Forum di Quaderni Costituzionali 10/2014

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Forum di Quaderni Costituzionali Rassegna 10/2014 (05.11.2014) Sommario TEMI D’ATTUALITA’ – PARLAMENTO Quando il Parlamento non fa le cose per “Bene”: breve vademecum istituzionale sulla convalida dei requisiti dei membri laici del CSM – C. Caruso Il voto segreto sulle riforme costituzionali al Senato: una questione “antica” – F. Biondi TEMI D’ATTUALITA’ – FONTI DEL DIRITTO La fiducia sulla legge delega “in bianco” del Jobs Act: il diritto del lavoro emigra verso logiche tecnocratiche? – A. Guazzarotti I PAPER DEL FORUM Audizione in tema di “Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione” presso la Prima commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati – A. D’Andrea La legge elettorale, tra costituzione rigida e costituzione materiale – R. Dickmann Audizione presso la I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati sul progetto d revisione costituzionale del Governo Renzi (AC 2613 e provvedimenti collegati) – C. Fusaro La prima volta del Presidente della Commissione “eletto” dal Parlamento europeo. Riflessioni sui limiti del mimetismo istituzionale – B. Guastaferro Avvisaglie di un nuovo “maccartismo”: il caso Mehanna e l’evoluzione (o involuzione?) della dottrina sulla libertà di espressione negli Stati Uniti – M. Monti Il TFUE e le nuove fonti del diritto dell’Unione Europea. Atti delegati e atti di esecuzione e confronto – C. Rivadossi GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014 I controlli della Corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion? (sent. 39/2014) – L. Buffoni – A. Cardone Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia: i controlimiti in azione (sent. 238/2014) P. Faraguna GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2013 La leale collaborazione ancora di fronte alla Corte (sent. 39/2013)- V. Picalarga GIURISPRUDENZA – CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA Rinvio pregiudiziale e questione di legittimità costituzionale (nota a Corte di giustizia UE, C-112/13) – P. Faraguna TELESCOPIO U.S.A.: Prosegue lo smantellamento del Voting Rights Act? Il recente caso dell’Ohio – A. Martinuzzi U.S.A.: Default, speculazione finanziaria e sovranità. L’Argentina davanti alle Corti federali – D. Messineo AUTORECENSIONI Bruno Di Giacomo Russo, La coAmministrazione della cultura. Un modello di sussidiarietà (2014)


Quando il Parlamento non fa le cose per “Bene”: breve vademecum istituzionale sulla convalida dei requisiti dei membri laici del CSM* di Corrado Caruso** (22 ottobre 2014)

Il caso dell’ineleggibilità del componente del CSM Teresa Bene presenta spunti interessanti per un duplice ordine di ragioni: per un verso, perché non era mai successo, nella storia repubblicana, che il CSM non convalidasse i titoli di un membro laico; per un altro, perché, pur sullo sfondo, rimane la quaestio relativa al regime giuridico (e alla conseguente impugnabilità) delle delibere consiliari che non riguardano magistrati (per un primo commento sulla vicenda: A. Poggi Bene o male ci vogliono i titoli per essere eletti al CSM, su www.confronticostituzionali.eu). L’episodio rappresenta solo parzialmente un quid novi nel panorama istituzionale. Già nella passata consiliatura, sulla scorta dell’art. 20 l. n. 195/1958, che attribuisce al Consiglio superiore il potere di verificare i requisiti di eleggibilità dei componenti designati dal Parlamento, la Commissione consiliare per la verifica dei requisiti di eleggibilità dei componenti eletti dal Parlamento aveva contribuito all’esegesi dell’art. 104.4, a norma del quale i componenti laici sono scelti tra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. In quell’occasione il dubbio riguardava il consigliere Albertoni, professore ordinario di storia delle dottrine politiche e avvocato non iscritto, al momento dell’elezione, al relativo albo. Escluso che il Prof. Albertoni potesse essere legittimato in virtù della posizione accademica, perché docente in materie extra-giuridiche, il CSM volgeva l’attenzione sull’esercizio della professione forense, requisito che, se soddisfatto, avrebbe pienamente legittimato l’aspirante consigliere. Nel convalidare l’elezione di Albertoni, il Consiglio dettava importanti lineeguida, che assumono un particolare rilievo oggi, a circa tre anni di distanza: l’organo di autogoverno della magistratura stabiliva che una lettura costituzionalmente orientata della disposizione costituzionale non impone l’«attualità» dell’iscrizione all’albo al momento dell’elezione (requisito che avrebbe messo fuori gioco il consigliere in pectore, iscritto all’albo degli avvocati dal 1964 al 1994). L’art. 104.4 Cost., piuttosto, richiede l’esercizio «effettivo» della professione legale, maturata anche in passato, purché tale da soddisfare i requisiti che i Costituenti, al momento della formulazione dell’articolo, ritenevano necessari ai fini del corretto svolgimento dei compiti consiliari: per un verso, l’alta preparazione in materie giuridiche; per un altro l’esperienza concreta, maturata nel campo della professione, su «questioni che hanno costante attinenza con la pratica e la vita della società» (così Calamandrei, nella seduta della II sottocommissione dell’8 gennaio del 1947). In fondo, lo stesso art. 104 Cost., che richiede l’avvenuto esercizio della professione con contestuale incompatibilità dell’attività di consigliere con l’iscrizione all’albo professionale, è frutto di un compromesso dovuto all’esigenza di contemperare la necessaria conoscenza dei problemi della giustizia con la garanzia di indipendenza dei consiglieri, indipendenza che avrebbe potuto essere alterata da un’eccessiva vicinanza degli avvocati agli interessi professionali indirettamente coinvolti. Nel caso Albertoni, l’effettivo esercizio poteva desumersi da una serie di criteri presuntivi attestanti la pratica della professione legale per tutto il periodo richiesto dalla norma costituzionale; tra tali presunzioni un particolare rilievo veniva dato all’iscrizione all’Albo dei Cassazionisti che, come noto, richiede l’avvenuta registrazione all’albo ordinario per almeno dodici anni. *

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Dato il precedente, la delibera che ha accertato l’insussistenza dei requisiti del consigliere in pectore Bene assume contorni più nitidi. Professoressa associata di procedura penale, il requisito legittimante l’aspirante consigliere non poteva che essere individuato nel concreto esercizio della professione legale. Iscritta all’Ordine dal 1994, la Prof.ssa Bene ha ricoperto la qualifica di docente a tempo pieno dal 2002. A far data da tale anno, l’attività professionale che la legge consente a questa particolare categoria di soggetti, iscritti all’elenco speciale dei docenti universitari a tempo pieno, è oggettivamente limitata e di per sé insufficiente per la maturazione dell’esperienza professionale richiesta (ai sensi dell’art. 11.5 d.P.R. n. 382/1980, infatti, l’attività di docenza a tempo pieno è incompatibile con «lo svolgimento di qualsiasi attività professionale e di consulenza esterna, con la assunzione di qualsiasi incarico retribuito e con l'esercizio del commercio e dell'industria». La disposizione fa salve «le perizie giudiziarie e la partecipazione ad organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato, degli enti pubblici territoriali e degli enti di ricerca, nonché le attività, comunque svolte, per conto di amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale purché prestate in quanto esperti nel proprio campo disciplinare e compatibilmente con l'assolvimento dei propri compiti istituzionali»). La proposta della Commissione titoli, poi approvata dal Plenum, sottolinea come l’attività professionale dell’aspirante consigliere, non suffragata da prove di un suo concreto esercizio e risoltasi in una mera attività di consulenza extragiudiziaria, non abbia “quei requisiti di continuità e sistematicità che connotano necessariamente l’effettivo esercizio della professione di avvocato”. Nonostante l’eco politico della vicenda, la questione circa l’an della convalida non sembra, nel merito, porre particolari quesiti interpretativi. Rimane latente, come accennato all’inizio, il quesito intorno alla concreta estensione della “verifica dei requisiti” che, in assenza di una esplicita dizione della Costituzione, la l. n. 195/1958 affida allo stesso Consiglio Superiore della Magistratura; una questione non irrilevante, dalla cui soluzione dipende il regime di impugnabilità dell’atto di accertamento. Il dubbio attiene, soprattutto, al tono costituzionale dell’ attività di verifica e di convalida dell’elezione. E’ incontestabile che con riguardo alle singole attribuzioni espressamente previste in Costituzione (tra cui spicca, in particolare, il conferimento degli incarichi direttivi e l’assunzione di provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, ex art. 105 Cost.), il Consiglio sia da annoverarsi tra i poteri dello Stato (cfr. sentt. nn. 379/1992, 435/1995, 380/2003). Una qualifica, tuttavia, a geometria variabile, dipendente dal rapporto di strumentalità tra la funzione concretamente esercitata e le attribuzioni costituzionalmente previste. Non è un caso che la Corte costituzionale abbia escluso sia l’automatica riconduzione del CSM agli organi propriamente “costituzionali”, sia una sua degradazione a mera tête de chapitre dell’amministrazione statale. La prima lettura potrebbe essere suggerita dall’impropria identificazione del CSM nell’organo di vertice della magistratura, idoneo in quanto tale a rappresentare il potere giudiziario nella sua interezza, quasi che quest’ultimo avesse una struttura gerarchica (e unitaria) rappresentabile “organicamente”. Come ebbe ad affermare la Corte costituzionale nella sent. n. 142/1973, non «può affermarsi (…) che il Consiglio superiore rappresenti, in senso tecnico, l'ordine giudiziario, di guisa che, attraverso di esso, se ne realizzi immediatamente il cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliersi piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica): con la conseguenza che (…) esso verrebbe ad agire in luogo, per conto ed in nome dell'ordine giudiziario medesimo». La seconda ricostruzione pecca invece di un eccessivo riduzionismo, perché non tiene in considerazione la rilevanza costituzionale delle attribuzioni (ad es., art. 105 Cost.), né il complesso intreccio costituzionale sotteso alla composizione dell’organo, presieduto dal Capo dello Stato e risultato dell’azione congiunta di magistratura e Parlamento. Il Consiglio Superiore è,


piuttosto, un organo di “rilevanza costituzionale” (C. cost. sentt. n. 148/1983, 419/1995, 480/1995), titolare di funzioni e prerogative proprie (e in quanto tali distinte dal potere giudiziario tout court), finalizzate al miglior esercizio delle attribuzioni che la Costituzione gli assegna: istituito «per rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia [rectius: l’indipendenza] della magistratura», il Consiglio è «fornito di una serie di guarentigie corrispondenti al rango spettantegli, nella misura necessaria a preservarlo da influenze che, incidendo direttamente sulla propria autonomia potrebbero indirettamente ripercuotersi sull'[indipendenza] (…) affidata alla sua tutela» (C. cost., sent. n. 44/1968). Frutto del compromesso delineato in Costituente dall’emendamento Scalfaro (approvato in Assemblea Costituente il 25 novembre del 1947, via mediana tra quanti esigevano un’estrazione esclusivamente togata e chi, invece, proponeva una composizione paritaria tra laici e togati), è certo che la composizione mista del Consiglio mira a evitare la nascita di una “casta” dei magistrati, di un «corpo separato» dall’ordinamento repubblicano (C. cost., sent. n. 142/1973); d’altro canto, i requisiti richiesti dalla Costituzione, con riguardo ai componenti laici, puntano ad assicurare una professionalità tale da precludere scelte non imparziali nell’attività consiliare: solo componenti “costituzionalmente” titolati possono essere utili alla causa dell’autogoverno. Se i requisiti di professionalità sono strettamente connessi al compito di garanzia svolto dal CSM, la verifica di tali requisiti non è che una particolare prerogativa a tutela delle attribuzioni consiliari. Tali considerazioni spingono a considerare non applicabili alla verifica dei titoli i principi generali del giusto procedimento amministrativo, sub specie delle situazioni soggettive codificate nella l. n. 241/1990 (diritto di partecipazione procedimentale dei soggetti interessati e, in particolare, diritto al contraddittorio nella fase istruttoria) come pure avanzato dalla Bene nel suo intervento davanti al Plenum. Sia chiaro: dall’astratta titolarità della “verifica dei requisiti” non deriva automaticamente un corretto esercizio della stessa, che dipende, non da ultimo, dal rispetto del principio di leale collaborazione con gli altri organi costituzionali (come del resto sottolineato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 379/1992 sull’attività concertativa che deve intercorrere tra la relativa commissione consiliare e il Ministro della giustizia nel conferimento degli incarichi direttivi). Una leale cooperazione che, nel caso di specie, avrebbe dovuto forse portare ad un maggiore coinvolgimento del Parlamento prima della deliberazione del Plenum, ad esempio nella fase istruttoria svolta dalla Commissione titoli. In ogni caso, l’indagine sui modi concreti di esercizio di un’attribuzione costituzionale non può essere affidata al giudice amministrativo, sollecitato dal ricorso dell’interessata; dietro alla mancata convalida della Prof.ssa Bene non vi è un mero interesse pubblico da salvaguardare, né una legittima aspettativa dell’interessata ad essere immessa nelle funzioni. Vi è, piuttosto, un interesse costituzionalmente rilevante a una composizione altamente qualificata dell’organo di autogoverno; un interesse di cui è sicuramente titolare il CSM, e che deve essere soddisfatto nelle forme più idonee a conservare il delicato equilibrio istituzionale sotteso alla scelta dei Costituenti per la composizione mista. Spetterebbe al Parlamento, eventualmente, contestare il mancato rispetto del principio di leale collaborazione e l’improprio esercizio delle prerogative consiliari davanti al “giudice dei poteri” che risiede a Palazzo della Consulta. Non sembra, tuttavia, che il Parlamento abbia ravvisato un cattivo uso del potere consiliare e una conseguente menomazione delle proprie attribuzioni: il rifiuto opposto dal Presidente della Camera alla richiesta della Bene di sospendere le votazioni in attesa del parere (richiesto dalla candidata) degli uffici legislativi delle Camere, la nuova convocazione del Parlamento in seduta comune portano a derubricare l’accaduto a mero


incidente di percorso, dovuto a una eccessiva «frettolosità» e a una certa «disattenzione» nel processo di selezione della componente parlamentare (secondo le parole espresse dal Presidente Napolitano nel giorno dell’insediamento del CSM).

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Assegnista di ricerca in diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano (corrado.caruso@unimi.it; corrado.caruso@unibo.it)


Il voto segreto sulle riforme costituzionali al Senato: una questione “antica” * Francesca Biondi ** (13 ottobre 2014) Leggendo i resoconti delle sedute del Senato in cui si sono svolte le votazioni degli emendamenti agli articoli del disegno di legge di revisione della parte II della Costituzione (A.S. 1429) si può restare stupiti dal numero delle richieste di voto segreto (il Presidente Grasso, nella seduta del 23 luglio, ne ha preannunciate 920) e dal tempo dedicato alla discussione su tali richieste. Dopo la questione interpretativa sulla necessità di ricorrere al voto segreto o palese sulla proposta di decadenza del sen. Berlusconi (per la cui analisi si rinvia, in questa Rivista, al saggio di A. Gigliotti), la scelta sulla modalità dello scrutinio torna, in questa legislatura, ad essere questione cruciale, mentre, negli anni scorsi, non si ricordano, soprattutto al Senato, toni di tale intensità (cfr. S. Curreri e C. Fusaro, in Il Filangeri 2007, spec. 260 ss.). La ragione è evidente. Rispetto all’impianto della riforma costituzionale proposto dal Governo sono state espresse molte obiezioni, soprattutto sulla scelta di escludere l’elezione diretta dei senatori e di ridurre le competenze del Senato, e la speranza dei richiedenti era che anche esponenti dei partiti che avevano contribuito alla stesura del testo decidessero, protetti dalla segretezza del voto, di correggere le scelte fatte in commissione (ponendo ciò, ancora una volta, in evidenza la correlazione, assai stretta, tra scelta sulla modalità del voto e funzionamento della forma di governo parlamentare). La partita si è giocata sul filo dell’interpretazione dell’art. 113 del regolamento del Senato. La norma prevede che, se ne viene fatta richiesta da parte di venti senatori, sono effettuate a scrutinio segreto le deliberazioni “relative” alle norme sulle minoranze linguistiche di cui all’articolo 6 della Costituzione e quelle che “attengono” ai rapporti civili ed etico-sociali di cui agli articoli 13 e ss. della Costituzione. La decisione spetta al Presidente, sentita, ove lo creda, la Giunta per il Regolamento. In questa occasione, la Giunta è stata appositamente convocata il 23 luglio 2014: dopo un intenso dibattito, si è convenuto di rimettere ogni determinazione alla Presidenza. Il Presidente Grasso, in apertura della seduta pomeridiana dell’Assemblea del 23 luglio, ha così preso posizione rispetto a questioni interpretative nuove e delicate, annunciando di aver deciso di ammettere “sempre” lo scrutinio segreto “laddove si faccia riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche”, pur con l’avvertenza che, dato l’elevato numero delle richieste, avrebbe applicato la regola del “canguro” (su questa decisione, innovativa quanto all’esame di disegni di legge di revisione costituzionale, non è però qui possibile soffermarsi). Diversamente, ha comunicato che avrebbe ammesso allo scrutinio segreto gli emendamenti che richiamano, a vario titolo, gli artt. 13 ss. Cost. solo se riferiti alle “funzioni” delle Camere (artt. 1 e 18 del ddl) e non al “procedimento legislativo” (art. 10 del ddl), operando una distinzione, come si vedrà, niente affatto chiara. Come accennato, l’enunciazione di questi criteri non ha evitato discussioni. Rispetto alle numerose proposte emendative contenenti riferimenti alle minoranze linguistiche, ma volti in realtà ad introdurre prescrizioni assai diverse, alcuni senatori hanno chiesto alla Presidenza di applicare il criterio della “prevalenza” della materia, in modo da escludere il voto segreto qualora il riferimento alle minoranze linguistiche fosse residuale rispetto all’oggetto dell’emendamento. Il Presidente del Senato, interpretando letteralmente il comma 7 dell’art. 113 r.s., ha, però, ritenuto che tale criterio possa applicarsi solo alle votazioni “finali” dei disegni di legge, non anche alle votazioni degli *

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emendamenti (sulla questione v. già Giunta per il regolamento del Senato, seduta del 27 settembre 2007). Per evitare che il riferimento alle minoranze linguistiche potesse essere usato in modo “strumentale” egli ha, invece, consentito di chiedere che l’emendamento fosse votato “per parti separate”, così alimentando, però, ogni volta, discussioni, e votazioni, sulla possibilità di dividere l’enunciato normativo (si veda, in particolare, la seduta del 31 luglio 2014, ove al Presidente, in relazione all’emendamento Candiani 1.0.22, è stato obiettato di aver modificato il proprio orientamento). Il ricorso a tale tecnica ha però evitato l’approvazione di molti emendamenti, poiché, quando è stata ammessa la votazione per parti separate, o l’emendamento è stato ritirato, o non è stato approvato. Sono stati, invece, approvati, con voto segreto, due emendamenti “attinenti” alle minoranze linguistiche, che introducono disposizioni decisamente problematiche sul piano interpretativo. Anzitutto, con l’approvazione dell’emendamento 30.123, è stata aggiunta in capo alle Regioni la potestà legislativa in materia di “rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche”: si tratta, com’è evidente, di una previsione priva di logica, poiché assegna alle Regioni una competenza in ordine all’approvazione della legge elettorale nazionale. Inoltre, nella seduta del 7 agosto, grazie all’approvazione dell’emendamento 10.71, è stato esteso l’elenco delle materie demandate alla funzione legislativa esercitata “collettivamente” dalle due Camere, ricomprendendovi anche le “leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche”. Molte critiche sono state poi rivolte alla scelta del Presidente di ammettere il voto segreto anche quando l’emendamento che “attiene” ai diritti fondamentali non era volto a comprimere il contenuto di tali diritti (secondo l’interpretazione, più rigorosa, seguita alla Camera, il cui regolamento utilizza, però, il verbo “incidere”), ma riguarda le “funzioni” delle due Camere, ossia il riparto di competenze tra Camera e Senato. Presumibilmente si è ritenuto che l’approvazione di una legge “attinente” ad un diritto da parte di una Camera o di entrambe non sia indifferente rispetto alla tutela del diritto stesso. Dal dibattito emerge che il Presidente ha fondato la propria decisione su un precedente in materia di passaggio di alcune materie dallo Stato alle Regioni. Quel precedente non era, però, conferente rispetto alla votazione in parola, poiché assegnare la disciplina di un diritto alle Regioni può comportare una differenziazione di contenuto e di tutela, mentre coinvolgere una o entrambe le Camere significa portare nella decisione interessi diversi. La scelta che ha provocato le più vivaci proteste (v. resoconto della seduta del 31 luglio cit.) è quella con cui il Presidente del Senato ha consentito che fosse messo in votazione un emendamento (il n. 1.1979) all’art. 1 del ddl, che modifica l’art. 55 Cost., ma che, in realtà, riguardava la ripartizione della competenze tra le due Assemblee, e che, pertanto, avrebbe dovuto essere presentato in relazione all’art. 10 del ddl, che modifica l’art. 70 Cost. Grazie a questo escamotage il Senato, nonostante il parere contrario del Governo, si è espresso favorevolmente, con scrutinio segreto, sull’estensione delle competenze del Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali alle “materie di cui agli articoli 29 e 32, secondo comma”. Ciò consentirebbe al Senato di esprimersi su questioni assai controverse - come le unioni civili, il matrimonio omosessuale e il testamento biologico – che rientrano a pieno titolo nell’indirizzo politico di maggioranza. Conforme ai precedenti pare invece la decisione di ammettere il voto segreto sugli emendamenti all’art. 18 del ddl relativo all’art. 79 Cost., sul presupposto che la legge di amnistia e indulto incide su istituti che toccano diritti (analogamente si può, infatti, ricordare il voto segreto ammesso alla Camera, il 22 giugno 1990, in occasione della revisione dell’art. 79 Cost.). La proposta, volta a sopprimere la disposizione allo scopo di mantenere la competenza ad approvare le leggi di amnistia e indulto in capo ad entrambi i rami del Parlamento, è stata respinta, ma solo con due voti di scarto. 2


Quali conclusioni trarre dalle vicende parlamentari narrate? E’ ragionevole che sulle riforme istituzionali si possa procedere con voto segreto? La questione, per la verità, non è nuova. Come si ricorderà, il superamento, nel 1988, della regola del voto segreto, al fine di rafforzare la posizione del Governo “in” Parlamento e di favorire l’assunzione di responsabilità dei parlamentari nei confronti dei cittadini, era stata fortemente voluta dall’allora Presidente del Consiglio De Mita, e, soprattutto, da Craxi, suo alleato di governo, al punto che, non solo la proposta era stata inserita nel discorso programmatico di insediamento del Governo, ma, nell’ottobre del 1988, di fronte alla difficoltà di approvare la riforma, il Governo minacciò persino le dimissioni, qualora non si fosse giunti alla modifica regolamentare. Quasi tutti i partiti si erano, infatti, adeguati alla richiesta di modificare gli artt. 49 r.c. e 113 r.s., ma il procedimento aveva poi trovato molti ostacoli – e la trattativa si era fatta intensa - quando si era trattato di individuare le deroghe al principio del voto palese, ossia decidere se, e su quali materie, consentire ad un certo numero di parlamentari di chiedere lo scrutinio segreto (si rinvia, sul punto, ai resoconti di G. Fiorucci e C. Gatti, in questa Rivista 1989, rispettivamente 135 -158 e 174-182). Una delle scelte più delicate riguardò appunto le leggi elettorali e quelle costituzionali: mentre il partito comunista voleva che in queste ipotesi fosse possibile chiedere il voto segreto, la proposta era respinta dai socialisti, che – come è ben noto – furono tra i primi sostenitori della necessità di procedere a riforme istituzionali. Il compromesso si trovò infine - con il c.d. accordo De Mita-Craxi, conosciuto, sul piano parlamentare, come “lodo” Spadolini - nel “voto alternato”: solo nel regolamento della Camera fu inserita la possibilità di chiedere il voto segreto sulle leggi elettorali e sulle leggi “ordinarie” relative agli organi costituzionali dello Stato e agli organi delle Regioni, mentre al Senato la possibilità di ricorrere allo scrutinio segreto non fu, in queste ipotesi, ammessa. Secondo alcune ricostruzioni (la circostanza è ricordata dalla senatrice Lanzillotta proprio durante il dibattito svoltosi nella seduta del 31 luglio 2014) il lodo escludeva volutamente che al Senato fosse consentito chiedere il voto segreto in materia di organi costituzionali, proprio per evitare che i senatori, chiedendolo, impedissero, per evidenti ragioni di interesse, la riforma del bicameralismo. Quello che allora non si era immaginato è che la possibilità di chiedere il voto segreto “sui diritti”, ammessa per tutelare la libertà di coscienza dei parlamentari, sarebbe stata poi usata per estendere lo scrutinio segreto anche alla riforma della seconda parte della Costituzione e, in particolare, oggi, alle disposizioni con cui sono ripartite le competenze tra le due Assemblee. ** Ricercatore di diritto costituzionale, Università degli studi di Milano

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La fiducia sulla legge delega “in bianco” del Jobs Act: il diritto del lavoro emigra verso logiche tecnocratiche?* di Andrea Guazzarotti** (17 ottobre 2014)

Col termine “Jobs Act” si intendono due distinti atti del Governo Renzi, entrambi varati nell’aprile del 2014: il primo è un decreto legge incentrato principalmente sulla liberalizzazione del contratto a termine, ossia sull’aumento della c.d. “flessibilità in entrata” del mercato del lavoro (d.l. 34/2014). Il secondo è un disegno di legge delega presentato contestualmente al decreto legge, recante un ampio quanto indeterminato disegno di riforma delle diverse tipologie di contratti di lavoro subordinato (oltre al riordino della disciplina degli ammortizzatori sociali e della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, revisione e aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e a conciliare i tempi di vita e di lavoro: d.d.l. presentato il 3 aprile 2014, AS 1428). Questo secondo “Jobs Act” è salito nei giorni scorsi agli onori della cronaca per la battaglia parlamentare che si è ingaggiata durante la sua approvazione al Senato. Modalità e tempistica del voto sono state forzate dalla scelta del Presidente del Consiglio di porre la questione di fiducia su un maxiemendamento presentato direttamente in Aula comprensivo dell’intera delega. Ciò al dichiarato fine di ottenere l’approvazione del testo di legge delega (almeno da un ramo del Parlamento) in una data fortemente simbolica: quella del vertice europeo sull’occupazione del 9 ottobre 2014 tenutosi a Milano su richiesta congiunta del Presidente francese Hollande e del nostro Presidente del Consiglio. La prima osservazione che viene alla mente è l’impressione del dèjà vu. La vicenda ricorda, infatti, quanto avvenuto in sede di approvazione dell’altra “epocale” riforma del lavoro, c.d. legge Monti-Fornero (l. n. 92/2012). E ciò non solo e non tanto per l’aspro dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che l’una e l’altra riforma ha accompagnato e accompagna, bensì per le modalità e la tempistica di approvazione. La riforma MontiFornero fu approvata a tappe forzate, attraverso una compressione delle procedure palesatasi già nella fase governativa della deliberazione del disegno di legge (che non era iscritto all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri e che fu approvato “salvo intese”). Nella fase parlamentare, il disegno di legge fu fatto approvare alle Camere in meno di tre mesi, ricorrendo a ben otto voti di fiducia con relativi maxiemendamenti (che hanno ridotto a quattro un testo di settantasette articoli). Unico, dichiarato, fine di tanta urgenza era quello di permettere al governo “tecnico” di presentarsi al Consiglio europeo del 28 giugno 2012 con l’ambita “riforma” del mercato del lavoro approvata. La tanto pubblicizzata riforma del mercato del lavoro voluta dall’allora Presidente del Consiglio Monti quale fiore all’occhiello dell’Italia nei confronti dell’Europa e giudicata come “ambiziosa” dalla stessa Commissione UE, pare abbia ottenuto magri risultati, sia in *

Scritto sottoposto a referee.


termini di quantità che di qualità dell’occupazione. Tanto magri da venir sollecitata dall’UE (nonché dal FMI, dall’OCSE e dal Presidente della BCE) una nuova riforma del mercato del lavoro: il famigerato Jobs Act, appunto. Per questa seconda riforma “epocale”, però, non si è scelta la strada della legge parlamentare, bensì quella più scopertamente verticistica del ricorso alla decretazione legislativa. Il Governo, invero, non solo ha preteso di essere protagonista della stesura nel dettaglio della riforma del diritto del lavoro (differenza spiegabile, rispetto al Governo Monti, in virtù del fatto che questo governo non è di meri “tecnici”), ma ha preteso e pretende realizzarla in pressoché perfetto isolamento dai condizionamenti parlamentari. Il cuore della delega, infatti, si incentra sulla realizzazione di un “testo organico” di riforma di tutte le tipologie contrattuali esistenti. E su un simile intervento riformatore i principi e criteri direttivi risultano quanto mai evanescenti, se non praticamente assenti. A titolo di esempio, la tanto accesa discussione sulla portata da dare alla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non trova alcun appiglio testuale nelle disposizioni sull’oggetto o sui principi direttivi (salvo ritenere a ciò sufficiente la disposizione in cui si parla, per le nuove assunzioni, di un «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio»: art. 1, co. 7, lett. c) del testo approvato dal Senato). L’aver posto la fiducia al Senato (e minacciarla ora anche alla Camera) obbliga i parlamentari ad approvare non tanto un testo di legge voluto dal Governo (come avvenuto con la legge Monti-Fornero), bensì un “non-testo di legge” che lasci mani libere al Governo di riscrivere, tra l’altro, la disciplina del contratto “tipico” di lavoro subordinato, ossia del contratto a tempo indeterminato (compresa la disciplina delle garanzie contro i licenziamenti illegittimi). Deleghe fatte approvare a colpi di fiducia, recanti principi e criteri direttivi indeterminati se non addirittura inesistenti, si sono già avute proprio in materia giuslavoristica (cfr. la legge n. 247/2007, Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l'equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale). Tuttavia, un conto è operare un «riordino della normativa» in materia di servizi per l’impiego, gli incentivi all’occupazione e apprendistato (art. 1, co. 30, 31 e 32, l. 247/2007 cit.), altro conto è costituire ex novo un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato innovando, tra l’altro, al regime delle tutele contro i licenziamenti illegittimi. In questo contesto potrebbe collocarsi la strenua ricerca di supporto da parte dell’UE: l’agire comunicativo del Presidente del Consiglio Renzi è volto a patrocinare un’Italia pronta a riforme strutturali tempestive, così da poter ottenere in cambio quella tanto discussa flessibilità in materia di bilancio. Questo alla superficie. A livello più profondo, il supporto da parte dei vertici dell’UE (e degli organi tecnocratici, quali FMI, OCSE e BCE) vale in senso duplice: esso costituisce quel surplus di legittimazione diretto a colmare le carenze del processo democratico interno; ma contemporaneamente, esso è la leva cui si ricorre per svilire il processo democratico interno. Anche i contenuti del Jobs Act (legge delega) tradiscono questa logica della legittimazione esterna (e, in qualche modo, tecnocratica anziché democratica): nella


pressoché totale assenza di definizione dei principi e criteri direttivi sulla riforma delle tipologie contrattuali, la delega conteneva un rinvio esplicito agli «obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupabilità». A parte alcune imprecisioni (gli orientamenti sono, notoriamente, triennali, e recano la dicitura “a favore dell’occupazione”), si tratta degli orientamenti prodotti da Commissione e Consiglio europeo all’interno del c.d. Metodo aperto di coordinamento (MAC) al fine di stimolare gli Stati membri in una “competizione virtuosa” in ambiti sottratti all’hard law del diritto dell’Unione (cfr. S. SCIARRA, La costituzionalizzazione dell’Europa sociale. Diritti fondamentali e procedure di “soft law”, in Quad. cost. 2004/2, 288ss.). È attraverso queste procedure di governance europea (tecnocratiche più che democratiche) che sono stati selezionati negli anni i migliori “benchmarks” delle politiche per l’occupazione e si è distillata la nota ricetta della “Flexicurity”, sul modello appunto dei migliori “performers” europei, ossia Danimarca e Olanda. È stato, giustamente, rilevato che rinviare alle sole procedure soft del MAC oblitera quanto già il diritto dell’Unione (quello hard) dispone in materia di diritto del lavoro e, specialmente, di tutela dei lavoratori, tanto nel diritto derivato, che nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Cfr. l’Appello di alcune riviste giuslavoristiche a proposito di semplificazione e riordino della legislazione del lavoro , § 2, in fine). Non si sa bene se per questo motivo o per altro, il maxiemendamento fatto approvare a un recalcitrante Senato il 9 ottobre scorso ha modificato leggermente il tiro, prevedendo che il «testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro» sia redatto «in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali»; a ciò si aggiunge, nello specifico dell’intervento volto a «promuovere il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro», il vincolo che ciò avvenga «in coerenza con le indicazioni europee». E quest’ultima formula, con tutta la sua vaghezza, rimanda forse al MAC. Intendiamo, non è che gli orientamenti del MAC sull’occupazione rechino prescrizioni dettagliate, tutt’altro (cfr. la Decisione del Consiglio UE del 21 ottobre 2010 sugli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione (2010/707/UE)). Almeno, non abbastanza al fine di superare l’indeterminatezza della delega e il sospetto che si stia violando la lettera della Costituzione, al suo art. 76. Ma questo non è il punto, almeno nella logica della legittimazione esterna (e tecnocratica) di cui sopra. Più che gli orientamenti di Commissione e Consiglio, probabilmente, a rilevare nella strategia comunicativa del Governo sono le raccomandazioni formulate dalla Commissione sui singoli Stati membri nella loro implementazione di quegli orientamenti (attraverso i Programmi Nazionali di Riforma). Rispetto alla riforma Monti-Fornero, infatti, la Commissione ebbe modo di formulare proprio in tale sede di “controllo soft” il suo positivo apprezzamento della riforma, sia in itinere che dopo l’approvazione, giudicandola “ambiziosa” (cfr. il Documento di lavoro dei servizi della Commissione del 30 maggio 2012 SWD(2012) 318 def.). Si tratta, in altre parole, di una sorta di canale di comunicazione formalizzato entro un testo di legge quale la delega sulla riforma dei contratti di lavoro subordinato, tra il Governo e Commissione (specialmente) con finalità di integrazione della legittimazione (quella “tecnica” a supporto della debole legittimazione democratica). Segnali di questo tipo, del resto, abbondano nella legge Monti-Fornero. Si tratta però di riferimenti sempre assai vaghi e ambigui (non a specifiche fonti o atti dell’UE), come del resto stigmatizzato dal parere del Comitato per la legislazione reso sulla legge Monti-Fornero.


Il fenomeno appena tratteggiato si aggiunge a quanto già da molti anni si registra (e, in parte, si critica) in materia di deleghe rinvianti a principi e criteri direttivi “esterni”, contenuti in una o più direttive dell’UE. Con una peculiare differenza, però: mentre una direttiva costituisce pur sempre il frutto di una decisione politica, adottata con il contributo necessario (anche se forse non preponderante) di un organo democratico, quale il Parlamento europeo, gli atti di soft law della governance europea non sono frutto di procedimenti democratici, neppure nel senso lato del termine. Ce ne sarebbe forse abbastanza perché la Corte costituzionale sia indotta a rivedere il suo orientamento assai tollerante nei confronti della carente o addirittura assente fissazione di principi e criteri direttivi nelle leggi delega da parte delle Camere. Ciò che la Corte ha affermato riguardo alla decretazione d’urgenza (sent. n. 171/2007), dovrebbe valere anche per le regole costituzionali sulla delega legislativa: esse sono poste a presidio sia del riparto di competenze tra Parlamento e Governo, che della tutela dei diritti (in questo caso, quelli dei lavoratori).

** Associato di diritto costituzionale, Università degli Studi di Ferrara


Audizione in tema di “Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione” presso la Prima commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati di Antonio D’Andrea * (9 ottobre 2014)

1) Configurazione della forma di governo e specificità storiche della Costituzione. Il compito specifico della Costituzione e, in generale, delle norme costituzionali è certo quello di configurare i diritti e di assicurare libertà fondamentali agli individui, ma nel contempo anche quello, non meno delicato e rilevante, di definire la struttura organizzativa dello Stato; ciò implica, in primo luogo, di distribuire a organi distinti le funzioni sovrane dell’ordinamento sciogliendo il nodo della forma di governo, come pure, almeno nei casi più evoluti delle democrazie occidentali, di prevedere la presenza di organi di garanzia – il giudice costituzionale – il cui ruolo non è quello di favorire (o, meglio, facilitare) la realizzazione dell’indirizzo politico (e naturalmente neppure quello di ostacolarlo), ma semmai di controllare che il potere concretamente esercitato – in genere dal Governo e/o dalla maggioranza parlamentare – non fuoriesca dall’alveo costituzionale così da rispettare “i superiori” precetti delineati dalla normativa di rango costituzionale. Naturalmente, la storia della Costituzione di una comunità politica ha un peso decisivo nel modellare le scelte – specie quelle in tema di forma di governo – ivi contemplate e, ancor più, nel condizionarne il loro rendimento. Così è stato certamente per il nostro Paese dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale quando, approvata la Costituzione repubblicana, si è finalmente dischiusa la strada democratica. 2) La frequente violazione nell’ordinamento italiano della procedura di revisione costituzionale. Certamente, un conto sono le condizioni che determinano il “clima costituente” e favoriscono una concordia nazionale indispensabile per scrivere insieme – parlo delle forze politiche – le “regole del gioco” in virtù delle quali chiudere un’epoca buia e oppressiva, altra cosa è, come nel tempo presente, ipotizzare revisioni costituzionali promosse direttamente dal Governo e indirizzate a fare recuperare funzionalità al sistema istituzionale sul presupposto che in mancanza di quei mutamenti proposti risulterà impossibile la realizzazione dell’indirizzo politico di maggioranza e persino la stessa possibilità di riuscire ad avere una maggioranza di governo. In ogni caso è evidente che le Costituzioni non sono immutabili e, salvo l’intangibilità dei principi fondamentali – il cosiddetto nocciolo duro –, possono essere legittimamente emendate. La prima regola, che tuttavia non può essere disattesa, a meno di non rompere la legalità costituzionale, è quella che descrive le procedure attraverso le quali si possono introdurre variazioni al testo costituzionale vigente (nel caso della Costituzione italiana precisate dall’art. 138). Come è noto, il procedimento di revisione costituzionale – utilizzato con successo in svariate circostanze, l’ultima delle quali è la modificazione degli artt. 81 e 97 sull’equilibrio del bilancio e la sostenibilità del debito pubblico – è stato in qualche caso materialmente eluso (si pensi alle revisioni della prima metà dell’anno 2000 aventi oggetti diversificati, da un intero Titolo della Seconda parte all’intera Seconda parte della Legge Fondamentale) e, in qualche caso, sospeso, sia pure una tantum, sotto il profilo procedurale grazie all’approvazione di norme costituzionali ad hoc (nel 1993 e nel 1997 in concomitanza con il varo di due Commissioni bicamerali per le riforme costituzionali, rispettivamente nell’undicesima e nella tredicesima Legislatura). In verità, anche nella presente


diciassettesima legislatura si è stati a un passo (e in teoria si potrebbe procedere tuttora) dall’approvazione di altro procedimento speciale derogatorio rispetto all’art. 138 Cost., promosso direttamente dal Governo Letta – inizialmente sostenuto da una maggioranza c.d. di larghe intese – al fine di promuovere modificazioni della seconda parte della Costituzione concernenti i Titoli I, II, III, V, nonché le altre disposizioni connesse a questi ultimi. In tal caso, l’approvazione parlamentare del procedimento derogatorio si è arrestata dinanzi alla Camera dei deputati che lo aveva già licenziato in prima lettura, dopo aver registrato i due terzi dei voti favorevoli del Senato in seconda lettura (seduta del 23 ottobre 2013). Di questa recentissima stagione resta ovviamente la corposa relazione finale della Commissione ministeriale istituita dal Presidente Letta (17 settembre 2013) allo scopo di supportare i lavori parlamentari istruiti dal “Comitato dei quaranta”, alla quale va aggiunta un’altra relazione, scaturita dai lavori di un altro ristretto gruppo di Saggi (12 aprile 2013), nominati dal Capo dello Stato, in scadenza di mandato, in vista della risoluzione della crisi di governo, apertasi dopo il voto di febbraio 2013, e della elezione del nuovo Presidente della Repubblica. 3) Il contesto nel quale collocare la revisione promossa dal Governo Renzi. Se si guarda al progetto di riforma costituzionale, varato dal Governo in carica, approvato in prima lettura dal Senato e attualmente all’esame della Camera, benché non si stia derogando alle norme procedurali vigenti, è inevitabile constatare che esso affronta, ancora una volta, temi diversi che, almeno a mio giudizio, quantomeno dovrebbero costituire oggetto di distinte deliberazioni parlamentari anche al fine di consentire, eventualmente, agli elettori di pronunciarsi più consapevolmente sulle variazioni introdotte nell’ipotesi venga richiesto il referendum confermativo, evitando quanto accaduto nel giugno 2006 allorché il corpo elettorale dovette votare in blocco le molteplici riforme deliberate a maggioranza assoluta dalle Camere. Il contesto istituzionale, nel quale si colloca l’iniziativa di revisione del Governo Renzi, sconta perciò, in primo luogo, la pressoché incessante richiesta di riforme strutturali delle quali, viene autorevolmente detto, il nostro Paese avrebbe estremo bisogno per come è testimoniato dalla stessa attività parlamentare, a partire dagli anni ottanta, e dalla iniziativa in tal senso del Governo Letta in perfetta aderenza al discorso di insediamento del Presidente Napolitano dopo la sua “inedita” rielezione. A ciò si aggiunge la ricaduta politica dei fatti prodotti dal superamento dell’Esecutivo Letta e dal risultato del voto europeo del maggio scorso, assai favorevole al Presidente Renzi. Ciò non toglie che a occuparsi dell’ampia riforma costituzionale, promossa dall’attuale Governo, sia chiamato il Parlamento eletto in virtù di una legge che è stata valutata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n.1 del 2014, non conforme a Costituzione e perciò parzialmente annullata in virtù degli effetti distorsivi provocati dall’applicazione di premi di maggioranza illegittimi che determinano una ipertrofia numerica di alcuni gruppi parlamentari a danno di altri. Dal mio punto di vista questo elemento costituisce un “dato sensibile” del quale si sarebbe dovuto e si dovrebbe responsabilmente tenere conto, a prescindere dalle affermazioni, inevitabili sul piano sostanziale (ancorché ardite e forse errate sul piano strettamente giuridico), contenute nella motivazione del giudice costituzionale relative alla piena legittimità formale delle Camere elette con il meccanismo annullato (a quanto pare solo pro futuro), dovendosi considerare intangibile l’avvenuta distribuzione dei seggi a seguito della proclamazione degli eletti. 4) Quel che è bene mantenere inalterato del dettato costituzionale nel tempo presente. Il governo della comunità statuale presuppone inevitabilmente assetti organizzati che ruotano intorno a regole costituzionali che non è detto siano solo il testo della Legge


Fondamentale. Negli ordinamenti di ispirazione liberaldemocratica, quale è e vuole essere il nostro, che cosa si chiede ancora oggi a quelle regole oltre alla garanzia dei diritti fondamentali assicurati da una giurisdizione libera e indipendente? A mio modo di vedere, la legittimazione dal basso dell’indirizzo politico e la divisione del potere nei due sensi, orizzontale (con l’attribuzione a organi distinti delle funzioni sovrane) e verticale (assicurando forme più o meno accentuate di autogoverno territoriale), restano punti irrinunciabili della “grande regola” armonizzatrice di una Comunità politica che voglia mantenersi coerente con quella ispirazione. La più rilevante tra le funzioni sovrane resta ancora oggi l’esercizio dell’attività legislativa da sempre assegnata al Parlamento, vale a dire l’organo plurale di origine elettiva, necessariamente rappresentativo (quale che sia la forma di governo prescelta dal dettato costituzionale) e mai in posizione di dipendenza dall’organo esecutivo. Una democrazia matura è oggi più che mai di tipo rappresentativo, pur ammettendo, a certe condizioni e in particolare se si guarda alla produzione normativa, “iniezioni” di decisioni direttamente assunte dal corpo elettorale (i referendum popolari restano “correttivi” delle deliberazioni istituzionali). Un ordinamento democratico non riconduce mai al Governo, e meno che mai al suo leader, la normazione primaria neppure nei sistemi di governo che contemplano, accanto all’elezione parlamentare, la scelta diretta del vertice del Governo, come avviene nel sistema presidenziale e in quelli semipresidenziali. Il ruolo capillarmente rappresentativo del corpo elettorale non è mai affidato all’organo monocratico elettivo, ma viene assegnato all’organo parlamentare di solito strutturato su due Camere. Molte sono le possibili combinazioni nelle relazioni tra la Camera “bassa” e quella “alta”, quest’ultima raramente diretta espressione del corpo elettorale, in particolare a proposito dello svolgimento dell’attività legislativa. Quel che è certo è che spetta al Parlamento risolvere la complessità connessa all’approvazione della legge. È superfluo rammentare che i principi costituzionali, specie nel campo della promozione e della tutela dei diritti, non possono dispiegare appieno i loro effetti senza che sia data completa attuazione e ne venga assicurato coerente sviluppo da parte del Parlamento legislatore. Il che rende eccessivamente schematica e artificiosa la distinzione che si tende a mettere in luce, quasi come una clausola di stile, tra la prima (quella sui diritti) e la seconda parte (l’organizzazione) della Costituzione italiana e che viene evocata per dimostrare l’adeguatezza della prima che non sarebbe, per definizione, compromessa dai mutamenti prospettati con riguardo alla Seconda parte della Legge Fondamentale, da tempo criticata e, al contrario, oggetto di proposte emendative profonde. 5) La inestricabile connessione tra riforma costituzionale e riforma elettorale nell’iniziativa del Governo Renzi. Se dal terreno propriamente costituzionale si scende al livello, strettamente intrecciato ma distinto, nel quale collocare il sistema politico – e cioè l’insieme dei soggetti collettivi e degli attori che si occupano o preoccupano di svolgere attività politica e che sono tenuti a fare i conti con le regole elettorali fissate nell’ordinamento – è legittimo domandarsi se sussistono in questo momento le necessarie condizioni di funzionalità (in questo caso esterne al dettato costituzionale) che consentono a qualcuno di quei soggetti di assumere la responsabilità di governo della cosa pubblica senza dover fuoriuscire dal quadro costituzionale di riferimento. Dopo il voto politico del febbraio 2013, anche secondo non pochi costituzionalisti, la rielezione del Presidente Napolitano, la genesi del governo Letta e la stessa formazione dell’Esecutivo in carica (senza contare le vicende che hanno condotto sul finire della scorsa legislatura al superamento del quarto Governo Berlusconi con l’investitura parlamentare del Governo “tecnico” guidato da Monti) sono altrettanti elementi dai quali desumere l’insussistenza delle condizioni di tenuta o di accettabile funzionalità del nostro sistema politico-istituzionale.


