Jan Fabre GLASS AND BONE SCULPTURES 1977-2017 - Edizione in italiano

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Melania Rossi

Fabre mette in campo un’arte che non misura la storia come portato dell’attualità e, dunque, della sociologia, bensì come il corpo a corpo della materia metamorfica la cui memoria si dissolve nella remota notte dei tempi. Giacinto Di Pietrantonio

Fabre cristallizza sia le ossa che il vetro e li rende sacri. Fa lo stesso con l’esistenza umana nella sua presenza temporale mistica nella realtà, guidata dall’immaginazione. Dimitri Ozerkov

Le sculture in vetro e ossa di Jan Fabre, tacita allusione alla brevità della vita sulla Terra e alla nostra mortalità. Katerina Koskina

Indubbiamente alcuni dei lavori qui esposti passeranno alla storia tra i vetri artistici contemporanei più importanti del XXI secolo. Adriano Berengo

ITA

ISBN 978-88-99534-29-5

JAN FABRE GLASS AND BONE SCULPTURES 1977 - 2017

Jan Fabre rappresenta la sua idea di completezza e di spiritualità attraverso una iperfigurazione, una stratificazione di elementi perfettamente riconoscibili che uniti insieme diventano enigma.



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PREFAZIONE / ALBERTO BARCELLA

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LA SENTINELLA DI VETRO / MELANIA ROSSI

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IMMAGINI DEL MONDO REMOTO DELL’ESSERE O NON ESSERE / GIACINTO DI PIETRANTONIO

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LE OSSESSIONI CREATIVE DI JAN FABRE / KATERINA KOSKINA

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THAT GLASS IN THE HEAD / ADRIANO BERENGO

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NOTA BIOGRAFICA 120

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SOLO L’IMMAGINAZIONE SOPRAVVIVE / DIMITRI OZERKOV

OPERE IN MOSTRA





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LA SENTINELLA DI VETRO /

MELANIA ROSSI

Si stava muovendo in un nuovo ordine della creazione, che pochi uomini avevano mai sognato. Di là dai regni del mare e della terra, dell’aria e dello spazio, si stendevano i regni del fuoco, e a lui solo era toccato il privilegio di intravederli. Sarebbe stato troppo aspettarsi che potesse anche capirli. / Arthur C. Clarke, 2001: Odissea nello spazio.

Jan Fabre, Me in a Preserving Jar (I), 1979 fotografia in bianco e nero, 18 × 14 cm. Photo: Luc Thibau. Collezione Museo d'Arte Contemporanea, Anversa (M HKA). © Angelos bvba /

Il fascino alchemico della materia è sempre presente nell’arte di Jan Fabre. Poi arriva la sua combinazione con la forma, generata dall’idea dell’artista con personali ricordi, associazioni, visioni e universali rimandi simbolici. Ma in ogni opera di Fabre rimane sempre qualcosa di profondamente sostanziale, quasi chimico, organico. Gli elementi che concorrono al dispiegamento del suo universo si incontrano come nel mondo naturale, con carica magnetica. Sono attratti nella mente dell’artista, si legano attraverso il suo pensiero e sono plasmati nel disegno, nella scultura o nell’azione performativa. Così ci appare il mondo-Fabre, fisico e spirituale, coerente al limite dell’ossessione, che attinge alla tradizione artistica, alla scienza, alla religione e al mito. Il ritmo con cui di volta in volta questo mondo si crea e si adatta al contesto è veloce, l’artista ha come guide l’intuito e l’intelligenza, e va avanti per visioni. “Let’s jazz”, ripete prima di ogni entrata in scena, in un’improvvisazione che nulla lascia al caso. I corpi e le immagini forgiati da Jan Fabre manifestano significati antichi uniti a nuove intuizioni e ci aprono le porte di un’altra realtà. Una realtà a cui crediamo perché è tangibile e chiarissima. Siamo nel chiostro dell’Abbazia di San Gregorio a Venezia e proprio al centro, dove prima c’era il pozzo attorno a cui ruotava la vita quotidiana dei monaci, si trova un grande scarabeo di vetro (Holy Dung Beetle with Laurel Tree [Il sacro scarabeo stercorario con l’albero d’alloro], 2017), che sul dorso reca un albero di alloro, di vetro anch’esso. In un luogo sconsacrato appare adesso un essere che concentra su di sé i significati più antichi della spiritualità, sia sacri che profani. Da dove viene e dove è diretta questa sentinella? È un fantasma che porta un inesorabile messaggio di morte o un oracolo che annuncia la luce di una nuova vita? Lo scarabeo, animale dall’aspetto quasi preistorico, è metafora ricorrente nel lavoro di Jan Fabre. L’artista lo ha studiato sui libri del famoso entomologo Jean-Henri Fabre; lo ha disegnato o incollato in opere su carta; ne ha riprodotto forma e movimenti durante performance; con migliaia di carapaci cangianti ha realizzato impressionanti installazioni e sculture; lo ha ingrandito e fermato nel bronzo attribuendogli il ruolo di guardiano spirituale, di cavaliere in armatura difensore della bellezza. Coesistono in questo piccolo e coriaceo insetto, apparentemente insignificante, il tempo passato, presente e futuro. La morte e la vita. Culture, credenze ed esperienze

