana, impara a vivere, oppure ascoltare un personaggio come Tony Blair che testimonia pubblicamente la sua fede e la sua tensione a metterla in relazione con tutto. O ancora tre scienziati di livello mondiale che raccontano l’impegno che mettono nelle loro ricerche». La ricchezza delle testimonianze ed esperienze che ogni anno trova spazio e pubblico al Meeting di Rimini sta tutta qui, nella difficoltà di scegliere la più emozionante, la più significativa. Scelta difficile anche per chi, come Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting, questo evento lo segue e lo dirige da anni. Per passione, oltre che per dovere. «A me fare il Meeting piace – ammette –, mi fa essere contenta, mi fa crescere umanamente». Ed è proprio la crescita, individuale e comune, spirituale e materiale, a rappresentare la missione, sempre rinnovata, dell’evento. Che ha appena compiuto trent’anni, ma non li sente affatto. Quella del 2009 è stata la trentesima edizione. Cosa significa, oggi, questo evento per il territorio? «Se guardiamo alla realtà, a ciò che accade, significa molto: è una risorsa culturale, un’opportunità educativa e professionale per i giovani, crea un importante indotto turistico e commerciale, amplifica l’immagine della città sui media, offre una possibilità di incontro diretto con personalità
Sopra, Emilia Guarnieri, presidente della Fondazione Meeting. Nell’altra pagina un momento dell’ultimo Meeting di Rimini
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L’amore per l’uomo e per la conoscenza Emilia Guarnieri è originaria di Varazze, ma ha scelto Rimini come sua patria d’adozione, non solo perché la madre è riminese, ma anche perché nella città romagnola accadono gli incontri più importanti della sua vita: il matrimonio con Antonio Smurro, da cui nasceranno le figlie Sara e Maria, e l’appassionata adesione al movimento di Comunione e Liberazione. Dopo la laurea alla facoltà di Lettere all’Università degli Studi di Bologna, intraprende la carriera di insegnante. Nel 1980 è socio fondatore del Meeting per l’amicizia fra i popoli. Fin dall’inizio responsabile culturale della manifestazione, dal 1993 è presidente dell’associazione cui fa capo la settimana riminese. Sono gli anni in cui si intensifica l’attività anche pubblica della Guarnieri che, oltre a partecipare in qualità di relatore a convegni, seminari e corsi di formazione sulle tematiche educative, inizia a girare il mondo come ambasciatore del Meeting, incontrando alcune tra le personalità più importanti della cultura europea: da Giovanni Paolo II a Eugene Ionescu, da Luigi Giussani a Marta Graham, dal rabbino David Rosen al senatore Giulio Andreotti. Molte le battaglie culturali che la vedono protagonista: la laicità dello Stato, la sussidiarietà, la libertà di educazione, il rispetto per la vita, l’impegno per la difesa del benessere e dello sviluppo in Italia e nei Paesi che vivono in condizioni politiche e sociali dolorose e contraddittorie. Nel 2003 le viene conferita, da parte del Presidente della Repubblica, l’onorificenza di Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica Italiana.
nazionali e internazionali del mondo politico, culturale e economico. Se guardiamo invece all’interesse concreto che tante realtà istituzionali, non tutte per fortuna, manifestano nei confronti del Meeting, dobbiamo dire nostro malgrado che a volte sembra non valere molto di più di una importante sagra di quartiere». In questi mesi si è parlato molto del rapporto tra fede e società, tra religione e politica. Qual è la sua visione a riguardo? «Emblematicamente l’intervento di Tony Blair ha documentato, come lui stesso ha detto, che “la fede è la salvezza della condizione dell’uomo, qualcosa di fondamentale nell’indirizzarci verso i bisogni degli altri”. È proprio di questo che la politica si dovrebbe occupare». Negli anni l’evento è diventato sempre più internazionale. Cosa significa, oggi, guardare all’uomo in un’ottica globale? «Significa riconoscere che a qualunque latitudine l’uomo è mosso da un desiderio di verità e di bene che è universale e inestirpabile. Questa è la radice anche della internazionalità del Meeting, che ha permesso anche quest’anno l’incontro con ebrei, mussulmani, ortodossi. In tanti hanno dichiarato che al Meeting si sentono come a casa». Quest’anno il tema era “la conoscenza come avvenimento”. Qual è il significato di questa espressione? «Il senso sta prima di tutto nella ricchezza di incontri ed esperienze che il Meeting permette. Incontri imprevisti, di chi, come ha detto Draghi dopo il suo intervento, “ha
114 > GRANDI EVENTI > Emilia Guarnieri > Meeting di Rimini
potuto vedere di persona”. E quando si vede di persona, si vede con tutta la propria energia e intensità, ci si lascia colpire, perché non si ha paura della novità, perché si è grati quando si incontra qualcosa che corrisponde ai propri desideri. Chi è
Come definirebbe, al di là delle singole tematiche di anno in anno affrontate, la missione del Meeting? «Lo ripeto: a me fare il Meeting piace. E credo che
«Pensare e agire in un’ottica globale significa riconoscere che a qualunque latitudine l’uomo è mosso da un desiderio di verità e di bene che è universale e inestirpabile. Questa è la radice anche della vocazione internazionale del Meeting» venuto al Meeting sicuramente ha portato a casa la conoscenza nuova di opere, persone, tentativi. Si pensi a tutti coloro che hanno incontrato attraverso la mostra i nostri amici di Napoli e tutta la vita che sta rinascendo nel quartiere in cui abitano. E mai come quest’anno è stato evidente che la realtà colpisce, che la voglia di incontro e confronto è sempre più reale, che l’esperienza umana sta diventando per tanti un criterio di giudizio più interessante dell’ideologia e del pregiudizio».
questo accada perchè mi dà occasione di percepire tutta la ragionevolezza e la convenienza umana insite nell’esperienza cristiana cui appartengo. E mi stupisco sempre più di quanto tutto ciò generi un’apertura, un desiderio di incontrare e valorizzare, un amore e un interesse grandioso per gli altri. Così si è tradotta per me in questi trent’anni la missione che Giovanni Paolo II ci aveva lasciato nell’82: “Costruite la civiltà della verità e dell’amore”».
120 > SHIPPING > Alessandra Burke > In equilibrio sul mercato. E sulle onde
COMPETENZA E INTUITO LE MIE GUIDE Attraverso le sue capacità e conoscenze del mercato, il mediatore marittimo è l’artefice dell’incontro della domanda e dell’offerta di compravendita di navi. «Una figura strategica, di origine antiche ma che deve saper stare al passo con i tempi», come sottolinea Alessandra Burke, broker marittimo della Burke & Novi di Alessandro Cana el passato il brokeraggio marittimo era un mestiere come un altro. Oggi è diventato una professione altamente specializzata. Le innovazioni tecnologiche da una parte, in primo luogo Internet, e la globalizzazione dall’altra hanno modificato sostanzialmente l’attività del broker. Ne deriva oggi una maggiore competitività che, a sua volta, impone una maggiore velocità ed attenzione. «Nel passato, il prezzo costituiva quasi esclusivamente l’oggetto della transazione – sottolinea Alessandra Burke, consigliere d’amministrazione di Burke & Novi, società genovese di intermediazione nel settore nautico – . Oggi invece il broker deve affrontare in un unico contesto problemi tecnici, valutativi, bancari, finanziari, societari, ambientali. A seconda di come e dove la nave verrà utilizzata». In una parola, il broker deve svolgere attività di consulente a favore della realizzazione del progetto auspicato tra le parti contraenti. «Una volta lo scambio riguardava esclusivamente l’oggetto del contratto, che fosse la nave o la sua utilizzazione, oggi lo sforzo principale è rendere compatibili i soggetti che sono protagonisti di un contratto e che l’inizio della nuova generazione. Tuttavia ancora spesso si muovono in realtà socioeconomiche com- oggi, è presente la generazione precedente. Due dipletamente diverse l’una dall’altra. E quindi non versi punti di vista, ma stessi obiettivi. Le strategie necessariamente confluenti. In tal senso bisogna per raggiungerli sono tante. In primis, la curiosità anche armonizzare le normative locali con quelle di sapere cosa avviene su tutti gli altri mercati. Foninternazionali». damentale essere sempre à la page con l’aggiornamento tecnologico, l’aggiornamento delle La sua azienda rappresenta una realtà ben solida. cognizioni tecnico-finanziarie, il voler comprendere Quali sono le strategie messe in atto per affronquale siano le effettive volontà dei soggetti coinvolti tare le sfide di un secolo di storia? nella trattativa. L’azienda alla fine si adopera come «Il mio ingresso in azienda venti anni fa ha segnato consulente fra le parti e si pone nella realtà impren-
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121 Nella foto, Alessandra Burke, consigliere d’amministrazione di Burke & Novi, società genovese di intermediazione nel settore nautico
ditoriale di ciascuno dei contraenti. Ritengo sia fondamentale per il successo di un’azienda come la Burke & Novi la stima reciproca nell’ambito della squadra, lo spirito di collaborazione e quel sentirsi uniti e indissolubili nell’attività comune. Questo è veramente essenziale». Lei è entrata in azienda nel 1989. Una donna in un ambiente prettamente maschile. «Quando ho iniziato io, di donne in questo settore ce n’erano pochissime. In più, sono entrata in
azienda senza sapere nulla di shipping. Ma credo di avere comunque impresso al mio lavoro la mia personalità, di broker e di donna, senza trascurare mai nessuno dei miei interlocutori. Sono convinta che solo con l’onestà intellettuale e la conoscenza dell’animo umano, si possono stabilire rapporti profondi e quindi spingere le persone in un verso positivo. Non va dimenticato comunque che la cosa più difficoltosa da ottenere in questa professione, alla fine, è la persuasione del proprio interlocutore».
122 > SHIPPING > Alessandra Burke > In equilibrio sul mercato. E sulle onde
ALTA FORMAZIONE PER IL MARE Nasce a Genova, ed è la prima in Italia, la scuola di formazione per i nuovi broker marittimi, frutto dell’intesa tra Assagenti e l’Accademia italiana della marina mercantile. L’accordo è stato presentato in Provincia dal presidente Alessandro Repetto con i presidenti dell’Accademia Eugenio Massolo e di Assagenti Giovanni Cerruti e della Camera di Commercio Paolo Odone. Sviluppare la nuova scuola, con sede all’Accademia della marina mercantile e formare professionisti per le esigenze delle aziende dello shipping, «è un’idea vincente – dice Giovanni Cerruti – perché a Genova sono nate tutte le più importanti agenzie di brokeraggio che competono a livello mondiale. Finora, però, l’unica possibilità di preparare nuovi giovani era di insegnargli tutto in azienda, o di affrontare costosissimi corsi a Londra o New York, mentre ora la nuova scuola formerà a Genova con grandi vantaggi per le aziende e i giovani nuove generazioni di broker marittimi genovesi, italiani, ma anche di altri Paesi, perché non esiste professione più globale di questa». Molto soddisfatto Alessandro Repetto «perché con queste iniziative Genova diventa sempre di più il porto della conoscenza. Con un territorio caratterizzato da altissime competenze tecnologiche e marittime: dalla sicurezza sul mare, alla ricerca, ai prototipi, alla certificazione della navigazione, ma anche con l’Accademia della marina mercantile, che sta per aprire una succursale anche a Torre del Greco, e con Immsea, la sua divisione internazionale. E ora questa iniziativa rafforzerà ancora le capacità di questo territorio di competere e stare sullo scenario mondiale preparando i nuovi broker».