A questo riguardo, il Governo Renzi si è pertanto mosso lungo due direttrici che debbono tuttavia convergere in un unico punto di approdo: superare il bicameralismo perfetto e trasformare il Senato nel ramo del Parlamento rappresentativo delle istituzioni territoriali; introdurre un nuovo sistema elettorale per la sola Camera dei deputati, che ovviamente superi l’attuale “consultellum” senza variare, almeno in apparenza, il vigente sistema di governo parlamentare. Così facendo, evidentemente, si eviterebbe la doppia fiducia parlamentare, che in effetti qualche problema ha posto, almeno dopo l’introduzione del “porcellum”, a proposito dell’individuazione della maggioranza di governo. Pare dunque evidente come, secondo questa impostazione, sia indispensabile utilizzare la leva elettorale per rimuovere la causa che produce un funzionamento poco apprezzabile dell’assetto organizzativo disegnato dalla Costituzione, non limitandosi a superare il bicameralismo perfetto. Non credo proprio sia un caso prevedere un congegno – l’italicum – capace di dare, un minuto dopo il voto, un “vincitore”, eventualmente a seguito di un turno di ballottaggio nazionale tra due liste o due colazioni di liste. Per “vincitore” deve intendersi una maggioranza parlamentare presumibilmente accompagnata da un leader “conosciuto” agli elettori – ma non per questo eletto direttamente –, conseguita, ancora una volta, solo grazie all’attribuzione di un surplus artificioso di seggi; maggioranza e leader che si spera possano restare invariati nel corso della legislatura in virtù del “rispetto“ della volontà popolare. 6) Un Senato marginale e, ancor prima, delle Regioni indebolite: la “ricetta” per governare meglio il Paese attraverso la Camera maggioritaria. Nell’attuale proposta di revisione costituzionale si cambia anche a proposito della configurazione dell’autonomia da riconoscere alle Regioni, invertendo la direzione “federale” dell’assetto della Repubblica, intrapresa dal 1999 sul finire della tredicesima legislatura e perseguita con la Commissione bicamerale D’Alema e anche dopo la negativa conclusione della sua esperienza bipartisan. Questa correzione in senso centralista del rapporto fra Stato e Regioni, che passa dalla riduzione degli ambiti riservati alla legge e ai regolamenti regionali, sembrerebbe tuttavia compensata, almeno così si afferma, dal coinvolgimento nel procedimento di formazione della legge statale del nuovo Senato (la cui originaria denominazione era proprio quella di Senato delle Autonomie). Il Senato diventerebbe perciò diretta espressione dei Consigli regionali (dunque dei Governi regionali?) e anche, sebbene in modo solo simbolico, dei Sindaci operanti nella Regione, cessando perciò di avere una sua specifica diretta rappresentatività degli elettori di quel territorio. Un Senato, perciò, neppure più composto da parlamentari chiamati a rappresentare la Nazione (a differenza dei singoli deputati). Da questo punto di vista sembrerebbe chiaro il tentativo del Governo di attenuare per questa via la “sforbiciata” delle competenze normative delle Regioni, volendo evidentemente non tradire l’innovativa ispirazione regionalista della nostra Costituzione. Ispirazione che pure aveva faticato a radicarsi in concreto, finendo, a un certo punto e solo per contingenza politica, per essere svenduta sull’altare di un malcelato egoismo federalista (e persino, a volte, di un minacciato secessionismo), propugnato con buon successo, elettorale e culturale, nelle Regioni più ricche del Paese. Non credo tuttavia che il suddetto obiettivo possa dirsi raggiunto nonostante qualche significativa modifica apportata dal Senato rispetto agli intendimenti iniziali del Governo. Infatti, viene confermato il ruolo recessivo del nuovo Senato rispetto alla Camera in molti ambiti che pure toccano da vicino lo stesso livello di autonomia, conservato in capo alle Regioni come pure agli altri livelli territoriali che restano nominalmente previsti dal dettato costituzionale (Città metropolitane e Comuni). L’organizzazione e le attribuzioni degli Enti territoriali, a cominciare dalle Regioni, dipendono largamente dalla legge statale approvata con procedimento, nel quale è destinato a prevalere, eventualmente a


maggioranza assoluta, la volontà della Camera dei deputati. Si pensi che è sottratta alla legge bicamerale la stessa approvazione dell’iniziativa riconosciuta al Governo centrale per intervenire in materie assegnate alla competenza regionale, facendo valere motivi di mantenimento dell’unità giuridica ed economica dell’ordinamento e privilegiando sostanzialmente la“convenienza nazionale”. A ciò si aggiunga che ogniqualvolta un terzo dei senatori ottenga il richiamo di un progetto di legge, già approvato dalla Camera, è comunque solo per proporre eventuali modifiche a quel testo; ove il Senato intendesse respingere il disegno già deliberato dalla Camera, la normativa costituzionale proposta non chiarisce cosa accadrebbe, potendosi persino considerare superflua una nuova delibera della Camera dei deputati al fine di ottenere la promulgazione di quelle disposizioni. Appare piuttosto evidente l’emergere di una visione ancillare del Senato rispetto alla Camera, concepita come uno strumento operativo della maggioranza di governo certa e garantita ab initio dal voto politico. Ruolo ancillare plasticamente confermato dalla stessa sproporzione del numero dei deputati elettivi rispetto ai novantacinque senatori designati dai rispettivi Consigli regionali di provenienza, senza alcuna indennità specifica e senza avere neppure un ruolo rappresentativo definito, posto che, pur mantenendo la libertà di mandato e la stessa tutela immunitaria riconosciuta ai deputati eletti, è solo il Senato, considerato quale organo unitario, ad essere concepito come rappresentativo delle istituzioni territoriali. La sproporzione richiamata è ancora più evidente nelle deliberazioni che restano in capo al Parlamento in seduta comune, a cominciare dalle elezioni del Capo dello Stato e dei membri non togati del CSM. Quanto alla perseguita riduzione della conflittualità tra Stato e Regioni, è tutto da dimostrare che ciò potrebbe scaturire dal superamento della competenza legislativa concorrente di queste ultime (e tuttavia, pur assegnando alla legge regionale la competenza residuale per quanto non espressamente demandato al legislatore statale, si riscontra egualmente una elencazione di materie specificatamente assegnate alla legge regionale). In molti casi, infatti, alla legge parlamentare si affida l’approvazione di “disposizioni generali e comuni” – solo di queste – rispetto a materie naturalmente controverse e da sempre rivendicate dalle Regioni (governo del territorio, ambiente, attività culturali e turismo). Credo che tra tali disposizioni e le note norme statali di principio non ci sia praticamente alcuna differenza, il che renderebbe non superabile nella pratica la concorrenza in quelle materie tra legge statale e leggi regionali. 7) A futura memoria: quel che non si otterrebbe comunque con questa riforma costituzionale più l’Italicum. Se in presenza di una sola Camera politica il sistema di governo parlamentare sarà in grado di funzionare meglio di come accade attualmente e, dunque, capace di consentire l’assunzione di decisioni rapide, assecondando l’emergere di chiari indirizzi di governo contrariamente a quanto si ritiene che avvenga in costanza del bicameralismo vigente, eventualmente lo valuteremo. Mi pare tuttavia che si possa sin da subito affermare che ciò dipenderà da come potrà essere “forgiato” il sistema politico italiano dalla legge elettorale che si vuole approvare contestualmente alla revisione in questione. Altro è dire, ovviamente, che l’italicum è un meccanismo capace di restituire autonomia e autorevolezza all’organo parlamentare, emancipandolo da un’evidente subalternità nei riguardi dell’Esecutivo. L’Esecutivo, infatti, viene erroneamente descritto come debole canna al vento, esposta ai capricci e ai trucchi messi in pratica da opposizioni capaci di paralizzare il processo decisionale, quando in realtà il procedimento legislativo è da tempo utilizzato per arrivare, alla velocità della luce, a conferire, proprio all’Esecutivo, deleghe ampie e a convertire i suoi decreti legge omnibus. Altra cosa ancora è domandarsi se con l’italicum saranno soddisfatti i rilievi di costituzionalità, mossi dal giudice costituzionale alla


precedente normativa riguardo alla necessaria rappresentatività dell’organo parlamentare qualora non si introduca un sistema elettorale maggioritario, preferendosi correggere un meccanismo di tipo proporzionale con il premio di maggioranza. Quel che accadrà a proposito dell’evoluzione del sistema politico italiano dipenderà inoltre anche da quel che si determinerà fuori dai confini nazionali, ma è certo che neppure questa revisione costituzionale, così apparentemente profonda, “costituzionalizza” l’elezione diretta del capo del Governo e neppure il c.d. governo di legislatura. *Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia.


La legge elettorale, tra costituzione rigida e costituzione materiale * di Renzo Dickmann ** (14 ottobre 2014) Dopo pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione in quasi ogni legislatura si sono registrati dibattiti circa l’esigenza di “aggiornarla” ai tempi, ma sempre sulla linea dell’implementazione del processo avviato con l’Assemblea costituente, che aveva consentito la transizione dal vecchio al nuovo regime repubblicano. Questo almeno fino all’avvento di un sistema elettorale nazionale ad effetto essenzialmente maggioritario, registratosi all’esito del complesso percorso politico articolatosi tra il 1993 e il 2005. Dopo questa transizione il dibattito sulle riforme della Costituzione si è spesso intersecato con quello sulla legislazione elettorale, in un rapporto nell’ambito del quale non sempre si è presupposta l’assunzione stabile della prima rispetto ai modelli introdotti o che si è cercato di introdurre con la seconda. Con il modello elettorale di cui alla legge 21 dicembre 2005, n. 270 (prosaicamente conosciuto come porcellum), che aveva sostituito il previgente sistema ad effetto maggioritario “temperato” introdotto con le leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277 (noto come mattarellum), il panorama politico si è qualificato in termini tali da acquisire il tema delle riforme costituzionali nell’ambito delle questioni rilevanti ai fini della definizione dei programmi di governo, in quanto funzionale al primario fine di trovare una soluzione che consentisse il consolidamento della leadership del Presidente del Consiglio e la corrispondente attenuazione del ruolo di indirizzo delle Camere. Il progetto delle premiership che si sono succedute in tale periodo si è rivelato, a prescindere dal colore delle maggioranza di governo, quello di realizzare con la legge elettorale un cambiamento sostanziale della forma di governo nel senso di conferire maggiore pregnanza alla capacità decisionale del capo dell’esecutivo, per poi disporre nelle Camere dei numeri necessari a modificare in modo corrispondente l’architettura costituzionale ed il riparto dei poteri che la Carta qualifica. Se da un lato si può dunque sostenere che la legislazione elettorale sia divenuta una “materia costituzionale”1, di recente la Corte costituzionale ha “frenato” questa prospettiva di lettura con la sentenza n. 1 del 2014 2, diffusamente commentata in dottrina. In questa sede si desidera confinare le riflessioni che seguono essenzialmente al piano giuridico, contribuendo al dibattito in corso tra i costituzionalisti sulle questioni salienti implicati dalle riforme elettorali e costituzionali in discussione presso le due Camere. Sul punto va evidenziato come la materia “legge elettorale” sin dall’avvento del mattarellum sia diventata il terreno di confronto (che ha ormai assunto i toni, spesso astiosi, di un cronico scontro) tra forze politiche in competizione per il governo del Paese, alla ricerca di una risposta “pratica” alla questione cruciale: come affermare il primato del premier senza percorrere prima la strada di modificare in modo partecipato da tutte le *

Scritto sottoposto a referee. Sul punto si veda il contributo di A. BARBERA, Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, in Quad. cost., 2010, 311 ss., dove specificamente riconduce alla nozione di “ordinamento costituzionale”, ivi qualificata, anche la legislazione elettorale (ibidem, 333 ss.). Sul tema si vedano le personali osservazioni offerte in Costituzione materiale o materia costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, paper (ottobre 2010), alle quali si connette in qualche modo il presente lavoro. 2 Corte cost., sent. 13 gennaio 2014, n. 1. Per una rassegna dei contributi su Riviste on line si veda http://www.giurcost.org/decisioni/index.html . 1

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forze politiche la Costituzione introducendo forme di governo presidenziali o semipresidenziali che non travolgessero il ruolo delle opposizioni. Si evidenzia in particolare come gli schieramenti che si sono confrontati hanno sempre cercato, almeno negli ultimi dieci anni, di consolidare con la legge elettorale una maggioranza assoluta tale da avere i numeri presso le Camere per definire unilateralmente una riforma della Costituzione “su misura”, cioè anche indipendentemente dalle ragioni delle opposizioni, sempre più marginalizzate dalle maggioranze di governo in carica. Si tratta di quello che è stato definito il “pregiudizio maggioritario” 3, che potrebbe anche dirsi “l’illusione della democrazia maggioritaria”: la democrazia è letta dalla politica dal punto di vista della maggioranza di governo possibile, non da quello della Costituzione che la legittima e la limita con forme e procedure di esercizio. In sostanza il pieno compimento della democrazia è nella individuazione di un modello elettorale che rappresenti al governo la maggioranza del corpo elettorale, del popolo sovrano 4, dovendosi quindi escludere che una legge elettorale che abbia la funzione di trasformare una maggioranza politica da relativa in assoluta assolva legittimamente a questa funzione. Se la “costituzione materiale” è invocata da una parte politica come titolo legittimante questa prospettiva in ragione del preteso valore costituzionale della governabilità, ad essa deve essere comunque contrapposta la Carta in vigore, che, in quanto “costituzione rigida”, costituisce la corretta dimensione di realizzazione della predetta idea di democrazia imperniata sul principio di legalità costituzionale, quale antidoto ad ogni tentativo di manipolazione della Carta sotto il segno del potere. Nelle ultime tre legislature questo scenario si è realizzato sin dal loro inizio (e salve le successive vicende politiche proprie di ciascuna legislatura) presso la sola Camera dei deputati, anche a causa del vincolo alla legislazione elettorale per il Senato, rappresentato dall’art. 57, primo comma, Cost., che impone che tale assemblea sia eletta “su base regionale”, salvi i sei seggi assegnati nella circoscrizione estero. Dopo il definitivo abbandono nel 2005 del modello proporzionale ancora presente nel mattarellum, anche se limitatamente al 25% dei seggi da assegnare a ciascuna Camera, si è in qualche modo contraddetto un sistema per molti aspetti (anche se con i dubbi della Corte) implicato dall’ordinamento costituzionale vigente per effetto della sua matrice politica pluralista e antitotalitaria 5. Si è così aperta una stabile connessione tra maggioranza di governo e maggioranza costituzionale indotta essenzialmente dal meccanismo premiale contemplato dalla legge n. 270 e amplificata dall’eliminazione del voto di preferenza. 3

Sul punto si veda F. GALLO, Possibilità e limiti della revisione costituzionale, conferenza del Presidente della Corte costituzionale presso l’Università Ca’ Foscari (Venezia, 14 giugno 2013), spec. § 1.2 (http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/20130614_GalloVenezia.pdf). 4 Sul punto si veda L. FERRAJOLI, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia. 2. Teoria della democrazia, Laterza, Bari, 2007, spec. pp. 9-13, che ricorda (in nota 9, pp. 113-114) le pregnanti riflessioni di P. CALAMANDREI, Costituente e questione sociale, in ID., Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, La Nuova Italia, Firenze, 1966, I, 1, p. 146: “ (…) Democrazia vuol dire sovranità popolare: vuol dire potere legislativo affidato, attraverso i meccanismi della rappresentanza politica, alla maggioranza numerica dei cittadini (…)”. 5 Sul punto la Corte, nella cit. sent. n. 1 del 2014, ha in qualche modo escluso una legittimazione diretta del modello proporzionale nel testo costituzionale vigente, ma in termini forse non pienamente esaustivi della questione. Si legge al punto 3.1 in diritto: “Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico”. Sul punto si vedano le riflessioni di S. STAIANO, La vicenda del giudizio sulla legge elettorale: crisi forse provvisoria del modello incidentale, in Rivista AIC, 2/2014 (30 maggio 2014), spec. § 3. E’ comunque evidente che all’esito della pronuncia della Corte il sistema elettorale vigente in Italia si connota con i caratteri del proporzionale puro con un voto di preferenza (sul punto si vedano le personali riflessioni offerte in La Corte dichiara incostituzionale il premio di maggioranza e il voto di lista e introduce un sistema elettorale proporzionale puro fondato su una preferenza (Prime osservazioni a Corte cost. 13 gennaio 2014, n. 1) , in Federalismi.it, n. 2/2014.

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Ne è derivato un forte condizionamento dei giustificativi di fondo delle riforme costituzionali avviate dalle maggioranze di governo pro tempore, alla ricerca di soluzioni e congegni aventi il primario obiettivo del consolidamento non solo della governabilità in favore di quest’ultima (intesa in termini di gestione ed esecuzione del programma di governo) ma anche della capacità di governance autonoma del premier, al quale conferire un primato “decisionale” rispetto agli altri poteri costituiti. Esemplare di quest’analisi è l’organica riforma definita dalla maggioranza del II e III Governo Berlusconi negli anni 2004-2005, fortemente caratterizzata dall’intento di delineare il ruolo preminente del premier, poi bocciata dal popolo con il referendum celebrato il 25-26 luglio 20066. Avendo la legislazione elettorale varata nel 2005 essenzialmente il fine di prefigurare una maggioranza sia di governo sia “costituzionale” 7, si è interrotta per effetto di essa la potenziale continuità dello svolgimento della Costituzione in chiave pluralista, cioè nel senso di riconoscere un titolo di legittimazione qualitativamente paritario, anche se numericamente differenziato, a ciascuna forza politica, che discendeva dai previgenti modelli che accoglievano il sistema proporzionale (anche in parte qua, come il mattarellum, dove in particolare il modulo proporzionale - con l’istituto dello “scorporo” aveva lo scopo di temperare gli effetti del modulo maggioritario). Nell’economia della presente analisi va operata una puntualizzazione. Anche i vincoli imposti all’Italia dalle decisioni europee in materia di governance economica e finanziaria hanno condizionato il dibattito sulle riforme costituzionali necessarie, inducendo in particolare il convincimento che le “riforme” invocate in generale dall’Europa includessero primariamente per l’Italia anche una riforma della Carta volta a privilegiare il momento decisionale su quello procedimentale, cioè l’effettività delle scelte di governo rispetto alla effettività delle forme democratiche per assumere tali scelte. Ne è derivata una presunzione di “legittimazione” da parte dell’Europa nei confronti dei modelli elettorali maggioritari, nell’assunto che, in pendenza di una crisi economica dalle cause essenzialmente finanziarie, la questione democratica perdesse importanza rispetto alle esigenze della governance interna ed europea, legittimazione percepita sulla base anche di una certa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che non a caso la Corte costituzionale non ha seguito nella citata sentenza n. 1 del 2014 8. Per effetto di questa dinamica riformatrice le prime a soccombere sotto gli effetti del sistema elettorale con premio di maggioranza introdotto nel 2005 sono state le opposizioni, del tutto private di ruolo politico se non - marginalmente - all’interno delle singole assemblee, per effetto dei relativi regolamenti, ancora fortemente caratterizzati nell’impianto da suggestioni proporzionaliste proprie dei tempi della relativa adozione, dove compaiono alcune regole di garanzie del relativo ruolo riassunte con la locuzione di “statuto delle opposizioni”, in quanto volte a garantirne l’effettiva partecipazione alle varie fasi della decisione politica. Anche da questo punto di vista la legge n. 270 del 2005 è stata censurata dalla Consulta nella citata sentenza n. 1 del 2014, con la quale ha pronunciato l’incostituzionalità della trasformazione di una maggioranza relativa in assoluta per effetto di un abnorme premio di maggioranza e della neutralizzazione del voto di preferenza, elementi questi di contraddizione delle regole basilari della democrazia rappresentativa. 6

Testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005. L’esito del referendum è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 25 luglio 2006. I rif. agli atti parlamentari sono per la Camera AC 4862-B, XIV e per il Senato AS 2544-D, XIV. 7 In tal senso, alla naturale obiezione per la quale esisterebbe comunque il referendum confermativo di cui all’art. 138, secondo comma, Cost., che lascerebbe l’ultima parola al popolo sovrano, si può eccepire che la relativa celebrazione è eventuale, in quanto subordinata alla richiesta dei soggetti indicati nella medesima disposizione. 8 Sul punto si veda R. DICKMANN, Rappresentanza vs governabilità. Rileggendo la sent. Corte EDU, Saccomanno vs Italia, del 13 marzo 2012, alla luce della sent. Corte cost. 1/2014, in www.forumcostituzionale.it (29 gennaio 2014).

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Nulla invece ha eccepito la Corte sul piano della legittimità delle soglie di sbarramento, che pure producono un certo effetto premio a favore delle coalizioni e delle liste che le superino, in quanto istituti di razionalizzazione del modello elettorale sul piano della efficacia rappresentativa delle assemblee elettive. In sostanza si può sostenere che con tale pronuncia la Corte abbia definitivamente “decostituzionalizzato” la competenza della legislazione elettorale, negandole il titolo a condizionare la forma di governo nei termini sopra sommariamente esposti 9 ed evitando il rischio che nel caso opposto si consentisse tramite tale legislazione la dissoluzione del fondamentale ed originale carattere della Costituzione nazionale, frutto del compimento del processo di maturazione del pensiero costituzionale, la sua rigidità, funzionale in particolare a garantirne l’indisponibilità proprio da parte dell’esecutivo in carica e della sua maggioranza, ad essa soggetti in quanto da essa limitati in sede di deliberazione delle leggi (ordinarie), che ne costituiscono la tipica espressione. Questa preoccupazione della Corte, anche se non univocamente espressa nel testo della pronuncia, si desume chiaramente dal sistema degli argomenti usati, come evidenziato in altra sede10. Quanto affermato induce ad una ulteriore considerazione. La rigidità della Costituzione, sulla quale la dottrina costituzionalistica ha prodotto contributi illuminanti, è un fattore di garanzia soprattutto della sua Parte prima, che si potrebbe definire lo “statuto della persona umana”, la cui tutela è il fine primario di ogni Carta fondamentale che qualifichi uno stato come democratico, costituzionale e di diritto. La capacità di una maggioranza di avere i numeri per riformare la Carta per effetto della sola legge elettorale implica per l’effetto, come evidenziato, una “attenuazione” della rigidità della Costituzione, dato particolarmente preoccupante se si ha riguardo alla portata ed allo spessore delle previsioni della Parte prima, che, come si è avuto modo di approfondire in altra sede, non esauriscono nel loro testo la capacità di tutela dei diritti e delle libertà della persona umana ma si connettono in un più ampio contesto costituzionale che ha qualificato e qualifica l’evoluzione del modello occidentale di stato democratico costituzionale di diritto11. La questione evidenziata si è riproposta sul piano costituzionale dopo che il legislatore, successivamente alla citata sentenza n. 1 del 2014, sopravvenuta oltretutto nel corso dei primi mesi della XVII legislatura, ha presentato nella medesima legislatura un progetto di riforma elettorale, recante un modello elettorale (noto come italicum)12 al quale 9

Circa la portata costituzionale (e la conseguente criticabilità) di una legislazione elettorale che prefiguri una maggioranza non solo di governo ma anche riformatrice della Costituzione si ricordano, anche sotto il profilo della rilevanza storica, tra molti, gli interventi di P. Togliatti nel corso della discussione della legge 31 marzo 1953, n. 148 (cd. “legge truffa”) alla Camera dei deputati (Assemblea della Camera, resoc. sten., sed. ant. 8 dicembre 1952, pp. 43323 ss., spec. pp. 43326-43327) e di G. Amendola nel corso della discussione della legge 18 novembre 1923, n. 2444 (cd. “Legge Acerbo”) alla Camera dei deputati del Regno. Sosteneva Togliatti che una legge elettorale è incostituzionale quando per gli effetti consente modifiche dell’ordinamento costituzionale ad una maggioranza predeterminata. Sosteneva Amendola (Camera dei deputati del Regno, resoc. sten., 12 luglio 1923, pp. 10538 ss., spec. p. 10542) che la legge Acerbo fosse “essa stessa la riforma costituzionale” auspicata dal fascismo per realizzare il proprio programma. 10 Si veda il contributo cit. in nota 5. 11 Sul tema si vedano le riflessioni offerte in La ricchezza della Costituzione. Democrazia e persona umana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012. 12 Si veda il disegno di legge AS 1385, XVII, che risulta dall’approvazione, il 12 marzo 2014, di molteplici proposte di legge presentate alla Camera. Per alcuni commenti si vedano D. MERCADANTE, Un primo commento alla proposta di legge elettorale Renzi-Berlusconi (cd. italicum), in www.forumcostituzionale.it, 21 gennaio 2014; S. CECCANTI, Italicum: come funziona, i problemi di costituzionalità e quelli di merito, ibidem, 5 febbraio 2014; M. NARDINI, Dal doppio turno di coalizione al doppio turno di lista. E il doppio turno di collegio?, ibidem, 10 luglio 2014; R. BIN, Rappresentanti di cosa? Legge elettorale e territorio, in Le Regioni, 4/2013, 659 ss.; N. ZANON, Fare la legge elettorale “sous l’oeil des russes”, in Rivista AIC, 2/2014 (2 maggio 2014); G. AZZARITI, La riforma elettorale, ibidem (2 maggio 2014). Si veda anche l’ult. bibl. ivi cit.

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sembrano imputarsi (al momento) gli stessi vizi di costituzionalità che affliggevano quello introdotto nel 200513. In aggiunta, all’inizio della XVII legislatura, all’esito di una pregevole e documentata attività di approfondimento sul piano giuridico costituzionale 14, anche se in vari punti in difformità dalle conclusioni in quella sede evidenziate, il Governo ha presentato un proprio disegno di legge per un’organica riforma della Parte seconda della Costituzione 15 di proporzioni senza precedenti nella storia repubblicana, dove le riforme erano state avviate essenzialmente sulla base di progetti di iniziativa parlamentare 16. Dagli atti parlamentari che documentano l’esame dei due citati progetti risulta evidente il desiderio dell’esecutivo e della sua maggioranza di giungere ad un sistema esclusivamente maggioritario che prima, per l’effetto, cioè per il tramite del modello elettorale ipotizzato, traduca la ricorda esigenza di consolidare la premiership, e poi, legittimandola anche giuridicamente, vincoli in tal senso i contenuti delle riforme proposte alla Carta in materia di forma di governo. Scopo del predetto meccanismo elettorale noto come italicum è quello di consentire che la coalizione vincente delle elezioni possa avere, per effetto di un premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale, almeno la metà più uno dei seggi di entrambe le Camere, ovvero di quella sola Camera che dovesse esprimergli la fiducia se si dovesse concretizzare anche il percorso delle riforme costituzionali secondo il testo approvato dal Senato. La questione cruciale esposta in apertura rimane irrisolta. Per giunta ancora non risulta, neanche nel confronto tra costituzionalisti, una posizione univoca contraria a che la legge elettorale possa determinare un “effetto costituzionale” nei termini evidenziati, e ciò nonostante la ricordata pronuncia della Consulta n. 1 del 2014 abbia chiaramente affermato l’incompetenza sul piano costituzionale della legge elettorale, che deve piuttosto garantire la corrispondenza tra voti di preferenza e seggi acquisiti da partiti, liste e movimenti concorrenti alla consultazione elettorale. In breve la Consulta nella citata sentenza ha operato la ricognizione di quello che potrebbe definirsi un principio supremo dell’ordinamento costituzionale, come tale illuminante le previsioni sia della Parte seconda sia della Parte prima, quindi indisponibile ad ogni riforma della Carta che intenda preservarne i connotati di fondamento, rigido, di uno stato costituzionale, democratico e di diritto. Ammettendo il contrario, cioè considerando legittima una legislazione elettorale competente in linea di principio a trasformare artificiosamente una maggioranza da relativa in assoluta, per giunta senza la mediazione del voto di preferenza, si riconoscerebbe implicitamente a quella che rimane una fonte ordinaria, la legge elettorale, non solo la competenza a qualificare in concreto la forma di governo ma anche la legittimazione a prefigurare una maggioranza “costituzionale”, come tale capace di realizzare una revisione integrale della Carta (salvo l’esito dell’eventuale referendum di cui all’art. 139 Cost.), prefigurabile nel programma di governo di ciascuna lista o coalizione e senza necessità della collaborazione delle opposizioni. 13

Non è privo di significato nell’economia delle considerazioni di cui al testo che il Presidente del Consiglio pro tempore abbia espressamente ricondotto tale progetto elettorale nell’ambito del proprio programma di governo: si veda, ad es., in tal senso l’intervento del Presidente del Consiglio in carica alla Camera dei deputati, il 16 settembre 2014, in resoc. sten., spec. pp. 2 e 4-6. 14 Si veda l’approfondito lavoro di studio a cura della Commissione per le riforme costituzionali istituita con d.P.C.m. dell’11 giugno 2013, i cui atti sono raccolti nel volume Per una democrazia migliore, edito dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri, Gangemi Editore, Roma, 2013. 15 AS 1429, XVII, approvato l’8 agosto 2014 e attualmente all’esame della Camera (AC 2613, XVII). 16 Si ricorda un altro precedente di riforma costituzionale avviata sulla base di un disegno di legge governativo: la l. cost. 9 febbraio 1963, n. 2, "Modificazioni agli articoli 56, 57 e 60 della Costituzione" (AS 250, III).

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Invece proprio considerando che il sistema elettorale, disciplinato per legge, ove sottratto ai vincoli sopra evidenziati, è capace (per l’effetto) di condizionare la funzionalità della forma di governo prevista in Costituzione, deve ritenersi che esso non possa evolversi indipendentemente dalla rigidità della Costituzione, proprio in base alla quale la Corte ha escluso che la legge elettorale abbia la competenza normativa a trasformare una maggioranza relativa in assoluta ovvero a prescindere dal voto di preferenza nell’assegnazione dei seggi. In breve senza una previa norma costituzionale che le conferisca tale competenza, che in regime di costituzione rigida significherebbe ascriverla tra le fonti costituzionali, la legge elettorale non può legittimamente trasformare una maggioranza da relativa in assoluta e non può eludere il diritto degli elettori di esprimere voti di preferenza affinché siano poi trasformati in seggi. Ammettendo a contrario la legittimità di una simile legge elettorale, in particolare nella parte in cui preveda meccanismi aritmetici che consentano di derogare al principio dell’effettiva eguaglianza del voto degli elettori, si consentirebbe un risultato incostituzionale, oltretutto in contraddizione con i contenuti qualificanti il diritto fondamentale di elettorato, per il quale il voto deve essere uguale, personale e libero, oltre che segreto. Si tratta di un’acquisizione ancora da consolidare nel diritto elettorale nazionale, a presidio della rigidità della Costituzione formale e contro le insidie della “costituzione materiale”, cioè la costituzione “ambita” da una parte, che è sempre in competizione con la prima in quanto alla ricerca di legittimazione per sostituirla. Scopo è quello di evitare che, sulla scorta dell’evocata “illusione della democrazia maggioritaria”, un’occasionale maggioranza di governo che si faccia portatrice delle sole proprie istanze, rivelatrici di una asserita costituzione materiale, possa modificare la Carta ad libitum o attuarla contro il suo testo scritto; e ciò soprattutto se, in un contesto dove la relativizzazione di ogni principio e valore, di ogni diritto, dovere e libertà, documentata anche da oscillazioni giurisprudenziali in campi delicati quali il diritto di famiglia o le ragioni di tutela della persona umana, un esecutivo volesse ritenersi autorizzato ad imporre la propria lettura politica per dirimere questioni controverse sul piano dei fondamenti dell’ordine costituzionale17. ** Consigliere parlamentare - Le opinioni espresse sono assolutamente personali e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza

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Per riflessioni nella prospettiva evocata si veda quanto si è avuto modo di sostenere in Ordine costituzionale e vocazione solidale dello Stato, in federalismi.it, focus Human Rights, 1/2013, e bibl. ivi cit. (spec. § 2-3 sul rilievo della rigidità della Costituzione in rapporto all’esigenza di preservare l’ordine costituzionale).

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Audizione presso la I Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati sul progetto d revisione costituzionale del Governo Renzi (AC 2613 e provvedimenti collegati) di Carlo Fusaro * (9 ottobre 2014)

Signor Presidente, onorevoli deputati, grazie per l’invito. Il mio intervento sarà breve, con una sola premessa: quando un accademico è invitato a dire la sua in un’Audizione parlamentare apporta – si spera – le sue supposte competenze, ma – specie in materie come queste – è sempre, e prima di tutto, il cittadino che parla; ciò a mio avviso vale per tutti, certamente vale per me. Ho detto che sarò breve, e non tanto per i minuti che il Presidente ci ha attribuito. Il fatto è che reputo questa riforma più che urgente. Essa arriva in ritardo di alcuni decenni (vogliamo dire, senza esagerare, trent’anni?), ed è diventata dal 2013 una vera e propria emergenza nazionale (non l’unica!) che a mio avviso è bene il Parlamento affronti al più presto: sia per ciò che rappresenta in sé sia per ciò che simboleggia più in generale. Un paese intero attraverso il suo Parlamento deve mostrare all’Europa (e al mondo), ma prima di tutto a sé stesso di essere in grado di uscire dallo stallo e dalla cronica inconcludente, rissosa impotenza in cui è precipitato. Ai voi che ci rappresentate chiedo, con il massimo rispetto, di non dimenticare per un solo minuto com’è nata e come si è avviata questa vostra legislatura; e soprattutto di ricordare che essa vive solo in funzione della sua capacità di dare al Paese le riforme strutturali di cui ha spasmodico bisogno. Quelle già affrontate con troppa timididezza (e nonostante questo subito bloccate) dal governo Letta, quelle prese di petto con lo slancio e l’energia necessari, ma ahimé non sappiamo se sufficienti, dal governo Renzi, nel colpevole e compiaciuto scetticismo di troppi. Invece hic Rhodus hic salta. Questa è la nostra Algeria: come cittadino chiedo che ci ricordiamo tutti del significato della rielezione del presidente Napolitano. Questo dunque il contesto. Ne consegue che la prima esigenza è quella di condurre in porto, costi quel che costi il processo riformatore avviato al Senato. Questa è la priorità politico-istituzionale: signor Presidente valuteranno la Commissione e l’Aula di Montecitorio, delle quali entrambe mi onoro di aver brevemente fatto parte quando di queste cose si cominciava a parlare (1983-84) e sembrava che la riforma del bicameralismo fosse dietro la porta. Ciò detto, io penso che questo non sia più il tempo degli “approfondimenti”. Qui non c’è nulla da approfondire, da sviscerare, da studiare ab imis. C’è da tirare le conclusioni di un discorso che è appunto cominciato decenni fa. Oggi, soprattutto, credo si debba prendere atto che il testo varato dal Senato fa sostanzialmente proprie le indicazioni che provenivano sia dagli esperti nominati dal presidente Napolitano alla fine del suo primo mandato sia soprattutto dalla Commissione istituita dal governo Letta, guidata dal ministro Quagliariello, e composta come sappiamo da una folta e pluralistica rappresentanza di tutta l’accademia italiana del settore: una serie di stimate colleghe e colleghi di ogni orientamento che hanno fornito non solo indicazioni preziose, ma soprattutto un’utile fedele fotografia dello stato dell’arte cui è giunto, su queste tematiche – nella sua stragrande maggioranza – il mondo degli studiosi in Italia. Non che non ci siano eccezioni,


rispettabili posizioni eccentriche, radicalmente e direi visceralmente opposte al cambiamento. Ci sono e infatti furono rappresentate da quel paio di componenti che abbandonarono i lavori di quella Commissione. Ma per il resto la Relazione del 17 settembre 2013, un solo anno fa, si ha il dovere di considerare largamente rappresentativa. Su una sola questione centrale, quella della forma di governo, non si pronunciò con nettezza: e infatti si tratta precisamente di ciò che prudentemente il Governo non ha inserito nel suo progetto iniziale. Il resto invece di quel Rapporto è pienamente rispecchiato dall’impianto della riforma, sia nel testo presentato dal governo sia in quello predisposto dai relatori Finocchiaro e Calderoli in Senato sia in quello infine varato dal Senato e ora al vostro esame: anche se ritengo per vari aspetti l’iniziale AS 1429 del Governo più coerente e meglio formulato del testo della Commissione e questo – a sua volta – del testo varato dall’Aula del Senato (nonostante in quest’ultima sede, gli emendamenti siano stati pochi: ma non tutti migliorativi o integrativi). Nel complesso però essi non hanno stravolto il progetto iniziale. Voglio però fornire un dato, a significare che non vi è stata da parte del Governo nessuna preconcetta rigidezza: secondo i miei calcoli, solo 20 su 45 articoli della Costituzione (ovviamente parte II), così come presentati nel progetto iniziale, sono stati fatti propri dal Senato. Ben 25 sono stati modificati, mentre di alcuni altri è stata inserita la modifica nel corso dell’iter (si veda per esempio quelli sull’elezione del presidente della Repubblica e sul referendum, art. 83 e 75 Cost.). Questo dico per sfatare la leggenda di un governo ostinato e chiuso alle proposte emendative presentate: certo il Governo ha tenuto sui punti chiave della proposta, non ne ha subito lo stravolgimento, ma questa è altra cosa. Dal contesto di emergenza nazionale, consegue anche l’appello a che la Camera voglia salvaguardare quanto più è possibile il testo varato: non senza comprensibile sforzo e con evidente sacrificio (doveroso, ma non per questo meno sentito e reale) di quella sorta di patriottismo istituzionale, inevitabilmente insito nei componenti di qualsiasi organo (naturalmente persuaso della rilevanza della propria funzione): mi riferisco ovviamente al Senato, avendo opportunamente la proposta compiuto la scelta di una differenziazione che per definizione coinvolge ambedue le Camere, ma che oggettivamente incide radicalmente sul Senato. Scelta inevitabile, se non altro perché il Senato è sempre stato e ora ancor di più è un’assemblea dotata di più rappresentatività inferiore rispetto alla Camera dei deputati. Anche per ragioni procedurali che sono di tutta evidenza, ritengo necessario non solo non stravolgere e non rimettere in discussione la riforma, non solo mantenerne l’impianto, ma di più: occorre secondo me limitarsi a quanto appaia strettamente e prioritariamente indispensabile modificare. Per questa ragione, mi limito a suggerire esclusivamente alcuni emendamenti volti a correggere talune incongruenze o le soluzioni meno felici presenti nell’AC 2613. Mi soffermo su sei punti. Primo. Il nuovo art. 55 Cost. (art. 1) del progetto andrebbe per c.d. “ripulito”, con esclusivo riferimento al quarto comma laddove l’iter al Senato ha prodotto un testo verboso, ridondante e confuso. Basti dire che mentre ruolo e funzioni di questa Camera sono descritti in 5 icastiche e ben formulate righe, ruolo e funzioni del Senato impegnano un comma di 18 righe! Allego un’ipotesi di riformulazione in circa la metà dello spazio e


comunque raccomando fortemente la soppressione del confuso e improprio specifico riferimento agli art. 29 (famiglia) e 32 (salute) della Costituzione, suscettibile oltretutto di creare incertezze interpretative e indebite estensioni applicative. Secondo. Penso che il nuovo bicameralismo sarà un successo se il nuovo Senato si calerà davvero nella funzione più coerentemente sua propria, di sede della rappresentanza degli enti territoriali. Suggerisco perciò di modificare quegli articoli che puntano in altra direzione, rischiano di creare equivoci e di ritardare una salutare evoluzione in quella direzione. Non dimentichi il Parlamento la naturale vischiosità – quale che sia il nuovo testo – delle istituzioni e la loro resistenza naturale al cambiamento (anche se imposto da norme testuali). Occorrono formulazioni nitide. Perciò a mio avviso all’art. 6 la doverosa garanzia delle minoranze parlamentari (che in realtà non sarebbe indispensabile statuire espressamente!), va comunque limitata al Regolamento della Camera. Così, all’art. 8 va limitato alla Camera, che diventa unica sede della rappresentanza nazionale, non il divieto, ma il non riconoscimento di mandati imperativi. Terzo. Raccomanderei una parziale riscrittura del nuovo art. 70 Cost. (art. 10 del progetto). Anche qui allego un testo di riformulazione del comma 1. La mia idea è che il Senato debba concorrere paritariamente alla revisione costituzionale limitatamente a tutto ciò che direttamente tocca le autonomie, dunque art. 6, ruolo del Senato stesso, titolo V (e relative leggi di attuazione). Inoltre sopprimerei il co. 5 che introduce un confuso meccanismo su materia che da sempre fa parte del nocciolo duro del rapporto fiduciario (le leggi di bilancio). Quarto. Signor Presidente parlando in questa sede otto mesi sul ddl in materia elettorale, quando eravamo ancora tutti sotto shock per la sent. 1 /2014 (io lo sono tuttora), mi permisi di invocare che il Parlamento vi desse il giusto e rispettoso peso ma senza considerarla la bibbia del diritto elettorale italiano, pienamente rivendicando, il proprio ruolo e funzioni, senza chiedersi – con strumentale timore – se una certa formula rispecchiasse nei più minuti aspetti il volere della Corte in veste di colegislatrice oppure no. Per questo suggerisco di sopprimere il secondo comma del nuovo art. 73 di cui all’art. 13 del progetto. Quinto. Credo molto opportuna la soppressione dell’art. 21 del progetto. In queste ore e in questa fase storica, di fronte ai richiami quotidiani della realtà (e non devo dirlo a voi), pensare di elevare i quorum (in questo caso per l’elezione del capo dello Stato) vuol dire mettersi nelle mani di piccoli gruppi più o meno clandestini e quindi favorire il discredito delle istituzioni politiche. Come minimo rischia di garantire, per c.d., che il presidente non sia eletto prima dell’ottavo scrutinio. Signori deputati, l’elenco delle elezioni presidenziali indica che in molte occasioni l’ottavo scrutinio è stato superato: ma i tempi non son quelli degli anni Sessanta o Settanta (con Giovanni Leone si arrivò al 23 scrutinio). Ricordo che – dopotutto – Giorgio Napolitano è stato rieletto al sesto scrutinio, eppure parve a tutti, e soprattutto ai cittadini, una intollerabile eternità. Non create i presupposti per il ripetersi di tutto questo. Sesto ed ultimo punto. Non è materia di mia specifica competenza ed è al tempo stesso materia della massima complessità tecnica. Verifichi attentamente la Camera le formulazioni di oggetti e materie del nuovo art. 117 comma 2. Per quel che mi riguarda raccomando di “ripulirlo” (e di ripulire il testo della riforma: per es., abolendo l’art. 34), da formulazioni che paiono oggettivamente troppo limitative dell’autonomia delle Regioni.


Signor Presidente, ho concluso. La ringrazio e ringrazio i componenti della Commissione, rinnovando l’appello a fare presto, a fare subito: agli stessi emendamenti che mi son permesso di suggerire io per primo rinuncerei volentieri se in cambio si potesse avere un iter davvero veloce e un testo sul quale l’altro ramo del Parlamento, che ha già fatto tanto, non sia indotto a ritornare, innescando una navette che sarebbe perniciosa. Grazie. * Università degli studi di Firenze

Emendamenti proposti da Carlo Fusaro, 9 ottobre 2014 All'art. 1 Sostituire il quarto comma dell'art. 55 con il seguente «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre, nei casi e secondo modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa; esercita funzioni di raccordo tra l'Unione europea e le istituzioni territoriali. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell'UE e ne valuta l'impatto. Valuta l'attività delle pp.aa. nonché l'attuazione delle politiche pubbliche. Esprime pareri sulle nomine di competenze del Governo nei casi previsti dalla legge.» All'art. 6 Al primo comma dell'art. 6, la lett. a) è sostituita dalla seguente: «a) dopo il primo comma è inserito il seguente: 'Il regolamento della Camera garantisce i diritti delle minoranze parlamentari'. All'art. 8 Il primo comma è sostituito dal seguente: 1. L'art. 67 della Costituzione è sostituito dal seguente: «Art. 67 . I membri della Camera esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato.» All'art. 10 Il primo comma dell'art. 70 è sostituito dal seguente: «Art. 70. - La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle Camere per le leggi di revisione della Costituzione limitatamente all'art. 6 nonché ai titoli V e VI della Costituzione, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche, per le leggi che danno attuazione all'art. 117 secondo comma


lett. p), per la legge di cui all'art. 122 primo comma, e negli altri casi previsti dalla Costituzione.» All'art. 10 Il quinto comma dell'art. 70 è soppresso. All'art. 13 Il secondo comma dell'art. 73 è soppresso. All'art. 21 L'art. 21 è soppresso. All'art. 117 comma 2, lett. p): Le parole «disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni» sono soppresse All'art 117 comma 3: Le parole «in materia di rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche» sono soppresse. All'art. 34 L'art. 34 è soppresso.