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si sono stratificate in esso al punto da renderlo quasi fuori dal tempo. Terrore, disgusto, curiosità quasi morbosa, ricordi di amuleti osservati al museo egizio, celeberrime metamorfosi letterarie, illustrazioni di libri antichi, giochi infantili che ancora oggi non osiamo raccontare. In ogni caso, la sua immagine appartiene ad un passato collettivo che Fabre proietta verso il futuro traducendola in arte, facendone metafora con il tramite dell’immaginazione. Lo scarabeo è antico simbolo di metamorfosi, in costante cammino verso un destino sconosciuto. Animale sacro nell’antico Egitto con il nome khepri, che significa “trasformarsi spiritualmente”, rappresenta l’eterno ritorno ma senza il nichilismo nietzschiano della ripetizione incessante dell’uguale, perché incarna invece il luminoso corso del sole che produce e continua la vita. Questo insetto è allusione a ciò che resiste alla caducità della vita, perché rimane uguale a se stesso anche dopo la morte. La vita scivola via dalla “corazza” che resta invariata nel tempo. Il nostro involucro fatto di pelle, carne e tessuti molli non ha la stessa resistenza, ma quella carcassa ferma e muta da insetto ci fa pensare a quello che proviamo davanti alla salma di una persona che abbiamo amato. In realtà guardandola non proviamo niente. Si ha la netta percezione che quello sia solo un involucro. Dov’è andata la vita? Dove quella specifica aura? Non può certo essersi dissolta e allora, in cosa si è trasformata?

/ Luxor, Valle delle Regine. Tomba di Nefertari, particolare, affresco prima sala. Photo: Sandro Vannini

Il mito ci viene in aiuto con una chiarezza poetica che la religione rifiuta. Per salvarsi dalla passione di Apollo, Daphne scompare, ma non muore. Si trasforma in un albero di alloro. Mentre rallenta la sua corsa, i piedi delicati si fanno radici robuste, i suoi capelli si tramutano in fronde e le braccia si sollevano verso il cielo diventando rami flessibili. La storia è raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, che conclude così: “rimanet nitor unus in illa”, di quella ninfa “rimase soltanto la bellezza splendente”. L’alloro in natura è pianta sempre verde che non obbedisce al ciclo delle stagioni, resistente e curativa; in arte è simbolo di sublimazione. Fabre pone proprio un ramo di alloro sul carapace dello scarabeo, raddoppiando così il grado di eternità. Nel punto esatto in cui l’entomologo infilza l’insetto per catalogarlo, Fabre fa crescere una nuova vita, la più durevole. L’avanzare incessante dello scarabeo riporta anche al mito di Sisifo, punito dagli dèi a spingere in eterno il macigno per eccesso d’amore per la vita. E se come dice Camus “i miti sono fatti perché l’immaginazione li animi”, in quest’opera di Fabre, Sisifo è un angelo ribelle in forma di scarabeo che accetta la sua punizione, felice di sfoggiare il suo macigno eterno, simbolo dell’amore tragico di ogni essere vivente per la vita che gli sfugge. Come spettatori, l’istante sublime dell’arte ci permette di astrarci dalla natura mortale e di vedere la vita sotto forma di eternità. Ma perché accada ciò, l’artista deve spingersi oltre al posto nostro. Deve cercare di trovare la forma pura dell’eterno. Gli artisti di tutti i tempi hanno cercato un colore o un simbolo che raffigurasse quella purezza spirituale e molto spesso lo hanno fatto allontanandosi dalla figurazione: l’oro dei fondi delle tavole medioevali, l’azzurro metafisico di Piero della Francesca, fino al quadrato nero dello spiritualismo laico di Malevi e a quel blu perfetto di Yves Klein. Jan Fabre rappresenta la sua idea di completezza e di spiritualità attraverso una iperfigurazione, una stratificazione di elementi perfettamente riconoscibili che uniti insieme diventano enigma. Questa modalità rimanda certamente al tardo Medioevo di Bosch, ma la posizione di questo scarabeo-totem al centro del chiostro, il carattere epifanico della sua apparizione e il nostro movimento intorno ad esso per cercarne la chiave di lettura, fanno pensare anche a qualcos’altro. Pensiamo alla scena epica di 2001: Odissea nello spazio in cui appare un enigmatico monolite nero, interpretazione tanatofobica e minimale della piramide di cristallo scintillante de La sentinella di Arthur C. Clarke, racconto a cui è ispirato il film. Come quella di Kubrick, anche la sentinella-scarabeo di Fabre arriva da lontano e porta il germe di un nuovo pensiero. Sono entrambi messaggi di un Prometeo futuristico.

