a cura di PHILIP RYLANDS
AFRO
Immagine di copertina: Teatro spagnolo, 1966 tecnica mista su tela, 65 × 81 cm Collezione Privata, Firenze
Progetto editoriale Forma Edizioni srl Firenze, Italia redazione@formaedizioni.it www.formaedizioni.it Direzione editoriale Laura Andreini Consulenza editoriale Riccardo Bruscagli Redazione Maria Giulia Caliri Livia D’Aliasi Beatrice Papucci
Crediti fotografici
Progetto di Michele Casamonti
© Fondazione Archivio Afro; pp. 20-21, 96-97, 103, 128, 129, 162, 179, 187, 191, 216, 222, 225, 229, 241, 242-243, 245, 247, 250, 263
A cura di Philip Rylands
Photo Ugo Mulas © Ugo Mulas Heirs. All rights reserved; p. 8 © The Estate of Virginia Dortch / Art Resource NY; pp. 198, 274-275 © 2018. Digital Image Museum Associates / LACMA / Art Resource NY / Scala, Firenze; pp. 6-7, 14-15, 16-17, 220 © 2018. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo; p. 31
Progetto grafico e impaginazione Archea Associati, Firenze Elisa Balducci Augustina Cocco Canuda Isabella Peruzzi Mauro Sampaolesi Alessandra Smiderle
© 2018. Digital image, The Museum of Modern Art, New York / Scala, Firenze; p. 89
Traduzioni Maria Valeria Carena e Flora Bonetti, NTL Firenze
© Sanford Roth / LACMA / mptvimages.com; p. 88
Fotolitografia LAB di Gallotti Giuseppe Fulvio Firenze, Italia Testi © gli autori © Afro Basaldella by SIAE 2018 © The Willem de Kooning Foundation, New York by SIAE 2018
© 2018 Forma Edizioni srl, Firenze, Italia L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore, fatti salvi gli obblighi di legge previsti dall’art.68, commi 3, 4, 5 e 6 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Prima edizione: aprile 2018
© 2018. Albright Knox Art Gallery / Art Resource, NY / Scala, Firenze; p. 66 © 2018. Image copyright The Metropolitan Museum of Art / Art Resource / Scala, Firenze; p. 63 © The Irving Penn Foundation; p. 233 © Arnold Newman / Getty Images; pp. 147, 268 © Life magazine; pp. 124, 146, 154-155, 157 © John Swope Trust / mptvimages.com; pp. 12, 58, 61, 166 Courtesy Fondazione Scialoja; pp. 94, 95, 199 Courtesy American Academy in Rome; p. 185 © 2018 Imogen Cunningham Trust; pp. 72, 271
Testi di Davide Colombo Barbara Drudi Anne Montfort Philip Rylands Coordinamento editoriale Tornabuoni Art Lucile Bacon Elizabeth de Bertier Organizzazione Tornabuoni Art Paris Un ringraziamento speciale a tutti i prestatori delle opere Fondazione Archivio Afro Roberto Casamonti Massimo Di Carlo Voremmo ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del catalogo La Fondazione Archivio Afro, in particolare Mario, Afro e Maria Antonietta Graziani così come Marco Mattioli e tutto lo staff della Fondazione; la American Academy in Rome; l’Archivio Scialoja, Roma; l’Archivio Corrado Cagli, Roma; l’UNESCO, in particolare Tania Fernandez Toledo e Raya Fayad; e lo staff della Tornabuoni Art Paris, London e Firenze, in particolare Francesca Piccolboni, Isabella Lastrucci, Ermanno Rivetti, Salomé Perrineau, Tiffany Nortier e Marta Colombo
© UNESCO; pp. 131, 152-153
Archivio Afro Fondazione
pp. 2-3 Afro al Castello di Prampero con l’opera Castello sullo sfondo, 1963. Foto Italo Zannier pp. 6-7 Afro nel suo studio, Roma 1960. Foto Sanford Roth p. 8 Afro, 1960. Foto Ugo Mulas
pp. 10-11 Afro al Castello di Prampero, 1963. Foto Italo Zannier p. 12 Afro nel suo studio, 1948. Foto John Swope
pp. 16-17 Afro nel suo studio con il gatto Louis, 1958. Sullo sfondo Fonte Amara e lo studio di Solchiaro. Foto Sanford Roth
14-15 Afro nel suo studio. Sullo sfondo Per non dimenticare, 1952. Foto Sanford Roth
pp. 18-19 Afro al Castello di Prampero con l’opera Angelica sullo sfondo, 1964. Foto Giuseppe Loy
pp. 20-21 Afro a New York, 1957 pp. 22-23 Afro, 1964. Sullo sfondo Castello nero, 1964. Foto Italo Zannier