La prima volta del Presidente della Commissione “eletto” dal Parlamento europeo. Riflessioni sui limiti del mimetismo istituzionale* di Barbara Guastaferro ** (10 ottobre 2014) Sommario: 1. La nuova procedura di designazione del Presidente della Commissione prevista dal Trattato di Lisbona. 2. La selezione dei candidati alla presidenza da parte delle famiglie politiche europee e l'inasprirsi del conflitto istituzionale tra Consiglio europeo e Parlamento europeo. 3. Verso una forma di governo parlamentare europea? I limiti del mimetismo istituzionale. 4. Considerazioni conclusive

1. La nuova procedura di designazione del Presidente della Commissione prevista dal Trattato di Lisbona. Il popolare Jean Claude Juncker, ex premier lussemburghese, è il primo Presidente della Commissione europea ad esser stato designato attraverso la nuova procedura introdotta dall'articolo 17, comma 7, del Trattato di Lisbona. Ai sensi del trattato, “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura”. Le novità contemplate dal Trattato di Lisbona sono molteplici. In primo luogo, vi è un cambiamento semantico di non poco conto: il Presidente della Commissione deve essere “eletto” dal Parlamento europeo1, e non semplicemente “approvato” dallo stesso, come prevedeva il Trattato di Nizza. Il ruolo del Parlamento europeo risulta determinante in quanto, nel caso in cui il candidato proposto non ottenesse la maggioranza, il Consiglio europeo è costretto a proporre un nuovo candidato. In secondo luogo, la designazione del candidato alla Presidenza della Commissione europea deve muoversi all'interno della cornice politica fornita dagli esiti delle elezioni europee. Il Consiglio europeo, infatti, nel proporre al Parlamento un candidato alla presidenza, deve “tenere conto delle elezioni europee”. In terzo luogo, fermo restando in capo al Consiglio europeo il potere di proposta, questo deve essere esercitato “dopo aver effettuato le consultazioni appropriate”. In via generale, l'articolo 17.7 TUE rappresenta una delle tante disposizioni del Trattato volte a rafforzare la democrazia “rappresentativa”, tentando non di accantonare le strade alternative che hanno permesso la democratizzazione del processo europeo (tra cui la trasparenza, la partecipazione della società civile, il dialogo con le parti sociali, gli equilibri istituzionali anti-maggioritari in grado di accomodare le diversità 2), ma * Scritto sottoposto a referee. 1 Il Presidente-designato Jean Claude Juncker è stato eletto in Parlamento il 15 luglio 2014 con 422 voti favorevoli (dunque più dei 376 necessari), 250 voti contrari e 57 astenuti, promananti dai socialisti, dai popolari e dai liberali. 2 Sugli agli argomenti talvolta “anti-maggioritari”, talvolta “non-maggioritari” che sono stati sostenuti per fornire una connotazione democratica all'ordinamento dell'Unione europea si veda R. Bellamy, Democracy without democracy? Can the EU's demcoratic “output” be separated from the democratic “inputs” provided by competitive parties and majority rule?, in “Journal of European Public Policy”, 17, 1, January 2010, pp. 2-19.


semplicemente di considerare queste strategie di legittimazione non alternative, ma complementari ai canali della rappresentanza. 3 Così, anche la Commissione, la cui genesi, funzionamento e struttura sono stati legittimati attraverso argomentazioni nonmaggioritarie che sublimano tecnica, imparzialità, ed expertise, viene parzialmente ricondotta a meccanismi di responsabilità e accountability tipici della democrazia rappresentativa. Più in particolare, il Trattato di Lisbona rappresenta l'apice di un processo, cominciato con i Trattati di Maastricht, volto a rafforzare il coinvolgimento dell'unica istituzione direttamente eletta dai cittadini nelle procedure di formazione dell’ “esecutivo” comunitario.4 Già dotato di un potere di controllo ex post volto a censurare l'operato della Commissione sino a determinarne la dimissione collettiva dei suoi membri 5, il Parlamento europeo ha acquisito sempre più poteri nella fase ex ante relativa alla configurazione del Collegio ed alla designazione suo Presidente. Si ritiene, tuttavia, che nonostante le novità introdotte dal Trattato di Lisbona siano inequivocabilmente ascrivibili al desiderio di “parlamentarizzare” la scelta del Presidente del Commissione, la prassi inaugurata dal Parlamento per implementare queste novità procedurali, di seguito analizzata, presenta alcuni risvolti problematici, relativi tanto alle dinamiche infra-istituzionali tra Consiglio europeo e Parlamento quanto al ruolo storicamente attribuito alla Commissione nell'architettura istituzionale dell'Unione. La stessa prassi, inoltre, non ha, a parere di chi scrive, sortito gli effetti sperati in merito ad una maggiore avvicinamento del cittadino all'Unione europea. 2. La selezione dei candidati alla presidenza da parte delle famiglie politiche europee e l'inasprirsi del conflitto istituzionale tra Consiglio europeo e Parlamento europeo. Alla luce delle novità introdotte dall'articolo 17.7 TUE, in occasione delle elezioni europee del 2014 si è sviluppata un'interessante prassi 6 che, se da un lato è stata presentata come 3 Per una trattazione su quanto il Trattato di Lisbona abbia posto un argine all'argomento anti-maggioritario ed a quello non-maggioritario in qualità di surrogati della democrazia, prediligendo, invece, i canali della rappresentanza (ed in particolar modo il ruolo dei Parlamenti, mi sia concesso rinviare a B. Guastaferro, Le declinazioni sovranazionali del principio democratico, in A. Argenio, Democrazia e totalitarismo, ES, 2012, pp. 173-190 (disponibile on line sul sito www.europeanrights.eu). E' sufficiente qui ricordare che, mentre il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, nel titolo VI dedicato alla “vita democratica dell'Unione”, concepiva la democrazia come fondata su due pilastri (dedicando l'articolo I-46 al “principio della democrazia rappresentativa” e l'articolo I-47 al “principio di democrazia partecipativa”), il Trattato di Lisbona stabilisce che “il funzionamento dell'Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa” (Art. 10, comma 1, TUE), che si esplicita in forma diretta attraverso il Parlamento europeo ed in forma indiretta attraverso il controllo dei Parlamenti nazionali sui rispettivi esecutivi presenti nel Consiglio e nel Consiglio europeo (Art. 10, comma 2 TUE). 4 Prima dei Trattati di Maastricht, i governi degli Stati membri nominavano di comune accordo i membri della Commissione europea, e poi tra essi il Presidente, senza alcun coinvolgimento del Parlamento europeo. Il Trattato di Maastricht introduce invece un obbligo di consultazione del Parlamento europeo nella designazione del Presidente della Commissione, oltre ad un potere di approvazione del PE sull'intero collegio. Il Trattato di Amsterdam, prevede l'approvazione (e non la mera consultazione) del candidato alla Presidenza anche da part del PE.

5La mozione di censura nei confronti della Commissione deve essere approvata a maggioranza di due terzi dei voti espressi e a maggioranza dei membri che compongono il Parlamento europeo. Essa comporta la dimissione collettiva dei membri della Commissione ed è attualmente prevista dall'articolo 234 TFEU (ex articolo 201 del TCE).

6 Per un primo commento alla prassi, C. Curti Gialdino, Elezioni europee del 2014 e scelta del candidato alla presidenza della Commissione europea. I primi passi della procedura, in federalismi.it (28.5.2014) e M. Cartabia, Elezioni europee 2014: questa volta è diverso, in Quaderni costituzionali, n. 3/2014, pp. 715-718


l'implementazione dei Trattati, dall'altro ne rappresenta, per certi versi, una forzatura. Mentre il Trattato di Lisbona prevede che il Consiglio europeo, nel proporre un candidato alla Presidenza della Commissione, effettui appropriate consultazioni tenendo conto delle elezioni europee, il Parlamento europeo ha deciso, con una risoluzione 7, di condurre la campagna elettorale del 2014 rendendo noto in anticipo il nome della persona che ciascuna famiglia politica avrebbe indicato come Presidente della Commissione in caso di vittoria. Per la prima volta, dunque, le famiglie politiche europee si sono presentate agli elettori palesando quelli che sono stati chiamati Spitzenkandidaten, termine che in tedesco indica i candidati-guida che i partiti selezionano come loro favoriti, ad esempio per diventare Cancelliere.8 Questa prassi, nonostante dal punto di vista politico potrebbe incoraggiare l'affluenza al voto “personalizzando” la campagna elettorale per le elezioni al Parlamento europeo, presenta risvolti problematici in punto di diritto. In primo luogo, essa sembra spostare il potere di “proporre” il candidato alla Presidenza dal Consiglio europeo (che ne è titolare ai sensi del Trattato) al Parlamento europeo. Quest'ultima istituzione, forte del potere conferitogli dal trattato di “eleggere” a maggioranza il Presidente della Commissione europea, ha per certi versi circoscritto, o quasi svuotato, il potere di nomina del Consiglio europeo. Già durante i dibattiti tra i candidati alla Presidenza della Commissione susseguitisi in campagna elettorale, tutti i candidati (a prescindere dal loro orientamento politico) hanno reso noto che il Parlamento europeo avrebbe rigettato un qualunque candidato proposto dal Consiglio europeo che non fosse quello che, all'interno della rosa degli Spitzenkandidaten, avesse ottenuto più consensi. In tal modo, il Parlamento europeo sembrerebbe aver usato in modo “aspro” il proprio potere di veto nell'approvare il candidato alla Presidenza della Commissione, che è quasi sconfinato nel potere di proposta riservato al Consiglio europeo. Il fatto che quest'ultimo sia tenuto a tener conto delle elezioni europee nel proporre un candidato, obbliga il Consiglio a consultare il Parlamento europeo affinché sia scelta una personalità in grado di raccogliere la necessaria maggioranza in Parlamento, ma non necessariamente obbliga il Consiglio a proporre il candidato designato dalla famiglia politica europea che abbia ottenuto più voti. 9 Del resto, lo stesso Trattato richiede che il Presidente raccolga in Parlamento consensi pari alla maggioranza dei suoi componenti e non ad una semplice maggioranza relativa, che è invece quella ottenuta dal partito popolare europeo e dal suo candidato Juncker. Oltre ad un potenziale svuotamento del potere di nomina riservato al Consiglio europeo, la prassi di individuare in anticipo gli Spitzenkandidaten sembrerebbe anche 7 Risoluzione del Parlamento europeo del 22 novembre 2012 sulle elezioni del Parlamento europeo 2014, disponibile al seguente sito: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-%2f%2fEP%2f%2fTEXT%2bTA%2bP7-TA2012-0462%2b0%2bDOC%2bXML%2bV0%2f%2fIT&language=IT 8 La maggioranza del Partito Socialista europeo ha accettato l'autocandidatura di Martin Schulz, la Sinistra Unitaria europea quella di Alexis Tsipras, i verdi hanno scelto José Bové e Ska Keller, i liberali hanno scelto Guy Verhofstadt ed il Partito Popolare europeo ha indicato a Jean-Claude Juncker (nonostante la maggioranza dei congressisti si sia astenuta e parte del partito ha espresso la propria preferenza per Michel Barnier). 9 Per rendere ancor più stringente il legame tra gli esiti delle elezioni europee e la nomina del Presidente della Commissione, durante la Convenzione europea alcuni membri proposero un emendamento al testo che invitava il Consiglio europeo a “tener conto dei risultati delle elezioni europee” e non, genericamente a “tener conto delle elezioni europee” (si veda il Doc. CONV. 709/03 del 29 maggio 2003, p. 26, disponibile sul sito http://europeanconvention.europa.eu/pdf/reg/en/03/cv00/cv00709.en03.pdf). E' sintomatico che vi sia, in tal senso, una discrepanza tra le diverse versioni linguistiche del Trattato di Lisbona. A differenza della versione italiana e inglese del Trattato, ad esempio, la versione spagnola contiene un riferimento ai “risultati” delle elezioni, così come proposto in sede di Convenzione dal Ministro degli Esteri spagnolo Ana Palacio.


essere lesiva del principio di leale collaborazione, cui i rapporti infra-istituzionali dovrebbero essere improntati.10 Nell'implementare le novità introdotte dal Trattato di Lisbona si sarebbe dovuto tener conto della Dichiarazione n. 11 allegata al Trattato e dedicata proprio all'articolo 17.7 TUE. Tale dichiarazione prevede che “il Parlamento europeo e il Consiglio europeo siano congiuntamente responsabili del buono svolgimento del processo che porta all'elezione del presidente della Commissione europea. Pertanto, rappresentanti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo procederanno, preliminarmente alla decisione del Consiglio europeo, alle consultazioni necessarie nel quadro ritenuto più appropriato. Conformemente all'articolo 17, paragrafo 7, primo comma tali consultazioni riguarderanno il profilo dei candidati alla carica di presidente della Commissione, tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo. Le modalità di tali consultazioni potranno essere precisate, a tempo debito, di comune accordo tra il Parlamento europeo e il Consiglio europeo". Questi suggerimenti sembrerebbero esser stati disattesi dalla prassi istituzionale descritta. La precisazione delle modalità attraverso le quali Consiglio e Parlamento avrebbero dovuto consultarsi sul profilo più idoneo alla carica di Presidente della Commissione non è avvenuta in quanto il Parlamento ha non solo giocato d'anticipo con la designazione degli Spitzenkandidaten, ma ha preso una posizione abbastanza netta all'indomani del voto, ritenendo un affronto alla democrazia in Europa la designazione di un qualunque altro candidato che si non corrispondesse al leader indicato dal primo partito in base all'esito delle urne. 11 Il altri termini, la consultazione post-elettorale tra le due istituzioni, che pure la Dichiarazione n. 11 prevedeva, è stata resa quasi superflua, o meglio scontata negli esiti, in seguito all'irrigidimento delle posizioni, anche pre-elettorali, del Parlamento europeo. Tale tempistica sembrerebbe aver realizzato, de facto, una delle proposte avanzate durante la Convenzione europea, ma poi non confluite né nel testo definitivo della Costituzione europea, né nel Trattato di Lisbona. E' interessante notare che alcuni membri del Parlamento, tra cui Andrew Duff, proposero di investire il Parlamento europeo del potere di scegliere il candidato alla Presidenza, lasciando al Consiglio europeo la facoltà di eleggerlo a maggioranza qualificata 12, quasi invertendo le funzioni attualmente attribuite alle due istituzioni dal Trattato di Lisbona. 3. Verso una forma di governo parlamentare europea? I limiti del mimetismo istituzionale Oltre ad aver inasprito il conflitto infra-istituzionale tra Parlamento europeo e Consiglio europeo, la designazione dei candidati ad opera delle famiglie politiche europee presenta risvolti problematici anche perché ingenera nell'opinione pubblica la sensazione, in realtà ingannevole, che nell'Unione europea si stia delineando una sorta di forma di governo 10 Ai sensi dell'articolo 13.2 TUE “Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità da essi previste. Le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione”. 11 Il Parlamento è stato per certi versi sostenuto anche da un analogo appello di molti intellettuali, intitolato “Europe's Democratic Moment” e lanciato da Stefan Collignon, Simon Hix, e Clause Offe. L'appello, che inquadra nel Parlamento europeo il custode della volontà dei cittadini dell'Unione, chiedeva espressamente al Consiglio europeo di designare Jean-Claude Juncker alla carica di Presidente della Commissione. Esso criticava espressamente la posizione del Consiglio europeo, che, nel chiedere al proprio presidente Van-Rompuy di effettuare le opportune consultazioni, aveva per certi versi rinviato la decisione, a differenza del Parlamento che aveva espresso una posizione chiara su Juncker immediatamente dopo il voto ed in modo quasi compatto (con cinque gruppi parlamentari su sette). 12 Doc. CONV 709/03, 9 maggio 2003, p. 26.


parlamentare, nella quale l' “esecutivo” comunitario, o quanto meno il suo Presidente, sia una promanazione del Parlamento che la “elegge”. Se è innegabile che il Trattato di Lisbona ha voluto “parlamentarizzare” la procedura di nomina del Presidente della Commissione, è pur vero che le due anime dell'Unione europea (quella intergovernativa rappresentata dal Consiglio e dal Consiglio europeo e quella rappresentativa dei cittadini identificata nel Parlamento europeo) coabitano nella designazione del Presidente della Commissione. Le stesse due anime, del resto, coesistono anche nella formazione dell'intero Collegio, spettando al Consiglio il potere di adottare l'elenco dei membri della Commissione proposti dagli Stati membri, ma al Parlamento il potere di sottoporre collettivamente il Collegio ad un voto di approvazione (Art. 17.7 TUE). Dai lavori preparatori che hanno dato vita alla nuova formulazione dell'articolo 17.7 TUE, infatti, emerge che la soluzione ivi contemplata rappresentò un compromesso tra quanti avrebbero voluto una nomina presidenziale mero appannaggio delle dinamiche intergovernative e quanti, attraverso una fuga in avanti eccessivamente federalista, avrebbero voluto far sentire la voce dei cittadini europei attraverso l'elezione diretta del Presidente della Commissione. Oltre ad essere designato in seguito ad una concertazione tra il Parlamento europeo (che lo “elegge”) ed il Consiglio europeo (che lo “propone”), il Presidente della Commissione europea non è paragonabile ad un Presidente del Consiglio che rappresenta una determinata (e politicamente connotata) maggioranza parlamentare. E questo non soltanto per la natura relativamente limitata dei propri poteri 13, quanto per il fatto di essere a capo di un'istituzione che è, e non dovrebbe essere, espressione di una maggioranza parlamentare, la cui faziosità minerebbe alle fondamenta il ruolo imparziale di guardiana dei Trattati e custode dell'interesse generale dell'Unione storicamente riservato alla Commissione europea. 14 E' importante a mio avviso sottolineare che il Trattato di Lisbona non scalfisce in alcun modo la natura indipendente della Commissione, né la sua legittimità funzional-tecnocratica. Ai sensi dell'articolo 17.3 TUE, la Commissione “esercita le sue responsabilità in piena indipendenza”. Inoltre, “i membri della Commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”. Se, dunque, l'articolo 17 TUE si apre ribadendo che la Commissione “promuove l'interesse generale dell'Unione” (art. 17.1 TUE), sarebbe fuorviante immaginare che l' “elezione” del Presidente della Commissione da parte di una maggioranza parlamentare (pur prevista dallo stesso articolo 17 TUE) comporti una responsabilità dello stesso, o del collegio nel suo insieme, nei confronti di una determinata famiglia politica europea, alla stregua di ciò che accade nei regimi caratterizzati da una forma di governo parlamentare. Non è un caso, infatti, che un rapporto rilasciato dal Bureau of European Policy advisors ha messo in guardia da un potenziale rischio di “politicizzazione” della Commissione insito nel tentativo di vincolare la scelta del Presidente della Commissione ai risultati delle elezioni del Parlamento europeo. L' “institutional accountability” nei confronti del Parlamento europeo, non dovrebbe in alcun modo essere confusa con la “political responsiveness” nei 13Ai sensi dell'articolo 17.6 TUE il Presidente della Commissione definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti; decide l'organizzazione interna della Commissione per assicurare la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione; nomina i vicepresidenti, fatta eccezione per l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, tra i membri della Commissione. Ai sensi dell'articolo 17.7 TUE, inoltre, gli altri membri della Commissione sono scelti dal Consiglio di comune accordo con il Presidente eletto. 14 Le funzioni storicamente attribuite alla Commissione (che si trova sia a monte che a valle del processo legislativo) richiedono infatti indipendenza: il diritto di iniziativa fu concepito per controbilanciare le asimmetrie di potere tra Stati membri e il ruolo di guardiana dei trattati fu concepito per fare in modo che gli Stati applicassero il diritto dell'Unione, svincolandosi dal principio di reciprocità che caratterizza il diritto internazionale.


confronti di una maggioranza parlamentare, in quanto questo potrebbe minare la legittimazione della Commissione, fortemente incentrata su argomentazioni nonmaggioritarie, che esaltano la neutralità e la funzionalità dei meccanismi non elettivi. 15 La garanzia di imparzialità e di indipendenza sarebbe ancor più un dato da preservare qualora venissero incrementati i poteri della Commissione in aree cruciali per la sovranità statale.16 In sintesi, questa sorta di “mimetismo istituzionale” 17 che tramite l'elezione del Presidente della Commissione in Parlamento sembrerebbe fare del primo un’“emanazione permanente” del secondo tipica della forma di governo parlamentare 18, unita alla prassi degli Spietzcandidaten che sembra rievocare il “cancellierato” tedesco 19, contribuisce a fornire una rappresentazione parzialmente ingannevole della realtà istituzionale. L'articolo 17.7 TUE non consegna all'Unione europea una sorta di parlamentarismo che attribuisce particolare risalto al ruolo del capo del Governo. Il nesso, pur importante, tra gli esiti delle elezioni europee e la nomina del Presidente della Commissione, non colora politicamente un Collegio sulla cui composizione il Presidente incide solo relativamente, muovendo dagli Stati membri le proposte per la nomina degli altri membri della Commissione. Cosa ancor più importante, il Presidente della Commissione, a capo di un'istituzione nata per essere indipendente, non godrà in Parlamento di una maggioranza (espressione di un orientamento politico ben definito) che si aggrega intorno ad un determinato indirizzo politico.20 La prassi successiva al voto, difatti, problematizza eventuali analogie con la forma di governo parlamentare. In primo luogo, infatti, le dinamiche che hanno preceduto la designazione del popolare Jean Claude Juncker in seno al Consiglio europeo, hanno visto il leader dei popolari sostenuto, paradossalmente e quasi unanimemente, dai leaders 15 La delega alle istituzioni non maggioritarie viene giustificata in base alla logica dei “credible commitments”, secondo cui solo un’istituzione terza ed imparziale riesce ad assicurare la credibilità degli impegni previamente sottoscritti tra le parti; viene giustificata in base alla possibilità di svincolare le cosiddette regulatory policies dal consenso elettorale, alla riduzione di costi di transazione nell’affidare ad esperti la gestione di alcune politiche dotate di un certo grado di complessità, alla potenziale neutralità degli esperti rispetto ad organi elettivi spesso rappresentativi di una particolare maggioranza politica, all’expertise come garanzia di efficienza nella produzione di outputs desiderabili. Si veda, in tal senso, A. Moravcsik, ‘In Defense of the ‘Democratic Deficit’: Reassessing Legitimacy in the European Union’, in Journal of Common Market Studies, 40, 2002. Per una recente critica alla delega alle istituzioni non maggioritarie si rinvia a R. Bellamy, D. Castiglione, Democracy by Delegation. Who Represents Whom an How in European Governance, “Government and Opposition”, Vol. 46, n.1, 2011, pp. 101125. 16 E. Best and S. Lange, European Elections and questions of legitimacy. Bepa Monthly Brief, May 2014. Nello stesso report si legge che non sarebbe visto di buon occhio uno sbilanciamento della Commissione verso opzioni politiche più vicine al colore di alcuni governi di alcuni stati membri. 17 L'espressione è stata usata da Paul Magnette per indicare un accostamento tra parlamentarismo e democrazia incapace di svincolare la demcocratizzazione del sistema europeo dagli standards derivati dalle esperienze democratiche degli Stati nazionali, sui quali si veda anche G. Majone, Europe's “Democratic Deficit”: The Question of Standards, in European Law Journal, 4, n. 1, 1998. 18 “La forma di governo parlamentare si caratterizza per l'esistenza di un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento: il primo costituisce emanazione permanente del secondo, il quale può costringerlo alle dimissioni votandogli contro la sfiducia”. Così R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, 2011, p. 134. 19 La prassi inaugurata dal Parlamento presenta notevoli similitudini con la forma di governo parlamentare a forte razionalizzazione offerta dalla Costituzione tedesca del 1949, secondo cui il Cancelliere federale viene proposto dal Presidente federale per poi essere eletto dalla Camera politica (il Bundestag) a maggioranza dei suoi membri. Se il candidato non ottiene questa maggioranza, la Camera può eleggere un altro Cancelliere nei quattordici giorni successivi (sul cancellierato tedesco v. R. Bin e G. Putruzzella, op. cit., p. 135).


di governo socialisti, e fortemente osteggiato da molti dei leaders che invece ne condividono l'orientamento politico. 21 In secondo luogo, non avendo il partito popolare, benché primo partito, una maggioranza necessaria ad eleggere il Presidente della Commissione, Jean Claude Juncker ha necessariamente aperto ad altri partiti politici, tra cui socialisti e liberali, ciascuno con le proprie rivendicazioni, per ottenere l'appoggio di almeno 376 euro-parlamentari su 751. E' evidente che questa ampia compagine a sostegno del Presidente sarà riflessa in un programma non fortemente caratterizzato dal punto di vista politico. In terzo luogo, sia nelle dinamiche pre-elettorali che post-elettorali è stato chiaro che il cleavage istituzionale (e dunque l'opposizione Parlamento europeo vs. Consiglio europeo) ha prevalso sul cleavage politico, che si è stemperato nel momento in cui 5 famiglie politiche su sette, a partire dal Partito socialista europeo che ne era il principale competitor, si sono aggregate intorno al popolare Juncker, che pure aveva raggiunto una semplice maggioranza relativa, affinché potesse essere sostenuto in modo coeso dal Parlamento europeo contro eventuali tentennamenti del Consiglio europeo. In sintesi, in un Parlamento europeo sempre caratterizzato dalle logiche compromissorioconsensuali tra le varie forze politiche europee, si è innestata una fuorviante prassi tipica, al contrario, del “parlamentarismo maggioritario”. 22 4. Considerazioni conclusive La scelta dei partiti politici europei di nominare i candidati alla presidenza della Commissione è stata dettata da una serie di considerazioni, tutte ascrivibili alla volontà di avvicinare il cittadino all'Unione europea, spesso percepita come una distante tecnocrazia. In primo luogo, il Parlamento ha cercato di porre un freno alla scarsa affluenza al voto per le elezioni europee, in costante calo a partire dalla prima elezione a suffragio universale diretto del 1979 (che portò al voto il 90 per cento degli europei) sino ad arrivare al minimo storico raggiunto nelle scorse elezioni del 2009 (che hanno portato al voto il 43 per cento degli europei). In secondo luogo, l'esortazione ai candidati alla Presidenza a presentare personalmente il loro programma in tutti gli Stati membri dell'Unione, avrebbe dovuto stimolare un dibattito pan-europeo, attraverso una campagna elettorale incentrata su temi squisitamente europei e non sull'aggregazione, spesso dissonante, dei diversi dibattiti nazionali. In terzo luogo, come si legge nella risoluzione del novembre 2012, la scelta avrebbe potuto “rafforzare la legittimità politica sia del Parlamento che della Commissione instaurando un collegamento più diretto tra le rispettive elezioni e la scelta dei votanti”. Ad elezioni europee concluse è possibile svolgere qualche breve considerazione 20E' noto, invece, che nella forma di governo italiana il rapporto di fiducia si sostanzia in un legame tra il Governo e la “maggioranza politica” e non tra il Governo e l'intero Parlamento. Come è stato osservato, la nostra Costituzione, “imponendo la motivazione della mozione di fiducia, richiede che il Governo trovi non tanto un generico sostegno parlamentare, quanto l'accordo con qella parte di Parlamento che si impegna a realizzare un indirizzo politico definito”, (R. Bin e G. Putruzzella, op. cit., p. 165). 21Il Consiglio europeo ha proceduto ad una votazione formale che ha visto l'opposizione formale di Regno Unito e Ungheria alla designazione di Jean-Claude Juncker, che aveva bisogno della maggioranza qualificata ai sensi del Trattato. 22 Non è infatti nei sistemi a parlamentarismo compromissorio, ma nei sistemi a parlamentarismo maggioritario caratterizzati dalla presenta di un sistema politico bipolare, che l'elettore, pur non votando formalmente per il Primo ministro, ma per i candidati al Parlamento nel suo collegio elettorale, riesce ad esprimere la sua preferenza per la persona che dovrà assumere la carica di Primo ministro. Ciò in quanto ciascun partito si presenta alla competizione elettorale con un leader che in caso di vittoria della coalizione assumerà la carica di Primo ministro. Sulle differenze tra parlamentarismo maggioritario (o a prevalenza di Governo) e parlamentarismo compromissorio (o a prevalenza del Parlamento) si vedano R. Bin e G. Pitruzzella, op. cit., pp. 136-138.


per capire se, e quanto, il sistema degli Spitzenkandidaten abbia sortito gli effetti sperati. Con riferimento al possibile valore aggiunto che la personalizzazione della campagna elettorale avrebbe potuto fornire all'affluenza al voto, nonostante le prime stime marcassero un incremento percentuale dello 0,99 per cento rispetto al 43 per cento delle elezioni del 2009, i dati definitivi consegnano un’affluenza in calo, che ha visto la partecipazione al voto assestarsi al 42.54 per cento. 23 Pertanto, anche se la previa indicazione dei candidati alla Presidenza della Commissione ha consegnato agli elettori l'immagine di un Parlamento europeo più forte, dotato di un nuovo e sostanziale potere di “eleggere” il leader dell'esecutivo comunitario, nemmeno con le elezioni del 2014 si è riusciti a superare il paradosso secondo il quale il coinvolgimento (sempre decrescente) dei cittadini nelle elezioni europee è inversamente proporzionale ai poteri (sempre crescenti) attribuiti al Parlamento europeo nel corso della storia istituzionale dell'Unione europea.24 Va anche ricordato, inoltre, che se l'obiettivo dell'affluenza al voto era strettamente connesso a quello dell'avvicinamento del cittadino all'Unione europea, nelle elezioni del 2014 molti cittadini euroscettici hanno votato contro l'Europa, consegnando un “Parlamento (un po' meno) europeo” che ha istituzionalizzato il fronte degli “euro-ostili”, prospettando un'alleanza parlamentare tra i gruppi di opposizione “istituzionale”, pur di diversa matrice ideologica.25 Per quanto riguarda il contributo che il sistema degli Spietzcandidaten avrebbe dovuto dare ad un dibattito pubblico squisitamente europeo, la campagna elettorale è sembrata, invece, ancorata ad una configurazione squisitamente nazionale dello spazio pubblico. Sintomatica, in tal senso, la Dichiarazione del Presidente della Commissione Barroso all'indomani del voto di maggio, nella quale si evidenzia che i risultati delle elezioni europee differiscono in modo significativo da Stato a Stato, invitando i leaders europei e nazionali a riflettere sulle proprie responsabilità in merito ad una continua (e deprecabile) commistione tra il dibattito politico pan-europeo e le specificità delle singole agende nazionali.26 Anche uno studio comparato sui dibattiti che hanno accompagnato le elezioni europee del 2014 in molti paesi membri dell'Unione, dimostra che la visibilità dei candidati alla Presidenza è stata molto limitata e che i temi sul futuro dell'Unione europea sono stati canalizzati nel dibattito domestico soltanto laddove funzionali al sostegno di determinate candidature nazionali. Inoltre, l' Unione europea ha intercettato il dibattito nazionale delineando un cleavage, e non solo nei paesi più colpiti dalla crisi economicofinanziaria, tra sostenitori e detrattori dell'Unione europea. 27 Il dibattito su quanta Europa ha dunque, per certi versi, offuscato il dibattito su quale Europa, che avrebbe potuto essere potenzialmente trainato dalle diverse visioni di Europa incarnate dai rispettivi 23E' stato tuttavia osservato che nei paesi dove c'è stata forte visibilità dei candidati (come ad esempio la Germania), l'affluenza è aumentata in modo significativo. Così M. Incerti, Never mind the Spitzenkandidaten: It is all about politics, CEPS Commentary, 6 June 2014. 24Come nota J.H.H. Weiler, c'è una sorta di “ironic parallel” secondo il quale più crescono i poteri del Parlamento europeo, più aumenta l'indifferenza dei cittadini nei confronti della stessa istituzione, in European Parliament Elections 2014: Europe's Fateful Choices, editoriale del Vol. 24, n. 3 dell'European Journal of International Law, p. 247. 25A. Manzella, Prima lettura di un Parlamento (un po' meno) europeo, in www.federalismi.it (28 maggio 2014). 26 European Commission, Statement/14/171, Statement of the President Barroso on the outcome of the 2014 European Parliament elections (Brussels, 26 May 2014). "The outcomes differ significantly between Member States. These differences reflect our Union's mix of a pan-European political debate with specific national agendas. As a consequence, all political leaders at national and European level must reflect on their responsibilities following this election".


candidati alla Presidenza della Commissione. Quanto, infine, all'ultimo degli effetti che l'indicazione degli aspiranti candidati alla presidenza della Commissione avrebbe potuto sortire, ossia un rafforzamento della legittimità politica sia del Parlamento che della Commissione è possibile che le nuove modalità di “elezione” del Presidente della Commissione dotino la Commissione di una maggiore legittimazione democratica che la rafforzi nelle dinamiche infra-istituzionali. Nel proprio discorso al Parlamento il 15 luglio Jean-Claude Juncker ha dichiarato di non voler essere, da Presidente della Commissione, “né il segretario del Consiglio né l'aiutante di campo del Parlamento”. E' tuttavia il Parlamento europeo il vero vincitore della prassi istituzionale che ha implementato le novità di cui all'articolo 17.7 TEU. Il Parlamento ha infatti utilizzato il potere (legittimo) di “eleggere” il Presidente della Commissione europea (con obbligo del Consiglio europeo di proporre un nuovo candidato in caso di rifiuto da parte del Parlamento) per “sconfinare” nel potere di proposta che i trattati riservano al Consiglio europeo, anche per la tempistica prescelta28. Il sistema degli Spietzcandidaten ha, di fatto, ridotto i margini di manovra del Consiglio europeo la cui scelta è stata, per certi versi, quasi “obbligata”. Non è un caso che nelle Conclusioni del Consiglio europeo del 26 e del 27 giugno, che ufficialmente designano Juncker, non vi è alcuna menzione (quasi a volerlo delegittimare) del sistema degli Spietzcandidaten. Vi è, anzi, la volontà di discostarsene o quanto meno di mettere a punto, pro futuro, le modalità attraverso le quali designare il Presidente della Commissione europea nel rispetto dei trattati 29. In conclusione, quest'analisi sulla novità introdotte dal Trattato di Lisbona in merito alla designazione del Presidente della Commissione e sulla prassi che ne è scaturita, dimostrano che una battaglia concepita e condotta in nome della democrazia, si è in realtà rivelata un regolamento di conti sul peso specifico di ciascuna istituzione. Il Parlamento europeo ha sicuramente fatto tesoro della “svolta rappresentativa” voluta dal Trattato, quasi strumentalizzandola a proprio vantaggio nel conflitto inter-istituzionale con il Consiglio europeo. Volgendo, invece, lo sguardo al cittadino, le novità procedurali volute dal Trattato hanno per certi versi disatteso le aspettative in merito ad un potenziale incremento dell'affluenza al voto. E' possibile dunque concludere che il mimetismo istituzionale che ha provato a collegare la nomina del Presidente dell'“esecutivo” comunitario alle elezioni del Parlamento europeo, alla stregua di quanto accade nella forma di governo parlamentare, ha sicuramente rafforzato l'accountability istituzionale della Commissione di fronte all'assemblea rappresentativa, superando il “deficit parlamentare” dell'Unione europea. Lo stesso mimetismo, tuttavia, non è riuscito a creare un legame di “political responsiveness” dell'esecutivo comunitario nei confronti di una determinata maggioranza parlamentare, lasciando persistere il “deficit politico”, inteso come incapacità del cittadino di tramutare il proprio voto in un policy output che abbia una determinata connotazione politica. 30 Pertanto, volendo concepire la legittimità come un 27 S. Piedrafita and A. Lauenroth (eds), Between Apathy and Anger Challenges to the Unione from the 2014 Elections to the EP in Member States, EPIN Paper No. 39/May 2014. Questo è accaduto specialmente in Francia, Grecia, Italia, Olanda e Regno Unito.

28 Mentre il consenso elettorale del Parlamento dovrebbe essere successivo alla designazione del candidato da parte del Consiglio europeo, a sua volta succesiva alle elezioni, la designazione dei candidati da parte del Parlamento europeo ed i relativi moniti al Consiglio ad attenervisi hanno invece scandito la fase pre-elettorale. 29 Al punto 27 delle Conclusioni, si legge: “Once the new European Commission is effectively in place, the European Council will consider the process for the appointment of the President of the European Commission for the future, respecting the European Treaties”, European Council Conclusions, EUCO 79/14, Brussels, 27 June 2014. 30 E' proprio questa incapacità che è stata più volte additata come causa della disaffezione dei cittadini alle elezioni europee e come causa del “deficit politico”, espressione coniata da Renaud Dehousse e recentemente ripresa da


“claim made by the rulers”, l'analisi sin qui condotta tratteggia una storia di successo, in cui la prossima Commissione europea potrebbe uscire rafforzata dalla forte legittimazione parlamentare. Se, invece, ci si aspetta che la legittimità sia un “belief held by subjects”31, persiste qualche ombra in merito alla possibilità che le novità introdotte dal Trattato di Lisbona possano superare la disaffezione dei cittadini europei nei confronti della tecnocrazia di Bruxelles. ** Ricercatrice a tempo determinato in Istituzioni di diritto pubblico (Università telematica Pegaso) e Post-doctoral Research and Teaching Fellow in European and Constitutional Law (Durham Law School).

J.H.H.Weiler, op. cit. 31 La distinzione è attribuibile a E. Barker, Political Legitimacy and the State, Clarendon Press, Oxford, p.202.


Avvisaglie di un nuovo “maccartismo”: il caso Mehanna e l’evoluzione (o involuzione?) della dottrina sulla libertà di espressione negli Stati Uniti * di Matteo Monti ** (15 ottobre 2014) Lunedì 6 ottobre la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America 1 ha negato il writ of certiorari a Tarek Mehanna, cittadino americano condannato in base al disposto del 18 U.S. Code §§ 2339A - 2339B2, che sanziona il supporto materiale a determinate organizzazioni terroristiche, ricomprese in un apposito elenco del Dipartimento di Stato 3, per aver fornito political advocacy al movimento terroristico Al-Qaeda. La disciplina normativa prevede infatti l’integrazione del reato di material support alle FTO (Foreign Terrorist Organizations), anche mediante i meri discorsi politici (political advocacy) che siano posti in essere da membro del gruppo terroristico o da soggetto in coordination con lo stesso. Lo statuto tende quindi a criminalizzare determinate forme di hate speech4, ponendosi in contrasto con la tradizione democratica americana che tutela anche i discorsi odiosi politici filo-terroristici5. L’ordinamento statunitense ha infatti fornito una singolare risposta alla limitazione dell’hate speech nel proprio sistema giuridico, in ossequio alla preferred position garantita dal Primo Emendamento alla libertà di pensiero: il discorso politico, anche odioso 6, trova il suo fondamento nel contributo che può fornire al marketplace of ideas, ossia l’arena pubblica dove tutti i cittadini possono, attraverso il public discourse7, espressione della selfgovernance, plasmare l’immagine della società e dello Stato. La base teorico-concettuale * Scritto sottoposto a referee. 1 http://www.supremecourt.gov/orders/courtorders/100614zor.pdf

2 La storia legislativa di questa disciplina normativa ha radici antiche, in quanto la norma nasce con il TWEA ( Trading with the Enemy Act) nel 1917 per contrastare il commercio con i paesi belligeranti e subisce successive e numerose modifiche nel corso di tutta la storia recente statunitense. Nel 1994, dopo il primo attacco al World Trade Center, viene formulato il § 2339 A e, a seguito della recrudescenza del terrorismo islamico, nel 1996 si aggiunge il § 2339 B. Ulteriori modifiche ai predetti paragrafi sono poi apportate dal Patriot Act nel 2001 e dall’ Intelligence Reform and Terrorist Protection Act (IRTPA) del 2004. Cfr. CHESNEY, ROBERT M., «The Sleeper Scenario: Terrorism-Support Laws and the Demands of Prevention», Harvard Journal on Legislation 42 (2005), pp. 1-89.

3 Cfr. BUREAU

OF COUNTERTERRORISM. «Foreign Terrorist Organizations». http://www.state.gov/j/ct/rls/other/des/123085.htm.

U.S. Department of State.

4« (..) discorso che esprime odio o intolleranza di altri gruppi sociali». Oxford English Dictionary, http://dictionary.oed.com/cgi/entry/50103052.

5 «The American view is, by definition, in tension with the idea of prohibiting speech - even if it provides support to terrorism - if the prohibition is content-based». BARAK-EREZ, DAPHNE e SCHARIA, DAVID, «Freedom of Speech, Support for Terrorism, and the Challenge of Global Constitutional Law», Harvard National Security Journal 2 (2011), pp. 1-30, p. 14.

6«And our free speech, to adopt a term from ancient cynic philosophy, tends to express itself as "parrhesia" -as speech that is not just about the sober expression of opinions, but also about the free and aggressive display of disrespect». WHITMAN, JAMES Q., «Enforcing Civility and Respect: Three Societies», The Yale Law Journal 109 (2000), pp. 12791398, p. 1397.

7POST, ROBERT C., «The Constitutional Concept of Public Discourse: Outrageous Opinion, Democratic Deliberation, and Hustler Magazine v. Falwell», Harvard Law Review 103 (1990), pp. 601-686, p. 684.


che sottende questa idea è quella della ricerca della verità 8, o meglio, in termini meno assoluti, di una weltanschauung più adatta e confacente alla coscienza di un’epoca e del momento storico in cui si vive: «ogni conflitto provocato dalla realizzazione della libertà non può che essere apparente e temporaneo, in realtà foriero delle migliori soluzioni possibili per il sistema nel suo complesso»9. Un altro fondamento tradizionale, di carattere sociologico, della “libera espressione dell’odio”, da tenere presente, si ritrova nella safety-valve: il discorso odioso svolgerebbe una funzione catartica10 utile a scongiurare l’esplosione della rabbia sociale che potrebbe derivare dalla censura di un pensiero politico, soprattutto in relazione a quelle minoranze politiche o etnico religiose che non riescono a conseguire una vittoria elettorale nel circuito democratico11. La normativa in esame prevede una limitazione del free speech che si distacca dalla consolidata giurisprudenza in materia di hate speech, in quanto il sistema americano dopo la sentenza Brandenburg v. Ohio12 garantisce la diffusione di tutti i political speech, nei quali senz’altro può essere iscritto l’advocacy in favore di un’organizzazione terroristica, col solo limite del pericolo concreto così come costruito nella teoria dell’imminent lawless action test13, ultima “versione” giurisprudenziale del clear and present danger test holmesiano14. Nella decisione Holder v. Humanitarian Law Project 15 (Hlp) del 2010 la Corte Suprema aveva per la prima volta valutato la normativa del material support e riaffermato la costituzionalità dello Statuto in relazione al Primo Emendamento, in quanto la disciplina normativa in oggetto non sanzionava l’independent advocacy16, ossia il discorso posto in essere da soggetto non membro delle FTO, né agente in coordinamento con la stessa 17. 8 Cfr. VOLOKH, EUGENE, «In defense of the marketplace of ideas / search for truth as a theory of free speech protection», Virginia Law Review 97 (2011), pp. 595-601.

9 STRADELLA, ELETTRA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e "prassi", Torino, Giappichelli editore, 2008, p. 275.

10 EMERSON, THOMAS I., «Toward a General Theory of the First Amendment», The Yale Law Journal 72 (1963), pp. 877-956, p. 885.

11 GEY, STEVEN G., «The First Amendment and the dissemination of socially worthless untruths», Florida State University Law Review 36 (2008), pp. 1-22, p. 10.

12 Brandenburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969). 13 Si tratta in sintesi di un reato di pericolo concreto, che impone al giudice di valutare la volontà dell’incitamento / istigazione dello speaker, dell’imminente pericolo che ne derivino violenze o atti contra legem e dell’attenta valutazione del caso concreto.

14 Per un approfondimento sull’evoluzione giurisprudenziale del test si veda STRADELLA, ELETTRA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e "prassi", Torino, Giappichelli editore, 2008.

15 Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010). 16 «Independent advocacy that might be viewed as promoting the group’s legitimacy is not covered». Opinion of the Court, Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010).

17 «Congress has not, therefore, sought to suppress ideas or opinions in the form of “pure political speech.” Rather, Congress has prohibited “material support,” which most often does not take the form of speech at all. And when it does, the statute is carefully drawn to cover only a narrow category of speech to, under the direction of, or in coordination with foreign groups that the speaker knows to be terrorist organizations». Opinion of the Court, Holder v. Humanitarian


La Corte in tale decisione aveva accantonato completamente il test della Brandenburg 18, limitandosi a sancire la garanzia della libertà di pensiero politico nella sola forma dell’independent advocacy, legittimando negli altri casi la costruzione di un reato di pericolo astratto, i cui unici requisiti per l’integrazione sono la consapevolezza della natura terroristica di un’organizzazione e il vincolo associativo o il coordinamento con la stessa. Peraltro il caso di specie della sentenza Hlp non permetteva, secondo la Corte, un’attenta analisi della limitazione statutaria della libertà di espressione 19, in quanto esso riguardava soprattutto condotte non di mera espressione. La dottrina statunitense non aveva mancato di vedere nella decisione una forte deference della Corte verso le soluzioni legislative 20 - o perlomeno un certo pragmatismo 21 - teso alla salvaguardia degli interessi nazionali nella lotta al terrorismo. Proprio nell’apparente discrasia fra disciplina statutaria e libertà di espressione tutelata dal Primo Emendamento si colloca il recente caso giurisprudenziale Mehanna v. U.S.22. Il caso Mehanna ha suscitato un acceso dibattito all’interno della dottrina e della società americana23 in relazione alla possibilità di limitare l’ingresso al marketplace of ideas a discorsi politici correlati al fondamentalismo islamico. Malgrado la varietà di organizzazioni presenti all’interno della lista FTO risulta infatti palese, in relazione al numero di casi giurisprudenziali e alla ricostruzione post 11 settembre della disciplina del material support, che le organizzazioni terroristiche che si vogliono colpire sono quelle di matrice jihadista, che rappresentano la componente largamente maggioritaria all’interno della lista Law Project, 561 U.S. 1 (2010).

18 La dottrina statunitense aveva letto questo distacco dalla passata giurisprudenza come sinonimo di “errore” o unicità in senso negativo della decisione. Cfr. «This decision is thus the only non-overruled majority opinion upholding a content-based speech restriction under strict scrutiny». VOLOKH, EUGENE, Humanitarian Law Project and Strict Scrutiny. 21 Giugno 2010. http://www.volokh.com/2010/06/21/humanitarian-law-project-and-strict-scrutiny/. «Such dramatic departures from precedent suggest that the decision was wrongly decided». COLE, DAVID, «The First Amendment's Borders: The Place of Holder v. Humanitarian Law Project in First Amendment Doctrine», Harvard Law & Policy Review 6 (2012), pp. 147-177, p. 176.