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LE OSSESSIONI CREATIVE DI JAN FABRE /

KATERINA KOSKINA

Jan Fabre, The Future Merciful Heart for Men and Women, 2008, vetro di Murano, inchiostro Bic, ossa umane, (2×) 80 × 100 × 201 cm. Dettaglio. Photo: Attilio Maranzano. Collection Kröller-Müller Museum. © Angelos bvba /

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Jan Fabre ha delle ossessioni. Per quanto palesi, non sono tuttavia lampanti come la passione per lo studio di teorie, metodi, mezzi e pratiche che culmina nella totale identificazione di lavoro e vita nonché nell’approccio interdisciplinare e nell’esperienza del gesto artistico. Tali “ossessioni” non sono solo quelle fondate su profonde convinzioni e solidi rimandi: ce ne sono infatti anche di non altrettanto radicate e persistenti, eppure legate all’ammirazione per monumenti e artisti del passato e al ritorno in certi luoghi. Se la sua Anversa resta sempre base e rifugio, nonché il riferimento essenziale della sua arte, altre città come Atene e Venezia ricorrono fra le nuove mete dell’artista. Atene rappresenta per lui il locus da cui trarre costanti e frequenti rimandi alla filosofia e alla mitologia dell’antica Grecia: il processo di ibridazione (creature mitiche, centauri, sfingi e così via) e di trasmutazione (umani in nuvole, pioggia e piante), la posizione intermedia degli dei, l’esistenza dei semidei. Tutte queste trasformazioni, insieme all’essenza della tragedia greca, lo hanno indotto a promuovere quali temi e fondamenti principali della sua intera opera l’elevazione dell’essere umano tramite la deificazione o la mortificazione del divino tramite l’identificazione con l’umano e il “bilanciamento” di condotte e passioni positive e negative come ira-serena felicità, impulso sessuale-amore, edificazione attraverso il dolore, vita-morte, bellezza del deterioramento. Nel caso di Venezia, la città diventa un vasto spazio espositivo che ospita la mostra di quest’anno dal titolo “Glass and Bone Sculptures 1977-2017”. Oltre alla partecipazione al Padiglione nazionale del Belgio nel 1984 e, in seguito, a diverse mostre collettive, Jan Fabre continua a tornarci fin dal 2005, in occasione della Biennale, con importanti mostre personali o installazioni. All’osservatore sensibile non sfugge come la sede sia parte integrante del lavoro. I siti emblematici da lui scelti – che si tratti di palazzi, ex edifici ecclesiastici (scuole, chiostri, chiese) o strutture industriali (Spazio Thetis) – confermano infatti l’intenzione di ambientare il lavoro in luoghi attivi, un tempo o ancora, che sono stati testimoni del fiorire dell’intelletto umano e della produzione artistica o che sono stati segnati dall’esercizio di varie forme di autorità e dalla limitazione delle passioni umane. Collocandole in tali contesti, Fabre fa sì che le sue opere vengano lette attraverso il rapporto dialettico fra passato e presente, al tempo stesso riattivando il sito e conferendogli nuovo significato. Lo spazio, già latore di espressione culturale e vestigio storico di un’altra era, accoglie così le opere che, più o meno apertamente, propongono la loro lettura di


temi intramontabili dotandoli di nuovo senso proprio grazie allo spazio. Tale pratica spiega l’ossessione – o, se si vuole, la strategia – per installazioni-happening visivi nei musei (come il Museo Reale delle Belle Arti di Anversa, il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio a Bruxelles, il Louvre e l’Hermitage, per citarne alcuni). Questi luoghi straordinari, che si tratti di interni o esterni, permettono a Jan Fabre di attraversare non solo spazio, tempo e storia locale, conversando con loro, ma anche diversi mondi, ere, ceti sociali, teorie e idee politiche a seconda del ruolo formativo, religioso, politico o misto per cui ogni edificio era stato costruito.

L’Abbazia di San Gregorio

/ Jan Fabre, The Future Merciful Heart for Men and Women, 2008, vetro di Murano, inchiostro Bic, ossa umane, (2×) 80 × 100 × 201 cm. Photo: Attilio Maranzano. Collection Kröller-Müller Museum. © Angelos bvba

1. Il Cratilo di Platone (402a) contiene la nota allusione a Eraclito: “Eraclito dice [...] che tutto si muove e nulla resta fermo” e paragona l’universo alla corrente di un fiume affermando che “non ci si può immergere due volte nello stesso fiume”.