a cura di PHILIP RYLANDS
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Prefazione e ringraziamenti
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PHILIP RYLANDS
Il Giardino della Speranza Un classicismo d’avanguardia ANNE MONTFORT
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Afro, il suo lavoro PHILIP RYLANDS
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1949: “Twentieth-Century Italian Art” al MoMA di New York*
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SELEZIONE A CURA DI BARBARA DRUDI
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Antologia critica SELEZIONE A CURA DI PHILIP RYLANDS
DAVIDE COLOMBO
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Afro attraverso le lettere
Come Afro conquistò l’America
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Biografia
BARBARA DRUDI
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Apparati
* Il saggio qui pubblicato è un parziale ampliamento di un testo precedentemente comparso in F. Tedeschi con. F. Pola e F. Boragina (a cura di), New York New York. La riscoperta dell’America, catalogo della mostra (Milano, Museo del Novecento, Gallerie d’Italia, 13 aprile-17 settembre 2017), Electa, Milano 2017, pp. 102-109. Le ricerche qui confluite, sono state possibili anche grazie al Terra Foudation Post-doc Travel Grant 2014; alcuni dei temi trattati sono stati precedentemente presentati al seminario Rome Revisited. Rethinking Narratives in the Arts, 1948–1964, American Academy in Rome, Roma, 11-12 marzo 2015 e alla giornata di studi Alfred Barr and Margaret Scolari Barr, CIMA, New York, 23 aprile 2015.
PHILIP RYLANDS
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AFRO, IL SUO LAVORO
L’arco della vita di Afro Basaldella coincide con quello che è stato chiamato “il secolo breve”. Nacque nel 1912 a Udine, capoluogo del Friuli. In quell’anno l’Italia, convinta dalla stampa che l’aver colonizzato parte della costa mediterranea della Libia rappresentasse una grande vittoria militare, traboccava di orgoglio nazionale e fu per questo motivo che venne battezzato ‘Afro Libio’. Il 1912 fu l’anno dell’apogeo dell’esperimento dell’avanguardia pittorica a Parigi dove, alla Galleria Bernheim-Jeune, fu lanciato il movimento della pittura futurista italiana. Nel 1917, la tragica ritirata dell’esercito italiano a Caporetto ebbe luogo praticamente sotto casa di Afro, a nord-est di Venezia. Nel 1931 si trasferì a Roma, al tempo in cui Mussolini era al massimo del suo prestigio di statista europeo, ma alla fine del decennio fu obbligato a dire addio all’amico Corrado Cagli che scelse di abbandonare l’Italia per sfuggire alle leggi razziali. Dopo che l’Italia si era schierata con gli Alleati nel settembre del 1943, Afro si unì alla resistenza. Il successo della sua carriera, nei decenni successivi alla guerra, avanzò di pari passo con il miracolo economico italiano. Il 1976, anno in cui Afro si spense, a soli 64 anni, vide la discesa su Marte del Viking I Lander, il primo volo commerciale del Concorde, la riunificazione del Vietnam del Nord e del Sud, la nascita della Apple Computer Company di Steve Jobs e Steve Wozniak e la morte di Mao Zedong. Il padre e lo zio di Afro erano pittori decoratori, né artisti né imbianchini, ma specializzati nella decorazione di mobili e muri: soffitti e pareti con vasi di fiori e composizioni di frutta, trompe l’œil, pastorelli, putti e contadinelle, pergolati di vite, paesaggi primaverili con alberi vaporosi e le Alpi sullo sfondo, pitture che si possono vedere ancora oggi in Italia in alberghi, complessi termali ed edifici pubblici. Si tratta di una forma d’arte ormai praticamente morta.