19 «Even assuming that a heightened standard applies because the material support statute potentially implicates speech, the statutory terms are not vague as applied to plaintiffs». Opinion of the Court, Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010).

20COLE, DAVID, «The First Amendment's Borders: The Place of Holder v. Humanitarian Law Project in First Amendment Doctrine», Harvard Law & Policy Review 6 (2012), pp. 147-177, p. 158. ABEL, NIKOLAS, «United States vs. Mehanna, the First Amendment, and Material Support in the War on Terror», Boston College Law Review 54 (2013), pp. 711-750, p. 729. SMITH, BRANDON J., «Protecting Citizens and Their Speech: Balancing National Security and Free Speech When Prosecuting the Material Support of Terrorism», Loyola Law Review 59 (2013), pp. 89-125, p. 113. Cfr. MARGULIES, PETER, «Advising Terrorism: Material Support, Safe Harbors, and Freedom of Speech», Hastings Law Journal 63 (2012), pp. 455-519, p. 496.

21 ROSENTHAL, LAWRENCE, «First Amendment Investigations and the Inescapable Pragmatism of the Common Law of Free Speech», Indiana Law Journal 86 (2011), pp. 1-76, p. 71.

22 First Circuit. No. 12-1461. United States of America, Appellee, v. Tarek Mehanna, November 13, 2013. 23 Per comprendere come sia stata percepito il caso Mehanna si vedano alcuni articoli giornalistici ed editoriali. Fra i tanti: VENNOCHI, JOAN, «The Boston Globe», Opinion. 12 Aprile 2012. vhttp://www.bostonglobe.com/opinion/2012/04/19/tarek-mehanna-case-puts-first-amendment-trial-fear-trumps-libertyterror trial/5UwcZHgnSAifLeuBIio9sM/story.html. COLE, DAVID, «39 Ways to Limit Free Speech.» The New York Review of Books. 19 Aprile 2012. http://www.nybooks.com/blogs/nyrblog/2012/apr/19/39-ways-limit-free-speech/. GLENN, GREENWALD, The real criminals in the Tarek Mehanna case: An American Muslim punished for his political views delivers an extraordinary statement in court. http://www. salon.com/2012/04/13/the_real_criminals_in_the_tarek_mehanna_case/. 13Aprile2012.


FTO24. Nel caso Mehanna il Primo Circuito Federale ha applicato il test della Hlp, senz’alcuna valutazione del pericolo nel caso concreto e non considerando la passata giurisprudenza in materia di discorsi odiosi 25. Il 13 novembre 2013 la sentenza di appello ha confermato la condanna di primo grado dell’imputato per integrazione, fra i vari capi di imputazione, del reato di material support all’organizzazione FTO Al-Qaeda mediante political advocacy. Il profilo propagandistico che integra il reato di material support concerne una serie di hate speech, integranti l’apologia di terrorismo, l’incitamento alla violenza contro i soldati statunitensi, i discorsi inneggianti alla jihad islamica e la glorificazione degli attentati dell’11 settembre e della figura di Osama Bin Laden. Tali discorsi, in teoria qualificabili come discorsi politici, avendo una matrice chiaramente politica che ne dovrebbe assicurare la protezione sotto il Primo Emendamento, sono stati diffusi attraverso la rete internet mediante interventi su un blog pro-jihad. Nello specifico le condotte che integrano il material support sono le attività di traduzione in inglese di materiale propagandistico alqaedista26 e l’invio del medesimo al sito internet at-Tibyan. Mentre nessun dubbio vi è sulla sussistenza dell’elemento psicologico 27, concernente la consapevolezza della natura terroristica di Al-Qaeda, in relazione al profilo del coordinamento «[m]eeting the HLP test was perhaps the prosecution’s biggest hurdle in Mehanna»28. Nel caso in esame si ricostruisce infatti una nozione di “coordinamento”, al fine dell’integrazione del reato di material support e dell’esclusione dell’independent advocacy, molto discutibile: nella specie si ritiene integrare il “coordinamento” il fatto, non interamente provato29, di un eventuale collegamento fra il sito at-Tibyan, su cui l’imputato 24 Le organizzazioni FTO di matrice islamica superano ben il 75% del totale di quelle iscritte nell’elenco. Cfr. BUREAU COUNTERTERRORISM. «Foreign Terrorist http://www.state.gov/j/ct/rls/other/des/123085.htm. OF

Organizations».

U.S.

Department

of

State.

25 Parte della dottrina ha legittimato l’eslcusione del test della Brandenburg per la particolarità del fenomeno del terrorismo internazionale: cfr. POCHON, CHRISTOPHER, «Applying the Holder Standard to Speech That Provides Material Support to Terrorism in United States V. Mehanna, No. 09-10017-GAO (D. MASS. 2012)», Harvard Journal of Law & Public Policy 36 (2013), pp. 375-389, p. 382. L’Aclu ha invece espresso rieserve sulla criminalizzazione del «rhetorical support, not material support», proprio in relazione alla precedente disciplina giurisprudenza sancita dalla Brandenburg, non rilevando un cambio giurisprudenziale nella Hlp. ABDO, ALEX e SEGAL, MATTHEW R., «Brief of amici curiae American Civil Liberties and American Civil Liberties Union of Massachussets, supporting Apellant and Reversal», ACLU, 2012, pp. 1-26, p. 5.

26 L’attività di traduzione riguardava nello specifico uno scritto intitolato “39 Ways to Serve and Participate in Jihad” del leader alqaedista Mohammad Bin Ahmad Al-Salem, ufficiale dell’ala propagandistica di Al-Qaeda, incitante alla jihad e al supporto dei gruppi terroristici, e un video, “Expedition of Humar Hadeed”, prodotto da Al-Qaeda in Iraq. «The second cluster of activities was translation-centric. In 2005, the defendant began to translate Arab-language materials into English and post his translations on a website — at-Tibyan — that comprised an online community for those sympathetic to al- Qa'ida and Salafi-Jihadi perspectives. Website members shared opinions, videos, texts, and kindred materials in online forums. At least some offerings that the defendant translated constituted al-Qa'ida-generated media and materials supportive of al-Qa'idaand/or jihad». First Circuit. No. 12-1461. United States of America, Appellee, v. Tarek Mehanna, November 13, 2013.

27 «In this case, the defendant does not dispute that al-Qa'ida was and is a foreign terrorist organization (FTO). Nor could he credibly do so». First Circuit. No. 12-1461. United States of America,. Appellee, v. Tarek Mehanna, November 13, 2013.

28 BROWN, GEORGE D, «Notes on a Terrorism Trial – Preventive Prosecution, “Material Support” and The Role of The Judge after United States v. Mehanna», Harvard National Security Journal 4 (2012), pp. 1-57, p. 13.

29 All’interno del processo gli esperti divergono sull’effettivo legame fra Al-Qaeda e il sito Tybian. Mehanna Trial Tr. (Dec. 14), 82-90.


“posta” le traduzioni, e Al-Qaeda, in quanto è accertato non risulti alcuna direttiva imposta da Al-Qaeda né alcun contatto diretto, come riconosciuto anche dall’accusa, fra l’imputato e l’organizzazione fondamentalista30. Va peraltro rilevato che l’impianto accusatorio del procuratore si basa soprattutto su una criptica e-mail 31 di richiesta di nuove traduzioni da parte di uno dei gestori del sito per conto di Al-Qaeda - secondo la ricostruzione accusatoria - a cui l’imputato tuttavia non ha né risposto né ottemperato, e sulla possibilità di individuare l’integrazione del coordinamento nella risposta alla call fatta da Al-Qaeda alla jihad digitale32. La Corte d’appello finisce quindi con l’accettare una definizione di “coordinamento” che non necessita di alcun contatto diretto dell’imputato con l’organizzazione FTO33, e che permette la compressione dell’independent advocacy, limitando ulteriormente l’hate speech jihadista. La dottrina34 nel caso in esame non ha mancato di sottolineare l’indeterminatezza nella disciplina del “coordinamento” e l’importanza di una sua chiara e rigorosa definizione per tutelare l’independent advocacy. Sembrano inoltre aver preso forma i timori espressi dal giudice Breyer nella dissenting opinion della Hlp, in cui il Justice prospettava la possibilità che l’indeterminatezza del termine “coordinamento” potesse essere foriera di interpretazioni restrittive dell’independent advocacy35. Nell’applicazione giurisprudenziale del test della Hlp fatta dal circuito federale risulta quindi disatteso quanto prospettato da parte della dottrina 36, che più ottimisticamente aveva letto la nuova disciplina giurisprudenziale del material support come garanzia dell’independent advocacy.

30 «(..) the defendant was not instructed by al-Qaeda to engage in all these activities». Tr. Dkt. 165 at 39:5-6. 31 «"The ikhwaan ['brotherhood'] from the cloud people are asking us if we can translate this msg from the al doctoor regarding curryland"». Traduzione del termine ikhwaan riportata da POCHON, CHRISTOPHER, «Applying the Holder Standard to Speech That Provides Material Support to Terrorism in United States V. Mehanna, No. 09-10017-GAO (D. MASS. 2012)», Harvard Journal of Law & Public Policy 36 (2013), pp. 375-389, p. 378.

32 Cfr. ABEL, NIKOLAS, «United States vs. Mehanna, the First Amendment, and Material Support in the War on Terror», Boston College Law Review 54 (2013), pp. 711-750, p. 734.

33 «The government asserted that an individual could transgress the bounds of independent advocacy and be convicted under the Material Support Statute without actually making direct contact with terrorists». ABEL, NIKOLAS, «United States vs. Mehanna, the First Amendment, and Material Support in the War on Terror», Boston College Law Review 54 (2013), pp. 711-750, p. 734.

34 ABEL, NIKOLAS, «United States vs. Mehanna, the First Amendment, and Material Support in the War on Terror», Boston College Law Review 54 (2013), pp. 711-750, p. 736. BROWN, GEORGE D, «Notes on a Terrorism Trial – Preventive Prosecution, “Material Support” and The Role of The Judge after United States v. Mehanna», Harvard National Security Journal 4 (2012), pp. 1-57, p. 23. Altra parte della dottrina ha evidenziato come la sentenza risulti conforme al test della Hlp e come non vi siano pericoli per il libero pensiero, sposando pienamnete la posizione dell’accusa. PYETRANKER, INNOKENTY, «Sharing Translations or Supporting Terror? An Analysis of Tarek Mehanna In The Aftermath of Holder v. Humanitarian Law Project», American University National Security Law Brief 2 (2012), pp. 21-41, p. 38. POCHON, CHRISTOPHER, «Applying the Holder Standard to Speech That Provides Material Support to Terrorism in United States V. Mehanna, No. 09-10017-GAO (D. MASS. 2012)», Harvard Journal of Law & Public Policy 36 (2013), pp. 375-389, p. 375.

35 «I am not aware of any form of words that might be used to describe “coordination” that would not, at a minimum, seriously chill not only the kind of activities the plaintiffs raise before us, but also the “independent advocacy” the Government purports to permit». Dissenting Opinion, Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010).

36 «Under the statute, an individual with a copy of the Hamas leader's speech could stand on a soapbox in the public square and praise the speech profusely». MARGULIES, PETER, «Advising Terrorism: Material Support, Safe Harbors, and Freedom of Speech», Hastings Law Journal 63 (2012), pp. 455-519, p. 502.


Nella petition of certiorari proposta il 17 marzo 2014 gli avvocati dell’imputato avevano richiesto alla Corte di riaffermare la tutela del free speech, garantendo una corretta interpretazione del termine coordinamento 37 che non risultasse così flessibile e ampia da impedire anche l’independent advocacy, ribadendo come il coordinamento non possa essere indiretto o mediato, ma debba sussistere un disegno logistico/strategico a cui il soggetto non associato partecipi, al fine della sua integrazione 38: si trattava di garantire la tutela almeno di quella ristretta forma di free speech che risulta dalla formulazione del nuovo test della Hlp, ossia il diritto del singolo individuo a partecipare con le sue idee, per quanto ripugnanti, al marketplace of ideas. Al contrario nel Brief del governo del 25 luglio 2014 si rivendica la natura di mero intermediario di Al-Qaeda del sito at-Tibyan 39 e si rileva come le opere di traduzione dell’imputato debbano ritenersi idonee a determinare un supporto materiale, poiché tale condotta esulerebbe dalla mera attività propagandistica politica 40. La quaestio tuttavia, come evidenziato nella Reply della difesa del 12 agosto 2014, concerne il fatto che la disciplina del coordinamento comprime un diritto fondamentale e in quanto tale necessita di una rigorosa e chiara formula applicativa, che non lasci margini di discrezionalità o arbitrarietà alle Corti inferiori 41. Nella Reply si rivendica inoltre la mancanza di conoscenza da parte dell’imputato della connessione, se sussistente, fra il sito at-Tibyan e Al-Qaeda, riaffermando la libera scelta dell’imputato di effettuare le traduzioni, non legata ad alcun tipo di richiesta42. Il caso Mehanna, vertendo sulla mera manifestazione del pensiero, si prestava dunque, come rilevato dalla petition of certiorari43, ad essere l’occasione che la Corte fin dalla sentenza Hlp attendeva per specificare i limiti del reato di material support in relazione al free speech.

37 «(..) the precise contours of the “coordination” standard cannot be understood by citizens in speaking, the government in prosecuting, judges in instructing, or juries in fact-finding». Petition for writ of certiorari, Tarek Mehanna v. United States of America, p. 9.

38 «(..) the question whether Mehanna’s speech was “coordinated,” without advising the jury that “coordination” should be found only in the FTO’s logistical direction of, or close collaborative interchanges with, the speaker». Petition for writ of certiorari, Tarek Mehanna v. United States of America, p. 10.

39 «Petitioner provides no basis for his suggestion (pet. 16) that knowing “coordination” with a terrorist organization cannot occur in the absence of direct contact between the defendant and the organization’s members. that suggestion conflicts with general principles of criminal law, which do not allow a defendant to escape liability by acting through an intermediary». Brief for the United States in opposition, no. 13-1125, p. 14.

40 «Regardless of whether translation might constitute political speech in the abstract, translation services performed at the request of a foreign terrorist organization in order to further its mission are not “independent advocacy” immunized from criminal prosecution by the first Amendment». Brief for the United States in opposition, no. 13-1125, p. 16.

41 «The flimsiness of the allegations on which the government's "coordination" theory is based high light that the "coordination" instruction did not "ac commodate" constitutional guarantees, Opp.7, and criminalized protected speech». Reply to brief in opposition, no. 13-1125, p. 5.

42 « The government offered no evidence that the remaining "large volume" of materials Petitioner translated were requested by anyone: he chose to translate them on his own. Pet. C.A.Reply.12-17». Reply to brief in opposition, no. 131125, p. 7.

43 «This case presents the “concrete fact situation” that this Court forecast in Humanitarian Law Project as necessary to differentiate between speech that is protected by the First Amendment, and speech that is properly criminalized by the material support statutes». Petition for writ of certiorari, Tarek Mehanna v. United States of America, p. 6.


La Corte Suprema ha tuttavia scelto di non occuparsi della questione, lasciando fondamentalmente mano libera, per ora, a interpretazioni ancora più restrittive del già restrittivo test della Hlp, suscettibili di comprimere la libertà di espressione di una determinata parte della popolazione statunitense, che viene esclusa dalla possibilità di accedere mediante il public discourse all’arena politica. La disciplina normativa infatti sta trovando ampia applicazione giurisprudenziale, malgrado la vaghezza delle linee guida 44, soprattutto in relazione al termine coordinamento 45. Con la decisione pilatesca di non intervento su un caso di rilevanza nazionale la Corte ha deciso di non dare quel segnale, atteso da parte della dottrina 46, di aderenza alla Costituzione e alla tutela della libertà posta alla base del sistema democratico americano, ossia della libertà di espressione politica, tollerando margini di discrezionalità e di arbitrarietà nella tutela delle libertà contenuta nel Primo Emendamento. Sembra dunque che l’ordinamento statunitense, rinnegando il suo passato, sia ripiombato in quel clima di intolleranza politica che, con i dovuti distinguo 47, aveva caratterizzato l’epoca maccartista e che è stato fortemente condannato da dottrina 48 e giurisprudenza49: peraltro, come evidenziato da un esempio di T. Healy, il disvalore della censura del pensiero jihadista non è percepito come lo è oggigiorno quello delle sentenze illiberali dell’epoca maccartista50. Esemplificativo in tal senso è il fatto che il giudice Scalia nella 44 «(..) the frequency with which this statute is used in the fight against terrorism is significant. The present lack of judicial guidance in this field will inevitably lead to confusion in lower courts. Prosecutors, aid groups, defense attorneys, and others will need the courts, or Congress, to articulate clearer guidelines». SMITH, BRANDON J., «Protecting Citizens and Their Speech: Balancing National Security and Free Speech When Prosecuting the Material Support of Terrorism», Loyola Law Review 59 (2013), pp. 89-125, p. 125. Cfr. ». CHESNEY, ROBERT M., «The Sleeper Scenario: Terrorism-Support Laws and the Demands of Prevention», Harvard Journal on Legislation 42 (2005), pp. 1-89, p. 20.

45 «Unfortunately, the Court’s formulations of what constitutes such a direct linkage vary in ways that pose problems for lower courts applying HLP». BROWN, GEORGE D, «Notes on a Terrorism Trial – Preventive Prosecution, “Material Support” and The Role of The Judge after United States v. Mehanna», Harvard National Security Journal 4 (2012), pp. 1-57, p. 21.

46 «However, this is likely not the end of litigation challenging section 2339B. The Court's fact-specific interpretation of the plaintiffs' arguments could permit future litigants to bring a challenge on slightly different facts». ZERWAS, KATHERINE R., «No Strict Scrutiny - The Court's Deferential Position on Material Support to Terrorism in Holder v. Humanitarian Law Project», William Mitchell Law Review 37 (2011), pp. 5337-5358, p. 5358.

47 «I do not mean to suggest that the Cold War and today’s war on terrorism are in all respects identical. History never repeats itself in that literal a sense. For one thing, fear of ideas played a much larger role in the Cold War. Our concerns today stem more from the fear of catastrophic violence made possible by weapons of mass destruction and an enemy that appears immune to deterrence». COLE, DAVID, «The New McCarthyism: Repeating History in the War on Terrorism», Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review 38 (2003), pp. 1-42, p. 3.

48 ABEL, NIKOLAS, «United States vs. Mehanna, the First Amendment, and Material Support in the War on Terror», Boston College Law Review 54 (2013), pp. 711-750, p. 717. LEWIS, ANTHONY, «Civil Liberties in a Time of Terror», Wisconsin Law Review, 2003, pp. 257-272, p. 266. BHAGWAT, ASHUTOSH, «Associational Speech», The Yale Law Journal 120 (2011), pp. 978-1030, p. 1005. COLE, DAVID, «The First Amendment's Borders: The Place of Holder v. Humanitarian Law Project in First Amendment Doctrine», Harvard Law & Policy Review 6 (2012), pp. 147-177, p. 147.

49 «Freedoms of speech and press do not permit a State to forbid advocacy of the use of force or of law violation except where such advocacy is directed to inciting or producing imminent lawless action and is likely to incite or produce such action. Whitney v. California,274 U. S. 357, overruled». Brandenburg v. Ohio, 395 U.S. 444 (1969).

50 «When I teach the First Amendment, most of my students agree that Schenck, Whitney, and Dennis were bad decisions motivated by fear and paranoia. But when I pose a hypothetical involving advocacy of terrorism, they


discussione orale della sentenza Hlp abbia sentito la necessità di sottolineare le differenze fra la disdicevole censura dell’ideologia comunista e la legittima censura della advocacy in favore di FTO51: è palese come il fondamentalismo jihadista non venga considerato da certa dottrina52 idoneo a dare un contributo al sistema democratico del marketplace of ideas e se ne rifiuti, talvolta, l’equiparazione ad un’idea politica. La situazione emergenziale e il war time53, come si rileva nella storia americana54, oltre al ricordo delle tragedie causate dal fanatismo jihadista, contribuiscono certamente a creare una percezione sociale che permette di derogare al regime della libertà di parola, favorendo l’esclusione dell’ideologia jihadista dal panorama politico 55. Non a caso il Procuratore nel caso Mehanna fa ampio utilizzo di argomenti e dichiarazioni dell’imputato che dimostrino l’adesione dello stesso a quella “becera e povera ideologia” che è il fondamentalismo islamico terrorista, tant’è che parte della dottrina statunitense non ha potuto non esprimere dubbi sulla sussistenza di un’eventuale crimine di sympathy per i terroristi56, che avrebbe anche implicitamente rafforzato la debolezza probatoria dell’impianto accusatorio57. Il clima giurisprudenziale e legislativo sembra dunque precostituire condizioni favorevoli 58 frequently change their tune». HEALY, THOMAS, «Brandenburg in a Time of Terror», Notre Dame Law Review 84 (2009), pp. 655-732, p. 729.

51 «I think it's very unrealistic to compare these terrorist organizations with the Communist Party. Those cases involved philosophy. The Communist Party (..) had some unlawful ends. It was also a philosophy I don't think that Hamas or any of these terrorist organizations represent such a philosophical organization». Transcript of Oral Argument at 20-22, HLP, 130 S. Ct. 2705 (No. 08-1498), http://www.supremecourt.gov/oral-arguments/argument-transcripts/081498.pdf.

52 «A further reason to doubt the impact of such a limitation on the marketplace of ideas and opinion is the low social value of radical Islamist rhetoric». POSNER, RICHARD A., Not a Suicide Pact: The Constitution in a Time of National Emergency. New York, OXFORD UNIVERSITY PRESS, 2006, p. 113.

53 Il governo Bush e la società americana hanno affrontato la lotta al terrorismo islamico internazionale come una vera e propria guerra. Cfr. HAFETZ, JONATHAN, «Stretching Precedent Beyond Recognition: The Misplaced Reliance on World War II Cases in the "War on Terror"», The Review of Litigation 28 (2008), pp. 365-379.

54 «The paradigmatic violation of the First Amendment is when the government punishes political dissent. In the more than 200 years of our history, virtually every instance in which the United States has directly punished political dissent has occurred during wartime. In peacetime, and in times of relative tranquility-which, by my definition, make up roughly 80 percent of our history-the United States has never punished political dissent». STONE, GEOFFREY R., «Civility and Dissent During Wartime», Humanrights, 2006, pp. 2-4, p. 4.

55 «After September 1 1 th, a large plurality of Americans immediately supported limitations on the right to free speech due to national security interests. The willingness of the American populace to sacrifice a certain amount of civil liberties is not unusual during a time of war or national emergency». PETRARO, NINA, «Harmful Speech and True Threats: Virginia v. Black and the First Amendment in an Age of Terrorism», St John's Journal of legal Commentary 20 (2006), pp. 531-563, p. 558.

56 «Still, it is hard not to wonder whether the mountain of evidence about Mehanna the person was de facto proof of a crime beyond those charged: that of being a terrorist sympathizer». BROWN, GEORGE D, «Notes on a Terrorism Trial – Preventive Prosecution, “Material Support” and The Role of The Judge after United States v. Mehanna», Harvard National Security Journal 4 (2012), pp. 1-57, p. 18.

57 BROWN, GEORGE D, «Notes on a Terrorism Trial – Preventive Prosecution, “Material Support” and The Role of The Judge after United States v. Mehanna», Harvard National Security Journal 4 (2012), pp. 1-57, p. 19.

58Alcuni hanno addirittura prospettato un «constitutional come back» della sentenza Schenck vd. COLLINS, RONALD K.L. e SKOVER, DAVID M., «What Is War: Reflections on Free Speech in Wartime», Rutgers Law Journal, 2005, pp. 833-860, p. 853. Altri l’hanno auspicato vd PANGILINAN, LIEZL IRENE, «When a Nation Is at War: A Context-Dependent Theory of Free Speech for the Regulation of Weapon Recipes», Cardozo Arts & Entertainment Law Journal 22 (2004),


alla riproposizione di un approccio analogo a quello già storicizzato del “maccartismo”, che comporta l'esclusione dal panorama politico di una specifica ideologia: allora il comunismo, oggi il fondamentalismo jihadista. Come rilevato da attenta dottrina59, nonché dal giudice Breyer nella dissenting opinion della Hlp60, il pericolo insito nel mero discorso, se pericolo v’è, sussiste tanto nel caso di independent advocacy quanto nel caso di advocacy “coordinata”. Proprio per questo le vie della censura di un pensiero politico potrebbero essere ripercorse attraverso una la limitazione “occulta” del discorso, mediante l’interpretazione estensiva del termine “coordinamento” e non, come in passato, con intervento diretto della Corte Suprema. Contrariamente a quanto avvenuto nel periodo della lotta all’ideologia comunista antecedente la seconda guerra mondiale e durante l’epoca maccartista la Corte sembra infatti non volersi “sporcare le mani” direttamente, lasciando il compito di reprimere determinate ideologie alle Corti federali attraverso l’indeterminatezza del dato normativo e, in particolare del termine “coordinamento”, consentendo una flessibile applicazione della legislazione anti-terrorismo del material support61. Vi è, in dottrina, anche chi ha proposto un’analisi sistemica della limitazione del discorso odioso filo-terrorista prospettando un cambio di valori costituzionali 62; questo può essere la più grande minaccia del terrorismo islamico: non le bombe, ma il rovesciamento dei valori fondanti la civiltà americana63. pp. 683-723, p. 723.

59 «I do not dispute the capacity of political advocacy to legitimate an organization and thus to enhance the danger of violence. My claim, rather, is that this risk of legitimation is never constitutionally sufficient to justify censorship. The First Amendment demands that the remedy be more speech, not censorship. If, however, this danger of legitimation is sufficient to justify censorship, as Roberts suggests, it is difficult to understand why it is not sufficient to justify the censorship of independent political advocacy, which also might legitimate the designated organization and its activities and set into motion a causal chain leading to violence. In terms of assessing or weighing the social danger arising from speech, there is no reason to distinguish between independent and coordinated political advocacy. Both present the same danger to society». FISS, OWEN, «The world we live in», Temple Law Review 83 (2011), pp. 295-308, p. 302.

60 «And, as for the Government’s willingness to distinguish independent advocacy from coordinated advocacy, the former is more likely, not less likely, to confer legitimacy than the latter. Thus, other things being equal, the distinction “coordination” makes is arbitrary in respect to furthering the statute’s purposes». Dissenting Opinion, Holder v. Humanitarian Law Project, 561 U.S. 1 (2010).

61 Potrebbe in questo rilevare la volontà della giurisprudenza di limitare l’applicazione stessa del Primo Emendamento, senza però farlo direttamente e esplicitamente, al fine di non creare uno scandalo nel paese che ha fatto della libertà di espressione uno dei pilastri della sua democrazia. Cfr. «The first thing to note is that there are at least two types of subterfuges frequently used in law. The most important, and in a way more clearly dishonest, kind of subterfuge is that designed to hide a fundamental value conflict, recognition of which would be too destructive for the particular society to accept. Dishonesty, whether chosen or thought a failure to look far enough into dark corners, is preferred because total candor is given less weight than the other values involved in the conflict, one of which would be undermined by honesty». CALABRESI, GUIDO, A Common Law for the Age of Statutes. Harvard University Press, 2009, p. 172.

62 «In the present context, one may argue - following Calabresi - that the American system tends to indirectly criminalize speech because it allows it to avoid facing the value conflict between the struggle against terrorism and the preservation of the open marketplace of ideas, and carries the message of resistance to the idea of limiting free speech on a large scale. However, this story may also have a more problematic side. Addressing a constitutional challenge without fully admitting it may also lead to a weak protection of rights». BARAK-EREZ, DAPHNE e SCHARIA, DAVID, «Freedom of Speech, Support for Terrorism, and the Challenge of Global Constitutional Law», Harvard National Security Journal 2 (2011), pp. 1-30, p.30.

63 «The extremists who perpetrated the attacks did not want to simply destroy American landmarks of industry and government, they wanted to destroy America as America, to demolish the foundations upon which American culture and freedom, and all they represent to the world, are built». WHITEHEAD, JOHN W. e SDEN, STEVEN H., «Forfeiting "enduring


«The great danger is that fear, intolerance, and repression will still dissent in time of war. War inexorably generates a climate of conformity and hysteria that are the preconditions for what Jefferson called "the reign of witches." This must be resisted, even if civility is the price»64 ** Allievo Ordinario di II livello della Scuola Superiore Sant’Anna

freedom" for "homeland security"': a constitutional analysis of the usa Patriot Act and the justice department's antiterrorism initiatives», American University Law Review, 2002, pp. 1081-1133, p. 1133.

64STONE, GEOFFREY R., «Civility and Dissent During Wartime», Humanrights, 2006, pp. 2-4, p. 4.


IL TFUE E LE NUOVE FONTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA. ATTI DELEGATI E ATTI DI ESECUZIONE A CONFRONTO * di Chiara Rivadossi ** (12 ottobre 2014) 1. LA

PROBLEMATICA CLASSIFICAZIONE DEGLI ATTI DI NATURA SECONDARIA ADOTTATI DALLA

COMMISSIONE EUROPEA.

CENNI INTRODUTTIVI.

L’ordinamento dell’Unione Europea si è da sempre caratterizzato per l’assenza al suo interno di un criterio formale di regolazione dei rapporti tra fonti 1, al punto che “da tempo ormai si avverte l’esigenza di provvedere ad una razionalizzazione del sistema, e di chiarire il funzionamento dei classici criteri della successione temporale, della specialità e della gerarchia, che sono correntemente applicati negli ordinamenti statali” 2. Se si tiene presente che, per ovvie ragioni di efficienza quali, per esempio, l’impossibilità di prevedere e regolamentare ogni situazione o la necessità di ricorrere ad esperti e tecnici in grado di meglio disciplinare nel dettaglio fattispecie complesse, “it is common in democratic statal systems for primary legislation to be complemented by *

Scritto sottoposto a referee. 1 Sul punto v. F. BASSAN, Regolazione e equilibrio istituzionale nell’Unione europea, in Rivista italiana di diritto pubblico, 2003, fasc.5, p.999, a parere del quale “(…) i Trattati originari non prevedevano una ripartizione gerarchica formale tra le fonti comunitarie se non quella fondata sulla distinzione tra diritto primario (dei Trattati, ordinati secondo un criterio di prevalenza) e diritto secondario (gli atti delle istituzioni). Per questi ultimi i Trattati prevedono non un ordine gerarchico formale che consenta di qualificarli come atti rispettivamente di secondo o di terzo grado, ma tutt’al più una gerarchia sostanziale, funzionale o basata sui contenuti”. V. anche E. CANNIZZARO, Gerarchia e competenza nel sistema delle fonti dell’Unione europea, in Il diritto dell’Unione europea, 2005, fasc.4, pp.652, ove, in riferimento al periodo anteriore all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, rileva che “l’ordinamento attuale dell’Unione è, come è noto, ispirato (…) alla frammentazione del sistema istituzionale e di quello normativo, conosce più categorie di fonti non ordinate secondo criteri gerarchici, più sistemi e micro-sistemi istituzionali, descritti solo sommariamente dalla nota struttura ordinamentale a pilastri. Esso è, per comune opinione, un sistema nel quale domina il criterio della competenza ed è pressoché assente quello della gerarchia”. Cfr. anche A. D’ATENA, L’anomalo assetto delle fonti comunitarie, in Il diritto dell’Unione europea, 2001, pp.591-604, A. TIZZANO, La gerarchia delle norme comunitarie, in Il diritto dell’Unione europea, 1996, pp.38-57. 2 E. CANNIZZARO, Il sistema della fonti dell’Unione nel nuovo trattato di Lisbona, in http://www.sudineuropa.net/articolo.asp?ID=316&IDNumero=31, p.1. Cfr. anche H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon: typology meets reality, in European Law Journal, vol.15, n.4, luglio 2009, p.483, che, a commento delle riforme dei Trattati succedutesi nel tempo, evidenzia che “one of the most important items on the agenda of reform was the simplification of the legal system by creating a new typology of legal acts of the EU. Such a reform has implications for many aspects of the legal and political system of the Eu, most notably the further development of the 6 institutional balance : at the European level. (…) A reform of the typology of acts also has implications for legitimacy of governing through influencing transparency and intelligibility of legal acts and decision-making mechanisms. It finally influences the distribution of power between the Member States and the EU ”. Infatti, prosegue lo stesso A., “for nearly as long as the EC has existed, has there been debate about the necessity of reclassification of the typology of E(E)C and EU legal acts and delegation of power”. V. anche R. BIN, G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, 2009, p.63, i quali rilevano che “l’Unione europea non conosce ancora un vero e proprio “sistema della fonti”: edificarlo sarebbe stata una delle ambizioni del Trattato costituzionale, fallito però in fase di ratifica da parte degli Stati membri. Tuttavia anche il Trattato di Lisbona, attualmente in fase di ratifica, apporta qualche miglioramento al quadro degli strumenti normativi comunitari, di cui da tempo si avverte l’inadeguatezza e l’eccessiva complessità”. Cfr. anche R. BIN, P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione europea, Bologna, 2008, p.192, a parere dei quali “già nella dichiarazione n.6 allegata al TUE si avvertiva l’esigenza di arrivare a una «più ordinata, efficace e razionale» sistemazione delle fonti europee, tanto è vero che in essa, in vista della Conferenza intergovernativa del 1996, si leggeva che quest’ultima avrebbe dovuto esaminare «in che misura sia possibile riconsiderare la classificazione degli atti comunitari per stabilire un’appropriata gerarchia tra le diverse categorie di norme»”.

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secondary norms which flesh out the principles contained in the enabling statute” 3, è facile intuire come l’incertezza circa “l’ordine delle fonti” abbia enfatizzato l’intrinseca difficoltà di identificare le peculiarità che permettono di distinguere tra gli atti espressione della funzione normativa primaria e gli atti espressione, invece, della funzione normativa secondaria4. Soprattutto se si considera che non sempre la funzione dell’atto d’esecuzione è relegata alla disciplina di elementi di dettaglio, meramente attuativi della normativa di principio contenuta nell’atto di base5. Il Trattato di Lisbona, richiamando quanto a suo tempo già previsto dallo sfortunato progetto di una Costituzione per l’Europa 6, ha influenzato tale specifico aspetto della struttura istituzionale europea, delineando con maggiore chiarezza 7 una gerarchia delle fonti derivate articolata su più livelli nella quale, per quanto qui interessa, si inseriscono le categorie degli atti di esecuzione e degli atti delegati, entrambi subordinati agli atti 3

P. CRAIG, The Lisbon Treaty. Law, politics, and Treaty reform, Oxford, 2010, p.48. Necessità riconosciuta anche dalla Corte di Giustizia, la quale ha rilevato che “tanto l’ordinamento legislativo del trattato, che si desume fra l’altro dall’articolo 155, ultimo trattino, quanto la prassi costante delle istituzioni comunitarie effettuano, in conformità alle concezioni giuridiche prevalenti in tutti gli Stati membri, una distinzione tra i provvedimenti fondati direttamente sul trattato e le disposizioni derivate, destinate all’attuazione dei primi. Non si può quindi pretendere che tutti i particolari dei regolamenti relativi alla politica agricola comune siano fìssati dal Consiglio (…)”, Corte di Giustizia, sentenza del 17.12.1970, Einfuhr-und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel v. Köster, causa C-25/70, par.6. Chiari sul punto anche S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, in European Law Journal, vol.18, n.3, maggio 2012, p.434, che registrano che “from the very beginning (1960), the Council, the only legislator at that time, lacked extensive, detailed knowledge and the technical and scientific expertise required for the implementation of legislative measures. It was also not possible for the Council to agree quickly and efficiently on all the technical requirements needed for every single piece of legislation because of workload limitation. Delegation to the Commission of the non-essential elements of legislation was seen as a solution to mitigate these problems”. V. anche P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU Law, text, cases, and materials, Oxford, 5°ed., 2011, p.134. Più di recente anche la Commissione ha ribadito che “qualunque forma di strumento giuridico si scelga, ci si deve avvalere in misura maggiore della legislazione “primaria”, che è limitata agli elementi essenziali (diritti e obblighi di base, condizioni operative) e lasciare al potere esecutivo la facoltà di aggiungervi i particolari tecnici mediante disposizioni “secondarie” di applicazione”, Libro bianco sulla Governance economica, COM(2001)428 def, 5.8.2001, p.20. 4 Più in generale, circa il collegamento tra la difficoltà di distinguere la natura dell’atto e l’assenza di un ordinato criterio di sistemazione delle fonti, S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, cit., p.447, rilevano che “the Treaty of Lisbon, contrary to the prior situation under the EC Treaty, introduced a hierarchy of legal norms. By doing so, the Treaty made a distinction between legislative and nonlegislative acts. Before the entry into force of the Treaty of Lisbon, it was a very difficult and time-consuming task, especially for the general public, to ascertain whether regulations, directives and decisions came from the EU legislative or executive power (…). The EU’s legal order has now been clarified with the introduction of a hierarchy of legal norms and citizens can now easily, in principle, differentiate between legislative and non legislative acts”. 5 Cfr. P. CRAIG, The Lisbon Treaty. Law, politics, and Treaty reform, cit., p.49, a parere del quale “secondary norms may address issue of principle or political choice that are just as controversial as those dealt with in primary legislation”. 6 Cfr. H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.485, che registra che “(…) the original draft of the Treaty of Lisbon’s new typology of acts was established by the Laeken convention’s working group on “simplification” when it prepared the Constitutional Treaty. That working group based its considerations on former constitutional design for the EU and a comparative look at various national constitutions. After a brief and internal discussion, it developed a rather complex model comprising three levels of acts. It provided for legislative acts (…), delegated regulations and implementing acts. The subsequent deliberations for the Treaty of Lisbon were based on the Constitutional Treaty’s concepts”. 7 La prima a delineare un rapporto gerarchico tra le fonti del diritto dell’Unione europea, è stata la Corte di Giustizia. Ciò emerge chiaro dalle parole di R. BIN, P. CARETTI, Profili costituzionali dell’Unione europea, cit., p.192, che, circa il principio di gerarchia nelle fonti del diritto dell’Unione europea, registrano come tale principio fosse “appena abbozzato dalla Corte di giustizia e solo con riferimento agli atti di base e agli atti di esecuzione, ovvero agli atti a portata generale rispetto alle decisioni individuali”. Anche R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, in Il diritto dell’Unione europea, fasc.2, 2011, p.293, registra che “a partire dagli anni settanta la Corte di giustizia ha progressivamente riconosciuto che nel sistema delle fonti esistono elementi di gerarchia formale. (…) La distinzione tra diritto primario e secondario, tra atto di base e di esecuzione sono esemplificazioni significative di tale ricostruzione”.

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legislativi di cui l’art.289 TFUE 8: “regulations, directives and decisions under the new typology can be issued in three different levels of Union acts. The first level consists of legislative acts. (…). The second level contains delegated acts (…). The third level consists of implementing acts”9. Tale distinzione, tuttavia, è stata realizzata ponendo l’accento soprattutto su aspetti procedurali, con il chiaro intento di creare una corrispondenza tra la procedura di adozione dell’atto e la funzione esercitata da tali atti. Infatti, gli atti tipici dell’Unione previsti dall’art.288 TFUE (regolamenti, direttive, decisioni, pareri e raccomandazioni), nei limiti delle proprie peculiarità, rimangono tra di loro tendenzialmente intercambiabili 10. L’accento sulla procedura di adozione di ciascun tipo di atto derivato e, quindi, del diverso ruolo in essa riconosciuto alle istituzioni coinvolte, spiega come l’attribuzione alla Commissione del compito di adottare atti espressione del potere di normazione secondaria è stata spesso oggetto di discussione tra Commissione, Consiglio e Parlamento11. 8

V. art.289, par.3, TFUE, a norma del quale “gli atti giuridici adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi”. Per l’approfondimento di tale novità si rinvia a F. BASSANINI, G. TIBERI, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2010, in particolare pp.328 ss. Cfr. anche J.C. PIRIS, The Lisbon Treaty. A legal and political analysis, Studies in European Law and Policy, Cambridge, 4°ed., 2011. Tuttavia, come attenta dottrina ha sottolineato, la citata categoria degli atti legislativi “does not indicate a particular legal instrument, but the particular nature that some regulations, directives or decisions will possess, and others not. Curiously enough, this particular legislative nature will not be determined by their actual content, but merely by the use of a particular procedure (…)”, B. DE WITTE, Legal instrument and law-making in the Lisbon Treaty, in S. GRILLER, J. ZILLER, The Lisbon Treaty, EU Constitutionalism without a Constitutional Treaty?, SpringerWienNewYork, 2008, p.92. Cfr. anche P. CRAIG, The role of the European Parliament under the Lisbon Treaty, in S. GRILLER, J. ZILLER, The Lisbon Treaty, EU Constitutionalism without a Constitutional Treaty?, cit., p.113, “we should recognise at the outset that the distinction between legislative and non-legislative acts is formal in the following sense. Legislative acts are defined as those enacted via a legislative procedure, either ordinary or special; non-legislative acts are those that are non enacted in this manner. This should not however mask the fact that the latter category of delegated acts will often be legislative in nature, in the sense that they will lay down binding provisions of general application to govern a certain situation ”. V. anche W. VOERMANS, Delegation is a matter of confidence, The new EU Delegation system under the Treaty of Lisbon, in European Public Law, n.2, 2011, in particolare p.317. Critico sulla forza innovativa realizzata con tale classificazione anche M. GNES, Il nuovo assetto del potere esecutivo europeo dopo il Trattato di Lisbona, in Giornale di diritto amministrativo, n.3, 2010, p.241, che, a commento della distinzione tra atti legislativi e non, ritiene che tale distinzione “(…) non ha conseguenze di grande rilievo, né per quanto riguarda il regime giuridico degli atti, né per quanto riguarda l’assetto dei poteri. Innanzitutto, non rileva quanto all’obbligo di motivazione (che vale per tutti gli atti normativi) o per l’individuazione del giudice a cui fare ricorso (data l’unicità della giurisdizione europea), pur rilevando sotto altri profili (…). Non rileva, infine, quanto all’assetto dei poteri, dal momento che, pur se le norme generali sembrano attribuire alla Commissione esclusivamente competenze delegate o di esecuzione (…), invero numerose norme attribuiscono specifiche competenze normative alla Commissione, mentre una norma generale limita le competenze di esecuzione del Consiglio”. 9 H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.486. 10 Cfr. P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU Law, text, cases, and materials, cit., p.104, laddove registrano che “(…) regulations, directives, and decisions may (…) take the form of legislative, delegated, or implementing acts. The regulations, directives and decisions do not alter their nature, but their place within the overall hierarchy of norms will depend upon whether they are legislative, delegated, or implementing acts”. Cfr. P. MORI, Rapporti tra le fonti nel diritto dell’Unione europea, Il diritto primario, Torino, 2010, p.25, che dopo aver sottolineato che “oggi come nel sistema preesistente a Lisbona, infatti, gli atti [tipici] si distinguono l’uno dall’altro unicamente per le loro caratteristiche strutturali e per gli effetti che sono destinati a produrre nei confronti dei loro destinatari, senza che sia stabilita nei Trattati una gerarchia formale tra di essi”, rileva che così procedendo, si configura “l’esistenza di una funzione di tipo supra-legislativo, collegata alla procedura di revisione semplificata del diritto primario; una funzione di tipo legislativo, esercitata, secondo quanto stabilito dall’art.289 del Trattato FUE nel quadro della procedura legislativa, ordinaria o speciale; e una funzione, subordinata, di natura delegata o quasi legislativa a cui si affianca una funzione prettamente esecutiva, entrambe esercitate, per regola generale e salvo eccezioni, dalla Commissione con le modalità rispettivamente stabilite dagli artt.290 e 291 Trattato FUE”. 11 Cfr. C.F. BERGSTRÖM, H. FARREL, A. HÉRITIER, Legislative or delegate? Bargaining over implementation and legislative authority in the Eu, in West European Politics, vol.30, n.2, marzo 2007, p.339.