2. G. Bachelard, La poetica dello spazio, trad. E. Catalano, Dedalo, Bari 2006, p. 96.

3. Eraclito, Sulla natura, frammento 53.

Per la 57. Biennale di Venezia Fabre ha scelto l’Abbazia di San Gregorio. Benché nel corso dei secoli l’edificio abbia perso la sua natura religiosa per assumerne una più laica, l’architettura e il rapporto strategico con i dintorni permangono con forza e restano impressi nella sua memoria. Laddove i monaci vissero e pregarono fra il decimo e il diciottesimo secolo, tentando di avvicinarsi al sacro e al sublime e di domare la carne, proprio come la mente e la volontà umana hanno domato i mari per fondare la Serenissima, oggi le immagini ambigue conversano fra loro e con lo spazio. Le opere di Fabre, soprattutto in vetro e ossa per questa mostra, sono concettualmente legate all’ex funzione religiosa di un luogo che conserva ancora il ricordo della meditazione e delle preghiere per il perdono dei defunti e l’assoluzione dei peccati dei vivi. Le immagini sollevano domande pur restando “aperte”, in cerca di compimento attraverso la partecipazione dell’osservatore. In tal modo vanno incontro al destinatario, che attiva i suoi meccanismi cognitivi fondati sul misticismo dello spazio. Al tempo stesso, in quanto simboli contraddittori del lusso e della morte, ne suscitano il coinvolgimento emotivo. La sfida ingaggiata con i visitatori per una partecipazione attiva, invece di una mera osservazione, riflette la profonda esigenza dell’artista di coinvolgerli in un’esperienza che, per quanto nata come espressione personale della sua ispirazione intima ed ermetica, assume la natura di esperienza collettiva una volta tradotta in manufatto. Di recente il sito è stato spesso usato per mostre e altri eventi, ubicato com’è in un punto strategico del Canal Grande, principale arteria della città, con accesso alla Laguna e a vedute panoramiche di Piazza San Marco, della chiesa di Santa Maria della Salute e di Punta della Dogana. È un osservatorio privilegiato che, fra l’altro, ospita una sala con grandi vetrate da cui è possibile ammirare indisturbati la zona più straordinaria del centro storico e culturale e il suo paesaggio unico. Una posizione strategica, quindi, che mette in risalto il rapporto della città con l’acqua come fonte di vita e opulenza, ma al tempo stesso causa delle attuali tribolazioni e minaccia alla sua stessa esistenza1. Anche la vista da una finestra dell’Abbazia regala “vedute” precise. Nel suo saggio dal titolo La poetica dello spazio, Gaston Bachelard scrive: “Attraverso la finestra del poeta, la casa intreccia col mondo un rapporto di immensità”2: per quanto panoramico, lo spazio è tuttavia definito dalle aperture delle finestre. L’osservatore vede infatti un riquadro per definizione delineato, demarcato, benché l’orizzonte aperto della Laguna dia l’illusione di poter vedere tutto. L’illusione domina la stessa città, la Venezia contemporanea la cui prima impressione è quella di un luogo densamente popolato che pullula di vita. Tutte quelle persone, però, non sono abitanti ma visitatori di passaggio, spettatori silenziosi o chiassosi di una città-palcoscenico in cui i monumenti del passato – la sua memoria solidificata – preservano nel presente una città che vive nella costante minaccia di soccombere alla laguna. A Venezia la guerra fra uomo e natura è sembrata pendere per secoli in favore dell’uomo, eppure non è finita. È invece ricominciata, a riprova che “Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re”3. Le sculture di ossa e vetro sono dunque allegorie, immagini aperte all’interpretazione di materie d’essenza al di là dell’evidenza. Con l’ausilio

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del vivere che trova nel paradigma degli escrementi la più cruda rappresentazione. Parimenti, ma inversamente, il vetro è così affascinante nella sua levigatezza, nei suoi riflessi, nelle trasparenze dei colori, nella sua perfezione materica, da rendere bello anche il guano di piccione. E allora quale mezzo migliore per manifestare in termini divini un essere vivente che, benché soave, finisce pur sempre a ritrovarsi su un volgare cornicione scaricando a terra il proprio sgradevole prodotto?

