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SOMMARIO

EDITORIALE Raffaele Costa . . . . . . . . . . . . . . pag. 13 IN COPERTINA Ferruccio Fazio . . . . . . . . . . . . . pag. 14 GESTIONI VIRTUOSE Tra pubblico e privato . . . . . . . pag. 20 LA PAROLA AGLI ORDINI Roma, Bologna, Verona . . . . . . pag. 24 FARMACI Giorgio Foresti, Emilio Stefanelli, Annarosa Racca . . . . . . . . . . . . pag. 30 ONCOLOGIA Umberto Tirelli, Luigi Grassi . .pag. 36 CARDIOCHIRURGIA Lorenzo Menicanti, Mario Viganò . . . . . . . . . . . . . pag. 44 EMATOLOGIA Sante Tura, Franco Mandelli . . pag. 50 CHIRURGIA PLASTICA Marco Gasparotti, Paolo Santanchè, Alessandro Meluzzi . . . . . . . . . pag. 58 CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA Luigi Clauser . . . . . . . . . . . . . . pag. 64 CHIRUGIA PLASTICA RIGENERATIVA Antonio Montone . . . . . . . . . . pag. 66 DERMATOLOGIA Talangectasie, Elisabetta Perosino . . . . . . . . . . .pag. 18

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EDUCAZIONE ALIMENTARE Giorgio Calabrese, diete a confronto, gli aspetti psicologici . . . . . . . . .pag. 74 MALATTIE RARE Silvio Garattini, Claudio Cavazza, Debra Italia Onlus, Luna Berlusconi . . . . . . . . . . . . pag. 82

ONCOLOGIA TORACICA La ricerca europea . . . . . . . . . . pag. 112 CARDIOLOGIA Il congresso di Atlanta . . . . . . . pag. 116 UROLOGIA Vincenzo Gentile . . . . . . . . . . pag. 120

RADIOLOGIA Alfredo Siani, Giacomo Gortenuti, Libero Barozzi . . . . . . . . . . . . . pag. 94

ANDROLOGIA Protesi non invasive, eiaculazione precoce . . . . . . . . .pag. 122

CASI COMPLESSI Gaetano Calesini . . . . . . . . . . pag. 100

GINECOLOGIA Procreazione, naturalizzazione del parto . . . . .pag. 126

OCULISTICA Paolo Vinciguerra, Alessandro Galan . . . . . . . . . . pag. 102

ECOGRAFIA OSTETRICA Evoluzioni . . . . . . . . . . . . . . . pag. 130

DIABETE Gli sviluppi della ricerca . . . . . pag. 108

SANITÀ PRIVATA Casa di cura Giovanni Paolo II . pag. 132


SOMMARIO

RIABILITAZIONE L’ospedale di Motta di Livenza pag. 138

CHIRURGIA Minore invasività . . . . . . . . . . pag. 152

DIAGNOSTICA Le funzioni dell’Mpl . . . . . . . . pag. 162

TURISMO SANITARIO Casa di cura Villa del Sole . . . . pag. 142

ORTOPEDIA Impianti protesici . . . . . . . . . . pag. 154

SINDROMI DEGENERATIVE L’Alzheimer . . . . . . . . . . . . . . . pag. 164

MEDICINA DEL LAVORO L’ambiente del lavoro . . . . . . . pag. 144

ISCHEMIA Fattori di rischio e cura . . . . . . pag. 156

PSICOTERAPIA CARCERARIA Anna Luisa Buratti . . . . . . . . . pag. 166

MEDICINA DELLO SPORT Percorsi di riabilitazione . . . . . pag. 146

L’ULCERA VARICOSA Come curarla . . . . . . . . . . . . . pag. 158

ODONTOIATRIA Gianfranco Prada, tecnologia e psiche, salute e bellezza, impianti postestrattivi, nuovi strumenti . . . . pag. 168 IMPLANTOLOGIA Evoluzioni . . . . . . . . . . . . . . . pag. 180 IL CANCRO DELLA BOCCA Diagnosi precoce . . . . . . . . . . . pag. 182 ENDODONZIA Il recupero del dente . . . . . . . . pag. 184 L’ESPERTO RISPONDE Luigi Pavan . . . . . . . . . . . . . . . pag. 189 APPUNTAMENTI I prossimi convegni . . . . . . . . . pag. 190

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EDITORIALE di Raffaele Costa

Come comprendere i segnali di possibili malattie el corso della campagna elettorale per le regionali si è dato, giustamente, non poco spazio ai problemi della Sanità: ciò soprattutto perché la gestione della stessa è principalmente affidata alle Regioni. Ci sono state forti polemiche a proposito di ciò che è stato omesso. Si è tenuto conto di tante materie legate alla medicina: a comportamenti corretti, e talvolta non, da parte di amministratori ma anche di medici e di altri professionisti. Sono stati esaminati criteri idonei a far sì che il comportamento sanitario continui a sviluppare una sua azione efficace ai diversi livelli. Vi è stato, in non pochi casi, un approfondimento relativo alle attività ospedaliere ma anche, e forse soprattutto, alla medicina sul territorio. L’esperienza ha fatto scuola e così le regole che costituiscono uno dei criteri fondamentali per l’applicazione corretta e utile della scienza. Un tema sul quale è mancata l’attenzione, è quello, a mio giudizio fondamentale, dell’informazione, della preparazione e della cultura in materia sanitaria da parte del cittadino, paziente o meno, soprattutto se giovane. La preparazione volta a consentire una conoscenza di se stessi nonché delle possibili cadute ovvero degenerazioni è da considerarsi se non fondamentale almeno molto utile. Il primo “medico” di se stesso è rappresentato proprio da se stesso. Ci sono informazioni correnti possedute da tante persone, ma vi sono anche terreni fragili, aspetti semplicistici, informazioni generiche e talvolta infondate e non facilmente comprensibili che non contribuiscono, come potrebbe e dovrebbe essere, a favorire la difesa del soggetto

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nonché la sua tutela sanitaria, preventiva e non, nei confronti di malattie gravi o non gravi. L’informazione sanitaria è affidata, semplicemente o quasi esclusivamente, a sanitari illustri, docenti universitari, talvolta di scienziati, ma molto spesso a operatori idonei a funzioni prevalentemente giornalistiche, capaci di illustrare malattie e cure in modo soltanto in qualche caso idoneo e informativo con funzioni di prevenzione. Mi permetto di suggerire una risposta a quanti, cittadini sani o ammalati, avrebbero bisogno di prevedere, in qualche modo, l’ipotesi di un aggravamento di sintomi di per sé non idonei a dare indicazioni circa il possibile sviluppo di una malattia. Ovviamente la materia dell’informazione (o, meglio, della preparazione) viene affrontata in maniera adeguata nell’ambito universitario, per quanto riguarda i corsi normali o specialisti, ma ciò non avviene neppure minimamente per quanto riguarda la scuola in generale dalle medie alle superiori: ed è proprio lì che si potrà intervenire costruttivamente con notizie, informazioni, descrizioni di esperienze approfondite, segnalazioni, ricerche. L’argomento non può ovviamente essere affrontato in modo semplicistico, come potrebbe essere inteso da questo mio suggerimento. Lo stesso va approfondito in maniera adeguata e capace di far sì che i soggetti interessati possano, in qualche misura, affrontare tempestivamente (e quanto più possibile preparati) i pericoli e le prospettive di una cattiva salute. Dalle informazioni alla preparazione può esservi un terreno utile a evitare di correre pericoli attraverso segnali precoci, comprensibili più agevolmente da chi ha una preparazione (anche solo scolastica) e da approfondire tramite medici e strumenti idonei volti ad accertare l’esistenza e i possibili sviluppi di una malattia. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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IN COPERTINA • Ferruccio Fazio

PER UNA SANITÀ A MISURA DI CITTADINO di Nike Giurlani Sfide e obiettivi del sistema sanitario nazionale con una priorità: «Dare a ogni cittadino una risposta appropriata e di qualità nel setting assistenziale adeguato». È questa la strada per la sanità italiana secondo il ministro Ferruccio Fazio

empo di bilanci e nuovi progetti per Ferruccio Fazio per quanto concerne il sistema sanitario. Il punto di partenza, tiene a precisare il ministro, è che il nostro sistema rappresenta «un sistema universalistico e solidaristico che ha saputo coniugare gli indirizzi e gli obiettivi condivisi di programmazione con la ricchezza delle esperienze e dei tessuti regionali, promuovendo tra le Regioni stesse una sana competitività». Questi elementi fondanti che «fanno del nostro sistema uno tra i più efficaci ed efficienti in Europa – continua – hanno in sé delle componenti di sistema che hanno generato delle rigidità che hanno reso più complesso l’adattarsi del modello stesso agli epocali cambiamenti

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Il ministro della Sanità Ferruccio Fazio

demografici ed epidemiologici in atto e al tumultuoso sviluppo delle tecnologie». La principale sfida da portare avanti e da vincere «è dare a ogni cittadino una risposta appropriata e di qualità nel setting assistenziale adeguato». Alla luce di questa battaglia che è stata intrapresa, bisogna tenere presente due aspetti fondamentali «l’invecchiamento della popolazione e l’incremento della sopravvivenza di pazienti affetti da malattie un tempo rapidamente mortali». Questo significa che occorre spostare sempre più l’asse degli interventi sanitari «dall’ospedale al territorio, sottolineando la centralità delle cure primarie e delle strutture territoriali nella presa in carico e gestione del paziente, anche con l’utilizzo della telemedicina e del telesoccorso, garantendo la gestione integrata delle cronicità con un raccordo funzionale tra territorio e ospedale». Accanto a questo, inoltre, deve proseguire lo sviluppo del «nuovo modello di ospedale chiamato a erogare cure di elevata complessità e di qualità in tempi quanto più rapidi, in un sistema di reti integrate». Quali sono le parole chiave con cui affrontare le sfide della sanità italiana? «Appropriatezza, integrazione e qualità. Occorre promuovere un maggior utilizzo degli strumenti di governo clinico in un’ottica di efficacia delle cure, efficienza e gestione del rischio. Un altro impegno è promuovere nei cittadini una diversa percezione della qualità del servizio reso, mettendo anche in essere tutte quelle iniziative che facilitino il rapporto tra paziente e istituzioni sanitarie come, per esempio, la gestione delle liste di attesa, punti unici di accesso, risposte territoriali in strutture aperte 12 o 24 ore, ribadendo, così, la centralità del cittadino

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Ferruccio Fazio • IN COPERTINA

OCCORRE PROMUOVERE UN MAGGIOR UTILIZZO DEGLI STRUMENTI DI GOVERNO CLINICO IN UN’OTTICA DI EFFICACIA DELLE CURE, EFFICIENZA E GESTIONE DEL RISCHIO nella gestione della propria salute, tramite gli strumenti del consenso informato, dell’empowerment e la sua responsabilità nella scelta di adottare stili di vita salutari». La sicurezza dei pazienti e la gestione del rischio clinico sono punti critici per tutti i sistemi sanitari, quali le iniziative al riguardo? «Attualmente siamo chiamati a un particolare impegno nella definizione delle politiche e delle strategie in questo settore perché anche in ambito sanitario possono verificarsi incidenti o veri e propri errori. I danni che possono derivare sono da considerare eventi possibili, rischi del sistema, talvolta non del tutto eliminabili ma controllabili in presenza di adeguate e appropriate azioni di prevenzione e rimozione dei fattori causali. Nel nostro Paese, sono disponibili attualmente i dati del monitoraggio nazionale degli eventi sentinella relativi al

periodo settembre 2005-agosto 2009 con 385 segnalazioni: il rapporto fornisce un quadro delle tipologie di eventi sentinella, del contesto e delle modalità di accadimento che consente di individuare, in una logica di sanità pubblica, le possibili azioni da mettere in atto per contrastare il ripetersi di tali gravi eventi, anche attraverso l’elaborazione di raccomandazioni che devono essere implementate a livello aziendale per assicurare l’erogazione di cure sicure e di elevata qualità. Che ruolo deve giocare la comunicazione in questo contesto? «Come emerge anche dal rapporto che ho citato è necessario lavorare sulla comunicazione nella gestione del rischio clinico anche ai fini di preservare il rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. La comunicazione è essenziale, infatti, per sviluppare la ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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IN COPERTINA • Ferruccio Fazio

¬ partnership tra cittadini e servizi sanitari, quindi le

aziende sanitarie devono progettarla e utilizzarla sistematicamente. Particolare importanza riveste la comunicazione con il paziente, compresa una comunicazione trasparente e onesta degli errori e degli eventi avversi; essa è essenziale, oltre che per ragioni etiche e deontologiche, anche ai fini dell’efficacia dei processi di cura e per promuovere e rafforzare la relazione di fiducia tra il paziente e l’equipe assistenziale». Com’è possibile consolidare la fiducia dei cittadini? «È necessario promuovere iniziative che affrontino e governino i diversi aspetti della sicurezza dei pazienti, tra cui, in primo luogo, il monitoraggio degli eventi avversi, l’emanazione di raccomandazioni, l’attuazione di adeguate strategie di formazione, il coinvolgimento dei cittadini, pazienti e utenti e la gestione degli aspetti assicurativi e medico-legali». Come pensa debba essere disciplinato il “rischio clinico”? «La gestione del rischio clinico deve essere organizzata, con il concorso di tutte le istituzioni, tenendo conto che rappresenta uno degli aspetti centrali per la promozione e la realizzazione delle politiche di governo clinico e più in generale della qualità nei servizi sanitari. Per questo, a seguito dell’Intesa Stato Regioni del 2008, sono stati fissati alcuni paletti nel quadro di riferimento per il governo del rischio, che adesso stanno trovando una base normativa nel testo dello specifico disegno di legge in discussione in Parlamento. È necessario che tutte le aziende sanitarie prevedano una funzione aziendale dedicata, sistemi informativi specifici, modalità di uso sicuro ed efficiente dei dispositivi, forme adeguate per garantire il risarcimento dei danni e strumenti per la ce-

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lere definizione dei contenziosi». Quali i presupposti del ddl parlamentare? «Il testo affronta la problematica attraverso due filoni principali, il primo rivolto agli aspetti e al governo clinico più in generale, l’altro alla soluzione delle problematiche giuridico-gestionali in merito al risarcimento dei danni, ai costi assicurativi e alla gestione dei contenziosi. È obiettivo del Governo e del Parlamento garantire l’istituzione dell’obbligo di adeguate forme di copertura assicurativa per tutte le strutture sanitarie, al fine di garantire la possibilità di ristoro a quei pazienti che dovessero subire dei danni a seguito di un atto sanitario. Al contempo si mira a disciplinare la materia in modo olistico, con la consapevolezza che la sicurezza dei pazienti è una componente strutturale dei livelli essenziali di assistenza e richiede di implementare anche funzioni di coordinamento a livello centrale e regionale, capaci di promuovere scelte di politica sanitaria coerenti


Ferruccio Fazio • IN COPERTINA

con i bisogni della popolazione e le esigenze del sistema».

Molise il Governo ha nominato in queste regioni commissari ad acta».

Come combattere il divario tra i servizi sanitari regionali del Nord e quelli del Sud? «Questa problematica è oggetto di specifiche valutazione nel sistema nazionale Siveas, nato nel 2006 e orientato a ottimizzare tutte le azioni che la normativa vigente ha previsto in materia di verifica e controllo delle attività sanitarie assicurate dal Ssn. Le valutazioni sono finalizzate a far sì che ai finanziamenti erogati corrispondano servizi per i cittadini e che nell’erogazione dei servizi vengano rispettati criteri di efficienza e appropriatezza. Al Siveas è affidato il compito di affiancare le Regioni che hanno stipulato con i ministri della Salute e dell’Economia un apposito accordo (ai sensi della legge finanziaria 2005 art. 1 comma 180) comprensivo di un Piano di rientro dai disavanzi (Pdr). Così le Regioni che presentano situazioni di squilibrio economico-finanziario (disavanzo superiore al 7%) e di mancato mantenimento dell’erogazione dei Lea, con il predetto accordo individuano gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico, nel rispetto dei Lea e degli adempimenti specificati dell’intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005. L’accordo deve essere accompagnato da un programma operativo di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento del Piano di rientro dai disavanzi».

I costi standard delle regioni saranno individuati utilizzando il meccanismo delle “best practice”.Quali gli obiettivi? «L’introduzione dei costi standard, quale riferimento per la ripartizione tra le Regioni dei fondi pubblici destinati all’assistenza sanitaria, contribuirà a superare le differenze che ancora connotano troppo marcatamente i diversi servizi sanitari regionali, promuovendo in tutte le regioni l’adozione di modelli organizzativi e di scelte allocative orientate all’efficienza e alla qualità dell’assistenza. A tal fine stiamo lavorando alla messa a punto di una metodologia analitica che consenta di individuare le best practice nelle varie realtà regionali, che dovranno diventare i riferimenti per tutte le regioni, a partire da quelle che oggi presentano i maggiori problemi di organizzazione e gestione della sanità pubblica e non riescono a garantire ai propri cittadini risposte di livello adeguato».

Quali sono le regioni che sono risultate interessate alla sottoscrizione di tali accordi? «Nel 2007 hanno aderito la Liguria, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Campania, la Sicilia e la Sardegna e, da ultimo, la regione Calabria nel dicembre 2009. Sottoscrivendo l’accordo ogni regione ha potuto contare su una quota del fondo straordinario aggiuntivo, ma visti i persistenti risultati negativi di Lazio, Campania, Abruzzo e

Quali sono i presupposti? «La metodologia si basa su un set di indicatori che coprono il complesso delle attività sanitarie erogate nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, distinte nei livelli essenziali di assistenza e nei rispettivi sotto-livelli, e che consentono di misurarne e valutarne i livelli di efficienza di appropriatezza raggiunti in ciascuna regione. Per i singoli livelli di assistenza, e per le singole regioni, gli indicatori considerati misurano anche, evidentemente, i costi mediamente sostenuti per ciascun abitante. L’analisi congiunta degli indicatori selezionati consente di individuare le realtà che garantiscono i migliori livelli di performance complessiva, ossia le best practice da promuovere in tutto il nostro Paese». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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GESTIONI VIRTUOSE • Tra pubblico e privato

Quegli ospedali presi ad esempio Sono tra i fiori all’occhiello del nostro sistema sanitario: l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma, il San Raffaele di Milano, il policlinico Giovanni XXIII di Bari e il Presidio ospedaliero di Montebelluna. Ricerca, assistenza, innovazione e massima attenzione al paziente sono i loro atout di Carlo Cenci

osmosi tra ricerca e cura, il saper fare quadrare i bilanci e la formazione costante di nuove e vecchie leve. Tre cardini su cui fanno perno l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma, il San Raffaele di Milano, il policlinico Giovanni XXIII di Bari e il Presidio ospedaliero di Montebelluna (Treviso) per essere annoverati tra le eccellenze del nostro acciaccato sistema sanitario. Quattro realtà pubbliche e private, di diversa origine, ma con l’obiettivo comune di mettere al centro il paziente come persona. Umanizzando così l’assistenza.

L’

OSPEDALE SAN RAFFAELE È un Irccs di diritto privato, nato per volontà di don Luigi Maria Verzé come parte della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Un’origine differente, sigillo dell’eccellenza di quello che per Renato Botti, direttore generale area sanitaria del San Raffaele, è «un progetto entusiasmante» di cui colpisce il fortissimo «senso di appartenenza» generato nelle tante energie che «è riuscito a convogliare». Una realtà il cui segreto, ascrivibile «al nostro grande fondatore, don Luigi», si concretizza da un lato nella «propensione all’innovazione, all’imprenditorialità e alla libertà che ciascuno è chiamato a esplicitare, dando così il meglio di sé». E dall’altro «nella fortissima cultura del merito, della valutazione del risultato» che alligna tra quei muri. Due valori che raccontano di una specificità paragonabile alla capacità di dialogo che qui si instaura tra ricercatori e medici. 20

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«Questo è sicuramente uno degli elementi vincenti su cui il San Raffaele è stato precursore. Oggi molte istituzioni hanno capito che questo è un ingrediente necessario per continuare a essere in front line, all’avanguardia». Questa integrazione «non ha risvolti solo nel far ricerca, ma implica un approccio multidisciplinare tra culture e visioni dissimili» quali appunto il mondo delle ricerca scientifica e quello della clinica. Terza gamba «formidabile» del San Raffaele, la formazione rappresentata dall’omonima università. «Anche il solo camminare nei nostri corridoi – ammette Botti – non ha uguali» in termini di idee fresche portate da studenti e specializzandi. Molti i traguardi che il San Raffaele vuole tagliare in futuro. Oltre a una sempre

In questa pagina, l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma e la sua piscina riabilitativa; nella pagina accanto, il San Raffaele di Milano


Tra pubblico e privato • GESTIONI VIRTUOSE

maggiore integrazione tra assistenza-ricerca, «abbiamo un grande progetto sull’ambito oncologico». Inoltre, conclude Botti, «insieme con la ricerca, stiamo cercando di creare un collegamento con l’industria sia farmaceutica che delle tecnologie bio-mediche per creare un polo di riferimento per l’innovazione».

IL DIALOGO TRA RICERCATORI E MEDICI È UNO DEGLI ELEMENTI VINCENTI SU CUI SIAMO STATI PRECURSORI

IRCCS FONDAZIONE SANTA LUCIA L’attività riabilitativa neuromotoria è il suo atout, occupandosi da sempre di ictus, mielolesioni, traumi cranici, sindromi neurologiche altamente invalidanti, sclerosi multipla, amputazioni con protesi tecnologicamente innovative per lo più di pazienti adulti ma anche, a livello extra-ospedaliero, infantili. Insomma, un impegno «a vantaggio del bene-salute del cittadino-paziente», osserva Luigi Amadio, direttore generale dell’Irccs. Un lavoro costante che si integra con quello della ricerca premiato, per la produzione scientifica, da un primo posto nel Centro-Sud e per la qualità della ricerca scientifica, da un sesto posto tra gli Irccs italiani e da un primo tra gli Ircss nelle neuroscienze. Risultati ottenuti «garantendo ai nostri ricercatori la massima autonomia possibile, incentivandoli, dotandoli delle migliori attrezzature e scegliendo solo i progetti migliori, senza favoritismi personali. E soprattutto tenendo presente la nostra missione istituzionale: privilegiare sempre la ricerca traslazionale, quindi trasferibile in tempi ragionevolmente brevi e concretamente dal laboratorio al letto del paziente». Che

al Santa Lucia si applica ogni giorno. Ma non basta. «A seguito di studi e di ricerche, presentiamo e depositiamo ogni anno un certo numero di brevetti. Attualmente stiamo lavorando molto sulla Brain computer interface: in pratica un’interfaccia cervello-computer, ossia l’interazione del cervello. Una realtà che, anche se ancora in fase di prototipo, potrà essere utilizzata, ad esempio, per offrire una migliore qualità della vita ai disabili. Per quanto riguarda le tecnologie, la nostra Fondazione valida, dal punto di vista scientifico, l’efficienza e la funzionalità di alcuni progetti esterni per avere un riscontro di carattere scientifico». AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA POLICLINICO GIOVANNI XXIII L’osmosi tra formazione, ricerca e cura è la stella polare che guida il lavoro dei sanitari del nosocomio barese. «Una medicina ben fatta – osserva il direttore generale, Vitangelo Dattoli – è per definizione una medicina che porta dati alla ricerca e diviene vettore di insegnamento. Negli ospedali dove si svolge una regolare attività di ricerca, questa agisce da volano, migliorando la qualità delle cure. L’assistenza al malato se ne avvantaggia perché i protocolli di ricerca forniscono risposte nuove e stabiliscono condizioni di diagnosi e cura migliori. Questi risultati diventano poi i contenuti della formazione. I tre fattori sono, quindi, sempre strettamente collegati tra loro». E in questo il policlinico (che nell’ultimo biennio tra alta tecnologia diagnostica e ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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GESTIONI VIRTUOSE • Tra pubblico e privato

UNA MEDICINA BEN FATTA PORTA DATI ALLA RICERCA E DIVIENE VETTORE DI INSEGNAMENTO. NEGLI OSPEDALI DOVE SI SVOLGE UNA REGOLARE ATTIVITÀ DI RICERCA, QUESTA AGISCE DA VOLANO ¬ terapeutica e ricerca, ha investito 30 milioni di euro) è un vero professore. Con eccellenze nelle malattie a larga prevalenza o in quelle rare e nell’alta tecnologia. Come pure nei trapianti d’organo «mentre, per le malattie orfane, la nostra struttura è un punto di riferimento per tutto il Mezzogiorno sia in neurologia che in pediatria». Punti di forza che stanno spingendo il Giovanni XXIII a cambiare pelle. «Sul rapporto medico-paziente bisogna lavorare molto – rileva Dattoli – perché dobbiamo trasformare l’ospedale in struttura di accoglienza. Ma per fare questo dobbiamo modificare la struttura storica, mettendo in crisi il concetto del ricovero ‘tradizionale’ sostituendolo con forme e prestazioni diverse: “ricoveri multipli” con degenza, day hospital e ambulatorio sintetizzati insieme». Il policlinico sta vivendo una fase di grandi trasformazioni edilizie. Con la nascita della nuova doppia struttura a monoblocco (Asclepios 2 e Asclepios 3) «ci stiamo impegnando nella creazione di spazi relazio-nali per superare il modello basato sui letti di degenza che condannano il paziente ricoverato in una dimensione indifferente ai suoi bisogni relazionali». PRESIDIO OSPEDALIERO DI MONTEBELLUNA A misura d’uomo. È racchiuso qui il segreto del successo di questo nosocomio. Un «aspetto – evidenzia il direttore generale Renato Mason – che rientra nella filosofia dell’umanizzazione delle cure, cioè

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nel mettere il paziente al centro delle attenzioni e dei servizi tecnologici offerti». Insomma un valore aggiunto che guarda sia al malato sia al cittadino che varca quella soglia per esami o visite. Da un punto di vista sanitario, il tratto distintivo è nell’ambito cardiologico e in quello ostetrico. Con strumentazioni all’avanguardia. Da quello gestionale, invece «si caratterizza per il funzionamento del sistema cook and chill per la fornitura e distribuzione dei pasti». Un sistema di produzione dei pasti “in modalità differita” «che garantisce la massima sicurezza e ha effetti benefici per i pazienti che possono scegliere in libertà cosa mangiare». Investimenti cospicui anche sull’extramoenia, intesa come servizi erogati ai cittadini al punto che ricorda Mason,«uno dei nostri fiori all’occhiello è l’assistenza domiciliare praticata dai Servizi territoriali di cure domiciliari che, negli ultimi anni, hanno rivisto l’approccio al paziente e al suo nucleo familiare in un’ottica di valutazione multidimensionale e multiprofessionale. Ciò ha permesso di gestire e trattare nel proprio domicilio sempre più pazienti affetti da patologie anche molto gravi e complesse come quelle neurologiche, cardiologiche, respiratorie e neoplastiche per le quali il ricorso alla degenza in ospedale non porterebbe ad alcun miglioramento. L’Adi è, quindi, passata – spiega Mason – nel giro di pochi anni da un’ottica prestazionale a quella della identificazione e soddisfazione dei bisogni con la totale presa in carico dell’utente».

Sopra, l’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico-Giovanni XXIII; sotto il Presidio ospedaliero di Montebelluna (Treviso)



LA PAROLA AGLI ORDINI • Roma, Bologna, Verona

Sos camici bianchi: sono insufficienti Mancano medici. Di questo soffre anche la sanità locale, quella più vicina ai cittadina. Un male a cui si aggiungono le liste di attesa per visite ed esami troppo lunghe, un incremento dei contenziosi versi i dottori, precarizzazione e scarsa integrazione medici di base-ospedale. Ne hanno parlato i presidenti degli Ordini di Roma, Bologna e Verona di Giuseppe Tardivo

ochi. La carenza di organico è il male principale che affligge i camici bianchi. Dal Nord al Sud. Senza eccezione alcuna. «Credo che non vi sia, qui come in ogni altra realtà sanitaria del nostro Paese – osserva il presidente dei medici chirurgi di Verona Franco Alberton –, una struttura che non lamenti una qualche carenza di organici». È un «problema cronico», gli fa eco il collega bolognese Giancarlo Pizza. Una ‘penuria’ non priva di conseguenze. «In alcuni ambiti – rileva Alberton – tali carenze vadano assumendo caratteri di drammatica emergenza. Il sovraccarico di lavoro da parte del personale di assistenza, inevitabile a volte per sopperire alle assenze ed evitare interruzioni del servizio, rappresenta sempre un grave pericolo, sia per l’utente che rischia di essere curato da operatori stanchi e stressati, sia per lo stesso medico che rischia di commettere errori di cui poi sarà ovviamente chiamato a rispondere». A Bologna, poi, ricorda il presidente Pizza, «periodicamente emergono fasi acute. L’ultima di qualche tempo fa per il Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore. Il problema è quello dell’insufficiente finanziamento del servizio sanitario nazionale che, equo e solidale, è esteso a tutta la popolazione ed è invidiato da ogni Paese. Si

P Il presidente dei medici chirurghi di Verona Franco Alberton

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tenga conto che il servizio sanitario del nostro Paese è considerato ai primissimi posti del mondo occidentale. Questi risultati si raggiungono anche con grande sacrifico del personale sia medico che appartenente alle altre professioni coinvolte nell’assistenza ospedaliera e territoriale. Ad esempio, si tenga conto che nel solo complesso ospedaliero Sant’Orsola Malpighi, per gli oltre 600 medici ivi esercenti nell’anno 2005 si è avuta una eccedenza non retribuita di circa 200.000 ore e che ha condotto ad un contenzioso legale per circa 2 milioni di euro tutt’ora in corso. Sul territorio valga l’esempio degli incarichi a tempo indeterminato di continuità assistenziale: a fronte di 288 incarichi vacanti per l’anno 2009 in tutta la regione ne sono stati coperti solo 28». ROMA Al male acuto da penuria di dottori, il presidente dei medici della Capitale Mario Falconi, ne aggiunge almeno un altro non meno secondario perché si tinge dei colori della politica. Troppa ingerenza ha denunciato il neopresidente, Renata Polverini. Un’accusa con cui concorda il rappresentante dei medici chirurghi romani: «Ha ragione il presidente Polverini quando parla di un’eccessiva ingerenza della politica nella gestione della sanità in generale e di quella nel Lazio in particolare. Ma va anche sot-


Roma, Bologna, Verona • LA PAROLA AGLI ORDINI

SE È VERO CHE IL SANITARIO NEGLIGENTE DEVE RISPONDERE DEI DANNI CHE PROVOCA, È ALTRETTANTO OVVIO CHE GLI EVENTUALI ERRORI DEVONO ESSERE DIMOSTRATI E NON PRESUNTI IN BASE A EMPIRICI COLLEGAMENTI CRONOLOGICI O, PEGGIO, SULL’ONDA DELL’EMOZIONE O DEL RISENTIMENTO

Il presidente dei medici della Capitale Mario Falconi

tolineato che questa “mano” politica così pesante non ha saputo o voluto finora riprogrammare la sanità rispetto ad una domanda di salute profondamente mutata. Visto il progressivo invecchiamento della popolazione era inevitabile attrezzarsi in tempo per avere meno ospedali per acuti, più assistenza di base sul territorio e, soprattutto, più assistenza domiciliare per i non autosufficienti e i malati cronici». Una mancanza di riprogrammazione che sta facendo collassare il sistema dei Pronto soccorso. «Indubbiamente questa “prima linea” della sanità, in particolare in una metropoli come Roma, è sempre più sottoposta ad

una pressione che costringe, troppo spesso, medici e personale paramedico ad operare in condizioni e strutture inadeguate a garantire serenità, efficienza ed efficacia». Pesante nel cahier de doléances, per Falconi è anche il capitolo precarizzazione. «Purtroppo – stigmatizza questa sofferenza esiste e si sta pericolosamente estendendo tra le varie componenti della categoria. I medici nel Lazio, più che in altre regioni, lavorano spesso in condizioni ambientali non idonee, per di più con forme contrattuali che configurano una vera e propria precarizzazione aggravata dal blocco del turn-over. Tra l’altro, tutte queste condizioni contribui- ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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LA PAROLA AGLI ORDINI • Roma, Bologna, Verona

¬ scono ad incrementare la cosiddetta “medicina difensiva” che costa alla collettività uno sperpero ingente del denaro pubblico e privato». Ma non basta perché Falconi punta il dito anche contro «un’altra grande criticità: la mancanza di meritocrazia all’interno del sistema sanitario, sia per quanto riguarda la carriera medica sia per i livelli della gestione manageriale. Tutti ormai la invocano ma finora nulla o poco si è fatto per introdurla davvero. E anche le strutture ospedaliere e di cura devono poter essere monitorate e misurate nella loro efficienza, distribuendo le risorse pubbliche in base ai risultati realmente conseguiti. Ciò significa totale trasparenza e sistemi di controllo e validazione imparziali». BOLOGNA Premesso, avverte il presidente dei medici petroniani Giancarlo Pizza, che «le criticità non possono mancare in una società complessa e tecnologicamente avanzata, certamente le liste di attesa segnalano una difficoltà del sistema organizzativo ad affrontare

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adeguatamente i nuovi e più complessi bisogni di cure. La risposta qualitativa del sistema sanitario bolognese porta qui, per cure, numerosi pazienti di altre province o regioni. Per ovviare alle liste di attesa, oltre venti anni fa, il Comune con altri partner pubblici, tra cui la Regione, ha approntato un servizio (Cup2000) di prenotazione unificato delle più frequenti prestazioni ambulatoriali, di esami emato-chimici e radiologici, aprendo 5.000 agende. Attualmente Cup-2000 soffre in parte di un cattivo utilizzo da parte degli utenti che in circa il 10% di casi non si presentano all’appuntamento stabilito provocando così l’intasamento del servizio che non può essere reso disponibile per altre richieste. Occorrerebbe una maggiore “educazione” di utilizzo da parte del cittadino. Si tenga conto che nel 2009 Cup-2000 ha provveduto a calendarizzare ben 14 milioni di prestazioni». A singhiozzo, come del resto in molte altre parti del Paese, è anche il dialogo tra medici di famiglia e ospedale. «È un’altra criticità importante perché

Il presidente dei medici di Bologna Giancarlo Pizza


Roma, Bologna, Verona • LA PAROLA AGLI ORDINI

HA RAGIONE IL PRESIDENTE POLVERINI QUANDO PARLA DI UN’ECCESSIVA INGERENZA DELLA POLITICA NELLA GESTIONE DELLA SANITÀ IN GENERALE E DI QUELLA NEL LAZIO IN PARTICOLARE l’integrazione è pressoché inesistente e del tutto sporadica. Qui gli sforzi da parte di entrambe le componenti dovrebbero essere moltiplicati, ma dovrebbero trovare un riscontro organizzativo realmente fattivo da parte del gestore pubblico, con il relativo riconoscimento per l’impegno professionale necessario. L’Ordine dei medici ha istituito due commissioni interne per valutare come facilitare questa interconnessione, tenendo conto del forte impegno dei medici di famiglia in ambito territoriale, dell’aumento esponenziale del carico lavorativo loro richiesto e del sempre più scarso tempo a disposizione dei medici ospedalieri che sono spinti a incrementare costantemente il numero delle prestazioni nell’ambito temporale disponibile».

VERONA A parte «l’intollerabile scandalo delle liste d’attesa», osserva Alberton a far patire i camici scaligeri sono i «contenziosi, da parte di pazienti che si ritengono vittime di errori medici, in vistoso aumento». Molteplici le conseguenze, «ad esempio si dovrebbe tener conto che atteggiamenti di diffidenza, ostilità e rivalsa generalizzate nei confronti della classe medica provocano sempre un peggioramento della qualità delle prestazioni. Tutti noi siamo stati, siamo o saremo pazienti, e non credo che qualcuno si auguri realmente di essere curato da un medico condizionato o impaurito». Ma non è certo questa l’argomentazione più significativa per Alberton. «Se è vero che il sanitario negligente deve rispondere dei danni che provoca,

è altrettanto ovvio che gli eventuali errori devono essere dimostrati e non semplicemente presunti sulla base di empirici collegamenti cronologici o, peggio, sull’onda dell’emozione o del risentimento – incalza –. In sintesi, il comportamento del medico non può essere giudicato soltanto sulla base dell’esito ottenuto, perché la medicina non è una scienza esatta e i risultati non possono mai essere considerati scontati e garantiti. Si sta discutendo a vari livelli per trovare soluzioni in grado di ristabilire un clima di serenità e collaborazione tra i medici, i pazienti e i loro rappresentanti. Per ora, purtroppo, le “parti” si parlano poco e troppo spesso il difficile dialogo è mediato da avvocati e da compagnie di assicurazioni nell’ambito di una logica solo rivendicativa e risarcitoria». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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FARMACI • Giorgio Foresti

Farmaci off patent occorre il colpo d’ala Si potrebbe arrivare a coprire il 65%-70% del mercato. A tutt’oggi però i farmaci generici si fermano intorno al 10%-11%. Per Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici, i generici, lungo lo Stivale, hanno ancora molta strada da percorrere. Non solo in termini di mercato, ma anche culturale di Alfonso Pellicola

en lontani da Germania e Gran Bretagna, veri reami degli equivalenti. «In Italia il mercato del farmaco generico è bloccato». Fisiologicamente, potrebbe coprire una fetta del 65%-70%, ma in realtà è inchiodato al di sotto del 15%. «Se le aziende produttrici avessero le quote di mercato che hanno in Germania o in Gran Bretagna, potrebbero ridurre ulteriormente i prezzi». A scattare questa fotografia, un po’ impietosa, sul ricorso ai farmaci “usciti di brevetto” e senza marca è Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici, onlus che rappresenta le aziende farmaceutiche, con sede in Italia, interessate alla produzione e distribuzione di medicinali galenici e generici. Introdotti con la Finanziaria del 1996, i generici, lungo lo Stivale, hanno ancora molta strada da percorrere. Non solo in termini di mercato, ma anche

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Giorgio Foresti, presidente di Assogenerici

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culturale. Dopo «il primo reale impulso, in tempi relativamente rapidi si è raggiunta una quota di mercato attorno al 10% che, però, corrispondeva a chi era già in partenza favorevole. Non è stato, però, fatto nulla – rileva Foresti - per allargare la cultura in materia sia dei cittadini sia degli stessi medici italiani. Su questo terreno hanno avuto facile presa le diverse tattiche attuate da chi doveva difendere le proprie quote di mercato». I generici occupano una fetta di mercato del 48,5%. È ipotizzabile una loro maggiore diffusione? «In realtà quel dato corrisponde alla quota di tutti i farmaci off patent, vale a dire i veri equivalenti, quelli senza marca e le specialità originali che hanno perso il brevetto. In realtà, la quota di mercato degli equivalenti puri è decisamente inferiore, oscilla attorno al 10%-11%. L’Italia vive il paradosso di avere i farmaci di marca meno cari d’Europa e i generici più costosi perché ogni volta un brevetto scade, il prodotto della specialità riallinea il prezzo a quello del generico. Apparentemente può sembrare che il Servizio sanitario realizzi lo stesso un risparmio, ma non è così». Quanto sono diffusi questi medicinali? «Oggi per la quasi totalità dei farmaci di sintesi esiste almeno un equivalente. Di qui a cinque anni, per tutti i farmaci che normalmente prescrive il medico di famiglia esisterà la versione generica, poiché vanno a scadere anche

i brevetti degli ultimi blockbuster (i più venduti, ndr). Questo significa che gli equivalenti coprono tutte le aree terapeutiche: da quella cardiovascolare a quella metabolica, dalle malattie infettive a quelle respiratorie». Il generico, per legge, deve essere bioequivalente a quello registrato. «Perché un farmaco possa essere sostituito a un altro è necessario che svolga lo stesso effetto curativo del farmaco che va a sostituire. I generici devono rispettare questo criterio. E per essere messi in commercio, devono dimostrare, studi alla mano, di essere bioequivalenti a quelli di marca. Di conseguenza, chi si sente proporre la sostituzione del farmaco di marca con equivalente può accettare con assoluta tranquillità: l’effetto terapeutico è lo stesso. Il fatto che tutti i generici siano bioequivalenti all’originale, però, non significa che lo siano anche tra loro. Infatti, per esempio, se il generico A è bioequivalente all’originale con una deviazione del 15% in più e il generico B è equivalente, ma con una differenza del 15% in meno, la differenza tra i due generici è pari al 30%. E quindi tra loro non sono bioequivalenti visto che al massimo la differenza può essere del 20%». Ciò cosa comporta? «Un conto è acquistare un analgesico o un antibiotico da impiegare per un singolo episodio, dove quel che conta è l’equivalenza con il medicinale di marca. Altro se si tratta di una terapia cronica con l’assunzione ogni giorno di


Giorgio Foresti • FARMACI

DOPO IL PRIMO REALE IMPULSO, NON È STATO FATTO NULLA PER ALLARGARE LA CULTURA IN MATERIA SIA DEI CITTADINI SIA DEGLI STESSI MEDICI ITALIANI. SU QUESTO TERRENO HANNO AVUTO FACILE PRESA LE DIVERSE TATTICHE ATTUATE DA CHI DOVEVA DIFENDERE LE PROPRIE QUOTE DI MERCATO

uno o più farmaci. In questo caso, se si ottiene un adeguato controllo con il generico della ditta A, passare al generico della ditta B potrebbe rendere necessario un aggiustamento della terapia da parte del medico curante». Perché allora c’è sempre una certa ritrosia prescrittiva. «La diffidenza è questione di informazione e di cultura: la stessa definizione di bioequivalenza non è presente a tutti i cittadini e, a volte, nemmeno ai medici. Poi va considerato che il medico italiano è abituato a ragionare in termini di specialità, di nome commerciale e non di principio attivo, al contrario di quello che avviene negli Usa e in Gran Bretagna. In quest’ultimo paese, il 70% circa delle ricette riporta l’indicazione del principio attivo. Poi non trascurerei l’effetto, denunciato anche dalla Commissione europea, di certe campagne di stampa “interessate” che mirano a mettere in dubbio la qualità e l’efficacia del generico. La commissaria alla Concorrenza, Neely Kroes, aveva invitato già l’anno scorso i paesi membri a prendere provvedi-

menti in merito». Chi ci garantisce che il generico è efficace come quello di marca? «Quando un generico raggiunge le farmacie significa che l’Agenzia italiana del farmaco ha controllato e verificato le prove della sua bioequivalenza con il farmaco originale. E quindi il cittadino ha tutte le garanzie possibili. Molti credono che il fatto che tutte le aziende, alla scadenza del brevetto, possano produrre il medicinale sia indice di scarsa qualità. Non è così: produrre un farmaco non è un processo difficile. Basti pensare che tutti i farmacisti sono in grado di crearne uno, avendo a disposizione il principio attivo e gli eccipienti. Creare un generico è dunque semplice. Per questo non si deve dubitare della sua qualità: principio attivo e procedimento sono gli stessi». La Corte di Giustizia europea si è pronunciata a favore dell’introduzione di incentivi statali ai medici di base che prescrivono equivalenti, riconoscendo che questa misura, volte a ridurre la spesa farmaceutica, non intacca né la libera concorrenza né va

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FARMACI • Giorgio Foresti

IL MEDICO DRIVER DEI GENERICI Occorre guardare ai farmaci generici con oggettività senza ostacoli formali, ma pretendendone una pari qualità rispetto ai farmaci branded e senza eccessivi entusiasmi consumistici basati sul solo aspetto economico». Sul tema caldo dei farmaci generici tiene la barra dritta al centro Emilio Stefanelli (nella foto), vicepresidente di Farmindustria, l’associazione delle imprese del farmaco aderente a Confindustria. «L’uso dei farmaci equivalenti – osserva – è entrato nella pratica comune già da

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tempo. E sta raggiungendo lo stesso livello di altri Paesi che ne hanno iniziato l’utilizzo prima. Questi prodotti coprono spazi in cui la ricerca è già stata ammortizzata, risultando così utili per liberare risorse da investire in prodotti innovativi. Questo senza correre il rischio di creare mercati protetti e quindi continuando a riconoscere, per tutti i farmaci, il valore del marchio». Oltretutto, prosegue il vicepresidente, «visto che il Servizio sanitario, a parità di principi attivi, rimborsa il prezzo più basso, molto spesso il farmaco branded necessita di una differenza pagata dal paziente. Accade allora che il farmacista chieda al paziente se voglia proprio quel medicinale, pagando la differenza, oppure se preferisca optare per uno equivalente». Una volta esaurita la confezione, può accadere che l’equivalente utilizzato venga sostituito con un altro e così via in una sorta di balletto di pillole, gocce o sciroppi che «in-

a detrimento della salute. Una strada percorribile? «Non ritengo che i medici debbano essere “remunerati” per prescrivere il farmaco meno costoso. Credo, invece, che nel servizio sanitario sia necessario incentivare la cost-effectiveness, coinvolgendo i medici nel fornire le migliori cure possibili al minor costo possibile. Ora che stanno aumentando le difficoltà economiche delle Regioni diventa indispensabile questo coinvolgimento del medico anche attraverso una battaglia culturale perché si diffonda il concetto che il farmaco equivalente non è uno strumento per tagliare la spesa, ma per comprare “più salute” allo stesso prezzo e liberare risorse per le terapie innovative». Negli ultimi tempi si stanno facendo strada anche i farmaci biosimilari. Che tipo di diffusione potranno

nesca un meccanismo basato unicamente sull’aspetto economico». E non nell’ottica della «compliance e più in generale della salute del paziente. Tra l’altro – fa notare Stefanelli – ci sono alcuni tipi di prodotti dove la differenza di bioequivalenza può essere relativa, mentre in altri conta molto. Cambiare quindi il farmaco, e ancor più se ripetutamente, non è sempre consigliabile dal punto di vista terapeutico». Come rimediare? «Non i farmacisti – conclude il numero due di Farmindustria –, ma i medici dovrebbero diventare gli unici driver della prescrizione. È auspicabile che i produttori di generici e più in generale di equivalenti informino i medici sulle loro caratteristiche scientifiche. Così come fanno le aziende che producono farmaci di marca che, anche quando scade il brevetto non abbandonano i loro prodotti, ma mantengono la loro informazione al medico».

avere? «I biosimilari non sono farmaci generici, non sono equivalenti. Tanto da non essere sostituibili automaticamente uno all’altro. Si tratta di farmaci biotecnologici, analoghi a quelli originali, prodotti da un’altra azienda una volta che è scaduto il brevetto. Non sono equivalenti perché, trattandosi di molecole molto complesse (proteine, ndr), il procedimento con cui vengono prodotte, non mette capo a due sostanze uguali, ma a sostanze con la stessa attività. Ragion per cui i biosimilari, per essere approvati, seguono lo stesso iter dei nuovi farmaci. In Germania, il paese di prima introduzione dei biosimilari, rappresentano il 18% del mercato dei farmaci biotecnologici. Con notevoli benefici per il servizio sanitario. In Italia, lo 0,5%».