Afro nel suo studio nel Castello di Prampero, Udine, 1963. Foto Italo Zannier
Grazie anche a una evidente predisposizione genetica, Afro ne apprese comunque la tecnica e se ne servì per la prolifica serie di murali che realizzò negli anni ’30. Dopo la guerra, queste opere smisero di rappresentare per lui una fonte di sostegno finanziario – l’architettura razionalista e la moda dell’astrazione si incaricarono di porre fine a tale situazione – sebbene continuasse a occuparsi con facilità di lavori di grandi dimensioni quali quelli realizzati per la sede centrale dell’INAIL a Roma (1955) o per l’UNESCO a Parigi (1958). Da sempre Afro ebbe l’intenzione di diventare un artista, così come la ebbero i suoi fratelli, gli scultori Dino e Mirko Basaldella. La traiettoria della carriera di Afro, seppure nel campo ristretto della storia dell’arte Italiana, fu straordinariamente ricca di opportunità. Nel decennio del 1930, lo troviamo perfettamente a suo agio sia con il sistema delle mostre a organizzazione statale (la Biennale di Venezia, la Quadriennale di Roma, la “Mostra dei Sindacati Fascisti”) sia con i gruppi a lui affini di artisti, mercanti d’arte, collezionisti e scrittori che gravitavano attorno a gallerie quali La Cometa a Roma, Il Milione e Corrente a Milano, e altre ancora. Nel primo decennio del dopoguerra, in Italia fiorirono una gran quantità di gruppi e correnti, iniziando dal 1946 a Roma con la Nuova Secessione Artistica Italiana, una reazione all’estetica a tinte fasciste del Novecento anteguerra che, rapidamente, si trasformò nel Fronte Nuovo delle Arti a Venezia nel 1947-1948, il quale a sua volta intorno al 1950 si sciolse a causa di discussioni sui valori del realismo e dell’astrazione. Tutto ciò avveniva nel circolo degli amici di Afro – dopotutto egli si trovava a Venezia durante la guerra, molti degli artisti erano suoi amici e nel 1948 uno dei suoi dipinti più innovativi, La Sfinge (1948), fu esposto alla I “Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea” a Bologna,
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(“Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria”2). La sua preparazione fu di tipo accademico. Quando nel 1931 si diplomò al Liceo Artistico di Venezia, Afro possedeva ormai le abilità di disegnatore che gli avrebbero permesso facilmente di entrare nel campo dell’iperrealismo o realismo magico o in quell’immaginario solidamente costruito e spazialmente sofisticato del Novecento italiano, corrente dominante della pittura dell’Italia di quegli anni. Certamente i primi disegni esistenti di Afro, quali Natura morta con due limoni (1928)3, possiedono le caratteristiche del Realismo Magico: le ombre prodotte dagli oggetti, finemente dipinte, solitarie su una tovaglia bianca sgualcita, si irradiano in cerchi simili a emanazioni teosofiche. Una simile attenzione per la forma astratta (le ombre) fu inconsapevolmente anticipatrice del lavoro che avrebbe realizzato un quarto di secolo più tardi. In un saggio autobiografico scritto pochi anni prima della sua morte, nel 1976, Afro scrisse:
a Palazzo Re Enzo. L’evento scatenò la polemica da parte di Palmiro Togliatti che denunciò l’astrazione nell’arte. L’anno precedente, lo stesso Togliatti aveva attaccato il gruppo Forma 1 a Roma (Pietro Consagra, Carla Accardi, Achille Perilli, Piero Dorazio, Giulio Turcato e altri). Nel 1948 nacque a Milano il MAC, il Movimento per l’Arte Concreta. Il Manifiesto Blanco di Lucio Fontana era stato ideato a Buenos Aires già nel 1946 e fu seguito, negli anni successivi, da numerosi manifesti sullo Spazialismo e da inviti all’azione. Nel 1950 il Gruppo Origine di Roma riunì Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri ed Ettore Colla. Il Movimento Nucleare milanese di Enrico Baj e Sergio Dangelo arrivò nel 1951. È interessante il fatto che Afro non entrò a far parte di nessuno di essi. Come vedremo di seguito, egli era pronto ad aderire soltanto al Gruppo degli Otto, gruppo poco “determinato” e con vita breve (1952-54). Tutto questo ci dice che Afro non era affatto un militante politico, come Renato Guttuso o Emilio Vedova o Armando Pizzinato, né un poeta che usava il nuovo vocabolario