The Design City - Milano città laboratorio

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Š Marco Curatolo

In alto: Fiera Milano Rho durante il Salone del Mobile

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che genera. Milano infatti vanta un fitto sistema di relazioni basato sulla reperibilità di imprese, università, fiere, industrie, case editrici, musei, associazioni, punti vendita, gallerie, laboratori artigiani e centri ricerca. Si tratta di un organismo vasto e informale, in continua trasformazione, che quando si ferma lo fa per pensarsi poiché quando si presenta al prossimo interpreta l’appuntamento come un’occasione di scambio. Ad ogni Salone del Mobile, ad ogni esposizione della Triennale di Milano, ad ogni appuntamento commerciale e culturale come premi, rassegne e vernici il design italiano si rinnova per non scadere, per mettersi al vaglio della sua stessa comunità. La sua alchimia ha reso il modello difficilmente imitabile e riproducibile altrove poiché il sistema Milano si muove praticando l’autonomia dei singoli (Salone e Fuorisalone, Politecnico di Milano e scuole private, per fare alcuni esempi di complementarietà). La cooperazione, la competizione, la convergenza verso obiettivi comuni, l’apertura e il dialogo con il nuovo che si manifesta nel mondo ne sono le componenti identitarie. Eliel Saarinen scriveva: “Progetta sempre una cosa considerandola nel suo più grande contesto: una sedia in una stanza, una stanza in una casa, una casa nell’ambiente, l’ambiente nel progetto della città”. Questo è il comandamento intrinseco del design milanese. Ci sono stati tempi in cui sembrava che Milano si fosse fermata o che stesse perdendo terreno rispetto ai grandi rinnovamenti nelle capitali di tutto il mondo. Una metropoli dimezzata, con il desiderio di crescere ma senza la spinta di poterlo fare. Oggi la città è diversa, è rinata, è forte e solida, consapevole del suo ruolo di motore nazionale e internazionale, capitale di progetti dove design e moda, comunicazione e architettura, infrastrutture e spazio pubblico accentuano scambi di capitale, di persone e di saperi. I collanti di questo raccordo tra imprese, pubblico e reti internazionali sono stati e rimangono la Fiera di Milano, il Politecnico di Milano e La Triennale di Milano. Il libro è un ritratto corale dedicato a un campione di progettiste e progettisti che animano l’incredibile paesaggio creativo milanese con la quotidianità del loro lavoro o attraverso un’attenta opera d’archivio e divulgazione di curatori e ricercatori. Quattro generazioni di designer sono state raccontate con lo strumento dell’intervista affinché ciascuna conversazione restituisse una vicenda professionale particolare e una visione della città come laboratorio condiviso. I criteri di selezione individuati per offrire un ventaglio rappresentativo delle diverse casistiche e storie del panorama milanese si sono concentrate su alcuni macro elementi. Tra questi un solido rapporto con il tessuto