Annarosa Racca • FARMACI

Generici, l’Italia come l’Europa Con i loro consigli, hanno contribuito a far capire agli italiani che i farmaci non griffati non sono di serie B. «Grazie all’informazione fornita nelle farmacie i cittadini utilizzino con tranquillità un farmaco equivalente». La parola ad Annarosa Racca, presidente di Federfarma Annarosa Racca, presidente di Federfarma, la federazione nazionale delle farmacie private

di Costanza Borelli

ai loro banconi, hanno collaborato alla diffusione di pillole e sciroppi senza marca. «Abbiamo parlato con gli italiani – rammenta Annarosa Racca, presidente Federfarma, la federazione nazionale delle farmacie private – e spiegato che i generici non sono farmaci di serie B, non sono prodotti negli scantinati, ma sottoposti a severi controlli di qualità». Un lavoro di informazione quello compiuto dai farmacisti che parte da alcune constatazioni. «Talora è vero che per un anziano può essere difficile abituarsi a una confezione diversa dalla solita, con il rischio di fare confusione – osserva Racca –. E di questo va tenuto conto. Come pure del problema dei malati cronici ai quali cerchiano di non cambiare il farmaco per evitare problemi di compliance. Credo che, anche grazie all’informazione fornita nelle farmacie, oggi i cittadini siano abbastanza informati e utilizzino con tranquillità un farmaco equivalente». Questa maggiore conoscenza, per Federfarma, ha avuto effetti sul mercato del generico che è «in crescita. Il Servizio sanitario fornisce gratuitamente al cittadino il farmaco che, a parità di principio attivo e di dosaggio, ha il prezzo più basso. Non importa se generico o “griffato”. Se si sceglie il prodotto di marca che ha un prezzo più alto, si paga la differenza. Rimborsando alla farmacia, il farmaco che costa di meno e richiedendo al cittadino di pagare la differenza con il farmaco di marca più costoso, il Servizio sanitario risparmia senza ridurre le terapie. E può uti-

lizzare queste risorse per assicurare farmaci innovativi ad altri malati». Tuttavia, «è necessario che tale risparmio venga utilizzato per dare ai cittadini una assistenza farmaceutica più ampia e assicurare nelle farmacie la distribuzione dei farmaci innovativi». E comunque, in virtù di questo meccanismo, «oggi oltre un farmaco su due di quelli forniti dal Servizio sanitario è a brevetto scaduto. E il fatturato di questi medicinali a brevetto scaduto supera il 30% del totale», avverte Racca. Nel dicembre 2009 gli equivalenti rappresentavano il 53,92% delle confezioni e il 30,70% del fatturato Ssn, mentre i generici il 15,33% delle confezioni e il 7,10% in valore. Con questi numeri, conclude Racca, «siamo agli stessi livelli degli altri Paesi europei».

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OGGI OLTRE UN FARMACO SU DUE DI QUELLI FORNITI DAL SERVIZIO SANITARIO È A BREVETTO SCADUTO. E IL FATTURATO DI QUESTI MEDICINALI SUPERA IL 30% DEL TOTALE

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ONCOLOGIA • Umberto Tirelli

I farmaci biologici che centrano il bersaglio La ricerca di una cura meno tossica e più selettiva per il cancro ha dato luogo allo sviluppo di farmaci antitumorali intelligenti a bersaglio specifico. Umberto Tirelli, direttore del dipartimento di oncologia medica del Cro di Aviano, ne illustra criticità e prospettive di Francesca Druidi

n questi ultimi anni si è assistito, in oncologia, a una fase di progressivo avanzamento delle conoscenze relative ai meccanismi biologici delle cellule, assicurando una maggiore comprensione dei processi di insorgenza e progressione dei tumori maligni. Ciò ha favorito lo studio di farmaci che, a differenza di quelli chemioterapici citotossici, sono caratterizzati da una specificità d’azione e aprono la strada a un trattamento più mirato delle neoplasie. Come ricorda Umberto Tirelli, direttore del dipartimento di oncologia medica del Centro di riferimento oncologico di Aviano, esistono varie famiglie di agenti che rientrano nel novero dei farmaci biologici: inibitori dei fattori crescita, inibitori dei vasi, inibitori di enzimi, anticorpi monoclonali che frenano l’accrescimento del tumore. «Si tratta dell’unico orizzonte che esiste oggi nella terapia medica del cancro – spiega lo specialista – anche se non mancano i limiti».

I Umberto Tirelli è anche docente e primario della divisione di Oncologia medica A del Centro di riferimento oncologico di Aviano

Qual è, in generale, la strategia terapeutica che connota i farmaci antitumorali biologici? «A seguito delle conoscenze sul Dna acquisite negli ultimi decenni, in particolare quelle che riguardano le neoplasie, l’attuale strategia terapeutica risiede nell’identificare le anomalie genetiche che sono alla base dei singoli tumori e nel trattarli con farmaci che agiscano come missili telecomandati sui meccanismi di regolazione delle cellule neo36

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plastiche, andando a colpire soltanto l’anomalia all’origine del tumore oppure responsabile della sua progressione». La somministrazione dell’anticorpo monoclonale trastuzumab ha dato ottimi risultati nell’aumento di sopravvivenza nelle donne con tumore al seno. Quali sono nel complesso gli orizzonti maggiormente promettenti per quanto riguarda questi farmaci? «Trastuzumab (Herceptin) è uno dei farmaci principali, tra i più attivi tra quelli biologici o intelligenti usati nella terapia biologica dei tumori. Del resto, non vengono più sviluppati farmaci chemioterapici tradizionali, ma soltanto farmaci biologici intelligenti. Quest’area identifica, quindi, lo scenario del futuro: farmaci con bersagli biologici capaci di agire contro determinati enzimi o proteine che sono alla base della proliferazione tumorale o della proliferazione dei vasi che sottintendono allo sviluppo dei tumori stessi. Si tratta dell’unico orizzonte che esiste oggi nella terapia medica del cancro, anche se non mancano i limiti». Può indicarli? «Sono insiti nel fatto che questi farmaci agiscono sì su enzimi e proteine alla base della proliferazione del cancro alla mammella, al polmone e del tumore gastroenterico ma poi esaminando nello specifico ogni singola forma tumorale, si riscontrano differenze tra i pazienti.


Umberto Tirelli • ONCOLOGIA 1

Sotto, il Cro di Aviano, in provincia di Pordenone

IL PROBLEMA DEI FARMACI ANTITUMORALI BIOLOGICI È RAPPRESENTATO DAI COSTI ELEVATISSIMI

L’altra complicazione è data dall’esistenza di una forte diversità tra il tumore primitivo e le varie metastasi. Per esempio, il tumore alla mammella primitivo, del collo, del polmone, possiede un’identità biologica genetica ed è su questa base che viene scelto il trattamento del paziente, e anche nel caso di comparsa di metastasi, dopo anni, le terapie vengono attribuite sulla scorta del tessuto tumorale primitivo, anche perché non è facile prelevare quello metastatico. Non è detto però che le anomalie presenti nel tumore primitivo siano le stesse riscontrabili nelle metastasi. Si rischia di compiere ragionamenti sbagliati. È possibile che in futuro, se questo ci offrisse dei grandi vantaggi, si proponga al chirurgo di prelevare tutte le metastasi, anche in diverse parti dell’organismo, e di realizzare dei sample, dei prelievi nelle varie lesioni e da questo punto di partenza adottare il trattamento. Oggi non si fa perché è una procedura troppo indaginosa e ancora non abbiamo conseguito risultati sufficientemente estesi, anche se iniziamo a registrarne».

Qual è l’effettivo rapporto beneficirischi offerto dai farmaci antitumorali biologici? «Il problema è rappresentato dai costi elevatissimi. Un trattamento può costare dai 2 ai 5 mila euro al mese per paziente e questo può diventare un peso per le possibilità del nostro sistema sanitario. Troppi farmaci, troppe indicazioni per costi eccessivamente elevati e per vantaggi ancora troppo ridotti. Dovremmo arrivare a modificare questo concetto di costo, ancorandolo all’efficacia. Se un farmaco guarisce, come ad esempio il Glivec, agente indicato per il trattamento dei pazienti con leucemia mieloide cronica (LMC), può valere per ipotesi 100, il trastuzumab impiegato nel carcinoma mammario Her2-positivo può costare 50 e così via. In questo modo si stimola l’industria farmaceutica a produrre farmaci sempre più efficaci». Esiste un problema di tossicità per questi farmaci? «Non sono scevri da effetti collaterali, come l’insorgere di rash cutanei, specie GIUGNO 2010 SANISSIMI

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¬ di follicoliti piuttosto problematiche tali da indurre a volte a una riduzione del dosaggio; ulcere sulla pelle e problemi gastroenterici. Altri effetti possono essere stanchezza, febbre, ipertensione, tossicità cardiovascolare». Occorre allo stato attuale affiancare alla somministrazione di questi farmaci la chemio o la radioterapia? «Sì, esistono cellule tumorali indifferenziate che non hanno questi bersagli molecolari e contro le quali usiamo le forme tradizionali di cura. A volte somministriamo i farmaci in contemporanea alla chemio, a volte i due passaggi avvengono in successione». La lista di farmaci antitumorali biologici si arricchisce costantemente di nuove acquisizioni. Quali sono le maggiori novità introdotte? «Si segnala un’estensione delle indicazioni: ad esempio l’Avastin, anticorpo monoclonale disegnato in modo specifico per inibire il fattore di crescita di una proteina che svolge un importante ruolo nello sviluppo e nel mantenimento dei vasi sanguigni, è stato appro-

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vato come trattamento del tumore del colon-retto ma è stato esteso anche al carcinoma polmonare e mammario in quanto ne è stata dimostrata l’attività, sebbene non in maniera eccezionale. I costi però intanto vanno alle stelle e questo incide sulla sostenibilità della nostra attività. E se i costi sono elevati poi diventa più complesso reperire i finanziamenti per il personale infermieristico, medico e tecnico necessario. Perche, alla fine, in medicina ciò che conta di più sono le risorse umane giuste che ti possono far seguire al meglio le patologie, non soltanto i tumori». In questo scenario come si inserisce lo sviluppo della farmacogenomica? «È un’area di ricerca molto importante, perché studia le basi genetiche delle differenze interindividuali nella risposta ai farmaci. Dallo studio della farmacogenomica possiamo trarre le basi per selezionare i pazienti da sottoporre a un determinato tipo di trattamento e ai dosaggi conseguenti, così da ottimizzare al massimo le percentuali di risposta e diminuire al contempo gli effetti collaterali».

TRATTARE LE ANOMALIE GENETICHE CON FARMACI CHE AGISCANO COME MISSILI TELECOMANDATI



ONCOLOGIA • Luigi Grassi

L’arma in più nella lotta al tumore Le complesse problematiche psicologiche, emozionali e relazionali che vive il paziente malato di tumore sono dimensioni ancora poco considerate. A occuparsene è la psiconcologia che, come spiega il presidente della società italiana di questa disciplina, Luigi Grassi, produce evidenti vantaggi di Francesca Druidi

a visione biomedica e tecnologica del cancro è riduzionistica e perdente, poiché assimila la persona a un oggetto da aggiustare e perde di vista il fatto che il nostro essere riguarda dimensioni multiple non rappresentate esclusivamente dagli organi e dal corpo, ma dalla nostra vita interiore, emozionale e spirituale, e dalla vita interpersonale». Sono queste le premesse fondamentali per comprendere l’importanza dell’intervento psiconcologico, che però non è quasi mai parte integrante dei trattamenti. A evidenziarlo è Luigi Grassi, presidente della Società italiana di psiconcologia, che ne illustra, invece, vantaggi e prospettive.

L Sopra, Luigi Grassi, docente di psichiatria presso l’Università di Ferrara, direttore della Clinica psichiatrica dell’Ateneo e presidente della Società italiana di psiconcologia

Cosa significa intervenire dal punto di vista psiconcologico su un malato di tumore? «Significa innanzitutto cogliere il disagio delle persone e identificare quanti presentano livelli di sofferenza che ostacolano l’adattamento alla malattia. La psiconcologia ha attivato da tempo campagne di sensibilizzazione a questo riguardo che individuano lo stress emozionale come sesto segno vitale da monitorare costantemente a ogni incontro con il paziente. Successivamente è necessario effettuare valutazioni psicologiche e, quando necessario, proporre trattamenti psiconcologici individualizzati che la ormai amplissima letteratura scientifica e l’esperienza clinica hanno dimostrato avere benefici significativi: la qualità della vita migliora, l’aderenza 40

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ai trattamenti è incrementata, gli effetti collaterali sono meglio tollerati, le risposte alla malattia diventano più efficaci, con il superamento delle problematiche di disagio psicologico». Come si articolano, nello specifico, gli interventi sui pazienti e le famiglie? «I passi avanti compiuti dalla psiconcologia negli ultimi trent’anni anni hanno permesso di migliorare e rendere sempre più specifici gli interventi disponibili per le persone colpite da cancro che necessitano di interventi psicologici. Diverse forme di psicoterapie, sia individuali sia di gruppo, sono state specificamente sviluppate per la loro applicazione in oncologia. Gli interventi possono avere durata breve, focalizzandosi in poche sedute sul problema da affrontare, o di maggiore durata in funzione di molte variabili: l’andamento della malattia, i bisogni della persona e la sua storia, in quanto la risposta individuale alla patologia avviene anche in funzione della storia e delle esperienze passate dell’individuo. Altri interventi sono basati su tecniche di gestione dello stress e di rilassamento, modelli miranti alla facilitazione dell’espressione delle emozioni, al miglioramento della comunicazione, all’informazione e all’educazione a stili di vita più sani in senso psicosociale e fisico». Da quali segnali ci si rende conto della necessità del malato di ricevere


Luigi Grassi • ONCOLOGIA

DIVERSE FORME DI PSICOTERAPIE SONO STATE SPECIFICAMENTE SVILUPPATE PER LA LORO APPLICAZIONE IN ONCOLOGIA

un trattamento psiconcologico? «I segnali riguardano la chiusura in se stessi, la tendenza al pessimismo diffuso con sensazione di disperazione e di ineluttabilità del destino, la preoccupazione costante verso la malattia con limitazione delle attività quotidiane, problemi del sonno e molti altri segni di disagio. Uno dei problemi maggiori riguarda la necessità di differenziare comprensibili e naturali sentimenti di paura e tristezza da condizioni come quelle suddette che per intensità, durata, frequenza, interferenza sulla vita, indicano la necessità di interventi psiconcologici. Spesso sono proprio la minimizzazione di tale sofferenza, la rassicurazione impersonale basata su frasi del tipo “cerca di non pensare”, “tutto andrà bene” o le ingiunzioni come “devi reagire”, “metti la grinta” a creare circoli viziosi in cui la persona ammalata si sentirà scarsamente compresa. E lo sconforto peggiorerà. Parlare con professionisti preparati nell’area psiconcologica non è mai tempo sprecato e significa impiegare uno strumento aggiuntivo finalizzato a migliorare e a rendere più completa la cura. Il paradosso è che in base a meccanismi complessi, in cui intervengono sentimenti di vergogna ad ammettere di avere difficoltà, scarsa informazione rispetto all’esistenza di servizi di psiconologia, paura dello stigma, la tendenziale aspettativa che i medici curano solo il corpo, molte persone cercano aiuto in contesti ad “alto rischio” quali guaritori, maghi, se ne contano circa ventimila in Italia, e figure della medicina e psicologia alterna-

tive su cui le istituzioni sanitarie dovrebbero operare riflessioni più attente». La sofferenza che richiede interventi strutturati psioconcologici riguarda in Italia circa il 25-30% delle persone colpite dal cancro. Però solo il 1015% di tale percentuale riceve cure psiconcologiche. «Le cause di questa sperequazione sono molte, tra cui i tuttora vivi pregiudizi verso tutto ciò che appartiene all’area psicologica e psichiatrica, la scarsezza di risorse e di investimenti verso la salute psicologica, considerata una sorta di lusso a minor grado di priorità nella cultura occidentale e la biotecnologizzazione che, pur ponendosi l’apprezzabilissimo obiettivo di sconfiggere il cancro e in generale ogni malattia, non deve dimenticarsi nel frattempo di chi è ammalato e dell’impatto psicologico e sociale sulla persona e sulla famiglia. Questo si lega ai punti critici della figura dello psiconcologo, non riconosciuta attualmente come profilo professionale. Lo sforzo della SIPO (www.siponazionale.it) e della Federazione delle società nazionali di psiconcologia di cui fa parte, è diretto allo sviluppo di criteri per la formazione specifica, il lavoro congiunto con i ministeri e l’istituzionalizzazione dello psiconcologo. Pur nelle more di non riconoscimento del profilo professionale, la psiconcologia è una disciplina ben consolidata e i servizi inseriti nel Ssn in Italia sono numerosi. Andrebbero maggiormente conosciuti e potenziati». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CARDIOCHIRURGIA • Mario Viganò

Una vita dedicata alla cardiochirurgia Un lavoro duro, fatto di continui studi e sacrifici che va affrontato con passione e dedizione. Quello del cardiochirurgo è un mestiere sicuramente difficile, ma anche ricco di stimolanti e appaganti soddisfazioni legate ai progressi delle tecniche e ai risultati ottenuti. Ne parla Mario Viganò di Nicolò Mulas Marcello

egli ultimi anni i progressi della cardiochirurgia hanno fatto significativi passi in avanti unendo le più moderne tecniche robotiche alle conoscenze tradizionali. E solo grazie alla ricerca è possibile ottenere questo tipo di risultati. Ricerca che viene fatta anche dai giovani specializzandi nelle numerose scuola di specializzazione in cardiochirurgia presenti sul territorio nazionale. Il prof. Mario Viganò, uno dei maggiori cardiochirurghi italiani, direttore della scuola di specializzazione in cardiochirurgia dell’Università di Pavia spiega che «fare il cardiochirurgo è un lavoro molto impegnativo anche sul piano fisico oltre che sul piano psichico e volerlo fare, come è giusto farlo, con passione e dedizione diventa assolutamente prioritario rispetto ad altri aspetti della vita, familiari e alla possibilità di coltivare hobby».

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Come si articola l’attività della scuola di specializzazione in cardiochirurgia? «In Italia ci sono parecchie scuole di specializzazione e ogni scuola si articola in cinque anni con una progressione di approfondimenti formativi sempre più stringenti e adeguati a una formazione professionale per cardiochirurgo. Ci sono poi differenze da scuola a scuola a seconda della tipologia delle sedi universitarie dove risiedono queste 44

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scuole. Ad esempio nelle sedi dove si fanno i trapianti c’è una evidente formazione in ambito trapiantologico oltre a quello tradizionale circa le congenitopatie e malattie acquisite della valvole e delle coronarie. Di certo va detto che nell’arco di cinque anni non si può pensare di formare compiutamente un cardiochirurgo ma gli si dà la “patente” per poter essere specialisti della materia e quindi avere un prerequisito per essere assunti dai centri cardiochirurgici ospedalieri e universitari. In pratica poi il completamento della formazione la si fa in itinere, la forma-

In alto a destra, Mario Viganò, direttore Centro cardiochirurgico Charles Dubost - Irccs San Matteo, Pavia


Mario Viganò • CARDIOCHIRURGIA

LA FORMAZIONE NON FINISCE MAI, ANCHE PER I CARDIOCHIRURGHI PIÙ ANZIANI C’È SEMPRE MARGINE DI MIGLIORAMENTO LEGATO AI PROGRESSI DELLA DISCIPLINA E ALLE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE zione non finisce mai, anche per i cardiochirurghi più anziani c’è sempre margine di miglioramento legato ai progressi della disciplina e alle innovazioni tecnologiche». Qual è secondo lei lo stato attuale della formazione cardiochirurgica in Italia? «È similare a quella degli altri paesi anche se in Italia si producono più specialisti che negli altri paesi perché c’è possibilità per i giovani specializzati di trovare possibilità di occupazione anche nei paesi stranieri». Come si inserisce la ricerca in ambito formativo? «La ricerca è presupposto fondamentale di ogni settore della medicina. È solo attraverso la ricerca che si può esplorare il futuro e che possono essere realizzati i progressi scientifici. Purtroppo c’è un fraintendimento che è rappresentato dalle cosiddette linee guida che possono avere una valenza medico legale ma che rappresentano un incapsulamento del presente nel passato senza sguardo nel futuro. Il futuro

è la ricerca che è presupposto dei nuovi traguardi». Quali sono stati i progressi più recenti nel settore cardiochirurgico? «Nella disciplina cardiochirurgica negli ultimi decenni sono stati fatti passi avanti straordinari. Ai nostri studenti insegniamo che ci sono tre tipi di approcci chirurgici al cuore. La prima generazione è quella rappresentata dalla sternotomia mediana longitudinale cioè una volta, per tutti gli interventi si faceva questo approccio con una incisione toracica che andava dalla fossa giugulare fino quasi all’ombelico e attraverso questo accesso si faceva ogni intervento chirurgico. Al giorno d’oggi questo approccio è confinato soltanto ai casi di rivascolarizzazione multipla mediante bypass e ai trapianti. La seconda generazione, che ha preso piede a metà degli anni 90, è rappresentata dalla chirurgia mininvasiva che consente mediante piccole incisioni cutanee di 4-5 centimetri e avvalendosi di una strumentazione speciale per la circolazione extra corporea di poter effettuare interventi sulle valvole cardiache, sull’aorta ascendente, sull’arco aortico

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CARDIOCHIRURGIA • Mario Viganò

IL FUTURO È LA RICERCA CHE È PRESUPPOSTO DEI NUOVI TRAGUARDI

¬ con grande vantaggio nel senso che c’è una riduzione del trauma chirurgico toracico. Adesso poi si sta affiancando quella che potrebbe essere chiamata la terza generazione che è quella che prevede l’impiego della robotica per alcuni tipi di interventi cardiochirurgici».

Quanti sono gli specializzandi che intraprendono questa strada? «C’è stata una flessione negli ultimi anni, che ha riguardato il numero delle domande perché l’offerta è sempre stata di circa 50 contratti di lavoro su tutto il territorio nazionale. Questa forbice si è richiusa nel senso che fino a cinque anni fa per ogni posto c’erano

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tre aspiranti, adesso capita che per ogni posto c’è un solo aspirante. Questo significa che ora la specializzazione cardiochirurgica sta attraversando una fase di stabilizzazione pur avendo dei fasci di innovazione tecnologica straordinari. Questo soprattutto in rapporto alla consapevolezza che si tramanda di generazione in generazione che fare il cardiochirurgo è un lavoro molto impegnativo anche sul piano fisico oltre che sul piano psichico e volerlo fare, come è giusto farlo, con passione e dedizione diventa assolutamente prioritario rispetto ad altri aspetti della vita, familiari e alla possibilità di coltivare hobby. Diventa un impegno quasi totalizzante».


Lorenzo Menicanti • CARDIOCHIRURGIA

Un contributo tutto italiano Più di 1.500 sono i pazienti che dal 1988 a oggi hanno ottenuto vantaggi da un particolare intervento cardiochirurgico studiato e perfezionato in Italia, la cui importanza è stata da tempo riconosciuta anche in America. Lorenzo Menicanti spiega in cosa consiste di Nicolò Mulas Marcello

è una tecnica di intervento cardiochirurgico che rappresenta un vanto italiano, il cui apporto alla scienza del settore è riconosciuto a livello internazionale. Si tratta del rimodellamento del ventricolo sinistro, tecnica di cui il professor Lorenzo Menicanti e la sua equipe sono considerati leader mondiali: «la validità di questa procedura e questo intervento in alcuni casi molto selezionati viene considerato una reale alternativa al trapianto».

C’ Lorenzo Menicanti, primario di cardiochirurgia all’Irccs Policlinico San Donato di Milano

IL NOSTRO CONTRIBUTO È STATO QUELLO DI DEFINIRE ED ALLARGARE LE INDICAZIONI, DI RENDERE LA TECNICA MOLTO PIÙ STANDARDIZZATA

In cosa consiste esattamente questa tecnica? «Nel 30% degli infarti cardiaci il ventricolo sinistro a causa della cicatrice che sostituisce le cellule cardiache morte aumenta in modo importante il suo volume. Questo evento determina una diminuzione nella forza contrattile del cuore con conseguenze negative. Compare tutta una serie di sintomi, come l’affaticamento, la mancanza di fiato che sono tipici dello scompenso cardiaco. Lo scopo dell’intervento di cui stiamo parlando è quello di escludere, di asportare la cicatrice per fare si che il cuore si ritrovi ad avere un volume praticamente normale. In questo modo la parte del ventricolo che si contrae si ritrova a funzionare molto meglio dal momento che il lavoro che deve esprimere è minore perché minore è il volume della cavità. Sempre quando si

esegue questo intervento se vi sono coronarie non perfettamente funzionanti viene eseguito anche un by-pass aorto-coronarico». Da quanto tempo effettua questo tipo di operazione e su quanti pazienti è intervenuto? «Questi tipi di intervento di riduzione del volume ventricolare sono entrati nella pratica clinica da molti anni. Il nostro contributo è stato quello di definire e allargare le indicazioni, di rendere la tecnica molto più standardizzata in modo che sia applicabile in maniera relativamente semplice anche da chi non ha ancora accumulato una grande esperienza in questo campo. L’aspetto sostanziale di questo intervento è il corretto studio dei pazienti in modo che sia applicato là dove sia veramente utile e quindi nel caso in cui abbiamo i vantaggi maggiori. Abbiamo iniziato a eseguire in modo sistematico questo intervento nel nostro ospedale, l’Irccs Policlinico San Donato, a partire dal 1988. Poco più di 1.500 pazienti sono stati trattati in questi anni e questa esperienza è considerata una delle più consistenti a livello mondiale». Quali sono i benefici di questo tipo di tecnica rispetto alle terapie a base di farmaci e al semplice bypass? «In pazienti così gravi come quelli che stiamo descrivendo non vi è competi- ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CARDIOCHIRURGIA • Lorenzo Menicanti

POCO PIÙ DI 1.500 PAZIENTI SONO STATI TRATTATI IN QUESTI ANNI E QUESTA ESPERIENZA È CONSIDERATA UNA DELLE PIÙ CONSISTENTI A LIVELLO MONDIALE ¬ zione tra vari trattamenti possibili, come le dicevo prima è fondamentale uno studio accurato di ogni singolo paziente per capire quale sia il trattamento che produca il miglior risultato con un rischio minore. È evidente che interventi più complessi come l’intervento di rimodellamento sono indicati quando altri mezzi terapeutici più semplici non hanno raggiunto il risultato necessario. Bisogna poi dire che il rimodellamento viene praticamente sempre associato al by-pass aorto-coronarico e a una corretta terapia medica in modo da ottimizzare il risultato». Anche gli americani si sono resi conto dell’importanza di questa tecnica. Ora l’obiettivo è standardizzarla. Quali sono i prossimi passi? «I grandi centri americani come la Cleveland Clinic, la John Hopkins, la Mayo Clinic e molti altri eseguono questo intervento in modo routinario, abbiamo avuto il grande piacere e

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onore di ospitare nelle nostre sale operatorie i chirurghi di queste grandi istituzioni che hanno preso parte ai corsi che teniamo su questo argomento. Come le dicevo la standardizzazione dell’intervento ormai è acquisita, forse per alcuni l’indicazione corretta è ancora in fase di definizione. Negli Stati Uniti poi vi è un grosso problema di tipo assicurativo. Non tutte le assicurazioni sono disposte a pagare per questo tipo di intervento che nel loro sistema ha un rimborso differente da quello di altri interventi, soprattutto ora che negli Stati Uniti è in atto un grande sforzo per contenere le spese. In Europa la situazione è completamente differente, le società scientifiche cardiologiche e cardiochirurgiche riconoscono la validità di questa procedura e questo intervento non è considerato più costoso di altri, non solo, ma in alcuni casi molto selezionati viene considerato una reale alternativa al trapianto».



EMATOLOGIA • Sante Tura

I farmaci intelligenti contro la leucemia L’ematologia: quarant’anni fa diventava una specialità autonoma. Ricerche e successi, raccontati dal professor Sante Tura che, in particolare, illustra la nuova terapia per combattere le sindromi mielodisplastiche di Nike Giurlani

rano gli anni 70 quando un gruppo di medici con, in prima linea, il professor Sante Tura, riuscirono a vincere una battaglia importante: separare l’ematologia dalla medicina interna e renderla una specialità autonoma. Da quel momento sono stati raggiunti molti successi come, per esempio, rendere il linfoma di Hodgkin una malattia guaribile. Ma la ricerca negli anni ha raggiunto risultati straordinari anche per quanto riguarda le sindromi mielodisplastiche, cioè «una malattia del midollo osseo che può definirsi una pre-leucemia acuta» spiega l’esperto. In questo campo «la terapia ha subito una radicale inversione di tendenza: da terapia di supporto a terapia attiva, con prolungamento della sopravvivenza e raggiungimento dell’indipendenza trasfusionale» mette in evidenza il professor Tura. Un nuovo importante contributo alle terapie è stato apportato dai farmaci intelligenti grazie ai quali «si potranno attuare delle terapie personalizzate e capaci di distruggere le cellule tumorali senza coinvolgere i tessuti sani» conclude l’ematologo.

E Professor Sante Tura, esperto di ematologia all'Istituto di Ematologia e Oncologia Medica "Lorenzo e Ariosto Seràgnoli" del Policlinico S. Orsola – Malpighi di Bologna e, inoltre, presidente Ail-Emilia Romagna

I tumori del sangue (leucemie, linfomi, mielomi) sono in costante incremento, tuttavia non mancano segnali fortemente incoraggianti: oggi la percentuale di guarigione per queste neoplasie è la maggiore dell’ambito oncologico. Come si è arrivati a questi risultati? 50

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«I tumori del sangue sono più sensibili ai farmaci rispetto ai tumori solidi. È così che per gli oncologi, è importante bloccare il tumore attraverso un intervento chirurgico, mentre per gli ematologi è sufficiente raggiungere il tumore attraverso una chemioterapia. Inoltre è più semplice controllare lo stato di salute del sangue, anche più volte al giorno, grazie a prelievi venosi o nel caso del midollo osseo attraverso biopsie. E, infine, possiamo avvalerci di una tecnologia in grado di studiare in maniera dettagliata le anomalie del Dna delle cellule tumorali». Possiamo parlare del tramonto della chemioterapia “convenzionale”? «Questo tipo di terapia ha ricoperto un ruolo fondamentale nella lotta ai tumori. Possiamo infatti vantare la guarigione di circa il 30 % dei pazienti affetti da leucemie acute che nel caso dei bambini arriva anche all’80 %, il 70% dei linfomi di Hodgkin e, inoltre, il 50 % dei linfomi non Hodgkin. Questo tipo di terapia è però molto tossica e non tutti i pazienti reagiscono allo stesso modo. Studiando la leucemia mieloide cronica a livello di biologia molecolare le modalità di trasformazione delle cellule normali in cellule leucemiche ed è stato possibile individuare una terapia in grado di bloccare la leucemizzazione delle cellule normali. Questo tipo di terapia praticata oggi viene utilizzata dal 2000 e, ad oggi, oltre il 90% dei pazienti, grazie a queste compresse, che ven-


Sante Tura • EMATOLOGIA

INCIDENZA COMPLESSIVA DELLE LEUCEMIE IN ITALIA Maschi Femmine LEUCEMIE ACUTE Leucemie Linfoidi Acute M/F Leucemie Mieloidi Acute M/F LA promielocitiche

10.6 8.2 casi x 100.000 abitanti x anno circa 1.3 x 100.000 ab/anno 1.1 circa 3.3 x 100.000 ab/anno 1.0 circa il 10% di tutte le Leucemie Mieloidi Acute

LEUCEMIE CRONICHE Leucemia Linfoide Cronica circa 3.6 x 100.000 ab/anno M/F 1.2 Leucemia Mieloide Cronica circa 1.8 x 100.000 ab/anno M/F 1.2 LINFOMI NON HODGKIN 15.9 casi/100.000 ab./anno nei maschi 10.9 casi/100.000 ab./anno nelle femmine Sulla base dei dati dell’ International Lymphoma Study Group il 30.6% dei linfomi non Hodgkin (LNH) è rappresentato dal LNH diffuso a grandi cellule, seguono in ordine di frequenza il LNH follicolare (22.1%), il LNH della zona marginale (7.6%), il LNH a cellule T periferiche (7.0%), la forma a piccoli linfociti-LLC (6.7%), il LNH mantellare (6.0%), la forma a grandi cellule B primitivo del mediastino (2.4%), il LNH anaplastico a grandi cellule T (2.4%), il LNH B-Burkitt type (2.1%), e con frequenze minori le altre forme (3). Linfoma di Hodgkin 5.4 casi x 100.000 abitanti/anno Mieloma Multiplo 5.1 casi x 100.000 abitanti/anno Fonte: Ail Milano, dati aggiornati al 2006

LE NUOVE TERAPIE HANNO PUNTATO A OTTIMIZZARE LE TRASFUSIONI, PERCHÉ QUESTI SOGGETTI ERANO O NE DIVENTAVANO, NEL CORSO DELLA MALATTIA, COMPLETAMENTE DIPENDENTI gono assunte una volta giorno, non hanno più dato cenni di malattia. Non possono, però, essere considerati dei soggetti guariti completamente perché conservano traccia della malattia a livello molecolare, il che, però, non implica delle conseguenze fisiche e possono condurre una vita normale». Qual è l’importanza dei farmaci intelligenti? «Si potranno attuare delle terapie personalizzate e capaci di distruggere le cellule tumorali senza coinvolgere i tessuti sani». Che significa avere una sindrome

mielodisplastica? «Si tratta di una malattia del midollo osseo che può definirsi una pre-leucemia acuta, una patologia che spesso non risponde a tutti gli attributi tipici della leucemia, ma che nel decorso della malattia diventa tale. È una sindrome tipica dell’anziano e per questo è spesso associata al diabete o a bronchite cronica che interrompono la vita del paziente prima che egli possa assistere all’evolversi della mielodisplasia in leucemia acuta». Quali sono le cause che generano questa sindrome? «Sono quelle delle leucemie acute, e,

quindi, quelle da esposizione alle radiazioni a infezioni virali, ai pesticidi e altri noti e meno noti. Ma, in particolare, essendo una patologia dell’individuo anziano, sono le tante lesioni del genoma che, anno dopo anno, si accumulano e portano alla displasia, cioè all’alterazione della produzione, sia a livello funzionale che quantitativo, dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine». Come vengono combattute le sindromi mielodisplastiche ? «Fino al 2003 gli ematologi potevano incidere sulla prognosi soltanto con il trapianto del midollo osseo. Questo ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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EMATOLOGIA • Sante Tura

LENALIDOMIDE: IL FARMACO CHE HA RIVOLUZIONATO LE TERAPIE IN CAMPO EMATOLOGICO agenzia italiana del farmaco “Commissione consultiva tecnico scientifica” ha inserito il 31 ottobre 2008 il medicinale “lenalidomide” nell’elenco dei farmaci erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale. Commercializzata con il nome Revlimid, la lenalidomide è un agente immunomodulante, che interferisce sull’attività del sistema immunitario e il suo utilizzo blocca lo sviluppo delle cellule tumorali, inibisce l’angiogenesi (la crescita dei vasi sanguigni) e stimola anche particolari cellule del sistema immunitario ad attaccare le cellule tumorali. Questo medicinale è risultato efficace per il trattamento dei pazienti anemici trasfusione-dipendenti, con sindrome mielodisplastica a rischio basso o intermedio-1, portatori di delezione 5q- associata o meno ad altre anomalie cromosomiche. Nel mieloma multiplo, che è una malattia ema-

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tologica a carattere maligno, caratterizzata dall'abnorme proliferazione delle plasmacellule all'interno del midollo osseo, la lenalidomide, rispetto alla molecola sua progenitrice (talidomide), è 50 mila volte più efficace nell’inibire il TNF-α e presenta una minor incidenza di effetti collaterali. In uno studio clinico di fase III, è stata dimostrata la superiorità di un'associazione lenalidomidedesametazone rispetto al desametasone usato da solo, che rappresentava fino a pochi anni fa la terapia di scelta nel mieloma. La lenalidomide si è rivelata, molto efficace soprattutto nei pazienti con sindrome mielodisplasica classificata a basso rischio o a rischio intermedio-1 che presentavano una delezione 5q associata o meno ad altre anomalie citogenetiche. In uno studio su pazienti di questa categoria, trattati con sola lenalidomide, si è ottenuto un miglioramento dell'emopoiesi e una

terapia presuppone però, la disponibilità di un donatore e, soprattutto, questi tipi di interventi hanno generalmente esito positivo se eseguiti su soggetti giovani. Quindi, erano veramente pochi i pazienti che potevano essere sottoposti al trapianto. Altro aspetto su cui abbiamo puntato è stato quello di cercare di ottimizzare le trasfusioni, perché questi soggetti erano o diventavano nel corso della malattia completamente dipendenti dalle trasfusioni, con una frequenza di circa quattro volte al mese». Come si è evoluta la terapia? «Prima di tutto l’ormone che stimola la produzione dei globuli rossi ha miglio-

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minor necessità di ricorso alla terapia emotrasfusionale. Nel piano terapeutico la dose orale raccomandata è di 10 mg/die somministrata in modo continuativo o, in alternativa, 10 mg/die nei giorni 121 di cicli della durata di 28 giorni ciascuno. È importante sostenere il trattamento per un periodo minimo di almeno 4 mesi al fine di poter valutare la risposta del soggetto malato. Nei pazienti con evidenza di risposta (completa, parziale) il trattamento verrà continuato alla stessa dose o a dose ridotta (5 mg/die, o 5 mg a giorni alterni in base alla tolleranza) fino a evidenza di progressione della malattia.

rato la qualità della vita di questi pazienti senza prolungarla. Tre le novità sostanziali: un farmaco citotossico la 5Azacitidina e un immunomodulante, la lenalidomide, che non è molto tossico, ed è, inoltre, particolarmente efficace nei pazienti caratterizzati dalla sindrome 5q-, e, infine, un nuovo chelante del ferro. A questo proposito va ricordato che i pazienti trasfusione-dipendenti sono destinati ad accumulare il ferro contenuto nei globuli rossi trasfusi. Accumulo di ferro significa patologia epatica e cardiaca di particolare gravità capaci di influenzare la durata della vita. L’uso appropriato del chelante del ferro previene queste severe complicanze delle mielodisplasie».



EMATOLOGIA • Franco Mandelli

Fare rete dà forza alla ricerca «Migliorare non solo la qualità delle cure, ma anche quella della vita dei nostri malati». Questo l’obiettivo di Gimema che da quasi trent’anni porta avanti studi e ricerche in merito alle malattie ematologiche dell’adulto, come illustra il professore Franco Mandelli di Nike Giurlani

romuovere, progettare e coordinare lo svolgimento di ricerche cliniche, in Italia e all’estero». Questo l’obiettivo di Gimema, Gruppo italiano malattie ematologiche dell’adulto, come spiega il professore Franco Mandelli, ideatore del gruppo. L’adesione all’organizzazione da parte dei principali centri di ematologia italiani ha consentito la crescita esponenziale della rete collaborativa e l’estensione degli studi e delle ricerche in questo ambito. «Un grazie va in particolare all’Ail – prosegue – che sostiene il centro, la nostra causa e le nostre ricerche». Infatti dal 2005 l’Ail ha deliberato di supportare istituzionalmente la Fondazione Gimema, approvando l’erogazione annuale di un finanziamento in grado di coprire quasi interamente le uscite del gruppo. Inoltre, sempre grazie all’Ail è stata finanziata la realizzazione di una sede moderna ed efficiente per il Centro di Gestione delle sperimentazioni cliniche (“Trial Office”) del Gimema.