La scelta di entrare in azienda è stata “guidata” in qualche modo o è stata il naturale proseguimento dell’inclinazione di famiglia? «I miei fratelli non si occupano della società di famiglia. A un certo punto serviva una persona che aiutasse nella gestione l’azienda e mi hanno chiesto di entrare e di provare. Naturalmente sono sempre stata cosciente della grande opportunità costituita dal fatto di essere “figlia d’arte”, però voglio sottolineare che fin dal primo giorno ho dovuto affron-
«Quando ho iniziato, di donne in
questo settore ce n’erano pochissime. In più, sono entrata in azienda senza sapere nulla di shipping. Ma credo di avere impresso al mio lavoro la mia personalità, di broker e di donna» tare con le mie forze la realtà più spietata, il mercato. Sono riuscita a rimanere per quasi venti anni in questa attività, subordinata al raggiungimento di traguardi importanti; altrimenti non esiste vincolo di parentela che possa giustificare la continuazione di una tale professione. Deve piacere». Come commenta l’apertura a Genova della prima
scuola nazionale per broker marittimo? «Noi broker abbiamo accolto la notizia in maniera estremamente positiva. Perché prepara innanzitutto all’operatività in un campo che è molto specifico e che quindi canalizza studi generici in un’attività pratica. La scuola concorre al rilascio di titoli professionali che sono riconosciuti universalmente, dando finalmente uno sbocco non più limitato localmente, e questo significa centuplicare le capacità e le opportunità di impiego. Sempre che naturalmente l’insegnamento e i suoi programmi siano rivolti all’internazionalità di tale professione. Tra le caratteristiche fondamentali per svolgere al meglio questa professione, segnalo la facilità di comunicazione con le persone e poi, ovviamente, la capacità di parlare le lingue, l’inglese è indispensabile». Quale aiuto può venire dalle istituzioni per rafforzare la “risorsa mare” come opportunità di sviluppo del territorio? «Alle istituzioni chiediamo maggiore consapevolezza che il mare, l’attività portuale e tutto l’indotto che ne deriva, ovvero la cultura specifica, la tradizione, la storia del nostro territorio rappresentano una grandissima risorsa che non va sprecata. Questo è possibile solamente attraverso la dotazione di infrastrutture e soprattutto di attività che aumentino anno dopo anno l’attenzione verso la Liguria da parte di operatori di tutto il mondo».
128 > PROFESSIONI > Marina Calderone > Verso la riforma
LA VOCE DELL’ORDINE È il momento di mettere mano alla riforma delle professioni. Guardando al nuovo ruolo dei professionisti nel mercato. È questa l’esortazione di Marina Calderone, presidente dei consulenti del lavoro. Che da qualche mese è anche alla guida del Comitato degli Ordini professionali. Tra sinergie e cambiamento DI SOFIA ROSSI
egli ultimi anni l’economia è cambiata. Sono cambiati i mercati e gli scenari competitivi. E le aziende si sono dovute adeguare. Di riflesso, anche il ruolo dei consulenti del lavoro si è trasformato. Non più solo gestione delle paghe e dei contributi, ma un punto di riferimento completo per le Pmi e anche per le grandi aziende e la Pubblica amministrazione. Non è un caso che anche il ministro Brunetta, insieme a Sacconi fosse presente al settimo congresso nazionale della categoria tenutosi a novembre. Un appuntamento “memorabile”, come ricorda Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale della categoria: «Ho ancora negli occhi una serie di immagini che difficilmente potrò dimenticare, ma su tutti l’apertura e la chiusura di questo congresso li porterò sempre con me. Inaugurare un Congresso, di per sé importante perché coincideva con il trentennale dell’Ordine, con al fianco i Ministri Sacconi e Brunetta è stato per me un momento emozionante ma anche carico di responsabilità. I rappresentanti del governo non sono venuti da noi per una passerella di favore, ma per ascoltare e testimoniarci il loro pensiero». Primo punto all’ordine del giorno, la riforma della professione, che «deve guardare con la
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massima attenzione alle mutate condizioni del mercato», ma che deve essere inserita nel più ampio contesto della riforma di tutte le professioni cosiddette intellettuali. «Gli ordini professionali – spiega Calderone, che è anche alla guida del Cup, il Comitato unitario delle professioni – concordano che sia arrivato il momento di discutere con le istituzioni
Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro e del Cup, il Comitato unitario delle professioni, all’interno del quale si è impegnata a coltivare un progetto unitario e strategico con tutte le categorie rappresentate
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di una riforma che metta in evidenza il ruolo economico e sociale che le professioni hanno assunto nel Paese e che adegui le norme al nuovo contesto storico». In che direzione vanno le esigenze dei professionisti? «Il mercato in cui i professionisti esercitano è decisamente mutato rispetto al passato, anche per la crisi economica, finanziaria e occupazionale che ha coinvolto il nostro Paese. Ma è ormai riconosciuto che i professionisti hanno assunto un diverso ruolo, non solo specialisti che offrono i propri servizi al mercato ma anche protagonisti della crescita e dello sviluppo del tessuto economico nazionale. Oggi le professioni collaborano con le istituzioni, le parti sociali, le imprese e i lavoratori mettendo al centro del proprio operato non solo il mero guadagno ma anche il benessere dell’intera collettività. La riforma delle professioni intellettuali deve tener conto sia del nuovo contesto economico e normativo, che del ruolo che gli ordini ricoprono nella società». In merito alle riforme, esistono tematiche su cui i diversi ordini abbiano visioni discordanti e sulle quali si dovrà trovare un’intesa? «La divisione per aree di interesse è di sicuro una delle tematiche da affrontare per poter arrivare a una visione condivisa del mondo ordinistico. Credo che il Cup, in quanto Comitato unitario delle professioni, debba discutere, riflettere e proporre una riforma che tenga conto delle esigenze del mondo libero professionale che rappresenta». Lei si è detta certa che tutti i componenti e i leader delle rispettive categorie sapranno dare il proprio contributo al percorso di riforma, confrontandosi in seno alle aree di competenza e individuando gli interventi e le proposte migliori possibili. Da cosa nasce questa sua convinzione? «Questa certezza è nata dalla mia esperienza all’interno del Cup e dal confronto che ho con gli altri presidenti degli Ordini professionali. Ho accettato
«Nel Cup ogni presidente dovrà portare avanti anche le esigenze dei propri iscritti. Ma dal dibattito e dal confronto usciranno proposte condivise» di affrontare questa avventura della presidenza sapendo di poter contare sulla fattiva collaborazione delle professioni aderenti, ben cosciente che ogni presidente dovrà portare avanti anche le esigenze dei propri iscritti. Ma dal dibattito e dal confronto usciranno proposte condivise». Quali gli obiettivi che attraverso questo organismo da lei presieduto pensate di raggiungere? «L’obiettivo è certo quello di portare una voce unitaria nel confronto con le istituzioni e tutti i soggetti che operano nel mercato. Garantendo sempre la nostra disponibilità a collaborare per l’elaborazione e la messa in opera di politiche ed attività a favore del Paese». Come intendete improntare il rapporto con le istituzioni, parlamento e ministro della Giustizia in testa, per aver voce nella predisposizione degli interventi normativi riformatori? «Abbiamo già iniziato a confrontarci sia con gli onorevoli che si occupano di professioni all’interno del parlamento che con il ministero della Giustizia. Siamo ben lieti di aprire un tavolo di confronto per discutere seriamente di riforma».
134 > PATRIMONIO D’ITALIA > Ilaria Borletti Buitoni > Il Fai cambia vertice
INSIEME PER SALVARE L’AMBIENTE Il Fondo per l’ambiente italiano cambia presidente. Dal primo gennaio a guidarlo sarà, infatti, Ilaria Borletti Buitoni erede di una storica famiglia imprenditoriale lombarda. Un grande senso manageriale abbinato a una forte impronta di solidarietà sociale e senso del dovere civico. L’obiettivo? «Portare il Fai verso traguardi superiori e più alti». Con la stessa passione e l’impegno che hanno caratterizzato l’attività della fondazione fino a oggi DI
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assaggio di testimone al vertice del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano. La “storica” presidente e fondatrice Giulia Maria Mozzoni Crespi ha voluto che a partire da gennaio a prendere le redini della fondazione sia Ilaria Borletti Buitoni, già nel consiglio di amministrazione della fondazione dal 2008 e presidente regionale per l’Umbria dal 2007. Nata a Milano, laureata in Scienze politiche, Ilaria Borletti Buitoni è esponente di una storica famiglia dell’imprenditoria lombarda, donna contraddistinta da un concreto impegno civile, avendo alternato la sua attività tra il mondo dell’impresa e quello del volontariato, soprattutto in Africa dove con l’Amref si dedica al sostegno e alla promozione di attività culturali. «Sono pronta a impegnarmi per portare avanti l’impegno e la dedizione della fondatrice – assicura – e per metterci anche qualcosa di mio. L’attitudine manageriale». Il 2010 per il Fai inizierà, dunque, con un nuovo presidente. Ma l’obiettivo resta il medesimo. «Sensibilizzare alla difesa dell’ambiente la gente comune ma, soprattutto, le istituzioni».
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Sopra, la nuova presidente del Fondo per l’Ambiente italiano Ilaria Borletti Buitoni. Nella pagina a fianco, Castel Grumello, bene protetto dal Fai, in Valtellina, in provincia di Sondrio.
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«Le persone hanno voglia proteggere l’ambiente perché finalmente si è fatta strada l’idea che l’ambiente non è un concetto “astratto”, ma un patrimonio culturale del Paese, quindi di tutti»
Quando e come nasce il suo interesse per l’ambiente e la sua attività nel Fai? «Conosco il Fai da trent’anni. Praticamente da quando è stato fondato, credo di essere stata tra i primi sostenitori. Tuttavia, il mio interesse “attivo” è nato da due anni a questa parte, da quando cioè mi è stato proposto di occuparmi della delegazione regionale dell’Umbria; proprio sul campo mi sono accorta di che opera straordinaria si potesse fare anche in una regione che, sebbene non nota per essere stata vittima di una cementificazione selvaggia, era però stata oggetto di forti attacchi all’ambiente. Così ho iniziato ad
appassionarmi alla “macchina Fai”, al suo funzionamento. E da lì, il mio impegno diretto, perfezionato dall’idea della presidente Giulia Maria Mozzoni Crespi di propormi per la sua successione, un argomento cui stava pensando da molto tempo».
Quale eredità ha raccolto dalla “storica” presidente Giulia Maria Mozzoni Crespi? «Un patrimonio di enorme impegno civile, di passione e di dedizione. È sicuramente l’eredità più importante e quella che dobbiamo impegnarci a conservare. Penso che poche persone avrebbero potuto dedicarsi a questa causa con la stessa dedizione e, soprattutto, con la stessa costanza. Un impegno che dura da ben trentacinque anni. Quindi i principi che hanno ispirato la nascita del Fai e l’azione della presidente fino ad oggi, sono un patrimonio intoccabile della nostra fondazione. A questo patrimonio, cercherò di applicare alcune competenze più strettamente “manageriali” che nascono dalla mia esperienza nella associazioni
136 > PATRIMONIO D’ITALIA > Ilaria Borletti Buitoni > Il Fai cambia vertice
non profit». È ancora difficile sensibilizzare la gente comune e le istituzioni sul concetto di tutela ambientale? «La gente comune è molto più avanti delle istituzioni. Mi accorgo che le persone hanno voglia di proteggere l’ambiente perché finalmente si è fatta strada l’idea che l’ambiente non è un concetto “astratto”, ma un patrimonio culturale del Paese, quindi di tutti. Credo stia lentamente diffondendosi questa sensibilità e credo anche che le istituzioni siano in ritardo». Depenalizzazione dei reati ambientali, le cartolarizzazioni, gli incentivi fiscali per l’edilizia, i condoni. In che misura hanno danneggiato il nostro Paese dal punto di vista ambientale? «Enormemente. Perché se è lo Stato ad allentare per primo la tensione e l’attenzione su quella che è la vera ricchezza del nostro Paese, il nostro pa-
trimonio culturale, allora è un pessimo segno. In particolare, mi riferisco a queste nuove norme che permettono l’ampliamento delle case, perché a mio avviso non si è mai davvero misurato quello che sarà il vero impatto che queste norme avranno sull’ambiente. E non sto parlando solamente dei beni protetti e delle città d’arte. Il mio è un discorso più ampio e riguarda il tessuto che verrà completamente stravolto, non solo dal punto di vista estetico ma anche sostanziale. Penso che l’atteggiamento dello Stato negli ultimi anni non sia né educativo né propositivo, e men che meno in linea con quello che avviene negli altri Paesi europei, dove ormai la tutela dell’ambiente è un argomento politico di primaria importanza». Da un’indagine da voi realizzata in collaborazione con lo Iulm di Milano risulta che i giovani hanno grande attenzione per l’ambiente e poca fiducia nelle istituzioni. Quali misure auspicate
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DEDIZIONE STORICA Erede di una dinastia di imprenditori tessili, Giulia Maria Mozzoni Crespi è tra gli ultimi esponenti della grande borghesia lombarda. Negli anni in cui al vertice del Corriere della Sera era la prima dama dell’editoria nazionale, Indro Montanelli la chiamò “Zarina”, per il suo carattere forte e risoluto da vera imperatrice della carta stampata. Il 28 aprile del 1975, con Renato Bazzoni, Alberto Predieri e Franco Russoli la Zarina firma l’atto costitutivo e lo statuto del Fai. Una realtà nata con lo scopo di promuovere in concreto una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia e tutelare un patrimonio che è parte fondamentale delle nostre radici e della nostra identità. Per ben 35 anni Giulia Maria Mozzoni Crespi è in prima linea e con immutata energia continua a battersi per lo sviluppo sostenibile, la difesa dell’ambiente, del paesaggio, la salvaguardia dei beni culturali. Carattere e determinazione sono nel suo dna. Grazie anche a queste armi il Fai tutela oltre 25 beni artistico-architettonici e ha contribuito a far conoscere a milioni di persone migliaia di monumenti straordinari, molti dei quali solitamente chiusi. Giulia Maria Mozzoni Crespi non abbandonerà tutto questo. «Continuerò a occuparmi di ambiente» assicura.