del segno primordiale come Capogrossi o Accardi, un relatore di astrazione geometrica, un dispensatore di nuovi concetti quali i buchi di Fontana, uno sperimentatore dell’Arte informale o dell’art autre con la sua enfasi su materia e gesto, sui processi sperimentali e sui materiali più disparati. Per tutta la durata della sua carriera, Afro non si allontanò mai dal mestiere della pittura pura. Nel 1955 Dore Ashton scrisse in “Arts Digest”: “la voce [di Afro] è probabilmente una delle più pure e meglio preparate d’Europa”1. Afro era una persona insolitamente cordiale, affabile, elegante (gli amici di Roma lo avevano soprannominato “il Principe”), con un contegno serio che poteva sfociare di colpo in un sorriso radioso, con una grande capacità di coltivare amicizie durature e un’avversione per i conflitti, sebbene in un’occasione lo ritroviamo impegnato a rimproverare gentilmente il critico autodidatta Umbro Apollonio riguardo a un testo sul quale era in disaccordo. Nel 1956, strinse amicizia con due giovani americani, Hannelore e Rudolph Schulhof, che aiutò facendo loro conoscere Roma e i luoghi in cui mangiare intorno a via Margutta, nonché presentandoli ai suoi amici artisti italiani, a Cy Twombly e a Mark Rothko. Gli Schulhof rimasero commossi dalla lieve aria malinconica che percepirono in lui e che attribuirono alla recente perdita dell’amata moglie Maria Romio. Ad Afro non mancavano convinzioni morali e politiche personali. Alla fine della guerra aveva combattuto nella Resistenza italiana. Era ambizioso e orgoglioso e negli anni ’50, periodo del suo grande successo, rimase dispiaciuto di fronte a quella che considerava una mancanza di apprezzamento della sua arte in Italia
All’età di 21 anni Afro aveva appreso la dicotomia del disegno (linea e disegno nonché composizione) e del colore (colori luminosi e pennellate espressive) e sviluppò entrambe queste componenti nei decenni successivi. Nella sua prima esposizione, chiamata ambiziosamente “La Mostra della Scuola Friulana d’Avanguardia” (1928, all’età di soli 16 anni), l’artista adottò una posizione antiaccademica. Il gusto del diciannovesimo secolo faceva ancora sentire il suo peso nelle accademie e nelle manifestazioni artistiche ufficiali (Ettore Tito aveva lasciato l’Accademia di Venezia soltanto nel 1927 e nel 1930 la Biennale di Venezia organizzò un’esposizione commemorativa di Bartolomeo Bezzi, un paesaggista romantico e malinconico del pieno Ottocento). Prima del diploma, nel 1930, ad Afro fu assegnato un viaggio da parte della Fondazione Marangoni di Udine. Insieme a suo fratello Dino si recò quindi a Roma dove conobbe gli artisti della Scuola di via Cavour. Era un gruppo bohémien (l’affascinante, depresso e brillante Mario Mafai; la sua esuberante moglie lituana, Antonietta Raphaël, piena di joie de vivre; Scipione, un brillante ma tubercolotico romantico che morì giovane). Roberto Longhi, che coniò il nome “Scuola di via Cavour” descrisse i dipinti di Mafai affermando che “un impressionismo decrepito si muta in allucinazione espressionista”5. La loro libertà d’espressione pittorica, ostinata e naïf, si oppose all’egemonia dei pittori del Novecento Italiano diventando, pertanto, un’arte
1. D. Ashton, Afro, in “Arts Digest” vol. 29, n. 15, maggio 1955, p. 30. 2. Questo epigramma fu riportato da L. Venturi, Afro, in Pittori italiani d’oggi, De Luca Editori, Roma 1958, pp. 84-96. Cfr. l’antologia critica, in questo volume, pp. 235-236. 3. Illustrazione a colori in L. Caramel, Afro Dipinti 1931-1975, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 24 settembre-8 novembre 1992), Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1992, p. 12.
4. AA. VV., Afro. Catalogo generale ragionato. Dai documenti dell’Archivio, Dataars, Roma 1997, p. 363. 5. R. Longhi, La mostra romana degli artisti sindacati. Clima e opere degli irrealisti-espressionisti, in “L’Italia Letteraria”, anno I, n. 2, Roma, aprile 1929, p. 4.
“...passava gran parte del suo tempo nelle gallerie a guardare i grandi maestri veneziani – a cercare di capire il segreto di quella smagliante bellezza del colore che emana luce e a indagare quelle ombre misteriose e trasparenti...”4.