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Il Gruppo italiano malattie ematologiche dell’adulto è nato grazie a una sua iniziativa nel 1982. Perché ha sentito l’esigenza di creare questa realtà? «In accordo con altri ematologi, in particolare dell’Italia centro-meridionale, ci siamo resi conto che lavorando da soli non riuscivamo a ottenere risultati significativi perché un solo centro non aveva a disposizione abbastanza 54

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pazienti per proseguire con le indagini e le ricerche. Trent’anni fa quindi venne creato Gimema, che riuniva diversi centri, e il nostro obiettivo era quello di pervenire a una casistica più ampia di pazienti affetti da leucemia acuta per portare così avanti indagini più approfondite, ma anche avere la possibilità di confrontarci tutti insieme per decidere quali protocolli di cura adottare per i nostri malati». Qual è l’importanza di utilizzare protocolli condivisi? «Questi protocolli comuni hanno avuto fin dall’inizio un pregio fondamentale: garantire al malato che il protocollo con cui veniva curato era condiviso da tutti i centri italiani che facevano parte del gruppo. Inoltre, da quel momento, sono diminuiti nettamente “i viaggi della speranza” dei malati residenti al Sud che volevano essere curati nei centri più grandi e conosciuti del Nord. Nelle riunioni non solo discutevamo sulle nuove cure da attuare per migliorare i risultati, ma grazie al confronto e allo scambio di idee e di esperienze si valutavano insieme le soluzioni da intraprendere. Negli anni poi sono stati aggregati nuovi centri e oggi possiamo vantare la presenza di ben 130 realtà». Recentemente sono stati ufficialmente costituiti gruppi di lavoro in cui i massimi esperti di ogni settore si confrontano regolarmente per va-

In questa pagina, dall’alto, il professore Franco Mandelli, un momento della ricerca nella sede di Gimema e uno studio inerente la leucemia mieloide cronica


Franco Mandelli • EMATOLOGIA

PER LE NOSTRE RICERCHE, PER I RISULTATI OTTENUTI E PER I PROTOCOLLI REALIZZATI SIAMO APPREZZATI E STIMATI IN TUTTO IL MONDO

lutare nuove possibilità terapeutiche. Quali risultati ritiene particolarmente importanti? «Gimema è nato per combattere le leucemie acute. Successivamente, però, abbiamo unito anche altri gruppi cooperativi che stanno portando avanti delle ricerche in merito alla leucemie mieloide cronica, al mieloma multiplo, alle malattie linfoproliferative, come la leucemia linfatica cronica, e alle malattie mieloproliferative. Ora siamo tutti riuniti sotto la comune denominazione di Gimema che, nel frattempo, è diventato il gruppo italiano più noto nel mondo. Per le ricerche che abbiamo promosso, per i risultati ottenuti e per i protocolli realizzati siamo apprezzati e stimati in tutto il mondo». Gimema porta avanti anche sinergie con le realtà internazionali? «Da anni lavoriamo con il gruppo europeo Eortc, all’interno del quale

opera un importante gruppo che studia le terapie inerenti i tumori del sangue. Insieme a questa realtà abbiamo portato avanti dei protocolli comuni. Inoltre, collaboriamo con un gruppo spagnolo, uno tedesco e uno inglese. La strada aperta tanti anni fa con Gimema ci ha portato, quindi, a raggiungere dei risultati forse inaspettati, ma che ci rendono molto orgogliosi». Progetti per il futuro? «Migliorare non solo la qualità delle cure, ma anche la qualità della vita dei nostri malati. Una volta ci preoccupavamo solo di tenere in vita i nostri pazienti. Oggi, anche alla luce dei risultati ottenuti, è importante garantire loro standard di vita migliori. È per questo motivo, per esempio, che abbiamo creato dei gruppi di ascolto dove i malati s’incontrano e hanno modo di confrontarsi fra di loro e con i medici». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CHIRURGIA PLASTICA • Marco Gasparotti

Liposuzione, scrigno di cellule staminali Considerato materiale di scarto, ora il grasso proveniente da liposuzione si scopre ricco di staminali che, crioconservate, potenzieranno «la messa a punto di futuri trattamenti estetici e terapeutici». Lo spiega il chirurgo plastico Marco Gasparotti di Corrado Prestipino

ono ad alto tasso di staminali le cellule del grasso scartato da liposuzione. Una concentrazione 500 volte superiore a quella del midollo osseo. Una miniera di cellule che ora può essere crioconservata per essere utilizzata in futuro durante interventi di chirurgia estetica e rigenerativa, ma non solo. A introdurre l'innovazione, per la prima volta in Europa, è Cryo-Lip, un progetto della banca di staminali belga Cryo-Save che permette di raccogliere, lavorare e conservare una miscela ricca di cellule staminali adulte provenienti dal grasso di una liposuzione. Materiale di norma buttato via. A effettuare il prelievo, chirurghi plastici esperti in liposuzione e formati ad hoc. Come Marco Gasparotti, specialista in Chirurgia plastica e ricostruttiva alla clinica Ars Medica di Roma e docente di Chirurgia estetica all’Università di Siena. Un pioniere del progetto che già utilizza il grasso prelevato dalle pazienti per “riempire” e rivitalizzare alcune parti del loro corpo. Oltretutto, «con risultati importanti», sottolinea il mago di molte bellezze. «Sono convinto che dall’impiego di materiale selezionato e ricco di staminali adulte si possano ottenere ulteriori progressi in termini di ringiovanimento dell'aspetto della pelle. E che le cellule staminali di derivazione adiposa svolgeranno un ruolo importante sia nel futuro della medicina rigenerativa che in quello della chirurgia estetica». La crio-

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Marco Gasparotti, specialista in Chirurgia plastica e ricostruttiva alla clinica Ars Medica di Roma e docente di Chirurgia estetica all’Università di Siena

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conservazione di queste cellule da liposuzione, fino a ieri scartate, «potenzierà la messa a punto di futuri trattamenti estetici e terapeutici». Ma come funziona questo servizio? «In pratica, la banca belga fornirà ai chirurghi i kit per il prelievo e la conservazione temporanea del materiale portato da un corriere fino in laboratorio e qui sottoposto ad analisi e test per il controllo di qualità. Dal prelievo allo stoccaggio devono passare al massimo 48 ore. Nella banca, i tecnici condurranno analisi per testare la qualità e la quantità di cellule. Controlli eseguiti anche a distanza di tempo per garantire che tutto proceda bene. Un certificato con tanto di foto al microscopio delle cellule bambine garantirà la qualità del campione stoccato in taniche da 900 “pezzi”, ciascuno in azoto liquido a -180°. Il materiale viene monitorato e sottoposto a test regolari per poter essere consegnato, dietro richiesta dei proprietari, entro 24 ore. Ed essere così utilizzato per futuri scopi terapeutici, ma anche per trattamenti mirati anti età». Oltre alle staminali da liposuzione, quali altre nuove frontiere si prepara a varcare la chirurgia estetica? «Dal punto di vista medico, si stanno perfezionando tecniche che danno risultati eccezionali perché coniugano una sempre minore invasività e maggiore na-


Marco Gasparotti • CHIRURGIA PLASTICA

LE CELLULE STAMINALI DI DERIVAZIONE ADIPOSA SVOLGERANNO UN RUOLO IMPORTANTE SIA NEL FUTURO DELLA MEDICINA RIGENERATIVA CHE IN QUELLO DELLA CHIRURGIA ESTETICA turalezza a materiali sempre più compatibili con il nostro organismo. Da quello umano, invece, la cosa più importante rimane il buon senso, elemento fondamentale, sia del chirurgo che del paziente». A proposito di buon senso, perché in giro si vedono eccessi? «La chirurgia estetica ci aiuta a vivere meglio nel momento in cui, eliminando un difetto fisico o comunque migliorandoci, riesce a farci ritrovare l’autostima, a farci sentire meglio con noi stessi e con gli altri. La chirurgia estetica ben fatta rifugge dagli eccessi, non si vede e non stravolge i lineamenti. Un bravo chirurgo estetico deve fare dei ritocchi invisibili, il più naturale possibili». In vista dell’estate, quali gli interventi più richiesti? «Sicuramente quelli di rimodellamento del profilo corporeo: liposcultura, addominolastica, mastoplastica additiva. Come pure il lifting dell’interno coscia e delle braccia e il lipofilling dei glutei e del seno. Molto richiesti anche interventi

combinati: lipo e seno, seno e addome, lipo fianchi e ginecomastia per gli uomini».

Sopra, esempio di cellule staminali mammarie

Di solito si associa la chirurgia estetica alla donna. E gli uomini? «L’uomo del terzo Millennio ci tiene moltissimo a sentirsi in ordine ormai quasi al pari della donna. Sono da sempre molto richiesti interventi che variano a seconda della fascia di età. I ragazzi di 20-25 anni vogliono avere mento e zigomi da duro, ma anche il naso dei modelli efebici che sfilano sulle passerelle. Sta a noi chirurghi, comunque, non assecondare tutte le richieste, ma valutare come e in che modo intervenire senza mai stravolgere lineamenti e personalità. E i trentenni cosa domandano? «Soprattutto di rimodellare il corpo: liposcultura ai fianchi e ginecomastia. Resistenti anche a dieta e palestra, le ‘maniglie dell’amore’ si possono eliminare definitivamente con una liposcultura localizzata ai fianchi. Sono sufficienti anestesia locale, con un minimo di sedazione e un day hospital in ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CHIRURGIA PLASTICA • Marco Gasparotti

GLI ULTIMI RITOCCHI IN VISTA DELL’ESTATE Per i ritardatari, rimangono solo le punturine di acido ialuronico o di tossina botulinica per «mettere a punto le rughettine». Con le prime, «che non servono a riempire le rughe - ricorda il chirurgo plastico, Paolo Santanchè -, si rivitalizzano i tessuti disidratati dal sole, distendendoli e mantenendoli nelle condizioni migliori per affrontare il sole e il caldo». Con il botulino, invece, «si evita quel corrugamento della pelle troppo accentuato» che lascia traccia nella riga bianca dentro la ruga. Per i previdenti, invece, quelli cioè che si sono mossi per tempo, con largo anticipo sulla fatidica prova costume, c’è il bi-

sturi. Ovvero liposuzione e mastoplastica, le due ‘cose’ che «non si riescono a nascondere» in alcun modo. Tanto meno con il due pezzi. «Per questi interventi ci si deve pensare almeno due mesi e mezzo o tre mesi prima perché agire in fretta non va bene, la sicurezza – scandisce Santanché – si fa costruendola prima dell’intervento, facendo tutti i controlli. Insomma pianificando». Infine ci sono gli indecisi che, scavallata l’estate, vanno sul tavolo operatorio in autunno. Ovvero «dopo essersi accorti dei problemi avuti con il costume in estate». Bisturi senza riposo. Oggi la chirurgia estetica, osserva l’esperto, «è molto meno stagionale rispetto

¬ clinica. Dopo una liposcultura ben fatta, le adiposità localizzate non si riformeranno mai più. Il quarantenne, invece, vuole eliminare le borse sotto gli occhi o sollevare le palpebre superiori un po’ scese, ringiovanendo così lo sguardo. Blefaroplastica inferiore e superiore associate spesso al sollevamento del sopracciglio. E poi infiltrazioni di acido ialurionico per ridare turgore a viso e zigomi e per riempire qualche ruga, botox per spianare le rughe frontali e le zampe di gallina intorno agli occhi. Tutto senza esagerare. Infine, il 50enne vuole un lifting o un’addominoplastica». Mastoplastica additiva, sempre più si ricorre al lipofilling con staminali. «Il lipofilling con cellule staminali è una tecnica nuovissima, ma più che consolidata perché praticata da un decennio con risultati eccellenti e duraturi. L’unica differenza, rispetto al passato, risiede nel 60

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a vent’anni fa. Una volta c’erano gli interventi che si facevano prima dell’estate, adesso ormai, essendo la chirurgia estetica, molto più bene di consumo viene gestita a seconda degli impegni lavorativi o familiari».

fatto che allora non si sapeva ancora che il tessuto adiposo autologo trapiantato, in realtà, è una fonte ricchissima di cellule staminali. Per questo è indicato a tutte le pazienti; in genere più sono giovani e migliore è la qualità delle staminali impiantate. Ma è appropriato anche per le pazienti mastectomizzate dopo un tumore al seno e che abbiano fatto terapia radiante. Perché il tessuto irradiato talvolta può dare problemi con gli impianti protesici. L’aumento che si ottiene con il lipofilling è di solito di una taglia ed è necessario che la paziente venga sottoposta, contestualmente, ad una liposuzione per il prelievo del grasso e delle cellule staminali. Bisogna, dunque, avere del tessuto adiposo da prelevare». Rispetto alle protesi, il lipofilling che atout dà? «Il vantaggio maggiore è che si trapianta

Paolo Santanchè, chirurgo plastico


Marco Gasparotti • CHIRURGIA PLASTICA

I CHIRURGHI PLASTICI ITALIANI HANNO UNA OTTIMA FORMAZIONE. PURTROPPO IN ITALIA NON ESISTE UNA LEGGE CHE VIETI A MEDICI DI ALTRE SPECIALITÀ DI FARE INTERVENTI DI CHIRURGIA ESTETICA

tessuto autologo, dunque nessun problema di rigetto. Il risultato poi è molto naturale. Il problema sostanziale è che la paziente deve avere del grasso da prelevare. È evidente che a una ragazza magrissima non si può fare. Nel tempo una parte del grasso viene riassorbito». Per contro, le protesi? «Si ottengono ingrandimenti anche di due o più taglie. L’intervento si esegue anche su pazienti magrissime. Inoltre le protesi in gel coesivo di silicone di ultimissima generazione, oltre ad avere tutte le forme e misure possibili, non vanno

più cambiate come accadeva anni fa. A parte rarissimi casi di incapsulamento. Non danno problemi per l’allattamento né per esami ecografici e mammografici perché le protesi sono messe al di sotto della ghiandola mammaria». Chiudiamo con la formazione: occorre premere di più? «I chirurghi plastici italiani hanno un’ottima formazione. Purtroppo In Italia non esiste una legge che vieti a medici di altre specialità di fare interventi di chirurgia estetica. È dunque a loro che, semmai, andrebbe fatta formazione». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CHIRURGIA PLASTICA • Alessandro Meluzzi

Il volto, identità dell’anima Una persona è il suo volto. È «l’estrinsecazione stessa delle nostre emozioni», avverte Alessandro Meluzzi, psichiatra. In un trapianto «indossare il volto di un altro scuote le radici stesse della persona» di Flavia Marazzi

iso e identità, un legame biunivoco. «Il volto è, in qualche modo, la persona». Lo conferma anche l’etimologia. «Persona deriva dal termine greco prósōpon, la maschera teatrale che indicava l’identità del personaggio», osserva lo psichiatra Alessandro Meluzzi. «Il volto non è soltanto la metafora, ma l’estrinsecazione stessa delle nostre emozioni. Nel nostro cervello ci sono delle aree sovradimensionate che “riconoscono” il significato di un volto». Il bisturi affonda qui. Sia quando deve ricostruire un volto gravemente danneggiato sia quando lo deve anche solo migliorare. «Individuare un volto, dargli un valore è così connaturato in noi – rileva lo psichiatra – che il volto diventa fondamentale. Perdere la faccia è una metafora con una connotazione morale». Il viso sfigurato e mostruoso «annienta la capacità relazionale, l’identità soprattutto sul piano comunicativo. C’è l’impossibi-

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Alessandro Meluzzi, psichiatra

lità di guardarsi allo specchio. Per cui la ricostruzione del volto, dopo una grave malattia, ha un’importanza essenziale». E a fronte di un trapianto come accaduto in Spagna, come cambia questa logica? «Indossare il volto di un altro scuote le radici stesse della persona e rappresenta qualcosa di misterioso e inquietante. Ed essendo medicina eroica, va affrontato come tutte quelle cose in cui da una parte c’è in gioco la vita e dall’altra il nulla. Siamo in un confine estremo». Lo stesso vale per la chirurgia estetica? «Intanto occorre distinguere tra gli interventi estetici e quelli in cui si correggono delle alterazioni gravi rispetto ad un pregiudizio di bruttezza. Come ad esempio un naso particolarmente brutto rispetto a canoni algebrici o matematici. La nostra idea di bellezza è iscritta in qualche modo nelle profondità misteriose dell’animo umano. Non è, quindi, un caso che i volti considerati belli hanno proporzioni numeriche e specificità che rimandano ad una identità singolare. Ecco perché di solito le bellezze estreme sono quelle in cui alcune ortogonali simmetriche incontrano delle particolarità che marcano quello che altrimenti sarebbe soltanto un volto costruito al computer. Le vere bellezze non sono costruibili artificialmente». E con i difetti come si convive? «Quando si decide di intervenire su un difetto grave, va tenuto conto che il risultato ottenuto è sempre diverso da quello che si attendeva. Perché anche i difetti s’inseriscono in un tratto precostituito.

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Alessandro Meluzzi • CHIRURGIA PLASTICA

C’È UNA PREZIOSITÀ DELL’INDIVIDUO CHE FUNZIONA SULLA BASE DI UN’ARMONIA TRA INTERIORITÀ E IMMAGINE DI SÉ. RICONCILIARSI CON SE STESSI PREVIENE MOLTI METRI DI CUCITURE Qualche volta bisogna, quindi, protendere non per correzioni totali, ma leggere. Se, ad esempio, un naso era aquilino, è sbagliato farlo diventare alla francese perché si inserirà in un volto fatto per un naso aquilino. Meglio farlo diventare un naso lievemente aquilino. Ciò implica che il paziente, in una qualche misura, sarà insoddisfatto: ottenuta le correzione si troverà di fronte sempre a qualcosa di diverso rispetto alle aspettative. Non è possibile plasmare del tutto la natura». Questo sembra non accadere per chi, invece, entra in sala per lifting estetici. «Sono altri tipi di intervento, oserei dire più leziosi: vogliono correggere gli effetti del tempo o introdurre elementi di perfezione. Qui passiamo dal dominio della scienza delle proporzioni all’arte». Tornando al trapianto di volto, come si gestisce la fase postoperatoria? «Con un robusto supporto psicologico perché si deve ricomporre un’unica identità. Non si può rischiare di creare una dissociazione: da un parte il chirurgo che maneggia il bisturi e dall’altra lo psicologico che cerca di consolare o di valoriz-

zare il bisturi. Meglio un lavoro di equipe integrato che includa dall’anestesista allo psicologo che agisce come partner prima dopo e durante l’intervento». E l’insoddisfazione da bisturi ‘lezioso’ come la si governa? «Ricordando sempre la libertà della scelta di ha scelto di essere cambiato. Oggi, tra l’altro, le tecniche di imaging consentono, anche con una certa attendibilità, di raffigurare al computer il volto prima e dopo le correzioni. Qui la maestria del chirurgo sta anche nell’ottenere il risultato paragonabile a quello che si era proposto. E’ una miscela di tecnica ed empatia». In vista dell’estate è corsa al ritocco. Questo non rivela una fragilità di chi cerca una propria identità fuori da sé? «Buona parte delle richieste di interventi chirurgici si situano nella fase di passaggio della vita in cui non si riesce ad accettare il cambiamento. Ma che c’è una preziosità dell’individuo che funziona sulla base di un’armonia tra interiorità e immagine di sé. Riconciliarsi con se stessi previene molti metri di cuciture». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA • Luigi Clauser

Un volto nuovo grazie alle staminali Diciotto ore per ricostruire un volto. È successo all’ospedale Sant’Anna di Ferrara, a capo dell’equipe Luigi Clauser, direttore Unità operativa chirurgia cranio maxillo-facciale della struttura, che spiega le nuove frontiere della chirurgia maxillo-facciale di Franco Fontanazzi i tratta un intervento chirurgico eccezionale, perfettamente riuscito, quello compiuto all’Arcispedale Sant’Anna di Ferrara su di un paziente del Marocco. Dove, ricorda Luigi Clauser, direttore dell’Unità operativa di chirurgia cranio maxillo-facciale dell’Azienda ospedaliero-universitaria, «era stato già operato per una malattia dell’ipofisi (adenoma ipofisario)». Complesso, anche da un punto di vista organizzativo, il lavoro in sala dove si sono succeduti chirurghi maxillo-facciale, neurochirurghi, anestesisti e rianimatori, più un folto numero di personale infermieristico. «In un primo tempo – spiega Clauser –, i maxillo-facciali hanno aperto il volto come un libro e lo hanno attraversato con strumenti particolari. Il neurochirurgo ha così potuto asportare la malattia con l’aiuto di un’apparecchiatura sofisticata chiamata neuro navigatore. Infine, il volto è stato ricomposto, lasciando cicatrici appena visibili». In pratica diciotto ore per “smontare e rimontare il volto”. «Una tecnica non comune» che però al Sant’Anna è di casa poiché «negli ultimi anni sono stati eseguiti altri due interventi con buon risultato».

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Luigi Clauser, direttore dell’Unità operativa di chirurgia cranio maxillo-facciale dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Anna di Ferrara

Se guardiamo all’estero, esiste un contraltare del suo centro di chirurgia maxillo-facciale? «Questi interventi chiamati tecnicamente “smontaggio e rimontaggio del volto” sono stati messi a punto a Vicenza negli anni Ottanta dal professor Camillo Curioni che per circa 20 anni è stato il mio

maestro. È da lui che ho appreso le informazioni base di tecnica chirurgica; in 18 anni abbiamo operato 60 pazienti con tecniche diverse di “smontaggio e rimontaggio”. Sempre negli anni 80, un chirurgo spagnolo di Saragoza, Hernandez Altemir ha descritto interventi simili. Altre operazioni di questo tipo vengono eseguite in alcuni centri italiani ed europei. Una delle casistiche più elevate appartiene alla University of Pittsburgh». In Spagna hanno trapiantato un volto, a quando un simile intervento in Italia? «Il trapianto di volto più recente è stato eseguito al Brigham Hospital di Boston. Ed è il settimo in tutto il mondo. Quello di Barcellona è consistito in una sostituzione di circa il 70% del volto. In Italia? Il percorso sarà molto lungo per problematiche etiche, bioetiche e medico-legali. Tecnicamente è invece fattibile in quanto si tratta di tecniche di microchirurgia eseguite anche per altra patologia». Quali le nuove frontiere della chirurgia? «Le nuove frontiere della chirurgia maxillo-facciale e cranio-facciale ricostruttiva sono molteplici. Ad esempio, le metodiche di ricostruzione con l’uso della microchirurgia, l’applicazione di nuove tecnologie, tra cui uno sviluppo importante della neuronavigazione, procedimento che ci permette sempre di conoscere dove siamo, da un punto di vista topografico, nel volto. La chirurgia cranio-facciale per malattie congenite,


Luigi Clauser • CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA

IL TRAPIANTO DI VOLTO IN ITALIA? IL PERCORSO SARÀ MOLTO LUNGO PER PROBLEMATICHE BIOETICHE E MEDICO-LEGALI. TECNICAMENTE È FATTIBILE tumorali, traumatiche è un’altra eccellenza della nostra Unità operativa. Un’altra frontiera non molto lontana è l’impiego delle cellule staminali nelle ricostruzioni anche del volto».

In alto, un’immagine in 3D della prima sostituzione chirurgica di un intero viso che si è svolta all'Ospedale Vall d'Hebron di Barcellona

Il suo centro partecipa al nuovo progetto europeo Facing Faces Institute. Che cosa comporta? «Il progetto “Facing Faces Institute” è una fondazione onlus creata ad Amiens, da Bernard Devauchelle che nel 2005 ha eseguito il primo trapianto parziale di volto all’ormai nota Isabelle Dinoire. Questa fondazione è un progetto europeo che ha come fine non solo il trapianto di volto, ma anche le ricostruzioni facciali complesse. Per Ferrara questo è un nuovo progetto ambizioso. Oltretutto da noi arrivano pazienti da tutta Italia e anche dall’estero. Con una mobilità attiva di circa 47%. Un altro progetto ci vede coinvolti in una mission nell’Est Europa. Infine è in corso uno studio sulla possibile presenza di cellule staminali presenti nel tessuto adiposo prelevato dal paziente e poi usate per ricostruire il volto del paziente stesso. È uno studio in connessione con il Centro di Chirurgia ricostruttiva della New York University». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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Antonio Montone • CHIRURGIA PLASTICA RIGENERATIVA

DEL PROFESSOR ANTONIO MONTONE, MEDICO CHIRURGO, SPECIALISTA IN CHIRURGIA PLASTICA

PIASTRINE E STAMINALI

RIGENERANO I TESSUTI a chirurgia plastica rigenerativa affianca o sostituisce quelle che fino a ieri erano le metodiche della chirurgia plastica tradizionale, sfruttando le caratteristiche di riproducibilità cellulare. In ogni tessuto del corpo, infatti, sono presenti cellule staminali delle quali il nostro tessuto adiposo è particolarmente ricco. Basta quindi estrarle e opportunamente trasferirle (lipostruttura) ove i tessuti mostrano i segni di una ridotta ricrescita legata all’età, a patologie congenite o postraumatiche, per riavviare una rigenerazione tissutale che porterà alla rimodulazione estetica desiderata. Seguendo il metodo lipostrutturale “Celution”, una volta identificata la zona corporea da trattare e disegnatene i confini, si esegue, in anestesia spinale o epidurale, una semplice liposuzione dai siti abituali (addome, fianchi, cosce, ginocchia). Il tessuto adiposo aspirato viene quindi trattato e modulato in idonee apparec-

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chiature, così da fornire un tessuto arricchito delle sue stesse cellule staminali. Il prodotto ottenuto viene poi, con piccole cannule, reintrodotto sotto cute ove necessario e qui, una volta attecchito, darà vita a nuovo tessuto. Ogni zona corporea può essere trattata, fungendo da riempitivo, rimodellante e rivitalizzante per ridurre i danni del tempo e di traumi esteticamente invalidanti. Si potrà ridare tono e lucentezza al viso riducendo rughe e rilassatezza, e un effetto di ringiovanimento al decolleté e dorso mani. Eccellenti risultati si ottengono con il rimodellamento dei glutei e dei genitali esterni. Ma il capitolo più importante lo si sta scrivendo nel rimodellamento e aumento del seno. Anche dopo mastectomia ove spesso le protesi da sole trovano scarsa indicazione e spesso sono fonte di complicazioni, la lipostruttura trova naturale indicazione. Anche i fattori di crescita presenti in gran numero nelle piastrine, vengono

utilizzati come rivitalizzanti e biostimolanti la ricrescita tessutale. Estraendo infatti, dopo un banale prelievo ematico, le piastrine dal nostro sangue, queste vengono concentrate e reintrodotte nei tessuti bisognosi di spinta rigenerativa, da sole o in associazione a cellule staminali adipose. Il PRP quindi, plasma ricco di piastrine, è attualmente considerato il più naturale, più moderno e più sicuro filler biostimolante tissutale, ottenendosi con un prelievo del proprio sangue che trattato poi con opportune apparecchiature si trasforma in pochi minuti in un plasma a elevata concentrazione di piastrine e quindi di fattori di crescita. Il prodotto viene utilizzato per via iniettiva intradermica come biostimolatore o sottodermica come filler rimodulante o infine come gel per la guarigione di ferite e di alcune patologie cutanee. La metodica semplice è comunque sottoposta a specifiche disposizioni medico-legali inerenti la manipolazione di sangue e derivati. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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DERMATOLOGIA • Telangectasie

Intervenire sui capillari Laserterapia e scleroterapia sono usate per il trattamento delle telangectasie degli arti inferiori. Ma non sono del tutto risolutive. «Bisogna evitare i fattori di rischio che rientrano nella quotidianità». Il quadro del professor Sebastiano Pugliese di Eugenia Campo di Costa

o stile di vita, si sa, influenza la salute. E, anche se si è geneticamente portati a contrarre determinate patologie, agendo sulla propria condotta di vita, si possono limitare i danni, se non addirittura evitarli. È il caso ad esempio, di una manifestazione clinica piuttosto diffusa che colpisce di norma gli arti inferiori, la telangectasia, comunemente nota come “capillari degli arti”, che comporta un’alterazione patologica della struttura dei piccoli vasi sanguigni superficiali, i capillari, che tendono a sfiancarsi. «Questa patologia deriva sia da cause endogene che esterne – afferma il professor Sebastiano Pugliese, specialista in Dermatologia e Venereologia -. La causa fondamentale è la predisposizione genetica. In un soggetto predisposto, inoltre, aderiscono fattori di rischio che accentuano la tendenza familiare, incentivandone i sintomi, e sono fattori relativi allo stile di vita, su cui pertanto si può intervenire, giocando d’anticipo sulla comparsa o il peggioramento della malattia».

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Il professor Sebastiano Pugliese, specialista in Dermatologia e Venereologia nel suo studio di Monopoli sebpugl@tin.it

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Quali comportamenti possono favorire la comparsa di telangectasie degli arti inferiori? «I fattori di rischio sono di diversa na-

tura e spaziano dall’obesità al sovraccarico ponderale, spesso determinato anche dalla tipologia di attività lavorativa in cui il soggetto è impegnato. È chiaro, ad esempio, che chi per lavoro è costretto a stare tante ore in piedi è più soggetto a disturbi di circolazione negli arti inferiori, specialmente se il suo dna già ne presenta la tendenza; così anche le gravidanze, quando presentano un carico di peso eccessivo, tendono ad accentuare il problema. Altri fattori che concorrono ad aggravare la predisposizione, possono essere, raramente eventi traumatici, più spesso le terapie ormonali, quindi l’assunzione di contraccettivi, il fumo, l’alimentazione, se favorisce la stipsi o la ritenzione idrica, ma anche alcune tipologie di abbigliamento». Ad esempio? «Vestiti troppo attillati che, magari unitamente a un’attività che obbliga a stare tanto tempo seduti, possono favorire compressioni che rallentano il ritorno venoso e determinano quindi uno sfiancamento dei vasi. Allo stesso modo, portare scarpe troppo basse oppure scarpe con i tacchi troppo alti, può alterare il drenaggio della pompa plantare, facilitando quindi il ristagno


Telangectasie • DERMATOLOGIA

Un esempio di telangectasie, prima e subito dopo il trattamento laser con la tipica "endotelite termica"

LE POSSIBILI TERAPIE SONO QUELLA SCLEROSANTE E IL LASER. IN CERTI CASI, SI PUÒ RICORRERE A ENTRAMBE

del sangue all’interno degli arti inferiori e quindi lo sfiancamento della parete dei vasi superficiali. Ovviamente non si incorre in questo rischio portando questo tipo di scarpe per poche ore, ma se questo comportamento è protratto nel tempo, magari unito a un’attività lavorativa che obbliga a stare in piedi per molte ore tutti i giorni, può senz’altro avere dei riscontri negativi sulla circolazione e, quindi, sulle telangectasie». Le telangectasie interessano di più gli uomini o le donne? «Se dovessimo fare una statistica sulla tipologia di utente che si rivolge ai nostri studi, questa chiaramente risulterebbe per la maggior parte composta di donne, ma probabilmente questa evidente differenza è dovuta al fatto che le donne, più che gli uomini, sono interessate a curare l’inestetismo. Inoltre è anche vero che alcuni fattori di rischio, come l’assunzione di contraccettivi a base di ormoni, l’indossare tacchi alti e indumenti stretti, o la pannicolopatia edemato-fibro-sclerotica, detta comunemente “cellulite”, sono prettamente femminili». Conoscendo le concause si può puntare sulla prevenzione.

«Fermo restando che non si può intervenire sulla componente genetica, è vero che si può lavorare sul modus vivendi. Innanzi tutto consiglierei ai soggetti predisposti, di tenere un regime alimentare ricco di bioflavonoidi e vitamina C, una dieta che non favorisca la stipsi, da abbinare a un’adeguata attività motoria di scarico che favorisca il drenaggio. Naturalmente bisogna evitare il sovraccarico degli arti inferiori, il fumo e gli altri fattori di rischio. Inoltre, è importante non rivolgersi al medico solo quando la situazione è già catastrofica. È meglio trattare i singoli capillari man mano che si formano piuttosto che aspettare che la situazione degeneri e pretendere che il medico risolva il problema, quasi avesse una bacchetta magica». Quali terapie vengono utilizzate per il trattamento delle telangectasie? «Le possibili terapie sono essenzialmente la terapia sclerosante e la terapia laser. Si può ricorrere all’una o all’altra, oppure, in certi casi, a entrambe. La scleroterapia consiste nell’iniettare all’interno del vaso una sostanza chimica che determina un’irritazione, detta endotelite chimica. Provocando l’irritazione all’interno della parete del vaso,

Capillare continuo

Capillare fenestrato

Capillare sinusoide (discontinuo)

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DERMATOLOGIA • Telangectasie

¬ questo va incontro al processo infiam-

FATTORI CHE CONCORRONO AD AGGRAVARE LA PREDISPOSIZIONE GENETICA ALLE TELANGECTASIE SONO LE TERAPIE ORMONALI, IL FUMO, MA ANCHE ALCUNE TIPOLOGIE DI ABBIGLIAMENTO

matorio e quindi a sclerosi. La scleroterapia è indicata nei casi in cui le teleangectasie abbiano un diametro di molto eccedente il diametro più piccolo della siringa attraverso la quale viene iniettato il liquido sclerosante. Quando invece i vasi, anche se sono molteplici, hanno un diametro inferiore rispetto al diametro più piccolo della siringa attraverso la quale iniettare il liquido sclerosante, si ricorre alla laserterapia per via trans dermica, che provoca invece un’endotelite termica. La lunghezza d’onda laser più indicata nel trattamento delle teleangiectasie degli arti inferiori è la 1064 nm (laser Nd:YAG). Oggi inoltre esiste la possibilità di usare il laser anche per via endovasale: mediante microsonde di 200 micron si riesce a effettuare la terapia laser sia sui vasi piccoli che su quelli più grandi». Certi pazienti possono ricorrere a entrambe le metodologie. «Si deve valutare la scelta caso per caso, ma spesso lo stesso paziente può essere sottoposto sia all’una che all’altra terapia, l’importante è che vengano tenuti saldi alcuni concetti base. È fondamen-

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tale, prima di chiudere i vasi superficiali, verificare l’idoneità dei vasi profondi, più grandi, perché se si chiudono i vasi più piccoli e i vasi profondi non funzionano bene, si rischia solo di peggiorare la situazione. Il primo passo è un’attenta valutazione sia clinica che strumentale del circolo venoso profondo e di quello superficiale attraverso un’adeguata valutazione con eco doppler venoso. Inoltre, laddove esistano, bisogna innanzitutto risolvere le varicosità più grandi, quindi via via quelle che interessano le varici o i capillari più piccoli». Le terapie possono essere risolutive? «La telangectasia degli arti inferiori, così come la varicosità, non è una patologia statica, che si risolve con una terapia mirata. È una patologia in divenire che, fermo restando la predisposizione genetica e le concause, quindi se non si prendono dei provvedimenti anche a livello di stile di vita, tende ad accentuarsi con il passare del tempo. Pertanto, mediante terapia laser e scleroterapia, si può risolvere l’episodio, ma non curare definitivamente la malattia».


Telangectasie • DERMATOLOGIA

Alcuni sostengono che, dopo essersi sottoposti a terapia, hanno visto aumentare il numero di capillari. «Questo è un luogo comune da sfatare. Ovviamente può capitare che l’operatore non effettui adeguatamente la metodica e comunque, nonostante il medico operi correttamente, risolvere un dato episodio non preclude la comparsa di altri capillari. È chiaro che migliorando la qualità della vita, agendo sulle abitudini alimentari, sportive, di vestiario, si può rallentare notevolmente negli anni la comparsa di telangectasie. Laserterapia e scleroterapia, tuttavia, restano trattamenti che non agiscono sulle cause reale, ma sui singoli episodi». Il beneficio nel trattamento delle telangectasie è immediato? «I vantaggi vanno verificati, per entrambe le terapie, a lungo termine. Spesso si crede che sottoponendosi a sclerosi o a laser, il vaso si chiuda nell’immediato e quindi non si veda più. Però sia la sclerosi che il laser, attraverso meccanismi diversi, determinano un’infiammazione della parete. Questa infiammazione determina nell’imme-

diato uno spasmo, quindi la chiusura del vaso e a seguire un’infiammazione che evolve in una sclerosi, cioè in un processo di riparazione sclerotica del vaso che quindi scompare. Questi fenomeni dal punto di vista biologico richiedono tempo; in alcuni soggetti un mese, in altri soggetti anche 5/6 mesi, alcune volte un anno. Mediamente una valutazione degli effetti deve essere fatta circa sei mesi dopo il trattamento, o comunque paragonando periodi omogenei, in modo che, per esempio, il caldo della stagione estiva, che naturalmente dilata i vasi, non vada a falsare il risultato». Quali effetti collaterali presenta la terapia? «Nell’immediato si assiste a un arrossamento che si accompagna a un edema, quindi possono persistere per periodi più o meno lunghi delle iperpigmentazioni. È importante non esporsi alle alte temperature, quindi sia al sole, che può dare tra l’altro luogo a macchie, che a qualsiasi altra sorgente di calore. In caso contrario, si vanifica l’intervento perché un vaso chiuso, se esposto ad alte temperature, tende a riaprirsi». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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Elisabetta Perosino • DERMATOLOGIA

MANTENERE UN VISO GIOVANE OGGI È PIÙ FACILE sempre più frequente la richiesta di interventi mirati al riempimento di rughe e volumi del volto nelle cosiddette “lunch session”, sedute che ben si coniugano alla normale vita sociale. Fra i trattamenti che rispondono a questi requisiti i filler sono i più utilizzati. E l’Italia, con più di 150.000 fiale all’anno, è il primo paese in Europa per numero di impianti. Dal collagene, oggi meno utilizzato, alle molecole non riassorbibili, ormai abbandonate a causa dei numerosi e gravi effetti collaterali, l’acido ialuronico è senza dubbio il prodotto più sicuro e più soddisfacente per la vasta gamma di tipologie a disposizione e per la scarsità di effetti collaterali. Negli anni la ricerca si è orientata verso molecole che, oltre ad avere un’azione riempitiva, potessero stimolare la produzione endogena di collagene, avessero cioè un’azione bioristrutturante. Capostipite dei bioristrutturanti è l’acido polilattico, che agisce mediante un meccanismo di insulto controllato con conseguente formazione di collagene fibroso particolarmente utile nei casi di atonia dei tessuti e di perdita di volume. Grande successo sta ottenendo anche il fosfato tricalcico (βTCP), un materiale relativamente nuovo in dermatologia plastica, costituito da microparticelle di ceramica sintetica biocompatibile, biodegradabile, immunologicamente

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DI ELISABETTA PEROSINO, DERMATOLOGO DOCPER@TISCALI.IT

inerte. Tali particelle sono disperse in un gel di ialuronato di sodio puro, non crosslinkato, di elevato peso molecolare e appartengono alla famiglia dei fosfati di calcio che prevedono un riassorbimento lento ma totale. Rispetto ai filler tradizionali e agli altri ristrutturanti, presenta il vantaggio fondamentale di essere disperso in acido ialuronico e di dare quindi una correzione immediata del difetto che viene integrata nel tempo dall’azione di stimolazione dermica. È particolarmente indicato per i solchi nasogenieni, la ptosi della regione malare e del bordo mandibolare, il contorno del viso, le rughe della marionetta e tutte quelle zone che presentano un rilassamento importante. Dà inoltre ottimi risultati sulle cicatrici depresse. L’effetto, tuttavia, è completo almeno due mesi dopo l’ultima seduta. L’impianto avviene a livello del derma senza generalmente utilizzare anestesia topica, si utilizzano una o più fiale e il trattamento viene ripetuto dopo circa un mese per ottenere un risultato stabile di lunga durata. I costi sono di circa 300 euro a fiala e sono descritti rarissimi effetti collaterali. Il fosfato tricalcico si pone a metà strada tra il polilattico e i filler riassorbibili, avendo meno impatto volumetrico del polilattico, indicazioni molto vicine ai filler riassorbibili più duraturi, ma con una continuità dei risultati nettamente maggiore rispetto a questi ultimi. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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EDUCAZIONE ALIMENTARE • Giorgio Calabrese

L’abc a tavola «Sì ai ristoratori che propongono un menù dietetico specifico per i bambini». Il professor Giorgio Calabrese spiega i benefici della dieta per i più piccoli di Renata Gualtieri

l fenomeno dell’obesità infantile dilaga anche in Italia. Alla base di tutto c’è un’errata cultura alimentare e la passività fisica. «Molto può fare anche la scuola oltre alla famiglia. Un importante contributo è quello offerto dal progetto del ministero della Pubblica istruzione che si chiama “Scuola e Cibo” e della commissione di cui io sono presidente, composta da quattro dietologi, che sta lavorando perché sempre più bambini imparino a mangiare cibo che possa essere gradevole, positivo, salutista e appagante per il palato». Il professor Giorgio Calabrese, dietologo e nutrizionista, indica i presupposti per una crescita armonica e ottimale.

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Giorgio Calabrese, dietologo e nutrizionista

Quali sono i principali errori nutrizionali nell’alimentazione di un bambino? «Un bambino per sua norma mangia pochissima frutta e verdura, non ama i legumi, gradisce i cereali legati al cioccolato, non il cereale semplice; ci sono poi bambini che mangiano molta pasta. Questo quadro dimostra come, in certi casi, ci sia una carenza di frutta e verdura e legumi, e in altri un eccesso di carboidrati con grassi annessi che derivano dai condimenti aggiunti dalla mamma o dalla nonna, trucchi usati per convincere il piccolo a mangiare. Il bambino poi, occupato davanti alla playstation o a internet, si muove poco, e questo determina un eccesso di sostanze ricche

di grassi e si arriva prima al sovrappeso e poi all’obesità». Quanto è importante che sin da piccoli si segua una dieta sana e uno stile alimentare salutare e quali rischi si scongiurano? «Una tempo le malattie del cuore, il diabete, la pressione alta arrivavano solo a una certa età, ora invece interessano anche i più giovani. Se ad esempio si fa un dosaggio di colesterolo nel sangue e trigliceridi a un ragazzino di sei o sette anni, si trovano spesso dei valori molto alti. Ciò deriva dal fatto che si preferiscono panini, salumi, insaccati, formaggi, uova e condimenti grassi come il burro a frutta e verdura. La logica di fondo è che se noi facciamo una dieta errata, abbiamo la certezza di ammalarci prima in fase acuta con mal di stomaco, gastrite, colecistite e quant’altro e dopo un po’ di anni avremo malattie più croniche. Tutto questo nasce da un’errata condizione alimentare che è la base delle malattie». Ritiene interessanti le iniziative di alcuni ristoratori italiani che prevedono un’offerta gastronomica attenta ai bambini? «Sì ai ristoratori che vogliono fare un menù dietetico pediatrico, specifico per i bambini, ma che non preveda solo la milanese e le patate fritte perché così risparmia solo il ristoratore, ma il bambino si ammala lo stesso». Una buona alimentazione deve tener conto delle diverse fasi della vita. Quali sono i valori nutrizio-


Giorgio Calabrese • EDUCAZIONE ALIMENTARE

IL VALORE NUTRIZIONALE DERIVA DAL CAMBIARE ALMENO DUE DEI CINQUE ALIMENTI CHE SI MANGIANO OGNI GIORNO nali e i metodi di cottura che assicurano una crescita sana e ottimale del bambino? «Il valore nutrizionale nasce da una regola banale. Ogni giorno bisogna cambiare almeno due dei cinque o sei alimenti che si mangiano di solito, il che significa essere onnivori. Fare la dieta funziona, ma farla diversificata funziona molto di più e muoversi aiuta tantissimo. I metodi di cottura da utilizzare perché il bambino stia meglio sono la cottura al forno, alla griglia, oppure si può optare per cibi lessati o crudi, evitando di friggere. Se invece questo discorso non viene atteso si diventa obesi perché aumenta l’insulina che risente molto delle tecniche di cucina sbagliate». La giornata alimentare ideale del bambino in quanti pasti deve

essere divisa? «Cinque pasti: una colazione, un pranzo, una cena e due break, nella mattinata e nel pomeriggio. Questi ultimi due devono essere molto leggeri, il 10% delle calorie totali, il 15% a colazione, il 35% a pranzo e il restante a cena». È favorevole all’utilizzo di cibi surgelati nelle mense scolastiche? «Gli alimenti surgelati costituiscono una alternativa assolutamente accettabile in mancanza dei tradizionali cibi freschi. Possono essere utilizzati nelle mense scolastiche facendo sempre attenzione ai metodi di cottura, al vapore, alla griglia, al forno, evitando in ogni caso di friggere. L'offerta dei prodotti surgelati è oggi estremamente ampia e permette di nutrirsi in maniera sana e variegata». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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EDUCAZIONE ALIMENTARE • Diete a confronto

Dieta e recupero del corretto stile di vita «Le diete che criminalizzano intere categorie di alimenti o promuovono il consumo di un solo alimento creano carenze di nutrienti e difficoltà nella funzione gastroenterica». Il professor Lorenzo Maria Donini, responsabile del centro di Riabilitazione metabolico-nutrizionale di Villa delle Querce di Nemi, analizza pro e contro delle più comuni diete dimagranti di Renata Gualtieri

n questo periodo tornano d’attualità moltissime diete proposte per far perdere peso rapidamente e consentire una “prova costume” meno destabilizzante. Tutto ciò è fonte di grande confusione perché spesso i termini utilizzati sono poco noti nei loro reali significati. «Il comportamento alimentare – spiega il professor Lorenzo Maria Donini – non può essere ridotto soltanto a una razione di calorie e di nutrienti più o meno indispensabili alla salute. La maggior parte delle persone che si preparano ad affrontare una dieta la considerano semplicemente un elenco di sacrifici e rinunce. La probabilità che i risultati ottenuti siano poi mantenuti nel tempo è pertanto inevitabilmente uguale a zero». Mangiare significa invece non solo nutrirsi, ma anche soddisfare gli aspetti sensoriali, sociali, psicologici, culturali legati da sempre all’alimentazione.