dal governo? «Sicuramente auspichiamo un forte rafforzamento delle Soprintendenze che oggi sono quelle deputate alla tutela dei Beni culturali e che hanno un problema cronico di mancanza di mezzi. E non è semplice cooperare nell’ambito della tutela se non si hanno i mezzi, le risorse e gli strumenti per poterlo fare. Quindi il rafforzamento delle soprintendenze sarebbe da parte dello Stato un segnale forte nella direzione della tutela. Poi, naturalmente, chiediamo che non si facciano troppi condoni, soprattutto quando il condono è un vero e proprio “perdono” a chi ha fatto opere abusive: questo atteggiamento crea dei precedenti che possono avere conseguenze devastanti». Durante il vertice mondiale sull’alimentazione alla Fao, il Papa ha affermato che la tutela ambientale è strettamente legata allo sviluppo. Lo sviluppo economico è compatibile con la tutela
del nostro patrimonio? «Il nostro Paese dispone di una risorsa strepitosa che è data dal turismo. Un turismo che deve imparare ad essere sempre più qualificato e attento. Anche perché ci sarà un motivo se tutto il mondo viene in Italia perché lo considera il Paese più bello del mondo, perché dispone del 60 per cento del patrimonio artistico mondiale. Dunque non bisogna essere particolarmente lungimiranti per comprendere che in un momento in cui la produzione di servizi, la produzione di materie e quella di manufatti sono in crisi, noi abbiamo la fortuna di avere a disposizione una straordinaria opportunità di sviluppare interi mondi nella direzione di un turismo consapevole. Il che si tradurrebbe immediatamente in termini economici, di occupazione. A vantaggio di tutta l’economia del sistema Paese. Ma nessuno verrà più in Italia se noi persisteremo con questo atteggiamento completamente folle di distruggere il nostro patrimonio». Da dove può venire un maggiore impulso alla tutela del patrimonio? «È bene che a un certo punto gli italiani si rendano conto che la vera spinta per la tutela del patrimonio deve venire dalla gente. La gente deve chiedere alle proprie istituzioni di muoversi affinché i propri tesori, la propria identità, il proprio ambiente venga tutelato. Se questo avviene, l’ambiente inizia a diventare un argomento di interesse politico e le istituzioni seguono».
146 > MUSICA > Loriana Lana > La colonna sonora di un successo
UN GRANDE LEADER DEGNO DI NOTA “Un vero leader, un eroe, un grande statista”. Con questa motivazione si vuole che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sia candidato al premio Nobel. A sostenerlo con la sua voce e le sue canzoni, Loriana Piana, la paroliera del premier: «Un presidente sempre presente che ci accompagnerà» di Alessandro Cana
ilvio Berlusconi candidato al premio Nobel per la Pace. A chiederlo a gran voce, simpatizzanti e fedeli sostenitori del presidente del Consiglio. A fare da colonna sonora alla candidatura un brano scritto da Loriana Lana, che aveva già reso omaggio alla figura di Berlusconi con la canzone ufficiale della vittoriosa campagna elettorale del Popolo della libertà alle scorse elezioni.
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Come ebbe l’idea di scrivere un brano dedicato al premier? «Il brano è nato in piena campagna elettorale. Ero sicura del successo del Pdl e così è nata Silvio Forever. C’è una cosa che mi ha dato grande gioia: sapere che questa canzone, in poche settimane, ha fatto il giro del mondo, che è una delle più cliccate in Internet e che è diventata lo slogan di milioni di italiani. Il presidente l’ha ascoltata e si è divertito. È stato un incontro piacevole, soprattutto quando abbiamo parlato di pittura e in particolare dell’arte di Marc Chagall». La canzone recita “Silvio fiducia ci dà”. Quanto è importante trasmettere fiducia e ottimismo in una situazione economica come quella appena affrontata? «Riporre fiducia in un leader vuol dire superare anche i momenti meno belli che attraversano il Paese. Il fattore psicologico è fondamentale».
Come commenta la vittoria del Nobel per la Pace da parte del presidente Obama? «Sono contenta che gli sia stato assegnato il prestigioso riconoscimento, ma sono convinta che il presidente Berlusconi abbia fatto e stia facendo molto di più. Il suo impegno umanitario è esemplare. Ha trasformato l’odio del popolo libico in amicizia, ha risolto la crisi tra Russia e Georgia, per non parlare dell’Abruzzo. Non a caso le parole dell’inno dicono “c’è un presidente sempre presente che ci accompagnerà”».
foto Carlo Bellincampi
Perché il premier è così amato dai cittadini? «È una persona leale, buona, generosa e soprattutto concreta perché la gente vuole fatti e non parole. Il presidente lo ha dimostrato sia come imprenditore sia come politico».
Loriana Lana, musicista, paroliera, scrittrice e cantante italiana
172 > ARCHITETTURA > Zaha e le altre > L’archistar è donna
ARTEFICI DI SPAZI CREATRICI DI FORME È considerata l’antesignana delle archistar, Zaha Hadid. Talenti femminili che spiccano nella galassia dell’arte e dell’architettura contemporanee. Come Kazuyo Sejima, primo direttore donna della Biennale, la “Cavaliera” Odile Decq, Maya Lin e l’italiana Ambra Medda di Leonardo Testi Hanno saputo ritagliarsi il loro spazio in un mondo dove la competizione è forte. Un mondo dove il vertice, forse più che in altri campi, è tutto in mano agli uomini. Un mondo, quello dell’architettura, dove alcuni stereotipi faticano a scomparire. Come quello che vuole le donne più “consone” all’arredamento d’interni e non adatte alle progettazioni di edifici, alle costruzioni in grande, alla fatica del lavoro in cantiere. Ma le eccezioni esistono, e loro lo hanno dimostrato. Prima tra tutti, Zaha Hadid, architetto di origini irachene, ma londinese di adozione. Prima e unica donna ad aver ricevuto il premio Pritzker per l’architettura, il massimo riconoscimento mondiale nel settore, nel 2004. I suoi progetti hanno cambiato il modo di percepire lo spazio urbano: non più una serie
CAPOFILA Zaha Hadid, architetto di origini irachene ma londinese di adozione, premio Pritzker per l’architettura nel 2004, è chiamata in tutto il mondo per ridisegnare spazi urbani, edifici e infrastrutture. È arrivata anche in Italia: a Cagliari, Milano, Roma, Salerno e Napoli i suoi progetti. Qui da noi la realizzazione dei suoi lavori sembra andare sempre troppo per le lunghe. Perché in Italia, dice, «ogni cosa è molto più lenta e bisogna avere molta pazienza».
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MEMORIALE Maya Lin, classe 1959, è artista, architetto e designer. A soli 21 anni, nel 1981, quando è ancora una studentessa universitaria, Lin vince un concorso pubblico per la progettazione del monumento dedicato alle vittime del Vietnam. È nel 2008 la vincitrice della seconda edizione del New York Prize Senior Fellowship, riconoscimento assegnato nella grande mela dal Van Alen Institute.
ordinata di edifici razionali, ma un organismo leggero e fluttuante. «C’è bisogno di spazi dove le cose possano contrarsi ed espandersi», dichiara. E così i suoi progetti sembrano perennemente in movimento, come il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma, che nelle scorse settimane ha avviato un fitto programma di eventi, performance e installazioni in vista dell’apertura ufficiale, che ci sarà nella primavera del 2010. Undici anni di cantiere, 150 milioni di euro di budget. Del progetto Zaha Hadid dice che è stato pensato come un “tutt’uno” con il contesto: «Il sito diventa parte integrante della città. La città fluisce verso l’interno, mentre il progetto fluisce verso l’esterno». “Fluidità” è forse la parola più importante in tutti i suoi progetti, che nascono da complessi sistemi di progettazione digitale, ma sono, sempre, intimamente legati all’origine del disegno a mano libera: «Il fluido dinamismo del disegno a mano libera è una fedele scelta per la mia architettura, che è allo stesso tempo guidata dai nuovi sviluppi del design digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere». Un altro primato femminile è quello detenuto da Kazuyo Sejima, balzata agli onori delle cronache italiane per essere stata nominata direttore del settore Architettura della Biennale di Venezia. Per la prima volta, sarà una donna a guidare la Mostra internazionale d’architettura che si terrà ai Giardini e all’Arsenale, dal 29 agosto al 21 novembre 2010. Una Biennale che si preannuncia all’insegna della “molteplicità”: «La Biennale deve essere tutto e ogni cosa – ha
dichiarato Kazuyo Sejima in relazione alle sue idee sulla manifestazione – fondamentalmente inclusiva, in dialogo costante sia con chi la fa, sia con chi la guarda». Dopo una serie di edizioni affidate a critici o storici, la Fondazione ha voluto assegnare questo settore nuovamente a un architetto, per riportare in primo piano il grande tema della qualità dell’architettura, attraverso una delle più qualificate e affermate rappresentanti dei nuovi maestri dell’architettura del Duemila, già premiata nel 2004 col Leone d’Oro. «Un significativo punto di partenza potrebbe essere il concetto di confine e l’adattamento dello spazio. Questo potrebbe includere sia l’eliminazione dei confini, sia la loro evidenziazione. Qualsiasi componente della molteplicità di adiacenze proprie dell’architettura, può diventare un argomento. Si potrebbe sostenere che l’architettura contemporanea è un ripensamento e forse un alleggerimento dei confini stessi». La Mostra internazionale di architettura può individuare, in questo senso, un forum nuovo e attivo per le idee contemporanee, e insieme un’occasione di lettura attenta degli edifici stessi. «Allo stesso modo, c’è un altro filo conduttore di interesse: l’uomo dentro l’architettura, le relazioni tra persone in contesti pubblici e privati, sia in qualità di creatori, sia come utenti. Questo è un problema di esistenza individuale in interazione con la comunità. Più semplicemente “le persone si incontrano dentro l’architettura”». Oltre al “Maxxi” di Zaha Hadid, Roma assiste al completamento di un altro progetto sorprendente. Anche questo ad opera di un’archistar al femminile che ha saputo lasciare
174 > ARCHITETTURA > Zaha e le altre > L’archistar è donna
TECNOLOGIA Odile Decq (1955) ha studiato architettura a Parigi dove si è laureata nel 1978. L’anno successivo fonda lo studio ODBC dove lavora fino al 1998 con Benoît Cornette. Nel 1988 i due architetti vincono il concorso per la sede del Centro amministrativo e sociale della Banque Populaire a Rennes, progetto che ottiene numerosi premi e riconoscimenti internazionali, tra cui il Leone d’Oro alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1996. Nel 1998 vince il concorso per la costruzione del terzo porto della città di Rotterdam. Dopo la morte di Cornette la Decq guida lo studio ODBC, vincendo il concorso per il Museo d’arte contemporanea della città di Roma, il Macro. A partire dal 2000, con gli arredi della hall della sala conferenze della sede dell’Unesco di Parigi, lo studio sviluppa un’importante attività nel campo del design. Odile Decq si dedica all’insegnamento presso l’École Spèciale d’Architecture di Parigi.