1. K. Vanderstukken, Glass: Virtual, Real, Black Dog Publishing, London 2016.

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Fabre utilizza il vetro come mezzo alchemico, un medium, la cui matericità è essa stessa parte del messaggio. Guardando le sue creazioni ho sempre la sensazione che il lavoro non finisca mai con il compimento dell’opera e che l’occhio non sia sufficiente a percepire il lavoro nella sua interezza. D’altra parte con lui la sperimentazione è stata sempre al centro del lavoro, spingendoci ad utilizzare tutte le tecniche di lavorazione conosciute, anche andando oltre il già sperimentato. Il grande scarafaggio (Holy Dung Beetle with Laurel Tree [Il sacro scarabeo stercorario con l’albero d’alloro], 2017), per fare un esempio, è un lavoro incredibilmente complesso, unico nel suo genere, in cui convergono tecniche e metodologie differenti: dal casting, con cui è realizzato il corpo, alla tecnica del lume, mettendo insieme vetro di Murano e borosilicato per realizzare l’albero che lo sovrasta. E questo è stato per le tante esperienze portate avanti insieme, un continuo utilizzare tecniche di fusione, assemblaggio, levigatura, colorazione applicando le nostre conoscenze e tentando strade nuove che poi abbiamo deciso di proseguire. È importante inoltre sottolineare come la maggior parte delle sculture e installazioni realizzate nella mia fornace siano marchiate da quel blu intenso e profondissimo che rappresenta “The Hour Blue”, il passaggio tra la notte e il giorno, firma dell’artista e simbologia del processo di metamorfosi a lui tanto caro. Credo che Fabre abbia trovato la stessa magia e potenza di quel colore nel vetro, un materiale che passa dallo stato liquido-incandescente a quello solido-gelido ma che non è mai davvero immobile poiché elastico1, un’essenza non imprigionabile. Più collaboravo con l’artista, per le successive edizioni di “Glasstress” e per progetti speciali, e più mi avvicinavo alle mille sfaccettature di una mente vulcanica che spaziava senza soluzione di continuità tra diverse discipline artistiche. Quando ho sentito definire sé stesso e i suoi ballerini come “the warriors of beauty” mai definizione ho trovato più calzante guardando i miei maestri quando, insieme con gli artisti, formano una squadra che lotta per la creazione dell’opera. Performance e arte, il vetro per me è proprio questo. Ma il lavoro di Fabre nella sua potenza richiede, a monte, estrema precisione e riflessione. Penso alla croce realizzata con mille piccolissime scaglie di vetro, posizionate a mano una ad una, simili in tutto ai famosi “jewel beetles”. Dai piccioni di Shitting Doves of Peace and Flying Rats (2008) alle 3000 ossa umane di The Future Merciful Heart for Men and Women [Il futuro cuore misericordioso di uomini e donne] (2008), dalle tartarughe e interiora di Greek Gods in a Body-Landscape [Dei greci su paesaggio corporeo] (2011) ai globi con miriadi di spermatozoi dell’installazione Planet I–IX [Pianeta I–IX] (2011) fino agli ultimissimi, già citati, lavori sugli scarabei in formato gigante, mai realizzati prima nel mondo in queste dimensioni, credo con orgoglio che pochissime fornaci avrebbero potuto concretizzare non solo il prodotto ma anche quella magia che Fabre cercava nel vetro. Lavori ambiziosi e spesso vere e proprie sfide tecniche, dove ancora una volta questo materiale si carica di senso intrinseco acquisendo un valore non limitato al dato esteriore. Del resto già il tema delle ossa, fin dal suo nascere nel 1977, col grande bambolotto del The Pacifier [Il ciuccio], presupponeva un punto di vista non limitato alla forma esteriore, ma anche al senso interiore, insistendo sul dato specifico di entrambi gli elementi. La mostra “Glass and Bone Sculptures 1977-2017” parte proprio da questo concetto, sviluppandosi attraverso un itinerario che dimostra come l’artista abbia nel corso degli anni interpretato a più livelli tali principi. Trovo infatti affascinante il parallelismo espresso da Fabre stesso quando ci spiega che, in un certo senso, tanto le ossa quanto il vetro condividono simili principi di funzionalità e protezione, e quanto siano entrambi resistenti e fragili nel contempo. E allora come


non vedere in quelle vitree cataste di ossa umane da cui emergono, rispettivamente, un pene e una vagina, l’estremo tentativo di porci davanti al destino dell’uomo, così fragile pur nella sua forza, così precariamente attaccato alla terra, così prezioso nel suo essere fonte di vita. Un messaggio chiaro ed evidente reso ancor più manifesto proprio nella serie dei Planet I–IX (2011), straordinaria manifestazione di sapienza artigianale per l’incredibile cesellatura dei dettagli, ma anche perfetta sublimazione di quel messaggio vitale che dall’essenzialità corporea dello scheletro passa direttamente all’ovulo fecondato. Nuovamente il senso interno dell’essere si fonde con la preziosità del vetro in un costante rimando di suggestioni dove questi “pianeti”, alludendo allo schiudersi di mondi nuovi, sembrano quasi suggerire che anche la costellazione “Glasstress”, e tutto ciò che vi ruota attorno, faccia parte di un vero e proprio universo in costante espansione. Bisogna del resto ricordare che nella fornace Berengo Studio a Murano sono passati molti nomi noti delle sfere più alte dell’arte contemporanea, come Thomas Schütte, Tony Cragg, Jaume Plensa, Erwin Wurm e molti altri, ma è pur vero che soprattutto con Fabre ho assistito a metamorfosi, commistioni tra sacro e profano, manifestazioni oniriche quasi trascendentali, ed ho sempre sostenuto con un pizzico di follia i progetti più ambiziosi. Sento dunque questa mostra particolarmente vicina perché è una sorta di traguardo per le mia missione nel mondo del vetro e dell’arte contemporanea. Sono orgoglioso che Fabre si sia affidato per tanti anni al mio Studio ma soprattutto che una figura della sua statura abbia deciso di essere rappresentato, durante una manifestazione come la Biennale d’Arte di Venezia, attraverso una personale interamente dedicata alle sue creazioni in vetro. Indubbiamente alcuni dei lavori qui esposti passeranno alla storia tra i vetri artistici contemporanei più importanti del XXI secolo. E questo accade proprio in quella Venezia che con tutto l’impegno, da quasi trent’anni, cerco di portare nuovamente sotto i riflettori internazionali come rinnovato centro di eccellenza del vetro contemporaneo.