di imprese che sceglie come vetrina il Salone del Mobile, la consuetudine con il sistema culturale e formativo offerto dalla città, l’essere stato oggetto di ricerca da parte di studiosi, curatori e critici, infine la presenza sulle riviste di settore. Caratteristiche che senz’altro hanno riguardato anche altri autori ma che non sono finiti all’interno della selezione perché la generazione a cui appartenevano era già sufficientemente rappresentata oppure per ragioni editoriali e per scelte curatoriali. Il libro non si pone intenti compilativi ma ha l’obiettivo di presentare un’analisi aggiornata di un campione di profili attraverso lo specifico filtro del rapporto con la città, della conformazione delle funzioni dello studio, delle relazioni con gli attori di un sistema socio-economico unico al mondo. I protagonisti sono maestri, professionisti, giovani designer stranieri e italiani che a Milano hanno domiciliato un progetto di vita che includesse sogni, sacrifici e traguardi. L’intreccio delle storie di questi protagonisti e la trasformazione della città risuonano in ogni intervista seguendo direttrici e polarità ricorrenti. È così che si possono leggere i mutamenti e le diverse considerazioni sul rapporto tra centro città, periferia urbana e itinerari verso le aziende, così come scorgere le tante tipologie adottate dai designer bilanciando fatturati e percorsi di crescita. Fondamentale unità di misura di questa analisi è stata l’osservazione dello studio, luogo fisico dell’esercizio professionale. È così che lo studio casa-e-bottega col passare del tempo ha incluso la dimensione del salotto di rappresentanza fino a moltiplicarsi nelle aree dedicate alla sperimentazione dei materiali, alle riunioni, alla biblioteca, all’archivio, alla modellistica, all’amministrazione. Dal perpetuo nascere e volgere dell’open-space, al modello compatto con singole sezioni divise per competenze fino all’ufficio diffuso e mobile, lo studio di un designer è un luogo in divenire, aperto al multidisciplinare, spesso albergo di un team di persone e comunque sempre depositario di un codice linguistico e di un metodo progettuale. Lo studio e il suo rapporto con la città sono per il designer contenitore e contenuto di un percorso, elementi definitori di una pratica, caratteristiche che continuano a riguardare il tessuto delle imprese, i rapporti con le università e gli enti di ricerca, le programmazioni di musei e gallerie, la divulgazione di riviste e siti. Il libro è diviso in cinque sezioni che tentanto di organizzare con una scansione cronologica la variegata comunità dei designer milanesi includendo in questa macro categoria coloro che dal secondo dopoguerra alla contemporaneità hanno aperto uno studio a Milano oppure scelto la città come crocevia imprescindibile per la loro carriera. Il

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Guglielmo Ulrich

In alto: lo studio di casa Ulrich

SEDIA PER LA SALA DA PRANZO DI CASA TOTAH A MILANO (1947) OROLOGIO DA TAVOLO (1997) Riedizione: Matteo Grassi LAMPADARIO IN OTTONE PER CASA ULRICH A MILANO (1937)

Dopo la laurea in Architettura, conseguita a Milano nel 1928, Guglielmo Ulrich si dedica al disegno di arredi e complementi, prodotti artigianalmente dalla società ARCA Arredamento Casa, l’azienda da lui fondata nel 1930 insieme a Altilio Scaglia e Renato Wild. Accanto a Gio Ponti nel dibattito culturale dell’epoca, sostiene il rinnovamento del gusto contemporaneo e della casa moderna, con un’apertura all’esotismo ma restando soprattutto nel solco della tradizione, così come illustra l’attualissima poltrona a pozzetto ribattezzata Willy (1937, Poltrona Frau). A partire dagli anni cinquanta, l’interesse professionale di Ulrich si allarga a opere di scala maggiore: l’architetto si impegna infatti nel disegno di abitazioni, allestimenti di

negozi e uffici – tra cui quelli della Galtrucco, per la quale studia l’immagine coordinata – e nell’arredo di grandi navi da crociera, come la famosa Andrea Doria. Ulrich progredisce cautamente dalla lavorazione artigianale verso la produzione industriale rispecchiando un atteggiamento tipicamente milanese di “prudenza verso il nuovo insieme con la sete di novità”. Dalla città il progettista impara, inoltre, la capacità di mettere in equilibro bellezza, influenze storiche, funzionalità e praticità. La sedia in legno lamellare Triste (1961, Saffa) caratterizzata da giunti a coda di rondine aperti rappresenta la perfetta unione tra tecnica e raffinatezza che qualifica l’intera opera di Ulrich.

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In alto e a destra: lo studio Albini, ora sede dell’omonima Fondazione