il segno: Odile Decq, fondatrice insieme a Benoît Cornette dello studio ODBC, nominata Cavaliere delle arti e delle lettere e della Legion d’Onore. Tra i lavori che hanno decretato la fama internazionale dello studio, e di Odile, la sede della Banque Populaire de l’Ouest a Rennes, la biblioteca universitaria di Nantes, il centro di ricerche della Saint Gobain a Aubervilliers e il progetto per il terzo ponte della città di Rotterdam. Attività che esprimono il tema dello spazio, traducendo in forme l’idea del processo e del percorso; il movimento rappresenta in questo caso l’elemento primario di organizzazione spaziale. Rimasta sola a guidare lo studio, l’architetto francese vince il concorso per l’ampliamento del Museo d’Arte Contemporanea di Roma, il Macro, la cui
inaugurazione è prevista per il 20 aprile 2010. Un progetto avveniristico, concepito come un tecnologico sistema di passerelle aeree in
«Il fluido dinamismo del disegno a mano libera è una fedele scelta per la mia architettura, che è allo stesso tempo guidata dai nuovi sviluppi del design digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere»
INNOVAZIONE Kazuyo Sejima è nata in Giappone, nella prefettura di Ibaraki, nel 1956. Nel 1981 si è laureata in architettura presso la Japan Woman’s University e ha iniziato a lavorare nello studio di Toyo Ito. Nel 1987 ha aperto un proprio studio a Tokyo. Nel 1995 fonda insieme a Ryue Nishizawa lo studio Sanaa. Attualmente è docente presso il Politecnico di Losanna. Ha partecipato a concorsi in Giappone e all'estero ottenendo numerosi premi: ultimo, in ordine di tempo, è quello per il Learnig Center del politecnico federale di Losanna.
alluminio sul quale passeggeranno non solo i visitatori, ma anche i normali cittadini attirati dentro il museo-piazza aperto sulla città. “Territori sensuali”, così li ha definiti la stessa Odile Decq, dove emerge l’impiego di basalto cambogiano e ferro cinese, con inserti di legno rosso e smisurate superficie di vetro. Ma ogni grande professionista ha vissuto un esordio. Quello di Maya Lin è senza dubbio
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ricordato come uno dei più folgoranti. Suo è il Vietnam Veterans Memorial a Washington, classificatosi nel 2007 al decimo posto nella “List of America’s Favorite Architectures” dell’American Institute of Architects. Si tratta di una struttura fortemente simbolica: due muri di marmo nero lucido, che convergono a forma di V, con un bordo verso il Lincoln Memorial e l’altro verso il Washington Monument, dove sono iscritti i nomi di 58.202 soldati uccisi o dispersi nella guerra del Vietnam sia in ordine cronologico che alfabetico. Quando Maya Lin vinse il concorso per il progetto, aveva soltanto 21 anni ed era una studentessa all’Università di Yale. Del monumento che l’ha resa celebre nel mondo dice: «L’ho progettato in modo tale che un bambino, tra cento anni, possa essere in grado di andare in quel luogo e avere una lucida visione del prezzo della guerra». L’attività dell’artista americana di origini cinesi è oggi rivolta anche alla scultura, a dimostrazione di un eclettismo femminile che brilla anche e soprattutto nel campo dell’arte. Una donna che ha saputo imporsi nello scenario internazionale come protagonista indiscussa di una nuova definizione di design è l’italiana Ambra Medda, dal 2004 direttore di Design Miami/Basel in Florida. Veicolando un design elevato a disciplina artistica, che non ha niente da invidiare a scultura e architettura. E che, anzi, con queste arti si fonde, dando vita a interessanti percorsi originali, che attirano l’attenzione di un pubblico sempre più giovane e creativo. Grazie al suo lavoro, «si è iniziato ad accettare un concetto di fiera – spiega Ambra Medda – che mescola design, architettura e arte in generale. Abbiamo sviluppato al meglio
DESIGN Ambra Medda, dal 2004 direttore e co-fondatrice del Design Miami/Basel. Laureata in lingue orientali, ha lavorato per Christie’s prima d’incominciare una carriera di Sovrintendente alle Belle arti, Architettura e Design a Londra, New York e Milano e come curatrice free-lance
anche il lato culturale: in entrambe le fiere, Miami e Basilea, abbiamo ideato i “design talk”, veri momenti di approfondimento in cui i più importanti rappresentanti del mondo dell’arte discutono i topic del momento». Come evidenzia la creativa italiana, oggi i grandi designer vengono fuori dalle grandi scuole, che attualmente sono in Svizzera, Inghilterra, America e Olanda. L’Italia vanta sempre un forte appeal, tira fuori idee e stili originali, però pochi italiani riescono a intraprendere una carriera internazionale. «Per questo spero vivamente di poter sviluppare nuovi rapporti con le scuole italiane, perché mi piacerebbe vedere più designer italiani in giro per il mondo»
176 > ARCHITETTURA > Teresa Sapey > Progettare le emozioni
IL GARAGE DIVENTA UN LUOGO DELL’ANIMA Architettura emozionale. Così Teresa Sapey descrive il suo lavoro. Non solo «grattacieli e città», ma anche spazi che fino ad oggi sono rimasti al margine dell’attenzione di progettisti e fruitori. Perché ogni luogo, anche un parcheggio, può trasmettere un’emozione di Sarah Sagripanti
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MADAME LE PARKING Teresa Sapey, architetto e designer italiano. Vive e lavora a Madrid. Nella capitale spagnola, ha partecipato alla progettazione dell’hotel Puerta America, un’opera collettiva che ha visto la partecipazione dei più grandi nomi dell’architettura internazionale, ognuno impegnato nella progettazione di un piano del palazzo. L’architetto Sapey ha progettato il piano interrato, dedicato a parcheggio sotterraneo.
178 > ARCHITETTURA > Teresa Sapey > Progettare le emozioni
nche per i parcheggi è arrivato il tempo della riscossa. Non più grigi spazi desolati e tristi, ma un trionfo di colori e luci, luoghi da inventare e scoprire, da vivere e sperimentare. Artefice di questa trasformazione è Teresa Sapey, architetto e designer italiana emigrata a Madrid. Sono proprio i parcheggi che le hanno portato fortuna: il parcheggio a piazza Vázquez de Mella, nel cuore del quartiere madrileno di Chueca, o il garage dell’hotel Puerta America, opera collettiva che ha visto il nome di Sapey affiancato a quelli di Foster, Nouvel o Hadid, o ancora, ultimo in ordine di tempo, il parcheggio di plaza Cánovas a Valencia.
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hanno il potere di tatuare la nostra memoria per sempre». Come nasce la sua predilezione nel progettare parcheggi? «Nasce per caso, e per sopravvivenza. Come architetto ho dovuto imparare a nuotare velocemente, per farmi spazio in un settore difficile. Ma ho sempre avuto il desiderio di distin-
«L’architettura emozionale parla a tutti i sensi, non solo alla vista. È qualcosa da vivere. I suoi luoghi hanno il potere di tatuare la nostra memoria per sempre»
I parcheggi, spazi invisibili alla maggior parte delle persone, nei suoi progetti si trasformano in “spazi emozionali”. Perché? «Nei parcheggi si entra ed esce rapidamente, sono luoghi in cui ci si muove attraverso un percorso stabilito, spesso sovrappensiero. E proprio per questo sono luoghi che possono parlare non solo alla coscienza, ma anche all’inconscio. L’architettura emozionale parla a tutti i sensi, non solo alla vista. È qualcosa da vivere. I luoghi dell’architettura emozionale
guermi: non volevo fare solo belle case e bei negozi. Credo che l’architettura sia il mezzo per scrivere la storia attraverso i volumi: se vogliamo essere architetti del nostro tempo e costruire la storia contemporanea, dobbiamo adattarci alle esigenze dell’uomo di oggi e progettare i suoi spazi. E il parcheggio è proprio il simbolo della modernità». Nel progetto dell’hotel Puerta America di Madrid ha lavorato fianco a fianco con i più grandi architetti contemporanei, da Arata Iso-
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Del Piemonte cosa le manca di più? La neve. Il tartufo. E poi la cultura piemontese. Mi manca anche il Po
Della Spagna cosa le piace? L’apertura di questo Paese verso tutte le culture, la voglia di distinguersi e il coraggio di innovare. E il cielo blu di Madrid
Tornerebbe a vivere e lavorare in Italia? Certamente. E anche subito. Amo follemente l’Italia
zaki, a Zaha Hadid, passando per Jean Nouvel. Come è stato lavorare con loro? «È stato proprio Nouvel a chiamarmi “Madame le parking”. Da quell’esperienza ho compreso prima di tutto che i grandi architetti sono persone come noi, che si devono guadagnare il pane quotidiano tutti i giorni. Persone che talvolta hanno un problema nel gestire il potere. E poi ho capito che c’è la speranza, un giorno, di arrivare anche noi». Sicuramente già ora la sua esperienza può essere di esempio per altri giovani architetti che cercano fortuna all’estero. «Nemo propheta in patria. È triste che l’Italia abbia avuto il suo momento di auge con Gae Aulenti, la prima donna importante nella storia dell’architettura, e l’abbia perso. Ha perso l’occasione di poter offrire un futuro ai giovani architetti italiani e ancor di più, mi dispiace dirlo, alle giovani donne. Non è giusto che la patria della cultura e dell’estetica non sia anche la patria di future brave donne architette». La Spagna offre migliori possibilità? «Non lo so. È stato così per me. Credo che ogni situazione possa offrire delle possibilità, o non offrirle. Non tutto è prevedibile nella vita. Io ho iniziato a Parigi, poi mi sono spostata in Spagna e ho avuto la fortuna di trovarmi in un Paese che mi è molto vicino, per cultura: latina, europea e mediterranea. Anche se talvolta riemerge
la mia parte sabauda. In fondo sono piemontese e apprezzo il sole fino a un certo punto». Cosa ricorda degli inizi? «È stata molto dura. Talvolta penso che solo la gioventù può dare la forza necessaria per iniziare. Quella dell’architetto è una carriera faticosa, dove è necessario investire molto, non si è mai pagati, non si ha un posto sicuro, non ci sono prospettive di carriera. Ma è anche colpa nostra: a partire dall’università insegniamo agli studenti ad essere architetti su larga scala, trasmettiamo l’opinione sbagliata che un architetto sia una “star”. Sarebbe giusto cominciare a insegnare la modestia e far capire che un architetto può anche risolvere il progetto di una cuccia per cani, non sempre grattacieli e città. Quanto a me, ho sempre voluto fare questo lavoro. Non avevo alternative, perché è l’unica cosa che sono capace di fare: ho bisogno di vivere della mia creatività. Il mondo è fantasia, immaginazione e innovazione». Nel suo parcheggio di Chueca, alcuni richiami danteschi. Cosa porta del suo bagaglio culturale italiano nei suoi lavori? «Il mio liceo classico e le mie letture. La mia cultura è completamente italiana. Ma anche il cromatismo e soprattutto l’eleganza italiana. Siamo dei veri sarti e abbiamo nel sangue il senso per la proporzione perfetta. Siamo stati nutriti dall’estetica».