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LE DIETE PIÙ NOTE SUL MERCATO Volendo provare una classificazione si può distinguere tra diete in cui viene alterato il normale rapporto tra macronutrienti energetici come la dieta Low-Carb (dieta di Atkins), dove vengono eliminati quasi del tutto i carboidrati lasciando i pasti ricchi in grassi e proteine, e la “dieta a punti”, una variante della dieta Atkins, che si basa su una riduzione marcata dei carboidrati: a ogni 100 grammi di alimento viene assegnato un punteggio. La scelta dei menù quotidiani si basa sul rispetto di un vincolo numerico, stabilito a priori in base al peso della persona e in grado di assicurare un 76

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basso apporto di zuccheri. La dieta South Beach, invece, privilegia un modello alimentare con ridotto apporto di carboidrati ad alto indice glicemico (in grado quindi di far innalzare di più l’insulinemia post prandiale). Quella di Montignac limita anch’essa i carboidrati ad alto indice glicemico. La Pritikin è invece una dieta low-fat che tende a limitare l’apporto di grassi e a privilegiare i carboidrati. La “dieta a zona” prevede pasti a orari ben stabiliti, proporzione dei nutrienti rigida a ogni pasto, riduzione dei grassi saturi, quota proteica


Diete a confronto • EDUCAZIONE ALIMENTARE

particolarmente ricca. Ci sono poi le diete in cui viene privilegiata una particolare distribuzione degli alimenti nella giornata. Tra queste, quella dissociata prescrive di non mangiare nello stesso pasto carboidrati e proteine. Una variante è la dieta che impone di mangiare un unico tipo di alimento in tutti i pasti dello stesso giorno e l’altra impone pasti senza combinare carboidrati con grassi e con proteine. La Crono dieta propugna l’idea che gli alimenti siano più o meno assimilabili a seconda dell’ora del giorno, in base ai ritmi circadiani dell’organismo. Tra le diete in cui viene abolita la varietà nella scelta dei cibi c’è quella del minestrone che consiste nel mangiare per alcuni giorni solo pasti costituiti da un minestrone molto brodoso composto di cavoli e verdure varie. La Beverly Hills in cui è prevista solo frutta per 10 giorni in grande quantità e poi una progressiva reintroduzione di altri alimenti. La fantasia si è molto sbizzarrita nelle diete Monocibo: ne esistono solo di uova, banane, mele o formaggio. All’ultimo filone appartengono le diete in cui ci si rifà a specifici modelli comportamentali. Tra queste la Weight Watchers che nasce con un progetto che combina una sana alimentazione, la promozione dell’attività fisica, sostegno di gruppo. La dieta mediterranea poi corrisponde a un modello alimentare che, rifacendosi alle regole seguite dalle popolazioni residenti nel bacino mediterraneo, è ricco di sostanze antiossidanti, acidi grassi polinsaturi, carboidrati complessi. Ciò grazie all’apporto, in partico-

IL DIETING, OLTRE A NON DARE RISULTATI IN TERMINI DI PESO ED ESTETICI, È STATO CORRELATO A UNA MAGGIORE INCIDENZA DI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE lare, di frutta e verdura, pesce, cereali, olio di oliva. «Questo modello – precisa il professor Lorenzo Maria Donini – sin dai primi studi di Ancel Keys, si è dimostrato l’unico in grado di prevenire la comparsa di malattie cronico degenerative. Rappresenta quindi una dieta nel senso etimologico del termine (stile di vita) e dovrebbe rappresentare la base sulla quale impostare correttamente qualsiasi regime dietetico anche in una logica di tipo educazionale. LIMITI DELLE DIETE SUL MERCATO «A parte la dieta mediterranea e, in minor misura, la Weight Watchers – chiarisce il professor Donini – tutte le diete presentano limiti importanti con rischi per la salute. Il carente apporto di un nutriente comporta un’alterazione del metabolismo cellulare con la necessità da parte dell’organismo di mettere in atto meccanismi di compenso non consigliabili e non sempre facilmente attivabili. Nello specifico la carenza di zuccheri provoca la produzione di corpi chetonici con la comparsa di acidosi metabolica difficilmente compensabile attraverso un incremento del lavoro respiratorio e renale. Inoltre il nostro sistema

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EDUCAZIONE ALIMENTARE • Lorenzo Maria Donini

Di fianco, l’americana Jean Nidetch, ideatrice della dieta Weight Watchers

A PARTE LA DIETA MEDITERRANEA E IN MINOR MISURA LA WEIGHT WATCHERS, TUTTE LE DIETE PRESENTANO LIMITI IMPORTANTI CON RISCHI PER LA SALUTE ¬

nervoso, così come i nostri globuli rossi, dipendono unicamente dagli zuccheri per il loro metabolismo energetico e mal si piegano ad utilizzare altri carburanti. La carenza di grassi impedisce un adeguato apporto di vitamine liposolubili e di acidi grassi essenziali della serie Omega 3 e Omega 6 indispensabili per una corretta difesa immunitaria, per i processi della coagulazione». LA DIET INDUSTRY La commercializzazione del “perdere peso” ha prodotto diete spesso scorrette dal punto di vista nutrizionale, orientate a un’immediata perdita di peso e mai impostate sulla rieducazione alimentare e comportamentale, unica via percorribile per prevenire e curare le malattie legate a un’alimentazione biologicamente non corretta. Al contrario, l’atteggiamento di esasperato risparmio energetico che, è alla base di tutte le diete proposte dalla diet industry non fa altro che innescare

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un perverso meccanismo di restrizionedisinibizione. «Questo stare più o meno sempre a dieta – continua Donini –, oltre a non dare risultati né in termini di peso né in termini estetici, è stato correlato a una maggiore incidenza di veri e propri disturbi del comportamento alimentare. Tutte le diete che non poggiano su un processo educativo che mira al recupero di un corretto stile di vita inevitabilmente sono accompagnate da un recupero di peso maggiore di quello che si è perso. OBESITÀ E DIETE POPOLARI Un altro aspetto negativo legato alla diet industry è quello di proporre diete non solo a chi deve perdere pochi chili per motivi estetici, ma anche a chi è obeso. Nel primo caso i problemi sono limitati essendo circoscritto il problema da affrontare. Nel caso dell’obesità ci troviamo invece di fronte a una vera e propria malattia che riguarda oramai il

10% della popolazione italiana e provoca direttamente o indirettamente 50.000 morti ogni anno. «L’obesità – conclude Lorenzo Maria Donini – è una malattia cronica, con una eziopatogenesi complessa legata a fattori individuali e sociali che è associata ad un elevato livello di comorbosità e disabilità. Il trattamento di una patologia complessa come l’obesità non può essere affidato a diete fantasiose e incongrue come quelle proposte dalla diet industry, ma deve prevedere, partendo dalle strutture di base (Medicina generale, Sian), la presa in carico, in una logica riabilitativa, del paziente obeso che deve avvenire con un approccio multidimensionale e interdisciplinare». Tutto questo è stato codificato in una Consensus che, promossa dall’Università di Roma La Sapienza, dalla Sio e dalla Sisdca, è stata poi approvata da tutte le altre società scientifiche che operano nel settore e condivisa da alcune associazioni di pazienti.


Gli aspetti psicologici • EDUCAZIONE ALIMENTARE

Approccio mentale e abitudini alimentari «Su una casistica di 207 pazienti analizzati ben il 40% risulta soffrire di un problema psicologico». Questi i risultati di uno studio recentemente condotto dall’equipe del Centro di ricerche sulla nutrizione umana e i disturbi del comportamento alimentare dell’Università di Pavia di Renata Gualtieri

importanza dei fattori psicologici nell’insorgenza e nel trattamento dell’obesità è una delle tematiche oggetto di studio del Centro di ricerche sulla nutrizione umana e i disturbi del comportamento alimentare dell’Università di Pavia, diretto dalla professoressa Anna Tagliabue, in cui opera una equipe interdisciplinare composta da medico dietologo, dietista, psicologo e psicoterapeuta e psichiatra. «Una recente ricerca, condotta presso il centro e in corso di pubblicazione sulla rivista internazionale Public Health Nutrition – spiega la professoressa Anna Tagliabue – dimostra come il disagio psicologico sia molto frequente nei soggetti che desiderano perdere peso. Su una casistica di 207 pazienti analizzati ben il 40% risulta soffrire di un problema psicologico, disturbo alimentare, ansia o depressione che si manifesta non solo in chi è già in sovrappeso o è obeso ma soprattutto in chi ha un peso ancora accettabile, ma ritenuto eccessivo dal soggetto al punto da chiedere un trattamento dimagrante». Un numero sempre crescente di adolescenti sono a rischio obesità, ma non è solo un problema di alimentazione. «Il fenomeno del sovrappeso e dell’obesità tra i più giovani – osserva la dottoressa Ilaria Repossi, psicologa del centro di ri-

L’

cerche – è soprattutto un problema sociale e ambientale. Pensiamo alla poca attività fisica che svolgono i ragazzi e ci rendiamo conto di quanto lavoro c’è da fare in termine di prevenzione e di azione». Per contrastare l’insorgere dell’obesità, bisogna avviare una maggiore informazione sull’educazione alimentare e sull’importanza dell’attività fisica a partire dagli adolescenti. «Le abitudini alimentari e il comportamento verso il cibo – precisa la dottoressa Repossi – sono chiaramente influenzati e determinati dall’approccio mentale che si forma a partire dalla famiglia, dal-

L’equipe del Centro di ricerche sulla nutrizione umana e i disturbi del comportamento alimentare dell’Università di Pavia, diretto dalla professoressa Anna Tagliabue

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EDUCAZIONE ALIMENTARE • Gli aspetti psicologici

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IL FENOMENO DEL SOVRAPPESO E DELL’OBESITÀ TRA I PIÙ GIOVANI È SOPRATTUTTO UN PROBLEMA SOCIALE E AMBIENTALE

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l’ambiente nel quale si vive e dalla società». «I ragazzi – aggiunge la psicologa – imparano a mangiare in famiglia e nell’ambiente nel quale crescono, così come a svolgere l’attività fisica. Se questi due aspetti principali della vita quotidiana non vengono trasmessi correttamente è più facile sviluppare problemi di sovrappeso e obesità». Stress e stile di vita scorretto ad esempio contribuiscono a condurre una vita poco sana e ad aumentare di peso. Con alcuni piccoli accorgimenti personali, dall’alimentazione all’attività fisica, è possibile però intervenire concretamente sul sovrappeso e sull’obesità, tanto da agevolare in questo senso il lavoro di prevenzione messo in atto dalle strutture sanitarie competenti. Le donne risultano soffrire maggiormente di disturbi alimentari, anche se negli ultimi anni si è assistito a un netto aumento tra gli uomini soprattutto per quanto riguarda i disturbi legati all’immagine corporea. Ci sono però dei comportamenti sentinella che possono far sospettare di un rapporto non sano con il cibo. «In alcuni casi si può assistere – conclude la dottoressa Ilaria Repossi – a un’eccessiva restrizione del cibo magari legata a una negativa immagine di sé e del proprio corpo, che si può manifestare quando il soggetto avanza sempre del cibo, fino ad arrivare nei casi più seri addirittura a nasconderlo, oppure sul versante opposto un aumento nell’introito calorico giornaliero associato ad un aumento di peso rapido nel tempo».



MALATTIE RARE • Domenica Taruscio

Maggiore attenzione per le malattie rare Il Centro nazionale malattie rare coordina il Registro nazionale delle malattie rare, che censisce il numero dei casi presenti in Italia, e il Registro nazionale dei farmaci orfani, che effettua il monitoraggio sui medicinali destinati alla cura delle malattie rare rimborsati dal Servizio sanitario nazionale. Domenica Taruscio illustra tutte le attività di Nicolò Mulas Marcello

ono oltre 5.000, hanno una prevalenza non superiore a 5 casi su 10.000 abitanti, nel loro insieme rappresentano circa il 10% delle patologie umane conosciute e interessano complessivamente una frazione importante della popolazione. Parliamo delle malattie rare per le quali in Italia esiste un Centro nazionale istituito all' Istituto Superiore di Sanità, che svolge numerose attività di ricerca, coordinamento e gestione dei rapporti con le associazioni di malati. «In Italia – sostiene la professoressa Domenica Taruscio che dirige il centro – esistono numerosi ricercatori ed istituzioni dedicati allo studio e alla ricerca di specifiche malattie rare o gruppi di esse. Da vari anni sono state dedicate risorse sia pubbliche che private per organizzare bandi ed incentivare la ricerca».

S Domenica Taruscio, direttore del Centro nazionale malattie rare

Quali sono le attività del Centro che lei dirige? «La nostra missione è svolgere “attività di ricerca, sorveglianza, consulenza e documentazione finalizzate alla prevenzione, diagnosi, trattamento, valutazione e controllo nel campo delle malattie rare e farmaci orfani”. Il centro è organizzato in 5 reparti e svolge numerose attività istituzionali che includono ricerca scientifica; attività di controllo esterno di qualità dei test genetici eseguiti per fare diagnosi di ma-

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lattie rare in oltre 90 laboratori in Italia; elaborazione di linee guida per la gestione clinica di selezionate malattie rare; aggiornamento continuo del Registro nazionale malattie rare; coordinamento nazionale dei sistemi di registrazione delle malformazione congenite. Svolgiamo anche attività nell’ambito della formazione degli operatori sanitari e delle Associazioni dei pazienti. Per tutte le altre attività si può consultare il sito www.iss.it/cnmr». Quante sono attualmente le malattie rare censite nel Registro nazionale? «Il decreto ministeriale n.279/2001 individua 284 malattie e 47 gruppi di malattie rare, censite nel Registro nazionale malattie rare. A oggi, nel Registro nazionale sono presenti oltre 480 diverse malattie rare, cioè per queste malattie rare dati epidemiologici ben organizzati dai Registri regionali giungono al Registro nazionale». Lei ha lavorato alla stesura del decreto ministeriale del 2001 con il quale è stata creata una rete nazionale. In cosa consiste e come vengono raccolti i dati epidemiologici? «Il D.M. 279/01 “Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni sanitarie correlate” è la risposta


Domenica Taruscio • MALATTIE RARE

istituzionale alle problematiche correlate alle malattie rare, al fine di assicurare specifiche forme di tutela alle persone con malattia rara. In allegato a questo decreto, esiste un elenco di malattie rare per cui sono previsti specifici benefici, fra cui l’esenzione dalla partecipazione al costo delle spese sanitarie. Il Decreto prevede la individuazione, mediante atti formali quali delibere da parte delle Regioni di Presidi e centri per la diagnosi e di cura delle malattie rare elencate in allegato. Inoltre, istituisce all’Istituto Superiore di Sanità il Registro Nazionale Malattie Rare. I dati epidemiologici vengono raccolti dai Presidi e centri regionali e vengono inviati al Registro regionale; i vari Registri regionali inviano i dati semestralmente al Registro nazionale». Qual è a oggi lo stato di salute della ricerca in ambito di malattie rare in Italia? «In Italia esistono numerosi ricercatori e istituzioni dedicati allo studio e alla ricerca di specifiche malattie rare o gruppi di esse. Da vari anni sono state dedicate risorse sia pubbliche che private per organizzare bandi ed incentivare la ricerca. Tuttavia, a livello nazionale è necessario non solo aumentare la quota di finanziamenti annui ma soprattutto assicurare la continuità dei bandi di ricerca e potenziare le collaborazioni internazionali.

La Commissione europea sta finanziando il Consorzio europeo E-Rare, in cui l’Italia è partner; questo consorzio si prefigge di lanciare bandi per progetti di ricerca congiunti fra ricercatori di più Paesi». Che rapporti avete con le associazioni dei malati? «Le Associazioni di pazienti sono un nodo della Rete essenziale nel dar voce ai bisogni dei pazienti e loro familiari, per il costante confronto di esperienze, garantiscono potenziamento e sviluppo di comunicazione e informazione, attenuamento del senso di “solitudine”, maggiore consapevolezza delle proprie risorse. La collaborazione tra l’ISS e le Associazioni di pazienti con malattia rara ha avuto inizio nel 1996. Da allora il Centro ha organizzato con le Associazioni numerosi meeting, congressi, corsi oltre che numerose e proficue collaborazioni su vari progetti. In particolare, ha realizzato diversi studi per valutare l’accessibilità ai servizi sociosanitari, la qualità dell’assistenza e della vita nelle persone con malattia rara e nei loro familiari. Molti sono i progetti avviati tra cui il telefono verde Malattie Rare (800.89.69.49), un servizio di informazioni gestito direttamente dal nostro centro, a copertura nazionale e completamente gratuito grazie alla presenza di un'équipe di ricercatori esperti».

SVOLGIAMO ATTIVITÀ DI CONTROLLO ESTERNO DI QUALITÀ DEI TEST GENETICI ESEGUITI PER FARE DIAGNOSI DI MALATTIE RARE IN OLTRE 90 LABORATORI IN ITALIA

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MALATTIE RARE • Silvio Garattini

Una vita per la ricerca Il difficile settore della ricerca sulle patologie rare vede Bergamo leader in Italia grazie a un importante centro di studi, appartenente all’Istituto Mario Negri. Silvio Garattini ne illustra le attività e gli ultimi significativi risultati raggiunti in questo campo di Nicolò Mulas Marcello

ono oltre 400 le patologie rare individuate in Italia. Cinque persone su 10mila sono affette da una di esse. La ricerca nell’ambito delle malattie rare, forse ancora più che in altri campi, rappresenta naturalmente un aspetto fondamentale per poter conoscere, studiare e sperimentare cure. In Italia, a Ranica in provincia di Bergamo, è presente un centro d’eccellenza per questo tipo di studi. Si tratta del Centro per le malattie rare “Aldo e Cele Daccò”, una delle sedi dell’Istituto Mario Negri di Milano fondato e diretto dal professor Silvio Garattini: «Il paziente affetto da una malattia rara ha diritto come tutti gli altri a essere informato, a diagnosi accurate e tempestive, a un’assistenza medica continuativa e a un supporto socio-assistenziale».

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Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano

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Per quanto riguarda le malattie rare come si articola la ricerca all’Istituto Mario Negri? «L’istituto è stato uno dei pionieri nel lanciare l’idea della ricerca sulle malattie rare e sui farmaci orfani sia a livello nazionale che a livello europeo. Abbiamo un centro dove lavorano persone specializzate e dove forniamo in modo gratuito informazioni a medici o pazienti che vogliono avere più notizie su una determinata malattia rara e su quali sono i centri che hanno più esperienza in Italia o all’estero sulle malattie rare. Poi lavoriamo in collaborazione con le associazioni dei pazienti delle malattie rare e cerchiamo di metterli in contatto

tra loro, grazie a un database aggiornato di tutti i malati che si rivolgono a noi. Questo è importante perché nessuno meglio dei parenti del malato conosce la malattia rara. Poi naturalmente c’è la ricerca. Effettuiamo ricerca sperimentale nei laboratori di ricerca a Ranica, sede del Centro per le malattie rare “Aldo e Cele Daccò”. A Bergamo la ricerca si articola su problemi di malattie rare renali e cardiovascolari, invece a Milano su problemi che riguardano il sistema nervoso centrale e malattie rare in campo di tumori». Il Mario Negri è anche centro di coordinamento per le malattie rare in Lombardia. In cosa consiste quest’attività? «La Regione Lombardia ha conferito all’Istituto Mario Negri il compito di coordinare tutto il sistema delle malattie rare in regione. Questo consiste nell’avere identificato i centri lombardi che hanno competenze significative in determinate malattie rare; stabilire una rete tra tutti questi centri per avere una comunicazione; mantenere i contatti e soprattutto fare in modo che i pazienti che si rivolgono a questo centro di informazione siano dirottati presso i centri lombardi che abbiano specifiche competenze. I pazienti che vengono inviati a questi centri non devono pagare il ticket in fase diagnostica o terapeutica». Quali importanti risultati avete raggiunto negli anni sul fronte malattie rare?


Silvio Garattini • MALATTIE RARE

A destra, il Centro ricerche cliniche per le malattie rare “Aldo e Cele Daccò” di Ranica

LA REGIONE LOMBARDIA HA CONFERITO ALL’ISTITUTO MARIO NEGRI IL COMPITO DI COORDINARE TUTTO IL SISTEMA DELLE MALATTIE RARE IN REGIONE

«Risultati importanti li possiamo distinguere nel campo della sindrome emolitico-uremica e la porpora trombotica trombocitopenica che fanno parte delle malattie che si chiamano microangiopatie trombotiche. Qui abbiamo trovato le mutazioni dei geni che sono importanti per spiegare queste malattie e abbiamo scoperto le condizioni in cui si può definire qual è la prognosi, perché queste malattie essendo rare sono eterogenee. Inoltre stiamo sviluppando una terapia per questo tipo di malattia». Attualmente a quali progetti e su quali malattie state lavorando? «Oltre a ciò che ho appena citato stiamo lavorando anche per migliorare il trapianto renale e per intervenire in modo tale da diminuire le possibilità di rigetto e quindi migliorarne la tolleranza. Poi abbiamo dimostrato che il farmaco Tuximab si è dimostrato efficace nei pazienti affetti dalla porpora trombotica trombocitopenica. Per quanto riguarda invece il campo delle malattie del sistema nervoso centrale abbiamo in corso uno studio clinico a li-

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MALATTIE RARE • Silvio Garattini

PER QUANTO RIGUARDA IL CAMPO DELLE MALATTIE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE ABBIAMO IN CORSO UNO STUDIO CLINICO A LIVELLO EUROPEO ¬

vello europeo che consiste nell’utilizzo di una tetraciclina per le malattie da prioni, quindi le malattie della “mucca pazza”. Abbiamo studiato molti prodotti che riguardano la sclerosi laterale amiotrofica e qui abbiamo in corso oltre a studi sperimentali anche studi a livello clinico testando nuovi farmaci nella speranza di avere risultati positivi. Nel campo dei tumori rari abbiamo messo a punto un farmaco che viene estratto da un organismo marino che si chiama trabectedina e questo farmaco è attivo in tumori e sarcomi rari. Poi stiamo lavorando anche su una leucemia rara che si chiama leucemia promielocitica per cui abbiamo sviluppato dei nuovi farmaci». La facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Torino, organizza in collaborazione con il Mario Negri un master per il trattamento delle malattie rare. Come è nata questa collaborazione con l’ateneo piemontese e qual è la formazione che si riceve? «Tutti questi tipi di attività e campi di ricerca vengono realizzati con progetti formativi. Abbiamo parecchi nostri borsisti che lavorano in questo campo e abbiamo dei giovani che stanno facendo il Pect sui

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farmaci orfani o malattie rare. Inoltre c’è un lavoro formativo anche sui medici di medicina generale perché abbiano delle cognizioni su quelle che possono essere le modalità con cui loro possono indicare al paziente che scopre di avere una malattia rara a chi rivolgersi. Con l’Università di Torino è attivo questo progetto di Master per il trattamento delle malattie rare. Una collaborazione che è nata nell’ambito della ricerca avendo incontrato persone dell’ateneo torinese che sono interessate allo stesso tipo di problemi e insieme si è deciso questo progetto». Quanti sono i farmaci orfani approvati a livello centralizzato e disponibili in Italia? «In Italia i farmaci orfani disponibili sono 37 su 49 farmaci autorizzati dall’Emea (European Medicines Agency, ndr). Questi dati sono aggiornati al 2009. Bisogna dire che dal momento dell’autorizzazione occorre un po’ di tempo affinché l’azienda farmaceutica faccia la domanda e il prodotto venga commercializzato. L’Italia comunque è uno dei paesi che ha maggior numero di farmaci orfani che rimborsa attraverso il servizio sanitario nazionale».




Claudio Cavazza • MALATTIE RARE

Un impegno etico per le patologie rare Una maggiore speranza per le malattie rare viene dall’Italia. L’azienda farmaceutica Sigma-Tau ha acquisito il ramo di ricerca dell’americana Enzon dedicato allo sviluppo dei farmaci orfani. Un impegno concreto per il presidente Claudio Cavazza di Nicolò Mulas Marcello Claudio Cavazza, presidente e fondatore della sigmatau Industrie Farmaceutiche Riunite SpA

a ricerca, si sa, è il motore del progresso farmacologico e i passi avanti fatti nel corso degli anni in molti ambiti terapeutici ne sono la prova tangibile. Ci sono però settori, come quello delle malattie rare, che devono scontrarsi con le politiche economiche delle aziende farmaceutiche e che quindi per scarsità di fondi a loro dedicati, risentono di una minore considerazione in termini di studi rispetto a malattie più diffuse. Ogni anno in Italia si ammalano di patologie certificate come rare circa 20 mila persone, 5 ogni 10 mila. Si tratta di malattie spesso prive di trattamento (orfane), croniche e invalidanti. Una priorità che chiama il servizio sanitario nazionale a mettersi in linea con le raccomandazioni espresse dal Consiglio europeo dei ministri della Sanità, di adottare entro il 2013 piani e strategie per garantire diagnosi tempestive e accesso a un’assistenza qualitativamente elevata per tutti i pazienti. Dai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, si calcola vi siano almeno 5.000 malattie rare; di esse circa 4.000 avrebbero un’origine genetica. I ricercatori non si occupano volentieri di malattie rare, perché ci sono scarse probabilità di essere finanziati. Per le aziende, infatti, investire nella ricerca di un farmaco per una patologia rara sarebbe

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un’iniziativa a fondo perso: le eventuali vendite del medicinale non sarebbero mai sufficienti a coprire le spese. Ma per fortuna non sempre è così. In Europa da oltre dieci anni si fa ricerca sui farmaci orfani, dal 99 a oggi sono in studio circa 900 farmaci e ne sono stati immessi sul mercato 50. In Italia poche aziende hanno il coraggio di investire in farmaci orfani, tra queste la Sigma-Tau che ha recentemente acquisito le attività dell`americana Enzon Pharmaceuticals relative al ramo dei farmaci per malattie rare. «Siamo ben consci che non costituiscono un’attrazione economica – afferma Claudio Cavazza, presidente della casa farmaceutica – ma abbiamo lo stesso scelto di investire in questo settore per poter offrire un’opportunità anche a chi deve affrontare l’abbandono a causa di una patologia poco diffusa». L’impegno etico sposa una politica oculata anche dal punto di vista imprenditoriale: «Da sempre siamo convinti che lo studio delle malattie rare – continua Cavazza – debba essere parte integrante delle nostre attività, perché la biologia molecolare porterà molto presto a suddividere tutte le patologie in sottogruppi sempre più piccoli e allora proprio l’esperienza maturata nelle malattie rare sarà indispensabile per gestire lo sviluppo di farmaci di nuova generazione».

LA GESTIONE DEL RISCHIO CLINICO DEVE ESSERE ORGANIZZATA CON IL CONCORSO DI TUTTE LE ISTITUZIONI

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MALATTIE RARE • Debra Italia Onlus

Una speranza per i bambini La difficile convivenza con una malattia rara come la “sindrome dei bambini farfalla” è supportata dai progetti di supporto dell’associazione Debra Italia Onlus. Il presidente Claudio Notarantonio ne illustra le attività di Nicolò Mulas Marcello

ttiva dal 1990 Debra Italia Onlus è l’associazione che fornisce supporto ai malati di epidermolisi bollosa e alle loro famiglie. Tra le malattie rare, la “sindrome dei bambini farfalla”, definita così per la fragilità della pelle dei malati affetti da questa patologia, vanta in Italia l’unico centro al mondo di sviluppo di una terapia genica attraverso l’impiego di cellule staminali, ovvero il Centro di medicina rigenerativa di Modena diretto dal professor Michele De Luca. Tra le attività della Debra Italia Onlus c’è anche quella della raccolta fondi per supportare la ricerca di questo fondamentale centro. Il presidente di Debra, Claudio Notarantonio in merito ai risultati positivi ottenuti dalla terapia genica si dichiara ottimista: «Dai progressi scientifici ci aspettiamo che concludano questo percorso e che portino a compimento la speranza di tutti i malati di EB di avere una cura per la loro malattia».

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Quanti sono in Italia i bambini farfalla e in cosa consiste questa malattia? «Dall’ultimo censimento i bambini colpiti da questa malattia in Italia sono 1.100 circa. Epidermolisi significa letteralmente rottura della pelle ma anche delle mucose, bollosa indica la tendenza a formarsi di bolle e vesciche. Già alla nascita in caso di parto naturale il neonato presenta spesso grosse bolle e lacerazioni della pelle. Per tutta la vita il paziente deve fare i conti con medicazioni e ben90

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daggi quotidiani e continue terapie a base di antibiotici per combattere il pericolo di infezioni dovute alle ferite aperte. Oltre a diversi interventi di dilatazione esofagea e di ricostruzione delle mani che soprattutto nella tipologia distrofica della malattia tendono in breve tempo a chiudersi impedendo quasi totalmente l’uso delle dita». Come si articola l’attività dell’Associazione Debra Italia Onlus? «L’associazione è stata fondata nel 1990 da un gruppo di genitori di pazienti determinati ad assicurare ai loro figli una migliore qualità della vita. Il loro scopo è quello di lavorare insieme per fornire aiuto. Con gli anni l’attività si è estesa comprendendo l’affiancamento ai centri

In alto, Claudio Notarantonio, presidente Debra Italia Onlus; sotto, il Centro di Medicina rigenerativa "Stefano Ferrari" di Modena; nella pagina a fianco, in basso, Luna Berlusconi


Debra Italia Onlus • MALATTIE RARE

DEBRA È AL FIANCO DEI RICERCATORI E AUSPICA EFFICACI TRATTAMENTI TERAPEUTICI

Luna Berlusconi, Ambasciatrice dei Bambini Farfalla

specialistici, attività congressuale di informazione medico scientifica, borse di studio di ricerca, collaborazione con i principali centri nazionali e internazionali, attività di sostegno socio-sanitario alle famiglie e rapporti con le istituzioni e infine campagne di sensibilizzazione sociale. I recenti progressi della ricerca genetica hanno permesso di conoscere i geni responsabili di EB. Debra Italia è al fianco dei ricercatori e auspica che trattamenti terapeutici efficaci siano disponibili in un futuro ragionevolmente prossimo». Nell’ambito della ricerca quali passi avanti sono stati fatti negli ultimi anni? Il fondamentale lavoro dell’equipe di Modena guidata da Michele De Luca che riguarda la terapia genica su un paziente adulto affetto da epidermolisi bollosa consiste in una pionieristica applicazione di cellule staminali epiteliali adulte e fonde la terapia cellulare con quella genica. Sono state ottenute e coltivate cellule staminali epidermiche da una biopsia cutanea effettuata sul paziente. Queste cellule sono state corrette geneticamente e impiantate. Esse hanno generato lembi di pelle sana che sono stati trapiantati su due zone malate del paziente. La valutazione del risultato dopo un anno ha dimostrato la rigenerazione e il mantenimento di un’epidermide normale sulle zone trapiantate. Questo studio dimostra per la prima volta che la terapia genica è fattibile e che questa malattia è curabile».

Qualche mese fa è stata inaugurata all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma la prima stanza al mondo per i bambini Farfalla. In cosa consiste? «L’ospedale Bambino Gesù, con il sostegno di Debra Italia Onlus, ha organizzato uno spazio di degenza con caratteristiche tecnologiche uniche per dare ai pazienti assistenza nei periodi di degenza. Questa stanza ha interruttori con fotocellula, vasca da bagno con sportello per facilitare l’ingresso, una culla neonatale speciale e un letto dotato di materassi antidecupito. L’assistenza e la cura sono assicurate da un personale infermieristico e medico altamente specializzato. A quest’attività collabora un team multidisciplinare di dermatologi, neonatologi, anestesisti, chirurghi, psicologi, che coordinano tutti i bisogni dei malati di EB». A quali progetti state lavorando attualmente? «Debra ha in cantiere diversi progetti. Tra questi, Debra Online ha attivato un progetto che ha consentito di realizzare un forum dedicato ai malati, “In ospedale con Ebby”, che ha permesso la realizzazione della stanza di cui abbiamo parlato. Inoltre, abbiamo la consulenza sui diritti esigibili che prevede assistenza gratuita per gli associati di un legale che li supporti in materia di diritti di assistenza sociosanitaria, scolastica, facilitazioni fiscali e diritto al lavoro. “Le mani da salvare” è un altro progetto che prevede lo stanziamento di una borsa di studio per la realizzazione di un supporto ortesico conservativo atto a mantenere il più a lungo possibile la funzionalità della mano. “Dottori volanti”, invece, prevede la creazione di un’unità medica che nel corso dell’anno si rechi direttamente nell’ospedale locale o presso il domicilio nel caso di pazienti adulti, per assistere il malato e la famiglia. Per tutti gli altri progetti si può consultare il sito www.debraitaliaonlus.org».

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MALATTIE RARE • Debra Italia Onlus

DA ANNI AL FIANCO DEI “BAMBINI FARFALLA” ebra Italia Onlus vanta un’ambasciatrice d’eccezione impegnata da anni nel difficile compito di fare conoscere meglio l’epidermolisi bollosa. Luna Berlusconi (nella foto) è attiva in prima linea per quanto riguarda l’organizzazione di eventi volti a informare e raccogliere fondi per la ricerca. Quello dei “bambini farfalla” è un mondo fatto di difficoltà quotidiane, ma anche di solidarietà e di speranza. Come e quando si è avvicinata all’associazione Debra? «L’ho conosciuta circa tre anni fa perché ho avuto anche io una bambina affetta come me da epidermolisi bollosa. Il primo anno ho vissuto la malattia in maniera difficile perché appunto non sapevo ci fosse un’associazione dedicata. Ne sono venuta a conoscenza partecipando a un importante convegno nazionale sulle malattie rare dove appunto c’era Debra. Ho conosciuto il presidente Paola Zotti, che purtroppo ci ha lasciati a dicembre, e da lì ho capito che sarebbe stato un dovere da parte mia impegnarmi per questa causa, rendendomi conto che in fondo il livello della malattia da cui io ero stata colpita era molto lieve. Quindi per i bambini molto più gravi di noi sarebbe stato un dovere lottare». Le speranze di tutti i “bambini farfalla” e dei loro genitori sono riposte senz’altro nella ricerca. Sono stati fatti recenti progressi in questo ambito? «Sicuramente a livello istituzionale si sta cercando di dare una svolta anche se comunque ci sono ancora delle leggi che bloccano la ricerca. La cosa importante è che un anno e mezzo fa è stato inaugurato il primo centro di medicina rigenerativa a Modena dal

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professor De Luca, una struttura unica al mondo dedicata a questa malattia. Si tratta di un centro che studia le cellule staminali adulte ed è rivolto alla ricerca per l’epidermolisi bollosa e per la cornea. L’esperimento avviato nel 2006 su Claudio, un bambino affetto dalla malattia, che è stato sottoposto a trapianto di pelle ricostruita geneticamente ha funzionato. Questo dimostra che siamo sulla strada giusta, ma purtroppo mancano i fondi per continuare la ricerca». Tra le sue attività nel ruolo di ambasciatrice Debra c’è anche la ricerca fondi. Attraverso quali iniziative avviene la raccolta? «Attraverso eventi e manifestazioni organizzate costantemente durante l’anno. Il mio ruolo più che organizzare eventi è quello di cercare di parlarne sempre di più. Soltanto parlandone e comunicando e conquistando il cuore della gente allora potremo iniziare a fare degli eventi importanti e trovare anche dei fondi». Ci sono in programma dei progetti per informare le persone e sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tipo di malattia? «A livello locale le famiglie fanno molto nel loro piccolo. Di solito vengono organizzati circa due o tre eventi ogni anno. La perdita di Paola ha comunque rallentato un po’ il lavoro di Debra perché lei era la mente e la forza dell’associazione e oggi senza di lei facciamo un po’ più fatica. Il mio compito è quello di parlarne. Sicuramente faremo una cena a Milano a settembre per i 20 anni di Debra e organizzerò personalmente una raccolta fondi con amici, industriali e imprenditori per aiutare la ricerca».



RADIOLOGIA • Alfredo Siani

La continua evoluzione delle scienze radiologiche Le tecnologie sono in costante e rapida evoluzione, pertanto le scienze mediche, e la radiologia in particolare, non solo cercano di stare al passo con i tempi, ma fanno propri i nuovi strumenti per migliorare ancor più le prestazioni. Ne parla Alfredo Siani, presidente della Società italiana di radiologia medica di Simona Cantelmi

razie ai progressi tecnologici la medicina può perfezionare i propri sistemi, studiare in modo più approfondito l’organismo e le patologie che possono affliggerlo e quindi elaborare con maggior facilità una diagnosi. Per questo motivo è importantissimo investire nella ricerca e nelle innovazioni. La Sirm, Società italiana di radiologia medica, contribuisce al progresso delle scienze radiologiche e di formazione dell’immagine, nelle loro basi fisiche, biologiche, radio-protezionistiche mediche e informatiche, favorendo l’aggiornamento culturale e scientifico e promuovendo iniziative didattiche e congressuali. «L’evoluzione tecnologica è tumultuosa» afferma Alfredo Siani, presidente di Sirm e del comitato tecnico del Congresso nazionale della Società italiana di radiologia di Verona. «Bisogna impostare la ricerca su attrezzature che siano in grado di scoprire patologie in fase sempre più precoce, possibilmente preclinica. In particolare per quanto riguarda le radiazioni ionizzanti le aziende stanno indirizzando i loro sforzi a costruire macchine che siano in grado, a parità di capacità diagnostica, di emettere quantità limitata di radiazioni ionizzanti per ridurre la dose al paziente. La Sirm, utilizzando fondi propri, ha finanziato quattro progetti di ricerca che coinvolgono diversi centri nazionali, per ricordare a tutti che il bi-

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Alfredo Siani, presidente della Società italiana di radiologia medica

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nomio clinica e ricerca è inscindibile». Per quanto riguarda la radiologia, l’informatica ha generato importanti cambiamenti. «L’informatica in radiologia è presente in buona parte del territorio nazionale. La radiologia digitale, diretta o indiretta, è presente in buona parte delle strutture pubbliche italiane con riduzione dei costi, possibilità di correggere eventuali errori di esecuzione di esami radiografici, con conseguente diminuzione di costi legati all’eliminazione dei liquidi di fissaggio e sviluppo, i quali, per essere smaltiti, avevano bisogno di particolari trattamenti. Ma la rivoluzione vera è la possibilità di conservare tutte le immagini, i referti e la scheda paziente su formato elettronico, con la possibilità di consultare le immagini da remoto, effettuare teleconsulti, gestendo il precorso del paziente dalla prenotazione all’archiviazione dell’esame». Anche la radiologia interventistica, forse la branca più delicata delle scienze radiologiche, ha compiuto e sta compiendo importanti passi in avanti. «La radiologia interventistica opera su due campi: il settore vascolare e quello extravascolare. Per quanto riguarda il primo, la radiologia interventistica ha cambiato totalmente l’approccio terapeutico al paziente arteriopatico. Di fatto le stenosi di tutti i principali distretti arteriosi, dalle carotidi alle iliache, alle femorali – prosegue Siani – possono essere trattate con il posiziona-


Alfredo Siani • RADIOLOGIA

BISOGNA IMPOSTARE LA RICERCA SU ATTREZZATURE CHE SIANO IN GRADO DI SCOPRIRE PATOLOGIE IN FASE SEMPRE PIÙ PRECOCE, POSSIBILMENTE PRE-CLINICA

mento di Stent, di materiale sempre più biocompatibile e resistente nel tempo. Rivoluzionario è il trattamento degli aneurismi dell’aorta che ormai, tranne in rari casi, sono trattati con tecnica endovascolare, che consente di posizionare per via percutanea una o più protesi evitando lunghi e indaginosi interventi. Il settore extravascolare, invece, consente di agire introducendo selettivamente farmaci chemioterapici nella sede delle lesioni neoplastiche riducendo la tossicità dei farmaci e aumentando il loro effetto terapeutico. Di particolare interesse è il trattamento delle lesioni primitive o secondarie di diversi organi e apparati con radiofrequenza, laserterapia percutanea e onde

d’urto». Permangono, però, alcune sacche di arretratezza, soprattutto per ciò che riguarda i macchinari. «In Italia esistono 1.740 strutture radiologiche pubbliche private e accreditate. È stato realizzato un censimento che ha coinvolto più dell’85% delle strutture italiane: da questi dati si evince che l’obsolescenza delle attrezzature è a macchia di leopardo sul territorio nazionale e riguarda principalmente le attrezzature di diagnostica generale e i mammografi; al contrario le grandi attrezzature, quali Tac e Rm, hanno un tasso di vetustà inferiore». Fondamentale, dunque, in questo quadro è l’aggiornamento dei radiologi e degli operatori del settore. «Oltre al

In questa pagina, dall’alto, cura della stenosi carotidea con posizionamento di Stent, esempio di radiologia interventistica e, qui sopra, tecnico radiologo alla Tac

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RADIOLOGIA • Alfredo Siani

SCIENZA E COSCIENZA I progressi della medicina sono veloci e incalzanti e permettono di effettuare indagini precise e accurate e di spiegare in modo esatto al paziente la sua condizione clinica. Ma è sempre un bene scoprire tutto e comunicarlo? A porre il quesito è il professor Giacomo Gortenuti a radiologia è in evoluzione perché sono le tecniche a evolversi, come sostiene il professor Giacomo Gortenuti (nella foto), presidente del Comitato del Congresso nazionale di radiologia di Verona. «L’evoluzione tecnologica che è avvenuta in questi ultimi anni ha portato a innumerevoli progressi sulle possibilità diagnostiche in tutte le nostre specialità, comprese le tema-

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tiche classiche quali il torace o la radiologia d’urgenza. Attualmente vengono utilizzate tecniche innovative e metodiche diagnostiche all’avanguardia, quindi non è il ramo della radiologia che si evolve, ma le metodiche che progrediscono». Tali cambiamenti permettono un’osservazione più approfondita di alcuni aspetti dell’organismo, in modo da dare risposte che prima non era possibile fornire. «Le tecnologie che già utilizziamo, come la risonanza magnetica o la Tac, continuano a crescere e a svilupparsi. Oltre alle classiche metodiche, come le radiazioni elettromagnetiche e le radiofrequenze che sono tipiche della risonanza magnetica, ora possiamo avere informazioni funzionali legate alla chimica, alla biologia e alla fisica, come l’ima-

ging molecolare. Adesso non c’è più la morfologia, ma stiamo andando verso la funzione della cellula e quindi dell’organo. La radiologia si sta trasformando non solo in immagine ma anche in funzione». Una maggior precisione nelle analisi e nello studio può portare alla scoperta di dettagli prima sconosciuti, anche e soprattutto all’eventuale paziente. «Ad esempio oggi c’è la possibilità di fare la risonanza della prostata per scoprire rapidamente il tumore: alcuni medici sono favorevoli a farlo, altri contrari, perché si potrebbe trovare un tumore molto piccolo che magari non crescerà mai; scoprendolo, però, si innescano tanti meccanismi negativi per il paziente, come l’intervento, lo stress, la radioterapia, che potrebbero non servire assolutamente a niente».

¬ congresso nazionale, su tutto il territorio nazionale vengono effettuati corsi itineranti, master e congressi, in modo di garantire ai radiologi italiani un aggiornamento continuativo. La Sirm è molto attenta anche alla gestione della formazione a distanza, che sarà, a mio giudizio, la vera rivoluzione dell’aggiornamento nei prossimi anni. Ritengo che l’Italia sia sicuramente all’avanguardia per quel che riguarda la radiologia; lo dimostra la nostra sempre maggiore partecipazione come protagonisti ai più importanti congressi internazionali. Al Congresso Europeo di Vienna siamo stati 96

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i primi per contributi presentati. Inoltre importanti società scientifiche hanno voluto creare dei gemellaggi con la Sirm. Le industrie si sono accorte di questo e, sempre più frequentemente, chiedono ai nostri centri di affiancarle nella ricerca». Non sempre, però, è facile abbinare risparmio e sviluppo. «Le difficoltà sono tante – afferma Siani – ma sono certo che se i gestori della sanità nazionale e regionale coinvolgeranno la società scientifica in maniera attiva, e non solo consultiva e quando tutto è già deciso, si riusciranno a evitare sprechi e duplicazioni inutili».



RADIOLOGIA • Libero Barozzi

Competenze integrate e formazione completa I reparti di una struttura ospedaliera devono collaborare per il bene del paziente. La radiologia, in particolare, serve diverse unità che hanno bisogno della radiografia per elaborare la diagnosi. L’esperienza dell’Unità operativa di Radiologia del Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna, diretta da Libero Barozzi di Simona Cantelmi

isogna pensare ai reparti ospedalieri non come a compartimenti stagni ma come a realtà che collaborano fra loro, scambiandosi informazioni e competenze per arrivare alla diagnosi e alla soluzione più indicata per il paziente. Medici, infermieri e operatori al loro interno devono essere duttili e conoscere ogni aspetto. Specializzarsi, quindi, non significa escludere competenze per concentrarsi su una sola, ma partire da una conoscenza generale e completa della medicina per approfondire ulteriormente e affinare la preparazione in una branca in particolare. Lo scambio continuo di informazioni e l’aggiornamento costante devono essere un punto fermo non solo nel momento della formazione, ma anche quando la professione si esercita

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Libero Barozzi, direttore dell’Unità operativa di Radiologia del Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna; nella pagina accanto, in basso, a sinistra il padiglione delle Nuove patologie del policlinico e una sala diagnostica di Radiologia digitale del S. Orsola Malpighi di Bologna

già da molti anni, come sostiene il dottor Libero Barozzi, direttore dell’Unità operativa di Radiologia e vicedirettore del dipartimento di Emergenza-Urgenza, Chirurgia generale e dei trapianti del Policlinico S. Orsola Malpighi di Bologna. Com’è organizzata l’attività di formazione? «C’è una rotazione programmata nei diversi reparti di radiologia degli studenti di medicina e chirurgia, degli specializzandi in radiologia e degli studenti del corso per tecnici di radiologia medica. Il nostro è un ambiente misto, ospedaliero e universitario, con la formazione aperta a 360 gradi. Ci sono ben sei diverse realtà radiologiche (tre unità operative e tre strutture semplici dipartimentali), ognuna delle quali ha le proprie peculiarità, che derivano dall’attività di collaborazione con i reparti di riferimento. Oramai si va verso la superspecialità in tutto, si cerca di lavorare al più alto livello possibile e collaborare. Diffondere la cultura del dialogo fra radiologo e clinico è fondamentale sia per la formazione sia per migliorare al massimo le prestazioni». Come avviene, di fatto, l’attività nei reparti? «Per quel che riguarda gli specializzandi, ognuno di loro svolge periodi di studio e formazione in ciascuna sezione, ad esempio cinque mesi in ecografia, due mesi in radiologia d’urgenza e così via. Lo studente di medicina, invece, ha nel suo curriculum dei periodi di frequenza nelle

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diverse specialità per approfondire meglio le metodiche e, nel momento in cui si rende conto che la radiologia fa per lui, può chiedere di fare la tesi in questa materia e poi può cercare di entrare nella scuola di specializzazione, passando attraverso le forche caudine degli esami di ammissione. La formazione, pertanto, voglio ribadirlo, è a tutto tondo. Il radiologo deve esser in grado di gestire a un buon livello le attività di base, per poi studiare bene uno o più argomenti in particolare. Il lavoro del radiologo è direttamente condizionato fondamentalmente da due aspetti, dalla tipologia dei reparti con cui deve collaborare (che mandano i pazienti e hanno bisogno del radiologo per fare la diagnosi) e dalla qualità della dotazione tecnologica di cui dispone, perché oggi le macchine sono sempre più complesse, avanzate e in costante evoluzione, pertanto per noi è una grossa scommessa riuscire a tenere il passo». Com’è organizzata la struttura che lei dirige? «È costituita da due sezioni ubicate in due diversi padiglioni: la sezione di Radiologia d’urgenza, collocata all’interno del Pronto Soccorso, esegue tutti gli esami del Ps, le Tac urgenti e tutte le urgenze notturne e festive del Policlinico; quella delle Nuove patologie garantisce l’attività di diagnostica per immagini di uno dei padiglioni più importanti del Sant’Orsola per l’elevato numero di numero di unità operative ad alta complessità che vi operano (ben sette reparti di chirurgia, sei di medicina generale, riani-


Libero Barozzi • RADIOLOGIA

IL NOSTRO È UN AMBIENTE MISTO, OSPEDALIERO E UNIVERSITARIO, CON LA FORMAZIONE APERTA A 360 GRADI. ORAMAI SI VA VERSO LA SUPERSPECIALITÀ IN TUTTO, SI CERCA DI LAVORARE AL PIÙ ALTO LIVELLO POSSIBILE E COLLABORARE mazione, gastroenterologia). Entrambe le sezioni si trasferiranno a breve nel Polo chirurgico e dell’Emergenza, una nuova costruzione collegata al padiglione Nuove patologie che sarà inaugurata a settembre». Come sarà questo nuovo Polo chirurgico? «Sarà disposto su cinque piani che ospiteranno tutta la nostra attività. Al piano terra ci sarà il Pronto Soccorso, che occuperà circa i tre quarti dello spazio, e la Radiologia d’urgenza, mentre la sezione Nuove patologie si trasferirà al primo piano. Essa avrà, oltre a quello attuale, un ulteriore carico, perché arriveranno altre tre chirurgie generali, il centro trapianti e un’altra rianimazione, mentre invece si trasferiranno al padiglione 25 la chirurgia vascolare e la chirurgia toracica. Per cui qui nascerà il polo chirurgico e dell’emergenza, al Malpighi c’è il polo delle medicine e, in prospettiva futura, nascerà il polo cardio-toracico-vascolare di cui è già partito il cantiere. Il grosso dell’ospedale S. Orsola, quindi, sarà concentrato su

questi tre grandi padiglioni». Un accorpamento funzionale anche al lavoro e alle attività. «Certamente. In particolare ha una rilevanza strategica il fatto che, finalmente, gli attori che gestiscono la complessa problematica dell’urgenza vadano ad abitare nella stessa casa». Di quali strumentazioni è dotata la sua unità operativa? «Per quanto riguarda le “macchine pesanti” nel Policlinico esiste una gestione multiutenza fra le diverse unità operative di radiologia e neuroradiologia. Abbiamo tre Risonanze Magnetiche, sei Tac, due angiografie e tre Tac-Pet in medicina nucleare. Ritengo che quanto a dotazione tecnologica siamo ben attrezzati. Per quanto riguarda la nostra unità operativa, in funzione del trasferimento nel nuovo polo sono state acquistate cinque nuove apparecchiature, e cioè una nuova Tac a 64 strati, un telecomandato digitale, due macchine di radiologia generale digitali dirette e un ecografo di alta fascia». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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Gaetano Calesini • CASI COMPLESSI

Pazienti con problematiche odontoiatriche particolarmente difficili, persone al termine delle loro capacità di adattamento, se non addirittura “oltre”, devono essere curati da una squadra di specialisti esperti, coordinata da un clinico che abbia dedicato ai pazienti “difficili” la sua vita professionale

LA TERAPIA DEGLI INSUCCESSI E DEI CASI DIFFICILI IN ODONTOIATRIA

DI GAETANO CALESINI, PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA ITALIANA DI ODONTOIATRIA PROTESICA

n passato era diffusa l’idea che l’odontoiatria fosse una specialità “facile”, al punto che per anni è stata esercitata da medici generici, già attivi in altre branche. Negli ultimi anni poi l’abilità dei professionisti è stata identificata con la qualità dei risultati estetici e con l’esercizio della chirurgia implantare, ascrivendo all’estetica ed agli impianti valore terapeutico a sé stante ed assoluto. Occorre però ricordare che a fondamento dei risultati estetici e della lunga durata nel tempo della terapia restaurativa deve esserci un processo diagnostico completo ed accurato, che si preoccupi dell’intero sistema stomatognatico (articolazioni, muscoli, denti parodonto) nel rispetto dell’unicità dell’individuo-paziente. Come odontoiatri ci troviamo ad operare in un sistema complesso che risente di molte variabili: stato fisico, patologie sistemiche, stress. Questa complessità spiega perché, sebbene la gran parte delle terapie odontoiatriche ottenga risultati mediamente soddisfacenti, in alcuni casi si assista ad un susseguirsi di insuccessi dagli esiti talvolta devastanti per le strutture orali, per la psicologia, ed in definitiva per l’individuo-paziente. Il ritrattamento degli insuccessi terapeutici presenta sempre delle difficoltà aggiuntive: diagnostiche, progettuali ed esecutive, sia cliniche che tecniche.