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Lo studio Ignazio Gardella ha iniziato la sua attività di architetto già prima di aver conseguito la laurea in ingegneria civile, subentrando nello studio del padre Arnaldo, venuto a mancare prematuramente. Decide presto però di aprire uno studio in proprio, lavorando per amici e conoscenti di famiglia. Pur avendo collaborato con colleghi in varie occasioni nel corso della sua carriera professionale, non ha mai pensato di legarsi ad altri professionisti, se non per alcuni concorsi. Sapeva che l’incaricato del progetto deve ascoltare e vagliare i suggerimenti e le proposte delle persone con cui lavora ma era convinto che la decisione finale dovesse competere a un solo responsabile. Il metodo Gardella aveva l’abitudine di esaminare giornalmente insieme ai suoi collaboratori i disegni dei vari progetti. Modificava le parti che considerava non corrispondenti alla sua visione finale e introduceva delle correzioni nei punti che non gli sembravano ancora giunti a compimento. Adottava lo stesso procedimento con gli studenti o con i giovani architetti che facevano apprendistato nel suo studio; faceva vedere qual era il suo modo di progettare e permetteva agli altri di partecipare e di assistere alla nascita e allo sviluppo dell’opera. Citava spesso il filosofo Giambattista Vico, il quale soleva dire: “Si impara facendo e si conosce solo quello che si è capaci di fare”. Con ciò dimostrava il suo scetticismo sulle spiegazioni eccessivamente teoriche e astratte e, al contrario, la sua fiducia nell’attività pratica e nell’esperienza diretta. Milano nella formazione e nella professione Nonostante le origini della famiglia Gardella fossero genovesi, la città di Milano è stata la sede professionale di Ignazio Gardella. I legami culturali con Genova sono rimasti comunque forti per tutta la sua vita e carriera; a Genova, infatti, ha progettato il Teatro Carlo Felice e la nuova sede dell’Università di Architettura. Mentre prima della Seconda Guerra Mondiale per i giovani architetti neolaureati negli anni trenta a Milano le possibilità di farsi conoscere pubblicamente erano offerte dalle esposizioni ufficiali, in particolare dalle Esposizioni Triennali Internazionali delle Arti Decorative e Industriali Moderne e dell’Architettura Moderna – organizzate dall’Ente Pubblico Triennale di Milano al Palazzo dell’Arte – nel dopoguerra la committenza era rappresentata principalmente da clienti privati attraverso amicizie di famiglia o universitarie. A Milano Gardella progetta il Padiglione d’Arte Contemporanea, il Padiglione della Agricoltura e alcuni supermercati Esselunga nelle periferie e in altre città nel Nord Italia, e riceve anche il prestigioso incarico pubblico per la sistemazione di Piazza del Duomo. Inoltre, nel 1947, insieme a Luigi Caccia Dominioni e Corrado Corradi Dell’Acqua, fonda Azucena, una delle prime aziende italiane a produrre mobili in serie, con l’obiettivo di distribuire arredi e lampade disegnate dagli stessi fondatori.

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I cenacoli culturali, i rapporti con l’industria La sua partecipazione, per molti anni dopo la guerra, sia al Consiglio direttivo sia al Comitato Scientifico della Triennale di Milano è stata un’esperienza arricchente per lui e utile per la vita culturale della città. Tra i rapporti con l’industria va ricordato l’incarico avuto da Alfa Romeo per la realizzazione del Palazzo per Uffici Tecnici Alfa Romeo (1968-74), ad Arese, nella periferia di Milano; così come va segnalato il progetto della Mensa e del Circolo ricreativo Olivetti a Ivrea (1953-59). Il prestigioso riconoscimento di questi lavori si deve anche alla committenza di industriali capaci e illuminati. Il rapporto con la committenza Sia nello sviluppo di edifici sia in quello di allestimenti fissi o provvisori, Gardella era molto attento alle esigenze espresse dal committente e rispettoso delle sue richieste, pur facendo sempre presente e spiegando apertamente i motivi delle sue scelte architettoniche. Considerava i desideri e le preferenze espressi da chi si rivolgeva a lui non come ostacoli alla progettazione, ma come stimoli per migliorare l’esito finale del progetto. Per questo hanno parlato di “umanesimo di Gardella”, intendendo per “umanesimo” sia la propensione ad ascoltare le esigenze del committente sia l’impegno a interpretare coscienziosamente i desideri dell’“uomo” che gli stava di fronte. L’importanza dell’esempio: la docenza universitaria L’insegnamento universitario è forse la sua attività meno conosciuta. Come all’interno del suo ufficio, così anche nell’esercizio della sua funzione di docente credeva poco nelle lezioni teoriche comunicate dalla cattedra, nelle disquisizioni culturali tenute con i colleghi, nelle esposizioni critiche fatte di fronte a un pubblico di ascoltatori. Aveva invece una grande fiducia nell’esempio: mentre correggeva gli elaborati grafici dei suoi allievi li aiutava e li istruiva. Pur senza rivelargli la soluzione giusta, li stimolava a trovare un risultato sempre più approfondito sia negli aspetti costruttivi che estetici. L’eredità Gardella L’attività dello Studio Gardella prosegue nella tradizione di progettazione architettonica anche oggi e un Archivio Storico è a disposizione di studiosi e professionisti con l’obiettivo tramandare il metodo e di divulgare l’opera di uno dei protagonisti dell’architettura italiana del Novecento. — Jacopo Gardella