204 > TOGHE ROSA > Antonella Tedde e Sara Gastaldi > Al di là degli stereotipi
DONNE IN TOGA, DIRITTO SENZA TUTELA Le competenze di una donna avvocato sono diverse da quelle dei colleghi? Sicuramente no. Ma allora perché le differenze sono lampanti quando si guardano gli stipendi e lo sviluppo delle carriere? Le avvocatesse Antonella Tedde e Sara Gastaldi sono perentorie: «Occorre prediligere la padronanza delle competenze piuttosto che l’incondizionata disponibilità temporale» di Giusi Brega
l diritto societario? È più maschile. Quello di famiglia? Sicuramente femminile. Secondo una versione stereotipata, spesso si finisce col ripartire il lavoro secondo attitudini e predisposizioni caratteriali, ben lontani dai concetti di merito e competenza. Ma ci sono peculiarità che differenziano lo stile maschile da quello femminile nella professione di avvocato? «Non si può parlare di una vera e propria differenza di approccio alla professione tra uomini e donne o di uno stile prettamente maschile o femminile» sottolinea l’avvocato Antonella Tedde. Come in tutte le professioni intellettuali, dunque, il modo di affrontare il lavoro dipende dalle propensioni di ciascuno. «Ci sono, ad esempio, dei professionisti che prediligono stare in ufficio e occuparsi prevalentemente del versante stragiudiziale ed altri che invece amano il giudiziale e in aula danno il meglio di sé» continua la collega Sara Gastaldi. Entrambe sono d’accordo che «una divisione delle specializzazioni in “aree femminili” spesso risponde a dei pregiudizi culturali secondo cui le donne devono occupare quei settori del diritto più consoni al “genere” ma non rispecchia scelte e attitudini personali delle professioniste». Così, si tende ancora a creare una suddivisione fra aree di esercizio principalmente maschile – come il diritto societario – e aree femminili – come il diritto
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di famiglia e minorile, dell’immigrazione o alcuni settori del diritto privato. Aree considerate in termini di intuizione, empatia e coinvolgimento emotivo, secondo luoghi comuni qualità “femminili”. «Capita inoltre che siano i clienti stessi ad ostinarsi nel voler vedere a tutti i costi delle differenze» rincalza l’avvocato Tedde. Così le donne, soprattutto se giovani, vengono a volte considerate più vulnerabili ed emotive, salvo poi invece dimostrarsi determinate e caparbie nel raggiungimento degli obiettivi. «Non è azzardato affermare che noi avvocatesse dobbiamo convincere, paradossalmente, prima che i giudici i clienti» risponde laconica l’avvocato Gastaldi. Dicono che le donne si differenzino per la tenacia, la sensibilità, l’intuizione, la dedizione, l’attitudine all’organizzazione e al coordinamento. Condividete questo pensiero o lo reputate troppo “femminista”? Antonella Tedde: «Non crediamo sia una visione troppo “femminista”. Se è vero che le donne si differenziano per queste peculiarità, pensiero che condividiamo, ciò è piuttosto dovuto a fattori storici, sociali e culturali. La donna lavoratrice, soprattutto se madre, deve possedere queste caratteristiche se vuole coniugare al meglio vita privata e professio-
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L’avvocato Antonella Tedde, dello studio legale Fava & Associati fondato dal giuslavorista Gabriele Fava
«In Italia, le donne avvocato guadagnano circa il 58% in meno dei colleghi. Il divario reddituale si acuisce con l’età, quando la professione per gli uomini si consolida, mentre le donne cedono il terreno per riuscire a coniugare lavoro e famiglia» nale; accade in tutti i settori e per le libere professioniste, che non godono delle tutele tipiche delle lavoratrici dipendenti, è forse ancora più evidente». Negli Usa il 31% delle donne avvocato abbandona la professione, contro il 18% dei colleghi uomini.
Le donne, inoltre, guadagnano il 50% in meno dei loro colleghi uomini. Com’è la situazione in Italia? Sara Gastaldi: «La situazione è purtroppo simile anche in Italia, dove le donne avvocato, anche in base ai dati forniti dalla Cassa forense, continuano a guadagnare circa il 58% in meno dei colleghi. Se il divario reddituale è meno evidente nei primi anni della professione, tale disparità si acuisce con l’età, quando la professione per gli uomini matura e si consolida, mentre spesso le donne cedono il terreno per riuscire a coniugare lavoro e famiglia. È francamente difficile credere che tale sproporzione sia determinata esclusivamente da una scelta delle donne di carattere personale».
206 > TOGHE ROSA > Antonella Tedde e Sara Gastaldi > Al di là degli stereotipi
A fianco, l’avvocato Antonella Tedde e, in basso, la collega Sara Gastaldi. Lo studio Fava & associati conta sei uomini e sei donne
È anche una questione di mentalità? A.T. «Più che una questione di mentalità, che sicuramente gioca un ruolo fondamentale, questo divario è la conseguenza delle logiche di sviluppo della carriera che, oltre al possesso delle competenze professionali, richiede totale disponibilità e un elevatissimo investimento temporale sia durante la giornata, sia nell’arco della vita lavorativa. Così, anche la scelta di maternità può costituire ancora oggi un ostacolo per la carriera. Di sicuro non è facile cambiare un sistema ormai consolidato. Forse un buon punto di partenza può essere prendere come esempio quelle realtà professionali in cui si predilige la padronanza delle competenze piuttosto che l’incondizionata disponibilità temporale». Qual è la percentuale di presenze femminili all’interno dello Studio Fava? S.G. «All’interno dello studio vi è un’equa ripartizione di presenze femminili e maschili. Ad oggi, infatti, lo studio è composto da sei donne e cinque uomini oltre, naturalmente, all’avvocato Gabriele Fava, socio fondatore».
Il numero è casuale, oppure è motivato da una logica particolare? A.T. «Il lavoro è quotidianamente improntato sul gioco di squadra e la reciproca collaborazione tra tutti i componenti dello studio, per cui la scelta dell’avvocato Fava di realizzare un equo bilanciamento tra presenze femminili e maschili non è sicuramente casuale, anzi ponderata. Infatti, tutto ciò che sfugge professionalmente ad un uomo viene colmato da una donna e viceversa». All’interno dello studio, le mansioni sono divise in base alle competenze oppure vi è una sorta di integrazione e trasversalità? S.G. «Lo studio si occupa principalmente di diritto del lavoro e di tutte le problematiche di natura stragiudiziale e giudiziale ad esso collegate, operando per importanti aziende nazionali ed estere. Sicuramente vi è integrazione nella distribuzione del lavoro, anche se spesso è necessario suddividere i compiti in base alle competenze di ciascuno. Ciò perché il diritto del lavoro è comunque una branca del diritto molto vasta e al suo interno possono esserci delle “sottospecializzazioni”. Così, soprattutto in materia di consulenza aziendale, capita che dei professionisti siano più specializzati in un certo settore o che, avendo partecipato a corsi di aggiornamento o master, abbiano approfondito determinati argomenti. Spesso, quindi, problematiche particolari vengono seguite dai professionisti dello studio specializzati sul tema da affrontare. L’obiettivo è naturalmente sempre quello di offrire al cliente un servizio il più efficiente e completo possibile».
212 > DONNE E LAVORO > Maria Cristina Margutti > La discriminazione in ufficio
In costante aumento negli ambienti lavorativi,
il mobbing colpisce in prevalenza le lavoratrici
MOBBING, DIFFICILE DA DIMOSTRARE Nell’analizzare il diffuso e crescente fenomeno del mobbing, l’avvocato Maria Cristina Margutti, rileva le difficoltà di dimostrazione giudiziale e l’incidenza dei fatti sull’individualità di chi ne è vittima DI
ADRIANA ZUCCARO
a sempre e in ogni luogo, il cosiddetto “sesso debole” deve fare i conti con atteggiamenti discriminanti e deleteri nei confronti della propria fisicità, moralità e dignità individuale. In tal senso, la società odierna è sempre più spesso teatro del fenomeno conosciuto come “mobbing” che, «in costante aumento nell’ambiente lavorativo, colpisce in prevalenza le lavoratrici»: oltre alle statistiche, a confermarlo è la ventennale esperienza professionale dell’avvocato Maria Cristina Margutti di Milano, esperta in diritto del lavoro. «Premesso che con il termine inglese “mobbing” si indica “l’assalto di un gruppo a un individuo”, significativamente mutuato dall’etologia laddove alcune specie animali circondano e assalgono un componente del branco per allontanarlo, in ambito lavorativo, come delineato ormai pacificamente dalla giurisprudenza – specifica l’avvocato Margutti –, per mobbing si
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L’avvocato Margutti, civilista, è esperta in diritto del lavoro. Esercita la professione a Milano avv.cristinamargutti@inwind.it
intende una condotta del datore di lavoro o di colleghi protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti finalizzati alla persecuzione del dipendente, con lesione della sfera professionale e personale nella pluralità delle sue espressioni». A dispetto dei cambiamenti evoluzionistici susseguitisi nelle culture e nelle società civilizzate, è, purtroppo, ancora alto e attuale il numero di uomini che impone una convinta superiorità da dimostrare alle donne, a ogni costo. «Le assistite raccontano di aver subito
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minacce, diffamazioni, sottrazione di responsabilità lavorativa, boicottaggi, demansionamento, isolamento forzato, trasferimenti, avances sessuali o, ancora, sanzioni disciplinari irrogate per ragioni strumentali e pretestuose – spiega l’avvocato milanese – al solo fine di colpire la lavoratrice costringendola alle dimissioni falsamente spontanee o precostituendo la giustificazione del già programmato licenziamento». Tanto più qualificata è la posizione lavorativa della donna e tanto più è competitivo il settore in cui opera l’azienda, tanto maggiori sono le denunce delle dipendenti, anche con profili dirigenziali, vittime di comportamenti discriminatori e vessatori, adottati per isolare la figura “scomoda” dal contesto lavorativo, boicottandone le iniziative. «La conseguenza è devastante – afferma l’avvocato Margutti –: perdita di fiducia in se stesse, nella propria dignità e capacità professionale, nei casi più gravi si arriva all’insorgenza di vere e proprie patologie che impediscono lo svolgimento della prestazione lavorativa come disturbi psicopatologici, disturbi alimentari, crisi d’ansia». Considerando la delicatezza della causa giudiziale che eventualmente sarà instaurata, il compito dell’avvocato consiste innanzitutto nel capire se i fatti denunciati siano riconducibili a mobbing e nel verificare, mediante le competenze specifiche dei medici del lavoro, se le patologie insorte derivino da tale ingiusta
situazione. «Non si può infatti negare che, tranne casi eclatanti ma più rari, i comportamenti mobbizzanti siano di difficile dimostrazione in sede giudiziaria. Certamente quindi le donne che invocano la tutela della legge dimostrano grande coraggio, oltre che dignità, nell’affrontare il problema in un’aula di tribunale dove – rileva il legale –, i fatti saranno senz’altro vagliati in maniera rigorosa e le patologie accertate ricorrendo a una consulenza medica d’ufficio. Una volta confermata la situazione di mobbing e valutate le conseguenze, il tribunale potrà procedere alla liquidazione del danno patrimoniale, dove esistente, e non patrimoniale a titolo di danno biologico e morale». Vale la pena ricordare che lo stato ansiosodepressivo che subentra in soggetti mobbizzati incide pesantemente anche sulla loro vita privata, sui rapporti familiari, sociali e su tutti gli aspetti quotidiani della vita di relazione in cui normalmente una persona esplica le proprie potenzialità, la cui grave compromissione deve pertanto ricevere adeguato ristoro. «Se il giudizio può essere promosso – riprende l’avvocato Margutti –, è comunque importante, contestualmente, che il legale aiuti la cliente a riflettere sulla considerazione che una transazione in fase precontenziosa o anche contenziosa è alla fine la miglior “cura” per ritrovare un rinnovato equilibrio, una sorta di “punto e a capo”».