The Minds of Helena Troubleyn: Das Glas im Kopf wird vom Glas, 1990. Photo: Carl De Keyzer. © Troubleyn /

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/ Jan Fabre, 2014 © Stephan Vanfleteren

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NOTA BIOGRAFICA /

Da più di 35 anni, Jan Fabre (Anversa, 1958) è uno dei personaggi più innovativi e significativi della scena artistica contemporanea. Impegnato nelle arti visive, autore teatrale e non solo, Fabre propone una riflessione chiara e tangibile sulla vita e la morte, sulle trasformazioni fisiche e sociali, sulla cruda e intelligente rappresentazione di animali ed esseri umani. L’artista dà vita a un mondo personale con regole e leggi proprie, con i propri personaggi, simboli e motivi ricorrenti. Ci svela il suo universo per mezzo di testi e appunti notturni pubblicati in più volumi con il titolo di Giornale Notturno. Artista totale, Fabre ha unito arte performativa e teatro, di quest’ultimo è riuscito a modificare il linguaggio stesso, portando sul palcoscenico azioni reali, svolte in un lasso di tempo reale. Jan Fabre si fa conoscere al grande pubblico a livello mondiale grazie all’opera Tivoli (1990), posta nell’omonimo castello, e attraverso una serie di installazioni permanenti allestite in siti di interesse storico, quali ad esempio Heaven of Delight [Il paradiso del piacere] (2002) presso il Palais Royal di Bruxelles, The Gaze Within (The Hour Blue) [Lo sguardo interno (L’ora blu)] (20112013) sulla scalinata reale del Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles e The man who bears the cross [L’uomo che porta la croce] (2015), una delle opere più recenti, collocata all’interno della Cattedrale di Anversa. L’artista è noto anche per le sue personali, quali “Stigmata. Actions and Performances 1976-2013” (MAXXI, Roma 2013). È stato il primo artista vivente ad ottenere una grande esposizione presso il Louvre di Parigi “L’Ange de la Métamorphose” (2008). La nota serie The Hour Blue (1977-1992) [L’ora blu] è stata esposta presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna (2011). La ricerca sulla “parte del corpo più sexy”, ovvero il cervello, è stata presentata in una serie di personali dell’artista: “Anthropology of a planet” (Palazzo Benzon, Venezia, 2007), “From the Cellar to the Attic, From the Feet to the Brain” (Arsenale Novissimo, Venezia, 2009) e “PIETAS” (Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, Venezia, 2011). Le due serie di mosaici realizzate con gusci di scarabei intitolate Tribute to Hieronymus Bosch in Congo [Tributo a Hieronymus Bosch in Congo] (2011-2013) e Tribute to Belgian Congo [Tributo al Congo Belga] (2010-2013) sono state portate a ’s-Hertogenbosch, nel 2016, in occasione del cinquecentesimo anniversario di Hieronymus Bosch. Nello stesso anno, la mostra “Jan Fabre. Spiritual Guards” ha presentato più di ottanta opere dell’artista tra Forte di Belvedere, Piazza della Signoria e Palazzo Vecchio a Firenze. Jan Fabre ha inoltre allestito una grandiosa mostra per l’Hermitage di San Pietroburgo (“Knight of Despair / Warrior of Beauty”, 2016-2017).

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OPERE IN MOSTRA /

/ Skull with Sugarglider, 2017. Vetro di Murano, scheletro di scoiattolo volante, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,7 cm × 25,9 cm × 28,6 cm [pp. 46, 70]

/ Monk (Paris), 2004. Ossa umane, filo di ferro, 163,3 cm × 79,1 cm × 49,1 cm. Courtesy Galerie Daniel Templon, Parigi – Bruxelles [pp. 54, 57]

/ Skull with Squirrel, 2017. Vetro di Murano, scheletro di scoiattolo, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 23,8 cm × 25,2 cm [p. 64]

/ Skull with Parrot, 2017. Vetro di Murano, scheletro di pappagallo, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 22,3 cm × 33,7 cm [pp. 46, 71]

/ Skull with Chameleon, 2017. Vetro di Murano, scheletro di camaleonte, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 22,3 cm × 28,1 cm [pp. 54, 58]

/ Skull with Bat, 2017. Vetro di Murano, scheletro di pipistrello, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,9 cm × 22,3 cm × 26,6 cm [pp. 46, 73]