A destra: Casa ai Giardini d’Ercole in via Marchiondi, Milano, sede storica dello studio e abitazione di Ignazio Gardella, 1949-1954


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Cini Boeri

GHOST (1987) poltrona Produzione: Fiam CIBI (1973) bicchiere Produzione: Arnolfo di Cambio BOTOLO (1973) sedia Produzione: Arflex

Gli aggettivi che contraddistinguono il lavoro di Cini Boeri sono “utile e nuovo”. Ogni progetto da lei affrontato cerca infatti di promuovere un’innovazione, un cambiamento positivo nella contemporaneità, donando agli ambienti di vita qualcosa di più – più confort, più sicurezza, più benessere –, tranne il superfluo. La funzionalità e il soddisfacimento del bisogno del cliente prevalgono sulla ricerca estetica fine a se stessa. Di Milano Cini Boeri ha conosciuto il momento difficile della guerra, quello fervente della ricostruzione e della grande creatività dei Maestri, la crisi degli anni settanta e la ripresa che ha dato alla città un rigenerato impulso verso l’innovazione. In questo clima altalenante, Cini Boeri ha sempre

cercato di individuare i mutamenti sociali e di raccoglierne gli stimoli progettuali per orientare il proprio lavoro, sfruttando la positiva vicinanza degli artigiani e delle industrie. Alcuni tra gli oggetti da lei ideati sono diventati delle icone del design italiano. L’attività professionale di Boeri affianca al disegno industriale la progettazione architettonica e degli interni. Si concentra in particolare sul tema dell’abitazione privata ideando diversi edifici notevoli, spesso siti in contesti naturali di particolare pregio, come nel caso delle ville costruite a La Maddalena, in Sardegna. Indipendentemente dalla scala, le opere disegnate da Cini Boeri si contraddistinguono per un gusto raffinato, una studiata praticità e una sottile ironia.

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Alberto e Francesco Meda

FLAP TOTEM (2013) lampada Produzione: Caimi Brevetti PIGRECO (2014) design di Francesco Meda sgabello Produzione: Luce di Carrara AM CHAIR (2016) design di Alberto Meda sedia Produzione: Vitra

Lo studio di Alberto e Francesco Meda, padre e figlio, è una tradizionale bottega artigiana milanese: piccola, con due soli elementi all’opera, ma con una forza creativa eccezionale, capace di portare il proprio lavoro all’attenzione del mercato mondiale. Alberto Meda avvia l’attività di famiglia come libero professionista solo nel 1979, a Milano, la città che gli riserva tanti incontri fortuiti e inaspettati. Francesco Meda, invece, nel 2009, dopo un’esperienza professionale a Londra, decide di stabilirsi nel capoluogo lombardo, reso dinamico e creativo proprio dal mondo del design e della moda e dall’intrecciarsi di capacità industriali e artigianali. I due elaborano insieme una serie di progetti – tra cui il pannello acustico Flap prodotto da Caimi Brevetti valso il

German Design Award 2015 e il Compasso d’Oro edizione 2016 –, ma entrambi svolgono contemporaneamente un’attività creativa indipendente. Da padre in figlio passa il sapere tecnico del fare e la conoscenza dei sistemi di produzione e di vendita, oltre alla sensibilità per il bello, ricercato nelle forme chiare, nelle linee pulite e nella valorizzazione dei materiali. Il salto tra le due generazioni di designer è segnata dalla digitalizzazione del processo progettuale che ha modificato le relazioni con le aziende e ha messo a disposizione dei professionisti nuovi strumenti, come ad esempio le stampanti 3D con le quali Francesco Meda ha autoprodotto la serie di gioielli Lofting 3D.