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Natura morta, 1928 olio su tavola, 43 Ă— 46 cm Collezione Privata
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Mirko Basaldella, Caronte, 1949 tempera su carta intelata, 149 Ă— 86 cm Collezione Privata, Roma
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Incontro segreto, 1950 tecnica mista su tela, 90 Ă— 90 cm Collezione Privata
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Ocra Bruna, 1970 tecnica mista su carta intelata, 80 Ă— 120 cm Collezione Privata
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tutta la storia dell’arte del nostro mondo occidentale. L’arrivo di Afro in America nel 1950, come dicevo, non aveva avuto nulla di casuale o di imprevisto. La sua conquista del Nuovo Mondo era già stata preparata da diverso tempo a Roma, dove Afro era tornato nel 1945 dopo gli anni della guerra passati tra Udine e Venezia. Con lungimiranza, e forse per tirarsi fuori dalle sterili polemiche in cui si dibatteva l’Italia di allora, sia Afro, sia, soprattutto, sua moglie Maria Romio si erano dati molto da fare. In pochi anni avevano creato una rete di connessioni e di amicizie con gli americani – artisti, critici e collezionisti – che transitavano numerosi per la città eterna. Occorre ricordare che, in quei pochi anni tra la fine della guerra e il 1950, si era andata in effetti formando spontaneamente una nutrita comunità di americani a Roma. La città, pur nelle difficoltà del problematico dopoguerra italiano, era diventata per molti di essi, artisti e intellettuali, scrittori e poeti, una mèta assai desiderabile: un luogo dove la vita era per loro tutto sommato semplice, dove i dollari americani erano ovviamente molto ben accetti, ma dove si riusciva all’occorrenza a vivere dignitosamente anche con pochi soldi. Ripensandoci, non è poi così difficile capire il perché di quella attrazione verso Roma. Nelle tante piccole trattorie, in una atmosfera rilassata e informale, si poteva bere del buon vino e mangiare gustose pietanze, con pochi spicci. Vi erano, per giunta, delle ricchezze – che poco o nulla avevano a che fare con il denaro – a disposizione di chiunque: passeggiando per l’Urbe – senza il traffico di oggi – si era circondati dai magnifici palazzi gentilizi e dalle innumerevoli chiese: un’affascinante sovrapposizione di epoche e stili che non poteva non suggestionare il visitatore. Aleggiava poi, nell’aria, tanta fiducia in una possibile rinascita. Roma, nonostante le controversie artistiche, e politiche, e le difficoltà materiali, sembrava infatti pervasa da una specie di frenesia del fare creativo: stava fiorendo un contesto culturale che alcuni studiosi – oggi – amano definire “nuovo rinascimento romano”. Giovani e meno giovani, romani e giunti da ogni altra parte d’Italia, cercavano fortuna nel rinascente mondo dell’arte, contribuendo – ognuno per suo conto – al formarsi di un tessuto culturale variegato, in cui le molteplici spinte provenivano da direzioni diverse: dalla rivisitazione in chiave moderna della tradizione, ai tentativi di un nuovo realismo, fino alle proposte di un’arte attuale più o meno astratta, che si fondava su di una rilettura delle avanguardie storiche. Quella rilettura di cui proprio Afro, con altri come suo fratello Mirko o Piero Dorazio, era già uno dei maggiori rappresentanti. In poche parole, a Roma si poteva avere la sensazione – o a volte solo l’illusione –
di trovarsi nel posto giusto, proprio lì dove si stava per scrivere una nuova pagina di “storia dell’arte”. La vita artistica della capitale si svolgeva principalmente in certe zone della città, ovviamente nella Roma vecchia, quella dei rioni, con una particolare concentrazione nella zona nord a partire da piazza del Popolo. Molti artisti abitavano o avevano il loro studio da quelle parti: Afro, ad esempio, viveva e lavorava a via Margutta 94. Così non era difficile incontrarsi nei bar e nelle trattorie tra via del Babuino, via Margutta e Piazza di Spagna: tanto che quella parte del centro storico divenne una sorta di nuova Montmartre: si facevano mostre – più o meno improvvisate – sulle scale di Trinità dei Monti, si aprivano piccole librerie-gallerie (come L’Age d’or 1) ma soprattutto si parlava – spesso si discuteva – sempre d’arte. Di una Roma così, di quella vita, presero a innamorarsi gli artisti americani. Nel 1949 arrivò Sebastian Echaurren Matta. Figura singolare quella del cileno Matta: a suo tempo, provenendo da Parigi, aveva portato a New York i fermenti artistici europei (in particolare la sua personale declinazione del Surrealismo), esercitando una fortissima influenza su molti artisti americani (si veda il caso di Gorky). Ora arrivava a Roma portando con sé le atmosfere vibranti della nuova situazione americana, che con tutti i suoi pregi e difetti, egli stesso aveva contribuito a determinare. L’anno successivo, nel 1950, Matta aveva esposto alla galleria L’Obelisco le sue opere surrealiste-astratte. Alla mostra, presentata da Emilio Villa, era stato dato il curioso e tipicamente villiano titolo “Fosforesciamo”. Sempre nello stesso anno, però in dicembre, arrivò anche il fotografo e critico d’arte Milton Gendel (di lì a poco corrispondente di “ArtNews”)2. Nick Carone, artista americano avviato allo sperimentalismo e all’astrazione fin dalla metà degli anni ’40, si stabilì a Roma in via Margutta dal 1947 al 1951 e, in una lunga intervista del 1968 3,ricordò il clima artistico di quegli anni nella capitale, annoverando tra i suoi amici anche Afro. Mark Rothko vi soggiornò durante il suo viaggio di nozze in Italia nel 1950. Del 1952 è l’ormai celebre viaggio a Roma di Cy Twombly e Robert Rauschenberg: mentre due anni dopo arrivarono a Roma Clement Greenberg con Helen Frankenthaler 4. Lo scrittore afro-americano William Demby, che visse e lavorò a Roma dal 1947 al 1965, racconta in un’intervista:
1. Piero Dorazio, Achille Perilli, Lucio Manisco e Mino Guerrini aprirono nel 1950, con slancio giovanile non privo di un certo fanatismo, una libreria-galleria, dal nome di ispirazione surrealista: L’Age d’Or. Questa piccola e bizzarra galleria, la cui vetrina veniva allestita in modo provocatorio dagli artisti che la gestivano, divenne sorprendentemente mèta di molti pittori e intellettuali, giovani e meno giovani, romani e da ogni parte del mondo. L’Age d’or rimase aperta solo fino al 1951, anche perché, come racconta Lucio Manisco, molti dei proventi delle vendite venivano spesi in trattoria!