214 > CAPITALE INTELLETTUALE > Tonucci & Partners > Strategie per innovare
QUELLE IDEE CHE FANNO CRESCERE L’IMPRESA L’intellectual property come strumento di crescita per le imprese. Da tutelare con leggi sempre più stringenti. E da incoraggiare con finanziamenti, come di recente previsto dal Fondo nazionale per l’innovazione. L’ avvocato Manuela Cesta fa il punto in materia di Sofia Rossi a proprietà industriale è un asset strategico da tutelare in modo sempre più efficace per garantire la competitività delle imprese e il Fondo per l’innovazione istituito dal ministero dello Sviluppo economico è un’iniziativa sicuramente positiva che spinge le imprese ad accelerare in questa direzione» commenta Manuela Cesta, esperta in diritto comunitario e diritto della concorrenza e avvocato presso la sede di Milano dello studio legale Tonucci & Partners. Secondo l’avvocatessa il tema dell’innovazione è inscindibilmente legato a quello della competitività sui mercati internazionali: «Per quanto riguarda le Pmi italiane, queste hanno l’assoluta
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La propensione delle nostre imprese all’esportazione e allo sviluppo di rapporti commerciali nei Paesi Ue accresce il bisogno di tutelare la proprietà intellettuale del loro patrimonio tecnico e commerciale necessità d’innovare per poter competere a livello qualitativo sui mercati, visto che la concorrenza sul prezzo diventa sempre più difficile».
Manuela Cesta è esperta in diritto comunitario e diritto della concorrenza. Esercita la professione d’avvocato presso la sede di Milano del noto studio legale Tonucci & Partners
Innovazione e ricerca sono ambiti da considerare strategicamente connessi alla tutela dei brevetti. Pensa che in questi due campi si potrebbero ottenere maggiori sviluppi se ci fossero sistemi giuridici più attenti alla protezione di tali brevetti? «Per quanto riguarda il legame fra innovazione e ricerca, un sistema giuridico certo e più efficiente favorirebbe anche gli investimenti nella ricerca. In tema di innovazione e ricerca, lo scorso luglio il Senato italiano ha definitivamente approvato il disegno di legge “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” che incide anche su diversi settori relativi alla tutela della proprietà industriale e intellettuale, sia sul piano sostanziale che su quello processuale. Stabilisce fra l’altro che nel caso di invenzioni realizzate da ricercatori universitari o di altre strutture pubbliche di ricerca, l’università o l’amministrazione attui la procedura di brevettazione, acquisendo il relativo diritto sull’invenzione».
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Quali sono gli ostacoli maggiori che incontrano gli imprenditori nel tutelare una intellectual property? «Uno degli ostacoli maggiori per le Pmi è quello degli eccessivi costi. Al riguardo, un esempio di passo in avanti a favore della diffusione dei titoli di proprietà industriale in seno all’Ue è stato compiuto per il marchio comunitario con la riduzione delle tasse dovute all’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno dell’Ue, che rilascia i diritti di marchio comunitario. A seguito di tali riduzioni, anche l’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale ha ridotto le tasse per le domande internazionali di marchi comunitari che designano la Comunità europea ai sensi del Protocollo di Madrid. L’ulteriore aspetto contro il quale gli imprenditori devono combattere quotidianamente è quello della contraffazione. Fra i provvedimenti adottati con la novità introdotta dal disegno di legge approvato il 9 luglio scorso, che delega il governo ad adottare entro un anno dalla sua entrata in vigore alcune modifiche al Codice della proprietà industriale, vi è un rafforzamento degli strumenti di tutela a disposizione delle imprese nel nostro Paese contro questo dannoso fenomeno sempre più diffuso». Cosa comporta la presenza di più leggi nazionali sul mercato europeo? «La complessità del quadro giuridico in cui le imprese si devono muovere talvolta scoraggia il ricorso alla protezione brevettuale e successivamente, in caso di necessità, anche l’iniziativa giudiziale a sua tutela. In proposito, uno studio effettuato per conto della Commissione europea, sugli aspetti economici del sistema giurisdizionale unico ed integrato in materia brevettuale, ha stimato in 148, al massimo 289 milioni di euro all’anno, l’ammontare totale dei risparmi per le imprese rispetto all’attuale sistema frammentato di risoluzione delle controversie in materia di brevetti. Proprio per ovviare a questa situazione, la proposta di brevetto comunitario prevede la creazione di un organo giudiziale comunitario centralizzato di proprietà intellettuale che garantisca l’unicità del diritto e la coerenza delle decisioni nelle controversie in materia di contraffazione e di validità del brevetto
comunitario, potendo irrogare sanzioni e disporre indennizzi». Le cosiddette “controversie multiple” avvengono di frequente? «Il problema delle controversie multiple è una diretta conseguenza del sistema del brevetto europeo, che demanda alle giurisdizioni nazionali designate nella domanda di brevetto presso l’European patent office la competenza a decidere delle controversie in materia di contraffazione e di annullamento dei brevetti. Per le imprese italiane è invece di fondamentale importanza disporre di un sistema unico di risoluzione delle controversie in materia brevettuale a livello europeo. La propensione delle nostre imprese all’esportazione e allo sviluppo di rapporti commerciali nei Paesi Ue accresce il bisogno di tutelare la proprietà intellettuale del loro patrimonio tecnico e commerciale e di poter fare ricorso a tal fine a strumenti giuridici unitari e condivisi, in modo da essere competitive anche fuori dei confini nazionali».
226 > TUTELA DEI DIRITTI > Valeria Barbanti > Il ruolo dell’avvocato
TRA RESPONSABILITÀ E SENTIMENTI Diventare avvocato per essere utile e vicina ai problemi della gente. Essere destinataria delle confidenze, anche dolorose, dei propri assistiti. Ma saper porre linee di confine a garanzia della propria professionalità. L’avvocato Valeria Barbanti racconta cosa significa per lei essere avvocato oggi DI LUISA MOLINARI
«Il diritto è una materia armonica e interdisciplinare che si adatta a tutelare sia i diritti delle persone che le loro più profonde istanze di carattere personale». Ne è convinta Valeria Barbanti, avvocato milanese, che, dopo aver abbandonato il desiderio di diventare giudice minorile per potersi occupare dei problemi dei soggetti più deboli, ha intrapreso la carriera di avvocato perché, dice, «mi ha consentito di tenere fede alla spinta iniziale – la tutela dei diritti – e sentirmi utile e vicina ai problemi della gente». Non è un caso che, spesso, l’avvocato si occupi di questioni relative alla responsabilità civile e, in particolare, alla responsabilità per danni alla persona. I danni alla persona ricorrono in una serie disparata di situazioni ma nell’opinione pubblica, spesso, sono visti come segmenti giuridici minori. Qual è la sua opinione? «Spesso si pensa che il risarcimento del danno si riduca a calcoli basati su tabelle e alla contrattazione con la compagnia di assicurazione, chiamata a erogare in concreto il risarcimento. Ma è sufficiente assistere anche una sola volta un soggetto rimasto leso in un incidente automobilistico o a seguito all’incuria di un medico, o di una struttura sanitaria per comprendere che il denaro ottenuto in L’avvocato Valeria Barbanti nel suo studio di Milano. L’avvocato si occupa spesso di questioni relative alla responsabilità civile e, in particolare, alla responsabilità per danni alla persona valeria@barbanti.net
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«Un buon avvocato non può disinteressarsi del contesto in cui opera, egli deve possedere sensibilità e intuito, anche di tipo psicologico per interpretare e comprendere situazioni e persone. Solo in questo modo il professionista può contribuire a prevenire o comporre i conflitti» risarcimento è lo strumento con cui si restituisce alla persona un’esistenza dignitosa e sopportabile». Per meglio comprendere può raccontarci qualche episodio concreto che ha avuto modo di seguire in questo specifico settore del diritto? «Ho assistito i familiari di un giovane di 21 anni deceduto alla guida della sua automobile e ho constatato che, per i molti anni occupati dalla vicenda, i genitori e il fratello non si sono interessati tanto al denaro che sarebbe loro spettato, quanto a far accertare che il loro congiunto non fosse responsabile del sinistro che lo aveva ucciso. Quando si è acclarato, sia in sede civile che penale, che il giovane era rimasto vittima incolpevole della condotta di altri, i parenti hanno finalmente recuperato la serenità del ricordo». Non crede che questo modo di affrontare la professione le faccia perdere di vista l’interesse concreto che il legale deve perseguire per il proprio assistito? «Il legale è spesso il destinatario delle confidenze e delle riflessioni più dolorose del suo assistito ed, in questo modo, si viene spesso a creare un rapporto personale molto intenso. È necessario, però, porre delle linee di confine che non significano distacco e freddezza, bensì garanzia di professionalità che serve a mantenere sempre presenti gli obiettivi di fondo dell’azione legale e dunque gli interessi del cliente». Oggi desta interesse la responsabilità in campo medico-sanitario. Quale deve essere il ruolo dell’avvocato in questi casi? «In questo settore, l’esigenza di sostegno umano è resa ancora più pressante dal timore reverenziale
nutrito verso il medico e dall’impersonalità delle strutture sanitarie. Ciò che viene richiesto all’avvocato è un’equilibrata valutazione delle circostanze unita a capacità di discernimento: spesso, infatti, ci si trova nella situazione di dover far comprendere al proprio assistito che una terapia od un intervento non giunti a buon fine non presuppongono necessariamente una responsabilità personale del medico. L’avvocato deve pertanto operare in collaborazione con la classe medica per valutare se l’evento dannoso sia riconducibile a negligenza o imperizia del personale sanitario o se si tratti del puro e semplice esito negativo di una condotta di per sé appropriata». Lei crede che ci sia spazio per un rapporto personale con il cliente anche in settori del diritto diversi da quello di cui sino ad ora si è parlato? «Lavoro da sempre a Milano anche come consulente aziendale e ho compreso che nell’attività, apparentemente asettica della gestione societaria, entrano in gioco anche aspettative personali. Predisporre un contratto, ad esempio, significa assicurare vantaggi economici e sicurezza al cliente, ma anche dare chiarezza di aspettative a coloro che graviteranno intorno al progetto. Un buon avvocato non può disinteressarsi del contesto in cui opera: egli deve possedere sensibilità e intuito, anche di tipo psicologico per interpretare e comprendere situazioni e persone. Solo in questo modo il professionista può contribuire a prevenire o comporre i conflitti. In tutto questo, un tocco di femminilità non guasta».
228 > TUTELA DEI DIRITTI > Valeria Barbanti > Il ruolo dell’avvocato
Come si conquista la fiducia dell’assistito? «Oltre a possedere capacità tecniche, un avvocato deve essere trasparente e onesto con il cliente, senza assecondarlo. È fondamentale che l’assistito sappia di poter trovare nel suo legale un professionista attento e capace, distaccato quanto basta per conservare una visione precisa e completa del problema che gli è stato sottoposto. L’avvocato deve presentare al cliente le opzioni possibili e per ognuna di esse valutare pro e contro, senza dimenticare di precisare che il diritto non è una scienza esatta e che, neppure la più solida posizione giuridica, può essere garantita nel risultato che ci si prefigge di ottenere. Il cliente deve, invece, essere messo a conoscenza di ogni evoluzione della sua vicenda. Questo è, per me, il livello ottimale di trasparenza e professionalità e, come tale, garanzia di un corretto svolgimento dei rapporti di lavoro e di quelli interpersonali con il cliente».
«Il legale è spesso il destinatario delle riflessioni più dolorose del suo assistito e, in questo modo, si viene spesso a creare un rapporto personale molto intenso»
L’avvocato deve presentare al cliente le opzioni possibili e per ognuna di esse valutare pro e contro, senza dimenticare di precisare che neppure la più solida posizione giuridica, può essere garantita nel risultato che ci si prefigge di ottenere
Qual è il segreto per mantenersi sempre al passo, coltivando gli aspetti relazionali e quelli professionali? «La mia è una professione che richiede notevole impegno e per svolgerla a un livello elevato, occorre disporre di elementi che riequilibrino positivamente il dispendio quotidiano di energie psico-fisiche. Io li ritrovo nel rapporto con le persone a me care, nell’attività fisica e nei fine settimana che trascorro in montagna. Nel silenzio e nella piacevole fatica fisica i pensieri fluiscono liberamente. Camminando lungo i sentieri o scalando una cima, ogni questione lavorativa si riconduce da sé a più esatte proporzioni. È un privilegio che porto con me anche quando rientro in studio e che cerco di trasmettere a collaboratori ed assistiti».