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A ciò si aggiunge che, per lungo tempo, la mancanza di una chiara gerarchia tra le fonti ha reso difficile l’individuazione di precisi parametri di legittimità alla luce dei quali sindacare la validità degli atti di esecuzione 12. Ciò ha fatto sì che, in merito, la Corte di Giustizia godesse di particolare discrezionalità nell’esercizio della propria funzione di controllo giurisdizionale, controllo che ha necessariamente incentrato, oltre che sull’accertamento della conformità degli atti alla lettera dei Trattati, su criteri di natura sostanziale quali - come verrà rilevato di seguito - le finalità dell’atto in esame e il suo contenuto. Parametri, quest’ultimi, individuati da essa stessa volta per volta e, per questo motivo, difficilmente sintetizzabili in categorie astratte e universalmente utilizzabili 13.Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, inoltre, la decisione di conferire alla Commissione il compito di adottare atti attuativi della normativa primaria si intreccia con quella inerente al tipo di atto che la Commissione è chiamata ad adottare, decisione, quest’ultima, i cui profili problematici, che il presente lavoro si propone di indagare, derivano dal fatto che il ricorso ad un atto delegato ex art. 290 TFUE piuttosto che un atto di esecuzione ex art.291 TFUE, o viceversa, ha delle significative conseguenze sull’equilibrio istituzionale che il procedimento di adozione di ciascuno dei richiamati atti implica e sulla natura giuridica degli atti adottati.Di conseguenza, oggi, si pone il problema di comprendere se e come i parametri introdotti da Lisbona con i nuovi articoli 290 e 291 TFUE saranno in grado di guidare la Corte di Giustizia nell’esercizio della sua funzione di sindacato giurisdizionale delle decisioni dei co-legislatori, nel tentativo di “assicurare un certo livello di giustiziabilità rispetto alle scelte operate dal legislatore dell’Unione di fronte all’alternativa tra assegnare alla Commissione il compito di integrare o modificare il contenuto di un atto legislativo, o affidarle l’adozione di atti «di esecuzione»” 14. In merito, l’orientamento giurisprudenziale dalla Corte di Giustizia, se da un lato, muovendosi nella indeterminatezza delle disposizioni dei Trattati, ha delineato una serie di parametri alla luce dei quali valutare ex post le scelte fatte dai legislatori, dall’altro lato ha ribadito, anche dopo le riforme apportate da Lisbona, la connotazione politica del potere di attribuzione di competenze di esecuzione alla Commissione, riconducendolo nell’alveo della piena discrezionalità del legislatore 15. 2. IL DATO NORMATIVO. GLI ARTT.290 E 291 TFUE. Le competenze d’esecuzione della Commissione trovano il loro primo fondamento nell’art.155 del TrCEE (poi art.211 TCE) che, tra l’altro, prevedeva che “la Commissione 12

R. SCHÜTZE, ‘Delegated’ Legislation in the (new) European Union: a Constitutional Analysis, in The modern Law Review, vol.74, n.5, settembre 2011, p.671, evidenzia che, circa “(…) the normative relationship between the enabling act and the delegated act (…) in many legal orders, a hierarchy of norms answers this question. The enabling act is superior to the delegated act. The supremacy of primary over secondary legislation means that the latter cannot amend the former. (…) The Community legal order did however not develop an absolute hierarchical solution (…) there was hence no clear distinction between delegated ‘legislation’ and delegated ‘executive’ power within the Community legal order”. 13 Cfr. F. BASSAN, Regolazione e equilibrio istituzionale nell’Unione europea, cit., p.999. 14 Conclusioni dell’avvocato generale Pedro Cruz Villalón, del 19.12.2013, nella causa C-427/12, par.4. 15 H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.489, che, circa il ruolo della Corte di Giustizia nella valutazione della legittimità degli atti delle istituzioni in rapporto ai parametri forniti dai trattati, registra che “the European Court of Justice’s (ECJ) record in this respect is mixed. It has so far reviewed substantive criteria limiting legislative discretion mainly under procedural aspects. Also, the ECJ has so far been hesitant to review legislative discretion against an alternative interpretation of the substantive criteria. It has consistently limited its review of legislative discretion as to whether there has been manifest error or misuse of powers, or whether the institutions have manifestly exceeded the limits of discretion. If this were the criteria of review it might be doubtful whether the substantive criteria limiting delegation in article 290 tfue will be an effective constitutional barrier to delegation”.

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(…) esercita le competenze che le sono conferite dal Consiglio per l’attuazione delle norme da esso stabilite”. Disposizione, quest’ultima, la cui formulazione è rimasta sostanzialmente invariata fino all’avvento del trattato di Lisbona e alla quale, a far data dall’adozione dell’Atto unico europeo nel 1986, si è affiancata la previsione di cui al modificato articolo 145 TrCEE (poi art.202 TCE) secondo cui il Consiglio “conferisce alla Commissione, negli atti che esso adotta, le competenze di esecuzione delle norme che esso stabilisce. Il Consiglio può sottoporre l’esercizio di tali competenze a determinate modalità. Il Consiglio può anche riservarsi, in casi specifici, di esercitare direttamente competenze di esecuzione. Le suddette modalità devono rispondere ai principi e alla norme che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione previo parere del Parlamento europeo, avrà stabilito in via preliminare” 16. Partendo dalle generiche “competenze di attuazione” di cui l’art.155 del TrCEE, il Trattato di Lisbona, positivizzando quanto la prassi aveva anticipato, ha enucleato due diverse funzioni: quella delegata ex art.290 TFUE e quella esecutiva ex art.291 TFUE 17 la cui distinzione, come già ampiamente illustrato dalla dottrina 18, nasce dalla volontà di 16

Tale modifica è stata apportata dall’art.10 dell’Atto Unico europeo, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, del 29.6.1986, L 169, p.1. 17 Cfr. C.F. BERGSTRÖM, H. FARREL, A. HÉRITIER, Legislative or delegate? Bargaining over implementation and legislative authority in the Eu, cit., p.338, che in riferimento al periodo pre Lisbona, evidenziano che “the EU legislative process (…) provides for the possibility of both legislation and delegation. Legislation is directly based on a provision of the treaty and specifies appropriate rules and measures within the legislative item in question. Delegation consists of delegated rule-making authority to the Commission or, more rarely, the Council, and relates indirectly to a treaty provision”. Cfr. P. CRAIG, The Lisbon Treaty. Law, politics, and Treaty reform, cit., p.50, in commento al termine “attuazione” di cui l’art.155 del TrCEE, registra che “the word could refer to the “making” of secondary rules, or alternatively to the “execution” of the primary regulation or directive, connoting the need for measures to ensure that the primary regulation or directive was properly applied”. Ancora R. SCHÜTZE, ‘Delegated’ Legislation in the (new) European Union: a Constitutional Analysis, cit., p.682, rileva che “under the old regime, the wide concept of ‘implementing power’ had comprised acts that amend and acts that merely implemented primary legislation”. V. anche R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, cit., in particolare p.301. Chiare le parole di J.C. PIRIS, The Constitution for Europe: a legal analysis, Cambridge University Press, 2006, p.73, “practice to date under the expression ‘implementing powers’ has combined two types of power which are different in nature: the power to adopt a normative act which amends or supplements the basic legislative acts itself, on the one hand, and the power to implement, or to execute at EC level, all or part of a legislative act, on the other hand”. 18 Circa l’intento delle riforme apportate da Lisbona di limitare il campo di applicazione della «comitologia», P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU Law, text, cases, and materials, cit., p.135 ss, evidenziano che “the Commission regarded the Comitology regime as an unwarranted constraint on its executive autonomy. It could tolerate purely advisory committees, but it was not happy with management and regulatory committees. Its strategy for over twenty years was to devise some method whereby it could be freed from these limitations. (…) The EP was also unhappy with Comitology, since the original Comitology schema concentrated power on Member State representatives and the Council. Subsequent modifications to the regime increased the EP’s role within Comitology, notably through the creation of the regulatory procedure with scrutiny, but it did not give the EP institutional parity with the Council ”. V. lo stesso A., P. CRAIG, The role of the European Parliament under the Lisbon Treaty, cit., pp.114 ss, avverte che “it is important to be aware of the significant 6 history : that underlies these provisions on the hierarchy of norms. The Commission’s primary goal has been to dismantle the established Comitology regime, at least insofar as it entails management and regulatory comittees”. Si rinvia anche a R. SCHÜTZE, ‘Delegated’ Legislation in the (new) European Union: a Constitutional Analysis, cit., p.686, il quale registra che “the abolition of comitology with regard to delegated acts will significantly reduce the ex-ante control by the Union legislator. And while this decline is partly balanced by increasing the ex post control mechanisms, Article 290 appears to indeed satisfy the Commission’s demands to enhance its executive autonomy”. Cfr. anche W. VOERMANS, Delegation is a matter of confidence, The new EU Delegation system under the Treaty of Lisbon, cit., pp.313-330. T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Comitology and delegated acts after Lisbon: How the European Parliament lost the implementation game, in European Integration online Papers, vol.16, art.13, 2012, p.6, i quali rilevano come il fatto che, a fronte del suo costante rafforzamento sul fronte della funzione legislativa, il Parlamento rivendicasse da tempo un maggiore ruolo anche sul versante esecutivo, abbia condizionato le riforme apportate da Lisbona nel senso di limitare il campo di applicazione della «comitologia». Gli A., dopo aver premesso che “the practice known as comitology is by now well-established (…) but has also been the bone of much contention among the institutions (…) in particular, the European Parliament, ever since acquiring a legislative role, has

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limitare il ruolo della «comitologia» nell’esercizio della funzione esecutiva. In particolare, gli atti delegati ex art.290 TFUE, che prendono spunto da quanto a suo tempo previsto nella procedura di regolamentazione con controllo 19, vengono esplicitamente definiti come atti non legislativi di portata generale, adottati dalla Commissione delegata tramite un atto legislativo che deve delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega. In questo caso, quindi, si realizza uno spostamento dell’esercizio della funzione legislativa in capo alla Commissione, autorizzata ad integrare o modificare elementi non essenziali di un atto legislativo 20. Per questo motivo, la qualifica di atti “non legislativi” ad essi espressamente attribuita, trova giustificazione solo in ragione della diversità del procedimento di adozione; ossia, vanno intesti come “atti non legislativi” solo demanded a greater role in a process that has hitherto been dominated by the Commission and Member States ”, registrano che “the changes concerning implementing and delegating acts in the Lisbon Treaty – contained in Articles 290 and 291 of the consolidated treaties – were the culmination of more than 20 years of struggle by the EP to have a genuine say in the matter of delegated decision-making, and have been widely considered as a success for the EP. Not only did the European Parliament gain genuine equality with the Council with regard to control over delegated acts, but also the horizontal decisions setting out standard procedures for overseeing implementing acts – the so-called “Comitology Regulations” – will now for the first time be made under co-decision. The European Parliament has had to be fully involved in the negotiations establishing the new comitology procedures after the Lisbon Treaty ” (p.2). Invero “the EP’s role in comitology, despite some smaller changes, has for a long time remained very limited. Only with the introduction of codecision was the EP’s role in comitology substantially transformed, since the EP in the areas of codecision received a veto right over whether to legislate or to delegate and the choice of comitology procedure ”, A. HÉRITIER, C. MOURY, Constested delegation: the impact of codecision on comitology, in EUI Working papers RSCAS 2009/64, p.1. In merito v. anche C. STRATULAT, E. MOLINO, Implementing Lisbon: what’s new in comitology?, in European Policy centre, aprile 2011, p.1, le quali, riferendosi al ruolo svolto dai comitati dei rappresentati degli stati membri, registrano che “with no role to play, the EP strongly criticised that system and led a resolute campaign – mirrored in various comitology reforms over the years – to earn legislative scrutiny in the process. Its call became difficult to ignore as successive Treaty amendments extended the EP’s powers, making it a co-legislator on equal footing with the Council. Moreover, as comitology measures started to regulate politically sensitive issues, such as Genetically modified organisms, the need for a radical overhaul of the system and clarification of the institutions’ roles became imperative. Therefore, the idea of restructuring comitology was taken up by the Convention on the Future of Europe, which emphasised the importance of redrafting the separation of EU legislative and executive tasks in a transparent and democratic manner. The Lisbon Treaty formalised most of the Convention’s proposals on comitology in Article 290 and 291 of the Treaty on the Functioning of the European Union (TFUE)”. Sul punto cfr. anche R. SCHÜTZE, ‘Delegated’ Legislation in the (new) European Union: a Constitutional Analysis, cit., pp.661-693, in particolare p.663. 19 In base alla procedura di regolamentazione con controllo, introdotta dalla Decisione del Consiglio 2006/512/CE, Parlamento e Consiglio potevano opporsi all’adozione di misure di esecuzione che eccedevano gli obiettivi dell’atto legislativo di base o si ponevano in violazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. La connessione tra gli atti delegati ex art.290 TFUE e la procedura di regolamentazione con controllo emerge dalle parole di H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.497, il quale rileva che “(…) it appears that the category of delegated acts has predecessors. It was developed from institutional practice and expanded to include delegation through derived legal basis for certain non-essential legislative matters. It was also developed from the evolution of the comitology system towards an increasing inclusion of parliamentary participation in quasi-legislative regulatory activity delegated to the Commission under the regulatory procedure and the “regulatory procedures with scrutiny”. V. anche M. SAVINO, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Giornale di diritto amministrativo, n.10, 2011, p.1044, che a commento dell’art.290 TFUE rileva che “questa norma trasforma le misure quasi-legislative in un’autonoma tipologia di “atti delegati”: collocati a metà strada tra gli atti legislativi e gli atti esecutivi, essi sono qualificati come «atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo», in evidente assonanza con l’oggetto della (…) procedura di regolamentazione con controllo”. Il condizionamento che la procedura di regolamentazione con controllo ha avuto sulla categoria degli atti delegati, è messo chiaramente in luce anche da B. DE WITTE, Legal instrument and law-making in the Lisbon Treaty, cit., p.94, ove, a commento della procedura richiamata, sottolinea che “this mechanism partially prefigures the control mechanism which the new Treaty will require for delegated acts. So, seen from this perspective, the new category of delegated acts has not come out of the blue, but is rather the latest development in a long-standing bargaining process between the EU institutions on where to draw the line between the role of the legislative and the executive, and on how to organize oversight by the legislator on acts adopted by the

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nel senso di non essere stati adottati tramite una procedura legislativa 21. Invero, essi possono modificare il contenuto dell’atto legislativo, benché solo in riferimento agli elementi non essenziali e, al pari degli atti qualificati come legislativi, sono di portata generale. Di tal ché, l’unica differenza certa rispetto all’atto legislativo, è che l’atto delegato non è soggetto al regime ad hoc previsto per il primo22. “L’obiettivo della delega di potere da parte del legislatore è di garantire che la legislazione possa restare semplice e nel contempo essere completata e aggiornata senza dover ricorrere a ripetute procedure legislative, che potrebbero risultare esageratamente macchinose e richiedere un’eccessiva quantità di tempo. La delega consente pertanto di affrontare gli aspetti più dettagliati di un provvedimento legislativo dell’Unione, permettendo al contempo al legislatore di mantenere il potere e la responsabilità che gli

executive”. Tuttavia, se “as a general rule, delegated acts cover matters that have fallen under the RPS Procedure (…)”, R. CORBETT, F. JACOBS, M. SHACKLETON, The European Parliament, John Harper Publishing, 8°ed., 2011, p.330, “however, as compared with the RPS, Article 290 TFUE grants control powers jointly to both arms of the EU legislator”, S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, cit., p.447. V. anche A. HARDACRE, M. KAEDING, Delegated & Implementing acts the new comitology, in EIPA Essential Guide, 5°ed., settembre 2013, p.14, che pur ricordando che “delegated acts are almost identical to the Regulatory Procedure with Scrutiny (RPS)”, precisano che “delegated acts are fundamentally different to their RPS predecessors and the process is also very different”. Più specificatamente sulle differenze tra atti delegati e RPS, si rinvia agli stessi A. in The European Parliament and the future of Comitology after Lisbon, in European Law Journal, vol.19, n.3, maggio 2013, pp.382-403. Più in generale, circa le differenze che il nuovo articolo 290 TFUE apporta rispetto al previgente regime, si rinvia a R. SCHÜTZE, ‘Delegated’ Legislation in the (new) European Union: a Constitutional Analysis, cit., p.683, il quale rileva che “the provision continues and discontinues the constitutional status quo. The Lisbon amendments continue three aspects of the ‘old’ delegation doctrine. First, Article 290 TFUE confirms the hierarchical position of delegated legislation (…). Second, Article 290 TFUE codifies the ‘non-delegation’ doctrine: the European legislature cannot delegate the power to adopt ‘essential elements’ of the legislative acts. Finally, Article 290 TFUE codifies the ‘specificity principle’: ‘[t]he objectives, content, scope and duration of the delegation of power shall be explicitly defined in the legislative act’. However, Article 290 TFUE also restricts the constitutional options previously available under Article 202 EC. Henceforth only the Commission, and no longer the Council, may adopt delegated acts. And these Commission acts must be of ‘general application’ – that is constitute material legislation”. 20 Cfr. R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, cit., p.299, a parere del quale “la delega prefigura una funzione legislativa materiale i cui obiettivi, contenuto, portata e durata sono definiti ex ante nello strumento di base”. 21 P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU Law, text, cases, and materials, cit., p.114, a parere dei quali “they are described as ‘non legislative acts of general application’. They are, however, only non-legislative in the formal sense that they are not legislative acts, because they have not been made in accordance with the ordinary or special legislative procedure. Many such delegated acts will nonetheless be legislative in nature”. A favore di questa interpretazione depone anche la Relazione sul potere di delega legislativa, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2010/2021(INI), preambolo punto C., ove viene rilevato che “la delega è un’operazione delicata, con cui la Commissione è incaricata di esercitare un potere che è intrinseco nel ruolo proprio del legislatore”. V. anche P. MORI, Rapporti tra le fonti nel diritto dell’Unione europea, Il diritto primario, cit., p.67, ove rileva che “gli atti delegati non sono formalmente equiparati all’atto legislativo, ma anzi sono espressamente qualificati dall’art.290 del Trattato FUE come atti non legislativi. La distinzione, che trova spiegazione nella diversità del procedimento di adozione, solleva l’interrogativo sul valore formale delle norme delegate. Dato che queste, per espressa previsione dell’art.290 Trattato FUE, possono «completare o modificare determinati elementi non essenziali del primo», ci si può chiedere se, ferma restando la necessità di rispettare le condizioni di esercizio della delega, esse abbiano la stessa «forza» di quelle contenute nell’atto legislativo”. 22 Cfr. l’art.7 del Regolamento interno del Consiglio dell’Unione europea (Decisione del Consiglio del 1.1.2009 relativa all’adozione del suo regolamento interno, 2009/937/EU, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 11.12.2009, L 325, p.35) che stabilisce una particolare disciplina di pubblicità degli atti adottati con procedure legislative. Si rinvia anche al Regolamento (CE) n.1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30.5.2001, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, L 145 del 31.5.2001, p.43, considerando n.6, prevede che «si dovrebbe garantire un accesso più ampio ai documenti nei casi in cui le istituzioni agiscono in veste di legislatore, anche in base a competenze delegate».

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spettano in ultima istanza. In tal modo, la delega può anche essere considerata uno strumento per legiferare meglio a livello dell’Unione europea” 23. “La sua (positiva) finalità va individuata nello snellimento della funzione legislativa: la Commissione è infatti chiamata a definire le particolarità normative nel rispetto dei limiti imposti dal legislatore, che è in grado di conseguenza di esercitare in modo più efficiente le sue podestà”24. Merita d’essere evidenziato l’ingresso del concetto di «essenzialità» nel corpo dei Trattati25 che, traducendo in precetto normativo di rango primario quanto elaborato dalla Giurisprudenza, ha fornito all’interprete uno strumento di cui avvalersi per fare chiarezza tra le fonti del diritto dell’Unione e che pare riecheggiare il concetto di «riserva di legge». Infatti, l’attribuzione della qualifica di «essenziale» ad un elemento dell’atto legislativo ha lo scopo, e l’effetto, di riservare al legislatore una competenza normativa esclusiva nella disciplina di tale elemento, evitando ogni intervento del potere normativo secondario. Tuttavia, il recepimento a livello dei trattati della nozione di «essenzialità» rischia di portare con sé anche l’ambiguità con cui la Corte ha mostrato di farne uso, non fosse altro per il fatto che, come verrà rilevato di seguito, ciò che viene definito come «essenziale» corrisponde alle disposizioni che contengono “gli orientamenti fondamentali della politica delle istituzioni”26. Circostanza che ha inevitabilmente una portata contingente e politica, da verificare caso per caso. Diversamente, richiamandosi a quanto già a suo tempo disposto dall’art.155 (poi 202) TCE 27, la categoria degli atti di esecuzione prevista dall’art.291 TFUE comprende tutte le misure necessarie a dare concreta attuazione agli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione. Al pari di quanto a suo tempo già previsto dal TCE, dopo il trattato di Lisbona, solo questa categoria di atti è assoggettata alla procedura c.d. di «comitologia» 28. 23

Relazione sul potere di delega legislativa, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2010/2021(INI). 24 R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, cit., p.300. Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art. 290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.3, ove la Commissione sottolinea che “con il conferimento del potere di adottare atti delegati, per effetto dell’articolo 290, la Commissione è autorizzata a integrare o modificare il lavoro del legislatore. Una delega del genere è sempre facoltativa: è a fini di maggiore efficacia che alla Commissione vengono delegati poteri che competono al legislatore”. 25 Prima di trovare collocazione nelle disposizioni dei Trattati, la nozione di «essenzialità» è stata recepita nella Decisione 1999/468 del Consiglio, del 28 giugno 1999, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 28.6.1999, L 184, p.23, recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione, ove disponeva circa le “misure di portata generale intese a dare applicazione alle disposizioni essenziali di un atto di base”. L’espressione viene riproposta anche nella Decisione 2006/512 del Consiglio, del 17.7.2006 che modifica la Decisione 1999/468 recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 22.7.2006, L 200, p.11, laddove dispone l’utilizzo della procedura di regolamentazione con controllo per “l’adozione di misure di portata generale intese a modificare elementi non essenziali di [un] atto, anche sopprimendo taluni di questi elementi, o di completarlo tramite l’aggiunta di nuovi elementi non essenziali”. 26 Tra le tante, cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 6.7.2000, causa C-356/97, cit., par.21; Corte di Giustizia, sentenza del 5.9.2012, causa C-355/10, cit., parr.65-67. 27 Tuttavia, a differenza della vecchia categoria degli atti di esecuzione, “the scope of application of Article 291 is different from the scope of the prior Article 202 EC: the newer provision does not apply to all cases of ‘implementation’ of measures that the Council adopts but rather applies where ‘uniform conditions for implementing legally binding Union acts’ are needed”, S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, cit., p.441. 28 Cfr. anche H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.493. C. STRATULAT, E. MOLINO, Implementing Lisbon: what’s new in comitology?, cit., p.1, ove sottolineano che “article 290 abolishes the previous use of comitology committees and makes the Commission solely responsible for drafting and adopting delegated acts”. V. anche S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, cit., pp.427-460, in particolare pp.442 ss. Ciononostante, importanti sono le novità circa le procedure di «comitologia» che troveranno applicazione. Nel rispetto di quanto stabilito dal Regolamento (EU) 182/2011 del

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Il potere di adozione dei detti atti compete di norma agli Stati membri. Tuttavia, ove siano “necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione”29, le competenze di esecuzione possono essere conferite alla Commissione o, in casi debitamente motivati, riservate al Consiglio. “(…) La finalità di quest’ultima tipologia (definibile) di competenza amministrativa risiede storicamente - similmente alla delega legislativa - nell’esigenza di disporre di norme esecutive uniformi, cui si risponde affidandone l’adozione ad un organo comune con procedure semplificate, ma conservando nel contempo un certo grado di controllo sulle stesse in capo agli Stati”30. La delega legislativa e l’atto d’esecuzione si pongono in rapporto gerarchico: anche se entrambi hanno lo scopo di dare piena attuazione ad un atto vincolante dell’Unione, a differenza dell’atto di esecuzione, l’atto delegato è espressione (delegata) della funzione legislativa, e per questo è sovraordinato al primo 31. Inoltre, sembra indubbio che tra le due categorie di atti esista un rapporto di reciproca esclusione 32. Infatti, come sottolineato dalla Commissione, “è chiaro (…) che un medesimo atto non può avere una duplice accezione. Un atto disciplinato dall’art.290 è escluso per antonomasia dal campo di applicazione dell’art.291, e viceversa”33.Di conseguenza, la definizione della categoria degli atti delegati va valutata, oltre che in base al tenore letterale dei trattati, anche in riferimento alla categoria degli atti d’esecuzione, e viceversa. Aspetto, quest’ultimo, che assume particolare importanza se si tiene presente che, come accennato, dalla distinzione qui in commento dipende, in primo luogo, la natura giuridica dell’atto adottato dalla Commissione, perché l’atto delegato di cui l’art.290 TFUE Parlamento europeo e del Consiglio del 16.2.2011 che stabilisce le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione (in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 28.2.2011, L 55, p.13), le procedure applicabili saranno solamente due: la procedura consultiva (art.4, Reg.182/2011) e la procedura d’esame (art.2, Reg.182/2011). In generale, dunque, la nuova disciplina della «comitologia» risulta più snella, perché prevede due sole procedure; più trasparente, perché più cogenti sono gli obblighi di trasmettere a Parlamento e Consiglio i documenti presentati al comitati; e più paritaria, perché esclude il ruolo di decisore di ultima istanza del Consiglio nel caso di contrasto tra Commissione e Comitato. Circa le novità introdotte con il citato Regolamento, si veda anche IP/10/1735 del 16.12.2010, della Commissione europea, consultabile all’indirizzo http://europa.eu/rapid/press-release_IP-10-1735_it.htm. Diversamente, la «comitologia» non troverà più applicazione per la categoria degli atti delegati. 29 Art.291 TFUE. 30 R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, cit., p.300. Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.3, ove la Commissione sottolinea che “nel sistema istituito dall’art.291, la Commissione non esercita alcuna prerogativa di natura “quasi legislativa”; il suo è un mero potere esecutivo. L’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione compete “naturalmente” agli Stati membri ma, non appena si rendono necessarie condizioni uniformi di esecuzione, la Commissione deve esercitare la propria competenza esecutiva. Il suo intervento cessa di essere facoltativo ove siano riunite le condizioni previste dall’articolo 290 e diventa obbligatorio”. 31 La presenza di tale rapporto gerarchico tra gli atti delegati ex art.290 TFUE e gli atti d’esecuzione ex art.291 TFUE, emerge chiara dalla parole di J. MENDES, Delegated and Implementing rule making: proceduralisation and constitutional design, in European Law Journal, vol.19, n.1, gennaio 2013, pp.27 ss, ove rileva che “(…) the distinction between delegated and implementing acts is a distinction between matters that are legislative and non-legislative in nature (…)”. 32 Ciò non esclude che “in principle, the envisaged implementing acts will also be delegated (or, in other word, acts resulting from conferral of powers”, C.F. BERGSTRÖM, Delegation of powers in the European Union and the Committee System, in Studies in European Law, Oxford, 2005, p.356. 33 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.3. Di opinione contraria T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Comitology and delegated acts after Lisbon, cit., p.8, a parere dei quali “(…) the criteria of 290 e 291 are not mutually exclusive: the provisions on delegated acts are clearly formulated in terms of scope and consequences while the implementing acts article is defined on the basis of the rationale behind it, i.e. the necessity for uniform conditions to apply”.

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ha natura intrinsecamente - ma non formalmente - legislativa, mentre l’atto d’esecuzione ex art.291 TFUE ha mera natura esecutiva34. In secondo luogo, la scelta circa il tipo di atto che la Commissione è chiamata ad adottare, ha delle significative implicazioni anche sul ruolo riconosciuto alle istituzioni coinvolte nell’adozione dell’atto normativo, Parlamento Consiglio e Commissione, soprattutto in riferimento al controllo esercitato dal Parlamento e dal Consiglio sull’operato della Commissione. Invero, la scelta tra l’atto d’esecuzione e l’atto delegato può determinare un diverso equilibrio istituzionale35 perché, nella procedura che porta al conferimento alla Commissione del potere di adottare atti di esecuzione ex art.291 TFUE, Parlamento e Consiglio hanno un ruolo paritario fintantoché, deliberando tramite la procedura legislativa ordinaria, non raggiungono un accordo sul tipo di atto che la Commissione è chiamata ad adottare e i principi generali relativi alle modalità di controllo del suo operato da parte degli Stati membri. Successivamente, mentre al Parlamento non viene riconosciuto alcun strumento di controllo, il potere della Commissione rimane sottoposto al sistema della c.d. «comitologia» che, come noto, permette indirettamente al Consiglio di esercitare anche in questa fase, e tramite i comitati composti dai rappresentati di ciascun Stato membro, una certa influenza sulle scelte della Commissione. Ben diversamente, nel caso di atti delegati ex art.290 TFUE, opera il nuovo meccanismo individuato dal Trattato che conferisce al Parlamento e al Consiglio le stesse competenze tanto nella fase di adozione della decisione di delegare potere alla Commissione, quanto nella fase di esecuzione del potere delegato. Secondo la previsione di cui l’art.290 TFUE, una volta assunta con atto legislativo la decisione di conferire alla Commissione il potere di adottare atti delegati, Parlamento e Consiglio hanno entrambi il potere di revocare l’atto adottato dalla Commissione o di esprimere un’obiezione sul medesimo 36. Si è realizzato così un “doppio controllo”: “all’atto del conferimento del potere alla Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio «delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere» (…). Quindi, dopo l’approvazione della misura da parte della Commissione (ma prima della sua entrata in vigore), Parlamento e Consiglio possono nuovamente intervenire, non solo esercitando il diritto di opposizione o veto – già previsto nel 2006 dalla procedura di regolamentazione con controllo – ma anche il più radicale potere di revoca” 37. 34

P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU Law, text, cases, and materials, cit., p.113 ss, circa la distinzione in commento, rilevano che “the rationale for the divided was to distinguish between secondary measures that were ‘legislative’ in nature, delegated acts, and those that could be regarded as more purely ‘executive’, implementing acts”. 35 V. art.13, par.2, TUE a norma del quale “ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità da essi previsti”. Prima di confluire nei Trattati, il principio dell’equilibrio istituzionale è stato elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Si veda, tra le prime, sentenza della Corte di Giustizia del 13.6.1958, Meroni & Co., Industrie Metallurgiche S.p.A. v. l’Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio, causa C-9/56; Corte di Giustizia del 22.5.1990, Parlamento v. Consiglio, causa C-70/88; Corte di Giustizia del 17.12.1970, causa C-25/70, cit., e Corte di Giustizia del 10.7.1986, Roger Wybot v. Edgar Faure e altri, causa C-149/85. 36 C. STRATULAT, E. MOLINO, Implementing Lisbon: what’s new in comitology?, cit., p.3, sottolinea che “article 290 places the Pariliament and the Council at strict parity in their control of delegated acts. Together with the Council, the EP enjoys now not only the right to veto but also to revoke the Commission’s delegated competence ”. Mentre, circa gli atti di esecuzione, l’A. riconosce che “(...) as the interests of the Member States and the Council largely coincide, even if the Council is no longer the referral body, it continues to have an indirect voice on implementing acts through the strong role enjoyed by the Member States in the (…) committee”. Cfr. B. DE WITTE, Legal instrument and lawmaking in the Lisbon Treaty, cit., p.99; P. CRAIG, The Lisbon Treaty. Law, politics, and Treaty reform, cit., p.331. 37 M. SAVINO, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, cit., p.1044. Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.7, ove si precisa che “mentre l’opposizione costituisce una “censura specifica” rivolta contro un preciso atto delegato, la revoca priva in maniera generale e assoluta

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3. I PRINCIPI ELABORATI DALLA CORTE SULLE COMPETENZE DI ESECUZIONE. Pronuncia dopo pronuncia38, la Corte ha cercato di delineare la portata del potere di cui all’allora art.155 TrCEE attraverso una serie di principi, ancora validi oggi 39, e che riguardano sia le circostanze che legittimano il ricorso alla delega del potere esecutivo sia i limiti entro i quali tale potere va esercitato 40. Quanto al primo aspetto, come noto, nella sentenza Köster41 l’organo giurisdizionale comunitario ha introdotto il parametro della “essenzialità” quale attributo dell’atto da adottare che segna la distinzione tra ciò che deve necessariamente essere disciplinato dal la Commissione dei suoi poteri delegati. L’opposizione va quindi vista come il metodo di controllo di “diritto comune” che il legislatore esercita su tutti gli atti delegati, mentre la revoca appare come un provvedimento più eccezionale, motivato ad esempio dal sopraggiungere di elementi tali da rimettere in causa il fondamento medesimo della delega”. Circa il potere di revoca, v. anche la Relazione sul seguito della delega dei poteri legislativi e sul controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2012/2323(INI), p.9, con la quale il Parlamento, a commento dell’art.290 TFUE, ha cura di rilevare che “dalla disposizione appare chiaro che non è necessario l’accordo di entrambi i rami dell’autorità legislativa dell’Unione per revocare una delega”. 38 Inizialmente le pronunce della Corte in merito interessavano soprattutto il settore della PAC e avevano ad oggetto la valutazione della legittimità della prassi della «comitologia», cioè “la prassi, sviluppatasi soprattutto nel tentativo di contrastare da parte degli stati membri l’inarrestabile aumento del ruolo ricoperto dalla Commissione, di affiancare “all’esecutivo comunitario” i c.d. comitati di gestione e di regolamentazione, composti da funzionari ed esperti nazionali, presieduti da un rappresentante della Commissione e generalmente competenti al rilascio di un parere nell’ambito dei settori di relativa attribuzione. In altre parole, il Consiglio, nel delegare la funzione di emanare determinati atti alla Commissione, le imponeva la consultazione di una serie di comitati composti da rappresentanti degli Stati membri”, P. COSTANZO, L. MEZZETTI, A. RUGGERI, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2010, p.203. Invero “the reality is that secondary regulations often deal with complex regulatory choices or policy issues, which are not rendered less so by the fact that they are concerned with matters of detail or technicality . To the contrary, the devil is often in the detail, which is of course the very reason why the Comitology committees were created in the first place, so as to allow Member State oversight of these complex regulatory choices. (…) The committees were created precisely because the Member States sought greater regulatory input into the detail of secondary regulation than allowed for in the then existing Treaty provisions”, P. Craig, The role of the European Parliament under the Lisbon Treaty, cit., p.119. V. anche C. STRATULAT, E. MOLINO, Implementing Lisbon: what’s new in comitology?,cit., p.1, che, in riferimento alla «comitologia», registrano che “the first committees were convened in the 1960s by the Member States and the Commission to deal with the technicalities of the Common Agricultural Policy (…)”. Chiaro è il collegamento tra la «comitologia» e il settore della PAC nelle parole di B. DRIESSEN, Delegated legislation after the Treaty of Lisbon: an analysis of Article 290 TFUE, in European Law Review, vol.35, n.6, dicembre 2010, p.838, a parere del quale “as early as 1962, the Council created a management committee of Member State officials assisting the Commission in the adoption of decisions within the common market organisation for cereals. From there, such committee procedures, soon collectively known as “comitology”, spread like wildfire and became very common for implementation of Community law”. T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Comitology and delegated acts after Lisbon, cit., pp.2 e 6 rilevano che: “(…) comitology then developed rapidly through the 1970s and 1980s. What was initially a limited solution that came up with the problems concerning the implementation of the Common Agricultural Policy (CAP), quickly became a success story in many sectors of Community policy-making. Before long, many other areas of legislation such as environment policy, consumer protection, transport and energy or single market regulation also involved delegation of powers and the arrival of comitology committees”. 39 Circa l’applicabilità dei principi elaborati nel regime pre-Lisbona alla nuova categoria di atti, si rinvia a S. PEERS, M. COSTA, Accountability for delegated and implementing acts after the Treaty of Lisbon, cit., p.446, a parere dei quali “(…) the prior case-law on the illegality of ultra vires implementing acts of the Commission or Council should also be applicable by analogy to measures adopted in the post-Lisbon framework, taking account of the specific powers conferred by each basic act”. 40 V. sul punto anche R. BARATTA, Sulle fonti delegate ed esecutive dell’Unione europea, cit., pp.316 ss, che, a commento delle novità introdotte da Lisbona e premesso che “il principio dello Stato di diritto (art.2 TFUE) esige (…) il controllo giurisdizionale sugli atti delegati ed esecutivi, in quanto atti della Commissione soggetti a controllo di legalità (…)”, precisa che “si è rilevata poi in precedenza la sindacabilità dell’eccesso di delega (…) quanto il legislatore non circoscrivesse la podestà delegata della Commissione o questa riguardasse elementi essenziali dell’atto

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legislatore e ciò che, diversamente, può essere rinviato ad un intervento normativo secondario. In particolare la Corte, adìta per valutare la legittimità del procedimento c.d. del «comitato di gestione»42 previsto dall’art.26 del Regolamento del Consiglio n.19/62 43 e in base al quale era stato emanato il Regolamento n.102/64 della Commissione 44, ha ammesso che le disposizioni d’attuazione dei regolamenti di base potessero essere adottate tramite un procedimento diverso da quello proprio del Regolamento di base, sia dal Consiglio che dalla Commissione, se a tal fine autorizzata dal primo ai sensi dell’articolo 155 TrCEE e “qualora i punti essenziali dell’emananda disciplina” 45 fossero già stati stabiliti in modo conforme al Trattato. Di conseguenza, la Corte ha dichiarato la legittimità del Regolamento adottato dalla Commissione perché “i provvedimenti che costituiscono oggetto del Regolamento d’attuazione della Commissione n.102/64, non vanno oltre la realizzazione pratica dei principi posti dal Regolamento n.19. Questo quindi poteva legittimamente autorizzare la Commissione ad adottare i provvedimenti d’attuazione di cui trattasi, provvedimenti di cui non può essere posta in dubbio la validità (…)”46. Nella giurisprudenza successiva la Corte ha affinato il concetto di “essenzialità”, senza però individuarne in maniera chiara i suoi confini. Operazione quest’ultima resa difficile sia dall’intrinseca informalità (rectius: duttilità) del criterio assunto come regola di distinzione sia, e soprattutto, per l’utilizzo, apparentemente poco sistematico e coerente, che la Corte ne ha fatto.Invero, “ai fini dell’applicazione degli artt.145 e 155 del Trattato, la giurisprudenza stabilisce una differenza tra norme di carattere essenziale, riservate alla competenza del Consiglio, e norme che, essendone solo l’esecuzione, possono costituire oggetto di delega alla Commissione: solo le disposizioni che hanno ad oggetto di tradurre gli orientamenti fondamentali della politica comunitaria devono essere considerate essenziali”47. Per questo motivo, “le norme essenziali della materia di cui trattasi devono essere stabilite nella normativa di base e non possono costituire oggetto di una delega” perché sono “disposizioni la cui adozione richiede scelte politiche rientranti nella responsabilità propria del legislatore dell’Unione (…). Di conseguenza, le misure di esecuzione non delegato, in violazione dell’art.290. È logico poi ritenere che il controllo giurisdizionale sull’atto delegato debba estendersi nel suo insieme alle modalità con cui sono stati esercitati i poteri discrezionali: la Commissione dovrà rispettare le regole che presiedono alla formazione degli atti e all’esercizio dei singoli poteri, dovendone dare adeguata dimostrazione nelle relative motivazioni anche sotto il profilo delle scelte e dei mezzi utilizzati”. 41 Corte di Giustizia, sentenza del 17.12.1970, causa C-25/70, cit. Principi ribaditi nella sentenza del 17.12.1970, Scheer v. Einfuhr- Und Vorratsstelle Getreide, causa C-30/70. 42 I «comitati di gestione», accanto a quelli di «regolamentazione» e di «consultazione», sono organi composti da funzionari ed esperti nazionali, presieduti da un rappresentante della Commissione. Essi, che trovano la loro prima disciplina nella Decisione quadro del Consiglio n.87/373 del 13.7.1987 che stabilisce le modalità per l’esercizio delle competenze d’esecuzione conferite alla Commissione (in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 18.7.1987, L 197, p.33), hanno il compito di affiancare la Commissione nell’esercizio delle sue funzioni di esecuzione. 43 Regolamento del Consiglio CEE n.19, relativo alla graduale attuazione di un’organizzazione comune dei mercati nel settore dei cereali, del 4.4.1962, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 20.4.1962, n.30, p.933. 44 Regolamento 102/64/CEE della Commissione del 28.7.1964 relativo ai titoli di importazione ed esportazione per i cereali, il riso, le rotture di riso ed i prodotti trasformati a base di riso, in Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee del 5.8.1964, p.2125. 45 Corte di Giustizia, sentenza del 17.12.1970, causa C-25/70, cit., par.6. 46 Corte di Giustizia, sentenza del 17.12.1970, causa C-25/70, cit., par.7. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 13.7.1995, Parlamento europeo v. Commissione delle Comunità europee, causa C-156/93, in particolare parr.18-22; Corte di Giustizia, sentenza del 16.6.1987, Albert Romkes v. Officier van Justitie del circondario di Zwolle, causa C46/86, in particolare par.16. 47 Corte di Giustizia, sentenza del 6.7.2000, Molkereigenossenschaft Wiedergeltingen eG e Hauptzollamt Lindau, causa C-356/97, par.21.

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possono né modificare elementi essenziali di una normativa di base né completarla mediante nuovi elementi essenziali”48. La Corte ha lasciato così emergere l’anima intrinsecamente politica del concetto di essenzialità, componibile volta per volta facendo riferimento alla dialettica politicoistituzionale, e che ha giustificato altresì la variegata tipologia di atti considerati legittimamente riconducibili alla funzione esecutiva 49.Invero, tramite il sindacato giurisdizionale, reso possibile grazie al fatto che “nell’accertare quali siano gli elementi di una materia che devono essere qualificati come essenziali non ci si deve basare sulla sola valutazione del legislatore dell’Unione, bensì su elementi oggettivi che possono essere sottoposti a sindacato giurisdizionale (…) a questo riguardo, occorre tener conto delle caratteristiche e delle peculiarità del settore in esame” 50, e, richiamandosi esplicitamente al requisito dell’essenzialità, la Corte ha valutato legittimi atti di esecuzione che avevano natura sanzionatoria51, che fissavano i criteri per poter usufruire di misure di intervento già predisposte dal Consiglio52, prevedevano un limite al ricorso alla licitazione privata e alla 48

Corte di Giustizia, sentenza del 5.9.2012, Parlamento europeo v. Consiglio dell’Unione europea, causa C355/10, parr.65-67. 49 Cfr. F. BASSAN, Regolazione e equilibrio istituzionale nell’Unione europea, cit., p.1009, il quale, premesso che “il Trattato non indica quanto debbano essere dettagliate le norme «legislative» (o meglio, gli atti di base) o quanta discrezionalità il Consiglio possa delegare alla Commissione nel trasferimento dei poteri esecutivi”, rileva che “anche la Corte ha affidato al legislatore il compito di allocare di volta in volta poteri e funzioni nella fase legislativa o anche in quella esecutiva, in ragione dell’essenzialità o meno dell’interesse tutelato”. V. anche G. VOSA, «Elementi essenziali» nella delega di potere legislativo: riflessioni sull’evoluzione del sistema delle fonti nel diritto dell’Unione , in Rassegna Parlamentare, fasc.3, 2013, p.710, il quale, a commento dell’ampia portata della dicitura «elementi essenziali» di cui all’art.290 TFUE, rileva che “di conseguenza, l’accordo sugli elementi da reputarsi essenziali ricadrebbe nella più piena disponibilità del legislatore, che potrebbe ben decidere di addentrarsi nel dettaglio regolativo, ovvero di lasciare alla fase esecutiva la disciplina sostanziale delle materia”. 50 Corte di Giustizia, sentenza del 5.9.2012, C-355/10, cit., parr.67-68. Per un commento a tale sentenza, si rinvia a G. Vosa, «Elementi essenziali» nella delega di potere legislativo, cit., pp.683-717. In particolare l’A. sottolinea che “le posizioni difese dalla Commissione e dal Consiglio mostrano una certa divergenza rispetto a quella sostenuta dalla Corte. A voler riassumere la tesi soggettivistica, infatti, il «test di essenzialità» relativo agli elementi apportati all’atto esecutivo si risolve in una semplice valutazione comparata tra i fini che si assumono propri dell’atto di base e quelli che si attribuiscono all’atto esecutivo, tale da verificare la compatibilità o l’esorbitanza degli uni rispetto agli altri. (…) La Corte, dal canto suo, sembra obliterare una lettura diversa: le disposizioni dell’atto di base e di quello esecutivo vanno interpretate in sé, nella loro «essenzialità» per l’appunto «oggettiva», quasi che tale caratteristica fosse intrinseca a taluni elementi da esse riportati, a mo’ di grandezza oggettivamente commensurabile”. Tuttavia, al termine del suo commento l’A. evidenzia che “contrariamente a quanto affermato in termini a prima lettura incontrovertibili, la Corte mostra di non abbracciare la tesi di una «essenzialità oggettiva» tout court. Il ragionamento che mette in campo, infatti, mira a sondare il funzionamento del nesso tra atto di base e atto di esecuzione attraverso un iter logico pluriarticolato che legittima la propria autorevolezza richiamandosi alle «ragioni» delle valutazioni precedenti, rileggendone i dati per riformularne, motivando, le conclusioni. (…) il parametro degli «elementi essenziali» si nutre degli argomenti addotti in ciascuna sede a sostegno delle decisioni formulate, non meno che delle connesse scelte di politica istituzionale” (pp. 715 ss). 51 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 27.10.1992, Repubblica Federale di Germania v. Commissione delle Comunità europee, causa C-240/90, in occasione della quale la Corte ribadiva l’inclusione del potere sanzionatorio nel potere d’esecuzione della Commissione. In particolare, essa precisava che “le norme impugnate (…) non possono essere considerate essenziali per l’organizzazione comune di mercato istituita dal primo regolamento di base e il regime di aiuti istituito dal secondo regolamento di base. Tale qualificazione deve infatti essere riservata alle disposizioni che hanno ad oggetto di tradurre gli orientamenti fondamentali della politica comunitaria. Tale non può essere il caso di sanzioni che, come le maggiorazioni o le esclusioni, sono destinate a garantire queste scelte assicurando la buona gestione finanziaria dei fondi comunitari che devono servire alla loro realizzazione” (par. 37). Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 6.7.2000, C-356/97, cit., in occasione della quale la Corte giudicava legittima una delega avente ad oggetto il potere di adottare atti sanzionatori come, nel caso in esame, l’adozione di una penale. 52 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 29.2.1996, Francia e Irlanda v. Commissione, cause riunite C-269/93 e C-307/93. In quest’ultimo caso la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del Regolamento (CEE) della Commissione n.859/89 recante modalità di applicazione delle misure generali e delle misure speciali d’intervento nel settore delle carni bovine nella parte in cui la Commissione, in attuazione di quanto stabilito dall’art.6, n.7, del

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trattativa privata in materia di aggiudicazione di appalti per servizi pubblici 53 o specificavano il significato di nozioni contenute in atti normativi 54. Più di rado, all’opposto, ha disposto l’annullamento di atti esecutivi perché, per esempio, disciplinanti elementi essenziali che avevano funzione integrativa di altri atti dell’Unione 55.Una volta fissato tale criterio di discrimine tra legislativo ed esecutivo, e sempre nel tentativo di meglio disciplinare i poteri previsti nei Trattati, la Corte ha elaborato i limiti entro i quali la Commissione è chiamata ancora oggi ad esercitare i poteri ad essa delegati. Sul punto si registra una copiosa giurisprudenza nella quale la Corte ha delimitato il potere esecutivo delegato alla Commissione alle modalità fissate dal Consiglio e alle finalità della normativa di cui si intende dare attuazione. Regolamento (CEE) del Consiglio n.805/68 che, tra le altre cose, delegava alla Commissione il potere di adottare le misure necessarie ad “evitare una tendenza al ribasso dei prezzi di mercato”, aveva limitato il peso delle carcasse animali per le quali è ammesso l’utilizzo delle misure di intervento di cui l’art.5 del Regolamento n.805/68. Nel respingere gli addebiti mossi contro la Commissione, la Corte precisava che “una misura consistente nella limitazione del peso delle carcasse che possono essere oggetto di intervento non può essere considerata quale elemento essenziale della materia da disciplinare tale da dover essere stabilita dal Consiglio, secondo la procedura (…). Infatti, una siffatta misura, benché possa determinare un nuovo indirizzo nella produzione della carne bovina, è diretta ad attuare in modo adeguato il meccanismo d’intervento istituito dal Consiglio” (par.18). Di conseguenza, “considerato che la Commissione poteva legittimamente emanare il provvedimento contestato, non sussiste violazione dell’art.155 del Trattato” (par.23). 53 Corte di Giustizia, sentenza del 10.5.1995, Parlamento europeo v. Consiglio dell’Unione europea, causa C417/93. La sentenza traeva origina dal ricorso per annullamento promosso avverso l’annullamento del Regolamento (Euratom, CEE) del Consiglio 19 luglio 1993, n.2053, relativo alla prestazione di un’assistenza tecnica per la riforma e il rilancio dell’economia negli Stati indipendenti dell’ex Unione Sovietica e nella Mongolia. Tra i motivi di ricorso, il Parlamento deduceva l’illegittimità dell’art.7, n.2 del Regolamento impugnato a norma del quale “gli appalti di servizi sono aggiudicati, di norma, mediante licitazione privata e mediante trattativa privata per interventi fino a 300000 ECU. Su proposta della Commissione il Consiglio può modificare l’importo in base dell’esperienza acquisita in casi analoghi” perché, a parere del Parlamento, “sarebbe infatti illegittimo che una norma di legge, la cui emanazione esige la consultazione del Parlamento, preveda la possibilità di modificarla nel corso della sua applicazione senza che quest’ultimo venga consultato sulla proposta di modifica. Una procedura di modifica del genere, diversa da quella necessaria per l’adozione del testo iniziale, comporterebbe una riduzione delle prerogative del Parlamento” (par. 29). Tuttavia la Corte respingeva gli addebiti dedotti ritenendo che “nel caso di specie, la disposizione aggiunta all’art.7, n.2, secondo comma, del Regolamento impugnato non può essere considerata essenziale per il regime di assistenza TACIS. Infatti essa non pregiudica né il principio di aggiudicazione dei mercati di servizi, nell’ambito del programma TACIS, mediante licitazione privata e mediante trattativa privata, né a maggior ragione l’economia generale del Regolamento di cui trattasi. Poiché si limita a prevedere la possibilità di revisione, tenuto conto dell ’esperienza acquisita, del limite massimo oltre al quale non è più possibile tale modalità di aggiudicazione degli appalti in questione, la disposizione censurata costituisce solo una modalità di attuazione del programma TACIS” (par.32). Pertanto, concludeva la Corte, “il Consiglio ha potuto legittimamente ritenere che la revisione del detto limite massimo rientrasse nelle competenze di esecuzione” (par.33). 54 Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 14.10.99, Atlanta AG v. Consiglio dell’Unione europea e Commissione delle Comunità europee, causa C-104/97 P. La causa traeva origine dal ricorso promosso dall’Atlanta AG, ai sensi dell’art.49 dello Statuto CE della Corte di Giustizia, avverso la sentenza del Tribunale di primo grado 11 dicembre 1996, causa T-521/93, Atlanta e a. v Comunità europea con cui questo respingeva il suo ricorso diretto alla condanna della Comunità europea, e per essa del Consiglio e della Commissione, al risarcimento del danno subito a seguito dell’emanazione del Regolamento (CEE) del Consiglio 13 febbraio 1993, n.404, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana. Tra i motivi dedotti dalla ricorrente, si annoverava l’asserita mancata presa di posizione da parte del Tribunale della censura relativa ad una delega illegittima del potere legislativo alla Commissione in quanto il Consiglio non avrebbe direttamente definito nel Regolamento n.404/93 la nozione di operatore ai sensi dell’OCM. Tuttavia, la Corte respingeva l’addebito promosso perché, alla luce delle precisazioni fatte “e ammettendo che la nozione di operatore rientri negli elementi che presentano un carattere essenziale per la materia considerata e che, pertanto, devono essere riservati alla competenza del Consiglio (…) va rilevato che il Consiglio ha definito con sufficiente precisione la nozione di cui trattasi, per cui ha potuto validamente delegare alla Commissione la competenza necessaria al fine di garantire l’attuazione delle norme così stabilite, come lo autorizza a fare l’art.145 del Trattato CE (divenuto art. 202 CE)” (par.76). 55 Corte di Giustizia, sentenza del 5.9.2012, C-355/10, cit., par.2.