2. Ho approfondito i contributi di Milton Gendel come fotografo e critico d’arte nel mio libro, B. Drudi, Milton Gendel uno scatto lungo un secolo. Gli anni tra New York e Roma 1940-1962, Quodlibet Fondazione Passaré, Macerata 2017. 3. In Oral history interview with Nicholas Carone, 1968 May 11-17, Archives of American Art, Smithsonian Institution, New York. 4. B. Drudi, op. cit., 2017 p. 116. 5. An Interview with William Demby, parzialmente pubblicata in G. Micconi, Ghosts of History in “American Studies”, LVI, n. 1, 2011.
“[...] Roma era diventata il posto più importante in quegli anni. Parigi andava bene, ma nella mia immaginazione era per i fanatici dell’arte e della letteratura mentre Roma per la vita coraggiosa degli artisti puri, come li aveva rappresentati Roberto Rossellini nei suoi film” 5.
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Catalogo della mostra “Afro� alla Catherine Viviano Gallery, 1950
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Studio Ragazzo col tacchino, 1954
Studio Ragazzo col tacchino, 1954
inchiostro su carta, 24 Ă— 26,4 cm Collezione Privata
tecnica mista su carta, 24 Ă— 32,2 cm Collezione Privata
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Studio Ragazzo col tacchino, 1954 inchiostro su carta, 24 Ă— 32,5 cm Collezione Privata
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Canicola, 1960 tecnica mista su tela, 105 Ă— 130 cm Collezione Privata, Firenze
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Valle del Ferro, 1958 tecnica mista su tela, 108 Ă— 175 cm Collezione Privata
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danno vita, che sono la vita stessa: il caldo, il letto, il silenzio, le buone stoffe, i buoni prodotti, tutto che dà rigoglio e serve a tutti ed è di tutti; è il diritto a esistere e consistere fisicamente per tutti. Questa è la città; e la campagna, la natura pare il perfetto rovescio di tutto questo, tanto è immensa e inattingibile; nemmeno violenta o paurosa: non c’è bisogno di spaventare quando si è veramente intimamente spaventosi. Spaventoso è l’informe, la foresta invalicabile, il firmamento. E la natura è talmente sconfinata, qui, che può perfino valersi di colori patetici, e del più crepuscolare e acceso fuoco d’autunno. Le nebbie tenere di un laghetto: ma se volti le spalle si muta in oceano, carico di un vento che potrebbe spazzar via d’un sol colpo, te, la tua casa, la tua città. Della pittura che dirti? Ho visto i Gorky della Reynal e di Janis e di Marta Jackson: mi confermano la sua grande poesia e la sua sottile novità rispetto a Miró. Ho visto i Pollock della collezione Ossorio a East Hampton: è un artista impressionante, tutt’altro che “violento” ma di una forza naturale e di una spontaneità poetica addirittura mozartiane; colori tenerissimi, intonatissimi, tutti interni e segreti e straziati e graffiati per troppo amore; una tenerezza assillante, inappagata, implacabile, un amore di vita che si sfigura per troppa insistenza e strazio. Veramente un artista grandissimo, nessuno ha la sua qualità in America. Ho visto le tempere-collages di De Kooningh (sic) al suo studio; ho capito cosa vuol dire il suo costruire per rottami colorati, per forme interrotte perché spezzate, divenute frammenti, superfici fatte a pezzi proprio fisicamente. L’emozione nasce da un urto che afferma casualmente una fede nella possibilità, nella necessità di ricomporsi, appunto, di ricongiungersi. Il caso che Pollock trovava nella colatura, riscoperto in De K. come caleidoscopio ferocemente controllato e sforzato. Pollock ha fede nei nodi che si prolungano e si intrecciano ancora per forza propria, per fatalità felice come radici, in una presenza gremita e ininterrotta. De Kooningh (sic) spezza i nodi, li taglia spietatamente. Ma opera perché i frammenti comunque si ricongiungano, ristabiliscano una realtà continua anche se ricucita e congestionata e fossile per l’urto diagonale di tante diverse correnti di tanti opposti vettori: fino alla congestione e alla paralisi. Ho visto (a studio) la pittura di Vicente, di Resnick, di Ad Reinardt; ma sono cose abbastanza mediocri. Ho visto a studio e da Janis la pittura di Guston, delicata, sensuale, raffinata, controllatissima. Ma è un problema un po’ troppo capzioso e marginale; un’evasione, la scommessa di una sensibilità poetica piuttosto che una voce che possa interessare oggi. Ho visto le ultime grandi tele di Marca-Relli: veramente notevoli, un grosso punto raggiunto, i primi di novembre inaugura alla Stable, te ne riparlerò. Ho visto le tele di Carone, piene di qualità reali, ma ancora un po’ indistinte. Ho visto la pittura di Brooks, discreta, brillante, ma certamente di scuola. Ho visto parecchie cose di Diebenkorn, che mi confermano un talento vivissimo di colorista, ma in questo clima rivelano una certa giovinezza ancora e non raggiunta maturità. Ho visto la mostra di Dugmore, interessante per la crisi che essa rivela. Anche Dugmore, come Brooks, è pittore di scuola; e adesso cerca di uscire da un certo modulo di espressionismo astratto cercando di costruire un po’ più per tasselli francesi, con un vago ricordo di Bazaine. È questo il pericolo, qui in America: questa impazienza, voler sempre stordire, colpire, essere inattesi; non cercar mai in profondità, non essere umili e non insistere in un proprio dominio anche