234 > MEDIAZIONE > Isabella Buzzi > L’equilibrio in famiglia
DAL CONFLITTO ALLA MEDIAZIONE CON L’AIUTO DELL’ESPERTO Quello della mediazione familiare è uno scenario professionale che «richiede profonde abilità relazionali e spirito di immedesimazione». A parlare è la dottoressa Isabella Buzzi, specialista in materia e fondatrice dell’Associazione Italiana Mediatori Familiari DI SIMONA
LANGONE
Figure a confronto Gli assistenti sociali e gli educatori possiedono una professionalità tale da renderli dei potenziali mediatori familiari. Ma va assolutamente evitata sia la tendenza a deresponsabilizzare la persona in crisi, sia l’inclinazione a ri-educare. Anche i magistrati hanno un ruolo neutrale fondamentale che potrebbe portare le parti in causa ad accettare un compromesso per chiudere le liti, ma il ruolo istituzionale dà loro molto potere decisionale e grande autorità sulla vita dei contendenti. In mediazione familiare il conflitto è e resta proprietà della famiglia, non viene mai delegato a terzi affinché un estraneo si prenda carico di decidere per essa.
Sono prevalentemente le donne a scegliere di diventare mediatrici familiari, essendo un percorso che presuppone capacità di comprensione e tanta pazienza. Questo è un lavoro che richiede molta tenacia ma che è poi ricompensato con intense soddisfazioni umane e morali. «Un lavoro che si alimenta di dedizione al prossimo e umiltà». Ne è convinta la dottoressa Isabella Buzzi che sostiene anche l’importanza del rapporto che si istaura con le persone che necessitano di una mediazione familiare. «Cercano qualcuno che li aiuti a risolvere i
problemi, ma prima di tutto devono raggiungere la consapevolezza di avere bisogno di aiuto perché spesso chi si trova in una situazione di conflitto non capisce che l'uso della forza o della prepotenza non aiuta, ma peggiora la situazione. Invece le persone devono essere trattate con dignità e rispetto». Come si inserisce il conflitto nel suo lavoro? «Il conflitto è la parola chiave del mio lavoro da mediatrice. Il conflitto familiare spesso si accompagna a rabbia, frustrazione, e conduce a sentimenti di stanchezza, rassegnazione e insoddisfazione. Il compito del mediatore familiare non è separare, la separazione è stata la scelta che uno di loro ha preso per risolvere i
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La normativa problemi di coppia. Questa alternativa comporta ulteriori problemi inerenti alla scelta della dimora in cui vivere, al tempo da trascorrere con i figli, alla divisione dei compiti riguardo all'educazione, alla pianificazione delle spese e dei giorni festivi. Il mediatore familiare ha la pazienza e la tenacia per aiutarli a trovare la soluzione migliore, oltre alla competenza per aiutare le famiglie a restare unite e vivere i loro vincoli di parentela con maggiore serenità». Durante la mediazione familiare, può accadere che le persone evitino la separazione? «Sicuramente può accadere. Lo scopo che perseguo non è separare, bensì aiutare a collaborare, allentando il più possibile la litigiosità. La mediazione familiare interviene nei casi di separazione coniugale o di divorzio, ma è opinabile in ogni situazione di lite familiare in cui occorre che la famiglia riesca a risolvere i problemi senza dover delegare a un estraneo le scelte fondamentali della propria vita. La mediazione familiare può essere scelta spontaneamente dalle persone, oppure può essere suggerita dal giudice». Gli psicologi, ma sopratutto gli avvocati, in quanto esperti di diritto, possono essere mediatori familiari? «Il presupposto della laurea in psicologia non è sufficiente, in quanto la materia del contendere richiede competenze pratiche e legali, che allo psicologo mancano. Il mediatore familiare non deve solo creare un clima di dialogo sereno, ma deve anche segnalare quali accordi potrebbero violare la normativa vigente. Anche la laurea in giurisprudenza non soddisfa il quadro delle specifiche competenze che deve possedere il mediatore familiare. All'avvocato potrebbe mancare quella capacità di lettura, comprensione e gestione delle dinamiche relazionali e psico- affettive, senza le quali non è possibile portare le persone ad accordi auto-determinati. Ovviamente la formazione in diritto è necessaria poiché le soluzioni proposte in mediazione familiare devono essere rinforzate dalla legge. Anche gli assistenti sociali e gli educatori hanno buone basi professionali per diventare validi mediatori familiari».
In Europa abbiamo la raccomandazione NR(98)1 del 21 gennaio 1998, la raccomandazione 1639 (2003)1 del 25 novembre 2003 e il Codice europeo di condotta per mediatori del 4 giugno 2002. In Italia se ne parla nella legge 54/2006 sull’affido condiviso, una legge che ha rivoluzionato le aspettative dei coniugi separati. Tale legge, tuttavia, non ha potuto chiarire e regolamentare anche la figura professionale dell’esperto che può intervenire e tentare la mediazione. Oggi si rende necessario che in Italia, l’identità professionale e il ruolo del mediatore familiare, venga autoformulata e reciprocamente riconosciuta almeno dai mediatori familiari stessi, chiamati per competenze a regolamentare una professione dai confini ancora incerti
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La dottoressa Isabella Buzzi e il dottor Larry Fong, esperti in mediazione familiare, entrambi allievi del professor John Haynes www.aimef.it
Dove risiede quel quid che distingue il mediatore familiare? «Alle competenze tecniche, relazionali, giuridiche, fiscali, negoziali, si affiancano profonde attitudini personali e umane, e se mancano, è utile anche la pratica quotidiana. Fondamentale ai fini di un'ottima preparazione sono anche i corsi di formazione specifica. Quest' anno a Pisa si è tenuto un incontro a livello internazionale. Il dottor Larry Fong ha invitato i professionisti del settore, ad approfondire l'auto riflessione sul proprio ruolo, affinché la mediazione resti sempre “la gestione delle negoziazioni altrui e non delle proprie”. Il mediatore nel rispetto dei partecipanti alla mediazione, non deve mai giudicare ma, comprendendo e chiarendo le loro problematiche, orientarli a cercare soluzioni condivise».
236 > MEDIAZIONE > Isabella Buzzi > L’equilibrio in famiglia
Qual è il potenziale di efficacia e il successo concreto della mediazione familiare? «Il mediatore familiare ha un ruolo capitale nel contenere il fenomeno della disgregazione familiare. La capacità del mediatore di isolare il suo raggio d'azione è fondamentale in un contesto dove a scendere in campo sono anche altre figure professionali. Egli assolve la funzione di timoniere nella gestione del conflitto, nella veste di terzo non giudicante, avanzando con loro verso soluzioni di carattere quotidiano e concreto. L'efficacia e il successo di una mediazione dipende infatti anche dai “mediandi”, non solo dal mediatore. La mia soddisfazione professionale scaturisce dalla consapevolezza di aver lavorato bene, di avere dato spazio e ascoltato tutti i coinvolti, di aver guidato scelte concrete, nel rispetto dei figli, spesso proiettati in scene di vita fatta solo di problemi e frequentemente sottratti al loro diritto di essere bambini. La mediazione è una vera opportunità». Qual è il motivo per cui si parla ancora poco di mediazione familiare? «L’importanza della mediazione familiare è stata riconosciuta a pieno titolo all’estero, dove molti stati hanno definito criteri e standard per la legittimazione del ruolo del mediatore e della sua formazione. L’AIMeF è nata per far chiarezza in una situazione di confusione, a volte anche strumentale, spesso causata da ingenuità rispetto alle effettive abilità richieste in questo lavoro, che per me ha il fascino di una vera e propria arte». Come ha scelto di diventare mediatrice familiare? «È stata la mediazione familiare a scegliere me. Stavo studiando le conseguenze della separazione sul rendimento scolastico dei figli, per la mia tesi di laurea, e mi sono imbattuta in articoli che affrontavano la mediazione come un buon modo per aiutare i genitori a superare la litigiosità di coppia, dedicandosi alle esigenze affettive dei propri figli. Ripensai a quegli articoli durante la collaborazione con un consulente tecnico del tribunale di Milano, che poi mi ha indirizzato negli Stati Uniti per iniziare la formazione di mediatrice familiare. In questa circostanza sono venuta a contatto con mediatori di alto calibro e ho conosciuto una delle persone più significative in materia a livello mondiale: John Haynes».
Esempi virtuosi L'AIMeF è l'Associazione Italiana Mediatori Familiari. Tutti i professionisti coinvolti hanno seguito una formazione professionale qualificante successiva alla laurea in materie umane, psico- sociali o in diritto
Quali le conseguenze di questo incontro? «Per cinque anni sono stata il suo “braccio destro” italiano, traducendo per lui tutte le conferenze, lezioni e seminari di studi. Insieme a lui ho pubblicato nel 1996 un testo che rappresenta oggi il manuale della mediazione familiare: “Introduzione alla mediazione familiare”. Nel 1999, su suggerimento del professor Assunto Quadrio Aristarchi, dello stesso John Haynes, e insieme a due miei validi colleghi, Vincenza Bonsignore e Luigi Zammuto, attuale presidente, ho fondato l'Associazione Italiana Mediatori Familiari(AIMeF). Ad oggi sono iscritti all’associazione oltre ottocento mediatori in tutta Italia». Qual è il ruolo dell'Associazione Italiana Mediatori Familiari? «L'AIMeF è l'associazione italiana dei mediatori familiari. Tutti i professionisti coinvolti hanno seguito una formazione professionale qualificante successiva alla laurea in materie umane, psicosociali o in diritto e hanno sostenuto un esame che ne accertasse le effettive competenze, e si attengono a un saldo codice deontologico. L'associazione, inoltre, valuta la bontà della formazione erogata attraverso un sistema di accreditamento e di verifica di corsi di qualificazione professionale post grado».