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Invero, se da un lato la competenza d’esecuzione di cui all’art.155 TrCEE “(…) può essere esercitata solo (…) in conformità alle norme generali fissate dal Consiglio” 56, a tal scopo chiamato a “indicare chiaramente i limiti dei poteri attribuiti alla Commissione” 57; dall’altro lato “i limiti di tali poteri devono essere valutati in particolare con riferimento agli obiettivi generali essenziali della regolamentazione del settore. La Commissione è autorizzata ad adottare tutti i provvedimenti esecutivi necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi non siano contrastanti con tale disciplina o con le norme di attuazione stabilite dal Consiglio”58. Anche più di recente, e in riferimento alle competenze di cui l’art.202 TCE, la Corte ha avuto modo di precisare che “nell’ambito di tali competenze, i cui limiti vanno valutati segnatamente con riferimento agli obiettivi generali essenziali della normativa di cui trattasi, la Commissione è autorizzata ad adottare tutti i provvedimenti esecutivi necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi non siano contrastanti con quest’ultima”59. In seguito, una volta subordinati i poteri di attuazione della Commissione al rispetto della ratio della normativa a cui dare esecuzione, la Corte ne ha puntualizzato la portata. Quindi, se da un lato la Corte ha avuto cura di rilevare che “la nozione di esecuzione ai sensi di tale articolo [art. 155 TCEE] comprende, al tempo stesso, l’elaborazione delle norme di attuazione e l’applicazione di norme a fattispecie particolari per mezzo di atti di portata individuale (...) poiché il trattato parla di «esecuzione» senza restringerne l’accezione con ulteriori precisazioni, questo termine non può essere interpretato nel senso che escluda gli atti di portata individuale” 60; dall’altro lato, più in generale, ha fornito un criterio ermeneutico alla luce del quale interpretare tale nozione. In particolare, a partire dalla nota sentenza Rey Soda61, in risposta al vizio di incompetenza 56

Corte di Giustizia, sentenza del 14.3.1973, Westzucker v. Einfuhr-Und Vorratsstelle, causa C-57-72, par.7. Corte di Giustizia, sentenza del 5.7.1988, Central-Importmünster v. Hauptzollamt Münster, causa C-291/86, par.13. Con tali argomentazioni la Corte faceva salvo il Regolamento della Commissione n.2742/82, adottato in base ai regolamenti del Consiglio n.516/77 e n.521/77, e con il quale la Commissione aveva predisposto provvedimenti di salvaguardia per l’importazione di uva secca. 58 Corte di Giustizia, sentenza del 19.11.1998, Portogallo v. Commissione, causa C-159/96, par.41. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 11.11.1999, Firma Sohl & Söhlke e Hauptzollamt Bremen, causa C-48/98; Corte di Giustizia, sentenza del 1.4.2008, cause riunite C-14/06 e C-295/06; in particolare par.52. 59 Corte di Giustizia, sentenza del 23.10.2007, Parlamento europeo v. Commissione delle Comunità europee, causa C-403/05, par.51. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 11.11.1999, C-48/98, cit., par.36, ove la Corte precisava che “la Commissione è autorizzata ad adottare tutti i provvedimenti necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi non siano contrastanti con tale disciplina o con le norme d’attuazione stabilite dal Consiglio”. V. anche Corte di Giustizia, sentenza del 21.1.2003, Commissione delle Comunità europee v. Parlamento europeo e Consiglio delle Comunità europee, causa C-378/00. 60 Corte di Giustizia, sentenza del 24.10.1989, Commissione v. Consiglio, causa C-16/88, par.11. Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 23.2.2006, Commissione delle Comunità europee v. Parlamento europeo e Consiglio delle Comunità europee, causa C-122/04, ove a commento dell’art.202 TCE la Corte precisava che “la nozione di esecuzione ai sensi di tale articolo comprende, al tempo stesso, l’elaborazione di norme di attuazione e l’applicazione di norme a fattispecie particolari per mezzo di atti di portata individuale” (par.37). Interpretazione estensiva ribadita anche nella Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, p.4, ove in merito alla distinzione tra le categorie degli atti di esecuzione e degli atti delegati introdotte dal Trattato di Lisbona la Commissione sottolineava che “(…) sembra opportuno insistere sul fatto che la portata generale degli atti adottati dalla Commissione non costituisce un reagente che da solo basta a innescare l’applicazione del regime giuridico degli atti delegati, piuttosto che quello degli atti d’esecuzione. L’articolo 291 consente infatti alla Commissione anche di adottare provvedimenti esecutivi di portata generale. Onde garantire l’uniforme esecuzione di un atto giuridicamente vincolante dell’Unione, la Commissione potrà di fatto ricorrere a singoli provvedimenti o a dati di portata generale”. 61 Corte di Giustizia, sentenza del 30.10.1975, Rey Soda v. Cassa Conguaglio zucchero, causa C-23/75. La vicenda aveva origine dalla domanda pregiudiziale promossa a norma dell’allora art.177 del TrCEE dal Pretore di Abbiategrasso avente ad oggetto, tra le altre, l’art.6 del Regolamento CEE della Commissione n.834/74, adottato dalla 57

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addotto dal ricorrente avverso la Commissione e circa il suo potere di adottare il Regolamento oggetto di impugnazione, la Corte ha precisato che “tenuto conto della finalità dell’art.155 del trattato, che è quella di mantenere l’equilibrio dei poteri fra il Consiglio e la Commissione (…) dal contesto del trattato, nel quale l’articolo va considerato, nonché dalle esigenze concrete, risulta che la nozione di attuazione va interpretata in senso lato”62. Infatti, per quanto riguarda il caso di specie, “qualora il Consiglio abbia così attribuito ampi poteri alla Commissione, i limiti della competenza di quest’ultima devono essere definiti non tanto in funzione del significato letterale della delega, quanto con riferimento agli obiettivi generali essenziali dell’organizzazione del mercato”63, in altre parole e più in generale, in riferimento agli obiettivi dell’atto di base. Nel rispetto delle indicazioni così elaborate, la Corte ha ritenuto rientrassero nelle competenze di esecuzione affidate alla Commissione l’adozione di atti eterogenei tra loro, sia per la materia di competenza che per gli effetti prodotti. Così, tra i tanti esempi, oltre a quelli già citati, la Corte ha ritenuto la Commissione competente ad adottare atti che implicavano stanziamenti di bilancio 64; la modifica di dati ricevuti dagli Stati membri circa le Commissione in forza dell’art.37, n.2, del Regolamento del Consiglio n.1009/67, che costituiva il regolamento di base nel settore dello zucchero. V. anche Corte di Giustizia, sentenza dell’11.3.1987, Walter Rau Lebensmittelwerke, Union Deutsche Lebensmittelwerke GmbH, Heinrich Hamker Lebensmittelwerke GmbH & Co. KG e Westfälisches Margarinewerk Wilhelm Lindemann KG v. Comunità economica europea, cause riunite C- 279, 280, 285 e 286/84. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza dell’11.3.1987, Société Vandemoortele NV v. Comunità economica europea, causa C-27/85; Corte di Giustizia, sentenza dell’11.3.1987, Van Den Bergh en Jurgens v. Comunità economica europea, causa C-265/85. Nelle cause riunite da ultimo citate, la Corte giudicava legittimo il Regolamento della Commissione n.2956/84 relativo allo smaltimento di burro a prezzo ridotto (c.d. operazione «burro di Natale») e basato sia sull’art.6 sia sull’art.12 del Regolamento del Consiglio 27 giugno 1968, n.804, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari e che così ripartiva le competenze tra Consiglio e Commissione: al Consiglio spettava il compito di stabilire le norme generali di applicazione di detti provvedimenti e alla Commissione quello di definire le relative modalità di esecuzione. 62 Corte di Giustizia, sentenza del 30.10.1975, causa C-23/75, cit., par. nn.9-10. Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 25.6.1997, Repubblica italiana v. Commissione delle Comunità europee, causa C-285/94; Corte di Giustizia, sentenza del 4.2.1997, Belgio e Germania v. Commissione, cause riunite C-9/95, C-23/95 e C-156/95. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 29.6.1989, Industrie- en Handelsonderneming Vreugdenhil BV, Gijs van der Kolk-Douane Expediteur BV e Minister van Landbouw en Visserij, causa C-22/88; tra le più recenti Corte di Giustizia, sentenza del 15.7.2004, Di Leonardo Adriano S.r.l., Dilexport S.r.l. e Ministero del commercio con l’estero, cause riunite C-37/02 e C-38/02; Corte di Giustizia, sentenza del 30.6.2005, causa C-295/03 P. 63 Corte di Giustizia, sentenza del 30.10.1975, causa C-23/75, cit., par. n.14. Cfr. anche Corte di Giustizia, sentenza del 17.10.1995, Paesi Bassi v. Commissione, causa C-478/93. 64 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 24.10.1989, causa C-16/88, cit., vertente sul ricorso di annullamento promosso dalla Commissione avverso l’art.6, n.4, del Regolamento (CEE) del Consiglio 19 ottobre 1987, n.3252, relativo al coordinamento e alla promozione della ricerca nel settore della pesca. In particolare, con l’articolo da ultimo citato il Consiglio conferiva alla Commissione la competenza di provvedere all’esecuzione dei programmi comunitari di ricerca e dei programmi comunitari di coordinamento della ricerca tramite la procedura c.d. «del comitato di gestione». La Commissione contestava il ricorso a questa procedura deducendo la violazione degli artt.205 e 155, terzo trattino, del trattato e l’errata od abusiva applicazione dell’art.145, terzo trattino, del trattato nel testo di cui all’Atto unico europeo perché “le decisioni di carattere individuale che nella specie la Commissione è stata autorizzata ad adottare implicherebbero, quasi tutte, l’utilizzazione di stanziamenti di bilancio. Di conseguenza, esse non rientrerebbero nella nozione di esecuzione di norme ai sensi dell’art.145, terzo trattino, del trattato, ma farebbero parte delle competenze di cui la Commissione è titolare ex art.205 del trattato. Assoggettando l’esercizio di tali prerogative ad una procedura del comitato di gestione, il Consiglio avrebbe dunque leso l’autonomo potere di decisione che l’art.205 conferisce alla Commissione. Detta procedura, (…) consentirebbe, infatti, al Consiglio di intervenire in una sfera di competenza esclusiva della Commissione” (par.5). Tanto premesso, e in riferimento alla questione di merito, la Corte rilevava che “la competenza, attribuita alla Commissione, di curare l’esecuzione del bilancio non è di natura tale da modificare la divisione dei poteri sancita dalle varie disposizioni del trattato che autorizzano il Consiglio e la Commissione ad emanare atti di portata generale o individuale in determinati settori (…). Ne discende che è erronea la tesi della Commissione secondo la quale il Consiglio non può attribuire, in forza dell’art.145, terzo trattino, il potere di emanare atti di portata individuale, in quanto questi avrebbero implicazioni di carattere finanziario” (parr.16 e 19).

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rese di olive e di olio65; le modalità concrete di espletamento di determinate audizioni 66. Ancora, sono stati ricondotti al potere esecutivo atti che disponevano l’incremento dei prezzi dei prodotti agricoli67, l’annullamento - di fatto - dei premi previsti a favore dei produttori di zucchero bianco68 o l’imposizione di oneri pecuniari ai detentori di scorte di zucchero69. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nell’unica occasione 70 in cui, ad oggi, la Corte ha avuto modo di esprimersi sulla portata e sull’ambito di applicazione della categoria degli «atti delegati» di cui l’art.290 TFUE, nonché sugli elementi che li distinguono degli «atti d’esecuzione» di cui l’art.291 TFUE, categorie che, come già rilevato, affondano le loro radici nelle previsioni di cui l’art. 155 TCE, la Corte analizzava il dato testuale del Trattato FUE per evidenziare che “(…) l’art.291 TFUE non fornisce 65

Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 25.6.1997, causa C-285/94, cit. La causa da ultimo citata aveva ad oggetto l’annullamento del Regolamento (CE) della Commissione 27 luglio 1994, n.1840, che fissava le rese di olive e di olio per la campagna 1993/1994 tramite il procedimento c.d. del comitato di gestione e sulla base dei dati forniti dagli Stati membri produttori non oltre il 30 aprile di ogni anno. Al termine del proprio giudizio, la Corte specificava che nel potere di dare attuazione, di cui l’art.155 del Trattato, rientrava anche la facoltà della Commissione di modificare i dati ricevuti dagli Stati membri purché sempre “con riferimento agli obiettivi generali essenziali dell’organizzazione di mercato” (par.22). Invero, “per garantire la realizzazione degli obiettivi fondamentali del regime di aiuti ai produttori di olive e di olio d’oliva, vale a dire la parità di trattamento di tutti i produttori di olive e di olio d’oliva in tutti gli Stati membri produttori, e per provvedere al buon funzionamento del regime di aiuti ai produttori in base a dati corretti, la Commissione dev’essere in grado di verificare e, se del caso, di correggere i dati comunicati da ciascuno Stato membro” (par.28). 66 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 15.7.1970, ACF Chemiefarma N.V. v. Commissione, causa C-41/69. In questo caso la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della delega con la quale il Consiglio aveva conferito alla Commissione il compito di elaborare disposizioni relative all’audizione di persone interessate e terzi, secondo quanto previsto dall’articolo 19, nn.1 e 2, del Regolamento del Consiglio n.17/62. A fronte delle doglianze lamentate dalla ricorrente, secondo la quale “la delega del Consiglio alla Commissione (…) riguarda un’attività legislativa (…)” e per questo “essa supera l’ambito del combinato disposto degli articoli 155 e 4 del trattato CEE” (p.67 2) la Corte precisava che dato che “il principio dell’audizione degl’interessati da parte della Commissione è stato fissato dal Consiglio, le disposizioni che definiscono la procedura da seguire al riguardo, per quanto importanti, non sono che norme d’attuazione ai sensi dell’articolo 155. Il Consiglio” (parr.65/67) - concludeva la Corte - “aveva quindi la facoltà di affidare all’istituzione competente per l’applicazione di questa procedura il compito di stabilirne le particolari modalità” (parr.65/67). 67 Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 18.11.1975, Cam SA v. Comunità economica europea, causa C-100/74, la Corte era chiamata ad esprimersi sulla richiesta di annullamento del Regolamento della Commissione n.2546/74 adottato per dare attuazione alla previsione di cui l’art.4 del Regolamento del Consiglio n.2496/74 che, dopo aver disposto l’aumento dei prezzi comunitari di alcuni prodotti agricoli, stabiliva che le modalità d’applicazione, le eventuali disposizioni transitorie, e le modifiche da apportare ai prezzi stabilite dal Regolamento, dovevano essere adottate dalla Commissione. La Corte rigettava la doglianza sollevata sottolineando che “l’art.4 del Regolamento n.2496/74, nell’attribuire alla Commissione, in forza dell’art.155 del trattato, i poteri necessari per l’attuazione delle norme contenute nel Regolamento [del Consiglio] (…), attribuisce espressamente alla Commissione il potere di modificare le norme relative alla fissazione degli importi delle restituzioni; di conseguenza (…) la Commissione non ha ecceduto i limiti della propria competenza” (parr.27/28). 68 Corte di Giustizia, sentenza del 14.3.1973, Westzucker v. Einfuhr-Und Vorratsstelle, causa C-57-72. Nella causa da ultimo citata, la Corte era chiamata a decidere sulla facoltà della Commissione di adottare il Regolamento n.354/69 con il quale essa aveva fissato ad un importo pari a zero, quindi sostanzialmente sospendendolo, il premio di denaturazione previsto per la produzione di zucchero bianco, decisione presa dalla Commissione a norma dell’art.8 del Regolamento del Consiglio n.1009/67 e in forza del quale “le modalità di applicazione del presente articolo, in particolare (…) le condizioni per la concessione dei premi di denaturazione e il relativo ammontare, sono stabilite in conformità all’art.40, cioè dalla Commissione, col procedimento detto «del comitato di gestione»” (par.7). La Corte proseguiva statuendo che “poiché le norme generali (…) sono state fissate col Regolamento [del Consiglio] n.768/68, se ne deve desumere che il Consiglio abbia inteso lasciare alla Commissione la determinazione di tutte le altre modalità d’attuazione. Questa interpretazione è conforme sia allo spirito dell’art.155 del trattato CEE, il quale stabilisce che la Commissione «esercita le competenze che le sono conferite dal Consiglio per l’attuazione delle norme da esso stabilite», sia alla lettera (…) del Regolamento n.1009/67. (…) la Commissione era perciò competente ad adottare i provvedimenti necessari per l’attuazione del regime dei premi di denaturazione, entro i limiti in cui il Consiglio non aveva già statuito direttamente (…)”, (par.7).

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alcuna definizione della nozione di atto di esecuzione, ma si limita a riferirsi (…) alla necessità dell’adozione di un tale atto da parte della Commissione o, in taluni casi specifici, del Consiglio per garantire che un atto giuridicamente vincolante dell’Unione sia attuato a condizioni uniformi dalla medesima” 71. Premessi brevi cenni alla situazione pre-Lisbona 72, la Corte rilevava poi che, nel quadro normativo oggi in vigore, “quando il legislatore dell’Unione conferisce alla Commissione, in un atto legislativo, un potere delegato in virtù dell’articolo 290, paragrafo 1, TFUE, quest’ultima è chiamata ad adottare norme che integrano o modificano determinati elementi non essenziali di tale atto (…) l’attribuzione di un potere delegato mira all’adozione di norme che si inseriscono nel quadro normativo quale definito dall’atto legislativo di base”73. All’opposto, “quando invece lo stesso legislatore conferisce un potere di esecuzione alla Commissione sulla base dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE, quest’ultima è chiamata a precisare il contenuto di un atto legislativo, per garantire la sua attuazione a condizioni uniformi in tutti gli Stati membri” 74. Rigettando il ricorso promosso dalla Commissione, la Corte ha avuto modo anche di precisare che la scelta di attribuire alla Commissione un potere delegato ex art.290 TFUE o un potere di esecuzione ex art.291 TFUE è di competenza del legislatore che, in merito, “dispone di un potere discrezionale” . Tanto premesso, e in riferimento ai fatti di causa75, la Corte si premurava di precisare che “(…) il sindacato giurisdizionale si limita 69

Corte di Giustizia, sentenza del 30.10.1975, causa C-23/75, cit. In questo caso la vicenda ha origine dalla domanda pregiudiziale promossa a norma dell’allora art.177 del TrCEE dal pretore di Abbiategrasso avente ad oggetto, tra le altre, l’art.6 del Regolamento CEE della Commissione n.834/74, adottato dalla Commissione in forza dell’art.37, n.2, del Regolamento del Consiglio n.1009/67, che costituiva il regolamento di base nel settore dello zucchero e in decisione della quale la Corte affermava che “la Commissione era legittimata ad emanare (…) un provvedimento inteso ad imporre un onere pecuniario ai detentori di scorte di zucchero, in uno Stato membro, (…) a condizione che in tale provvedimento venissero direttamente stabilite le norme sostanziali di base” (par. 29). 70 Corte di Giustizia, Grande sezione, sentenza del 18.3.2014, causa C-427/12, Commissione europea v. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea. 71 Corte di Giustizia, Grande sezione, sentenza del 18.3.2014, causa C-427/12, cit., paragrafo n.33. 72 Dopo aver rilevato che “prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’espressione «competenze di esecuzione» contenuta nell’art.202, terzo trattino, CE comprendeva la competenza ad attuare, a livello dell’Unione, un atto legislativo di quest’ultima o talune sue disposizioni, da un lato, nonché, in talune circostanze, la competenza ad adottare atti normativi che integrano o modificano elementi non essenziali di un atto legislativo, dall’altro” (Corte di Giustizia, Grande sezione, sentenza del 18.3.2014, causa C-427/12, cit., paragrafo n.26) la Corte sottolineava che “la Convenzione europea ha proposto una distinzione tra tali due tipi di competenza (…). Tale modifica è (…) stata ripresa nel Trattato di Lisbona agli articoli 290 TFUE e 291 TFUE” (Corte di Giustizia, Grande sezione, sentenza del 18.3.2014, causa C-427/12, cit., paragrafo n.36). 73 Ibidem, paragrafo n.38. 74 Ibidem, paragrafo n.39. 75 La vicenda in esame trae origine dal ricorso promosso dalla Commissione europea ex art.263 TFUE per l’annullamento dell’art.80, par.1, del Regolamento (UE) n.528/2012 del Parlamento e del Consiglio relativo alla messa a disposizione sul mercato e all’uso di biocidi (Regolamento (UE) n.528/2012 del Parlamento e del Consiglio, del 22 maggio 2012, relativo alla messa a disposizione sul mercato e all’uso dei biocidi, in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 27.6.2012, L 167, p.1) nella parte in cui prevede che la Commissione determini le tariffe spettanti all’Agenzia europea per le sostanze chimiche con «atto di esecuzione» ex art.291, par.2, TFUE, anziché che con «atto delegato» ex art.290, par.1, TFUE. Come unico motivo a sostegno del proprio ricorso la Commissione deduceva la violazione da parte dei co-legislatori, Parlamento e Consiglio, del sistema di attribuzione dei poteri delineato dagli artt.290 e 291 TFUE. Nel dettaglio, premesso che “(…) il potere che le è conferito sulla base dell’articolo 291 TFUE è di natura puramente esecutiva, mentre essa dispone di poteri di natura quasi legislativa in virtù dell’art.290 TFUE” (par.22), la Commissione evidenziava come “(…) la scelta operata dal legislatore dell’Unione di attribuire alla Commissione il potere di adottare un atto delegato o un atto di esecuzione dovrebbe essere fondata su elementi oggettivi e chiari che possono essere oggetto di sindacato giurisdizionale” (par.23), quali, a parere del ricorrente, la natura e l’oggetto dei poteri conferiti dal Legislatore alla Commissione (cfr. parr. 22/23). La Commissione deduceva quindi l’illegittimità dell’articolo impugnato perché con esso “erroneamente il legislatore dell’Unione le ha conferito un potere di esecuzione a titolo dell’art.291 TFUE” (par.25) mentre “un esame della natura e dell’oggetto dei poteri che le sono

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agli errori manifesti di valutazione in merito alla questione se il legislatore abbia potuto ragionevolmente ritenere, da un lato, che il quadro giuridico che esso ha istituito per quanto riguarda il regime tariffario di cui all’articolo 80, paragrafo 1, del Regolamento n.528/2012 richieda soltanto, ai fini della sua attuazione, di essere precisato, senza dover essere integrato o modificato da elementi non essenziali e, dall’altro, che le disposizioni del Regolamento n.528/2012 relative a tale regime richiedano condizioni uniformi di esecuzione”76. Ne discende quindi che il ruolo dell’organo giurisdizionale non può che essere circoscritto al mero controllo (ex post) di “errori manifesti di valutazione”, così da giudicare l’adeguatezza del potere attribuito alla Commissione rispetto al compito assegnatole. Controllo che, nel caso in esame e per gli atti di esecuzione, si sostanziava nell’accertamento della necessità di dare all’atto base un’esecuzione uniforme, come prescritto dall’art.291, par.2 TFUE, nonché nella verifica della possibilità di dare attuazione all’atto base tramite la sua semplice precisazione, senza ricorrere all’integrazione o modifica del medesimo. 4. LA PORTATA DELLA NUOVA DISTINZIONE: ALCUNI PROFILI DI CRITICITÀ. Nonostante la razionalizzazione che con la distinzione tra atti di esecuzione - ex art.290 TFUE - e atti delegati - ex art.291 TFUE - si è cercato di dare al sistema delle fonti normative secondarie, permane la difficoltà di individuare chiari e dirimenti parametri di legittimità alla luce dei quali valutare ex post l’operato delle istituzioni77. così attribuiti dimostrerebbe (…) che essa sarà chiamata ad adottare un atto che integra taluni elementi non essenziali dell’atto legislativo ai sensi dell’articolo 290 TFUE” (par.25). Rigettata l’eccezione di irricevibilità sollevata dal Consiglio circa l’irricevibilità del ricorso per impossibilità di annullamento parziale del Regolamento n.528/2012 (cfr. par. nn.18/19), la Corte respingeva il ricorso promosso dalla Commissione perché, a suo parere, ogni qualvolta il Regolamento n.528/2012 prescrive un intervento della Commissione, quest’ultima è chiamata a intervenire nell’ambito di un quadro giuridico completo già definito dal Legislatore nel Regolamento in esame (cfr. par.46). Data la previa determinazione dei presupposti e dei criteri che la Commissione doveva (e deve) rispettare nel dare attuazione alle disposizioni di cui al Regolamento n.528/2013, “(…) il legislatore dell’Unione ha potuto ragionevolmente ritenere che l’articolo 80, paragrafo 1, del Regolamento n.528/2012 conferisca alla Commissione il potere non di integrare elementi non essenziali di tale atto legislativo, ma di precisare il contenuto normativo del medesimo, conformemente all’articolo 291, paragrafo 2, TFUE” (par.52). Inoltre, proseguiva la Corte, “(…) l’attribuzione di un potere di esecuzione alla Commissione a titolo dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE può essere considerata ragionevole al fine di garantire condizioni uniformi di esecuzione di tale regime nell’Unione” (par.53). Di conseguenza, e in conclusione, “risulta da tutto quanto precede che il motivo unico invocato dalla Commissione a sostegno del suo ricorso non è fondato e che (…) il ricorso deve essere respinto” (par.54). 76 Corte di Giustizia, Grande sezione, sentenza del 18.3.2014, causa C-427/12, cit., paragrafo n.36 77 Sulla dubbia portata risolutiva della distinzione apportata da Lisbona, J. MENDES, Delegated and Implementing rule making: proceduralisation and constitutional design, cit., p.23, il quale evidenzia che “the distinction between delegated and implementing acts is built on the seismic fault lines of the division of powers (…) between the EU institutions. It is imbued with the different conceptions on the locus and scope of the executive power in the EU, on the distinction between legislative and executive functions, and on the type of controls that the European Parliament, the Council and the Member States should accordingly have over the adoption of non-legislative acts by the Commission, and of implementing acts that the Council may adopt in specific cases. (…) Unsurprisingly, the debate on the constitutional meaning and implications of the distinction between delegated and implementing acts has been intense, both before and after the entering into force of the Lisbon Treaty”. V. anche R. CORBETT, F. JACOBS, M. SHACKLETON, The European Parliament, cit., p.331, che rilevano che “the distinction between the two categories of delegated and implementing act is by no mean obvious and will remain controversial, not least because the choice of act in individual cases has very different implications for the respective powers of the Parliament, Council and Commission”. Ancora B. DRIESSEN, Delegated legislation after the Treaty of Lisbon, cit., p.848, a parere del quale “the application of the new provisions of the Lisbon Treaty remains disputed between the institutions. It may be hoped that the institutions, when putting arts 290 and 291 into effect, will remember that the primary goal of the Treaty of Lisbon consisted of making EU law simpler and decision-making more transparent. A clear agreed policy on the scope of the delegated acts procedure, reasoned from the fundamental principles of EU constitutionality, would be an important

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In sede applicativa la distinzione tra i due tipi di atti menzionati è facilitata dall’obbligo imposto dagli artt.290 e 291 del TFUE di procedere alla qualificazione dell’atto tramite l’inserimento dell’aggettivo «delegato» e i termini «di esecuzione» nel titolo degli atti. Ben diversamente, la suddivisione in commento non è per niente agevole e scontata per il legislatore che è chiamato a decidere che tipo di potere conferire alla Commissione – d’esecuzione o delegato – e, quindi, a qualificare esso stesso il contenuto dei propri atti individuando ciò che è essenziale e cosa no. Se apparentemente, dalla lettura dei trattati, emerge chiara la distinzione tra la funzione di «integrare e modificare elementi non essenziali dell’atto legislativo», propria degli atti delegati ex art.290 TFUE, e la funzione di «attuazione degli atti giuridicamente vincolanti», esercitata tramite gli atti di esecuzione ex art.291 TFUE, è meno chiaro stabilire la portata specifica di ciascun termine, soprattutto quando «l’attuazione» si spinge fino a “integrare e modificare elementi non essenziali dell’atto legislativo” o, viceversa, quando la delega è tanto dettagliata al punto di risultare molto affine alla mera funzione esecutiva. Presupposte le indicazioni fornite dalla Giurisprudenza circa il concetto di «essenzialità», il vero nodo gordiano della nuova classificazione pare riconducibile alla corretta definizione della portata dei termini «modificare» ed «integrare» ex art.290 TFUE e, di conseguenza, del termine «attuare» ex art.291 TFUE 78. Invero “the meaning given to ʽamendʼ or ʽsupplementʼ in the context of delegated acts is therefore crucial for determining the divided between delegated acts and implementing acts. The extent to which this limits the sphere of application of implementing acts depends on the interpretation of these terms. The narrower the meaning given to ʽamendʼ and ʽsupplementʼ when defining the sphere of application of delegated acts, the broader the remit of implementing acts. The broader the meaning accorded to ʽamendʼ and ʽsupplementʼ for the purposes of Article 290 TFUE, the narrower the sphere left to implementing acts”79. Di conseguenza, se «modificare» significa cambiare formalmente un elemento non essenziale dell’atto, più difficile è definire la portata di «integrare». Al punto che “it is therefore the meaning accorded to ʽsupplementʼ that will largely determine the respective spheres of application of Articles 290 and 291 TFUE”80.Del pari, è ambiguo il significato del termine «attuazione», per la cui definizione non è utile nemmeno il riferimento all’art.1 della Decisione del Consiglio 2006/512/CE 81 con cui si modificava la Decisione 1999/468/CE82 introducendo la procedura di regolamentazione con controllo che, come già rilevato, rappresenta il predecessore della categoria degli atti delegati. Infatti, l’art.1 della richiamata Decisione, statuendo che: “quando un atto di base adottato secondo la procedura di cui all’articolo 251 del trattato prevede l’adozione di misure di contribution on this effect”. Da ultimo, cfr. C.F. BERGSTRÖM, Delegation of powers in the European Union and the Committee System, cit., in particolare pp.355 ss. 78 V. B. DE WITTE, Legal instrument and law-making in the Lisbon Treaty, cit., p.93, che, a commento della situazione pre-Lisbona, sottolinea che “(…) there was for a long time no need to sharply distinguish between “amending or supplementing measures” and “implementing measures”, a distinction which is often not obvious, particularly in the case of broad framework legislation”. Cfr. T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Non-legislative rule making after the Lisbon Treaty: implementing the new system of comitology and delegated acts, in European Law Journal, vol.19, n.1, gennaio 2013, pp.42-56, in particolare p.44. 79 P. CRAIG, The Lisbon Treaty. Law, politics, and Treaty reform, cit., p.275. 80 Ibidem, p.276. Cfr. H. HOFMANN, Legislation, delegation and implementation under the Treaty of Lisbon, cit., p.495. 81 Decisione del Consiglio del 17.7.2006 che modifica la Decisione 1999/468/CE recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione, cit., p.11. 82 Decisione del Consiglio del 28.6.1999 recante modalità per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla Commissione, cit., p.23.

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portata generale intese a modificare elementi non essenziali di tale atto, anche sopprimendo taluni di questi elementi, o di completarlo tramite l’aggiunta di nuovi elementi non essenziali, tali misure sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo”, attribuiva al termine «attuazione» un significato ambiguo, perché riferito sia alla possibilità di modifica che a quella di integrazione 83. Nel vuoto dell’accordo denominato Common Understanding 84 sottoscritto tra le istituzioni al fine comporre preventivamente i possibili conflitti derivanti dall’applicazione della nuova categoria di atti prevista nel TFUE, maggiori chiarimenti sulla portata della classificazione introdotta - ed, in particolare, sulla categoria degli atti delegati - si ritrovano nelle comunicazioni unilaterali delle istituzioni dalla lettura delle quali, tuttavia, emerge anche le potenzialità del contrasto istituzionale insito nella nuova classificazione 85. 83

V. sul punto C.F. BERGSTRÖM, Delegation of powers in the European Union and the Committee System, cit., p.357, il quale registra che “(...) it is noteworthy that according to the guidelines currently laid down in Council Decision 99/468/EC, the regulatory committee procedure should be used, not only to ʻadapt or updateʼ non-essential provisions of basic instruments but also to adopt ʻmeasures of general scope designed to apply essential provisionsʼ. 84 Common Understanding sugli atti delegati, consultabile sul sito del Parlamento britannico, all’indirizzo http://www.publications.parliament.uk/pa/cm201012/cmselect/cmeuleg/428-xxxiii/42812.htm. T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Comitology and delegated acts after Lisbon, cit., p.10, spiegano in questi termini la scarsa portata esplicativa del Common Understanding: “as it happened, the text of the proposed Common Understanding was never discussed at the political level or even in trialogues, but only among “technical contacts” – frequently by email – between Council, Commission and Parliament. It is therefore not surprising to see that the Common Understanding ended up being little more than a consolidation of the established practice, building on the Commission’s original Communication”. 85 V. W. VOERMANS, Delegation is a matter of confidence, The new EU Delegation system under the Treaty of Lisbon, cit., pp.315 ss, che, facendo esplicito richiamo alla posizione di ciascuna istituzione, registra come “(…) the Council, the Commission, and the Parliament hold very different views on the meaning of the delegation provisions. And what makes matters worse, the treaty provisions themselves are not quite clear either. There are many open ends and much debate, and there is a great deal at stake”. Uno dei potenziali punti di conflitto che emerge dal confronto degli atti delle istituzioni attiene al ruolo che, nella nuova struttura delineata dai Trattati, deve essere riconosciuto ai rappresentati delle singole autorità nazionali. In particolare, mentre la Commissione precisa che, nell’ambito dei lavori preparatori necessari all’adozione di atti delegati, “la Commissione intende consultare sistematicamente gli esperti delle singole autorità nazionali cui spetterà attuare gli atti delegati dopo la loro adozione”, al tempo stesso puntualizza che “la Commissione annette la massima importanza a questi lavori che permettono di istituire (…) un fattivo partenariato con gli esperti delle autorità nazionali (…) occorre comunque precisare che nell’iter decisionale il ruolo degli esperti sarà consultivo e non istituzionale” (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.7). Ben diversamente, sul medesimo punto il Consiglio precisa che “(…) it is clear that the issue of consultation of national experts during the preparatory work before the adoption of a delegated act is crucial in order for delegations to accept the models. Delegations underlined the importance of a strong commitment from the Commission to ensure that the experience and the concerns of experts of the Member States are heard and taken into account to create confidence in the new procedure. However, delegations agree that no reintroduction of comitology is possible, since it would be incompatible with the Treaty”, Report del Consiglio dell’Unione europea, 16998/09, del 2.12.2009, p.3, consultabile all’indirizzo http://www.ksh.hu/docs/eu2011/doc/council_290_291_en.pdf. Esplicito sul punto il Parlamento: “il controllo sul potere delegato del legislatore deve, logicamente, rimanere una prerogativa del legislatore. Inoltre, qualsiasi altra forma di controllo esercitata da altri che il legislatore risulterebbe intrinsecamente in contrasto con l’articolo 290 del TFUE. In particolare gli Stati membri e, a maggior ragione, i comitati formati da esperti degli Stati membri non hanno alcun ruolo da svolgere in quest’ambito. (…) il Parlamento rifiuta categoricamente l’attribuzione di un ruolo ufficiale di qualsiasi natura agli esperti degli Stati membri che sortisca l’effetto di esercitare un meccanismo di controllo sulla Commissione, in quanto contrario ai trattati e al principio di equilibrio istituzionale” (Relazione sul potere di delega legislativa, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2010/2021(INI), cit., p.12). Inoltre, più in generale e a commento delle parole spese dalla Commissione nella propria comunicazione circa l’attuazione dell’art.290 TFUE, il Parlamento precisa che “il fatto che la comunicazione della Commissione non sembra aver colto né la portata né la rilevanza dei cambiamenti apportati al quadro costituzionale e giuridico dell’Unione europea dal trattato di Lisbona è fonte di rammarico. La Commissione tratta gli atti delegati quasi fossero un’evoluzione della “procedura di Lamfalussy” e delle misure di «comitologia» adottate sulla base dell’articolo 202 del trattato CE. È giunto il momento di abbandonare questa concezione allorché il tema in esame è la delega del potere legislativo alla Commissione”.

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In merito, a parere della Commissione, “il concetto di atto delegato è definito nella sua portata e nei suoi effetti - atto di portata generale che integra o modifica elementi non essenziali -, mentre quello di atto di esecuzione, mai precisato esplicitamente, discende dalla sua ragion d’essere - necessità di condizioni uniformi di esecuzione” 86. Distinzione, conclude la Commissione, “riconducibile alla natura e alla portata molto diverse dei poteri che ciascuna delle due istituzioni conferisce alla Commissione” 87.Del pari, il Parlamento, dopo aver premesso, circa i criteri di applicazione degli artt.290 e 291 TFUE, che “il carattere vincolante o non vincolante di una misura deve essere deciso sulla base della sua natura e del suo contenuto; solo il potere di adottare misure giuridicamente vincolanti può essere delegato a norma dell’articolo 290 TFUE” 88, procede a una dettagliata - ma non esaustiva -esemplificazione dei casi in cui, a suo parere, si dovrebbe fare ricorso all’atto delegato89. Più nello specifico, per quanto riguarda il significato dei termini utilizzati dal TFUE, la Commissione è del parere che “scegliendo il verbo “modificare”, gli autori del nuovo trattato hanno voluto coprire i casi in cui alla Commissione viene conferito il potere di modificare formalmente un atto di base” 90. Mentre, sempre a parere della Commissione, “per stabilire se una misura “integri” l’atto di base, il legislatore dovrebbe valutare se il futuro provvedimento aggiunga in concreto nuove norme non essenziali che modificano il quadro dell’atto legislativo, lasciando alla Commissione un margine di valutazione. In caso affermativo, sarebbe possibile considerare che la misura “integri” l’atto di base. Viceversa, misure che si propongono meramente di dare applicazione a norme esistenti dell’atto di base non dovrebbero potersi assimilare a misure integrative” 91. “However, the confusion with respect to the distinction between delegated and implementing acts goes far beyond their names into their substance. None of those who have had a decisive influence over the new hierarchy of legal acts has managed to come up with a substantive definition of delegated and implementing acts and none of those has managed to clarify on what grounds the choice should be made between the two of them”92. In tale contesto, i nuovi Trattati, e gli accordi adottati dalle istituzioni in applicazione degli stessi, invero, non sembrano utili a fornire alla Corte elementi oggettivi e chiari alla luce dei quali appianare i dubbi applicativi che la nuova distinzione porta con sé 93. Infatti, 86

Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, cit., 9.12.2009, p.3. 87 Ibidem, p.3. 88 Relazione sul seguito della delega dei poteri legislativi e sul controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2012/2323(INI), cit., p.5. 89 Nella relazione sul seguito della delega dei poteri legislativi e sul controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione, Commissione giuridica del Parlamento europeo, relatore József Szájer, 2012/2323(INI), cit., pp.5 ss, il Parlamento ritiene che, per esempio, dovrebbero essere adottate con atti delegati: “- le misure che portano a una scelta di priorità, obiettivi o risultati attesi (…). - le misure volte a stabilire (ulteriori) condizioni, criteri o requisiti da soddisfare (…). - (…) norme vincolanti supplementari di portata generale che incidono sulla sostanza dei diritti o degli obblighi stabiliti nell’atto di base (…)”. 90 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Attuazione dell’art.290 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, COM(2009)673, 9.12.2009, cit., p.4. 91 Ibidem, p.4. 92 C.F. BERGSTRÖM, Delegation of powers in the European Union and the Committee System, cit., p.356. 93 Infatti, come rilevato da T. CHRISTIANSEN, M. DOBBELS, Non-legislative rule making after the Lisbon Treaty: cit., p.55, “what has remained unregulated is arguably the most important kind of decision that is to be made in this area, namely the initial choice between implementing measures to be adopted through comitology on the one hand, and delegated acts on the other. Neither the treaty provisions, nor any legislative act, nor any non-legislative rules provide a definitive guide as which of the two instruments should be used for what kind of problem. (...) In the absence of a clear distinction, decisions on whether a basic act is to be implemented through delegated or imple-menting acts are made on a case-by-case basis in the context of legislative bargaining”. Ancora più chiari P. CRAIG, G. DE BÚRCA, EU

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la Corte non fornisce alcuna indicazione utile a definire la portata semantica dei termini utilizzati dai Trattati, limitandosi a valutare l’adeguatezza dei poteri forniti alla Commissione rispetto al compito ad essa assegnato.Premesso che, come ribadito dalla Corte, è legittimo aspettarsi che rimarrà nella competenza del legislatore stabilire, volta per volta, la possibilità di delegare alla Commissione il potere di adottare atti delegati e, quindi, anche il grado di dettaglio dell’atto legislativo nonché, in caso di atti di esecuzione, valutare la sussistenza di condizioni uniformi di esecuzione dell’atto legislativo, l’impressione è che la distinzione tra le due categorie di atti sia destinata ad essere profondamente condizionata dalla prassi che le istituzioni svilupperanno all’atto di darne piena attuazione e, di conseguenza, “the choice between one or other type of act institutions depends ultimately on the negotiation between the institutions in the preparation of the legislative acts”94. Circostanza che, da un alto, rischia di essere foriera di conflitti istituzionali ed ostacolo al raggiungimento di compromessi legislativi, mentre, dall’altro lato, non fornisce alla Corte parametri certi alla luce dei quali leggere le nuove classificazioni e valutare le scelte del legislatore, se non a costo di intromettersi in una sfera a questi riservata95. ** Dottoressa di ricerca in Diritto costituzionale italiano ed europeo. Contrattista presso la cattedra di diritto pubblico dell’Università degli studi di Brescia.