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se limitato. Ho l’impressione che il messaggio di Gorsky e di Pollock, il fervore di De Kooningh (sic) possano disperdersi come nulla: primo per la polemica assurdamente nazionalistica e quindi conservativa e limitata di Hess, poi per questa smania di novità che porta agli errori di un ritorno naturalistico grossolano come la pittura di Monachesi (Hartigan, De Niro, Resnick, Rivers e molti altri che non sto a nominarti). Di Pollock viene capito solo il lato esterno, non il significato spaziale profondo (in questo senso Briggs è il migliore specialmente nel suo colore caldo e vissuto). Avevo dimenticato Kline, ho visto i suoi quadri a studio, è proprio un bel pittore, l’unico che realmente continui il discorso, anche se in senso emblematico e riduttivo. Ma ti dirò ancora di Mothervell (sic) e di Rothko che vedrò in questi giorni. Domani ti scriverò della mia mostra e della questione Burri. Ti abbraccio infinitamente, Tuo Toti
Afro e Toti Scialoja, 1958. Foto Virginia Dortch
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Toti Scialoja, New York 1956. Foto Gabriella Drudi
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AFRO, INTERVENTO DELLO STESSO ARTISTA, IN ANDREW C. RITCHIE, THE NEW DECADE: 22 EUROPEAN PAINTERS AND SCULPTORS, CATALOGO DELLA MOSTRA, NEW YORK, THE MUSEUM OF MODERN ART, 11 MAGGIO - 7 AGOSTO 1955, PP. 78-79. Nella mostra “The New Decade” Afro si trova insieme ad artisti francesi, inglesi e tedeschi oltre agli altri italiani. Sono artisti europei dei più vari, pittori ad esempio come Bacon, Soulages, Dubuffet, e scultori come Richier e Chadwick. Oltre ad Afro, gli italiani presenti sono Burri, Capogrossi, Minguzzi e Mirko. Ogni artista era stato invitato a scrivere un testo di presentazione per le proprie opere esposte. Il testo di Afro, qui riprodotto, recava il titolo Indicazioni sulla mia pittura e venne tradotto dall’italiano a cura del dipartimento editoriale del MoMA.1 Ritchie era stato un ammiratore di Afro fin dal 1948, e nel 1956 scrisse una breve introduzione su dieci dipinti dell’artista per il catalogo della Biennale di Venezia. Una forma pittorica può avere anche valore di apparizione? L’organismo rigorosamente formale di una pittura può contenere la leggerezza, il respiro di un’evocazione, l’improvviso soprassalto della memoria? È questo per me il problema; in questo consiste l’irrequietezza continua che mi stimola a dipingere. Il quadro deve essere un modo (sic) chiuso; il “dramma” non può svolgersi che là dentro. Soltanto su questa scacchiera si perde o si vince interamente. Eppure ancora ieri un amico mi diceva che le forme della mia pittura paiono oscillare, muoversi, come se fossero ancora imbevute dal rimpianto o dall’attesa di un’altra atmosfera: quella che traversarono per concretarsi. Non so se questa impressione di animazione, di un vento segreto che investa le mie immagini sia esatta; ma spesso anch’io sento che la sostanza del mio colore, lo sviluppo delle mie linee creano uno spazio che non è altro che lo spessore della memoria. Le forme si aprono e si determinano come impronte, dimensioni provenienti da molto lontano. Penso spesso così d’essere un pittore di storie. Se i miei sentimenti più profondi, i miei ricordi, i miei giudizi sulle cose, le mie insofferenze e persino i miei errori e terrori si condensano nell’andamento di una linea, nella luminosità di un tono, sento che il mistero con cui la mia intera vita sfocia nella pittura può essere inteso nell’inverso e permettere alle immagini della pittura di risalire fino alle origini della mia vita. Bensì non ho paura della parola “sogno”, non ho paura della parola “lirica” o della parola
1. Il testo di Afro nell’originale italiano è stato pubblicato in Afro. Catalogo Generale Ragionato dai documenti dell’archivio Afro, Dipinti su tela dal 1928 al 1976, con l’introduzione di M. Graziani e T. Scialoja, Dataars, Roma 1997, p. 393.