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The studio Today, I still live in a wonderful house that Marco Zanuso designed for me, my wife, our children and our dog [...] We had a beautiful piece of land on Lake Como. I showed it to him and he designed a marvellous house for me on that piece of land. […] An L-shaped house open to the lake, so that a square terrace is formed between two wings; this made for a wonderful view to the end of the lake, the northeast, and southeast, while completely shielding us from the neighbouring houses, plus providing a splendid view from the centre of the terrace above the roof, towards the pristine mountains to the west, but no view of the nearest houses and villages. The whole thing was a work of magic. […] When I met Marco Zanuso for the first time, the most exciting period of my life had just ended. I had grown up in the style office of a car factory, Mercedes-Benz, where perfection was a religion. It had been wonderful to work in a firm where everything, really everything, had to be first class. […] But after a couple of years I realized I was not meant to be an employee in a large corporation. I wanted adventure. So I went to Milan, to Gio Ponti’s studio. It was like starting a new life. Everything was different here. The studio was full of enthusiastic young people from every continent working together in an atmosphere of cultural inspiration created by the volcanic Gio Ponti and a small number of extremely interesting and deeply human people who worked with him, as well as those from the surrounding environment. First of all, Alberto

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Rosselli, who I deeply admired: always very elegant, always a gentleman, always enigmatic with his big dark eyes. Or Gianfranco Frattini, with his red Giulietta Spider (I wondered: is it possible to earn that much as an architect?) and his ties with the biggest knots I’ve ever seen. And Marcello Nizzoli, always very kind to me; his typewriters seemed beautiful, almost miraculous. It was an electrifying period for me: I’ve never made so many friends in such a short time. Every day was a new adventure, much better than I could ever have imagined: life seemed like a dream. Everyone was very kind: even Ponti offered to let us live for free in an apartment he no longer used, and often invited us to his holiday home in Civate; a trip we made in his Fiat 1100. Unfortunately, after about a year, there were fewer and fewer interesting projects in the studio, at least for me. Since I didn’t want to design office furniture, I started looking for another job. One evening, I met Marco Zanuso. This is how our long collaboration began: fifteen years in which we met, talked, discussed, designed and travelled together almost every day. Marco had important jobs but the studio was small with few people. It didn’t have the cosmopolitan atmosphere of the Ponti studio. Everything was much more private, much more Italian, but here too, colleagues were extremely kind and friendly. — Taken from the notes of Richard Sapper for a piece on Marco Zanuso.


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The studio I have had many studios over the years. First in New York, then in Tel Aviv, where I’m from, and now in Milan as well. I’m always on the move between Italy and Israel. From a structural point of view – and also because of their layout – the two spaces look very different: in Tel Aviv I have a home-studio that resembles an artist’s workshop. There the ideas come to life starting as sketches on a sheet of paper and then materialize into prototypes, sculptures and products. I also invite collectors or clients to visit. It’s a dusty space and even if I try to tidy it up, it still seems chaotic... In Tel Aviv I can have the privilege of dreaming and creating, while Milan is the place where the design becomes a product: since I work a great deal with Italian industry, it’s important that I stay in contact with firms, their research and development departments and engineers. So the one in Milan is a space, a working office mainly dedicated to resolving all the technical problems related to production. That’s why it’s almost empty. I only have the things I need: sheets of paper, a pen, windows to let in the light. The city Milan is the place where I work. But it’s so much more. Milan – and Italy – are dear to my heart. Not only for its recognized beauty but for its people. I have a special relationship with them, both professionally and emotionally. Here I have a social life, friends, bonds of affection. My being here not only means a physical presence, purely “technical” and functional, but a bond that has a very deep emotional value for me. Worksites There are no particular places that inspire my creative thinking. Life in general, the way I exist, the things I see every day are the input that I collect and inevitably pass through the sieve of my personality, my DNA. The essence of this perfectly filtered information is my creations. So, more than physical places in Milan, some situations reverberate in my conscience, like the Piano City festival, which offers to both those best prepared, and classical music fans like me, an incredible energy and incentive to live. Furthermore, the aesthetics of Milan are very different from those of Tel Aviv; here the architecture tells the story and gives me useful learning cues. For me, living in Milan is an opportunity to continuously gain knowledge. A changing Milan I believe that in recent years the people have changed more than the city; I find them more superficial, rigid, even overbearing. But this is not exclusive to Milan: this situation regards humanity in general, which seems to have lost its sensitivity. People seem too busy thinking about themselves to look around them and this attitude can sometimes also affect the world of design. I think that in this environment the mentality needs to evolve in order to better understand today’s world, to see how production is taking new directions, to have more creative