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Ecco perché spesso i pazienti nei quali “qualcosa è andato storto” cominciano una serie di pellegrinaggi da un professionista ad un altro, ottenendone spesso, quando non trovino la soluzione, un ulteriore peggioramento della salute orale. I professionisti accorti, quando visitano un paziente che riporta insuccessi in seguito a precedenti terapie, sanno di addentrarsi in un campo minato irto di difficoltà. La necessità/diritto di ogni paziente di ricevere un trattamento “lege artis” è impellente nei casi complessi, dove già qualcosa non ha funzionato, dove si sono persi, o deteriorati, molti denti. Se consideriamo lo stato emotivo di questa fascia di pazienti, delusi e frustrati, si capisce che trattarli con successo richieda una preparazione specifica ed una ferrea organizzazione di tutto il gruppo di lavoro. Occorre quindi uno staff multidisciplinare in cui, sin dalle fasi iniziali, chirurghi orali, igienisti, odontotecnici ed ogni altro specialista mettano al servizio del paziente la competenza e l’esperienza maturate nei trattamenti odontoiatrici complessi. Fondamentale è la guida del protesista che, prendendo in carico con la professionalità e la sensibilità necessarie i bisogni e le aspettative dell’individuo paziente, coordinerà ogni intervento dell’intera terapia alla luce di una visione d’insieme.

Gaetano Calesini - Titolare dell’insegnamento di Clinica Implantoprotesica presso l’Università Vita Salute S. Raffaele (MI), fondatore e direttore dello Studio di Odontoiatria Restaurativa in Roma

www.studiocalesini.it segreteria@studiocalesini.it

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OCULISTICA • Paolo Vinciguerra

Ultralenti e nuovi laser riducono l’invasività Lenti intraoculari di nuova generazione, cross-linking e laser a eccimeri per la cura del cheratocono. E un sistema diagnostico sempre più avanzato. Sono alcuni dei progressi della chirurgia refrattiva spiegati da Paolo Vinciguerra, responsabile di Oculistica dell’Istituto Humanitas di Francesca Druidi

ltra-sottili, particolarmente flessibili e protettive nei confronti delle strutture oculari. Sono le lenti intraoculari di nuova concezione che, come spiega Paolo Vinciguerra, responsabile dell’Unità operativa di Oculistica dell’Istituto clinico Humanitas, «permettono di correggere la miopia nei casi in cui il laser non è utilizzabile perché si sottrarrebbe troppo tessuto alla cornea o perché le cornee non sono adatte al trattamento». Presentate all’edizione 2009 del congresso internazionale di oculistica “Refractive.online”, organizzato proprio da Paolo Vinciguerra, le lenti vengono inserite davanti all’iride attraverso un’incisione di soli due millimetri che non richiede suture. Non tutti però, fa notare lo specialista, possono sottoporsi all’intervento che presuppone «conformazioni anatomiche adatte, oltre alla disponibilità del paziente a sottoporsi a controlli periodici per verificare la tollerabilità dell’occhio al materiale con cui i dispositivi sono realizzati». Le lenti intraoculari sono già disponibili in Italia su larga scala, ma la loro introduzione richiede un addestramento specifico. «Stiamo cercando – spiega Paolo Vinciguerra, che tiene corsi presso l’Istituto Humanitas e non solo – di formare un elevato numero di medici alla procedura». D’altronde, le lenti intraoculari rappresentano un ulteriore progresso della chi-

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Paolo Vinciguerra, responsabile dell’Unità operativa di Oculistica dell’Istituto clinico Humanitas di Rozzano

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rurgia refrattiva, che si muove verso metodiche di intervento e strumenti diagnostici sempre più innovativi. Quali sono le principali novità che riguardano la cura del cheratocono, affezione degenerativa che provoca l’assottigliamento e l’indebolimento della cornea? «La frontiera più avanzata è il cross-linking, tecnica basata sull’applicazione combinata di un’impregnazione con riboflavina, derivato della vitamina B, e di un’irradiazione di raggi ultravioletti, volta a ristrutturare e rinsaldare i legami tra le fibre di collagene della cornea. Lo specifico vantaggio consiste nell’evitare il trapianto corneale. Oggi si stanno affacciando nuove tecniche, come ad esempio l’impiego combinato di laser a eccimeri e cross-linking che unisce i benefici di entrambe le metodiche: la prima rimodella la cornea mentre, grazie alla seconda, la struttura viene rinforzata su un nuovo assetto attraverso l’aumento dei legami tra le fibre, impedendo così un’ulteriore progressione del cheratocono. Una seconda area di intervento riguarda i trapianti lamellari: anziché sostituire tutta la cornea, una nuova tecnica, denominata “Dalk”, va a sostituire lo stroma lasciando in sede la parte non malata, con minori rischi di rigetto e una stabilizzazione molto più rapida».


Paolo Vinciguerra • OCULISTICA

A sinistra, team di chirurghi oculisti dell’Istituto Humanitas interviene sugli occhi di un paziente miope

Per quanto concerne la cataratta? «Speciali lenti di ultima generazione permettono di correggere l’astigmatismo. Esistono, inoltre, nuovi metodi per scegliere lenti che, fra quelle presenti in commercio, possano assicurare la migliore qualità visiva. In passato, tutti i pazienti affetti da cataratta si curavano allo stesso modo. In Humanitas abbiamo, invece, sviluppato un nuovo strumento che, caratterizzando le differenze di ogni singolo individuo, consente di selezionare lenti in grado di assicurare al paziente stesso la performance ottica migliore». Il glaucoma è la seconda causa di cecità al mondo dopo la cataratta. Su questo fronte, sono stati compiuti significativi passi in avanti? «Un’area nuova è offerta da microvalvole che favoriscono il deflusso: si tratta di micro-dispositivi tesi a regolare la pressione all’interno dell’occhio in maniera automatica, raggiungendo criteri di qualità superiore».

Dall’alto immagini dell’unità di Oculistica dell’istituto al lavoro e un esempio di occhio nel quale è stata inserita la nuova lente intraoculare

Strumenti diagnostici e tecnologie laser sono sempre più precisi. Quali sono, allo stato attuale, le principali linee di sviluppo? «La chirurgia e la diagnostica sono due settori da esaminare in maniera indipendente. La chirurgia sta procedendo verso la mininvasività, come dimo-

strano le lenti intraoculari, il cui inserimento individua una procedura non soltanto meno invasiva, ma anche reversibile in quanto le lenti possono essere sfilate se non tollerate. La riduzione dell’invasività risulta evidente anche dal fatto che mentre nel recente passato le chirurgie si effettuavano in larga parte in anestesia generale, con giornate o settimane di ricovero postoperatorio, oggi si eseguono in anestesia locale in day hospital. Si tratta di un grande cambiamento». Sul versante della diagnostica, invece, si segnalano progressi importanti? «Innanzitutto, la diagnostica si collega strettamente alla chirurgia perché è il suo avanzamento a consentire ai medici di muoversi meglio. Oggi si parla di indagine dell’ultra-struttura. Possiamo indagare i dettagli più minuti del tessuto grazie all’Oct (tomografia a coerenza ottica) del segmento anteriore: una nuova tecnologia laser che indaga la struttura con una risoluzione altissima, analizzando in modo approfondito le caratteristiche morfologiche della cornea. Questo ci consentirà di rilevare l’effetto della chirurgia, non subendola ma modulandola, riuscendo a interpretare e ad agire sempre più finemente attraverso un’accurata informazione di base». ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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OCULISTICA • Paolo Vinciguerra

LA CHIRURGIA STA PROCEDENDO VERSO LA MININVASIVITÀ

Il dottor Paolo Vinciguerra con una paziente

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Quali innovazioni tecnologiche ci si deve attendere per il prossimo futuro nell’ambito della chirurgia refrattiva? «Un continuo miglioramento delle lenti intraoculari: l’ottica sta compiendo grandi passi in avanti. Le lenti multifocali usate da chi si sottopone a un intervento di cataratta ne sono la riprova. Inoltre, la diagnostica basata su radiazioni d’onda invisibili ci consentirà di esaminare sempre più in dettaglio le strutture oculari. Non va poi dimenticata lo sviluppo della chirurgia del distacco di retina: già oggi possiamo curare questa patologia operando aperture di una grandezza di 0,2 mm». Può indicarmi gli orizzonti di ricerca più promettenti?

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«Ne esistono diversi destinati con tutta probabilità allo sviluppo futuro. Interessante è l’integrazione tra farmaci e chirurgia. Un esempio è offerto dalle iniezioni intravitreali per curare la degenerazione maculare, che identificano una forma mista tra chirurgia e farmacologia. La chirurgia terrà poi sempre più conto dell’aspetto delle cellule. Ad esempio, un metodo innovativo consente di prevedere dall’esame delle giunzioni oculari l’acutezza visiva del paziente dopo che ha subìto un distacco di retina, fornendogli una previsione del recupero. E prevedere il successo significa anche comprendere il meccanismo che ha generato l’insuccesso, aprendo la strada alla risoluzione del problema».



OCULISTICA • Alessandro Galan

Eliminare le degenze, il futuro dell’oculistica Apparecchiature di ultima generazione e una vocazione consolidata alla chirurgia di giorno caratterizzano il Centro oculistico San Paolo dell’Ospedale Sant’Antonio di Padova. Lo spiega il direttore Alessandro Galan di Francesca Druidi

l day surgery era anni fa ed è adesso il futuro dell’oculistica». Lo sostiene con forza Alessandro Galan che ne ha fatto la spina dorsale della struttura da lui diretta, il Centro oculistico San Paolo all’interno dell’Azienda ospedaliera di Padova. «Non solo le tecniche e i materiali a disposizione lo consentono, ma anche l’esperienza maturata in ormai 13 anni di attività presso l’ospedale pubblico Sant’Antonio». Quali sono i vantaggi del day surgery? «Day surgery significa ridurre i costi della sanità pubblica e velocizzare le procedure, con accessi ospedalieri caratterizzati da limitati tempi di permanenza in ospedale. Ciò vuol dire anche circoscrivere le complicanze infettive. Una delle principali problematiche del ricovero ospedaliero è, infatti, legato all’insorgere di infezioni. Inoltre, il paziente ha un’accettazione psicologica infinitamente migliore: non tanto perché sottovaluta l’intervento in day surgery, ma perché si rende conto che la tecnologia moderna lo mette in condizione di giovarsi di una prestazione più veloce e redditizia da un punto di vista fisiologico per la risoluzione della patologia».

I Sotto, Alessandro Galan, direttore del Centro oculistico San Paolo dell’Azienda ospedaliera di Padova; a destra, Galan con l’equipe del centro durante un intervento

Il centro identifica una delle prime strutture pubbliche 106

in Italia a eseguire un trapianto corneale in day surgery. Come si consegue questo importante risultato? «Abbiamo risolto il problema vero del day surgery, quello della logistica, tramite convenzioni stipulate con strutture alberghiere e ostelli vicino all’ospedale, tra le quali il paziente può scegliere. Si tratta soprattutto di una questione di organizzazione: gestendo in modo efficace il percorso del malato, si riesce a operarlo la mattina e a dimetterlo nel pomeriggio. Del resto, anche un trapianto di cornea viene quasi sempre effettuato in anestesia locale. E anche quando si rende necessaria un’anestesia generale, si adottano tecniche anestesiologiche sul principio del “fast track”, che prevedono un recupero funzionale estremamente rapido per il quale anche un paziente operato in anestesia totale può tornarsene a casa in giornata». Come procede lo sviluppo di metodiche per il trapianto di cornea? «La sperimentazione in oculistica e, nello specifico nel trapianto di cornea, sta registrando in questi ultimi anni grandi passi avanti. La novità più importante è rappresentata dalla tecnica del cross-linking che fa evitare l’operazione, arrestando le patologie degenerative della cornea. In caso di trapianto, invece, possiamo contare su tecnologie che eseguono con grande precisione i trapianti lamellari, permettendo di sostituire solo la parte malata della cornea. Ciò è reso possi-


Alessandro Galan • OCULISTICA

GESTENDO IN MODO EFFICACE IL PERCORSO DEL MALATO, SI RIESCE A OPERARLO LA MATTINA E A DIMETTERLO NEL POMERIGGIO

bile da laser di ultima generazione, come il femtolaser». Per quanto riguarda il filone di ricerca sulle staminali? «È da anni che se ne parla, ma in realtà una vera e propria applicazione clinica non c’è, si trova ancora a livello sperimentale. Come membro del consiglio direttivo della Banca degli Occhi di Mestre, dove si pratica la ricerca sulle staminali, posso affermare però che si tratta di un campo destinato a essere portato avanti». Lei ha avviato un laboratorio specifico per studiare le miodesopsie, il cosiddetto fenomeno delle mosche volanti. Si segnalano progressi signi-

ficativi? «Le miodesopsie sono sempre state, in generale, poco considerate dagli oculisti e non sono state compiute effettive ricerche per ovviare al disturbo. In realtà, è stato calcolato che una persona su dieci che si rivolge all’oculista lamenta miodesospsie. La qualità di vita di chi ne soffre peggiora sensibilmente e alcuni casi richiedono proprio un intervento chirurgico. Lo studio multicentrico che stiamo conducendo in Veneto mira a chiarire sia la componente fisica che quella sensoriale del disturbo. Sono già stati raccolti dati statistici considerevoli e in autunno uscirà un corposo lavoro, realizzato in collaborazione con la facoltà di Statistica dell’Università di Padova, su quanto di nuovo è emerso in materia». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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DIABETE • Gli sviluppi della ricerca

AMBIENTE E SOCIETÀ: IL NUOVO VOLTO DEL DIABETE Nel quadro delle malattie croniche aumentano le impostazioni di ricerca che vedono nei fattori ambientali e socio-demografici una delle chiavi di lettura più rilevanti. È questo il caso degli studi sul diabete, in cui, probabilmente, la genetica non basta di Andrea Moscariello

ndare oltre il laboratorio. Oltre la genetica. O, meglio, affiancare i classici canoni analitici a nuovi elementi e procedure di rilevazione statistica. Anche nei casi delle malattie croniche di segno prettamente genetico ed ereditario. Il diabete, specie quello di tipo 2, sta suscitando discussioni e confronti tra studiosi e centri di ricerca di tutto il mondo. Ma la discussione non verte tanto su una precisa scoperta, quanto su alcune significative ipotesi che correlano una delle più diffuse malattie del genere umano ad alcuni elementi, ambientali e sociali, a quanto pare troppo spesso “snobbati”. Nelle scorse settimane, a lanciare il sasso nello stagno sono stati alcuni giovani ricercatori dell’università di Stanford, negli Stati Uniti. Una ricerca, la loro, che non porta alla scoperta di nuovi rischi, ma mette sul piatto alcune importanti supposizioni circa la possibilità che esistano connessioni tra l’esposizione ad alcuni elementi chimico-ambientali e lo sviluppo del diabete di tipo 2. «Gli elementi con cui abbiamo ottenuto risultati positivi se associati al diabete includono alcune sostanze inquinanti, l’eptacloro epoxide, il bifenile policlorurato (PCB) e, sorprendentemente, una forma di vitamina E, il “gamma tocopherol”» spiega Chirag Patel, studente

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del Biomedical Informatics Program di Stanford, ideatore della ricerca. Tra le altre cose, i ricercatori hanno ipotizzato un’associazione inversa tra la patologia e il beta carotene. Nessuna di queste supposizioni è confermata, anche perché risulta praticamente impossibile accedere all’insieme dei componenti chimici cui entra in contatto un essere umano nell’arco della sua intera esistenza. Certo, dalla loro, il gruppo di Stanford ha potuto contare sul database dei centri per il controllo e la prevenzione delle malattie statunitensi (U.S. Centers for disease control and prevention). Informazioni che Patel ha inserito in un innovativo database bio-informatico. E qua starebbe la vera rivoluzione. Una campionatura della popolazione malata che contenga, oltre ai dati genetici, all’età, al peso e al sesso, anche le più significative rilevazioni riguardanti le esposizioni chimiche e ambientali. Non solo. L’aver trovato importanti esposizioni all’eptacloro suscita il dibattito sulla presenza di questa sostanza nell’acqua e nel terreno. Tale elemento, derivato di un pesticida, negli Stati Uniti venne bandito nel 1980, ma tutt’oggi si trasmette tramite il cibo e, ancora più pericoloso, attraverso il latte materno. E dai risultati ottenuti in America una presenza eccessiva di questa sostanza aumenterebbe la possibilità di contrarre il

In alto, l’ingresso della facoltà di Medicina dell’Università di Stanford, Stati Uniti; sotto, una bambina si misura l’indice glicemico


PREVALENZA DEL DIABETE PER CARATTERISTICHE SOCIO-DEMOGRAFICHE - POOL DI ASL PASSI 07/08 (N=2.801) Classi di età

Sesso Istruzione

Difficoltà economiche

18-34 35-49 50-69 Donne Uomini Nessuna / elementare Scuola media inferiore Scuola media superiore Laurea Molte Qualche Nessuna

1% 2% 11% 5% 5% 15% 5% 3% 2% 9% 5% 3%

GLI STUDENTI DI STANFORD PROPONGONO UN METODO UTILE A GENERARE IDEE E A COMINCIARE A OCCUPARSI DI DIABETE ANCHE SOTTO IL PROFILO DELLE ESPOSIZIONI AMBIENTALI diabete di tipo 2 di circa il 7%. Mentre coloro ai quali viene riscontrato un alto livello di Pcb pare abbia il 15% in più di rischio, un risultato tra l’altro riscontrato anche in diversi studi precedenti. Il passo dalla teoria alla conferma certamente è lungo, ma è già un inizio. «Ora come ora prenderei i risultati di questa ricerca con le pinze» dichiara la dottoressa Marina Maggini, epidemiologa dell’Istituto Superiore di Sanità, la quale si occupa della ricerca dei fattori di rischio connessi al diabete. «Gli studenti di Stanford sono molto onesti nell’ammettere che le loro, per ora, sono solo ipotesi, ma rappresentano comunque uno spunto riflessivo. Propongono un metodo molto interessante, piuttosto sofisticato, che può servire a generare idee e a cominciare a occuparsi di diabete anche sotto il profilo delle esposizioni ambientali». In un certo senso l’impostazione del lavoro cui prende attivamente parte Marina Maggini si connette a quello degli studiosi americani. Nel suo caso, però, l’incidenza del diabete viene sì analizzata dal punto di vista dell’ambiente, ma inteso come contesto sociale. Forse molti non sanno che questa malattia, al pari di altre patologie croniche, è più diffusa tra le fasce di popolazione con difficoltà economiche e bassa scolarità. Come nel caso dei centri di con-

trollo americani, in Italia ci si può riferire a un progetto denominato “Passi”, Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia, un sistema di sorveglianza creato su iniziativa del ministero della Salute, del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (Cnesps), dell’Istituto Superiore di Sanità e delle Regioni, con l’obiettivo di monitorare in maniera continua abitudini, stili di vita, comportamenti e principali attività di prevenzione dei cittadini. In tale maniera si è potuta scattare una fotografia sull’incidenza del diabete. Analizzando i dati Istat relativi al 2009, si scopre che il 4,8% degli italiani è diabetico, il 5% delle donne e il 4,6% degli uomini: circa 2,9 milioni di persone. Dall’analisi del Passi, poi, si evidenzia un progressivo aumento della presenza del diabete più ci si avvicina al Sud. I dati raccolti tra il 2007 e il 2008 ci indicano che al Nord si stima il 4% di popolazione affetta da diabete, al Centro il 5%, mentre al Sud e nelle isole il 6%. E mentre nella provincia di Bolzano si riscontra il dato più basso, il 2% circa, in Basilicata registriamo il record negativo, l’8%. La malattia ha poi un’incidenza più alta nelle persone senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare, 15%, e in quelle con evidenti difficoltà economiche, 9%. Anche le

variabili socio-demografiche, dunque, bussano con insistenza alla porta dei ricercatori. E sarebbe interessante analizzare l’estrazione sociale media delle persone maggiormente esposte ai fattori inquinanti presi in esame dall’università di Stanford. Ma come può la scolarità incidere su una malattia prevalentemente genetica ed ereditaria? «Partiamo dal fatto che anche l’obesità e l’educazione alimentare causano il diabete – spiega la Maggini –. Inoltre, dobbiamo considerare che il vero problema non sta tanto nell’incidenza della malattia in sé, quanto, piuttosto, nei danni che ne conseguono». Con il diabete bisogna convivere tutta la vita. La differenza la fanno le complicanze. Cuore, reni e occhi sono solo alcuni degli organi a rischio per qualunque malato, ricco o povero, analfabeta o laureato. Secondo Maggini «quando si parla di diabete non basta curare i pazienti, occorre prendersene cura». Il problema, e qua si evince l’incidenza dello status socio-economico, è che il malato, autonomamente, deve prendersi cura di sé. Nessuno bussa alla porta del diabetico per ricordargli che può rivolgersi al diabetologo o a un determinato centro specialistico. E chiaramente in questo il livello di conoscenza e integrazione sociale incide fortemente. «In Italia ci sono moltissime persone af-

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DIABETE • Gli sviluppi della ricerca

IL VERO PROBLEMA NON STA TANTO NELL’INCIDENZA DELLA MALATTIA IN SÉ QUANTO, PIUTTOSTO, NEI DANNI CHE NE CONSEGUONO. QUANDO SI PARLA DI DIABETE NON BASTA CURARE I PAZIENTI, OCCORRE PRENDERSENE CURA ¬

In alto, un laboratorio analisi dell’Istituto Superiore di Sanità

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fette da diabete che per tutta la vita si curano esclusivamente dal diabetologo o dal proprio medico di base». L’epidemiologa insiste sul dover proporre un modello di assistenza a gestione integrata, alla base di un obiettivo prefissato dal ministero della Salute e dalle Regioni. «Registrando tutti i malati di diabete potremmo far collaborare il diabetologo con l’operatore di medicina generale, permettendo loro di intervenire su un fronte unico, con un’anamnesi completa su ogni singolo caso. Poi, a seconda delle complicanze, potrebbero affiancare il cardiologo, l’oculista e ogni altro specialista coinvolto nella cura». In questo si determina il concetto di integrazione. E in questo modo lo Stato potrebbe occuparsi concretamente del diabetico predisponendogli un percorso di cura specifico, andandolo eventualmente a richiamare qualora non si presentasse alle visite. Così il gap tra le persone colte, più predisposte a informarsi sulle eccellenze mediche e a rivol-

gersi agli specialisti e coloro i quali, invece, non sanno dove recarsi verrebbe colmato. Per cambiare lo stato delle cose, però, occorre sostenere la ricerca di base. «In Italia purtroppo, specie in questo periodo, i fondi vengono a mancare. Gli enti di ricerca sono in difficoltà, così come gli atenei universitari». Difficile immaginare la realizzazione di un’opera come quella dei colleghi statunitensi i quali, nel frattempo, anziché combattere sui fondi, sperano di ottenere un riscontro dal punto di vista culturale, propositivo. «La nostra ricerca potrebbe avere un impatto – conclude Chirag Patel –. Ma ciò avverrà solo se gli epidemiologi e i genetisti cominceranno a pensare a come incorporare i fattori ambientali nei loro studi. Non è facile studiare le influenze ambientali, che cambiano costantemente, ma questo non significa che sia sufficiente concentrarsi unicamente sui dati genetici».



ONCOLOGIA TORACICA • La ricerca europea

L’EUROPA E LA SVOLTA PERSONALIZZATA Si chiama Gefinitib e potrebbe aprire la strada a una nuova era per la ricerca sul cancro ai polmoni. I più illustri oncologi europei si sono riuniti a Ginevra per fare il punto su una svolta, quella della terapia “personalizzata”, che per una fascia di pazienti si è rivelata più efficace della classica chemioterapia di Andrea Moscariello

econdo i dati forniti dall’Oms, quello ai polmoni è il cancro che provoca il più alto numero di decessi, colpendo indifferentemente tanto la popolazione maschile quanto quella femminile con oltre un milione e mezzo di casi all’anno. Una malattia difficile da combattere, spesso diagnosticata troppo tardi. Il mondo della ricerca sta realizzando, anche se a piccoli passi, importanti sviluppi. In particolare, a fine aprile è stato annunciato che anche in Europa la terapia personalizzata per la cura del cancro al polmone diverrà realtà. Di questo si è discusso dal 28 aprile al 2 maggio 2010, durante la seconda conferenza europea sul cancro al polmone di Ginevra, organizzata dall’Esmo, la European society for medical oncology. Ma cosa si intende per “terapia personalizzata”? Fino a oggi, specie nel caso dei polmoni, le cure si sono concentrate soprattutto su terapie chemioterapiche indistinte. Ma ogni tumore ha caratteristiche precise, con determinate alterazioni molecolari. Secondo Robert Pirker, dell’Università di Vienna «la terapia personaliz-

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zata, basata sulle caratteristiche del tumore del singolo paziente, dà risultati migliori, è meno tossica ed è più efficace». Applicata tramite l’assunzione per via orale di un medicinale, il Gefinitib, la tecnica si è rivelata in alcuni casi migliore dei classici sei cicli chemioterapici. «I trattamenti orali a base di Gefinitib – aggiunge Pirker – si possono però utilizzare nei pazienti con un cancro avanzato non a cellule piccole, che presentano mu-

tazioni cancerose che attivano una molecola della superficie cellulare, il recettore del fattore di crescita epidermico». Ma facciamo un passo indietro. Interpellando Fortunato Ciardiello, professore di Oncologia Medica presso l’Università di Napoli e coordinatore del working group sulla ricerca traslazionale per l’Esmo, emerge che la distinzione “a piccole cellule” o “non a piccole cellule” cor-


In apertura, Fortunato Ciardiello, professore di Oncologia Medica e coordinatore del working group Esmo sulla ricerca traslazionale. Sopra, un’immagine tratta dal convegno tenutosi a Ginevra organizzato dall’Esmo. Sotto, il professor David Carbone del Vanderbilt-Ingram Cancer Center di Nashville durante il suo intervento all’evento di Ginevra

risponde a una prima categoria istologica. I tumori a piccole cellule rappresentano circa il 20% dei casi, mentre quelli non a piccole, l’80%. Tra questi ultimi, in circa il 10% dei casi si sono ottenuti risultati soddisfacenti applicando la terapia personalizzata. Cifre che sul totale appaiono minime, ma sono comunque significative se si considera il tasso di mortalità della neoplasia polmonare, la più ardua da debellare. «Finalmente si è ottenuta la possibilità di sperimentare e utilizzare farmaci nuovi nella pratica clinica – spiega Ciardiello –. Si tratta di farmaci che bloccano una sostanza, una molecola ritenuta la responsabile principale della crescita del tumore». Tecniche già utilizzate da anni per altre tipologie di formazioni cancerogene, pensiamo alla terapia ormonale per il tumore alla mammella, ma che ora sono utilizzabili anche sui polmoni. La svolta consiste nell’aver trovato un’arma capace di inibire il recettore del fattore di crescita epidermico, come spiegava Pirker. E sempre a Ginevra, anche il professor David Carbone del VanderbiltIngram Cancer Center di Nashville,

ha spiegato come, nei prossimi anni, potrebbe divenire sempre più frequente la ricerca di questa molecola nei pazienti attraverso analisi del sangue o metodi più innovativi come l’ibridazione fluorescente. È dunque marcatamente più “taylor made” il futuro della ricerca in questo ambito? Sempre per Ciardiello a tal proposito «si sta cercando di capire anche sulla chemio quali sono le tipologie di tumori che si rivelano più o meno sensibili alla terapia. Ci si sforza di individualizzare, nel modo più personale possibile, il trattamento più idoneo per la cura del singolo tumore». Resta lungo, però, il tempo medio di attesa che separa la scoperta scientifica dalla sua applica-

zione pratica sulla cittadinanza. Un gap da ridurre. Ed è proprio questo, del resto, l’obiettivo prefissato dal working group coordinato dal professore dell’Università di Napoli. «Il mondo della ricerca e il mondo della clinica vivono assieme. E in particolare sul tema dei tumori al polmone in Europa si avverte l’esigenza di lavorare, sia in fase pre-clinica che clinica, in un network più diffuso e organizzato». Poco dopo l’evento di Ginevra, a tal proposito, l’Esmo ha organizzato un workshop a Lugano, in cui proprio alla presenza di Ciardiello si è discusso su come migliorare la cooperazione internazionale tra ricercatori e clinici europei. «Le eccellenze in oncologia non mancano, specie in Italia. Ma che senso ha continuare a collaborare, magari per amicizia, con un collega di Bari o di Milano se poi le scoperte non possono essere utilizzate tanto per i nostri pazienti quanto per quelli di Helsinki o Berlino?», esorta il coordinatore del gruppo sulla ricerca traslazionale. Le conquiste della comunità scientifica, infatti, rischiano di rivolgersi a una ristretta elite di cittadini, se non inseriti in un GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ONCOLOGIA TORACICA • La ricerca europea

PURTROPPO, ANCORA OGGI, UNA DIAGNOSI DI TUMORE AL POLMONE È QUASI SEMPRE NEFASTA. PER MOLTISSIMI PAZIENTI NON ESISTE L’OBIETTIVO GUARIGIONE

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quadro globale di sviluppo e sperimentazione dei risultati. «Per questo occorre anche una collaborazione più intelligente con l’industria farmaceutica» spiega Ciardiello. Ma la creazione di una «massa critica europea», in qualche modo competitiva, anche a livello industriale, con quella americana, più forte dal punto di vista dei finanziamenti, pare non essere cosa facile. Proprio sul fronte del cancro al polmone non ci si può e non ci si deve arrendere. A questo punto, sommando i risultati della terapia personalizzata con quelli relativi ad altre mutazioni molto rare, si potrebbero già curare efficacemente tra il 15% e il 20% dei malati. Considerando soltanto il caso del recente farmaco Eml4/Alk, che pare agisca ottimamente su una determinata mutazione del tumore polmonare, si potrebbe salvare la vita al 6-7% dei SANISSIMI GIUGNO 2010

malati. Una nicchia, certo, piccola ma del resto solo su queste cifre si può realizzare la svolta per una patologia non sottoponibile ai piani di rilevazione e alle tecniche chirurgiche che invece hanno rivoluzionato l’impatto di molti altri tumori. «Non abbiamo ancora metodiche di screening neppure sulla popolazione a rischio, quella dei fumatori. Tac, radiografie, risonanze, nel cancro al polmone non hanno ancora ottenuto grosse capacità di diagnosi precoce, e conseguentemente di guaribilità – racconta Ciardiello –. Purtroppo, ancora oggi, una diagnosi di tumore al polmone è quasi sempre nefasta. Per moltissimi pazienti non esiste l’obiettivo guarigione, ma soltanto quello di diminuzione del dolore, di alleviamento dei sintomi, allungando la vita il più possibile, ma difficilmente si supera l’anno». Il meeting di Lugano, però, è la chiara

SI AMMALANO SEMPRE PIÙ DONNE eggendo i dati forniti dall’Airc, Associazione italiana ricerca sul cancro, si capisce perché la ricerca sul tumore al polmone è centrale in un’ottica di miglioramento della salute pubblica. In Italia si contano circa 250 mila nuovi casi ogni anno. E di questi ne muoiono circa 35 mila ogni 12 mesi. Si tratta di una malattia che da sola rappresenta il 20% di tutti i tumori maligni nelle persone di sesso maschile. In questi ultimi anni, però, si sta registrando un progressivo aumento anche tra le donne. Il motivo? Le donne fumano sempre di più. E il fumo è la principale causa di cancro al polmone. Secondo un recente rapporto Istat, la mortalità per tumore diminuisce del 2% circa ogni anno, ma nel caso del cancro polmonare tale diminuzione riguarda solo gli uomini, mentre nelle donne i decessi sono aumentati dell’1,5 per cento.

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dimostrazione di come le cose possano cambiare, ponendo un importante tassello sulla strada che porterà a un approccio coordinato alla ricerca traslazionale su questa grave malattia. Secondo Rolf Stahel dell’Ospedale universitario di Zurigo e presidente del consiglio di fondazione Etop (European thoracic oncology platform) «l’obiettivo principale è quello di stabilire standard e garantire uniformità, sia che si tratti di operazioni apparentemente banali, ad esempio il trasporto del materiale biotipico da una nazione all’altra, sia che si discuta delle complesse procedure per utilizzare i marcatori tumorali nell’ambito degli studi clinici». A partire dalle nuove tecniche di biologia molecolare che possono facilitare la diagnosi di cellule cancerose. Una raccomandazione per velocizzare e attuare le scoperte scientifiche in pratica clinica.



CARDIOLOGIA • Il congresso di Atlanta

CELLULE PROGENITRICI “MILIZIE DI SOCCORSO” È possibile anticipare l’infarto? In che modo, osservando il nostro apparato cardiovascolare, possiamo anticipare ed evitare l’evento dannoso? Secondo alcuni ricercatori dell’Università di Pisa, la risposta potrebbe nascondersi nelle cellule progenitrici endoteliali di Andrea Moscariello

il meno invasivo possibile l’avamposto della ricerca cardiochirurgica. Nei prossimi anni assisteremo a una riduzione sempre più consistente delle operazioni a cuore aperto. Nuove tecniche di intervento, l’utilizzo avanzato di cellule staminali e la sempre più precisa tecnologia emodinamica stanno progressivamente mutando l’approccio nei confronti delle patologie e degli eventi gravi a livello cardiovascolare. Una fotografia sul futuro illustrata con chiarezza ed entusiasmo al recente Congresso mondiale di Cardiologia tenutosi a marzo ad Atlanta, negli Stati Uniti. Uno svi-

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luppo reso possibile anche dal fatto che le sperimentazioni avanzate, le menti più apprezzate e i risultati più sorprendenti si possono trovare in quasi ogni parte del globo. L’Europa, in particolare, non è certamente seconda agli Usa. A emergere, soprattutto, sono i vantaggi resi possibili dalle metodiche percutanee. «È questa la direzione da seguire» afferma il professor Alberto Balbarini, direttore del Dipartimento cardiotoracico e vascolare dell’Università di Pisa, rientrato anch’egli da Atlanta portandosi in valigia una buona dose di riconoscimenti per il suo laboratorio di ricerca.

Sono stati 5, infatti, i progetti presentati all’evento mondiale dagli studiosi dell’ateneo pisano, tra cui quello sui “Meccanismi funzionali precipitanti le sindromi coronariche acute non associate a tratto ST sopraslivellato”, che è valso un premio alla dottoressa Paola Capozza come migliore ricercatrice. Un lavoro che analizza il ruolo della vasocostrizione nella sequenza del processo patologico che porta all’infarto miocardico. La dottoressa, in particolare, è riuscita a documentare come le dimensioni della placca ateroscletorica si riducano significativamente in seguito alla somministrazione di un farmaco capace di dilatare le arterie coronarie. Un’osservazione che evidenzia il ruolo primario ricoperto dalla componente vasoattiva nel precipitare l’evento acuto e che richiama le ricerche farmacologiche a focalizzarsi, oltre che sulla componente organica, anche sulla parte funzionale vasospastica. In questo caso l’obiettivo è raggiungere una solida opportunità di prevenzione dell’infarto miocardico. E sempre su questo fronte si determina l’altra grande novità, riguardante le cellule progenitrici endoteliali, le cosiddette Epc, che stanno monopolizzando numerosi progetti di ricerca. A partire da quelli promossi proprio da Balbarini, il cui gruppo, nel corso del convegno di Atlanta, ha esposto i risultati di una ricerca che punta a verificare il com-


LE EPC PARTECIPANO ALLA RIVASCOLARIZZAZIONE DI AREE ISCHEMICHE, CONTRIBUENDO COSÌ ALLA RIPARAZIONE DEL DANNO ENDOTELIALE E ALL’ANGIOGENESI

Alberto Balbarini, direttore del Dipartimento cardiotoracico e vascolare dell’Università di Pisa

portamento delle cellule progenitrici endoteliali in condizioni di alti valori di glucosio. Un’osservazione empirica rivolta soprattutto ai soggetti diabetici o con familiarità verso questa patologia. Secondo il gruppo di ricercatori «Le Epc risultano essere più resistenti, rispetto alle cellule endoteliali mature, allo stress ossidativo». Un dato che, con il supporto dell’industria farmaceutica, è in grado di gettare le basi per interventi atti a ripristinare la funzione e il numero di queste importanti cellule nei pazienti più a rischio. Ma perché le Epc sono così determinanti? Le cellule progenitrici endoteliali risultano particolarmente importanti per la loro capacità di migrare verso i siti vascolari danneggiati. Come specifica Rossella Di Stefano, responsabile del Laboratorio di ricerca cardiovascolare dell’Università di Pisa, «le Epc partecipano alla rivascolarizzazione di aree ischemiche, contribuendo così alla riparazione del danno endoteliale e all’angiogenesi». Per questo sempre più studiosi consi-

derano le Epc come una sorta di «milizia di soccorso». Negli studi effettuati dallo staff di Balbarini, si è riscontrata una riduzione di queste cellule, oltre che nei pazienti diabetici, anche in quelli pre-diabetici. Un fattore importantissimo. I malati di diabete, infatti, sono tra le prime vittime di danni miocardici. Oggi si spera di poter identificare con anticipo un segnale sensibile relativo a una predisposizione alla disfunzione endoteliale, responsabile delle complicanze vascolari nei diabetici. Tradotto tutto ciò significa poter prevenire diverse tipologie di infarto monitorando la popolazione a questo più esposta. Impiantando le Epc si possono veicolare e mantenere cellule riparatrici nel sito specifico in cui occorre intervenire. «In pratica ricoprirebbero un ruolo protettivo cardiovascolare in soggetti diabetici e pre-diabetici. Una protezione specie nei confronti dell’iperglicemia – spiega Balbarini -. Ad Atlanta, dove abbiamo presentato questi risultati, abbiamo ottenuto il plauso della coGIUGNO 2010 SANISSIMI

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CARDIOLOGIA • Il congresso di Atlanta

COSA SONO LE EPC? e Cellule progenitrici endoteliali vennero descritte per la prima volta nel 1997. Più precisamente vennero indicate come cellule circolanti derivate da una particolare linea staminale del midollo osseo. E dal 2000 sono oggetto di studio presso il laboratorio di ricerca cardiovascolare del Dipartimento Cardiotoracico e vascolare dell’Università di Pisa. Moltissime analisi eseguite su modelli animali hanno dimostrato le capacità riparative di queste cellule nel miocardio infartuato o negli arti inferiori all’interno di modelli di ischemia severa periferica. Queste cellule possono essere ricercate nel sangue attraverso un semplice prelievo. La loro identificazione avviene attraverso l’utilizzo di anticorpi monoclonali che ne riconoscono le specifiche strutture antigeniche di superficie. (Fonte: Dipartimento Cardiotoracico e Vascolare – Università di Pisa)

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munità internazionale. Il poter evidenziare così precocemente il danno vascolare è una svolta». E qui si ritorna anche al tema della mini-invasività. Come spiega Di Stefano «il vantaggio dell’uso delle Epc coltivate su matrici biologiche tridimensionali è dato dal fatto che queste cellule possono essere impiantate o iniettate». Il lavoro presentato dal laboratorio pisano dimostra che queste, se coltivate nella matrice del peptide, si inglobano nella struttura restando vitali e funzionanti. Insomma, dalle operazioni a cuore aperto a un’ipotesi, sempre più concreta, di prevenzione del danno con una semplice immissione percutanea. Un vero vantaggio per milioni di persone. Occorrerà però aspettare ancora qualche anno, prima di rendere tutto questo realtà. Come specifica Balbarini, i risultati sono molto incoraggianti, «ma siamo ancora lontani dall’applicazione. Servono ulteriori conferme per riscon118

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trare maggiori evidenze nell’uomo. Per ora abbiamo lavorato in vitro e sugli animali». Un impegno scientifico dall’accento spiccatamente italiano. Balbarini ci tiene a precisare che «già a livello nazionale il gruppo dell’Università di Pisa ha ottenuto importanti riconoscimenti. Abbiamo collaborato soprattutto con il Cnr. Inoltre, sia a livello regionale che nazionale non sono mancati i finanziamenti». Si spera, comunque, che la presentazione dinanzi l’American College of Cardiology di Atlanta permetta un’ulteriore sviluppo sulla ricerca delle Epc nell’ambito della prevenzione delle patologie vascolari. «L’evento americano rappresenta sicuramente un’importante cassa di risonanza per il nostro lavoro. E ha confermato il fatto che la ricerca cardiologica e cardiovascolare italiana, è una delle più apprezzate nel mondo».



UROLOGIA • Vincenzo Gentile

Prostata, oggi i rimedi vanno oltre la chemioterapia La ricerca sulla cura e il trattamento del tumore della prostata oggi ha prodotto efficaci metodi terapeutici. La diagnosi precoce e una corretta informazione al paziente, però, restano i punti saldi per una completa guarigione. L’analisi approfondita di Vincenzo Gentile di Ezio Petrillo

uando la prevenzione vale più di ogni terapia. I controlli periodici sono la base per poter curare in maniera adeguata l’insorgere di malattie che affliggono la prostata. Il carcinoma prostatico rappresenta l’affezione più grave. La diagnosi precoce, in tal caso, è il punto di partenza di una guarigione completa. Terapia chirurgica, radioterapia e le nuove frontiere della ricerca medica sulle patologie della prostata, nelle parole di Vincenzo Gentile, presidente della Società italiana di andrologia.