/ Skull with Mole, 2017. Vetro di Murano, scheletro di talpa, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 54 cm × 22,3 cm × 26,2 cm [pp. 54, 59]

/ I am a one-man movement, 1981. Vetro, inchiostro Bic, 487,3 cm × 35,5 cm × 4,8 cm. Courtesy Cultural Centre of Belgrade – Collection of the October Salon [pp. 74, 76, 77]

/ Skull with Woodpecker, 2017. Vetro di Murano, scheletro di picchio, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 24,9 cm × 22,3 cm [pp. 47, 65]

/ Skull with Raven, 2017. Vetro di Murano, scheletro di corvo, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,9 cm × 35,8 cm × 29,2 cm [pp. 54, 66]

/ The Future Merciful Phallus and Vagina, 2011. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, dimensioni variabili [pp. 28, 29, 30, 31, 41]

/ Skull with Chinchilla, 2017. Vetro di Murano, scheletro di cincillà, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 52,8 cm × 22,3 cm × 22,3 cm [pp. 50, 75]

/ Skull with Macaw, 2017. Vetro di Murano, scheletro di pappagallo ara, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53 cm × 31,9 cm × 24 cm [pp. 55, 69, 74]

/ Cross for the Garden of Delight, 2013. Vetro di Murano, scheletro di serpente, 71,4 cm × 39,6 cm × 9,2 cm [pp. 32, 33, 41]

/ Skull with Canary, 2017. Vetro di Murano, scheletro di canarino, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,2 cm × 22,3 cm × 22,3 cm [pp. 51, 75]

/ Skull with Parakeet, 2017. Vetro di Murano, scheletro di parrocchetto, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 54 cm × 22,3 cm × 31,1 cm [p. 60]

/ Monk (Brugges 3003), 2002. Ossa umane, filo di ferro, 149 cm × 77,8 cm × 74,2 cm. Collezione privata KUKO, Belgio [pp. 46, 49]

/ Skull with Turaco, 2017. Vetro di Murano scheletro di turaco, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,5 cm × 22,3 cm × 24,8 cm [pp. 52, 74, 84]

/ Skull with Grebe, 2017. Vetro di Murano, Scheletro di svasso, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 24,7 cm × 26,2 cm [p. 61]

/ Skull with Mouse, 2017. Vetro di Murano, scheletro di topo, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 22,3 cm × 22,7 cm [pp. 46, 67]

/ Skull with Rat, 2017. Vetro di Murano, Scheletro di ratto, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 53,6 cm × 22,3 cm × 24,5 cm [pp. 53, 54]

/ Monk (Umbraculum), 2001. Ossa umane, filo di ferro, 169,8 cm × 92,3 cm × 66,3 cm. Ali Raif Dinçkök Collection, Istanbul [p. 63]

/ Holy Dung Beetle with Laurel Tree, 2017. Vetro di Murano, 155 cm × 92 cm × 84 cm [pp. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13] / Shitting Doves of Peace and Flying Rats, 2008. Vetro di Murano, inchiostro Bic, dimensioni variabili (Venezia 63 Doves) [pp. 18, 19, 20, 21] / The Pacifier, 1977. Vetro, ossa umane, inchiostro Bic, legno, 6,8 cm × 6,8 cm × 9,8 cm [pp. 26, 27] / Greek Gods in a Body-Landscape, 2011. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, dimensioni variabili [pp. 26, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41]

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/ Untitled (Glass Ear), 1988. Vetro, inchiostro Bic, 180 cm × 250 cm [pp. 78, 79, 80] / Untitled (Bone Ear), 1988. Vetro, ossa umane, inchiostro Bic, 180 cm × 250 cm [pp. 81, 82, 83] / Listen, 1992. Vetro, inchiostro Bic, ossa umane, gesso, 17,3 cm × 10,1 cm × 13,4 cm [pp. 85, 87] / Planet I–IX, 2011. Vetro di Murano, inchiostro Bic, acciaio inossidabile, 9 objects, each 58 cm × 32 cm [pp. 88, 89, 90, 91, 92, 93] / The Catacombs of the Dead Street Dogs, 2009-2017. Vetro di Murano, scheletro di cani, acciaio inossidabile, dimensioni variabili [pp. 98, 99, 100, 101, 102, 103] / Canoe, 1991. Vetro di Murano, ossa umane e di animale, inchiostro Bic, polimeri, 177,5 cm × 638,3 cm × 220 cm [pp. 104, 105, 106, 107, 108, 109]