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relationships with designers. We need to find a bit of the courage that characterized the 1960s, 1970s or 1980s; boldly oppose the risk of a flattened generic idea of a lifestyle.

Work rhythms and events I try to work during the year without focusing on the deadline imposed by the Salone del Mobile. If I think that a product is not ready, I prefer to ask the company to postpone the presentation rather than putting a prototype on the market. The first Saloni were very exciting for me but now I experience them differently; I realize I feel fatigue with this event that has become very impressive over time, attracting a wide audience and broadening the fields of interest so much that each time I feel as though I might not be strong enough to face it! However, it’s still a valuable opportunity because it gives this country the energy to exist and survive and brings new stimuli to the city. The values of ​​ industry: a privileged stage My attitude has changed a lot since I arrived in Italy. The enthusiasm of my early career has given way to serenity, which helps me be more aware and calm enough to communicate with people on different levels. The values ​​ of the Brianza district still hold – the engineering and production capacity, the ability to always maintain a high level of quality – but at times it seems like it’s chasing the idea of ​​producing something new at breakneck speed and closer to fashion – while I believe that design needs very different times. However, I’m proud to be here and feel extremely honoured to have the opportunity to work in this sector both in the most positive and difficult moments. I was given a wonderful stage on which to dance and I’m lucky to be one of the world’s dancers. And when I feel I’m not able to perform, I step aside, to recover. Because for me it’s not important to “dance” at all costs.


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Nendo

50 MANGA CHAIRS (2016) chair For: Friedman Benda TWIG (2015) chair Production: Alias H-HORSE (2016) rocking horse Production: Kartell

Oki Sato was born in Canada, and studied Architecture in Tokyo, but it was in Milan that he decided to dedicate himself to design: his visit to the Salone del Mobile in 2002 made him clearly understand the possibility of working on different scales, in a context of great design freedom, and of conceiving practical, playful and surprising objects. Therefore, in the same year he founded, in Tokyo, the design studio Nendo, meaning “clay,” inspired by children’s modelling clay with which forms can be made and colours combined: in fact Sato’s designs are flexible and endowed with a playfulness that makes his pieces appear spontaneous and easily approachable,

as in the case of the series of small stationery objects produced by Kokuyo (Gloo, 2018) or the Heel chair by Moroso (2013). Besides industrial design, Oki Sato has also worked with installation and architectural projects, such as the Cofufun Plaza in Tenri, characterized by discshaped structures inspired by ancient Japanese tombs. In each project, Sato is able to draw on an intelligent ironic vein mediated by the Milanese context, and to place it in dialogue with simplicity and a sense of friendliness and “storytelling” that he considers the essence of Japanese culture. To quote Oki: “When I think about designing something, I think about storytelling. I look at the story behind the object. Which is quite Japanese.”