Law, text, cases, and materials, cit., p.117, a parere dei quali, ponendo in discussione l’opportunità della distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione, sostengono che “there, are, however two very real difficulties with this criterion (…) First, there is what might be termed ‘the language problem’: all secondary measures involve some addition to the primary act (…). Secondly, (…) it is not possible to decide conclusively whether a secondary measures falls into the category of delegated or implementing acts according to the preceding criterion until it is made, more especially because any draft measures may be changed prior to final enactment and this may take the measure from the category of delegated to implementing act, or vice versa”. Cfr. sul punto M. GNES, Il nuovo assetto del potere esecutivo europeo dopo il Trattato di Lisbona, cit., p.241, a parere del quale, dopo il trattato di Lisbona, “la distinzione tra le diverse tipologie di atti rimane ancora incerta, specie sotto il profilo teorico, tanto che viene previsto che le norme delegate o di esecuzione debbano riportare i termini “delegato” e “di esecuzione” nel loro titolo”. 94 J. MENDES, Delegated and Implementing rule making: proceduralisation and constitutional design, cit., p. 31. 95 Il rischio di un’intromissione nel ruolo del Legislatore emerge in modo chiaro dalle parole di M. KAEDING, A. HARDACRE, The european Parliament and the future of Comitology after Lisbon, in European Law Journal, vol.19, issue 3, maggio 2013, pp.389 ss, laddove registrano la “existence of a grey zone with regard to the difference between Delegated acts and Implementing acts. It is clear that a Delegated Act is used when the tasks delegated relate to quasilegislative power and an Implementing Act deals with implementing powers that would normally fall to the Member States – but there is a grey zone between the two where room for negotiation exists. The ultimate arbitrator of this grey one would be the European Court of Justice (ECJ), but they have yet to be called on to decide where the line is, and even if they were to be required to judge on this issue, it is unlikely they would issue a strong definitive ruling that would, by definition, touch on legislative prerogatives”.

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I controlli della Corte dei conti e la politica economica della Repubblica: rules vs. discretion? di Laura Buffoni e Andrea Cardone* (12 ottobre 2014) (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2014)

Sommario: 1. La funzione di controllo della Corte dei conti sulle autonomie territoriali nella sentenza n. 39 del 2014 e l’autonomia politica; 2. I presupposti teorici impliciti della sentenza: l’ibridazione dei modelli di controllo ed il recupero della categoria del controllo-garanzia; 2.1 Segue: la separazione degli interessi e la resistenza della concezione difensivo-liberale dell’autonomia; 3. I limiti del modello presupposto dalla sentenza e l’alternativa concezione del controllo-indirizzo: il disvelamento del ‘politico’; 4. Per una dottrina alternativa dell’autonomia (e del controllo): la concezione democratico-pluralista dell’autonomia e la desoggettivazione dell’unità politica della Repubblica; 5. L’‘oikonomia’ e l’unità politica: «per la critica dell’economia politica» come ‘tecnologia’.

1. La funzione di controllo della Corte dei conti sulle autonomie territoriali nella sentenza n. 39 del 2014 e l’autonomia politica Con la decisione in commento la Corte costituzionale interviene sul delicato tema della compatibilità con il principio di autonomia dei controlli esterni della Corte dei conti introdotti dall’art. 1, c. 2-12, d.l. n. 174 del 2012. In senso lato, la sentenza si inquadra, dunque, nella infelice e ben nota vicenda che ha portato, per effetto del proliferare dei fenomeni di malamministrazione nella gestione delle risorse pubbliche legate al finanziamento della politica regionale e del sempre più frequente ricorrere dei casi di dissesto finanziario degli enti locali, all’introduzione di nuove di controllo del giudice contabile. E certamente tale contesto avrà indirettamente giocato un ruolo nella maturazione della decisione in commento. Per quanto non se ne sottostimi affatto la rilevanza, non è, però, sul piano delle esigenze pratiche cui risponde la disciplina sindacata, così come anche la soluzione concreta adottata dalla Corte, che si intende portare l’attenzione in queste pagine; quanto, piuttosto, sulle implicazioni di carattere generale della ricostruzione che la sentenza effettua per “sistematizzare” i neointrodotti controlli. In particolare, dopo aver funzionalizzato i controlli della Corte dei conti sulla gestione economico-finanziaria degli enti territoriali al rispetto degli obblighi derivanti, a carico delle «politiche di bilancio», dall’appartenenza all’Unione europea e dal patto di stabilità interno, li riconduce alla materia concorrente «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica» 1. Per questa via, la sentenza distingue tra i controlli di «regolarità e legittimità contabile», attribuiti dalla legge statale alla Corte dei conti per assicurare «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito» del «complesso delle pubbliche amministrazioni» e garantire il rispetto del vincolo «in materia di indebitamento posto dall’ultimo comma dell’art. 119 Cost.»2 ed i controlli istituiti dalle fonti di autonomia speciale sulla «finanza pubblica di interesse regionale». Le due categorie di 1

* Il lavoro è frutto della comune riflessione degli autori. Al prof. Andrea Cardone si deve la redazione dei paragrafi 2 e 2.1. Alla dott.ssa Laura Buffoni quella dei restanti. Medio tempore, la materia dell’«armonizzazione dei bilanci pubblici» è divenuta, a seguito della modifica apportata all’art. 117, c. 2, lett. e), Cost. dall’art. 3, c. 1, lett. a), l. cost. n. 1/2012, materia di competenza esclusiva statale, con decorrenza, in base all’art. 6 della l. cost. n. 1 cit., dall’esercizio finanziario del 2014. Per una lettura degli effetti della decisione in commento sul punto, alla luce della l. cost. n. 1 del 2012, cfr. B. CARAVITA, E. JORIO, La Corte costituzionale e l'attività della Corte dei conti (una breve nota sulle sentenze nn. 39 e 40 del 2014), in Federalismi.it, 2014, n. 6, 5. 2 Punti 2 e 3 del Considerato in diritto. Conf. Corte cost., sentt. nn. 179 del 2007, 60 e 266 del 2013.

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controlli, secondo la pronuncia, possono coesistere perché sono teleologicamente poste a tutela di interessi differenti. I primi, che rafforzano, secondo quanto prescritto dall’art. 1, c. 1, d.l. n. 174 cit., i controlli sulla gestione finanziaria delle Regioni e degli enti locali già previsti dall’art. 3, c. 5, l. n. 20 del 1994 e dall’art. 7, c. 7, l. n. 131 del 2003, possono accludere «misure atte a prevenire pratiche contrarie ai principi della previa copertura e dell’equilibrio di bilancio […] che ben si giustificano in ragione dei caratteri di neutralità e indipendenza del controllo di legittimità della Corte dei conti (sentenza n. 226 del 1976). Detti controlli si risolvono in un esito alternativo, nel senso che devono decidere se i bilanci preventivi e successivi degli enti territoriali siano o meno rispettosi del patto di stabilità e del principio di equilibrio. Cionondimeno, essi non impingono nella discrezionalità propria della particolare autonomia di cui sono dotati gli enti territoriali destinatari, ma sono mirati unicamente a garantire la sana gestione finanziaria, prevenendo o contrastando pratiche non conformi ai richiamati principi costituzionali»3. In uno, «l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica», compendiato negli artt. 81, 97, 100 e 119 Cost., è la causa, ragione soggettiva e funzione oggettiva al contempo, di tali controlli e la giustificazione “naturale” della compressione degli spazi delle competenze legislative ed amministrative delle autonomie. Tale compressione, secondo la sentenza, è tollerabile in quanto questi controlli sono esercitati dalla Corte dei conti come organo «dello Statoordinamento, quale garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico nel suo complesso e della corretta gestione delle risorse» 4 e non già dalla Corte dei conti come organo dello «Stato-apparato» 5. Tra questi la Corte include i controlli già previsti dall’art. 1, c. 166-72, l. n. 266 del 2005 e dall’art. 148- bis, d.lgs. n. 267 del 2000, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. e), d.l. n. 174 del 2012, che istituiscono controlli sui bilanci e rendiconti, estesi alla generalità degli enti locali (e degli enti del Servizio sanitario nazionale), considerandoli «controlli di natura preventiva finalizzati ad evitare danni irreparabili all’equilibrio di bilancio, che si collocano pertanto su un piano distinto rispetto al controllo sulla gestione amministrativa, almeno per quel che riguarda gli esiti del controllo spettante alla Corte dei conti sulla legittimità e la regolarità dei conti» 6. Unica condizione di legittimità costituzionale della congerie di controlli attribuiti alla Corte dei conti dalla legislazione statale è, per la Corte costituzionale, la «natura collaborativa» che ricorre se il controllo consente «valutazioni politiche del massimo organo rappresentativo della Regione, anche nella prospettiva dell’attivazione di processi di “autocorrezione” nell’esercizio delle funzioni legislative e amministrative» e non implica «di per sé, alcuna coercizione dell’attività dell’ente sottoposto a controllo» 7. Tali controlli sono legittimi anche sugli enti ad autonomia differenziata, la cui finanza è parte della finanza pubblica allargata e la cui autonomia speciale non ha la forza di opporre «limiti peculiari» alle competenze della Corte dei conti che debbono imporsi «in modo uniforme […] sull’intero territorio nazionale»8. Quanto, invece, ai controlli istituiti dalle fonti dell’autonomia speciale (norme statutarie e di attuazione), la sentenza afferma che, «seppur concorrenti nella valutazione degli effetti finanziari delle leggi regionali» 9, non si sovrappongono e non si sostituiscono ai (non escludono i) primi, ma sono resi «nell’interesse della Regione» 10: il rapporto tra Stato e Regione speciale, modellato dai controlli 11, non è più esclusivamente garantito dalle fonti dell’autonomia. Di per sé, quindi, gli obblighi di adeguamento delle norme speciali alle 3

Ibidem. Conf. Corte cost., sent. n. 40 del 2014. Punto 6.3.3. del Considerato in diritto. Conf. Corte cost., sentt. nn. 29 del 1995, 470 del 1997, 181 del 1999, 64 del 2005, 267 del 2006, 179 del 2007, ord. 285 del 2007 e 60 del 2013. Più di recente conf. Corte cost., sent. n. 40 del 2014. 5 Salvo precisarne subito dopo l’appartenenza «pur sempre all’ordinamento statale», con conseguente esclusione della possibilità per il legislatore regionale di disciplinare il contenuto e gli effetti delle pronunce: punto 6.3.4.2.1. del Considerato in diritto. 6 Già Corte cost., sent. n. 60 del 2013 e, poi, sent. n. 40 del 2014. 7 Salvo, però, incidentalmente ammettere, in alternativa ai controlli collaborativi, «quelli comunque funzionali a prevenire squilibri di bilancio»: punto 6.3.3. del Considerato in diritto. Conf. Corte cost., sentt. nn. 29 del 1995, 470 del 1997 e 181 del 1999. 8 Punto 6.3.2 del Considerato in diritto. Conf. Corte cost., sentt. nn. 179 del 2007, 198 del 2012, 60 e 219 del 2013. 9 Punto 6.3.3. del Considerato in diritto. 10 Punto 2 del Considerato in diritto. Adottano la prospettiva teleologica dei differenti fini-interessi a cui sono preordinati i due controlli Corte cost., sent. n. 267 del 2006 e, di recente, sent. n. 40 del 2014. 11 Sul controllo come momento della relazione unità-autonomia vedi infra, § 2. 4

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forme di controllo previste dalla legislazione statale non sono illegittimi, salvo il limite del contrasto delle medesime «in modo puntuale» con le norme statutarie o di attuazione12. Sulla base dell’appena ricostruito discrimen, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità relative alla previsione: a) della relazione semestrale della Corte dei conti ai Consigli regionali sulla tipologia delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali e sulle tecniche di quantificazione degli oneri (art. 1, c. 2, d.l. n. 174 cit.), in quanto di natura collaborativa e non già coercitivo-sanzionatoria; b) del controllo, qualificato dal Giudice costituzionale come «successivo», delle Sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci preventivi e rendiconti consuntivi regionali (e degli enti del Servizio sanitario nazionale), trasmessi dai Presidenti delle Regioni con una propria relazione e diretto alla «verifica del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall’art. 119, sesto comma della Costituzione, della sostenibilità dell’indebitamento e dell’assenza di irregolarità suscettibili di pregiudicare, anche in prospettiva, gli equilibri economicofinanziari degli enti», in quanto privo di effetti giuridici impeditivi dell’efficacia delle leggi regionali (art. 1, c. 3 e 4, d.l. n. 174 cit.); c) del giudizio di parificazione del rendiconto generale delle Regioni speciali da parte delle Sezioni regionali della Corte dei conti ai sensi degli artt. 39 e 41, r.d. n. 1214 del 1934, in quanto analogo ai giudizi di verificazione già previsti nelle fonti regionali; d) della relazione del Presidente della Regione alla Sezione regionale sulla regolarità della gestione, nonché sull’efficacia ed adeguatezza del sistema dei controlli interni, adottata sulla base delle linee guida deliberate dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti ed inviata al Presidente del Consiglio regionale (art. 1, c. 6, d.l. n. 174 cit.), in quanto funzionale a garantire il raccordo tra controlli interni ed esterni; e) della verifica documentale da parte della Sezione regionale della conformità del rendiconto di esercizio annuale approvato da parte dei gruppi consiliari alle linee guida deliberate in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni-Province autonome (art. 1, c. 9, d.l. n. 174 cit.), in quanto il rendiconto dei gruppi è parte del rendiconto regionale, il rispetto delle linee guida è funzionale alle esigenze di omogeneità nella loro redazione, che sole possono consentire la raffrontabilità dei conti e, quindi, l’esercizio della funzione di vigilanza sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica allargata e la Corte dei conti si limita ad una verifica di conformità esterna e meramente documentale dell’impiego delle risorse, che non lede l’autonomia politica regionale; f) dell’obbligo di restituzione delle somme ricevute da parte dei gruppi consiliari, nel caso di accertate irregolarità, quali l’omessa rendicontazione, in esito ai controlli della Corte dei conti sui rendiconti (art. 1, c. 11, u.p., d.l. n. 174 cit.), in quanto espressione di un «principio generale delle norme di contabilità pubblica»13; g) dell’attribuzione alle Sezioni regionali della verifica periodica della legittimità e regolarità delle gestioni, nonché del funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto delle regole contabili e dell’equilibrio di bilancio degli enti locali, sulla base delle linee guida deliberate dalla sezione delle autonomie della Corte dei conti, con referto alle assemblee elettive (art. 148, c. 1, come mod. dall’art. 3, c. 1, lettera e), d.l. n. 174 cit.), in quanto preordinata ad istituire quel raccordo tra i controlli esterni della Corte dei conti sulla legittimità e regolarità della gestione economico-finanziaria e quelli interni volto a garantire il rispetto degli obiettivi di finanza pubblica posti dagli artt. 11, 81, 117, c. 1 e 119 Cost.; h) dell’esame da parte delle Sezioni regionali della Corte dei conti dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi degli enti locali, con la preclusione, in caso di mancata adozione dei provvedimenti idonei a rimuovere le riscontrate irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio, dell’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria (art. 148-bis, d.lgs. n. 267 del 2000, come mod. dall’art. 3, c. 1, lett. e), d.l. n. 174 cit.), in quanto si tratterebbe di controlli finanziari, ascrivibili alla categoria del sindacato di legalità e regolarità, di tipo complementare al controllo sulla gestione amministrativa e riconducibili a «controlli di natura preventiva finalizzati ad evitare danni irreparabili agli equilibri di bilancio»14. Per contro, la medesima sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: a) della norma che pone l’obbligo per la Regione (ordinaria e speciale) di adottare, con legge, «i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio», a 12

Punto 6.3.4.2.1. del Considerato in diritto. Punto 6.3.9.6. del Considerato in diritto. 14 Secondo gli argomenti già sviluppati in Corte cost., sent. n. 60 del 2013. 13

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seguito delle pronunce di accertamento delle Sezioni regionali sulle leggi che approvano i bilanci preventivi e rendiconti consuntivi della Regione previste dall’art. 1, c. 3 e 4, d.l. n. 174 cit. e che dispone la preclusione, in caso di omessa adozione dei provvedimenti di regolarizzazione o verifica negativa dei medesimi da parte della Corte, dell’«attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria», con conseguente inefficacia delle leggi regionali in base alle quali dovevano essere realizzati i programmi di spesa la cui attuazione è interdetta (art. 1, c. 7, d.l. n. 174 cit.), per violazione dell’autonomia politico-legislativa della Regione e dell’unicità della giurisdizione costituzionale 15; b) dell’attribuzione al Presidente della Giunta regionale della trasmissione dei rendiconti dei gruppi consiliari alla Sezione regionale della Corte dei conti e dell’individuazione nel medesimo Presidente del destinatario delle delibere sugli effettuati controlli per il loro invio ai gruppi consiliari, nonché di eventuali rilievi della Corte dei conti, in luogo – limitatamente a quest’ultimo adempimento – del Presidente del Consiglio regionale (art. 1, c. 10 e 11, d.l. n. 174 cit.), in quanto tali norme ledono la potestà statutaria in punto di disciplina delle funzioni degli (e dei rapporti tra gli) organi della Regione e l’autonomia consiliare; c) della sanzione della decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse per il successivo esercizio annuale per il gruppo consiliare che non provveda alla regolarizzazione del rendiconto (art. 1, c. 11, terzo periodo, d.l. n. 174 cit.), perché misura «repressiva di indiscutibile carattere sanzionatorio», non graduabile in ragione del vizio riscontrato ed inidonea ad attivare misure autocorrettive, con conseguente confusione tra funzione di controllo e di amministrazione attiva degli enti controllati 16 e lesione dell’autonomia politica del Consiglio regionale; d) dell’attribuzione al Governo di «un potere di verifica sull’intero spettro delle attività amministrative e finanziarie degli enti locali» delle autonomie speciali, qualora un ente evidenzi situazioni di squilibrio finanziario riferibili a determinati indicatori e della possibilità di attivazione di tali procedure ispettive da parte delle Sezioni regionali della Corte dei conti (art. 148, c. 2 e 3, d.lgs. n. 267 del 2000, come mod. dall’art. 3, c. 1, lettera e), d.l. n. 174 cit.), con lesione della potestà legislativa statutaria in materia di organizzazione o ordinamento degli enti locali 17. La decisione in commento solleva questioni che attengono alle origini, alle ideologie sottese ed alle prospettive della lunga e tortuosa storia delle dottrine dell’autonomia politica sotto due distinti, ma convergenti, profili 18. L’inquadramento dogmatico dei controlli esterni della Corte dei conti svolto dal Giudice costituzionale rivela, infatti, per un verso, la residua misura di autonomia territoriale tollerata dall’ordinamento dinnanzi alle ragioni dell’unità economica della Repubblica, per l’altro, la recessività dell’autonomia del politico rispetto alle categorie dell’economico. 2. I presupposti teorici impliciti della sentenza: l’ibridazione dei modelli di controllo ed il recupero della categoria del controllo-garanzia Alle forme di eterocontrollo si guarda da tempo come al momento strumentale del problema sostanziale della coesistenza di due o più ordinamenti 19. Sono la misura della distribuzione territoriale del potere. È così che la storia dei controlli offre un osservatorio prospettico privilegiato per leggere l’evoluzione del concetto di autonomia: nella variabilità storica delle forme di estrinsecazione della funzione di controllo vive e si svolge l’epifania dei rapporti tra gli ordinamenti parziali della Repubblica. Il controllo è la spia disvelatrice per una autentica e non mistificata storia costituzionale delle autonomie territoriali e delle dottrine dell’autonomia, al di là ed oltre le vulgate tradizionali 20. La conformazione positiva 15

Su questo limitato profilo vedi il commento alla decisione di G. DI COSIMO, Sul contenuto e sul controllo degli atti normativi (nota a sent. 39/2014), in Forum di Quaderni Costituzionali, 2014. 16 L’impretermissibilità della separazione è argomentata già in Corte cost., sent. n. 179 del 2007. 17 Punto 7.3 del Considerato in diritto. Conf. già Corte cost., sent. n. 219 del 2013. 18 Il giudizio non ha, invece, ad oggetto la questione del rapporto tra i controlli della Corte dei conti introdotti dal d.l. n. 174 e la successiva previsione dell’art. 20, c. 2, l. n. 243 del 2012, ove si rinvia alla «legge dello Stato» per la disciplina delle forme e modalità del controllo successivo sulla gestione dei bilanci degli enti territoriali, attribuito alla Corte dei conti ai fini del coordinamento della finanza pubblica e dell’equilibrio dei bilanci. 19 F. BENVENUTI, Il controllo amministrativo e giurisdizionale sugli atti della Regione, in Atti del II Convegno Studi regionali, Roma, 1958, 491. 20 Sulla funzione di controllo come metro di autonomia cfr. G. ZANOBINI, L’amministrazione locale, II ed., Padova, 1935, 269; O. SEPE, Il sistema del controllo ed i vari controlli sui comuni, in M.S. GIANNINI (a cura di), I Comuni,

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dei controlli, la concezione teorica e la filosofia di fondo che li hanno ispirati ci restituiscono, infatti, la cifra dell’autonomia realmente riconosciuta ai “corpi locali”. Quel concetto “amorfo” che è l’autonomia riceve forma proprio dalla teoria dei controlli 21. Al fine di comprendere la dottrina dell’autonomia della Corte è necessario guardare, dunque, allo statuto concettuale della funzione di controllo elaborato nella decisione. Dietro alla riconosciuta legittimità costituzionale dei nuovi controlli esterni affidati alla Corte dei conti sulla finanza regionale e locale vi è l’interpretazione open texture della Costituzione: quei controlli sono ammissibili perché la Costituzione non delinea un sistema chiuso dei controlli sulle amministrazioni pubbliche, comprese le amministrazioni territoriali. Il Giudice costituzionale attualizza, cioè, la giurisprudenza, già consolidatasi nella vigenza degli artt. 125, comma 1, e 130, Cost. 22, secondo cui quelle disposizioni costituzionali non coprivano tutte le forme di (etero)controllo previste nel nostro ordinamento: oggetto della disciplina costituzionale sarebbero stati i controlli che l’ordinamento disponeva nell’interesse proprio degli enti autori degli atti; la medesima disciplina, che rappresentava l’accoglimento di un’istanza polemica, in quanto diretta ad abbattere l’accentramento dei controlli ritenuto lo strumento storico di unificazione del potere23, non avrebbe, però, escluso l’ammissibilità di forme di controllo previste in funzione di interessi esterni rispetto alla sfera locale ed orientate, come nel caso del controllo successivo della Corte dei conti sulla gestione amministrativa, ad un fine proprio della collettività nazionale, radicato a propria volta in una disposizione costituzionale che ne costituiva il titolo giustificativo 24. Nella decisione in commento il titolo giustificativo diviene «l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica», compendiato negli artt. 81, 97, 100 e 119 Cost. Da qui, però, la Corte muove per funzionalizzare l’apertura del testo costituzionale alla giustificazione non già dei «controlli di nuova generazione»25, il cui epilogo è rappresentato dal controllo successivo della Corte dei conti sulla gestione amministrativa, ma dei controlli sulla gestione economico-finanziaria, contaminati da alcuni connotati propri degli aboliti controlli intersoggettivi di legittimità sugli atti di Regioni ed enti locali. Il risultato è la risignificazione, o forse meglio la riscrittura, di quella giurisprudenza. La Corte, infatti, in controtendenza rispetto alla storia dei controlli che ha visto l’immedesimazione della nozione di regolarità con i criteri metagiuridici, propri delle scienze economico-aziendalistiche, dell’efficienza, efficacia ed economicità 26, discorre di controlli della Corte dei conti sulle autonomie territoriali di «regolarità» e «legittimità contabile» ovvero «legalità»27. Si premura di ridimensionare la forza evocativa e Vicenza, 1967; G. VOLPE, Autonomia locale e garantismo, Milano, 1972, 24-6. 21 Come esplicitato anche dal giudice costituzionale nell’ordinanza n. 654 del 1988, ove si legge che «l’entità dei controlli cui un ente è soggetto contribuisce in modo determinante a definire la portata della sua autonomia». 22 Così già Corte cost., sentt., nn. 24 del 1957, 4 e 21 del 1966, 62 e 178 del 1973, 140 del 1977, 149 e 161 del 1981, 219 del 1984, 272 e 422 del 1988, 452 del 1989, 359 del 1993, 29 del 1995, 470 del 1997 e 181 del 1999. Contra, nel senso che le disposizioni costituzionali in materia di controlli sulle Regioni sono tassative e non suscettibili di interpretazioni estensive Corte cost., sent. n. 229 del 1989. 23 Cfr. G. ABBAMONTE, Appunti in tema di controlli sugli enti locali territoriali. Comunicazione, in AA. VV., Realtà e prospettive del controllo sugli enti locali territoriali, Milano, 1979, 223. 24 In senso fortemente critico rispetto alla concezione “aperta” delle norme costituzionali in materia di controlli si espresse la dottrina maggioritaria, tra cui G. PERICU, In margine alla sentenza n. 62 del 1973: note sui controlli atipici e le autonomie locali, in Giur. cost., 1966, 2246; A.M. SANDULLI, La problematica dei controlli, in Contributi Italiani al XV Congresso Internazionale di Scienze Amministrative, Roma, 1971, 122; ID., I controlli sugli enti territoriali nella Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, pp. 579-80; U. DE SIERVO, Tensioni e tendenze sui controlli sugli enti locali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 1108, nt. 86; E. CHELI, Prospettive di riforma del controllo sugli enti locali nel quadro regionale, in Foro amm., 1973, II, 385-6 e 388; L. PALADIN, Nota alla sent. n. 62/1973, in questa Rivista, 1973, 992; F. STADERINI, Principi di diritto degli enti locali, Padova, 1978, 193; ID., La riforma dei controlli nella pubblica amministrazione, Bologna, 1985, 75 ss.; U. POTOTSCHNIG, I controlli, in AA. VV., Realtà e prospettive dei controlli sugli enti locali territoriali, cit., 38; G. BERTI, Il controllo nella storia costituzionale italiana, in AA. VV., Controllo ed autonomia locale nel Veneto, Giunta regionale veneta, 1980, 20; F. TRIMARCHI BANFI, Le Regioni, le Province, i Comuni. Art. 128-133 (sub art. 130), in G. BRANCA-A. PIZZORUSSO, Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1990, 58. Contra, cfr. A. AMORTH, Problemi del controllo sugli enti locali, in L’Amministrazione italiana, 1950, 363; ID., Il problema della Regione e la posizione dei Comuni e delle Province nell’ordinamento regionale, in Corriere amministrativo, 1961, 131 ss.; R. ALESSI, I rapporti con le Regioni, in Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Milano, 1961, 352; M. NIGRO, Controlli sugli enti locali, in Regione e governo locale, 1984, n. 5-6, 220 ss. 25 L’espressione è tratta da G. D’AURIA, Autonomie locali e controlli, in Foro it., 1994, I, 3314. 26 S. CASSESE, Dal controllo sul processo al controllo sul prodotto, in Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per la funzione pubblica, Il nuovo sistema di controllo interno nella pubblica amministrazione, Roma 1993, 53; G. DELLA CANANEA, Indirizzo e controllo della finanza pubblica, Bologna, 1996, 281. 27 Conf. Corte cost., sentt. nn. 179 del 2007 e 198 del 2012.

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prescrittiva del binomio regolarità-legittimità/legalità, precisando che è da intendersi «come verifica della conformità delle (complessive) gestioni di detti enti alle regole contabili e finanziarie» e ha lo scopo «in una prospettiva non più statica (com’era il tradizionale controllo di legalità-regolarità), ma dinamica, di finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo all’adozione di effettive misure correttive, funzionali a garantire l’equilibrio del bilancio e il rispetto delle regole contabili e finanziarie»28. Ciononostante, si intravede la (ri)giuridicizzazione del parametro nei controlli sulle gestioni delle autonomie territoriali29 e, con essa, il recupero dell’interesse alla legittimità ovvero alla «legalità costituzionale», quale risultato della rottura della separazione tra ordine legale e ordine costituzionale e della fine del dualismo radicale legalità/legittimità30. Parimenti, dalla decisione esce mutato l’oggetto e la misura dei controlli sulla gestione. Si svolge su atti, bilanci e rendiconti consuntivi, «documenti» e non su materie o gestioni scelte a campione31. Se la Corte continua a definire successivi i controlli sulla gestione economico-finanziaria regionale, ascrive, però, i controlli sui bilanci e rendiconti degli enti locali ai «controlli di natura preventiva». Distingue entrambi rispetto al controllo sulla gestione amministrativa32, almeno per quel che riguarda gli esiti del controllo: entrambi possono, infatti, accludere «misure atte a prevenire pratiche contrarie ai principi della previa copertura e dell’equilibrio di bilancio […]. Detti controlli si risolvono in un esito alternativo, nel senso che devono decidere se i bilanci preventivi e successivi degli enti territoriali siano o meno rispettosi del patto di stabilità e del principio di equilibrio». I controlli dei bilanci preventivi e dei rendiconti consuntivi approvati dalle assemblee rappresentative locali, a differenza dei prodotti contabili degli organi della rappresentanza politica regionale, possono addirittura condurre alla adozione di misure repressivo-tutorie, quali la preclusione, in caso di mancata adozione dei provvedimenti idonei a rimuovere le riscontrate irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio, dell’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria. Ammette, alternativamente, i controlli collaborativi e «quelli comunque funzionali a prevenire squilibri di bilancio». Ne segue, secondo l’impostazione giurisprudenziale che si sta evidenziando, che i controlli della Corte dei conti sulla gestione economico-finanziaria regionale e locale: a) sono connotati da alterità rispetto ai controlli sulla gestione amministrativa, rispetto ai quali sono definiti dal Giudice costituzionale “complementari”; b) recuperano il parametro di legittimità/legalità; c) hanno ad oggetto atti, quali bilanci e rendiconti; d) per lo meno limitatamente ai controlli sugli enti locali, sono preventivi e ammettono misure caducatorie33; e) sono, comunque, ammissibili se funzionali a prevenire squilibri di bilancio. Pare qui rompersi l’unitarietà concettuale dei controlli amministrativi sulle gestioni che, nati come forme di controllo “complementare” a quelli di legittimità su atti amministrativi, ne hanno, invece, in queste recenti declinazioni, mutuato i caratteri. Dinnanzi all’ibridazione delle fenomenologie del controllo, la decisione della Corte ne fonda la compatibilità con l’autonomia politica territoriale attingendo tanto agli argomenti enucleati dalla precedente giurisprudenza costituzionale con riguardo al controllo preventivo di legittimità su atti della Corte dei conti, quanto alle condizioni poste per il legittimo esercizio del controllo successivo sulla gestione delle autonomie territoriali. Anche nella ricerca dell’in sé del controllo, oltre che nelle sue epifanie, il Giudice costituzionale non scioglie, quindi, l’equivoco e alimenta la perdita di senso della categoria dogmatica dei controlli sulla gestione. Per un verso, infatti, giustifica i controlli « in ragione dei caratteri di neutralità e indipendenza del controllo di legittimità della Corte dei conti (sentenza n. 226 del 1976)», da cui seguirebbe l’inidoneità dei medesimi ad impingere «nella discrezionalità propria della particolare autonomia di cui sono dotati gli enti 28

Punto 6.3.4.3.2 del Considerato in diritto. Conf. ord. n. 285 del 2007, sentt. nn. 267 del 2006, 179 del 2007, 19 del 2012 e 60 del 2013. 29 Vedi D. MORGANTE, Controlli della Corte dei conti e controlli regionali: autonomia e distinzione nella sentenza della Corte costituzionale n. 60/2013, in Federalismi.it, 2013, n. 9, 14. 30 Coglie la medesima tendenza nei controlli interni A. CARDONE, Il controllo interno di regolarità amministrativa nelle autonomie territoriali ed il principio di legalità, in corso di pubblicazione in Dir. pubbl., 2014. 31 Cfr. già Corte cost., sent. n. 179 del 2007. 32 Sulla distinzione tra i due controlli cfr. già Corte cost., sent. n. 179 del 2007. 33 Limitatamente a questi, potrebbe forse porsi la questione della loro compatibilità con l’art. 100 Cost., che limita i controlli preventivi di legittimità «agli atti del Governo».

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territoriali destinatari». Nella nota decisione n. 226 34 quei caratteri, però, costituivano il connotato di un controllo, quello preventivo di legittimità, ritenuto affine alla funzione giurisdizionale, tanto da giustificare la legittimazione della Corte dei conti in quella sede a sollevare questioni di legittimità costituzionale in via incidentale. Ma l’affinità tra funzione di controllo e giurisdizione, riconosciuta tutt’al più alla Corte dei conti in sede di giudizio di parificazione del bilancio consuntivo dello Stato 35, non è stata mai ravvisata nel controllo successivo sulla gestione36. L’argomento della Corte si fonda, all’opposto, sulla commensurabilità tra le due forme di controllo e sulla predicabilità della natura paragiurisdizionale anche del secondo. Per altro verso, esclude lesioni del principio di autonomia ricorrendo alla posizione della Corte dei conti, in sede di controllo successivo sulla gestione amministrativa, «al servizio dello Stato-ordinamento, quale garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario del settore pubblico nel suo complesso e della corretta gestione delle risorse». La tenuta dell’argomento della Corte è tutt’uno con la sostenibilità teorica di un «garante imparziale dell’equilibrio economico-finanziario», nonché «dell’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica». Entrambi gli argomenti, la giurisdizionalità del controllo e la garanzia del diritto obiettivo, convergono, poi, nel recupero della concezione garantista della funzione di controllo. L’idea sottesa è, infatti, quella, riduzionistica, della limitabilità della funzione di controllo al puro, obiettivo e neutrale, “interesse alla legge”, letto come interesse dello Stato, considerato personificazione dell’ordinamento e misura di ciò che è pubblico. Questa concezione recupera l’impostazione sistematica germanica 37 e rinviene i propri presupposti logico-concettuali nell’ambito delle riflessioni sulla natura archetipica dell’attività di controllo, da un lato, nella prospettiva strutturalista, nella riduzione del controllo al momento logico del giudizio, dall’altro, nella declinazione teorica funzionalista, nella finalizzazione del medesimo alla mera garanzia del diritto obiettivo. Al controllo si guarda come potere estraneo alla sfera degli interessi concreti riferibili al soggetto nella cui organizzazione è inserito l’organo di controllo: il controllo deve essere giudizio di compatibilità logico-formale con il parametro posto dall’ordinamento ed in tale giudizio si realizza per definizione l’interesse, obiettivo e spersonalizzato, a cui è finalizzato l’‘ausiliario’ potere di controllo. La prospettiva “giustiziale” 38 o paragiurisdizionale del controllo in funzione di garanzia del diritto obiettivo e del controllore come bouche de la loi presuppone l’ammissibilità di un potere di controllo neutrale e la desiderabile sclerotizzazione nel procedimento di controllo di interessi politico-amministrativi 39. Detto altrimenti, esercita qui il proprio fascino la malia della traducibilità del potere in funzione. Questa concezione, sul piano delle relazioni intersoggettive, è stata funzionalizzata alla rilettura in chiave regionalista o, finanche, autonomistica del tradizionale modello ottocentesco del controllo, preventivo e repressivo, di legittimità su atti 40. Parve, infatti, che 34

Con commento di G. AMATO, Il Parlamento e le sue Corti, in Giur. cost., 1976, 1985 ss. Corte cost., sent. 244 del 1995. 36 A partire da Corte cost., sent. n. 335 del 1995, nonché ordd. nn. 295 del 1998 e 344 del 1998. 37 Tale concezione affonda, infatti, le sue radici nella teorica dei controlli messa a punto da W. JELLINEK, Dottrina generale dello Stato, Milano, 1949, 303 ss., secondo cui i controlli, inserendosi tra le garanzie giuridiche che tutelano il diritto obiettivo, sono preordinati a soddisfare l’interesse pubblico della conformità dell’azione amministrativa al diritto. 38 L’espressione è mutuata da G. VOLPE, I controlli sugli atti nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, in questa Rivista, 1991, n. 2, 454 ss. 39 Nella dottrina italiana, per una concezione tipicamente garantista, “giustiziale”, dei controlli, cfr., ex plurimis, A. DE VALLES, Teoria giuridica della organizzazione dello Stato, vol. I, Lo Stato-Gli Uffici, Padova, 1931, 158; L.R. LETTIERI, I poteri dello Stato e la funzione di controllo, Roma, 1947, 72; ID., La posizione costituzionale della Corte dei conti, Studi F. Carbone, Milano, 1970, 221; G. FERRARI, Gli organi ausiliari, Milano, 1956, passim; V. CRISAFULLI, Controllo preventivo e controllo successivo sulle leggi regionali siciliane, in Atti del II Convegno di studi regionali, Roma, 1958, 95; A.M. SANDULLI, Funzioni pubbliche neutrali e giurisdizione, in Riv. dir. proc., 1964, 200 ss.; ID., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 243; G. MIELE, Il sistema dei controlli da parte degli organi regionali sui comuni e sulle province “de iure condendo”, in Nuova Rassegna, 1965, 3049 ss., ora in Scritti giuridici, vol. II, Milano, 1987, 1016 ss; F. TRIMARCHI BANFI, Le Regioni, le Province, i Comunit. Art. 128-133 (sub art. 130), cit., 47, nt. 1; ID., Il controllo di legittimità, Padova, 1984, passim ed, in particolare, 37-8. 40 Questo il tentativo, tra gli altri, di F. BENVENUTI, I controlli amministrativi dello Stato sulle regioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, passim; U. DE SIERVO, ult. cit., 1053 ss.; G. BERTI, Problemi del controllo sugli enti locali e dell’impugnativa dei relativi atti, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Milano, 1978, 91 ss.; A.M. SANDULLI, I controlli sugli enti territoriali nella Costituzione, cit., 575. Questa impostazione è stata ripresa, approfondita e sviluppata nello studio di F. TRIMARCHI BANFI, Il controllo di legittimità, cit., 79 ss. La tesi del controllo come attività indipendente e neutrale, in funzione di garanzia, è stata, peraltro, fatta propria dalla giurisprudenza amministrativa. Cfr., a questo proposito, Consiglio di Stato, IV Sezione, 27 settembre 1979, n. 738 (in Consiglio di Stato, 1979, II, 421 ss.); 35

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solo una configurazione del controllo come atto non dello Stato o della Regione, ma come espressione di una funzione indipendente, esplicantesi in atti di puro accertamento, sganciata dallo Stato-amministrazione e tale da poter essere ascritta ad un’attività obiettiva e neutrale, in una parola “giustiziale”, si confacesse all’impalcatura costituzionale fondata sul principio del pluralismo paritario. La precedente storia dei controlli si doveva, infatti, chiudere «nel momento in cui i rapporti intersoggettivi nell’ambito dell’ordinamento diventano rapporti di puro diritto obiettivo, nel momento in cui non vi è più un problema di armonizzazione di atti di un soggetto, minore, con atti di un altro soggetto, maggiore; non vi è più un soggetto titolare di un potere di orientamento o di determinazione di fini complessivi, ma vi è la collocazione di tutti gli atti in un unico ordinamento ciascuno con la propria efficacia e la propria validità» 41. Per contro, l’accoglimento dell’idea del controlloindirizzo avrebbe significato la riproposizione della vecchia idea del controllo come aspetto del rapporto di autarchia. Appare chiaro perché quella teorica ha fatto proseliti fino a divenire il mainstream. Risulta in essa svuotata di tutte le possibili implicazioni di carattere politico-istituzionale la questione della riferibilità dell’interesse soddisfatto dal controllo all’uno o all’altro dei soggetti coinvolti nella vicenda del controllo intersoggettivo; questione che, invece, riveste – come vedremo nel prosieguo del lavoro – cruciale rilievo ai fini della configurazione della stretta connessione intercorrente tra conformazione del controllo ed effettivo grado di autonomia riconosciuto agli enti territoriali soggetti al controllo. In quella concezione, il contrasto non è tra gli interessi pubblici concreti allocati ai diversi livelli di governo, ma tra l’interesse generale all’osservanza delle norme di diritto curato esclusivamente dallo Stato ed i concreti interessi curati dagli enti per il soddisfacimento dei bisogni delle collettività da essi rappresentate42. Se così è, la legittimità costituzionale dei nuovi controlli rispetto al principio di autonomia, almeno nei protocolli argomentativi della Corte, sta e cade con le ragioni della concezione del controllo-garanzia e, pure ammessa la sua fondatezza teorico-dommatica, con la concreta ascrivibilità di questi controlli alla categoria della garanzia. 2.1 Segue: la separazione degli interessi e la resistenza della concezione difensivoliberale dell’autonomia Nella decisione della Corte quella concezione del controllo fa, come si accennava, il paio con una dottrina dell’autonomia locale. La Corte distingue tra i controlli rimessi alla potestà legislativa statale e quelli di competenza legislativa regionale in funzione degli interessi da tutelare. Spettano alla legge statale i controlli delle Sezioni regionali della Corte dei conti preordinati – almeno nella prospettiva teologica costruita dal Giudice costituzionale per orientare le singole fattispecie di controlli contenuti nel d.l. n. 174 cit. – ad assicurare «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito» del «complesso delle pubbliche amministrazioni», nonché a tutelare «l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica», compendiato negli artt. 81, 97, 100 e 119 Cost., come modificati dalla l. cost. n. 1 del 2012. Spetta alle fonti regionali l’istituzione dei controlli sulla «finanza pubblica di interesse regionale»: «seppur concorrenti nella valutazione degli effetti finanziari delle leggi regionali», non si soprappongono ai primi, perché sono resi «nell’interesse della Regione». È la logica della soggettivizzazione degli interessi secondo il livello di rilevanza degli stessi; rilevanza decisa dal nomoteta statale. Vero è che la separazione-opposizione tra interessi dello Stato ed interessi della Regione pare ritrovare composizione nella sentenza, per un verso, nella tutela da parte dello Stato di interessi della Repubblica, di cui continua ad essere personificazione organica43, e nel riconoscimento della concorrenza tra i controlli regionali e quelli statali nel sindacato finanziario delle leggi regionali; per l’altro, nell’immagine, ormai stereotipata, della Corte dei conti posta «al servizio dello Stato-ordinamento» e non già dello «StatoId., VI Sezione, 12 marzo 1982, n. 125 (in Foro amm., 1982, I, 428 ss.); Id., Sez. IV, 20 gennaio 1981, n. 57 (in Foro amm., 1981, 25 ss.). 41 In questi termini si esprimeva F. BENVENUTI, I controlli amministrativi dello Stato sulle regioni, cit., 595-6. 42 La più completa ed argomentata enunciazione di tale teorica del controllo si rinviene in F. TRIMARCHI BANFI, ult. cit., passim ed, in particolare, 37-8 e 69-75. 43 È questa la tradizionale obiezione mossa alle conseguenze applicative della teoria degli ordinamenti parziali da L. PALADIN, Diritto costituzionale, III ed., Padova, 1998, 53.