/ Double-Edged Axe, 1991. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, legno, 79,2 cm × 22,5 cm × 3 cm [pp. 104, 110, 111] / Pick-Axe (Large), 1991. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, legno, 83,4 cm × 21,6 cm × 8,7 cm [pp. 104, 110, 111] / Pick-Axe (Small), 1991. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, legno, 61 cm × 17,3 cm × 3,1 cm [pp. 104, 110, 111] / Pick, 1991. Vetro di Murano, ossa umane, inchiostro Bic, legno, 54 cm × 25,3 cm × 3,1 cm [pp. 104, 110, 111] / Da un'altra Faccia del Tempo, 1988. Vetro, ossa umane, inchiostro Bic, 587,2 cm × 66,2 cm × 4,8 cm [pp. 105, 108, 109, 116, 117]


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/ Progetto editoriale: Forma Edizioni srl, Firenze, Italia redazione@formaedizioni.it www.formaedizioni.it / Realizzazione editoriale: Archea Associati / Direttore editoriale: Laura Andreini / Supervisione redazionale: Riccardo Bruscagli / Redazione: Valentina Muscedra Maria Giulia Caliri Beatrice Papucci Ilaria Rondina

/ Catalogo a cura di: Edoardo Cimadori / Fotografie: Pat Verbruggen / Traduzioni: Ilaria Ciccioni Stefania De Franco / Fotolitografia: LAB di Gallotti Giuseppe Fulvio, Firenze, Italia / Stampa: Cartografica Toscana srl, Pistoia, Italia

/ Grafica: Elisa Balducci Vitoria Muzi Isabella Peruzzi Mauro Sampaolesi

© Jan Fabre by SIAE 2017 Tutte le opere © Angelos bvba Testi © The authors Fotografie © Pat Verbruggen

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate. © 2017 Forma Edizioni srl, Firenze, Italia Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. Prima edizione: maggio 2017 ISBN: 978-88-99534-29-5


Venezia, Abbazia di San Gregorio 13 Maggio - 26 Novembre 2017

/ Promossa da: GAMeC

/ Progetto grafico: Archea Associati

/ Finanziata da: EMST The State Hermitage Museum ANGELOS

/ Gestione opere e allestimento: WEEXHIBIT Falegnameria Agnoletto

/ Curata da: Giacinto Di Pietrantonio Katerina Koskina Dimitri Ozerkov

ANGELOS Lindsey Daems, Kathy Vercauteren, Margerita Sanders, Lotte Vanhamel

/ Organizzazione e coordinamento: Edoardo Cimadori / Coordinamento Biennale d’Arte di Venezia: Paolo Scibelli / Gestione progetto: Mario Gemin Studio Gemin Castagna Ottolenghi architetti associati / Supervisione allestimento: Mikes Poppe / Ufficio Stampa mostra: CLP Relazioni Pubbliche / Assicurazione: Soyer & Mamet

/ Trasporto e logistica: Art and Exhibition Services CATIL / Catalogo: Forma Edizioni / Si desidera ringraziare: Christine Macel curatrice della 57. Biennale d'Arte di Venezia, 2017 Linda e Guy Pieters Per il loro prezioso contributo alla mostra, si desidera inoltre ringraziare: Laura Andreini, Alessandro Balan, Senne Claes, Evelien Cox, Lindsey Daems, Sabine de Vijlder, Joanna De Vos, Sarah Dhont, Maika Garnica, Blandine Gwizdala, Martha Maieu, Erin Helsen, Mario Leko, Fien Maris, Margerita Sanders, Mariam Schwahn, Sabine Schollaert, Kato Six, Karen Steegmans, Vincent Surmont, Sammi Van den Heuvel, Lotte Vanhamel, Simon Vanheukelom, Kathy Vercauteren, Mathias Verhoeven, Isabeau Vermassen, Nils Wagemans

Un ringraziamento a tutti i prestatori delle opere: Cultural Centre of Belgrade – Collection of the October Salon Collezione privata KUKO, Belgio Galerie Daniel Templon, Parigi – Bruxelles Ali Raif Dinçkök Collection, Istanbul


Si ringraziano Linda e Guy Pieters



Melania Rossi

Fabre mette in campo un’arte che non misura la storia come portato dell’attualità e, dunque, della sociologia, bensì come il corpo a corpo della materia metamorfica la cui memoria si dissolve nella remota notte dei tempi. Giacinto Di Pietrantonio

Fabre cristallizza sia le ossa che il vetro e li rende sacri. Fa lo stesso con l’esistenza umana nella sua presenza temporale mistica nella realtà, guidata dall’immaginazione. Dimitri Ozerkov

Le sculture in vetro e ossa di Jan Fabre, tacita allusione alla brevità della vita sulla Terra e alla nostra mortalità. Katerina Koskina

Indubbiamente alcuni dei lavori qui esposti passeranno alla storia tra i vetri artistici contemporanei più importanti del XXI secolo. Adriano Berengo

ITA

ISBN 978-88-99534-29-5

JAN FABRE GLASS AND BONE SCULPTURES 1977 - 2017

Jan Fabre rappresenta la sua idea di completezza e di spiritualità attraverso una iperfigurazione, una stratificazione di elementi perfettamente riconoscibili che uniti insieme diventano enigma.


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