242 > WELFARE > Francesca Martini > Amici a quattro zampe
IL MIO IMPEGNO A TUTELA DEGLI ANIMALI Una costante attività legislativa. Numerose campagne di sensibilizzazione intraprese. Un ambizioso progetto: accrescere la cultura del rispetto verso gli animali. Responsabilizzando coloro che, a qualsiasi titolo, ne accettano i doveri di cura e custodia. È la sfida di Francesca Martini, sottosegretario al Welfare con delega al benessere animale di Francesca Druidi Il suo amore per gli animali risale al periodo dell’adolescenza. «Sono nata in una regione ad alta vocazione animalista, il Veneto, in una famiglia che mi ha insegnato l’amore e il rispetto non solo per i miei simili, ma per tutti gli esseri viventi. Un valore che ha costituito il pilastro della mia formazione morale, civile e, non meno importante, politica». In Gli animali sono “esseri senzienti” e in quanto tali portatori di diritti qualità di assessore alle Politiche sanitarie della Regione Veneto, prima donna a ricoprire quel ruolo, l’attuale sottosegretario al Welfare Francesca Martini disponeva pacchetti di cure mediche Legame uomo-animale gratuite per chi adottava un trovatello di età superiore ai dodici «Considero questo rapporto uno dei mesi, e introduceva come consulente dei canili la figura del più profondi e ricchi, senza il quale veterinario comportamentalista. Divenuta sottosegretario di Stato al l’uomo perderebbe un elemento importante di sé stesso» Welfare con delega alla Sanità pubblica veterinaria e al benessere animale, «cui tengo moltissimo», ha avuto modo di restituire agli Gli italiani amano gli animali? animali quella dedizione che l’ha sempre accompagnata, «Tranne poche eccezioni, ritengo spronandola a impegnarsi in prima persona per «restituire loro la esista un grande amore e una crescente sensibilità verso il mondo dignità e il rispetto dovuti». Si può affermare che in precedenza esistesse una sorta di vuoto normativo nel campo della tutela degli animali? «Sì. È indiscutibile che ci fosse un vuoto normativo. È per questo che, una volta insediata al ministero, ho istituito un tavolo di lavoro permanente sulla tutela e il benessere animale che sta lavorando a un complesso disegno di legge volto a regolamentare in modo più organico e duraturo i molteplici aspetti relativi al rapporto uomoanimale». Quali sono i punti cardine del “Codice per la tutela e la gestione del cavallo” da lei promosso? «L’obiettivo del codice è fornire i criteri essenziali per una gestione, secondo la buona prassi, volta a tutelare la salute e il benessere degli equidi. Il codice, considerando tutti gli equidi appartenenti alle varie specie, dai cavalli ai pony, dagli asini, ai muli e ai bardotti, si propone di promuovere la corretta relazione uomo-animale, il
animale, dimostrato dalle numerose segnalazioni che quotidianamente mi pervengono e dalle iniziative intraprese a favore degli animali»»
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Nella foto, Francesca Martini, sottosegretario al ministero del Welfare con delega alla Sanità pubblica veterinaria e al benessere animale. Nata a Verona, è stata assessore alle Politiche sanitarie della Regione Veneto
244 > WELFARE > Francesca Martini > Amici a quattro zampe
Le specie a rischio Già nel 1998 aveva stilato per il ministero della Ricerca scientifica la prima “Lista rossa” delle specie minacciate di estinzione. Il 22 maggio scorso, in occasione della Giornata mondiale della biodiversità, il Wwf, la più grande organizzazione mondiale per la conservazione della natura, ha nuovamente compilato una lista delle specie simbolo italiane a rischio. Tra le cause principali all’origine del fenomeno, il consumo, la
«Le condizioni di canili lager talvolta riscontrate sono state spesso conseguenza di una mancata applicazione delle leggi regionali ed espressione di uno stato di inerzia nei confronti dell’impulso legislativo che va naturalmente di pari passo con l’abbandono da parte di proprietari irresponsabili» rispetto per l’animale come essere senziente e della sua dignità di specie. In tal senso, il provvedimento è rivolto a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, entrino in relazione con gli equidi, siano essi operatori, enti, associazioni o privati cittadini, al fine di favorire la cultura di tali animali. Il proprietario e colui che detiene l’equide a qualsiasi titolo sono sempre responsabili del benessere, del controllo e della conduzione dell’animale e rispondono, sia civilmente che penalmente, dei danni o lesioni a persone, animali e cose provocati dall’animale stesso. La tutela e la salute degli animali in genere, e del cavallo in questo caso, è innanzitutto indice di civiltà
frammentazione del territorio, i cambiamenti climatici e la caccia. Lontre, lupi, orsi, pipistrelli, aquile del Bonelli, capovaccai, grifoni, gipeti, galline prataiole, anatre marmorizzate, tartarughe marine e pesci d’acqua dolce continuano a rarefarsi a causa dell’incessante attacco al loro territorio o direttamente per mezzo di lacci, trappole, veleni e armi fuori controllo. Ad esempio, lo stambecco è una delle specie simbolo dell’arco
che distingue le nazioni avanzate». In che modo? «Il codice incoraggia la creazione di un ambiente improntato su principi etici volti alla tutela degli animali e all’aumento della sensibilità nei loro confronti poiché ciò favorisce anche lo sviluppo dell’individuo, il dialogo e la capacità di comunicazione nelle relazioni interpersonali. Un’impostazione ribadita anche nel disegno di legge per la tutela degli equidi che, attualmente in itinere, una volta approvato, doterà il nostro Paese di un riferimento normativo completo e a tutto campo per i cavalli e disciplinerà finalmente un settore che, negli ultimi anni, ha compiuto molti progressi in termini di diffusione e accessibilità, ma nel quale vengono purtroppo ancora perpetrati abusi inaccettabili. Soltanto attraverso la diffusione capillare di una corretta cultura equestre, infatti, sarà possibile il rilancio del mondo del cavallo nel nostro Paese, sia nel comparto equestre che in quello ippico». Qual è nel complesso la situazione dei canili italiani? «Sin dall’inizio del mio mandato, ho assunto iniziative per sostenere la salvaguardia della salute e del benessere dei nostri compagni a quattro zampe. Ho disposto ispezioni dei Carabinieri dei Nas e dei
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alpino, testimonial di una rinascita nello scorso secolo a partire da un’unica popolazione residua che rimaneva nel 1920 all’interno del territorio del Parco nazionale Gran Paradiso. Grazie agli ingenti sforzi promossi, lo stambecco ha riconquistato una parte del suo antico areale con nuove popolazioni che però, nella maggior parte dei casi, risultano piccole e sofferenti a causa di una bassissima
variabilità genetica e di una particolare vulnerabilità agli stress ambientali e di natura antropica. Si può, quindi, affermare come questa specie sia tra quelle in crisi a causa dei cambiamenti climatici. Il Wwf sottolinea come poco o nulla venga fatto per salvare le specie a rischio. Secondo l’organizzazione, sebbene il nostro paese sia al centro di una delle aree più ricche di biodiversità del mondo, ancora oggi mancano una legge
veterinari del ministero nei canili del territorio nazionale volte ad accertare violazioni delle norme vigenti. Ricordo i canili di Cicerale, Campobasso e Cremona. Le condizioni di “canili lager” talvolta riscontrate sono state spesso conseguenza di una mancata applicazione delle leggi regionali ed espressione di uno stato di inerzia nei confronti
Sintomo di civiltà «Il rispetto dell’animale contribuisce a fornire un valore aggiunto che costituisce la base della convivenza civile: il rispetto dell’altro»
specifica che tuteli la fauna e una strategia nazionale per la biodiversità come previsto dalla Convenzione internazionale sottoscritta dal governo italiano. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che il 2010 sarà l’anno internazionale della biodiversità, invitando i paesi a mettere in atto entro questa data azioni per la salvaguardia delle varietà di fauna, flora, ecosistemi, e di tutta la rete vitale che permea il nostro pianeta.
dell’impulso legislativo che va naturalmente di pari passo con l’abbandono da parte di proprietari irresponsabili. È per questo che l’impegno deve essere collettivo: i sindaci, i servizi veterinari territorialmente competenti, le forze di polizia e ogni altro organismo di controllo devono contribuire, ognuno per la propria parte, ad assicurare il rispetto della normativa vigente che, se applicata, porterebbe a grandi risultati. D’altro canto, è con piacere che rammento casi in cui, invece, è stato compiuto un vero e proprio salto di qualità in questo campo». Come il radicamento di una efficace dimensione di benessere degli animali può contribuire allo sviluppo del Paese e della qualità della vita dei suoi cittadini? «Il cambiamento culturale che ho cercato di avviare è sicuramente molto forte e sarà necessario un certo lasso di tempo affinché venga metabolizzato da tutti, anche se devo dire che alcuni effetti positivi si stanno già riproducendo. Sono consapevole che molto deve essere ancora fatto affinché le leggi sulla tutela degli animali siano maggiormente efficaci e, a tal fine, occorre che una crescita etica e culturale coinvolga le istituzioni, i cittadini proprietari di animali e soprattutto i giovani. Sono, infatti, le giovani generazioni che potranno impostare un più corretto rapporto con gli animali e noi abbiamo il compito e il dovere di aiutarli in tale cammino».
250 > NON PROFIT > Licia Ronzulli > Al fianco dei più deboli
«È importante fare informazione promuovendo le attività dell’associazione “Progetto Sorriso nel mondo”, raccontando il lavoro di tante persone che si mettono a servizio del più debole»
ABBRACCIO ALLA VITA Salute e diritti dei consumatori. Ma non solo: centralità del volontariato e delle politiche familiari. Sono questi i temi che per i prossimi cinque anni l’europarlamentare Licia Ronzulli tratterà al Parlamento europeo di Federico Massari er il bene del nostro Paese sarà fondamentale costruire un “sistema Italia” che difenda i nostri interessi». Questo è quello che ha affermato, a freddo, la deputata al Parlamento europeo Licia Ronzulli all’indomani della sua nomina. A distanza di qualche mese l’europarlamentare azzurra ha avuto tutto il tempo per fare il punto. E, dopo un’attenta analisi, ha deciso che in cima alla lista delle priorità da presentare davanti ai banchi di Bruxelles e Strasburgo, compariranno «la tutela dei diritti di sicurezza sociale e dei consumatori, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro e le pari opportunità tra uomo e donna». Ma c’è dell’altro: «Vorrei riuscire a far sentire l’Europa un po’ più vicina alla gente – sottolinea Licia Ronzulli – anche perché il 70% della produzione normativa nazionale è frutto del recepimento di decisioni assunte in ambito comunitario».
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Dal 2005 collabora con “Progetto sorriso nel mondo” in Bangladesh. Che cosa significa dedicare il suo tempo a questa associazione rivolta ai bambini meno
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Licia Ronzulli, europarlamentare per il Pdl, è responsabile del coordinamento delle professioni sanitarie all’interno dell’Irccs Galeazzi di Milano
252 > NON PROFIT > Licia Ronzulli > Al fianco dei più deboli
fortunati? «In questi Paesi, dove la malformazione del viso diventa motivo di emarginazione sociale per il bambino colpito, e per l’intera famiglia, l’intervento chirurgico non ha soltanto una funzione di tipo estetico, ma ha l’obiettivo di reinserire all’interno della comunità di appartenenza, l’intero nucleo familiare. Per me è stata un’esperienza davvero straordinaria. Certe emozioni si possono provare solo con un impegno così vicino ai problemi dei bambini». Dal Bangladesh a Bruxelles, passando per Strasburgo. Riuscirà ad avere tempo a sufficienza da dedicare al volontariato? «Sicuramente ne avrò meno per recarmi in un luogo così lontano che mi ha dato molto in termini di valori e ricchezza interiore, ma si può fare volontariato anche qui. È importante anche fare informazione promuovendo le attività dell’associazione e raccontando il lavoro di tante persone che si mettono a servizio del più debole. Inoltre ci sono tante realtà sul territorio che hanno bisogno del nostro sostegno, della nostra presenza e della nostra professione».
«In certi paesi l’intervento chirurgico non ha soltanto una funzione estetica, ma ha l’obiettivo di reinserire l’individuo all’interno della comunità» Lo scorso giugno sono state ritirate dal mercato numerose partite di pellet contaminato da Cesio 137, importate dalla Lituania e diffuse in tutta Europa. Dopo quell’episodio la Ue ha messo a punto una nuova applicazione per controllare la diffusione sul mercato di prodotti di consumo pericolosi. Cosa ne pensa? «Penso che sia stata fatta la scelta giusta. Dispiace che questo provvedimento sia arrivato solo dopo un episodio così grave, che avrebbe potuto mettere a rischio la salute di molti cittadini. Solo in Italia, le stufe alimentate a pellet, sono oltre 700mila». Nel nostro Paese la soglia dei controlli nei confronti dei materiali nocivi per la salute dell’uomo è alta? «Direi di sì. Viviamo in una nazione dove i controlli esistono e generalmente sono rigorosi».
Dal 2005 Licia Ronzulli collabora con l’associazione “Progetto Sorriso nel mondo”, dedicata alla cura di bambini malati nei paesi in via di sviluppo
Come spiega la continua fuga di cervelli italiani verso l’estero? «L’Ue è la più grande fabbrica di cervelli del mondo: nel nostro continente si “producono” più laureati nelle discipline scientifiche, rispetto a Usa e Giappone. Sia in termini assoluti, che relativi: questa è di per sé una buona notizia. Nonostante ciò, l’Ue occupa nel settore ricerca solo 5 laureati su mille, contro gli otto degli Usa e i nove del Giappone. In Italia in questo settore dobbiamo crescere molto, e il governo sta iniziando a compiere i primi passi con una sostanziale novità: coordinare gli investimenti nel settore con le esigenze del tessuto produttivo, promuovendo con incentivi i rapporti di collaborazione tra ricerca e mondo del lavoro. Solo attraverso questa strada si potrà arginare la “fuga dei cervelli” e guardare con più ottimismo al nostro futuro».