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Narrazioni e relazioni. Storie di progetto tra Milano e il mondo Anna Mainoli

Questo libro nasce dalla volontà di tracciare una ideale promenade, un grand tour milanese che sveli e palesi uno dei tanti patrimoni cittadini – patrimonio produttivo, creativo, sociale e di relazioni, dunque anche sostanza culturale della città. E proprio di grand tour si tratta, non tanto nel senso didattico e formativo dell’esperienza quanto in termini di conoscenza diretta. Vale a dire che comprendere il design milanese, come fenomeno storicizzato e insieme vitale, motore propulsivo di una grande forza di rinnovamento, significa anche passare per i luoghi fisici in cui il design viene pensato e realizzato. Se Milano si è trasformata e si sta trasformando e, ha acquisto l’allure di in una piccola metropoli internazionale, imparando in un certo senso a mettersi in mostra, sciogliendo il tradizionale riserbo della borghesia cittadina per offrirsi allo show-off della moda, dei tanti eventi e della vita notturna, è pur vero che il carattere di introversione della città e dei suoi stessi edifici, quel pudore e quel rifuggere dall’ostentazione esteriore per riservare all’interno, a una conoscenza più approfondita, la sorpresa di una ricchezza fisica, formale e culturale, fa ancora parte del dna cittadino. Ed è un carattere spesso condiviso anche dal mondo del design, nelle persone e nei luoghi, negli studi che a volte è quasi difficile trovare. Bisogna attraversare più di un cortile e cercare un ex magazzino o un vecchio laboratorio artigiano, scendere qualche gradino per trovarsi in un seminterrato, suonare citofoni e attraversare ingressi e corti dei palazzi altoborghesi del centro, entrare in punta di piedi – come per far visita in un salotto buono – nei begli appartamenti della Milano moderna trasformati in basi operative. Sono luoghi spesso silenziosi, o meglio quieti, in cui si è impegnati a pensare. E sono spazi che quasi mai ricercano una ostentazione estetica, l’effetto show-room di rappresentanza, perché sono luoghi del fare e come tali ti accolgono. La discrezione con cui gli studi dei progettisti si insinuano nel tessuto della città è raramente un porsi snobistico ma piuttosto la conseguenza di una concentrazione sul fare più che sul mostrare, di una dedizione al progetto prima di tutto, su cui si riflette forse l’eredità dei maestri del design milanese, di un’etica della professione, di una disciplina sempre allineata a un senso concreto del lavoro – ancora una volta – tutto milanese. In questo senso si può affermare che gli studi dei progettisti partecipano del carattere democratico che il mondo

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del design esprime a Milano, dimostrandosi in ciò portatori di un patrimonio genetico sensibilmente differente dal mondo della moda. Gli studi dei designer e degli architetti sono luoghi in cui si lavora molto, si ricerca e si sperimenta, e per questo refrattari all’idea di essere attrazione per la curiosità dei tanti design addicted che transitano per Milano. Sono però aperti al confronto egualitario con la città e alla discussione tra professionisti, giornalisti e curatori, e in molti casi rappresentano cellule portatrici di quel senso di partecipazione democratica e diffusa che invade la città durante il Salone del Mobile e sembra manifestarsi all’improvviso, come una esplosione autogenerata, ma che altro non è che il riemergere in superfice di una tenace corrente sotterranea che percorre la città ogni giorno, connettendola nelle sue parti fisiche e nelle sue energie, e sviluppando senza sosta relazioni con il resto del mondo. Una mappatura del design a Milano, condotta attraverso i luoghi in cui progettisti operano, restituisce l’immagine di una fitta trama di cui la città è intessuta, in modo capillare, tanto che la ricognizione presentata in questa sede non può che essere, pur nella sua corposità, un campione parziale, immagine istantanea di una realtà magmatica e in divenire, perché viva e vitale. Rintracciare la presenza fisica degli studi dei progettisti equivale a comporre il quadro di quel laboratorio diffuso di progettazione, di creazione e di ricerca e artigianalità che è Milano. E ulteriore conseguenza di questo processo cognitivo basato sulla geografia della città è una più salda consapevolezza dello scambio osmotico che lega questo grande laboratorio con altri sistemi altrettanto diffusi nel territorio, che sono quelli delle eccellenze industriali e artigianali, veri e propri pilastri su cui poggia l’intero sistema del design e la cui imprescindibilità emerge con chiarezza dalle parole dei designer raccolte in questo volume. Il territorio industriale che circonda la città, quella che potremmo definire una “cintura del design”, da un lato e la presenza di un artigianato altamente specializzato dall’altro costituiscono due delle ragioni fondamentali per cui Milano continua a essere il luogo ideale per lavorare e progettare. Un sistema costituito perlopiù da realtà di medie dimensioni e proprio per questo duttile e “adattogeno”, reattivo agli stimoli che designer e direttori artistici pongono, radicato nel locale ma in costante contatto con il mondo. Questo organismo composto da elementi autonomi, che non esclude la competizione ma la mette a sistema, vive