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Parliamo delle principali malattie della prostata. Quali sono le cause e gli effetti di tali affezioni? «Le patologie della prostata comprendono affezioni benigne a carattere infiammatorio come la prostatite, più frequente nei giovani, l’ipertrofia prostatica benigna e il carcinoma della prostata. In particolare, l'alta incidenza aumenta l’interesse sociale per l’ipertrofia e il carcinoma. L’ipertrofia prostatica è una patologia benigna che, a causa dell’aumento di volume della ghiandola, crea un ostacolo alla minzione e quindi allo svuotamento vescicale. Col tempo essa finisce con il creare un danno progressivo alla vescica, con la perdita della sua capacità di contrarsi fino alla formazione di diverticoli nella sua parete. Si passa quindi da una fase caratterizzata da disturbi minzionali che influenzano negativamente la qualità di vita del paziente, fino ad arrivare a complicanze che creano un reale danno alla salute come infezioni, ritenzione urinaria, calcolosi secondaria». Tumore della prostata. Ci sono dei 120

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sintomi particolari? «Il carcinoma prostatico non è legato a una sintomatologia specifica, perché il più delle volte si origina nella periferia della ghiandola. Questo accresce il rischio che il tumore si evidenzi in una fase metastatica. Non tutti i carcinomi prostatici sono clinicamente rilevanti; alcuni sono talmente lenti nell’evoluzione che, considerando l’età del paziente, se l’aspettativa di vita è inferiore a 10 anni, non sono in grado di influenzarne la sopravvivenza. Altri carcinomi sono invece a rapida progressione con sviluppo di metastasi». Quanto conta l’aspetto della prevenzione, per combattere in maniera efficace il cancro della prostata? «La prevenzione ha un ruolo molto importante sia nell’ipertrofia che nel carcinoma prostatico. I controlli devono essere annuali e interrompersi quando l’aspettativa di vita è inferiore a 10 anni. La prevenzione del carcinoma prostatico si basa sulla determinazione del Psa e su una visita urologica. Il Psa deve essere interpretato dallo specialista in maniera dinamica. Più che un valore fisso di cut-off, è importante prestare attenzione all’aumento progressivo del Psa totale oltre 2.5 ng/ml che pone il sospetto di carcinoma prostatico. Attualmente a supporto di queste indagini di base vi è la possibilità di misurare un nuovo parametro, la Pca3 che è un marcatore genico ricercato nelle urine ottenute dopo massaggio prostatico. Tale valore non sostituisce il Psa, ma si associa ad esso per identificare meglio i casi a rischio di carcinoma. Esiste inoltre la possibilità di avvalersi della Rm con spet-

In questa pagina, dall’alto, Vincenzo Gentile, presidente della Società italiana di andrologia; in basso, trattamento chirurgico della prostata


Vincenzo Gentile • UROLOGIA

A sinistra, l’evoluzione del carcinoma prostatico e, sotto, una Rm con spettroscopia

troscopia che associa all’immagine della ghiandola, l’analisi metabolica con il dosaggio di sostanze come la colina che si comportano diversamente fra tessuto sano e tumore. In questo modo è possibile ottenere una mappa della prostata con le aree sospette per carcinoma. La diagnosi è però sempre affidata a una biopsia ecoguidata». Il fattore età. A partire da quanti anni è importante rivolgersi allo specialista? «L'età è il fattore principale per lo sviluppo delle patologie della prostata, con una frequenza in aumento a partire dai 50 anni. La prevenzione deve quindi essere effettuata già dai 50 anni e, se vi è una familiarità (uno o più familiari con storia di patologia prostatica che ha richiesto trattamento), a partire da 45 anni». Quali sono oggi le terapie più efficaci e innovative per contrastare questo

tipo di cancro? «La terapia attuale del carcinoma prostatico è in grado di dare ottimi risultati se la diagnosi è precoce e la malattia è confinata alla ghiandola. Infatti, se il valore di Psa è inferiore a 10 ng/ml con un’esplorazione rettale negativa, le probabilità di una forma confinata all’interno della prostata superano l’80%. In questi casi l’intervento chirurgico sarà radicale e quindi assicurerà la guarigione clinica. Esso consiste in una prostatectomia radicale che può essere eseguita in maniera tradizionale, oppure con tecnica laparoscopica o robotica. Le ultime due modalità riducono i tempi della degenza e aumentano la possibilità di preservare i fasci neurovascolari per l’erezione e la continenza urinaria, ma non migliorano i risultati oncologici». Ci sono stati comunque dei passi in avanti notevoli della ricerca. «Nel nostro dipartimento, in collaborazione con la Radiologia dell’Università La

Sapienza, abbiamo sviluppato una tecnica che, tramite la Rm, permette di localizzare il decorso dei nervi erigendi prima dell’intervento, quindi preservarli meglio e controllarne l’integrità successivamente. Alternativa alla chirurgia è la radioterapia che, grazie all’evoluzione tecnologica, ha migliorato i risultati e ridotto gli effetti collaterali sugli organi vicini come il retto e la vescica. La terapia medica si avvale dell’uso di farmaci antiandrogeni che bloccano gli effetti degli androgeni sulla progressione tumorale. Tale trattamento non è mai curativo ma rallenta la progressione del tumore ed è indicato nei casi avanzati. La chemioterapia, invece, ha un’efficacia ridotta. Il nostro gruppo, nelle forme resistenti alla terapia ormonale e con una differenziazione neuroendocrina, identificabile con il dosaggio del marcatore Cromogranina A, utilizza una terapia basata sull’uso degli analoghi della somatostatina associati ad altre terapie citotossiche». Gli aspetti da migliorare nel campo dell’informazione al paziente. Si fa abbastanza, a suo avviso, in questo senso? «La chiarezza e la trasparenza devono essere alla base dell’informazione. Lo specialista dovrebbe informare il paziente sulla possibilità di guarigione, sui tipi di intervento e sulle relative complicanze». Registra delle differenze nel modo di divulgare informazioni scientifiche nel nostro Paese rispetto all’estero? «All’estero hanno cominciato molto prima a curare la divulgazione e la correttezza dell’informazione scientifica. Negli ultimi anni, grazie anche alla globalizzazione della comunicazione, ci stiamo adeguando. Sicuramente le istituzioni e le società scientifiche dovrebbero svolgere un ruolo più attivo e di controllo a tal riguardo». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ANDROLOGIA • Chirurgia non invasiva

Protesi peniene, nuove soluzioni Nuove prospettive per la cura delle patologie che riguardano l’apparato genitale maschile. I passi in avanti della chirurgia, il ruolo sempre meno invasivo delle protesi, aprono spiragli inaspettati per ristabilire una corretta funzionalità del pene. Il punto di Diego Pozza di Ezio Petrillo

miracoli della chirurgia moderna. Restituire le funzionalità sessuali per l’uomo anche in età avanzata oggi è possibile. La medicina negli ultimi anni, ha fatto passi da gigante in merito, riuscendo a correggere le malformazioni congenite del pene, frequenti in quei soggetti affetti da patologie croniche come il diabete o l’ipertensione. Le problematiche, i disagi, le vie di guarigione dai risultati sempre più concreti nelle parole dell’andrologo Diego Pozza.

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Una delle malattie più difficili con cui convivere è la Induratio Penis Plastica. Di cosa si tratta nello specifico? «È una patologia delle membrane dei corpi cavernosi del pene, frequente nei soggetti ipertesi e diabetici, specie dopo i 50 anni, che determina accorciamenti, curvature e angolature del pene con perdita della funzione erettile impedendo anche i rapporti sessuali». Dalla IPP si può guarire? «La IPP non può essere risolta. Non esistono terapie farmacologiche o di altra natura capaci di far scomparire la placca o la fibrosi dei corpi cavernosi. Si sono provati, inutilmente moltissimi 122

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farmaci e procedure, infiltrazioni, laser senza alcun risultato». Esistono terapie mediche in grado di risolvere tali problemi? «Negli ultimi 20 anni non si sono scoperti farmaci nuovi che abbiano potuto cambiare la strategia dello specialista in tali patologie, mentre sono comparse innovazioni in campo chirurgico protesico e tissutale che hanno consentito alla chirurgia di fare dei notevoli passi in avanti. Oggi siamo in grado di correggere quasi tutte le malformazioni del pene restituendo, oltre alla loro morfologia anche una funzione erettile e sessuale soddisfacente». Quindi la chirurgia diventa una prassi sempre più necessaria. «Direi di si. In sostanza rappresenta l’unica soluzione del problema, con l’asportazione della placca fibrosa che oggi, può essere sostituita con tessuti particolari, innovativi, di origine animale che consentono una rigenerazione della guaina cavernosa ottenendo un buon allungamento e raddrizzamento del pene. Ciò consente il mantenimento di una adeguata funzione erettile».

OGGI SIAMO IN GRADO DI CORREGGERE QUASI TUTTE LE MALFORMAZIONI DEL PENE


Chirurgia non invasiva • ANDROLOGIA

Il dottor Diego Pozza, specializzato in andrologia, endocrinologia, chirurgia generale e in oncologia; Direttore del Centro di andrologia e di chirurgia andrologica, operativo a Roma dal 1982 e con una delle più importanti casistiche chirurgiche andrologiche nazionali www.erezione.org diegpo@tin.it

In passato si usavano anche le protesi peniene? «Certamente. In verità si utilizzano anche oggi. Le protesi peniene, cilindri di silicone, malleabili o gonfiabili con un semplice meccanismo idraulico, possono essere inserite all’interno dei corpi cavernosi senza alcuna visibilità estetica, ma con ottimi risultati morfologici e funzionali. Il pene diventa perfettamente diritto e capace di attività penetrativa». Le protesi si vedono dall’esterno? «Assolutamente no. Il pene appare sostanzialmente normale, solo un po’ allun-

gato rispetto allo stato di flaccidità. La piccola cicatrice non è visibile. Non è possibile immaginare che all’interno siano presenti delle protesi. Diciamo che è visibile un po’ come una dentiera». Può descriverci, nei dettagli, il funzionamento? «La protesi endocavernosa ristabilisce una rigidità ottimale che consente una penetrazione sessuale senza alcun limite di tempo. La sensibilità locale è conservata. Le percezioni tattili non vengono modificate. L’eiaculazione avviene con le stesse modalità di sempre. Oltre il 90% dei pazienti operati dichiara di aver

serbatoio

cilindro eretto

cilindro flaccido pompa di riempimento\ svuotamento

quasi dimenticato di avere le strutture protesiche». È necessario un ricovero per tale tipo di chirurgia? «Teoricamente questa chirurgia potrebbe essere effettuata anche in day hospital anche se consiglio ai pazienti una notte di osservazione in clinica. L’anestesia è loco regionale o anche solo locale con smaltimento in poche ore. Non ci sono rischi cardiocircolatori importanti». Le donne, in linea di massima, sono favorevoli a tale intervento? «Inizialmente le donne erano un po’ ostili al desiderio del proprio uomo di operare il pene per poter avere adeguati rapporti sessuali. Oggi, dopo aver vissuto il decorso del problema erettile nella vita di coppia e dell’impatto anche psicologico della malattia sul partner sono soddisfatte dalla scelta della chirurgia o della protesi peniena. Questa, infatti, consente di evitare farmaci o iniezioni con il recupero di una certa spontaneità nei tempi e nella qualità dei rapporti sessuali e rilevante riacquisto del senso di autostima. Molto spesso, inoltre, sono le donne che spingono i maschi, titubanti, ad affrontare il trattamento chirurgico». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ANDROLOGIA • Eiaculazione precoce

Molti uomini ne soffrono ma pochi ne parlano L’eiaculazione precoce è un disturbo molto diffuso fra gli uomini, che però si dimostrano restii a parlarne, anche con gli specialisti a loro dedicati. E così facendo si precludono la possibilità di trovare una soluzione definitiva al problema. Il dottor Andrea Pronto fa un quadro della situazione di Stefano Marinelli

utti gli uomini possono soffrirne, in qualsiasi momento della vita. L’eiaculazione precoce colpisce circa il 20-25% di loro, in tutte le età. Eppure, nonostante si tratti di una disfunzione tanto comune, ancora oggi rappresenta un tabù. «Molti uomini, per imbarazzo, disinformazione o gap culturale, non ricorrono all’andrologo per chiedere aiuto e parlare di questo loro disturbo» sostiene il dottor Pronto, di professione andrologo. E nonostante sia un problema più diffuso della disfunzione erettile, gli uomini con difficoltà nel controllo eiaculatorio si rivolgono allo specialista meno frequentemente di quelli che soffrono di impotenza. «Spesso, addirittura – prosegue il dottor Pronto -, non si confidano con nessuno, rimanendo ostaggi di questo sintomo». Infatti si tratta di un sintomo a tutti gli effetti, da non sottovalutare. «L’eiaculazione precoce è un campanello d’allarme, che deve essere decodificato diagnosticando l’origine della patologia che sta alla base di questo malessere» avverte il medico. Un disturbo, quindi, derivato da cause patologiche, che possono essere organiche o psicogene. «Fra quelle fisiche si possono annoverare cause infiammatorio-infettive, ormonali, endocrino-me-

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taboliche, prostatiche, cardio-vascolari, jatrogene, sistemiche, chirurgiche e traumatiche, a cui si aggiungono tutti i problemi determinati dall’abuso di fumo, alcool e droga – spiega l’andrologo -, ma a volte sono le problematiche di natura psichica a incidere maggiormente, come quelle relazionali di coppia, o la cosiddetta ansia da prestazione». In ogni caso l’eziologia dell’eiaculazione precoce è spesso mista. «Di solito entrambi gli ordini di cause concorrono all’insorgere del disturbo e soltanto quando la diagnosi esclude tutte le possibili cause organiche può essere formulata l’ipotesi dell’origine psichica» precisa il dottor Pronto. Recentemente è approdato anche in Italia un farmaco specifico per l’eiaculazione precoce, che si assume per bocca e il cui principio farmacologico «agisce rapidamente, è di emivita breve, così da evitare effetti di accumulo, si assume al bisogno ed è molto ben tollerato, tanto che può essere prescritto a pazienti di tutte le età» afferma il medico. Una novità che si aggiunge ad altre modalità terapeutiche già in uso, ma che il dottor Pronto assicura essere «particolarmente sicuro ed efficace» e che forse incoraggerà molti uomini ad affrontare più serenamente i loro problemi.

Sopra, il dottor Andrea Pronto, andrologo, all’interno del suo studio di Castelfranco Veneto andrea.pronto@libero.it



GINECOLOGIA • Procreazione

Il cammino della coppia verso la procreazione Diventare genitori. Per alcune coppie sembra un sogno impossibile. E quando finalmente il desiderio si realizza è bene monitorare passo passo la gravidanza con gli strumenti di diagnostica prenatale. Le riflessioni del dottor Alfonso Esposito di Eugenia Campo di Costa

vere un figlio. Un desiderio naturale, che spesso appare come un sogno non sempre facilmente raggiungibile. Si stima che oltre il 30% delle coppie abbia difficoltà riproduttive. In genere, si considerano sterili quelle coppie che non riescono a intraprendere una gravidanza dopo un anno o più di rapporti sessuali regolari e non protetti. «Si dovrebbe spostare la comune concezione di sterilità di coppia e intenderla nei termini di un percorso che comprenda un itinerario terapeutico, rispettoso della salute, che preveda diagnosi e terapia qualora, dopo un certo lasso di tempo gestito con un programma personalizzato su ogni coppia, non si riesca a sbloccare una condizione di difficile fecondazione» afferma il dottor Alfonso Esposito, ginecologo.

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Il primo passo è una diagnosi corretta. Attraverso quali esami si può diagnosticare l’infertilità nell’uomo e nella donna? «La prima diagnosi riguarda eventuali problemi di coppia. Quindi, attraverso valutazioni combinate come ad esempio il PCT - post coital test - che cerca di definire la capacità degli spermatozoi di attraversare il muco cervicale, si indirizza il 126

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percorso verso esami più mirati. È bene ridurre al minimo il numero e l’invasività dei mezzi di diagnosi, sfruttando molto clinica ed ecografia. Isterosalpingografia e isteroscopia e il ricorso a metodiche più invasive, come la laparoscopia, deve avvenire solo quando strettamente necessario». Effettuata la diagnosi si passa quindi alla terapia. «La vera terapia inizia con il colloquio tra il medico e la coppia per decidere il percorso da intraprendere con rispetto e fiducia reciproci. È fondamentale cercare di smorzare tensioni, nevrosi e fretta che solitamente accompagnano il desiderio gravidico. È evidente che le coppie sterili adotterebbero subito metodi a loro parere più rapidi e sicuri, non considerando che i risultati sono ancora stimati in percentuali e l’impegno economico e farmacologico è gravoso. Per il medico è molto impegnativo gestire due menti alla ricerca spasmodica del risultato. L’obiettivo è riuscire a fare uno screening delle coppie che possono seguire un itinerario a basso impatto farmacologico e diagnostico».

Il dottor Alfonso Esposito, ginecologo. Esercita nella città di Napoli alf.esp.ginecol@libero.it


Procreazione • GINECOLOGIA

LA VERA TERAPIA INIZIA CON IL COLLOQUIO TRA IL MEDICO E LA COPPIA PER DECIDERE IL PERCORSO DA INTRAPRENDERE

Una volta realizzato il sogno, comincia un altro percorso. La vita del feto nel grembo materno. Quali screening si possono effettuare oggi? «Complesso l’argomento: sostituirei gli screening percentuali di cromosomopatia con la diagnosi di assenza del CAV (canale atrio ventricolare, presente in gran parte delle trisomie 21) con studio cardiaco precoce e affiderei all’amniocentesi la ricerca della certezza quando richiesta. L’ecografia morfostrutturale, praticata intorno alla ventesima settimana, permette di studiare la crescita fetale, lo sviluppo e l’anatomia degli organi di cui è consentita la valutazione in utero, la flussimetria studia, a seconda dei periodi di gravidanza, i distretti materno-placentari e feto-placentari valutando eventuali risposte fetali anomale o di compenso a stati di difficoltà circolatorie». Lo studio mediante ultrasuoni è un validissimo sussidio dinamico che permette di seguire una serie di eventi altrimenti invalutabili. «In ciascun periodo della gestazione quando ben gestito, l’esame ecografico dà informazioni attuali e di massima sulla prognosi. Continua sempre a non essere prevedibile la patologia acuta che non mostri segni premonitori. Spesso i futuri

genitori proiettano le informazioni che ricevono sul presente fetale, al futuro neonatale e magari oltre. Questo traslare sogni e immagini permette nell’immediato di tranquillizzarsi, ma il feto vive come noi giorno dopo giorno ed è in balia degli entusiasmi e delle difficoltà sue e di quelle materne, come lo sarà quando si trasformerà nel nostro bambino. Nostro compito è affiancare in questo percorso i genitori». Quali variabili entrano in gioco nei controlli di diagnostica prenatale? «Per ogni tipo di esame esiste un limite della metodica che, aggiunto a quello umano oggi sempre più variabile da medico a medico, può dare una diversa lettura della diagnosi. In pratica eseguire al meglio un esame ecografico significa sfruttare al massimo la capacità del medico che interpreta le varie immagini e ottenere il massimo dalla capacità intrinseca al tipo di esame e all’apparecchiatura utilizzata. L’abilità del medico, la qualità delle apparecchiature e la tipologia materna, le posizioni del feto e il periodo del controllo determinano varianti che potranno essere dissimili da esame a esame e da paziente a paziente pur mantenendo costanti qualità di mezzi e di operatori». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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GINECOLOGIA • Naturalizzazione del parto

Il cesareo non deve essere la prima scelta Nell’intera provincia di Napoli, il più basso indice di parti cesarei è registrato presso l’Ospedale Evangelico Villa Betania. Perché i dottori Puggina e Messina incentrano le prassi del dipartimento materno-infantile verso la “naturalizzazione” del parto di Adriana Zuccaro

are alla luce un bambino non è semplice, neanche con un parto cesareo, non sempre utile e innocuo come sembrerebbe. I ricercatori dell’Organizzazione mondiale della sanità hanno, infatti, osservato che la pratica chirurgica, spesso considerata come una scelta sicura al più naturale parto vaginale, ha in realtà comportato un aumento significativo della morbilità materna, cioè della frequenza di malattie nel campione di donne prese in esame. In Campania, regione con il più alto tasso di parti cesarei, presso l’Ospedale Evangelico Villa Betania di Napoli, divenuto negli anni un vero e proprio punto di riferimento soprattutto per i servizi offerti al reparto maternità, la scelta chirurgica viene contemplata solo in quei casi estremi in cui si rende necessaria. «L’obiettivo fondamentale del dipartimento materno-infantile è quello di valorizzare la qualità dell’esperienza del parto, favorendo una nascita serena, quanto più possibile demedicalizzata, in un ambiente idoneo a salvaguardare il benessere e la sicurezza per la madre e il neonato». L’incipit del dottor Pasquale Accardo, direttore generale di Villa Betania, annuncia il positivo resoconto dell’ormai

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consolidata promozione della “naturalizzazione” del parto promossa dal dottor Paolo Puggina, capo del dipartimento materno-infantile e direttore dell’unità di ginecologia e ostetricia, il quale ribadisce che «il taglio cesareo è giustificabile solo quando esistono esigenze precise e codificate. Le evidenze scientifiche riportate da tutte le maggiori società nazionali e internazionali dimostrano che il parto vaginale presenta minore morbilità e mortalità fetale e materna rispetto al parto cesareo. In particolare, il parto cesareo espone il neo-

nato a complicanze respiratorie legate alla mancata compressione che fisiologicamente avviene durante il parto vaginale, costringendolo, talvolta, a una maggiore sosta in terapia intensiva neonatale». Nel 2009 Villa Betania ha registrato circa 1700 parti di cui solo il 35% con taglio cesareo; pur essendo in linea con la percentuale nazionale il dato è rilevante perché nettamente inferiore rispetto al 60% del tasso percentuale regionale. «Il calo degli interventi medici/chirurgici – afferma Puggina – è dimostrato anche dalla


riduzione del numero di applicazioni di ventose ostetriche e delle episiotomie cui non è corrisposto l’aumento delle complicanze del parto». Presso l’unità di terapia intensiva neonatale (TIN) diretta dal dottor Francesco Messina, «si utilizzano tutte le moderne tecnologie che consentono l’assistenza di neonati estremamente prematuri con insufficienza respiratoria, ventilazione meccanica ad alta frequenza e ossido nitrico». Dalla lettura della casistica del reparto si rileva inoltre «una certa omogeneità in termini di trend temporale della frequenza delle principali patologie ostetriche ma, tuttavia, si denota una rete di malformazioni fetali alla nascita inferiore rispetto a quello riportato nelle pubblicazioni internazionali», probabilmente conseguenza dell’attento monitoraggio delle gravidanze e del servizio di ecografia morfostrutturale offerto dalla struttura. I corsi di accompagnamento alla nascita sono condotti dall’ostetrica che «quale figura centrale nell’assistenza al travaglio e al parto fisiologico andrebbe rivalorizzata e non tenuta all’ombra dei chirurghi addetti al più richiesto parto cesareo». Dal 2003 presso Villa Betania è stato avviato l’ambulatorio dedicato alla gravi-

danza a rischio. «Qui assistiamo gratuitamente tutte le donne che presentano patologie inerenti la gravidanza come diabete o ipertensione gestazionale, difetti di crescita fetale, MPP, gravidanza gemellare e plurigemellare – afferma il dottor Messina – ma anche tutte quelle patologie che, precedenti la gravidanza, comportano pericolo per la prosecuzione o il compimento della stessa». La gestante in travaglio ha infatti la possibilità di usufruire di analgesia farmacologica e non farmacologica con il travaglio e parto in acqua e la possibilità di travagliare e partorire nelle posizioni libere. «È favorito il bonding, cioè processo di attaccamento che si sviluppa subito dopo il parto tra i genitori e il bambino, e il rooming-in, ovvero la possibilità di tenere nella propria stanza di ospedale il figlio appena nato – spiega il dottor Messina –. Punto di partenza della nostra assistenza è la preparazione prenatale della donna-coppia, con lo scopo di rendere la donna attiva e protagonista, di accettare il dolore come opportunità evolutiva, di permetterne la libera espressione, di vivere la nascita come esperienza, senza giudizi».

In apertura, infermiere pediatriche nell’unità di terapia intensiva neonatale dell’Ospedale Evangelico Villa Betania di Napoli. Qui, in alto, i dottori Francesco Messina, primario di neonatologia, e Paolo Puggina, capo del dipartimento materno-infantile e primario di ginecologia www.villabetania.org

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ECOGRAFIA OSTETRICA • Evoluzioni

L’occhio sulla nuova vita Evoluzioni da scoprire nel campo dell’ecografia ostetrica. Oggi grazie alle nuove tecnologie, è sempre più facile prevenire l’insorgenza di eventuali patologie per il feto. L’analisi della dottoressa Antonella Portuese di Ezio Petrillo

esame che non passa mai di moda. Era la fine degli anni Settanta quando l’ecografia ha cominciato ad essere tra le pratiche medico-diagnostiche quotidiane più utilizzate. I medici hanno avuto, per la prima volta, la possibilità di vedere, come attraverso una finestra, l’interno del corpo umano, utilizzando uno strumento versatile, di facile impiego, privo di rischi e poco costoso. Ai pazienti, questo tipo di indagine, è piaciuta da subito. Priva di dolore, fastidio e dell’utilizzo di raggi X, l’ecografia non richiede un particolare tipo di preparazione. La dottoressa Antonella Portuese si sofferma sull’ecotomografia ostetrica. «Rispetto all’ecografia di altri distretti corporei, l’ecografia ostetrica è sicuramente un esame molto complesso – spiega - . Basti pensare che è l’ecografia non di un organo, ma di un intero organismo e che oltretutto il feto è in continuo movimento e ha dimensioni molto piccole. Qualsiasi mamma all’inizio e durante la gestazione si pone questa domanda: “il mio bambino sarà sano?” A volte l’ansia può essere talmente forte da danneggiare psicologicamente la futura mamma e rendere un periodo fisiologico e denso di contenuti positivi, angosciante e negativo per la vita di coppia».

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La dottoressa Antonella Portuese, specialista in radiologia diagnostica - aportuese@libero.it

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Del resto, i cambiamenti in seno alla società di oggi che spingono la donna a procrastinare la scelta della prima gravidanza possono causare dei problemi sia al feto che durante il parto. «Ormai è frequente arrivare al matrimonio dopo i 30 anni e concepire tra i 35 e i 40 – sottolinea la Portuese - . Ma la scelta di una gravidanza tardiva pone due ordini di problemi. Da un lato l’incremento di alcune patologie durante il parto e dall’altro un inevitabile aumento di probabilità delle malattie fetali di tipo cromosomico come la sindrome di Down e non cromosomico come l’iposviluppo. Grazie all’ecografia, inoltre, possono essere diagnosticate malformazioni cardiache, scheletriche, dell’apparato digerente, urogenitale, degli arti e delle estremità, del sistema nervoso centrale; può essere valutato il benessere fetale attraverso lo studio dell’accrescimento, del liquido amniotico, dei movimenti fetali e della flussimetria dei vasi uterini e fetali. In questo specifico campo d’indagine l’ecografia svolge ruolo diagnostico principe, non solo come indagine diagnostica ma anche come metodica di screening». Fondamentale, a tal proposito, l’introduzione di una pratica clinica come il Bi-Test, diffuso per valutare il rischio che il feto possa essere affetto da Sin-


Evoluzioni • ECOGRAFIA OSTETRICA

drome di Down. «L’esame – chiarisce la Portuese - ; consiste nell’espletamento di una ecografia e di un prelievo si sangue. Si esegue nel primo trimestre di gravidanza, dalla 11° alla 13° settimana, e si basa sull’utilizzo di una tecnica combinata come la misurazione della translucenza nucale e il dosaggio di due ormoni presenti nel sangue materno, il ß-HCG libero e PAPP-A. La translucenza nucale è un accumulo di liquido localizzato nella regione nucale del feto, tra la cute e i tessuti sottostanti e può essere misurato mediante un’ecografia. Maggiore è lo spessore del liquido, più alto è il rischio di incorrere nella sindrome di Down e in altre anomalie cromosomiche. Il ß-HCG risulta in genere aumentato in caso di alterazioni cromosomiche fetali. Al contrario la PAPP-A diminuisce. Quanto più scende il valore della PAPP-A e aumenta il ß-HCG tanto più è elevato il rischio di malattie cromosomiche». L’ausilio delle nuove tecnologie, attualmente, permette una maggiore precisione e cura nelle diagnosi. «L’ecografia di II livello - precisa la Portuese – è un esame effettuato con strumentazione di elevata tecnologia e da personale medico specialistico particolarmente esperto nel campo. L’indagine consente di diagnosticare fino al 70-80 % di

CON L’ECOGRAFIA SI POSSONO DIAGNOSTICARE VARI TIPI DI MALFORMAZIONI

tutte le malformazioni maggiori del feto». Oggi, inoltre, grazie all’utilizzo dell’ecografia tridimensionale è possibile veder muovere il proprio bimbo nel grembo materno. «L’ecotomografia 3D live è molto particolare – conclude Antonella Portuese - ; essa consente di “spiare” il feto, osservare le espressioni del suo viso fino ad individuarne le somiglianze. Si tratta di una tecnica molto sofisticata che usa ricostruzioni elettroniche che permettono la visualizzazione del movimento fetale con indubbi vantaggi, di tipo diagnostico, oltre che emotivo». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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SANITÀ PRIVATA • Casa di Cura Giovanni Paolo II

La sanità si prende cura del suo territorio Non solo clinica. Le strutture private devono offrire un concreto supporto al territorio collaborando con tutte le parti sociali affinché i servizi siano efficienti e accessibili al cittadino. Il caso della Giovanni Paolo II di Putignano di Aldo Mosca

l settore privato trova uno dei suoi vantaggi principali nell’opportunità di coniugare la classica offerta sanitaria con altri carnet di servizi. Opzioni capaci di attrarre l’utenza rendendo il processo di cura e guarigione più piacevole di quanto altrimenti non sarebbe nel corso di una classica degenza ospedaliera. E a Putignano, in provincia di Bari, presso la Casa di Cura Giovanni Paolo II, noto centro per la diagnostica e la riabilitazione, la scelta è

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ricaduta sull’accostamento tra “salute” e “benessere”. L’ACCESSIBILITÀ L’infrastruttura, dunque, fa la differenza. Eccome se la fa. «Per noi l’aver associato costantemente gli aspetti strettamente medico-sanitari con quelli, non scontati, soprattutto al Sud, della qualità dell’accoglienza, dell’eleganza degli ambienti, della salubrità di un sito totalmente immerso nella natura, si è rivelato un fat-

Sotto, una panoramica della Casa di Cura Giovanni Paolo II di Putignano, in provincia di Bari. Nelle altre immagini, alcuni spazi interni alla struttura


Casa di Cura Giovanni Paolo II • SANITÀ PRIVATA

RIABILITARE SIGNIFICA RICOSTRUIRE UN ACCESSO REALE DELLA PERSONA AI DIRITTI DEL CITTADINO

tore estremamente competitivo» spiega Francesco Ritella, direttore generale della clinica». È purtroppo sotto gli occhi di un qualunque cittadino il triste degrado cui spesso siamo sottoposti recandoci in alcune, persino importantissime, strutture ospedaliere. La presenza di parcheggi, la facilità di raggiungimento della sede e, soprattutto, «la disponibilità fisica e umana del personale medico e generico» non curano la malattia, ma arrecano un senso di benessere nel degente».

IL DIRITTO RIABILITATIVO Quando ci si occupa di riabilitazione, come avviene nella nota clinica pugliese, ci si raffronta con il dovere di garantire un diritto al reinserimento sociale, a un “ritorno alla vita” salubre e praticabile. «Riabilitare significa ricostruire un accesso reale della persona ai diritti del cittadino – spiega il dottor Michele Loreto, direttore medico del reparto di riabilitazione -. L’esercizio progressivo dei suoi diritti, il loro riconoscimento. La partecipazione alla vita della comunità, dimensione identitaria della persona in quanto cittadino, è un diritto sociale, giuridico e politico. Se questi tre assi dimensionali, su cui la riabilitazione interviene, si congiungono, si convalidano le energie che agiscono sulla persona disabilitata. Se invece si dissociano, esse si pervertono in un inefficace intervento che condanna la persona a una progressiva disabilità». Ma ancora prima della riabilitazione, è sull’universo diagnostico che il paziente affronta un primo, fondamentale, step. E in questo caso la tecnologia la fa da padrone. E certamente colpisce la disponibilità di attrezzature presenti in questa struttura. Come afferma il dottor Cosma Andreula, direttore medico del centro diagnostico per immagini Giovanni Paolo II, «In una neuroradiologia e radiologia moderna si cerca spasmodicamente una diagnosi sfruttando tutte le tecniche di immagini a disposizione. ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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SANITÀ PRIVATA • Casa di Cura Giovanni Paolo II

LA STORIA E LE SFIDE DELLA RADIOLOGIA «Spesso, il raggiungimento della diagnosi di una malattia si ottiene con la radiologia». Spiega il dottor Cosma Andreula (nella foto), direttore medico del centro diagnostico per immagini Giovanni Paolo II di Putignano, il quale ripercorre le tappe fondamentali di questa disciplina. «Dalle ombre accennate delle ossa di una mano sinistra prodotte da Roentgen, lo scopritore dei raggi X, che nel 1895 sottopose la moglie Bertha alla prima radiografia, si è passati agli attuali studi sul funzionamento del cervello, alla scoperta non solo delle sedi cerebrali del movimento, della visione o dell’udito, ma anche delle emozioni». In particolare la Neuroradiologia rappresenta la disciplina radiologica che più di tutte ha dato impulso al miglioramento. «Negli anni 70 iniziarono a comparire le prime immagini dirette del cervello grazie alla tomografia computerizzata, il cui acronimo, TAC, è divenuto parola d’uso comune. Con il tempo l’informatica ha portato tale metodica a livelli im-

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pensabili, specialmente in ambito extraneurologico, permettendo un affinamento diagnostico incredibile». Anche lo studio della traumatologia, mediante ricostruzioni in due e tre dimensioni con una riproduzione plastica delle strutture anatomiche, riceve dalla Tomografia Computerizzata un impulso straordinario. «Nella patologia degli organi dell’addome e della pelvi, la T.C. svolge un ruolo fondamentale nella diagnosi dei tumori, delle metastasi, negli aneurismi dell’aorta e nei traumi». Parlando, invece, di risonanza magnetica «solo all’inizio degli anni 70 divenne la metodica di punta per la diagnosi delle patologie del cervello, del cranio, del midollo spinale e della colonna vertebrale. Essa sarà capace di scoprire con brevi tempi di esecuzione di esame la presenza di neoplasie e tumori, disturbi di circolo cerebrovascolari causa di ictus cerebrali, malformazioni cerebrospinali congenite». Il confezionamento di mezzi di contrasto sempre più

specifici per gli organi da esaminare ha poi incrementato ulteriormente le possibilità diagnostiche della R.M. Ed è ancora la Radiologia a ideare nuove tecniche interventistiche, arrivando ad occludere i vasi malformati e gli aneurismi usando colle, particelle, spirali, tubi occludenti. Cosa si fa quindi in una Neuroradiologia e Radiologia moderne| «Si cerca di spostare il limite della conoscenza scientifica sempre più in avanti, indagando non solo negli aspetti conosciuti della macchina umana, ma nei percorsi misteriosi delle emozioni, fino al mondo dell’invisibile, della molecola». In particolare, per il professore, la più affascinante delle sfide attuali riguarda i pazienti in coma, con le immagini del cervello e delle funzioni nobili assopite, il percorso di recupero alla vita, il loro risveglio. «Sarebbe bello pronosticare la comparsa di un’emozione nei loro visi, la ripresa di un gesto volontario, e ridare la speranza a chi vuol loro bene e vive in ansia il passare del tempo».


Casa di Cura Giovanni Paolo II • SANITÀ PRIVATA

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Da ciò si origina la necessità di avere un parco macchine completo, utilizzato da mani e menti esperte nell’integrazione di dati e indizi». SUL TERRITORIO A garanzia di un rapporto realmente costruttivo con l’utenza, la nuova filosofia delle cliniche private moderne, partendo proprio dal caso di Putignano, si evidenza nella stretta correlazione con gli altri attori del territorio. «Non è sufficiente prendersi cura dei pazienti – interviene Ritella -. Occorre seguire con attenzione chiunque approcci alla struttura, dal personale interno ai parenti dei degenti, dai fornitori ai medici esterni con cui ci confrontiamo, passando ai rapporti istituzionali con gli enti pubblici e, più in generale, con tutti gli stakeholders quali i media locali, le associazioni culturali e di promozione sociale». Una clinica, dunque, aperta al suo territorio. «È proprio questo il nostro obiettivo: imporre la nostra filosofia senza però rinchiuderci in una torre d’avorio. Anzi, al contrario, prendendoci cura del territorio e contribuendo a migliorarlo, sia ponendoci come “buona prassi” da imitare, sia contribuendo finanziariamente a tante iniziative sociali, culturali e didattiche che riteniamo coerenti con gli

INTENDIAMO CONTRIBUIRE FINANZIARIAMENTE A INIZIATIVE SOCIALI, CULTURALI E DIDATTICHE

obiettivi della nostra mission». E sempre secondo il direttore generale, «la Giovanni Paolo II ha certamente elevato il tasso qualitativo dell’offerta sanitaria locale, e non solo quella privata. Abbiamo contribuito a far crescere alcune realtà e manifestazioni che promuovono lo sviluppo di questa porzione dinamica del Mezzogiorno d’Italia». Il benessere visto in una chiave, oltre che riabilitativa, anche sociale, che si realizza anche grazie a progetti di ippoterapia, idrochinesiterapia e ortoterapy. CULTURA ED ECONOMIA Sanità è anche conoscenza, formazione, divulgazione. Non stupisce, quindi, se all’interno della struttura di Putignano troviamo una modernissima sala conve-

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SANITÀ PRIVATA • Casa di Cura Giovanni Paolo II

RIABILITAZIONE> UN VERO ACCESSO AL “DIRITTO” «Non è facile presentare una nuova struttura sanitaria come il Centro di Riabilitazione funzionale Giovanni Paolo II. Non è facile perché il già realizzato e i progetti futuri sono entrambi presenti nella quotidianità operativa, e verrebbe spontaneo parlare del futuro piuttosto che del presente». Così il direttore della struttura, il dottor Michele Loreto, spiega come il centro si basi su una filosofia olistica, di interrelazione di molte entità che vanno a costituire un insieme funzionale. «Riabilitare significa ricostruire un accesso reale della “persona” ai diritti del cittadino, il loro riconoscimento, la capacità di praticarli. La nostra filosofia riabilitativa non si ferma alla dimensione del curare, ma si dirige, nel rispetto dell’etica, verso la comprensione del non verbale, che, celato dall’evidenza della menomazione e della conseguente disabilità, opera, in modo vincolante, sui processi che governano l’handi-

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cap e le sue conseguenze sull’agire e sul partecipare». Il centro è un esempio di modernità. Situato nel Sud Est barese, autorizzato e accreditato per cicli riabilitativi, conta 60 posti letto in regime residenziale e 60 posti in Day Hospital. «Si sono applicati concetti architettonici attenti non solo alla disabilità motoria, al rispetto delle norme concernenti le ergonomie e gli spazi, ma anche agli aspetti menomativi della sensorialità tattile, visiva, uditiva, fattori spesso coesistenti nella sindrome disabilitante. Lo stato di disagio che la disabilità determina sulla dimensione di persona-cittadino non può essere ridotto all'analisi del danno biologico o funzionale, ma deve comprendere l'impossibilità d’accesso agli elementari diritti che sono promossi dall'agire e dal partecipare alla vita quotidiana, relazionale e sociale con il minor numero possibile di limitazioni e sostegni». Gli strumenti che consentono di agire coerentemente con

gni multimediale. Un fiore all’occhiello che si accompagna a un indotto occupazionale che conta circa 130 dipendenti. Un importante punto di riferimento economico per la Puglia. E Ritella lo sa bene, avendo scelto in prima persona di investire nel settore della sanità privata. «Alla base della scelta c’era l’intuizione della disponibilità di uno spazio di mercato a condizione di assicurare un’offerta di qualità, e i fatti ci hanno dato ragione. Oltretutto, per chi come noi ha un’etica dell’azione imprenditoriale e non si muove solo per il profitto, anche vedere la soddisfazione del volto rasserenato dei pazienti è motivo di grande stimolo e gratificazione del nostro fare impresa».

Il dottor Michele Loreto, Direttore Medico del Reparto di Riabilitazione della Casa di Cura Giovanni Paolo II di Putignano (BA)

tali principi sono quelli che la comunità scientifica internazionale enuncia nell'ICF - Classificazione Internazionale del Funzionamento e della Disabilità - redatto nel 2001, «che si fonda sui principi dell'universalismo, dell'approccio integrato, del modello interattivo e multifunzionale».

CONTRO LA MALASANITÀ La Puglia è al centro di un grave scandalo sanitario. Un caso che si accompagna ad altri episodi riprovevoli avvenuti in Lazio, Abruzzo e Lombardia. Chi non è rimasto scioccato dal caso della clinica S. Rita? «Per fortuna le indagini della magistratura e la reazione politica hanno contribuito a riportare in Puglia una situazione di normalità che favorisce sia i cittadini che le strutture sanitarie che operano correttamente – conclude il direttore Ritella -. Per quanto ci riguarda, ci siamo sempre riferiti ai parametri dell’accreditamento e al rispetto dei criteri di congruità dei servizi. A noi, del resto, interessa rispondere alla domanda di salute della gente, non certo un arricchimento indebito».



RIABILITAZIONE • L’ospedale di Motta di Livenza

Dal privato un modello per la riabilitazione La riabilitazione non termina con la fase ospedaliera. E in Veneto il caso dell’ospedale di Motta di Livenza ne è l’esempio. A fare la differenza è il piano gestionale, a carattere privato, messo in atto dal suo direttore generale, Alberto Prandin di Paolo Lucchi

ggi è un vero e proprio punto di riferimento, un centro di eccellenza riconosciuto in tutto il Nord Italia. Eppure, l’Ospedale di Motta di Livenza, presso cui giungono centinaia di pazienti per il recupero post-operatorio, soprattutto cardiologico e per chi ha subito cerebro-lesioni, rischiava di chiudere. In meno di sei anni, invece, l’ospedale si è reso protagonista di un rinascimento frutto di una metodica gestionale a carattere privato, nonostante la grossa componente pubblica facente parte la proprietà della struttura. Un successo che porta principalmente il nome del suo direttore generale, il dottor Alberto Prandin e della sua squadra, che oggi accoglie il plauso, oltre che dell’utenza, anche della Regione Veneto, la quale sta meditando di proporre il Motta di Livenza come modello e traino per l’imminente riprogrammazione ospedaliera regionale. Ma perché questa sperimentazione è oggi al centro degli osservatori sanitari? «Perché ho sempre messo un paletto preciso, quello della gestione privata dell’ospedale» afferma Prandin. «Nel 2004, quando arrivai al Motta di Livenza non c’era pratica-

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mente nulla, aveva infatti perso tutte le caratteristiche che lo avevano reso uno dei migliori centri tra il Veneto e il Friuli. Una vittima della riforma ospedaliera dell’epoca, che avvantaggiò l’ospedale di Oderzo». Dottore, cominciamo dall’inizio.