“emozione”; oggi assai poco favorite dalla chiarezza mentale e dalla consapevolezza, per quel che riguarda i mezzi espressivi, della più attuale pittura contemporanea. Io spero che nelle mie pitture circoli un presentimento, una speranza, come di un’alba. Vorrei che la mia pittura recasse una allusione sempre più chiara a un mondo percorso da passioni, e cominciasse a rivelare il profilo sempre più nitido di un territorio aperto – ingenuamente – alle corse, ai dolori e alle feste umane. Penso di contribuire così all’idea di una pittura ove nella certezza della pura forma le sensazioni delle cose, i simboli della realtà, che mi vennero meno, tornino a scaldarsi di un sentimento dimenticato. Credo che la pittura cominci a sciogliersi dalla sua condizione esclusiva e vigilata di musica strumentale e provi oggi a distendersi in quei nuovi andamenti di modulazione e di timbro che preludono al levarsi di una voce umana, al liberarsi di un canto.
AFRO, LE RAGIONI DELL’ARTE GIOVANE, IN “BOLLETTINO DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA PER LA LIBERTÀ DELLA CULTURA”, N. 30, MAGGIO - GIUGNO 1955, PP. 1-2. Afro fu invitato, insieme ad altri quattro pittori (Corpora, Fantuzzi, Montanarini, Scialoja) e due critici (Marchiori e Mezio) a commentare la mostra internazionale di giovani artisti, organizzata dal Congresso per la libertà della cultura, che si tenne a Roma alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Evidente è l’insofferenza di Afro verso i critici d’arte italiani. Acuti e generosi furono i suoi elogi nei riguardi di Diebenkorn e Davie.
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I pittori italiani, quelli che non sono chiusi in schemi accademici e che intendono portare il loro contributo ad una cultura universale, non possono che guardare con grande interesse all’opera dei più giovani e stabilire con loro quel colloquio necessario per sentirsi vivi ed impegnati nel compito di trasmettere il loro messaggio, che è la loro visione del mondo: di uomini che vivono e si esprimono col linguaggio del loro tempo. Perciò questa mostra nel clima graveolente della stagione artistica romana è giunta come un soffio d’aria viva piena di promesse e di speranze.
La mostra dei giovani organizzata dal Congresso per la libertà della cultura è stata un avvenimento di grande interesse per l’ambiente artistico romano. Purtroppo la critica locale all’unanimità ha dato la solita prova di provincialismo, adottando quel tipico tono di superiorità e di sufficienza di quelli che la sanno lunga e ai quali non gli si fa accettare per buona roba che non risponde ai loro ideali di bellezza, alla loro chiara visione della storia, al loro concetto di sana tradizione pittorica. Purtroppo questo atteggiamento porta al risultato di non poter comprendere nessuna tradizione e all’impossibilità di accorgersi dell’esistenza e della rivelazione di un’opera d’arte. E in questa bella mostra c’erano delle opere raggiunte, di pittori che seppure giovani denotano talento, personalità e coscienza dei problemi della pittura del nostro tempo. Vorrei proprio indicare due pittori fra quelli che scandalizzano di più in nostri benpensanti critici di paese: Richard Diebenkorn, americano, e Alan Davie, inglese.
Catherine Viviano, Afro, Gabriella Drudi e Toti Scialoja con un amico
ITA
euro 90,00 ISBN 978-88-99534-59-2
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788899
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