anche della propria forza attrattiva, come base formativa per generazioni di professionisti che da qui sono partiti, per apprendere il mestiere nutrendosi della cultura del progettare alla milanese e proseguire altrove, portandosi questo bagaglio, un percorso personale. Ed è la stessa forza di attrazione che porta qui, per collaborare con le aziende, tanti progettisti stranieri, innescando dialoghi e incontri tra matrici culturali a volte profondamente differenti. Salone del Mobile come irripetibile momento commerciale, La Triennale come punto di riferimento culturale e di dibattito, insieme a un tessuto produttivo imprescindibile per l’altissimo contenuto professionale, fanno sì che le rotte della comunità di designer italiani attivi fuori dalla città o all’estero si incrocino a Milano. Il portato di questa forma di pendolarismo è un arricchimento del design italiano che si ibrida nel ricevere questi stimoli esterni. È una dinamica che vede diversi flussi convergenti su Milano: professionisti formatisi all’estero che da Milano e dalla Brianza transitano regolarmente perché qui trovano le capacità, il “saper fare” in grado di tradurre in realtà concreta le loro idee; i giovani che a Milano studiano e muovono i primi passi per poi proseguire verso altri lidi in cui stabilirsi professionalmente – pur mantenendo in Milano un riferimento fondamentale. Flussi più o meno regolari, che seguono strade proprie, unite da un denominatore comune, sintetizzato da uno di questi “migranti”, Paolo Cappello, che da Milano ha fatto ritorno a Verona, quando nota che “si può essere

designer fuori da Milano, ma non si può essere designer senza Milano” – dunque senza il Salone, senza il contatto con le aziende e il sistema produttivo, senza il confronto culturale e umano che essa offre. Un assunto che vale anche per coloro che non si sono formati a Milano e che operano fuori dalla città, perché a Milano tutti si ritrovano in un modo o nell’altro. Vale per un grande ambasciatore del design italiano come Gaetano Pesce, veneziano di adozione, esponente nel mondo di quel design italiano di matrice radical – tra design, architettura e esperienza artistica – che tanto ha dato anche a Milano: in città soprattutto con quell’innesto fiorentino che ha portato il disegno industriale e di prodotto a dialogare con la ricerca e con l’avanguardia. Un cosmopolita riconosciuto nel mondo che da New York fa la spola con l’Italia, presente con numerosissimi lavori in tante edizioni della Design Week, legato da collaborazioni decennali con aziende storiche del “distretto” milanese, con cui ha realizzato progetti entrati a far parte delle icone del design, e limpido nella sua convinzione che “l’Italia resta il Paese del design per diverse ragioni. Il design non è fatto solo dai designer, ma è fatto dagli industriali, dai rappresentanti che portano in giro i prodotti, da chi li compra ecc. Molti giovani designer vengono in Italia perché nei loro Paesi non trovano il modo di realizzare le loro creazioni perché i loro industriali sono gretti. Per me, il ruolo futuro del design sarà quello di valorizzare l’identità dei luoghi, e mi piacerebbe che parlasse non solo dell’autore, ma anche del luogo dove il prodotto viene concepito, della cultura da cui viene, dell’industria che lo

A destra: Riccardo Dalisi nel suo studio di Napoli

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ITA

ISBN 978-88-99534-64-6

€ 98,00


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