L’ospedale di Motta di Livenza • RIABILITAZIONE

L’AUTONOMIA GESTIONALE E LA CONCRETA COLLABORAZIONE PUBBLICO-PRIVATO SI SONO RIVELATE FONDAMENTALI

Come mai non si arrese l’Ospedale di Motta di Livenza? «Evidentemente i campanilismi tipici del Veneto stimolarono il fiorire di ipotesi per rilanciare la struttura. E così qualcuno, riesumando la riforma Bindi, la quale prevedeva sperimentazioni gestionali in capo a strutture ospedaliere che la programmazione destinava ad altri ruoli, propose un modello sperimentale alla Giunta regionale dell’epoca, che approvò il tutto. A questo punto si costituisce una società di cui la Ulss di riferimento, quella di Treviso, vanta una quota importante, il 51%, il comune ne assume una più piccola, simbolica e il resto viene concesso a un socio privato, la Casa di Cura Abano Terme, che versò un capitale di circa 7,5 milioni di euro». Insomma un connubio tra pubblico e privato. Ma come si giunge alla sua scelta? «Il socio privato dovette indicare il direttore generale, il quale avrebbe poi assunto tutte le deleghe gestionali. E scelse di proporre il sottoscritto. E ci tengo a precisare che venni chiamato per la mia esperienza durata anni in

un’altra struttura privata, non per spinte politiche o amichevoli, come purtroppo accade in altre realtà. Il problema di attuare una buona accoglienza, del rapporto con i pazienti, lo vivevo già da parecchio tempo. Per questo dissi subito che su questi punti occorreva investire, e non poco». Lei ha raccontato di come proprio l’esperienza precedente le sia stata utile per organizzare il lavoro e i servizi al Motta di Livenza. Dunque una matrice sempre, e comunque, privata? Alberto Prandin, direttore generale «Passai da una grande struttura polispe- dell’Ospedale di Motta di Livenza cialistica e con pronto soccorso, a Mestre, per giungere qua e non trovare nulla. Molti pazienti erano ricoverati in maniera inappropriata, c’erano troppi lungodegenti e diversi dipendenti della Ulss che controllavano scrupolosamente ogni mia azione. E dal quel momento, nel 2004, mi dovetti inventare una soluzione. E creai una nuova squadra. In pratica ho percorso, ex-novo, ciò che in genere avviene al contrario. Così misi in piedi una struttura con valenza privata, ispirandomi all’Ospedale di Mestre, senza vincoli con il pubblico. Mi tolsi da tutti i lacci burocratici, es- ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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RIABILITAZIONE • L’ospedale di Motta di Livenza

IN COLLABORAZIONE CON IL TERRITORIO

¬ sendo regolamentato dal codice civile come società per azioni, con il non facile compito di far convivere tre diverse “anime” o, se vogliamo, tre diverse mentalità: quella del socio pubblico, cui spettava “il controllo pubblico strategico del sistema” e quelle del socio privato, interessato, com’è ovvio, all’efficiente gestione privata, e del Comune di Motta di Livenza, che si era opposto con energia all’ipotesi di chiusura definitiva dell’Ospedale della comunità, non senza scontrarmi con il socio di maggioranza, la Ulss, con la quale oggi si è realizzata una forte integrazione. Il rispetto dell’autonomia gestionale della Spa e la concreta collaborazione pubblico-privato si sono rivelate la fonte del nostro successo». Quali sono stati gli elementi traino di questa sua nuova gestione? «Uno degli aspetti fondamentali era proprio la terapia dell’accoglienza cui accennavo prima. Il paziente non può rappresentare solamente un numero. Deve essere seguito scrupolosamente, e con umanità, in tutti i suoi percorsi di recupero. Non basta curarlo, bisogna prendersene cura. E l’utenza lo ha particolarmente apprezzato, anche perché abituata, specie negli ospedali pubblici, a non ricevere molte risposte sin dal primo contatto con lo sportello di accettazione. Nel 2004 siamo partiti con 50 degenti, oggi ne abbiamo 190 più altri 44 posti in day hospital. E pensare che quando arrivai non c’era attività ambulatoriale, mancavano gli 140

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L’Ospedale Riabilitativo di Alta Specializzazione di Motta di Livenza pone una particolare attenzione all’integrazione delle sue attività con la rete dell’offerta sanitaria e sociale del territorio. Un’integrazione che si esplica sia per quanto riguarda i percorsi in accesso alla struttura ORAS che per i percorsi in uscita dalla stessa. Sono state definite e concordate, con le diverse strutture sanitarie che compongono la rete territoriale dell’Ulss 9, modalità di presa in carico per tutte le principali patologie disabilitanti di interesse riabilitativo nonché per patologie di interesse internistico che necessitano di ricovero ordinario o di una degenza diurna. info@ospedalemotta.it www.ospedalemotta.it

specialisti. Attualmente, invece, ne abbiamo 53». Cosa intende per “prendersi cura”? «Seguiamo molti pazienti particolarmente complessi, vittime per esempio di ictus o colpiti da handicap importanti. Persone che dalla sera alla mattina si ritrovano con un deficit motorio grave, che magari devono restare su una carrozzina a vita. Il loro primo impatto avviene nei reparti neurologici o neurochirurgici, per poi arrivare da noi per la riabilitazione. Noi tentiamo di riportare il paziente, per quanto possibile, al massimi livello di autonomia, integrazione sociale e qualità di vita concessi dalla malattia. Ma ogni paziente ha una storia a sé. E vanno aiutate anche le loro famiglie. Per esempio, all’interno della nostra struttura, abbiamo un architetto che aiuta i famigliari a trovare tutte le soluzioni idonee per un rientro domiciliare idoneo e che, se occorre, intercede direttamente anche presso i comuni di


L’ospedale di Motta di Livenza • RIABILITAZIONE

residenza dei degenti e gli assessorati per trovare agevolazioni o per concordare lavori da effettuare».

TENTIAMO DI RIPORTARE IL PAZIENTE AI MASSIMI LIVELLI DI AUTONOMIA, INTEGRAZIONE SOCIALE E QUALITÀ DI VITA CONCESSI DALLA MALATTIA

Dunque l’assistenza prosegue anche una volta dimesso dall’ospedale? «Esatto. A tal proposito abbiamo studiato, con l’azienda Ulss di riferimento, la realizzazione di un Dipartimento Interaziendale di Riabilitazione, esperienza unica in Italia che coinvolge una struttura pubblica e una struttura a gestione privata. Il progetto riabilitativo infatti prevede una forte integrazione delle attività riabilitative svolte da Motta nella rete dei servizi sanitari territoriali. Il paziente, che viene preso in carico da Motta di Livenza quando viene riportato sul territorio viene comunque seguito dai nostri professionisti. Non si può abbandonare il paziente solo perché ha terminato la sua fase ospedaliera». Sono calati i tempi di degenza? «Sì, in alcuni casi anche in maniera significativa. Nel 2005, parlando di ria-

bilitazione cardiologica, i cui pazienti tra l’altro giungono nella nostra struttura a meno di una settimana dall’intervento, impiegavamo mediamente 45 giorni per la riabilitazione. Oggi la media è scesa a circa 20 giorni. Anche per le gravi cerebrolesioni e per coloro che giungono dalla terapia intensiva, siamo scesi da una media di 75 giorni a una di circa 40». Si pensa di trasferire il modello gestionale dell’ospedale che lei dirige anche alle altre strutture della regione. Come si è giunti a questa ipotesi? «La valutazione fatta dalla Regione al termine della sperimentazione si è rivelata particolarmente positiva. E ora che siamo dinanzi a una riprogrammazione che cambierà drasticamente la gestione dei presidi ospedalieri, con la nuova finanziaria, si è capito che la nostra commistione tra pubblico e privato previene gli sprechi e, soprattutto, è eccellente per la qualità dei servizi e il re-inserimento del paziente nella società. Per questo siamo presi ad esempio». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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TURISMO SANITARIO • Casa di Cura Villa del Sole

La sanità oltre confine Per espandere gli orizzonti, occorre guardare oltre il proprio territorio. In quest’ottica la casa di cura “Villa del Sole” di Napoli abbraccia l’utenza del turismo sanitario internazionale. Un’esperienza raccontata dal dottor Von Arx di Sonia Galvani

e aziende sanitarie che hanno maturato un know how medicoscientifico consolidato interpretano la possibilità di offrirsi a nuovi bacini di utenza anche fuori regione più come una necessità che strategia. «L’incremento qualitativo dei servizi offerti dai centri sanitari italiani non può prescindere da un costante confronto con le realtà mitteleuropee e oltreoceaniche». L’affermazione del dottor Marco Von Arx riassume i capisaldi organizzativi della società di cui è presidente e amministratore, la casa di cura “Villa del Sole”, azienda nata nel 1952 con indirizzo quasi esclusivamente chirurgico poi ampliato su più versanti clinici e strutturali. Negli anni ha annoverato eminenze nel campo medico universitario e ospedaliero; rappresentando il punto di riferimento della sanità privata a Napoli e in Campania, è stato dotato delle più innovative tecnologie ed è divenuto polo di alta specialità per la cardiochirurgia, la neurochirurgia e l’ortopedia. «Nel 2008 è

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Il dottor Marco Von Arx, presidente della casa di cura Villa del Sole, Napoli - www.villadesolenapoli.it

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stato inaugurato un nuovo reparto di TC coronarica dotato della TC 64 slices, tecnologia rappresentativa di elevato standard qualitativo per una struttura sanitaria che si vuole porre nel mercato come un riferimento reale e operativo per la prevenzione». Nello stesso anno, per volere della famiglia Iannelli, socia di maggioranza della casa di cura, è stata avviata la fondazione Eugenio Iannelli Onlus in onore del padre, socio fondatore e presidente della società, esimio ortopedico di livello internazionale, primo in Europa, a impiantare protesi d’anca, innovatore della branca e medico curante di noti politici italiani e stranieri, nonché di regnanti del Medio Oriente e di alcuni tra i più importanti calciatori del mondo. «Nel 2008, la società “Villa del Sole” ha così deciso di confrontarsi sui mercati potenziali diversi da quelli abituali, entrando in un settore di servizi che all’estero ha una propria fascia di mercato – spiega Von Arx –: il turismo sanitario. È stato quindi aperto un ufficio a Londra; di fatto, a causa degli alti costi delle prestazioni, il sistema sanitario inglese spinge i pazienti a cercare prestazioni sanitarie all’estero». Dal mercato sanitario del Kuwait e dell’Arabia Saudita, Villa del Sole ha invece ricevuto proposte di partnership non solo professionale e tecnologica, ma anche formativa. «Intendiamo portare avanti un progetto integrato – annuncia Von Arx – che miri a ottenere non solo un alto standard tecnologico e sanitario, ma anche una formazione sanitaria adeguata agli standard europei e americani».



MEDICINA DEL LAVORO • L’ambiente lavorativo

Contro lo stress da lavoro La parola “stress” è spesso associata all’ambito lavorativo, perché è qui che trascorriamo più tempo nell’arco della giornata. Compito del datore di lavoro è anche quello di garantire una buona e quindi sana organizzazione all’interno dell’ambiente di lavoro, in modo da ridurre al minimo le situazioni stressogene. L’analisi del medico del lavoro dottor Daniele Caretta di Simona Cantelmi

ell’agosto 2010 entrerà definitivamente in vigore, grazie all’art. 28 DL 81/2008 del 3 Aprile 2008, l’obbligo da parte dei datori di lavoro di valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei dipendenti negli ambienti di lavoro, anche i rischi collegati allo stress lavoro-correlato. «Come per il rumore, le vibrazioni e altri rischi, la legge impegna il datore di lavoro ad analizzare, all’interno della propria organizzazione, quelle situazioni potenzialmente in grado di favorire condizioni stressanti per il lavoratore» spiega il dottor Daniele Caretta. «A volte si osservano aziende con un elevato ricambio di personale, ben oltre a quello fisiologico, o elevate incidenze di infortuni. Spesso dietro a questi dati obbiettivi e incontestabili si nascondono situazioni di malessere, di rapporti umani tesi o addirittura di aperti conflitti. Se ci si siede e si prende il tempo di analizzare tali problemi, si scopre quanto semplici possono essere le cause e quindi le soluzioni. In realtà questo, per molte aziende, non è solo un obbligo di legge, perché il datore di lavoro ha tutto l’interesse a far sì che i propri dipendenti non siano stressati per motivi derivanti dal modo di lavorare all’in-

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terno della propria organizzazione». In ambito legislativo negli ultimi anni si erano già fatti alcuni importanti progressi. «Già con l’Accordo Europeo sullo stress sul lavoro dell’8/10/2004, gli stati membri hanno deciso che “considerare e risolvere il problema dello stress sul lavoro implica una maggiore efficienza e un deciso miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenti benefici economici e sociali per le aziende, i lavoratori e la società nel suo insieme”». Il termine stress è entrato nella nostra quotidianità. «Si tratta di una parola che, per quanto utilizzata in situazioni molto diverse tra loro – prosegue il dottor Caretta - evoca una sensazione


L’ambiente lavorativo • MEDICINA DEL LAVORO

AL DI LÀ DELL’OBBLIGO DI LEGGE, IL DATORE DI LAVORO HA TUTTO L’INTERESSE A FAR SÌ CHE I PROPRI DIPENDENTI NON SIANO “STRESSATI” DAL LAVORO

Il medico del lavoro Daniele Caretta di Verona, medico competente da oltre 20 anni, esperto di ergonomia, in continua formazione in ambito psicologico, collabora con diverse tipologie di aziende e si occupa della valutazione dello stress lavoro-correlato www.dottorcaretta.it - info@dottorcaretta.it

inconfondibile di disagio soggettivo. Una qualsiasi esperienza sgradita, se prolungata nel tempo, provoca, alla fine, un esaurimento delle capacità del soggetto interessato di affrontare tale situazione. Questo esaurimento può manifestarsi sia a livello psicologico sia a livello somatico». Tre sono gli elementi principali dello stress. Il primo è il soggetto, «e, poiché ogni individuo è diverso dall’altro, è la variabile più difficile da considerare», il secondo è il fattore stressogeno, altrettanto relativo, infatti «non per tutti una situazione può essere allo stesso modo spiacevole, anzi può dare origine anche a una sensazione del tutto opposta» e il terzo è il fattore tempo (presenza quotidiana di piccoli fattori stressanti favoriscono l’esaurimento delle risorse). Ognuno dei tre fattori, quindi, può essere estremamente variabile. Si tratta di una valutazione difficile che richiede competenza ed esperienza. «Il soggetto è quello che maggiormente può trovare soluzioni a una situazione stressante, sulla base di alcune caratteristiche e capacità che può possedere. Possiamo chiamarle, per rendere l’idea, risorse personali. Nel linguaggio scientifico gli anglosassoni hanno coniato un termine ben preciso per esprimere questa capacità: il “coping”. «L’attivazione di queste risorse, atte a dare una risposta efficace a un problema che ci disturba,

è ritenuta, pur stressante, fisiologicamente normale: viene chiamato “eustress”, cioè stress positivo. I potenziali agenti stressogeni possono essere i più diversi, ma «considerando semplicemente che l’individuo trascorre buona parte della giornata nei luoghi di lavoro – prosegue il dottor Caretta - è naturale che, in questo ambiente, vi sia una buona probabilità di incontrare situazioni percepite dal soggetto stesso come stressanti». «Oltre a quegli eventi come la perdita del lavoro, uno stato di disoccupazione, ma anche il pensionamento o una retrocessione, notoriamente in grado di destabilizzare un equilibrio di una persona per la loro grande portata emotiva al punto che i disturbi che ne possono originare sono stati definiti “stress posttraumatico”, nel lavoro quotidiano vi sono mille piccole occasioni di stress. Scarsa chiarezza dei propri compiti lavorativi, difficoltà di comprendere le informazioni o di comunicarle, incomprensioni con i superiori o collaboratori e molte altre situazioni possono mettere in difficoltà il lavoratore. Questo può quindi porre in atto reazioni di fuga dall’organizzazione, riducendo la propria collaborazione e condivisione degli obbiettivi aziendali. Questa condizione, se non riconosciuta e modificata, diventerà, prima o poi, un elemento di disturbo per tutta l’organizzazione. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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MEDICINA DELLO SPORT • Percorsi di riabilitazione

CEMS, una nuova struttura sanitaria, medica e sportiva È stata recentemente inaugurata una nuova struttura sanitaria, dove le persone interessate all’attività fisica (agonistica e non) possono trovare le risposte a molteplici problematiche. A presentarla, il dottor Massimo Pregarz, direttore sanitario del Centro Medico Sportivo Verona di Nella Zini

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a nuova struttura sanitaria denominata Centro Medico Sportivo Verona, il CEMS, rappresenta un’iniziativa sanitaria che focalizza la propria attività in tre punti principali, tra loro interconnessi: il poliambulatorio, la diagnostica radiologica, la palestra e le piscine di rieducazione e riabilitazione. La struttura offre un percorso ambulatoriale per la Medicina dello Sport per le certificazioni all’attività sportiva agonistica e non agonistica, che si rivolge non solo agli atleti professionisti e amatoriali, ma anche a tutti quelli che siano interessati o sensibilizzati a uno stile di vita salu-

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Percorsi di riabilitazione • MEDICINA DELLO SPORT

tare che, mediante lo svolgimento di una regolare attività fisica e un adeguato controllo sanitario, possano raggiungere un benessere attento anche alla prevenzione di patologie croniche. Questo “percorso” è supportato da altre attività ambulatoriali quali la Cardiologia con i test funzionali (Cicloergometro, Holter dinamico e pressorio, Clinostress); la Dietologia, la Medicina del Metabolismo con la valutazione delle alterazioni endocrine, la Neurologia con servizio di neurofisiologia clinica con i test funzionali (elettromiografia, elettroencefalografia, potenziali evocati) o per la valutazione dei disturbi del movimento (parkinsonismo) o i disturbi cognitivi. L’Oculistica, con diagnostica corneale e retinica completa di topografia corneale OCT, l’Ortopedia, l’Ossigeno-Ozono terapia, la Pneumologia. Recentemente è stato avviato un ambulatorio dedicato alla Psicologia dello Sport con attività sia nel settore clinico-sportivo, quali ad esempio le tecniche di rilassamento e l’ipnosi applicate al recupero dell’attività motoria a seguito di infortuni (in collaborazione con i programmi fisioriabilitativi) o i trattamenti e la prevenzione dell’ansia da prestazione, sia nel settore di ricerca e potenziamento delle qualità agonistiche con interventi individuali o di gruppo. All’attività poliambulatoriale è stato reso

A sinistra, il Dr. Massimo Pregarz con l’ex Assessore alla Sanità della Regione Veneto, Ing. Sandro Sandri, il giorno dell’inaugurazione; sotto la preparazione a un esame di Risonanza Magnetica, all’interno della struttura. In apertura, un particolare dell’esterno del Centro Medico Sportivo www.cemsverona.it - info@cemsverona.it

disponibile un percorso diagnostico radiologico dotato di apparecchiature di ultima generazione, ecografia, eco-color-Doppler, radiologia digitale per il contenimento della dose radiante, densitometria (MOC), TAC multidetettore, TAC fascio conico e infine la Risonanza Magnetica con apparecchiatura total body da 1.5 Tesla con programmi specifici per l’apparato osteomuscolare e neurologico. L’attività diagnostica non è limitata alla sola refertazione delle indagini, ma è disponibile alle “revisioni” degli esami, con specialisti qualificati, sia dal punto di vista clinico che assicurativo e medico-legale. Il percorso fisiatrico - riabilitativo è stato strutturato per seguire il paziente dal momento dell’accesso alla struttura con lo sviluppo di piani di lavoro personalizzati in palestra o in piscina, preventivamente supportati dall’attività di masso- o elettro-terapia e seguirne il recupero e la successiva ripresa dell’attività. Un occhio di riguardo è stato dedicato alla rieducazione, ai corsi per l’attività motoria come ad esempio per il piccolo bacino, l’osteoporosi e le malattie reumatologiche;

attività che possono essere supportate dall’elettroterapia o completate nella zona delle piscine riabilitative. L’aspetto più interessante e ambizioso del CEMS, è quello di voler superare il concetto di Poliambulatorio, Diagnostica e Riabilitazione inteso come settori operativi indipendenti, per coagulare le capacità professionali degli Specialisti operanti nel Centro, con spirito di ampia collaborazione, mettendo a disposizione del paziente l’esperienza clinica e un’adeguata struttura in cui risolvere più requisiti specifici, senza la necessità di spostarsi da una parte all'altra della città. Volendo esemplificare il concetto, il paziente dopo una visita medica, se necessario, può essere inviato per accertamenti diagnostici strumentali o per programmi di riabilitazione con confronto inter-specialistico immediato, con risparmio di tempo per il paziente ed elevazione della qualità del servizio erogato. Infine, nel rispetto dei requisiti organizzativi e strutturali che hanno portato il CEMS al conseguimento all’Accreditamento Regionale e alla stipula di forme di convenzionamento con le maggiori Società assicurative, è in fase di sviluppo un vero e proprio polo di attività culturale. Attraverso un programma di incontri specialistici mirati, rivolto ai Medici di Base, agli Specialisti e a selezionati gruppi di Pazienti, si vuole informare e illustrare non solo sulle attività, potenzialità diagnostiche e terapeutiche del CEMS, ma soprattutto sensibilizzare ed educare sui risultati che possono essere conseguiti nei vari livelli di interazione multi disciplinare. Un modo quindi di fare spazio a quella che speriamo possa divenire una nuova “cultura medica e sportiva”. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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CHIRURGIA • Minore invasività

I vantaggi della pratica laparoscopica “Grande taglio, grande chirurgo|” Vecchio aforisma non più valido. Alberto Tartaglia, primario chirurgo e amministratore della Clinica Sanatrix di Napoli, spiega i vantaggi della chirurgia laparoscopica di Adriana Zuccaro

a storia della chirurgia degli ultimi venti anni è stata caratterizzata dall’avvento della chirurgia laparoscopica, una metodica che consente di effettuare interventi senza ricorrere alle classiche incisioni con il bisturi della chirurgia tradizionale. «Sotto la guida di una telecamera, il chirurgo opera con appositi strumenti inseriti in addome attraverso piccole incisioni della parete. In tal modo si riduce il trauma chirurgico, rispettando maggiormente l’integrità anatomo-funzionale dei tessuti e dell’intero organismo». Il dottor Alberto Tartaglia pioniere della videolaparoscopia, descrive le opzioni applicative dalla pratica laparoscopica.

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Quali patologie è possibile trattare con la chirurgia laparoscopica? «A una laparoscopia di base dedicata al trattamento della calcolosi della colecisti, del varicocele, di appendicopatie, si affianca una laparoscopia “avanzata” che richiede, tuttavia, una curva di apprendimento lunga da parte del chirurgo operatore e di tutta l’equipe. In tal modo si possono realizzare interventi oncologici e non sul colon-retto, sullo stomaco, per poi eseguire istero152

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annessectomie, linfectomie, nefrectomie, surrenalectomie e altro. Ma addirittura la laparoscopia ha ampliato l’accettabilità da parte del paziente “in primis”, e dei medici poi, di interventi per patologie del giunto gastroesofageo, per obesità patologica, resi meno traumatizzanti che in passato». Quali sono i vantaggi della laparoscopia? «I punti chiave della chirurgia laparoscopica si identificano nei vantaggi della metodica, cioè minore invasività e danno biologico, ridotto sanguinamento intraoperatorio, precoce mobilizzazione, rapida ripresa della canalizzazione intestinale e dell’alimentazione orale, ridotto dolore postoperatorio, breve degenza, indubbi vantaggi estetici e rapido ritorno alle attività quotidiane. Tutto ciò è estremamente evidente nei pazienti obesi, dove lo stesso gesto chirurgico per via tradizionale era gravato da alta morbilità (infezioni delle ferite, laparoceli, insufficienza respiratoria, embolia polmonare) e mortalità. Oggi, invece, la laparoscopia ci permette, per esempio, di dimettere un paziente a cui è stato posizionato un bendaggio gastrico dopo solo due giorni dall’intervento».

Il dottor Alberto Tartaglia è primario chirurgo della Clinica Sanatrix di Napoli, quest’anno al suo 50° anno di attività. Nella pagina a fianco, prospetto esterno della Clinica e una sala operatoria dedicata alla chirurgia laparoscopica www.sanatrix.it


Minore invasività • CHIRURGIA

I PUNTI CHIAVE DELLA CHIRURGIA LAPAROSCOPICA SI IDENTIFICANO NEI VANTAGGI DELLA METODICA, CIOÈ MINORE INVASIVITÀ E RIDOTTO DOLORE POSTOPERATORIO Quali strumentazioni utilizza il chirurgo laparoscopista? «Come un buon artigiano per rendere preziosa la sua opera ha bisogno di tutto lo strumentario a disposizione, così per il chirurgo laparoscopista è indispensabile la più ampia e moderna tecnologia disponibile come la telecamera ad alta definizione, bisturi a ultrasuoni e radiofrequenza, laser argon beam». Cosa rappresenta oggi la chirurgia laparoscopica? «Ho personalmente vissuto l’epoca pioneristica della laparoscopia diplomandomi presso l’università di Nizza nel 1991 quando le indicazioni erano estremamente limitate. Oggi la laparoscopia rappresenta circa il 70% della nostra attività chirurgica. Il concetto di mininvasività ormai è entrato nel nostro DNA, per cui tutte le nuove tecniche che rispecchiano tale

modalità vengono sempre adottate con piacere. Per esempio il trattamento laser delle fistole perianali e delle varici, la tecnica Longo per il prolasso emorroidario e la sindrome da defecazione ostruita sono da noi routinariamente eseguiti». Quali le caratteristiche che distinguono la clinica? «Rispetto ai centri sanitari di pubblica gestione abbiamo un tourn over di pazienti molto veloce, con una media di degenza di 4 giorni. Questo consente di abbattere i tempi di attesa; infatti, a seconda della patologia, il paziente attende per il ricovero solo dai 7 ai 15 giorni. La Clinica Sanatrix, oltre alla chirurgia generale, offre prestazioni di alto livello professionale anche nelle specialità di ostetricia e ginecologia, chirurgia vascolare, ortopedia, otorinolaringoiatria, medicina generale e cardiologia. GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ORTOPEDIA • Impianti protesici

Tra tecnica e paziente Il professor Renato Rotondo, esperto di impianti protesici agli arti inferiori descrive le novità in ambito protesico e la sempre più impellente necessità di applicarle ragionevolmente in base alle esigenze quotidiane del paziente di Simona Cantelmi

el campo della chirurgia protesica alcune innovazioni hanno riguardato la protesi all’anca, soprattutto per ciò che concerne le tecniche chirurgiche, i modelli e i materiali. «Gli impianti protesici oggi possono garantire un ottimo recupero funzionale e devono assicurarlo per il maggior tempo possibile a chi si sottopone a un intervento senza ritorno come le protesi». Per questo motivo, secondo il professor Renato Rotondo, il chirurgo ortopedico deve prestare molta attenzione sia allo stato delle articolazioni sia alla vita del paziente, alle sue esigenze e alle attività che compie quotidianamente. E «la scelta di fare l’intervento e di selezionare il tipo di protesi e l’accesso chirurgico, che il chirurgo compie su mandato del paziente, deve esprimere il massimo equilibrio tra il fascino delle novità scientifiche e i dati verificabili della ricerca e dell’esperienza clinica internazionale». Per l’intervento all’anca, «dopo un’accurata valutazione di tutti gli aspetti, ogni chirurgo, pur in grado di utilizzare le diverse tecniche e i diversi dispositivi disponibili, alla fine seleziona la strategia più opportuna in quel caso e quella con la quale ha stabilito migliore dimestichezza». L’attenzione che in questi anni si è concentrata sulle cosiddette

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tecniche mini-invasive «ha tra l’altro consentito di riflettere sul concetto essenziale di “minore aggressività e sacrificio dei tessuti”, presupposto imprescindibile di una chirurgia ben condotta e, nel tempo, ha liquidato due affermazioni sbagliate: “grande taglio grande chirurgo” e “piccola cicatrice chirurgo moderno”». Al chirurgo ortopedico esperto in chirurgia protesica non viene chiesto solo di condurre una buona operazione. «Il medico ha soprattutto la responsabilità di fare la scelta più ragionevole e informata sul tipo di protesi da usare per quel singolo paziente, le cui richieste funzionali, la cui età e condizioni di salute generali vanno valutate come elementi informativi essenziali per giungere a una decisione condivisa e responsabile». Il medesimo ragionamento può essere fatto anche per le protesi di ginocchio. «Comparse più tardi rispetto a quelle dell’anca, oggi stanno conoscendo un rapido incremento – prosegue il professor Rotondo -. Di particolare interesse sono le protesi parziali, che sostituiscono solo le porzioni degenerate dell’articolazione del ginocchio, risparmiando quelle sane o meglio conservate. L’uso di queste protesi parziali consente frequentemente un recupero funzionale più rapido e più vicino alla normalità».

Il professor Renato Rotondo del C.T.O. di Napoli al lavoro renatorotondo@yahoo.it



ISCHEMIA • Fattori di rischio e cura

Come salvare il piede ischemico diabetico L’ischemia degli arti inferiori è una patologia che spesso colpisce i soggetti diabetici e che, se non curata tempestivamente, può essere fermata solo con l’amputazione. Marco Magnano spiega i rischi legati a un piede ischemico, facendo luce su tutti gli aspetti della malattia di Stefano Marinelli

iabete e arteriopatia. Una combinazione che provoca un numero elevato di casi di ischemia degli arti inferiori. E proprio i diabetici sono particolarmente esposti a questo pericolo, perché il diabete favorisce l’insorgenza dell’arterioptia ostruttiva. Il professor Magnano, medico angioradiologo interventista, che ha accumulato una grande esperienza nella rivascolarizzazione delle occlusioni arteriose e nel salvataggio degli arti ischemici, sottolinea l’importanza della prevenzione, l’unica arma efficace contro il rischio dell’amputazione.

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Quali sono le cause di un piede diabetico e ischemico? «Dipende dalla formazione di una placca fibrosa e adiposa ad alto contenuto di colesterolo, che, crescendo fino a diventare una spessa incrostazione, talvolta calcifica, occlude l’arteria. La riduzione nell’apporto di sangue ai tessuti provoca delle ferite, le ulcere cutanee, che tendono a non guarire e che, estendendosi, possono infettarsi e incancrenire. Il diabete è il fattore che favorisce maggiormente l’insorgere dell’ischemia degli arti inferiori, ma anche soggetti non diabetici possono soffrirne». 156

Cosa si può fare per evitare questa patologia? «Quando la malattia è estesa, è ancora elevata la frequenza di amputazioni. Quindi la prevenzione è fondamentale. I diabetici dovrebbero tenere sotto controllo la glicemia, la pressione sistemica e il colesterolo, specie quello legato alle lipoproteine a bassa densità. Poi è molto importante l’esercizio fisico. Inoltre è necessario controllare frequentemente eventuali piccole ferite nei piedi che tendono a non guarire, così come annerimenti o arrossamenti delle punte delle dita dei piedi o dei talloni. Al minimo sospetto bisogna consultare il diabetologo». E se il problema dovesse manifestarsi, come risolverlo? «La comparsa di una lesione cutanea va valutata da un medico specialista. Il diabetologo o l’angiologo consiglieranno ed eseguiranno degli accertamenti. Se la diagnosi dovesse essere confermata, si potrebbe porre l’indicazione di un intervento di rivascolarizzazione, che può essere effettuato con tecnica convenzionale chirurgica, come il bypass o il TEA, oppure con tecnica mini invasiva percutanea, attraverso dei sottili tubicini che vengono introdotti nelle arterie da svegli, senza dolore, sotto controllo radiologico. Il tubicino


Fattori di rischio e cura • ISCHEMIA

Il dottor Marco Magnano nel suo studio di Catania mmagnano@sirm.org

ha un palloncino all’estremità che, una volta posizionato nel tratto ristretto o occluso, viene gonfiato con acqua e mezzo di contrasto, in modo da dilatare l’arteria al diametro prefissato. Nel caso del piede ischemico si preferisce la tecnica mini invasiva, che fornisce buoni risultati con minore rischio generale e una più facile ripetibilità rispetto alla tecnica chirurgica convenzionale». Perché questo intervento viene eseguito da medici radiologi? «Sono stati i radiologi vascolari a mettere a punto per primi le tecniche di navigazione cieca all’interno del torrente arterioso con i cateteri, sotto controllo fluoroscopico con monitor a raggi X. Ma lo specialista rivascolarizzatore deve lavorare in team multidisciplinare per ottenere i migliori risultati. Un team tipico è composto da un radiologo interventista, un chirurgo vascolare, un diabetologo e un chirurgo del piede, un angiologo e un microbiologo, con la collaborazione di un podologo». Vengono usati anche altri dispositivi, oltre al catetere a palloncino, per riaprire le arterie occluse? «La dilatazione con il palloncino rimane il momento fondamentale della

rivascolarizzazione. Talvolta sono necessari altri dispositivi per oltrepassare le ostruzioni più ostinate. Recentemente io stesso ho utilizzato, per la prima volta in Sicilia e una delle prime volte in Italia, un catetere laser. La luce laser brucia la placca dissolvendola e permettendo al catetere di superare il tratto ostruito. Quando la dilatazione con il palloncino non è sufficiente a ottenere il mantenimento dell’apertura del vaso, si impianta uno stent, una specie di reticella a molla che tiene aperto, con la sua forza radiale, il tratto ostruito. Comunque la ricerca in questo campo è molto viva e la tecnica è aggiornata continuamente». Le possibilità di guarigione sono buone? «Quando le lesioni sono troppo estese, come ho già detto, l’amputazione è ancora l’unico trattamento salvavita. Ma molti pazienti sono operabili con successo e l’arto può essere salvato con una o due sedute di angioplastica, oltre a eventuali interventi di innesti cutanei o medicazioni. Purtroppo i centri specializzati sono ancora piuttosto rari e molti malati non sono gestiti in modo completo. È triste rilevare che la Sicilia è la regione in cui si esegue il maggior numero di amputazioni per lesioni ischemiche non trattate». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ULCERA VARICOSA • Come curarla

Il metodo CHIVA contro l’ulcera varicosa L’ulcera varicosa è ben più di una ferita. Non guarisce spontaneamente e in molti casi procura un dolore tale da modificare l’umore del paziente. Non può essere sottovalutata e richiede l’intervento tempestivo del flebologo. Massimo Cappelli chiarisce tutti gli aspetti della malattia di Stefano Marinelli

na premessa è d’obbligo. L’ulcera varicosa è espressione dell’insufficienza venosa del circolo superficiale o safenico nel 30% dei casi, mentre dimostra un’incidenza pressoché doppia quando l’insufficienza valvolare colpisce i tronchi venosi profondi. In quest’ultima situazione, la metodica CHIVA può essere applicata solo in casi selezionati, a differenza dell’incontinenza venosa superficiale, in cui può essere applicata sistematicamente. La CHIVA ha dimostrato la sua superiorità nel controllo della recidiva varicosa e, di conseguenza, nella chiusura dell’ulcera, nei confronti delle metodiche demolitive, come scleroterapia, laser e radiofrequenza, di cui la safenectomia per stripping rappresenta il gold standard. Inoltre la strategia CHIVA non solo è il metodo più efficiente, ma anche l’unico conservativo, dal momento che riesce a mantenere e recuperare la vena varicosa e conservare l’asse safenico come patrimonio venoso, qualora lo si dovesse utilizzare per un pontaggio in territorio arterioso.

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Quale definizione, specificamente clinica, si può dare dell’ulcera che colpisce l’arto inferiore? «L’ulcera è un’autolesione dei tessuti, di dimensioni e profondità variabili, localizzata nella zona della caviglia. È caratterizzata da un andamento cronico, da una guari158

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gione lenta e non spontanea e ciò la differenzia dalla ferita, per cui necessita di interventi specifici per la riparazione tissutale. Inoltre tende a recidivare finché non si interviene sui meccanismi emodinamici che sostengono la sua genesi. Se particolarmente profonda, può lasciare intravedere strutture sottostanti, come fasce, muscoli e tendini, ma ciò accade più spesso nel caso di ulcera arteriosa, piuttosto che venosa». Quindi esistono tipologie diverse di ulcera? «Sì ed è il flebologo a eseguire questa diagnosi differenziale. Una lesione ulcerosa della gamba può essere condizionata da tre gruppi di patologie. Uno concerne malattie di ordine generale, come il diabete. Un altro racchiude patologie vascolari, sia dei vasi arteriosi, in genere occlusive, che venose e linfatiche. Le ulcere di origine vascolare sono le più frequenti, soprattutto quelle venose. Il terzo riguarda patologie strettamente cutanee, di competenza dermatologica, come il pioderma gangrenoso». Si può dire che l’ulcera, in particolare quella varicosa, ha una nascita e una vita proprie intrinseche? «In un certo senso sì, rapportandola a precisi sovvertimenti del microcircolo. D’altronde l’insufficienza venosa cronica è responsabile di un multiforme coinvolgimento dei tessuti dell’arto, in particolare quello cutaneo, complicato spesso da


Come curarla • ULCERA VARICOSA

Il dottor Massimo Cappelli visita un paziente nel suo studio di Firenze massimo.cappelli@dada.it

fenomeni infettivi e allergici. La principale causa dell’ulcera venosa risiede nell’aumento della pressione nel circolo venoso superficiale, ma questa condizione non è sufficiente». Qui entra in gioco la stasi. «Il concetto di “stasi”, di ingorgo del sangue nel groviglio di capillari che rappresenta l’espressione più periferica della circolazione, quella cutanea in cui nasce l’ulcera, deve essere distinto dal concetto di “danno” del microflusso. La stasi capillare non è di per sé patogena, ma è fondamentale che si giunga a un esaurimento funzionale dei meccanismi di compenso microcircolatori posti a vari livelli, tra cui l’aumento del drenaggio linfatico, che a un certo punto diventa insufficiente per mantenere un equilibrio omeostatico del tessuto». Quindi cosa deve accadere perché ci sia un danno? «Si deve innescare una serie di alterazioni tissutali, conseguenti all’attivazione e alla fuoriuscita dal capillare di cellule ematiche, globuli bianchi e rossi. Il passaggio di macromolecole dal sangue ai tessuti induce reazioni infiammatorie, fino alla fibrosi dermica. Con la risoluzione della stasi tramite intervento CHIVA, abolendo l’aumento della pressione venosa trasmessa al microcircolo cutaneo impegnato nella lesione ulcerativa, di solito tutto il processo rientra, anche se può ripetersi nel caso in cui il danno si sia fatto

persistente e le strutture siano incapaci di riprendere un’autoregolazione. Circa il 90% delle ulcere vascolari sono sostenute da una patologia venosa. Il 60% dipende da un’insufficienza del circolo profondo e il 30% da una varicosi del circolo superficiale». Perché è un’insufficienza venosa profonda la causa più probabile dell’ulcera? «L’insufficienza del circolo profondo è sostenuta, in genere, da una sindrome postflebitica dell’arto inferiore, che segue di solito una trombosi dei vasi profondi, la cui ricanalizzazione porta a un’incontinenza valvolare. Trattandosi di vasi profondi, connessi con le masse muscolari, la loro incontinenza comporta un funzionamento deficitario della pompa venomuscolare, con una compromissione globale di tutto il drenaggio dell’arto».

LE ULCERE DI ORIGINE VASCOLARE SONO LE PIÙ FREQUENTI, SOPRATTUTTO QUELLE VENOSE

Qual è il rapporto fra ulcera e dolore? «Il dolore si manifesta in modo severo in circa il 60% dei casi e richiede l’uso di analgesici. Alcuni pazienti possono continuare a lamentarsi anche dopo la chiusura dell’ulcera e, a volte, la ricomparsa del dolore può essere l’anticipazione di ¬ GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ULCERA VARICOSA • Come curarla

¬ una recidiva ulcerosa. Il dolore non è proporzionale alla gravità del processo ulceroso come estensione e profondità, anche piccole ulcere possono essere molto dolorose. La prima fase dell’ulcera coincide con un generico processo infiammatorio, simile a qualsiasi ferita, ma il dolore è più acuto». E la seconda? «La seconda fase è caratterizzata da un tessuto di riparazione, il “tessuto di granulazione”, che si accompagna a una riduzione fisiologica dell’essudato. Nella terza fase un tessuto ricostruisce un epitelio. Le ultime due fasi si associano a una riduzione significativa del dolore, fino alla sua scomparsa. Le modificazioni del carattere del paziente in senso depressivo o aggressivo rappresentano rispettivamente circa il 40% e il 60% dei casi. Quindi il dolore deve assolutamente essere controllato, non solo in quanto sintomo, ma soprattutto perché innesca processi cronici di automantenimento della lesione ulcerosa stessa, fino a diventare esso stesso un processo morboso autonomo, tramite quel meccanismo, realizzantesi a livello del sistema nervoso centrale, conosciuto come “centralizzazione del dolore”». Come si procede per la guarigione dell’ulcera varicosa? «L’ulcera venosa è sempre una risultante sia dell’alterazione emodinamica, sia di un’infezione batterica sovrammessa, sia della risposta del Sistema Regolatore Basale, con cui si intende l’insieme delle funzioni che sostengono l’equilibrio omeostatico. Un approccio corretto prevede azioni terapeutiche mirate a ciascuna di queste tre componenti. La correzione dell’alterazione emodinamica è perseguita con la strategia conservativa CHIVA, o, in casi particolari, soppressiva, con un trattamento scleroterapico eventualmente ecoguidato. Viene applicato sistematicamente un bendaggio elasto-compressivo, che facilita il drenaggio dei tessuti innescando processi di rimozione dei tessuti alterati, il cosiddetto 160

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“debridement autolitico”, fondamentale sia per la stimolazione della ricrescita tissutale che per il controllo di infezioni batteriche sovrammesse. Quest’ultimo viene eseguito con una sterilizzazione del fondo dell’ulcera. Il bendaggio è fondamentale a tale scopo. In casi particolarmente resistenti si può ricorrere a una sterilizzazione con un trattamento laser, associando eventualmente una terapia sistemica con antibiotici. L’ottimizzazione della risposta del Sistema Regolatore Basale è ottenuta con un corretto stato nutrizionale e una regolazione specifica dei vari componenti del sistema, tra cui il più importante è quello neurovegetativo. Quest’ultimo rappresenta la parte del sistema nervoso adibita al controllo inconscio delle funzioni coinvolte nella dinamica dell’ulcera, cioè la funzione immunitaria, la regolazione microcircolatoria e la funzionalità della matrice connettivale. Insomma, occorre un approccio pluriterapeutico, di base, mediante metodo CHIVA e bendaggio, complementare, mediante scleroterapia, e adiuvante, con laserterapia, neuralterapia, omeosiniatria e omotossicologia, tutto gestito dal flebologo, che deve padroneggiare le varie competenze specifiche per la risoluzione del problema».

LA CHIVA È IL METODO PIÙ EFFICACE NEL CONTROLLO DELLA VARICOSI E DELLE SUE COMPLICANZE



DIAGNOSTICA • Le funzioni dell’MPL

Le esplorazioni della risonanza magnetica L’esame diagnostico permette di visualizzare le funzioni di muscoli finora poco studiati e conosciuti. Scopriamo le funzioni dell’MPL (muscolo pterigoideo laterale) con Luca Impara di Ezio Petrillo

l muscolo pterigoideo laterale (MPL) è stato oggetto di numerosi studi negli ultimi anni, e la sua funzione è tuttora motivo di dibattito all’interno della comunità scientifica. L’MPL è un muscolo pari e simmetrico, posto nella fossa infratemporale, di forma triangolare con l’apice rivolto verso l’articolazione temporomandibolare (ATM) e la base sullo sfenoide. Luca Impara ci introduce ad un’analisi approfondita dello studio radiologico di questo muscolo. «Presenta due fasci chiarisce Impara - uno inferiore, che origina dalla superficie esterna della lamina laterale dell’apofisi pterigoidea; l’altro, superiore, che origina dalla faccia inferiore della grande ala dello sfenoide e dalla superficie laterale e posteriore del processo piramidale dello sfenoide. Questi due fasci sono separati da un piccolo spazio triangolare a base anteriore; in questo interstizio decorre spesso l’arteria mascellare interna. Entrambi i fasci di origine del MPL si portano lateralmente e indietro verso l’ATM inserendosi sulla parte anteromediale del collo del condilo, a livello della fossetta pterigoidea, e sulla capsula articolare». I numerosi studi anatomici sul MPL sono stati effettuati su reperti autoptici mentre scarseggiano quelli che utilizzano la risonanza magnetica. «La RM – spiega Impara – viene sfruttata soprattutto per la valutazione delle patologie

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dei tessuti molli dell’ATM, nonostante Crowley abbia dimostrato la possibilità di correlare nel cadavere il dettaglio anatomico con le immagini. La risonanza permette di studiare, in maniera non invasiva, una casistica molto più ampia di quella degli studi autoptici che è di circa 20 con eccezioni che raggiungono gli 80. Inoltre con la RM il MPL può essere studiato durante la sua fisiologica contrazione evidenziando aspetti che lo studio autoptico non può, ovviamente, valutare». La complicata dissezione della fossa infratemporale e le numerose possibili vie di accesso alla regione rendono difficile scegliere una metodica standard che permetta di mettere a confronto i dati di diversi studi. «Dalla disamina dei numerosi studi autoptici – conclude Impara - risulta che secondo la maggioranza degli autori il ventre superiore del MPL ha tre diverse inserzioni: sul disco, sul condilo e sulla capsula. La dislocazione antero-mediale del disco sarebbe causata ad uno spasmo del ventre superiore del muscolo pterigoideo laterale. Conducendo studi sperimentali basati sulla dissezione di cadaveri, altri hanno invece constatato che diversi individui, pur senza l’inserzione del capo superiore sul disco, presentavano dislocazioni antero-mediali del disco stesso. Da quanto era stato osservato si deduceva che il MPL non poteva essere l’unico responsabile della dislocazione del disco».

LA RISONANZA PERMETTE DI STUDIARE UNA CASISTICA MOLTO AMPIA



SINDROMI DEGENERATIVE • L’Alzheimer

Contrastare l’Alzheimer senza farmaci In Italia oggi ci sono più di cinquecentomila casi di Alzheimer, diciotto milioni in tutto il mondo. Le medicine possono fare ben poco, ma esiste un sistema non farmacologico che può aiutare chi è affetto da questa sindrome degenerativa. Ne parla Francesco Badagliacca di Simona Cantelmi

l morbo di Alzheimer è un costante e implacabile peggioramento delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità e della vita di relazione, che però, come afferma il dottor Francesco Badagliacca, possono essere arginati da terapie riabilitative che non comprendono l’uso di farmaci. «La malattia di Alzheimer (AD) è un processo degenerativo cerebrale che provoca un declino progressivo e globale delle funzioni intellettive. Oggi in Europa sono più di sette milioni le persone colpite dal morbo di Alzheimer e da altre patologie correlate e nei prossimi vent’anni si prevede che questo numero raddoppierà, come conseguenza dell’invecchiamento della popolazione. L’Alzheimer è inquadrata nell’ambito delle malattie degenerative del sistema nervoso centrale; infatti, alla base della malattia vi è una lenta e progressiva atrofia della corteccia cerebrale per perdita di neuroni (area frontale, temporale, parietale), nell’ippocampo e nelle strutture sottocorticali». I primi sintomi sono leggeri e sporadici, poi pian piano si fanno più intensi

I Il dottor Francesco Badagliacca, esercita a Gioia del Colle, in provincia di Bari francobad@libero.it

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e ricorrenti. «La malattia si manifesta clinicamente all’inizio con perdita di memoria, soprattutto quella a breve termine, ed evolve verso una progressiva e ingravescente disabilità cognitiva (compromissione del linguaggio, dell’ideazione, difficoltà nel riconoscere gli oggetti usuali, disorientamento spaziotemporale), cui si associano sintomi di tipo comportamentale e psichico quali agitazione, depressione e psicosi, fino alla totale dipendenza. Con il venir meno delle capacità intellettive si assiste, infatti, a una modificazione della personalità del malato con veri e propri disturbi comportamentali. Dalla comparsa dei sintomi la malattia ha un decorso medio di 8-10 anni». Purtroppo, la malattia di Alzheimer a oggi non riesce a trovare nella terapia farmacologica un’efficace soluzione. «Solo nelle fasi iniziali alcuni farmaci hanno mostrato una relativa efficacia su disturbi cognitivi, comportamentali e funzionali – prosegue Badagliacca pertanto l’impiego delle terapie non farmacologiche nell’ambito dei trattamenti riabilitativi sta mostrando validi risultati nel trattamento dei pazienti af-


L’Alzheimer • SINDROMI DEGENERATIVE

OGGI IN EUROPA SONO PIÙ DI SETTE MILIONI LE PERSONE COLPITE DAL MORBO DI ALZHEIMER

fetti da malattia di Alzheimer. Tra le metodiche riabilitative un posto di rilievo spetta alla terapia occupazionale che, attraverso l’espletamento di compiti e attività di vario genere, promuove nell’individuo autonomia e benessere. L’obiettivo della terapia è di offrire ai pazienti i consueti ritmi e le occupazioni del vivere quotidiano». Stanno nascendo metodi sempre nuovi di terapia occupazionale. «La terapia occupazionale è indicata per i malati di Alzheimer con stadio lieve-moderato della malattia. Agisce sui processi motori, sensoriali e cognitivi del paziente attraverso un articolato programma di attività strutturate. Questa terapia non farmacologica è applicabile da personale qualificato presso centri specializzati, i Centri Diurni Alzheimer e i Nuclei Residenziali Alzheimer». Ultimamente, inoltre, è stata sviluppata una terapia occupazionale impiegando programmi con microswitch, grazie al professor Giulio Lancioni dell’Università degli Studi di Bari. «Questa si discosta dalla semplice e tradizionale terapia occupazionale, prefiggendosi l’obiettivo di sviluppare programmi

che, avvalendosi di supporti tecnologici audio, consentano ai pazienti con Alzheimer lieve-moderato di riacquisire abilità di vita quotidiana appartenenti al loro repertorio cognitivo comportamentale pre-malattia e di incrementare il tono dell’umore». Viene utilizzata una particolare procedura, la “Task Analysis”, secondo la quale alcuni compiti complessi vengono scomposti in “step” più semplici. «In questo modo, la riabilitazione nel malato Alzheimer avviene in modo realistico e flessibile, perché gli obiettivi prefissati sono concretamente realizzabili e l’intervento viene modulato quasi quotidianamente, in base ai bisogni e alla variazione, talvolta repentina, del quadro clinico del paziente. L’integrazione fra i diversi ruoli e la predisposizione al lavoro d’équipe è fondamentale per costruire un programma riabilitativo, finalizzato alla stimolazione delle capacità ancora esistenti allo scopo di ritardare la perdita delle attività di base e strumentali di vita quotidiana».

Le differenze tra un cervello normale, a sinistra, e un cervello affetto da Alzheimer in stato avanzato

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PSICOTERAPIA CARCERARIA • Anna Luisa Buratti

L’ascolto oltre il pregiudizio Alla scoperta della psicoterapia carceraria. Empatia, analisi del disagio psichico, responsabilità della società, sono gli aspetti su cui si è maggiormente soffermata Anna Luisa Buratti di Ezio Petrillo

scolto oltre ogni pregiudizio. La comprensione delle condizioni psicologiche che vivono i detenuti nelle carceri permette di mettere a fuoco tale realtà da un punto di vista diverso. La detenzione mette a nudo fragilità individuali e influenze negative della nostra società. Anna Luisa Buratti ci guida attraverso le tecniche terapeutiche utilizzate nell’approccio alla realtà carceraria.

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Parliamo della psicoterapia analitica neofreudiana, di indirizzo Frommiano. Perché la ritiene la base del suo approccio professionale? «Erich Fromm, filosofo e psicoanalista tedesco, ha sviluppato una propria teoria sulla natura umana, arricchendo il pensiero freudiano. L’uomo contemporaneo viene osservato in relazione alla società. Il carattere, modellato attraverso i rapporti e i modelli familiari, rappresenta, a livello individuale, la struttura comune al gruppo sociale. La società d’oggi, per le sue caratteristiche “tradisce” il bisogno dell’essere umano di diventare se stesso, di sviluppare le potenzialità insite nella propria natura e lo spinge verso il male». Lavorando nella realtà penitenziaria, quali sono i disagi psicologici maggiori che riscontra nei pazienti? «Dal punto di vista psicologico, chi si trova in carcere presenta spesso una personalità psichicamente fragile. Lo stare 166

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con gli altri, in questa realtà, è compito particolarmente impegnativo e problematico; si è costantemente sia in compagnia di qualcuno, che soli con se stessi e con il proprio mondo interiore, dal quale non è possibile distanziarsi. Riscontro nella realtà carceraria una difficoltà relazionale molto accentuata». Quanto è importante entrare in empatia con il paziente? «L’empatia con l’Altro ha una parte importante nel caratterizzare la relazione di aiuto. Si deve tenere presente che, a chi ha commesso un reato, sono spesso mancate esperienze profondamente umane: non conosce cos’è l’attenzione, il rispetto, la dedizione. L’esperienza empatica fatta di interesse e di ascolto profondo non giudicante, porta la persona a guardare se stessa e il suo agire, con realismo. Passaggio necessario per riconoscere le proprie lacune e per intravedere possibilità di sviluppo positivo di sé». La società contemporanea, dal suo punto di vista, come influisce sulla psiche delle persone che vivono la realtà carceraria? «La situazione attuale delle carceri non facilita il lavoro di chi è chiamato alla rieducazione della persona. È sempre minore la volontà di investire sul recupero del singolo. Il cambiamento ha bisogno invece di attenzione e di energie che lavorano senza clamore, ma con continuità e fiducia».

La dottoressa Anna Luisa Buratti, specialista in psicoterapia annaburatti@gmail.com



ODONTOIATRIA • Gianfranco Prada

La prevenzione alla base della cultura odontoiatrica Un ventaglio di attività atte a valorizzare il libero professionismo medico, la qualità delle prestazioni e il rapporto con il paziente. Per il neopresidente, Giancarlo Prada, «occorre un’azione sinergica per sensibilizzare il paziente sull’importanza delle prevenzione e della cura odontoiatrica» di Adriana Zuccaro

alute, prevenzione e benessere sono i valori che l’Andi, Associazione nazionale dentisti italiani, pone come fulcro antropocentrico di ogni attività svolta e programmata a sostegno di una quanto più diffusa “cultura del sorriso”. Dal 1946 a oggi l’Andi ha di fatto raggiunto il ruolo di sindacato di categoria più rappresentativo d’Italia. Gli aspetti primari su cui si fonda l’operosità sindacale, culturale e scientifica dell’Associazione sono «la valorizzazione del modello libero-professionale diffuso capillarmente sul territorio e tanto apprezzato dalla popolazione per la qualità delle prestazioni effettuate e il rapporto di fiducia tra odontoiatra e paziente». L’assunto di Giancarlo Prada, neopresidente dell’associazione, anticipa un resoconto sull’universo dentale attivo in Italia e la spinta migliorativa con cui l’associazione impugna ogni progetto.

S Gianfranco Prada è il tredicesimo presidente nazionale dell’Andi

Quali eccellenze e criticità presenta l’attuale stato dell’odontoiatria italiana? «Il modello fino a oggi vincente dello studio monoprofessionale, costituito cioè da uno o due professionisti con segretaria e assistente alla poltrona, va sicuramente guidato in un’evoluzione imposta della crescente crisi di valori

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ed economica che costringe il ceto medio, sempre più impoverito, a rivolgersi a realtà professionali diverse come strutture più grosse gestite da capitali, franchising, turismo odontoiatrico, low cost, dimenticando l’importanza della cultura della prevenzione odontoiatrica e del rapporto fiduciario col proprio dentista». L’intero settore odontoiatrico necessita di importanti cambiamenti. Quali i più imminenti? «Sicuramente le istituzioni politiche dovranno dimostrare una maggior attenzione all’odontoiatria. Il Sistema sanitario nazionale copre meno del 10% delle prestazioni odontoiatriche effettuate in Italia e, visto il costo dell’odontoiatria, sempre più cittadini non potranno essere lasciati soli. I fondi sanitari integrativi voluti da entrambi gli schieramenti politici, che preoccupano molti odontoiatri per la possibile ingerenza nella professione, possono costituire solo una minima e parziale risposta a questo problema. Sarà quindi necessaria un’azione sinergica da parte di tutte le componenti del settore dentale: produttori di macchinari, attrezzature e merci, distributori, operatori sanitari e odontotecnici per sensibilizzare il paziente sull’importanza delle prevenzione e della cura


Gianfranco Prada • ODONTOIATRIA

odontoiatrica e per contenere al massimo i costi comprimibili, purché ciò non vada a scapito della qualità delle prestazioni». Qual è il fulcro promotore delle attività dell’Andi? «Curiamo molto l’aspetto culturale dei nostri soci. Organizziamo sia a livello locale che regionale e nazionale importanti convegni scientifici di aggiornamento su tutte le branche dell’odontoiatria. Primi tra i sindacati medici, abbiamo strutturato un sistema di Formazione a distanza che permette l’aggiornamento via internet; con il sistema satellitare vengono trasmessi importanti interventi in diretta sui pazienti». In campo odontoiatrico, quali direzioni intraprende la ricerca medico-scientifica? «La prospettiva più importante per il futuro è quella legata all’utilizzo delle cellule staminali, ma si tratta ancora di

LA CULTURA TRASMESSA DALL’UNIVERSITÀ È DI ECCELLENZA, MANCA PERÒ, IN MOLTE SEDI, LA PRATICA SUI PAZIENTI

una fase di ricerca che non è applicabile alle attuali terapie». Ritiene che i giovani dentisti italiani posseggano un bagaglio formativo adeguato alla pratica professionale? «La cultura trasmessa dall’università è sicuramente di eccellenza, manca però, in molte sedi, la pratica sui pazienti. In tal senso l’università, per dedicare più tempo al tirocinio, ha innalzato a sei gli anni del corso di laurea e sono gli studenti che ci chiedono di aprire i nostri studi professionali affinché possano

essere aiutati ad apprendere gli aspetti operativi dell’attività professionale che non vengono insegnati dall’accademia». I servizi medici odontoiatrici gravano sulle tasche degli italiani. Esistono dei programmi “sociali” capaci di ovviare a tale realtà? «Su richiesta del ministero della Salute la nostra associazione ha sottoscritto un accordo per l’Odontoiatria sociale, rivolto alle fasce di popolazione in maggior difficoltà economica, ma non è certo compito della libera professione colmare le carenze del Servizio sanitario nazionale». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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ODONTOIATRIA • Tecnologia e psiche

C’è rimedio alla paura del dentista| Nuove tecnologie aiutano la psiche del paziente. Ridurre l’ansia e la paura del dentista, oggi è possibile grazie a diverse metodologie odontoiatriche che facilitano, allo stesso tempo, il lavoro dei medici. L’analisi di Enio Dell’Artino di Ezio Petrillo

Il dottor Enio Dell’Artino accanto alla telecamera intraorale - www.ildentistadifirenze.it

rigini e rimedi della paura del dentista. La timidezza che mostra la maggioranza delle persone nei confronti dell’odontoiatra è dovuta a varie cause che si intrecciano fra loro. Nello specifico esse si racchiudono nella paura dell’ignoto, di eventuali infezioni, di riportare lesioni al proprio corpo, nella paura del dolore e, infine, di spendere troppo. Il dottor Enio Dell’Artino si sofferma su ognuna delle cinque tipologie. «La paura dell’ignoto – spiega Dell’Artino - , è generata dalla difficoltà di vedere quello che il dentista sta facendo. Ma oggi è possibile permettere al paziente e alle persone che lo accompagnano di osservare quello che sta accadendo nella propria bocca attraverso la telecamera intraorale». Tale tecnica comporta evidenti benefici. «In primis il paziente vede direttamente sulla televisione quello che sta succedendo. Ma anche l’operatore grazie al forte ingrandimento può effettuare interventi ricostruttivi, chirurgici o di semplice pulizia dei denti, molto più dettagliati e precisi». Altro punto su cui è importante focalizzare l’attenzione è la ricerca di una routine di lavoro che permetta, al medico e al paziente, di stare tranquilli dal punto di vista infettivo. Per quanto riguarda quest’aspetto, spiega Dell’Artino «è ne-

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cessario adottare precauzioni di protezione efficaci, ecologiche e che non gravino troppo sul risvolto economico. Un sistema a noi particolarmente caro per questo scopo è l’uso di indicatori biologici, ossia di batteri in forma sporigena, che durante la verifica dell’efficacia sterilizzante, devono essere inattivati dalle solite fasi di autoclavaggio cui è sottoposta l’attrezzatura utilizzata. Altri aspetti che hanno consentito di migliorare la penetrazione diagnostica e la sicurezza terapeutica sono: la divulgazione di presidi radiologici TAC guidati, il laser, la piezosurgery». In

particolare, quest’ultima metodica chirurgica in alternativa al trapano, consente di intervenire sui tessuti ossei, con precisione, minima invasività, preservando i tessuti molli. Infine «la paura del dolore e di una spesa sostenuta - conclude il Dr Dell’Artino-, possono essere affrontati con una comunicazione dinamica ed esaustiva. Una trasmissione dettagliata delle informazioni riguardanti le modalità di intervento e gli oneri di pagamento, contribuisce alla distensione e all’avvicinamento del paziente allo studio dentistico».



ODONTOIATRIA • Salute e bellezza

Preservare estetica e salute L’odontoiatria oggi cura anche la bellezza. Oltre le cure intraorali, i dentisti si spingono al trattamento e alla correzione della forma delle labbra. Lo scopo, spiega Marco Rebonato «è un’armonia totale del viso» di Ezio Petrillo

resevare l’estetica e curare infezioni dentali allo stesso tempo, oggi non è più un problema. Sempre più spesso alcuni medici abbinano cure dentali complesse a trattamenti puramente estetici. Marco Rebonato specialista in parodontolgia ci introduce ai cambiamenti di prospettiva dell’odontoiatria nel trattamento delle parodontopatie. «Praticando l’odontoiatria da più di vent’anni – spiega il dottor Rebonato - e, dedicandomi con particolare riguardo alle affezioni parodontali, mi sono reso conto che la perdita degli elementi dentari a cui portano le forme più gravi di piorrea, determina, oltre a gravi deficit alla masticazione, alla fonazione e all’articolazione della mandibola, anche una notevole alterazione del sorriso». Le conseguenza delle patologie parodontali sono diverse.«Le gengive si ritirano, i denti appaiono più lunghi, si mobilizzano e perdono la loro posizione naturale. Nel caso poi si arrivi alla perdita dei denti stessi si verifica una modificazione dell’armonia del volto per alterazione dei suoi normali rapporti, con accentuazione di eventuali difetti. Ad esempio le pieghe naso labiali si evidenziano maggiormente, le labbra assumono una piega verso al basso e tutto il viso assume un aspetto più invecchiato».

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Questo, ovviamente, rappresenta un’ulteriore aggravante in una società dove l’aspetto esteriore ha sempre più rilevanza. «La terapia migliore contro i danni provocati dalla parodontite – specifica Rebonato - , rimane la prevenzione con un’igiene adeguata della propria bocca e controlli periodici. Quando però il danno è fatto la moderna odontoiatria ci mette a disposizione delle terapie in grado di recuperare le situazioni compromesse. L’implantologia permette di sostituire, a volte nella stessa seduta, i denti perduti e le ricostruzioni eseguite con le nuove ceramiche integrali o con zirconia, lavorate con metodiche computerizzate saranno decisamente naturali». Associare l’implantologia a cure volte a recuperare i denti naturali aiuta a ristabilire una situazione intraorale soddisfacente, sia da un punto di vista funzionale che estetico. «A questo punto – conclude Rebonato - con metodiche tipiche della medicina estetica si possono migliorare i risultati raggiunti andando a correggere quei difetti del viso che con la sola terapia dentaria non si riescono a risolvere. Ecco allora che il sorriso si può ottimizzare correggendo la forma delle labbra e del volto con dei riempitivi a base di acido ialuronico che serviranno a dare più volume e un aspetto più armonico».

Il dottor Marco Rebonato, specialista in odontoiatria marcorebo@alice.it



ODONTOIATRIA • Impianti post-estrattivi

Tutti i vantaggi del carico immediato I progressi registrati in campo odontoiatrico oggi consentono di ottenere ottimi risultati in una sola giornata. Concetto Di Mauro, dentista di Catania, spiega i vantaggi degli impianti post-estrattivi a carico immediato di Andrea Costanza

ell’ambito della moderna odontoiatria, la possibilità di ridurre gli atti chirurgici, evitando così di interferire con i processi di guarigione e ottenendo notevoli vantaggi nel mantenimento e nella stabilità dei tessuti, ha portato negli ultimi decenni a rivedere il protocollo sul carico differito, con un interesse sempre crescente nell’utilizzo della tecnica del carico immediato. La scelta di utilizzare la tecnica non sommersa, rispetto alla tradizionale, si basa sull’esistenza di condizioni fondamentali che ne favoriscono i processi di osteointegrazione. «Per un successo a lungo termine occorre che gli impianti siano inseriti in un sufficiente volume osseo, che abbiano una lunghezza possibilmente non inferiore ai 12 mm e un diametro maggiore a 3,3 mm». A spiegare le prero-

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Il dottor Concetto Di Mauro nel suo studio dentistico di Misterbianco (CT) concettodimauro@live.it

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gative della moderna implantologia è il dottor Concetto Di Mauro. «Per quanto riguarda il numero minimo di impianti da sottoporre a carico immediato, già tre impianti collegati da un provvisorio fisso con funzione di split rappresentano un supporto adeguato per il carico immediato, con successi pari al 99%». I principali fattori su cui si basa il carico immediato sono la stabilità primaria della fixture (viti), la macrostruttura e microstruttura dell’impianto, la qualità e quantità ossea, lo splinting (collegamento dei denti mobili contigui), l’elevato press-fit della fixture nel sito implantare, le adeguate dimensioni dell’impianto, la distribuzione ottimale degli impianti nelle due arcate e, infine un buon bilanciamento occlusale che minimizzi i carichi trasversali ed esalti gli stress verticali. «La stabilità primaria corrisponde all’assenza di mobilità dell’impianto al momento della sua inserzione, ottenuta dall’intimo contatto tra le due superfici – spiega il dottor Di Mauro –. Essa è correlata dalla quantità e qualità del sito ricevente, quest’ultimo migliorabile mediante tecniche chirurgiche. La letteratura medico-scientifica ha ampiamente descritto i vantaggi che si ottengono con gli impianti post-estrattivi, grazie ai quali «si riduce drasticamente il riassorbimento delle pareti corticali dell’alveolo post estrattivo e si riducono di 4-6 mesi i tempi terapeutici, poiché non è più necessaria la guarigione dell’alveolo come avviene nel protocollo tradizionale». Tra i fattori dipendenti dal paziente, che possono influenzare negativamente il successo del carico immediato il dottor Di Mauro sottolinea le alterazioni sistematiche, fumo, infezioni

e infiammazioni localizzate, bruximo e parafunzioni. La letteratura è ricca di lavori scientifici sul post-estrattivo a carico immediato. «In collaborazione con la Isomed, azienda produttrice di sistemi implantari odontoiatrici, è stato infatti condotto uno studio su 50 pazienti tra uomini e donne cui sono stati posizionati 550 impianti in entrambe le arcate mascellari, di cui 230 posizionati in siti post-estrattivi. La tipologia dei lavori presi in considerazione in questa trattazione sono circolari a carico immediato – afferma lo specialista –, in metallo-ceramica, mandibolari e mascellari su un numero di impianti compreso tra 10 e 14 overdenture a carico immediato, mascellari e mandibolari, con 4 impianti da 12 mm su barca di ackeman avvitata e un caso di circolare superiore su 7 impianti, collegati da una barra avvitata e fresata che sorregge una protesi mobile con attacchi a chiavistello». Tutti gli impianti posizionati che presentavano un’elevata stabilità primaria sono stati caricati con provvisori armati cementati che, oltre a permettere la funzione masticatoria immediata e un importante comfort estetico per il paziente. «Prima di procedere all’inserimento della fixture, sono state eseguite, indagini radiografiche opt e dentalscan per lo studio dimensionale dell’osso, con relativi lavori tecnici preliminari. In definitiva, quindi, dal singolo elemento al circolare, la tecnica a carico immediato – afferma lo specialista – dà oggi a tutti i pazienti, la possibilità di ottenere ottimi risultati estetici e funzionali in giornata».



ODONTOIATRIA • Nuovi strumenti

Evoluzioni radiologiche L’avvento dei sistemi digitali nel campo della radiologia ha portato a notevoli vantaggi, sia per la possibilità di archiviazione delle immagini, sia, soprattutto, per i benefici apportati agli utenti, che così possono risparmiare tempo ed esposizioni multiple. Il dottor Marco Magnano spiega nel dettaglio la novità digitale di Stefano Marinelli

li studi di radiologia hanno avviato da anni un processo evolutivo, con lo stesso passo deciso in tutto il Paese e in tutti i settori di competenza. Un cambiamento dettato dalle esigenze del paziente, un adattamento ai ritmi dell’utenza. Perché la portata del passaggio dalla radiologia cosiddetta tradizionale, quella analogica, alla tecnologia digitale, risiede soprattutto nell’ottimizzazione dei tempi. «Per imporsi in questo settore è stato necessario dotarsi di apparecchiature di fascia molto alta, con particolare cura nella gestione e formazione delle immagini medicali di tipo digitale» conferma il dottor Magnano, direttore sanitario dello studio di radiologia DOCC di Catania. «L'utente tipico non ha molto tempo da perdere in sala o in lista di attesa, spesso gli utenti sono bambini con orari e problematiche particolari, per non parlare delle persone in età produttiva – spiega il direttore -, e in molti casi vengono direttamente dallo studio odontoiatrico, dove devono subito rientrare per il proseguimento della terapia». Lo studio DOCC, infatti, è nato come studio di radiologia odontoiatrica, per poi allargare negli gli anni il ventaglio delle prestazioni sino a includere tutti i tipi di esami radiologici. «Per questa tipologia di utenti – prosegue Magnano -,

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Il dottor Marco Magnano nello Studio DOCC di Catania studio_docc@tin.it

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lo studio si è adeguato e fornisce prestazioni immediate, con orari elastici, senza alcuna attesa in sala e con consegna di radiogrammi in tempo reale». E questo grazie al formato digitale delle immagini, che così possono venire inviate anche per posta elettronica o VPN direttamente allo studio dentistico. Le immagini elaborate dai sistemi di radiologia digitale, a parità di risoluzione spaziale e superiore risoluzione di contrasto rispetto a quella convenzionale, hanno il vantaggio di poter essere manipolate allo scopo di mettere in risalto i particolari di interesse diagnostico, trascurando quelli inutili. «In questo modo, anche nel caso in cui si incorra in eventuali errori di esposizione, si può ottenere un’immagine adeguata alla diagnosi, mentre con i sistemi analogici si sarebbe costretti a ripetere l’esposizione» spiega il dottore. Senza dimenticare che le immagini digitali possono essere registrate su diversi sistemi di archiviazione, come CD O DVD. «Comunque la spinta al cambiamento degli studi di radiologia non è data solo dall’utilità della tecnologia digitale – conclude Magnano – ma anche e soprattutto dalla necessità di andare incontro alle esigenze dei diversamente abili, eliminando ogni tipo di barriera architettonica e facilitando gli accessi nel miglior modo possibile».



IMPLANTOLOGIA • Evoluzioni

La simulazione riduce l’invasività chirurgica Le funzioni dell’apparato dentale possono essere ripristinate anche in caso di scarsa presenza di volumi ossei. La pratica chirurgica e odontoiatrica trova le soluzioni più vantaggiose per il paziente anche grazie alla moderna implantologia. Enrico Corrà ne descrive i parametri applicativi di Adele Conti

implantologia a carico immediato ha visto negli ultimi anni un notevole incremento del suo utilizzo grazie all’introduzione da parte delle aziende produttrici di impianti orali di nuove superfici osteoinduttive, in grado di accelerare i processi di guarigione ossea. «Agli impianti con superficie liscia oggi si preferiscono quelli con superfici sabbiate, mordenzate o acidificate, atte a creare un’area microruvida in grado di accelerare la formazione del coagulo, quindi i processi cellulari di neoformazione ossea». A descrivere la vantaggiosa evoluzione delle procedure implantologiche è il dottor Enrico Corrà, laureato in odontoiatria e protesi dentaria con perfezionamento in “Chirurgia orale” e “Chirurgia implantoprotesica computer assistita nella pianificazione prechirurgica e nella funzione immediata”, attivo presso lo studio associato in Poiana Maggiore insieme al padre, Alberto Corrà, medico chirurgo odontoiatra.

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Quali sono le prerogative necessarie per l’applicazione dell’impianto a carico immediato? «Oltre all’utilizzo di impianti certificati, è decisamente indispensabile l’esperienza e la preparazione del clinico poiché il ca180

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rico immediato non è sempre applicabile. È poi assolutamente necessario che l’impianto, durante l’inserimento, raggiunga elevati valori di torque – sforzo all’avvitamento –, senza i quali il carico immediato risulta impossibile. Per raggiungere tali valori anche in presenza di osso di scarsa qualità, il clinico può tuttavia ricorrere a degli escamotage, come la sottopreparazione del sito implantare». In quali casi non è possibile eseguire la procedura implantologica? «L’unico limite dell’implantologia è rap-

In foto, da sinistra, i dottori Enrico e Alberto Corrà in una delle sale dello studio associato Corrà di Poiana Maggiore (VI) info@studiocorra.com


Evoluzioni • IMPLANTOLOGIA

presentato dalla mancanza di una sufficiente quantità di osso dentale del paziente. Tuttavia questo limite può essere superato con il ricorso a una delle molteplici possibilità che la chirurgia moderna mette a disposizione; quindi il limite reale è piuttosto quello che il paziente è disposto a subire dal punto di vista chirurgico e invasivo. Oggi abbiamo le “banche dell’osso” da cui possiamo attingere per avere grosse quantità di blocchi/stecche d’osso per ricostruire tramite interventi di chirurgia maxillo-facciale delle importanti atrofie, tecnica usata anche per ricostruire le mutilazioni in seguito alla rimozione di tumori del cavo orale». Come si stabilisce l’effettiva quantità ossea? «L’avvento della diagnostica tridimensionale tramite tomografia digitale, oggi alla portata degli studi odontoiatrici grazie all’avvento delle tomografie volumetriche CONE BEAM, e la diffusione dei software di progettazione-simulazione implantare, ci permette di “navigare” l’osso del paziente e di sfruttarne al massimo i volumi residui anche in presenza di scarse quantità. Ormai gli impianti moderni possono essere tranquillamente inclinati e questo ci permette di inserirli nelle zone di osso residuo del paziente e di protesizzarlo senza dover ricorrere alle chirurgie rigenerative. Anche l’introduzione degli impianti corti con lunghezze di 5-6 millimetri permette di risolvere casi clinici che un tempo avrebbero richiesto tecniche di aumento verticale d’osso». Quali sono stati i principali progressi tecno-scientifici dell’ultimo decennio? «La rivoluzione degli ultimi anni è la chirurgia implantare computer assistita. È affascinante poter, tramite i software, pianificare un intervento chirurgico nei minimi dettagli. Poter scegliere la posizione, l’inclinazione, la dimensione e la forma dell’impianto su un modello virtuale tridimensionale ottenuto dai dati tomogra-

fici del paziente, valutare anche a priori se tutto è corretto anche per la realizzazione della protesi, posizionando gli impianti in maniera da non aver problemi estetici dovuti alla posizione dei pilastri o delle viti di fissazione». Quali altri vantaggi offre la tecnologia? «La grande innovazione per il paziente è rappresentata dai progetti virtuali grazie ai quali si possono ottenere delle guide chirurgiche in grado di riportare in bocca l’esatta posizione degli impianti attraverso un intervento che può essere praticato senza dover aprire lembi chirurgici e quindi punti di sutura, ma solo attraverso il passaggio di una serie di frese attraverso i fori sulla guida chirurgica. Nel postoperatorio il paziente praticamente non soffre gonfiori né dolori, o comunque in quantità notevolmente inferiore rispetto alle tecniche tradizionali».

LA RIVOLUZIONE DEGLI ULTIMI ANNI È LA CHIRURGIA IMPLANTARE COMPUTER ASSISTITA

Cosa rende oggi uno studio odontoiatrico competitivo? «Innanzitutto è importante che i moderni studi odontoiatrici siano forniti di tecnologie moderne e innovative, dalla tomografia volumetrica CONE BEAM, alla chirurgia guidata e che siano in grado di eseguire la realizzazione di protesi con materiali di ultima generazione come il titanio e lo zirconio realizzati con sistemi di passivazione per annullare le tensioni tra gli impianti o tramite sistemi di fresaggio CAD-CAM». GIUGNO 2010 SANISSIMI

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IL CANCRO DELLA BOCCA • Diagnosi precoce

Osserviamo la regola dei 14 giorni Il cancro della bocca miete migliaia di vittime tutti gli anni solo in Italia e i dati indicano che tra i fattori responsabili c’è anche il ritardo delle diagnosi, dovuto a una diffusa tendenza a sottovalutare la prevenzione. Raffaello Pagni suggerisce come comportarsi di Stefano Marinelli

l cancro della bocca provoca in Italia circa 12.000 morti all’anno. Dopo 5 anni dalla sua comparsa, si dimostra mortale nel 50% dei casi, ma con una forbice dalla larghezza eloquente fra i pazienti diagnosticati in maniera tardiva, che costituiscono il 95% dei decessi, e quelli che hanno beneficiato di una diagnosi precoce, i quali vengono a mancare solo nel 5% dei casi. Numeri crudi, forse, ma molto comunicativi. Parlano, innanzitutto, della rilevanza che deve assumere l’informazione riguardo questa letale malattia nell’opinione pubblica. Avvertono, inoltre, della straordinaria importanza rivestita dalla fase di prevenzione, capace di annullare i casi mortali quasi in toto. «Alcuni virus, come quello dell’epatite C e quello di Epstein Barr, o il papilloma detto HPV, possono essere responsabili del cancro della bocca – rivela il dottor Pagni -, ma sono fumo e alcool, due droghe misconosciute perché legali, i fattori di rischio principali, specie se in combinazione fra loro». Il recente aumento di frequenza di questo tipo di tumore nel sesso femminile può essere senza dubbio spiegato proprio con la forte incidenza esercitata dal fumo, dato che «più donne iniziano a fumare e più uomini, al contrario, decidono di smettere» osserva l’odontoiatra.

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«Le sedute semestrali presso uno studio odontoiatrico sono fondamentali – suggerisce il dottor Pagni -, perché, oltre alla prevenzione della malattia cariosa e parodontale effettuata mediante la rimozione di placca batterica e tartaro, con la semplice ispezione e palpazione dei tessuti di cavo orale e collo è possibile riconoscere i sintomi iniziali del cancro». Il 95% dei tumori del cavo orale insorge dopo i 40 anni e l’età media è di 64 anni, «dopo la quale diventa importantissimo sottoporsi ad accurate visite specialistiche di controllo e prevenzione, soprattutto per i fumatori e i bevitori». I sintomi potenziali del cancro possono essere evidenti anche agli occhi del paziente stesso e, se non sottovalutati e se posti immediatamente all’attenzione dell’odontoiatra, possono diventare una spia salvavita. «Un sintomo sospetto è la presenza di una massa biancastra in bocca oppure un’ulcera sanguinante che non si rimargina – spiega l’odontoiatra – e la lingua è la sede coinvolta con più frequenza». Il dottor Pagni precisa anche che esiste una regola, detta dei 14 giorni, entro i quali «tutte le lesioni che non si risolvono con l’uso di collutori o con l’eliminazione degli irritanti locali, devono essere considerate sospette e visionate da un professionista esperto, che potrà dirimere il dubbio con una semplice biopsia».

Il dottor Raffello Pagni, nel suo studio odontoiatrico di Firenze raffaello.pagni@gmail.com



ENDODONZIA • Il recupero del dente

La soluzione più semplice non è sempre la migliore Ricorrere alle procedure implantologiche talvolta è una scelta azzardata. Di fatto, grazie all’endodonzia è possibile recuperare il dente con tempi, costi e risultati meglio prevedibili. L’esperienza di Vinio Malagnino di Giulio Conti

uando si parla di salute dentaria, si tende troppo spesso a virare il discorso sugli ultimi ritrovati in materia di implantologia, come se si trattasse della panacea per la soluzione di qualsiasi problema, trascurando invece le numerose possibilità che possono derivare da una corretta endodonzia. E gli specialisti in questo campo non mancano di certo, come il professor Vinio Malagnino, medico chirurgo odontoiatra in Roma, ordinario di endodonzia all’università Gabriele D’Annunzio di Chieti, secondo il quale «un corretto approccio odontoiatrico deve fare tesoro di quello che c’è nella bocca del paziente. Grazie all’endodonzia, oggi è possibile recuperare il dente con tempi più brevi, a costi tendenzialmente inferiori e con risultati meglio prevedibili».

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Quali condizioni determinano l’uso di procedure implantologiche o endodontiche? «L’implantologia costituisce un’eccellente soluzione solo quando il dente non c’è più o il dente o il tessuto di supporto del dente sono irrimediabilmente compromessi. Purtroppo però gran parte del pubblico non 184

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guarda a essa come a un’ultima ratio ma, essendo per certi versi più semplice viene vista come a una soluzione cui fare ricorso senza troppi pensieri. Capita che un dente possa creare disturbi ripetuti quali dolore, gonfiore, ascessi ripetuti con formazione di granulomi o addirittura cisti; in tutti questi casi la ragione può risiedere in un mancato o in un mal eseguito trattamento endodontico. Ovviamente se si è in presenza di una distruzione anche della radice, si procede con l’estrazione del residuo radicolare e l’inserimento di un impianto, in

caso contrario però, grazie all’endodonzia, oggi è possibile recuperare il dente con tempi più brevi, a costi tendenzialmente inferiori e con risultati meglio prevedibili». Salvare e conservare il dente anziché cestinarlo a priori dunque è una scelta consigliabile dal punto di vista medicoscientifico. «In alcuni casi esiste un fattore di ineluttabilità legato allo stato di degenerazione in cui versa il dente, per esempio l’assenza di radice o del tessuto di supporto, casi per


In apertura, il professor Vinio Malagnino, specialista in odontoiatria, con le sue collaboratrici e, qui sopra, durante un’operazione - vmalagnino@byworks.com

cui si deve necessariamente ricorrere all’impianto. Sono però numerosissime le situazioni in cui la struttura del dente è ben presente e il ripetersi di eventi infettivi, se affrontato correttamente, può venire superato in tempi altrettanto rapidi di quelli richiesti da un impianto». Quali strumentazioni utilizza la moderna endodonzia? «Le tecniche sono estremamente aggiornate. Oggi si utilizza il microscopio operatorio e strumenti in nichel-titanio, una lega particolarmente flessibile che iniziò a essere utilizzata in endodonzia circa 15 anni fa – fui uno dei primi a servirmene –e che oggi ha raggiunto autentiche vette di efficacia. Un corretto approccio odontoiatrico deve fare tesoro di quello che c’è nella bocca del paziente». Quali sono i limiti dell’intervento endodontico? «In presenza di un dente non totalmente compromesso una condizione tecnica difficile non deve mai rappresentare un limite che giustifichi l’adozione di misure più drastiche, solo per intraprendere la strada più breve o più comoda. Naturalmente l’esecuzione degli interventi di endodon-

zia, dalla semplice devitalizzazione a procedure più complesse, richiede sempre il massimo scrupolo ma qualunque sia la storia infettiva e degenerativa del dente, se esiste ancora una struttura sufficiente, il dente può essere facilmente salvato». Sotto il profilo pratico ed economico, quali sono i vantaggi? «Dal punto di vista della praticità il discorso può essere complesso perché se in apparenza il ricorso all’impianto è una soluzione rapida e relativamente impegnativa, bisogna però tenere conto che non sempre e non in ogni occasione è possibile ricorrere all’impianto con carico immediato. Sul piano economico poi non c’è assolutamente paragone. Normalmente il costo di un intervento di endodonzia è certamente inferiore (può essere pari, ma non superiore) a quello di un impianto solo nel caso di interventi particolarmente complicati e laboriosi. L’aspetto biologico di una più naturale soluzione dei problemi che coinvolgono in maniera importante la salute del paziente, resta comunque la vera bussola che deve orientare verso la soluzione più equilibrata, qualunque sia la ragione della patologia o del semplice disturbo della salute oro-dentale».

L’IMPLANTOLOGIA COSTITUISCE UN’ECCELLENTE SOLUZIONE SOLO QUANDO IL DENTE O IL TESSUTO DI SUPPORTO DELLO STESSO SONO IRRIMEDIABILMENTE COMPROMESSI

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L’ESPERTO RISPONDE

LUIGI PAVAN, PROFESSORE DI PSICHIATRIA ALL'UNIVERSITÀ DI PADOVA. PER FRANCO ANGELI HA PUBBLICATO “L'IDENTITÀ FRA CONTINUITÀ E CAMBIAMENTO: PSICOPATOLOGIA DELL'ATTACCO DI PANICO”

Non sottovalutiamo l’attacco di panico Da qualche mese soffro di attacchi di panico. Inizialmente non mi sono preoccupata perché credevo fossero passeggeri, ma ora non solo non sono passati, anzi sono sempre più frequenti. Ho paura di guidare, ma anche di prendere l’autobus. Non esco più nemmeno la sera con le amiche perché dentro i locali affollati mi sento soffocare e ho paura di perdere il controllo. Ho solo 26 anni, non sono troppo giovane per soffrire di questi attacchi? Come mi devo comportare? MARIANNA, MILANO

o Marianna, non sei troppo giovane. Gli attacchi di panico si sono sempre presentati tra i 18 e i 35-40 anni e anzi oggi l’età tende ad abbassarsi. E capitano soprattutto a persone che si credono forti caratterialmente, che sembrano molto sicure di sé e in realtà sono molto meno forti di quello che credono di essere. Sono persone che soffrono di dipendenza, di ansie di separazione e sopportano poco o con difficoltà il cambiamento interno ed esterno. Il problema è che non se ne rendono conto, perché non conoscono l’ambivalenza e il dubbio, anzi sembrano sicure di qualsiasi cosa. Se ti riconosci in questo quadro, se davanti al cambiamento vivi un certo disagio che poi si tramuta in paura acuta e di conseguenza senti il cuore che batte forte, una certa secchezza della bocca fino ad arrivare alle vertigini non puoi attendere an-

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cora. Anche perché gli episodi si potranno ripresentare in maniera più frequente, per poi a peggiorare. A quel punto la paura dell’attacco sarà sempre più forte, ti ritroverai a vivere in continuo allarme durante tutto l’arco della tua giornata e di conseguenza questo ti limiterà, come già sta accadendo, nelle tue funzioni quotidiane. Non devi temere di farti aiutare né da un farmaco, né da un trattamento psicologico e non devi temere di diventarne dipendente. Anche perché negli attacchi di panico sono presenti sia cause psicologiche che biologiche, anzi ci può essere una predisposizione genetica al problema che non deve essere sottovalutata. È vero che alcune persone possono guarire spontaneamente, ma la maggioranza mantiene la sintomatologia, anche se compatibile con la quotidianità, mentre altri peggiorano in maniera evidente arrivando persino alla depressione o all’abuso di alcolici. La terapia farmacologica può prevedere dosaggi modesti, ma i farmaci devono essere assunti in maniera continuativa. Spesso alcune persone interrompono la terapia troppo presto, credendo di stare bene, di avere risolto i loro problemi, e poi invece, dopo pochi mesi, hanno una ricaduta. Non sopportano la dipendenza e vogliono fare tutto da soli. Non devi fare questo errore, ma prendere una posizione decisa che porti a un cambiamento, senza paura di affrontarlo.

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APPUNTAMENTI • I prossimi convegni

44° CONVEGNO CARDIOLOGIA 2010 MILANO 27 settembre - 1 ottobre 2010 Centro Congressi Nuovo Polo Fiera di Rho Segreteria organizzativa: Victory Project Congressi Srl T 02 89.05.35.24 F 02 20.13.95 www.degasperis.it info@victoryproject.it Tra i temi di punta della nuova edizione si segnalano l’evoluzione della terapia Cardiovascolare, cosa fare se un trapiantato di cuore arriva in pronto soccorso, la sindrome di Brugada, gli approcci mini-invasivi per la chirurgia vascolare. In chiusura, il simposio “Un altro cuore, trapianto e assistenza meccanica a confronto”, a 25 anni dal primo trapianto di cuore in Italia.

EGA Professional Congress Organisers T 06 32.81.21 F 06 32.22.006 ega@ega.it www.sichirurgia.org Con il titolo “È ancora il medico che comanda il futuro” torna a ottobre uno degli appuntamenti più attesi dal mondo della chirurgia italiana. Il convegno, presieduto da Giovanni Battista Grassi e Aldo Moraldi, affronterà temi centrali quali i trapianti, la problematica dei costi e il trattamento delle gravi patologie oncologiche. Tra le tavole rotonde, una sul governo clinico cui è stato invitato il ministro della Salute Ferruccio Fazio.

6° WORLD CONGRESS ON OVULATION INDUCTION 112° CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI CHIRURGIA ROMA 10 -13 ottobre 2010 Hotel Cavalieri Hilton Segreteria organizzativa: 190

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sulla ricerca e l’applicazione a livello internazionale sulla procedura impiegata nel campo dell’infertilità, mediante metodi di riproduzione assistita. Presidenti del congresso saranno i professori Marco Filicori e Giuseppe De Placido.

NAPOLI 29 settembre - 2 ottobre 2010 Royal Continental Hotel Segreteria organizzativa: GynePro Educational T 051 22.32.60 F 051 22.21.01 educational@gynepro.it www.ovulationinduction2010.org Un appuntamento per fare il punto

9° CONGRESSO NAZIONALE SIMIT ROMA 24 - 27 novembre 2010 Ergife Palace Hotel Segreteria Organizzativa: Effetti T 02 33.43.281 F 02 38.00.67.61 simit2010@effetti.it www.simit2010.it Sarà alta l’attenzione sul nono congresso nazionale della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali. A causa della pandemia influenzale l’opinione pubblica è stata richia-


I prossimi convegni • APPUNTAMENTI

mata sull’importanza di questo comparto scientifico. Anche per questo, tra i temi centrali vi sarà l’emergenza mondiale sulle malattie infettive, l’Hiv, modelli e target per l’eradicabilità delle infezioni virali.

40° ANNUAL ESDR MEETING HELSINKI 8 - 11 settembre 2010 Scandic Marina Congress Center Segreteria organizzativa: ESDR Secretariat T +41 22 321 48 90 F +41 22 321 48 92 office@esdr.org www.esdr2010.org

CAIRO 20 - 23 ottobre 2010 Cairo International Convention & Exhibition Centre Segreteria organizzativa: IASGO2010 Secretariat Conference Organizing Bureau cobshahi@link.net www.cob-eg.org www.iasgo-2010.org L’associazione internazionale di chirurghi, gastroenterologi e oncologi si ritrova nella capitale d’Egitto a discutere sui più recenti traguardi scientifici e sui casi clinici più significativi legati al trattamento chirurgico di alcune delle malattie più gravi e diffuse. In particolare, ci si focalizzerà sull’apparato gastrointestinale.

Si terrà in Finlandia il quarantesimo meeting della società europea per la ricerca dermatologica. Dall’immunologia alla ricerca traslazionale fino alle più recenti scoperte in ambito clinico ed epidemiologico. Particolare attenzione verrà data alla risposta farmacologica sulle patologie più gravi, a partire dal melanoma.

info@csrcongressi.com www.csrcongressi.com Un convegno sul rapido rinnovamento tecnico e scientifico su un’articolazione centrale nello sviluppo di importanti patologie degenerative e traumatiche.

LE NUOVE GIORNATE PERUGINE DI PEDIATRIA PERUGIA 24 – 25 settembre 2010 Centro Congressi Hotel Giò Segreteria organizzativa: Quickline Traduzioni & Congressi Sas T 040 77.37.37 F 040 76.06.590 congressi@quickline.it www.quickline.it Alcuni tra i più apprezzati pediatri generalisti si confronteranno su casi e problemi. Tra gli argomenti al centro dell’evento perugino rivolto alla salute dell’infanzia vi saranno la dermatologia, l’epilessia e le patologie neurodegenerative.

CONGRESSO INTERNAZIONALE “LA RICOSTRUZIONE DELL’ANCA”

20° WORLD CONGRESS OF THE IASGO

GENOVA 21 – 23 ottobre 2010 Palazzo Ducale Segreteria organizzativa: CSR Congressi Srl T 051 76.53.57 F 051 76.51.95 GIUGNO 2010 SANISSIMI

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