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apparato»44. Sotto il primo profilo, potrebbe accreditarsi una dottrina concorrente (di cui resterebbe da decidere la natura collaborativa o competitiva) dell’autonomia. Rimane, però, che, a fronte della pervasività dello Stato in nome della Repubblica, alle Regioni non si riconosce il concorso nella tutela di interessi repubblicani, neppure nella loro dimensione territoriale, ma di eterogenei, e non interferenti (neanche per parziale intersezione), interessi regionali. Sotto il secondo, ci si potrebbe chiedere se abbia senso continuare a discorrere di Stato-ordinamento vs. Stato-apparato dopo che il primo si identifica con la Repubblica, di cui lo Stato, come Regioni ed enti locali, è al più ordinamento parziale 45. Ma, soprattutto, è la (in)coerenza interna della decisione che fa riemergere la logica della separatezza: se, infatti, la categoria dello Stato-ordinamento giustifica l’estensione, in forza dell’art. 100, c. 2, Cost., dei controlli esterni alle autonomie territoriali 46, l’appartenenza della Corte dei conti «pur sempre all’ordinamento statale [il corsivo è aggiunto]» esclude che il contenuto e gli effetti delle sue pronunce possano essere disciplinati dal legislatore regionale. Se si volesse riscrivere questo passo della decisione con le categorie dello Stato-ordinamento e dello Stato-apparato, parrebbe difficile non intendere qui il riferimento all’ordinamento statale nella seconda accezione piuttosto che nella prima. Ad una logica non dissimile paiono, del resto, ascrivibili i poteri di analisi a campione della spesa pubblica degli enti locali (organizzazione e sostenibilità dei bilanci), in presenza di indicatori di squilibri finanziari, attribuiti al Commissario per la revisione della spesa pubblica, anche avvalendosi dei Servizi ispettivi della Ragioneria generale dello Stato e finalizzati a comunicare gli esiti dell’attività ‘ispettiva’ alle Sezioni regionali ed alla Sezione delle autonomie 47. La Corte interpreta il riferimento agli «enti locali», contenuto nell’art. 6, c. 3, d.l. n. 174, alla luce del corpo della disposizione e della sua collocazione sistematica, estendendo le metodologie di controllo approvate dalle Sezioni autonomie a tutte le «amministrazioni territoriali». Valorizza la strumentalità di questo «potere di vigilanza» al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica allargata e ne esclude la natura di «potere statale di supremazia». Qui, però, l’ispezione, sebbene funzionale ai controlli della Corte dei conti, è organicamente rimessa ad una struttura statuale, la Ragioneria generale dello Stato, luogo paradigmatico dell’accentramento della finanza locale. Forte è l’impressione di trovarsi dinnanzi ad un nuovo capitolo della storia infinita della c.d. «grande metafora dei controlli» 48. La scrittura dei controlli del Giudice costituzionale pare subire la servitù coattiva dell’asservimento della teoria dei controlli intersoggettivi alla ragione storica del controllo amministrativo, il quale nacque e si strutturò come una garanzia dell’“unità del volere statuale”49, anche quando le ragioni di quella unità sono mutate. Se si legge l’idea dell’opposizione tra interesse dello Stato (anche se trasfigurato nella Repubblica), assiologicamente preordinato a tutelare le esigenze unitarie, ed interesse della Regione, proteso verso le antitetiche istanze autonomistiche, con le armi della storia delle dottrine dell’autonomia locale studiata in connessione con quella delle ideologie politiche50, la medesima pare rivelare marcati i segni della concezione liberalegarantista dell’autonomia (garantista nel senso di diretta derivazione dal costituzionalismo 44

Adesivo, tra i molti, S. CASSESE, Dal controllo sul processo al controllo sul prodotto, cit., 53; G. BERTI, Trasformazioni del controllo della Corte dei conti (sentenza n. 29 del 1995 della Corte costituzionale), in La Corte dei conti oggi, Milano, 1996, 16. Contra, esprime forti riserve sull’idoneità della Corte dei conti a porsi oggi, nel nuovo quadro costituzionale, come organo autenticamente “comunitario” F. MERLONI, Vecchie e nuove forme di controllo sull’attività degli enti locali, in questa Rivista, 2005, n. 1-2, 56-7, il quale osserva che, per trasformare la Corte in organo della Repubblica, non bastano regole di apertura collaborativa alle autonomie territoriali, ma è necessario un concorso paritario di tutti i soggetti costitutivi della Repubblica alla sua costituzione ed alla fissazione delle sue regole di funzionamento (e cioè un’intesa nel senso precisato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 303 del 2003). 45 Per tutti G. FALCON, Le Regioni e l’unità nelle politiche pubbliche, in questa Rivista, 2004, n. 2-3, 306, ove sottolinea che contrasta con l’art. 114 Cost. «l’idea che delle cose importanti si occupi […] lo Stato» e che le Regioni, essendo Repubblica, nella loro azione rappresentano «l’unità complessiva: un poco […] come ogni parlamentare rappresenta la nazione e non soltanto la circoscrizione di elezione». 46 Cfr. punto 6.3.2 del Considerato in diritto, ove la decisione in commento ravvisa il fondamento del controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria delle Regioni nell’art. 100, c. 2, perché il «controllo sulla gestione del bilancio dello Stato» «deve intendersi esteso al controllo sui bilanci di tutti gli enti che costituiscono, nel loro insieme, la finanza pubblica allargata». Conf. sentt. nn. 179 del 2007, 198 del 2012, 60 e 219 del 2013. 47 Punto 8.6 del Considerato in diritto. Conf. già Corte cost., sent. n. 219 del 2013. 48 Secondo la nota espressione di G. D’AURIA, Autonomie locali e controlli, cit., 3312 ss. 49 R. GNEIST, Das englische Verwaltungsrecht der Gegenwart, trad. it. L’amministrazione e il diritto amministrativo inglese, Bibl. Sc. Pol. Brunialti, 2° serie, III, I, Torino, 1896, 332-5.

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francese della prima metà del secolo XIX). La costruzione bipolare dei rapporti Stato/Regione (/enti locali) prefigurata dalla Corte pare, cioè, vivere solo nella logica liberale del pouvoir municipal à la Constant, che di quella concezione rappresenta la matrice ideologica. E’, infatti, la concezione garantista dell’autonomia locale che si impernia sulla separazione/contrapposizione delle sfere di competenza tra autorità centrale e potere locale e sul bifronte meccanismo dell’accentramento politico e del decentramento amministrativo, che nasconde, a sua volta, la contrapposizione affari generali/affari particolari, ove l’individuazione dei livelli di interessi è operata in sede centrale. La definizione statale delle sfere di competenza e l’assegnazione di compiti e fini da assolvere (in che consiste la sfera “garantita” e da difendere di potere locale) costituiscono gli strumenti più adatti allo “svuotamento” politico e comunitario dei “corpi locali” ed aprono ad una costruzione dall’alto del potere locale, il pouvoir municipal, per l’appunto, “razionalmente” ed “illuministicamente” costruito dal centro 51. In tale prospettiva il controllo non può che rappresentare il congegno autoritativo capace di limitare le sfere di libertà dei soggetti territoriali in nome dell’autorità dell’apparato centrale. È, infatti, l’ideologia liberale che costruisce il rapporto Stato-corpi locali negli stessi termini del rapporto Stato-individuo: l’autorità è tenuta essenzialmente a garantire ai cittadini, formalmente eguali, le sfere di libertà individuali e i diritti di proprietà, così come le sfere di potere proprie dei corpi locali. Il credo garantista apre alla visione delle libertà locali come realizzazione delle libertà individuali e delle autonomie territoriali come garanzia concreta della libertà ed elemento suscitatore dell’esigenza liberaleborghese. In tale concezione il controllo, braccio armato del potere centrale, non può che essere la mortificazione della libertà, nelle sue diverse forme di esplicazione, in nome dell’autorità. 3. I limiti del modello presupposto dalla sentenza e l’alternativa concezione del controlloindirizzo: il disvelamento del ‘politico’ L’insostenibilità della concezione garantistica dei controlli introdotti dal d.l. n. 174 e dell’autonomia politica locale apre, però, alla possibilità di una contro-scrittura, di un contro-discorso, dei controlli sulle autonomie rispetto all’omodossia52 della Corte. L’idea che qui si vuole proporre non è l’ontologica incompatibilità tra le ragioni del controllo e le ragioni dell’autonomia, ma la difficile praticabilità nell’ordinamento costituzionale delle concezioni dell’uno e dell’altra sottese alla decisione in commento. Sotto il primo profilo, dei controlli introdotti dal d.l. n. 174 e sindacati dalla Corte non pare affatto predicabile una concezione garantistico-giustiziale e, per ciò, «neutrale». Non si intende qui porre la questione nei termini radicali dell’inconfigurabilità di controlli oggettivi ed impolitici nell’ordinamento costituzionale pluralista. La crisi, ormai irreversibile, della legittimazione cognitiva della giurisdizione e del dogma della sua oggettività e neutralità, nonché la, ormai diffusa, realistica consapevolezza dell’immanente dimensione creativa dell’interpretazione giudiziaria potrebbero, infatti, travolgere, a fortiori, la più tenue neutralità della funzione di controllo amministrativo e la concepibilità del controllo (giurisdizionale e non) come astratto giudizio di compatibilità logico-formale tra copia e modello. Più limitatamente, si vuole sostenere che le fattispecie delineate dagli artt. 1 e 3, d.l. n. 174 cit., in attuazione della ‘politica’ economica prescritta dalla l. cost. n. 1 del 2012, non paiono sussumibili nell’archetipo giustiziale del controllo-garanzia 53, connotato dalla riduzione del controllo a giudizio e, quindi, a garanzia giuridica preposta, à la Jellinek, alla tutela del diritto obiettivo. In quelle fattispecie, infatti, non vi è diritto obiettivo da garantire, 50

Sulla storia, forse ancora tutta da scrivere, delle dottrine politico-giuridiche dell’autonomia locale cfr. G. MIGLIO, Gli studi di storia amministrativa, Archivio Isap, vol. II, Milano, 1962, 1217. 51 Sulle origini storiche ed ideologiche del modello liberal-garantista delle autonomie locali, d’obbligo il riferimento a G. VOLPE, Autonomia locale e garantismo, cit., 62 ss.; V. CRISAFULLI, Vicende della “questione regionale”, in Stato, popolo, Governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, 250-1. Sul garantismo di matrice liberale non può che rinviarsi, per un suo inquadramento nella storia delle dottrine liberali, a G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Roma-Bari, 2003, 54 ss. 52 Si mutua l’espressione da A. BAGNAI, Crisi finanziaria e governo dell’economia, in Costituzionalismo.it, 2012, 3. 53 Non stupisce. Chi ha ricostruito il controllo della Corte dei conti come controllo-garanzia, estraneo agli interessi del controllato, guardava al visto di regolarità: G. FERRARI, Gli organi ausiliari, cit., 243 e 269 ss.

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ma parametri da interpretare, interessi, compendiati nel testo costituzionale, da perseguire e, dunque, volontà da imporre. Partiamo dal parametro/obiettivo dei controlli della Corte dei conti. I controlli sulle gestioni economico-finanziarie delle autonomie territoriali devono sindacare il rispetto de «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico» di cui all’art. 97, c. 1, Cost. ovvero della «sostenibilità dell’indebitamento» ovvero del vincolo «in materia di indebitamento posto dall’ultimo comma dell’art. 119 Cost.», nonché della «sana gestione finanziaria». Gli interessi più generali da salvaguardare per il Giudice costituzionale sono «l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria» e «la tutela dell’unità economica della Repubblica». Orbene, potrebbe dirsi che è la diretta applicabilità della Costituzione, come parametro del controllo, portato della ricucitura tra ordine legale e costituzionale nello Stato costituzionale pluralista, e, con essa, del diritto strutturato per principi 54 a determinare la valorizzazione della autonomia funzionale degli organi dell’applicazione e, per quella via, il prevalere, nel sindacato attribuito alla Corte dei conti, della logica del caso concreto sulla sua predeterminazione generale ed astratta. Potrebbe ripetersi che è la fine della neutralità assiologica delle Costituzioni, secondo la predizione schmittiana 55, e l’innesto del costituzionalismo per valori su assetti pluralistici che non conoscono gerarchie assiologiche pre-date, secondo le teorie che configurano la Costituzione come un sistema isostenico di valori56 o, finanche, secondo le teorie relativistiche dei valori, che enfatizzano la creatività degli organi dell’applicazione chiamati ad operazioni di bilanciamento e di gerarchizzazione dei valori a scapito del diritto di produzione politica. Potrebbe discutersi, però, se la situazione si aggrava ove una Costituzione pluralista scelga una teoria macroeconomica piuttosto che un’altra – e, dunque, la visione del ‘politico’ ad essa sottesa – e se a favore dell’irrigidimento delle politiche economiche in regole fisse, persino in caso di perfetta razionalità individuale, militino buone ragioni per la macroeconomia, prima ancora che per il diritto costituzionale, secondo il noto dibattito rules vs. discretion57. Ma, soprattutto, quel poco di certo che può dirsi delle singole clausole introdotte in Costituzione dalla l. cost. n. 1 del 2012 è la loro pluri-significazione nella scienza economica da cui sono mutuate 58. Il principio dell’equilibrio tra entrate e spese o dei bilanci di cui discorrono, rispettivamente, l’art. 81 e gli artt. 97 e 119, c. 1, in luogo del principio (rectius, ‘regola’, almeno secondo la scienza economica) del pareggio contenuto nella rubrica della l. cost. n. 1 del 2012 (e della l. n. 243 del 2012), non è un’operazione 54

Dal titolo del noto saggio di L. MENGONI, Il diritto costituzionale come diritto per principi, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, 1141. 55 Schmitt aveva, infatti, profetizzato che l’avvento del costituzionalismo per valori avrebbe determinato la dissoluzione dello Stato legislativo e l’avvento di uno Stato di giurisdizione, costitutivo di una «superlegalità aprocrifa», alternativa alla legalità prodotta dal processo politico-parlamentare: C. SCHMITT, Die legale Weltrevolution, in Der Staat, 1978, 335. 56 J. LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, 357, discorre in proposito di sistema «anarchico» di valori; G. SCACCIA, Motivi teorici e significati pratici della generalizzazione del canone di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in M. LA TORRE, A. SPADARO, La ragionevolezza nel diritto, Torino, 2002, 387 ss. e 409, le apostrofa come concezioni «metafisicamente scettiche». 57 Per la ricostruzioni dei termini generali della discussione in Italia cfr. A. BAGNAI, Crisi finanziaria e governo dell’economia, cit., 11 ss., che manifesta la propria preferenza per le politiche (keynesiane) discrezionali; C. PINELLI, La dimensione internazionale della crisi finanziaria e i suoi riflessi nelle istituzioni di cooperazione sovranazionale e sui rapporti tra queste e gli ordinamenti nazionali, in www.gruppodipisa.it, 2012, 4-5; A. PETRETTO, Costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio, stabilità e crescita economica, in R. BIFULCO, O. ROSELLI (a cura di), Crisi economica e trasformazioni della dimensione giuridica. La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio tra internazionalizzazione economica, processo di integrazione europea e sovranità nazionale, Torino, 2012, 210-11. Nel dibattito americano, a favore di regole automatiche, F. KYDLAND, E. PRESCOTT , Rules rather than discretion: the inconsistency of optimal plans, in Journal of Political Economy, 1977, vol. 85, 473 ss. Contra, W. BUITER, The macroeconomics of Dr Pangloss – A critical survey of the New Classical Macroeconomics, in The Economic Journal, 1980, vol. 90, 34 ss.; ID., The superiority of contingent rules over fixed rules in models with rational expectations, ivi, 1981, vol. 91, 647 ss. 58 Sulle difficoltà interpretative delle categorie economiche evocate dalla riforma cfr. A. BRANCASI, Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, in Osservatoriosullefonti.it, 2012, 16; ID., Bilancio (equilibrio di), in Enc. dir., Annali VII, Milano, 2014; F. BILANCIA, Note critiche sul c.d. «pareggio di bilancio», in Rivista AIC, 2012, n. 2, 1-6; G. RIVOSECCHI, Il c.d. pareggio di bilancio tra Corte e legislatore, anche nei suoi riflessi sulle regioni: quando la paura prevale sulla ragione, ivi, 2012, n. 3, 2; M. LUCIANI, Costituzione, bilancio, diritti e doveri dei cittadini, in Astrid Rassegna, 2013, 33 ss.; T.F. GIUPPONI, Il principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio e la sua attuazione, in Quad. cost., 2014, n. 1, 59.

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contabile aritmetica59. In ogni caso, la sua polisemia è intrinsecamente coerente con la flessibilità dell’obiettivo (di medio termine) dell’equilibrio vs. quello del pareggio. Il riferimento all’indebitamento contenuto nell’art. 81 (ma anche nell’art. 119) potrebbe riferirsi all’indebitamento netto quale specifico saldo di bilancio ovvero alle operazioni di indebitamento mediante il ricorso al mercato 60. La sostenibilità del debito pubblico, poi, che si basa sulla nozione di vincolo di bilancio intertemporale, è concetto difficilmente traducibile in una regola di politica economica, considerato che la teoria economica non è riuscita ad oggi a fornirne una definizione scientificamente fondata, da un lato, e operativa, dall’altro61. Ha aggirato il problema teorico l’art. 4, c. 2 e 3, l. n. 243 del 2012, definendo la sostenibilità del debito pubblico come coerenza del rapporto tra debito pubblico e Pil con quanto disposto dall’ordinamento europeo e prevedendo, in caso di superamento del valore di riferimento, una riduzione dell’eccedenza in coerenza con la disciplina europea dei «fattori rilevanti». A tali locuzioni gli artt. 1 e 3 del d.l. n. 174 cit. aggiungono quella di sostenibilità dell’indebitamento, di cui, però, pare revocabile in dubbio la corrispondenza al concetto di sostenibilità del debito, se non altro perché la prima, rivolta al futuro, alla possibilità di debito, dovrebbe presupporre la seconda, che guarda al passato, al debito esistente. Ancora, dall’art. 97, c. 1, Cost. non si evince se l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico costituiscano un obiettivo per ciascuna pubblica amministrazione ovvero «per il complesso delle pubbliche amministrazioni», secondo la lettera dell’art. 81, c. 562. È l’art. 9, c. 1, l. n. 243 del 2012 che ha riferito l’equilibrio di bilancio a ciascun ente territoriale, con conseguente impossibilità di compensazioni tra situazioni di attivo e di disavanzo all’interno del comparto delle pubbliche amministrazioni. Così come è incerta la coerenza tra il pareggio o equilibro di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico: il primo potrebbe, infatti, minacciare la seconda, che è legata alla crescita economica e, quindi, alla possibilità del ricorso al deficit spending63. La “sana” gestione finanziaria, oltre che ad un orizzonte sanitario biopolitico o tutt’al più ai principi generali di contabilità pubblica (o finanche aziendale), poc’altro dice. La funzionalizzazione dei controlli alla tutela dell’unità economica, poi, non può che indurre a replicare il dibattito e le questioni mai risolte sul significato della clausola già contenuta nell’art. 120, c. 2, Cost. Né le operazioni di controllo della Corte dei conti sulle autonomie potrebbero considerarsi solo applicazioni di regole fisse, automatiche, perché le autonomie territoriali devono concorrere «ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea», secondo la lettera dell’art. 119 Cost. Anche i parametri europei, infatti, non richiedono mere operazioni di calcolo. In primo luogo, i parametri fiscali europei contenuti fin dal 1997 (reg. 1466 e 1467 del 1997) nel Patto di stabilità e crescita, rivisto nel 2011 (reg. Ue n. 1175/2011), sul rapporto debito pubblico/Pil e deficit pubblico/Pil, che attuano la politica europea della convergenza fiscale nell’unione monetaria e che integrano il parametro dei controlli della Corte dei conti in virtù dei rinvii recettizi contenuti nelle norme nazionali 64, sono connotati, dopo la ratifica del Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria (c.d. Tscg ovvero Fiscal compact), da elementi di incoerenza e, in ogni caso, di flessibilità. Nella prima direzione, il ricorso alla locuzione “pareggio di bilancio” nel Tscg è distonico rispetto all’art. 2 bis, reg. Ue n. 1175/2011, cui fa riferimento l’art. 3 del Tscg laddove richiama «il patto di stabilità e crescita rivisto»: il secondo, infatti, prevede che gli obiettivi di bilancio a medio termine possono divergere dal saldo prossimo al pareggio o in attivo, offrendo un 59

Seppure con riguardo al precedente testo dell’art. 81, c. 4, nella decisione n. 250 del 2013 la Corte individua l’«equilibrio tendenziale di bilancio» come «precetto dinamico della gestione finanziaria», come «continua ricerca di un armonico e simmetrico bilanciamento tra risorse disponibili e spese necessarie per il perseguimento delle finalità pubbliche», che include la «prevenzione di rischi di squilibrio, che derivano inevitabilmente dal progressivo sviluppo di situazioni debitorie generate dall’inerzia o dai ritardi dell’amministrazione», come «continuo perseguimento di una situazione di equilibrio tra partite attive e passive che compongono il bilancio, attraverso un’interazione delle loro dinamiche in modo tale che il saldo sia tendenzialmente nullo» (punto 3.2 del Considerato in diritto). Conf., tra le più recenti, sentt. nn. 213 del 2008 e 70 del 2012. 60 Cfr. A. BRANCASI, ult. cit., 3-4, che propende per il primo corno dell’alternativa. 61 Cfr. A. BAGNAI, La sostenibilità del debito pubblico: definizione e criteri di verifica empirica, in Economia politica, 1996, 13 ss., cui si rinvia per argomenti e riferimenti bibliografici. 62 C. TUCCIARELLI, Pareggio di bilancio e federalismo fiscale, in Quad. cost., 2012, n. 4, 807. 63 Cfr. G. PISAURO, La regola del pareggio di bilancio tra fondamenti economici e urgenze della crisi finanziaria, in R. BIFULCO, O. ROSELLI (a cura di), ult. cit., 134. 64 Sulla natura recettizia di quei rinvii cfr. P. DE IOANNA, Forma di governo e politica di controllo della finanza pubblica, in Riv. giur. mezzogiorno, 2013, n. 3, 378.

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margine di sicurezza rispetto al rapporto tra disavanzo e Pil del 3% 65. Nella seconda, l’art. 3, par. 1, lett. a), Tscg consente un deficit strutturale (e non nominale) annuo, depurato dagli effetti negativi del ciclo economico ed al netto di misure temporanee ed una tantum, non superiore allo 0,5 del Pil (a condizione che il disavanzo temporaneo non comprometta la sostenibilità a medio termine) e impone la riduzione debito in rapporto al Pil nella misura del 1/20 annuo della parte eccedente la soglia del 60%, attribuendo però rilievo, al contempo, ai «fattori rilevanti» ai fini delle procedure sanzionatorie. Sotto questo profilo, il fiscal compact parrebbe più dinamico e meno repressivo-sanzionatorio della politica di finanza pubblica incentrata sull’equilibrio e meno limitativo del parametro costituzionale interno con riferimento alla soglia dell’indebitamento sostenibile 66. Comunque, anche laddove si instaurasse una più piena corrispondenza tra i parametri costituzionali e quelli europei67, i secondi non sono interamente coestensivi né alle disposizioni costituzionali che li richiamano, né alla Costituzione (non solo economica) residua, che sembra mantenere un contenuto precettivo ulteriore di cui non parrebbe possibile escludersi a priori la bilanciabilità con i vincoli comunitari, se non, addirittura, l’opponibilità in virtù della teoria dei controlimiti. Del resto, se la stretta cogenza di quei parametri per le autonomie territoriali può fondarsi sulla lettera dell’art. 117, c. 1 e 119, c. 1, Cost., la medesima potrebbe attenuarsi se si guarda all’art. 97, c. 1, Cost., che oppone all’«osservanza dei vincoli» dell’art. 119 ed al «rispetto dei vincoli» dell’art. 117 la più blanda «coerenza» con l’ordinamento dell’Unione europea68. Ne deriva, allora, che per la Corte dei conti stabilire «pratiche non conformi ai richiamati principi costituzionali» potrebbe non essere deduzione logica, ma operazione ‘politica’, nel significato di atto libero, creativo di norme, se non addirittura governamentale à la Foucault. Ciò non significa affermare che le politiche economiche di carattere discrezionale sono preferibili alle regole automatiche di gestione degli aggregati monetari e di finanza pubblica. A ben vedere, infatti, è la stessa distinzione tra le due categorie ad avere perso senso. Questo perché, forse, non esistono nel governo dell’economia regole automatiche impolitiche: come la tecnica, nell’epoca delle neutralizzazioni, diviene potere politico nel momento stesso in cui si sostituisce alle tradizionali categorie del ‘politico’, così la regola economica che ambisce a sostituire la propria tecnicalità, solo pretesamente neutrale, alla libera decisione politica è già anch’essa politica. Si può allora, in definitiva, dire che la Corte dei conti nei controlli sulle gestioni economico-finanziarie delle autonomie abbandona, stante la natura del parametro del controllo, le vesti del giudice-matematico o geometra 69. La conclusione non cambia ove si prosegua con la ricerca delle misure del controllo contemplate in talune delle fattispecie del d.l. n. 174. La Corte prescrive il modello del controllo collaborativo, che innesca misure autocorrettive da parte degli organi della rappresentanza politica, ma poi acclude tra quelle ammissibili «misure atte a prevenire pratiche contrarie ai principi della previa copertura e dell’equilibrio di bilancio»: e, notoriamente, le misure preventive, a differenza di quelle successive, pertengono al paradigma dei controlli repressivo-tutori e non già di quelli collaborativi. È, quindi, sopravvissuta al sindacato del Giudice costituzionale la norma che prevede l’obbligo di restituzione delle somme ricevute da parte dei gruppi consiliari, nel caso di accertate irregolarità in esito ai controlli della Corte dei conti sui rendiconti: qui la misura è imposta dalla Corte dei conti e non già rimessa alla valutazione del controllato. Resta per gli enti locali (ma non per le Regioni) l’obbligo di adottare i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità riscontrate e a ripristinare gli equilibri di bilancio a seguito dei controlli delle Sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci preventivi e rendiconti consuntivi e la preclusione, in caso di mancata adozione, dell’attuazione dei programmi di spesa per i 65

C. PINELLI, ult. cit., 6. F. BILANCIA, ult. cit.; M. LUCIANI, ult. cit., 30 ss.; M. NARDINI, La costituzionalizzazione dei pareggio di bilancio secondo la teoria economica. Note critiche, in Amministrazione in cammino, 2012, 11, che ritiene che quei parametri, nella misura in cui non impediscono l’erogazione di spesa in disavanzo, ma la vincolano all’incremento del Pil attraverso il noto meccanismo del moltiplicatore, non si allontanano dal deficit spending keynesiano, ove, in luogo della compensazione tra entrate ed uscite pubbliche, l’indicatore di riferimento diventava il rapporto tra disavanzo e Pil. 67 Sulla ricostruzione della nozione interna di equilibrio e di indebitamento in modo conforme a quelle europee G. SCACCIA, La giustiziabilità della regola del pareggio di bilancio, in AA. VV., Costituzione e pareggio di bilancio, Napoli, 2012, 212 e 226. 68 Sul punto M. LUCIANI, ult. cit., 22; T.F. GIUPPONI, ult. cit., 54 e 59. 69 Prova ne è che in recenti deliberazioni la Corte dei conti si è, discrezionalmente, riferita al pareggio e non all’equilibrio di bilancio: cfr. del. Sez. Aut., 14.10.2013, n. 23. 66

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quali è stata accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria: sono misure preventive e coercitive per gli enti controllati. Ci si potrebbe chiedere se, nella pariordinazione tra gli enti costitutivi della Repubblica 70, ha ancora senso attribuire un surplus democratico al prodotto dell’organo della rappresentanza politica regionale in forza della maggiore dimensione territoriale e se possa ancora sostenersi che le assemblee rappresentative territoriali ed i loro “prodotti” soffrono di un deficit democratico solo perché sono l’espressione elettorale di un territorio più circoscritto. La carica “democratica” della sussidiarietà parrebbe, piuttosto, dover indurre a conclusioni opposte. Ciò che, in ogni caso, emerge è che al preliminare momento del giudizio segue, in questi casi, l’imposizione della volontà del controllante, con la difficile confinazione tra esercizio della funzione di controllo e di amministrazione attiva. Con il ché pare ancora più lontano l’idealtipo del controllo-garanzia, connotato dalla sua strutturale riduzione all’elemento del giudizio. La slatentizzata immanenza ai controlli della Corte dei conti sulle autonomie di una preponderante dimensione volitiva, se ne segna la distanza dal modello giustiziale del controllo-garanzia, ne rivela, però, l’intima corrispondenza alla alternativa concezione del controllo-indirizzo, che la giuspubblicistica, negli anni’70, contrappose al mito dei controlli rituali, oggettivi ed impolitici. Si tratta della teorica che presupponeva, per un verso, l’esaltazione del momento volitivo nella struttura tipica del controllo, per l’altro, la sua finalizzazione alla cura di concreti interessi politico-amministrativi. Il controllo-garanzia rispondeva, infatti, alla logica difensivo-giustiziale tipica dello Stato liberale di diritto, ma non già a quella propositiva e mobilitante degli ordinamenti contemporanei, in cui il controllo amministrativo non poteva che abbandonare il puro “interesse alla legge” per volgersi alla salvaguardia di concreti valori politico-amministrativi ed alla composizione operativa degli interessi pubblici allocati ai diversi livelli di governo territoriale. L’attribuzione di rilevanza agli interessi pubblici concreti nell’attività di controllo segna l’ingresso in essa di un soffio di vita reale e concreta, l’avvio di un processo di desclerotizzazione del controllo, troppo spesso racchiuso nell’iperuranio della fredda logica del mero giudizio. Di tale concezione era figlio l’art. 41, c. 3, Cost., che già ravvisava nel controllo uno strumento della funzione di indirizzo politico-economico-finanziario nella amministrazione per programmi 71. Alla base di tale nuova teorica vi era «il riconoscimento che il potere di controllo implica, da parte dell’ordinamento, l’affidamento di interessi pubblici per la composizione operativa di essi»72 e che il controllo non è affatto svincolato dall’osservanza dell’indirizzo politico e amministrativo del Governo. Esso è espressione di un’area di potere, quello del controllore, nella quale la posizione del controllato è inclusa. Svelava, cioè, l’esercizio di discrezionalità amministrativa o politica insita nell’esercizio della funzione di controllo, sempre meno giurisdizione e sempre più amministrazione, sempre meno giudizio/garanzia e sempre più volontà. Per quella dottrina, riconoscere nel controllo l’esistenza di uno spazio per il manifestarsi del potere di indirizzo rappresentò il modo per rendere conoscibile, e quindi a sua volta controllabile, l’esercizio del controllo stesso, nonché per smascherare il carattere ideologico della dottrina del controllo-garanzia, che sembrava descrivere non ciò che il controllo era, ma quello che sarebbe dovuto essere per corrispondere all’ideale di uno Stato autenticamente fondato sul principio dell’autonomia territoriale. Appariva, però, evidente che la neutralità dell’organo di controllo avrebbe condotto alla formazione di un ‘contropotere’ fluttuante nel vuoto, in quanto svincolato da qualsivoglia responsabilità politica. Da qui derivava la necessità di riagganciare gli organi di controllo ai soggetti pubblici esponenziali di comunità politiche organizzate e di imprimere all’attività di controllo connotazioni finalistiche per la salvaguardia degli interessi pubblici. Si osservò, infatti, come la teoria del controllo come attività neutrale e 70

Che, nella comunità scientifica, pareva scontata dopo la riscrittura nel 2001 dell’art. 114 Cost.: di «pluralismo istituzionale paritario» ha discorso, fin da subito, M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in questa Rivista, 2001, 1273-4. 71 G. ZAGREBELSKY, Indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa regionale e regime dei controlli, in ASSOCIAZIONE STUDI AMMINISTRATIVI DI TORINO (a cura di), Contributi allo studio della funzione statale di indirizzo e coordinamento, Roma, 1978, 141 ss. 72 Così O. SEPE, Relazione inaugurale, in AA. VV., La ponderazione degli interessi nell’esercizio dei controlli, Milano, 1991, 19-21.

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paragiurisdizionale risentisse della vis polemica che imponeva di espungere dal circuito delle decisioni locali l’autorità statale nelle sue diramazioni prefettizie e non apprezzasse, per converso, il mutamento istituzionale, nel quale i valori di cui il controllo diveniva espressione e braccio armato non erano più quelli del circuito Ministro-Prefetto, ma quelli accolti nella Costituzione ed affidati alla cura dei diversi livelli di governo 73. L’opposizione garanzia/indirizzo assume, peraltro, un significato che trascende la storia dei controlli ove la si legga con le lenti fornite dalla teoria della Costituzione e la si collochi nella riflessione costituzionalistica che nei primi decenni dell’esperienza repubblicana si è misurata con la conformazione del rapporto intercorrente nell’ordito costituzionale tra funzioni di garanzia e funzioni di indirizzo (politico). Come è stato, infatti, evidenziato74, proprio le categorie della garanzia e dell’indirizzo possono essere adottate come feconda chiave di lettura del pensiero costituzionale italiano che ha accompagnato l’avvento della Repubblica. In particolare, in tale riflessione si è notato come all’idea mortatiana (ripresa e sviluppata da Paolo Barile) della “simbiosi” tra garanzia ed indirizzo, ove è lo stesso indirizzo delle forze politiche, cioè l’assetto materiale, a garantire l’osservanza dell’assetto formale che, a suo tempo, le medesime forze hanno voluto e posto e ove, quindi, l’osservanza del parametro si confonde con la fondazione della sua validità, si sia giustapposta la coeva riflessione di Serio Galeotti, prima, e di Temistocle Martines, poi, i quali hanno teorizzato la dissociazione tra garanzia ed indirizzo, e cioè la scissione tra osservanza della Costituzione e sua vigenza, tra il Sollen del diritto costituzionale ed il Sein degli accadimenti politici. Se, quindi, nel solco tracciato da quelle teorizzazioni, si torna a volgere lo sguardo alle categorie del controllo-garanzia e del controllo-indirizzo, ci si avvede come le medesime altro non siano che la conseguenza dell’applicazione all’istituto del controllo dell’alternativa tra scissione della garanzia dall’indirizzo e confusione della prima con il secondo; alternativa che, osservata dal punto di vista soggettivo, diviene scissione/commistione degli organi di garanzia con gli organi di indirizzo. Non pare, infatti, azzardato ravvisare il fondamento teorico ultimo della concezione del controllo-garanzia proprio in quell’idea della scissione tra garanzia ed indirizzo, tra ordine formale ed ordine materiale, che, sotto il profilo soggettivo, si è tradotta nella rigida dissociazione tra organi di garanzia ed organi di indirizzo politico. Parimenti, se si guarda alla concezione del controllo-indirizzo, non si tarda ad intravedere sullo sfondo di quella concezione l’idea mortatiana della confusione, o meglio della simbiosi, tra garanzia 73

In questo senso illuminanti paiono le considerazioni di E. CHELI, Prospettive di riforma del controllo sugli enti locali nel quadro regionale, in Foro amm., 1973, II, 384 ss., secondo cui non è infondato, con riferimento all’attuale sistema delle autonomie, «pensare ad un controllo sugli enti locali costituito non solo in funzione di garanzia, ma anche di indirizzo: ad un controllo cioè – secondo una diversa terminologia – non tanto “neutrale” quanto “orientato”. Su quest’ultimo punto bisogna peraltro intendersi bene. È certo che rispetto alle singole fattispecie il controllo va esercitato con assoluta imparzialità. Ma imparzialità non significa anche neutralità. Non solo in sede di controllo di merito, ma anche in sede di controllo di legittimità esistono in ogni caso margini di scelta (che sono poi margini di scelta politica) in ordine alla ricerca e alla interpretazione delle norme da adottare quali parametri del controllo. Questi margini di scelta vengono oggi apertamente rivendicati anche in sede di esercizio della funzione giurisdizionale: a maggior ragione non possono non valere rispetto alla funzione di controllo, che resta pur sempre una funzione di natura amministrativa, soggettivamente ancorata alla matrice politica. In altre parole, esiste e non può essere negata una “politica” del controllo regionale sugli enti locali, da ordinare e orientare in un quadro preciso di responsabilità politiche […]. Se la regione è chiamata a rispondere politicamente innanzi alla comunità regionale dell’attività del proprio organo di controllo, è evidente che alla regione deve anche spettare il potere di dare indirizzi a tale organo». Hanno espresso opinioni concordi S. D’ALBERGO, Il controllo, potere politico, in Nuova Rass., 1974, n. 7-8, 768 ss.; A. BARBERA, I controlli sugli enti ospedalieri: tendenze e prospettive per una riforma dei controlli regionali sugli enti locali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1974, 11 ss.; M. Z. SCHINAIA, L’attività delle regioni nei confronti degli enti locali, ivi, 1975, 1923 ss.; F. FAVARA, L’interesse pubblico nei controlli, in AA. VV., Realtà e prospettive dei controlli sugli enti locali territoriali, cit., 106 ss., il quale, a sostegno della concezione del controllo come braccio armato per l’attuazione di concreti “valori” politico-amministrativi, acutamente osserva come «la neutralità è un concetto negativo (come l’etimologia della parola insegna) esprimente qualcosa che somiglia al vuoto, ed il vuoto – si sa – è innaturale». Molti punti di contatto con le posizioni indicate mostra anche il contributo di G. ZAGREBELSKY, Indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa regionale e regime dei controlli, cit., 131 ss., che, nell’affrontare la complessa questione del rapporto tra attività di controllo ed attività di indirizzo e coordinamento, ha cercato di fornire risposta ad alcune domande tra cui qual è la rilevanza in sede di controllo degli atti di indirizzo e coordinamento, quali sono le conseguenze, in ordine all’organizzazione della funzione di controllo sull’azione amministrativa, che derivano da un metodo di attività che assuma come criterio-guida l’indirizzo ed il coordinamento e, in genere, si proponga il coerente perseguimento di finalità ed obiettivi economico-sociali e, soprattutto per quanto qui ci interessa, quali possibilità vi sono che il controllo sia esso stesso strumento di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa. 74 O. CHESSA, Interpretazioni del pluralismo. Il diritto costituzionale tra stabilità e mutamento, Milano, 2005, 97 e 106 ss.; ID., Cos’è la Costituzione? La vita del testo, in Quad. cost., 2008, n. 1, 46 ss.; ID., Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, Napoli, 2010, passim.

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ed indirizzo, che impone, sotto il profilo organico, la riconduzione degli organi di garanzia al circuito di quelli che esercitano funzioni di indirizzo politico, in quanto è lo stesso indirizzo delle forze politiche, l’assetto materiale, a garantire l’osservanza dell’assetto formale. In altri termini, l’ordine formale che il controllo presidia conserva validità e vigenza solo a condizione di reggersi sul sostegno duraturo ed effettivo delle forze politiche, solo cioè a condizione di essere supportato costantememte da un indirizzo politico conforme. Ma se così è, se nei controlli sulle autonomie territoriali la Corte dei conti esercita un potere di indirizzo politico-economico in forza della discrezionalità dei parametri del controllo, si pongono due problemi alla luce della teorica del controllo-indirizzo. Per un verso, non regge più l’argomento irenico della Corte secondo cui quei controlli «non impingono nella discrezionalità propria della particolare autonomia di cui sono dotati gli enti territoriali destinatari, ma sono mirati unicamente a garantire la sana gestione finanziaria»: e ciò perché tutelare la seconda presuppone l’esercizio di discrezionalità amministrativa o, addirittura, politica. Ritorna la polemica della compatibilità del controllo con l’autonomia, risolta con la sclerotizzazione degli interessi immanente alla concezione garantista del controllo. Per l’altro, la questione si aggrava ove si consideri che quel potere di indirizzo, invasivo delle autonomie politiche, è sì affidato ad un organo ausiliario del Governo (o, a tutto voler concedere, del binomio Governo-Parlamento) 75, ma la legittimazione della Corte dei conti a quei controlli dovrebbe risiedere, per il Giudice costituzionale, proprio nella sua indipendenza dal circuito della responsabilità politica 76. Con il ché si potrebbe porre una (nuova) difficoltà ‘contromaggioritaria’ nel governo dell’economia nell’ordinamento ideologicamente e territorialmente pluralista, ove i parametri legali del controllo consentissero alla Corte dei conti di porsi come superpotere dello Stato, portatore di un proprio «indirizzo politico». Se, invece, se ne sottolinea l’ausiliarietà rispetto alle politiche economiche e finanziarie del Governo e del Parlamento77, ritorna il problema dell’imposizione dell’indirizzo politico statale sulle autonomie territoriale, la cui soluzione sta e cade con la sostenibilità teorica, oggi, della nozione di Stato-ordinamento. 4. Per una dottrina alternativa dell’autonomia (e del controllo): la concezione democraticopluralista dell’autonomia e la desoggettivazione dell’unità politica della Repubblica Posto di nuovo il problema della compatibilità con il principio di autonomia dei controlli (di indirizzo) della Corte dei conti sulla gestione finanziaria, la soluzione non può stare nella concezione difensivo-garantistica dell’autonomia locale, imperniata sulla separazione delle sfere di competenza tra autorità centrale e potere locale, che nasconde, a sua volta, la contrapposizione affari generali/affari particolari. Come visto, tale concezione sostiene teoricamente, nella decisione in commento, l’opposizione tra interessi tutelati dai controlli delle Sezioni regionali della Corte dei conti rimessi alla potestà legislativa statale e quelli di competenza legislativa regionale, tra controlli preordinati ad assicurare «l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito» del «complesso delle pubbliche amministrazioni», nonché a tutelare «l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica» e controlli resi «nell’interesse della Regione». Così come è in quella concezione che si comprende l’idea dell’ontologica preordinazione dello Stato, talora considerato Stato-apparato 78, ai fini unitari e quella del sistema locale-regionale agli antitetici fini autonomistici, da sottoporre a tutela per il mantenimento dell’unità. Quella concezione, però, non corrisponde, da un lato, al dover essere del rapporto tra unità ed autonomia nello Stato pluralista, dall’altro, al ruolo della Regione nel governo della finanza pubblica allargata. 75

Sul rapporto ausiliarietà-indipendenza della Corte dei conti di recente U. ALLEGRETTI, Controllo finanziario e Corte dei conti: dall’unificazione nazionale alle attuali prospettive, in Rivista AIC, 2013, n. 1, 8 ss. 76 La prescrizione del nesso tra la dimensione di discrezionalità politica implicata dai parametri del controllo e la politicità dell’organo di controllo si intravede nel modello costituzionale di potere sanzionatorio ex art. 126 Cost. delineato in Corte cost., sent. n. 219 del 2013 (punto 14.7 del Considerato in diritto). 77 M. RISTUCCIA, La Corte dei conti quale strumento di governance, in Dem. dir., 2011, n. 3-4, 39 ss. 78 Il riferimento è alla dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata avverso i poteri ispettivi della Ragioneria generale dello Stato sugli enti locali: cfr. punti 8.6-8.8 del Considerato in diritto.

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Come ha riconosciuto la dottrina che sul finire degli anni’70 predicava l’«alternativa delle autonomie»79, già l’originario disegno costituzionale consentiva il superamento della concezione difensivo-garantista dell’autonomia in nome di quella democraticopartecipativa. In quella riflessione l’ideologia del pluralismo, con la sua immanente instabilità e mutevolezza, doveva costituire il canone ermeneutico degli schemi organizzatori previsti in Costituzione. Cosicché la Regione e, con essa, la sua autonomia diveniva articolazione e movimento della collettività popolare in senso territoriale, la cui forza democratica derivava dall’interno, dalla capacità di elaborazione autonoma di interessi-valori. Laddove, per converso, la scissione dalla matrice comunitaria e la ricostruzione del fenomeno autonomistico a livello artificiale avrebbe preluso alla ricezione di interessi-valori esterni ed imposti e, quindi, alla sua collocazione subordinata e strumentale nell’ordinamento. Era l’ideologia e la norma costituzionale ad imporre un radicale mutamento d’impostazione dell’autonomia, in nome delle ‘possibilità’ e non più di intangibili e difensive ‘realtà’. Insomma, già il disegno autonomistico costituzionale presupponeva la relazione-interferenza tra ordinamenti, ove il fenomeno comunitariolocale si inseriva nell’ordinamento più generale e adoperava i mezzi ed i luoghi istituzionali di collegamento per l’incidenza sul generale80. La novellata trama costituzionale pluralistica ad interdipendenza necessaria e, con essa, il tramonto della concezione statalistica non possono che avvalorare quella dottrina dell’autonomia e, quindi, indurre ad abbandonare definitivamente la logica garantista/difensiva che ha accompagnato la storia dell’autonomia politica e che riaffiora nei protocolli argomentativi della giurisprudenza costituzionale. Nel nuovo sistema ordinamentale unità e pluralismo non sono più, infatti, poli reciprocamente escludentisi, ma vicendevolmente implicantisi, ove l’unità presuppone la molteplicità e la seconda richiede la prima ed ove i luoghi dell’unità e dell’identità sono anche i luoghi del pluralismo e della differenza e viceversa. E ciò in quanto l’unità non è un elemento preesistente e dato, ma una finalità da raggiungere attraverso il continuo processo integrativo che include tutti i gangli della rete e che soffre le inevitabili tensioni immanenti al principio pluralista81. Di talché l’idea che l’unità sia solamente statale appare oggi un pregiudizio che disconosce il concorso e l’inclusione di tutte le istituzioni nella creazione dell’unità (ed al contempo della pluralità). L’unità nell’ordinamento pluralista è desoggettivizzata: non esiste un soggetto garante dell’unità82, ma solo comportamenti, tipici ed atipici, dei soggetti che animano il tessuto costituzionale, attraverso cui unità ed autonomia si alimentano reciprocamente 83. Si potrebbe addirittura arrivare a concludere che l’unità/autorità è divenuta, al contempo, autonomia/libertà, perché il potere è assoggettamento in quanto è soggettivazione, nel senso dell’attribuzione di una identità fissa84. In uno, il tramonto della dogmatica statalistica determina una modulazione del rapporto unità/autonomia in termini simbiotici e non più antitetici85. Non può che derivarne che le esigenze unitarie devono essere perseguite dallo Stato laddove richiedono per la loro tutela l’intervento dell’ente territoriale di maggiori dimensioni, fermo restando che le altre istituzioni politiche territoriali possono soddisfare 79

E. ROTELLI, Autonomie e accentramento nello sviluppo del sistema politico italiano, in ID., L’alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche dell’Italia moderna, Milano, 1978, 128 ss. 80 G. VOLPE, Autonomia locale e garantismo, cit., 111 ss., profeticamente (visti i tempi) discorreva del«l’ipotesi pluralista della Regione». 81 Sulla valenza teleologico-processuale dell’unità negli ordinamenti democratico-pluralistici vedi diffusamente P. PINNA, La Costituzione e la giustizia costituzionale, Torino, 1999, 97 ss. e 158 ss.; ID., Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino, 2007, 192 ss. Ancor più di recente, sulla dimensione teleologico-finalistica dell’unità nell’interpretazione giuridica della condizione attuale del pluralismo, cfr. O. CHESSA, Interpretazioni del pluralismo. Il diritto costituzionale tra stabilità e mutamento, cit., 119 ss. e, specialmente, 163-5; A. CARDONE, La “terza via” al giudizio di legittimità costituzionale. Contributo allo studio del controllo di costituzionalità degli statuti regionali , Milano, 2007, 44. 82 P. PINNA, Il diritto costituzionale della Sardegna, cit., 47. 83 Di questo tenore le osservazioni svolte da A. CARDONE, ult. cit., 45 ss. 84 Sul nesso soggettivazione-assoggettamento e, più in generale, per una critica al diritto come addomesticamento cfr. T. GAZZOLO, La grammatica della promessa in Nietzsche. Atti performativi e soggettività, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2014, n. 1, 44 ss. 85 Sollecitazioni per la rappresentazione dell’unità e dell’autonomia come due modi di essere della stessa “forma di vita”, in cui l’unità è in funzione dell’autonomia, così come questa circolarmente di quella, in un modello costituzionale duttile, dominato da una visione non “totalizzante” della Costituzione, si rinvengono già in A. RUGGERI, Teoria e prassi dell’autonomia locale (notazioni di ordine generale ed introduttivo), in Federalismi.it., 2005, n. 19, § 5.

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esigenze unitarie differenti, adeguate al loro livello. Ma tra il primo e le seconde non può più darsi una gerarchia di natura assiologica 86. Per le medesime ragioni, non può che consegnarsi alla storia l’idea di una autonomia idiota, egoistica, ripiegata su stessa e protesa alla propria conservazione mediante la separazione polemica dagli altri livelli di interessi territoriali riconosciuti e costituzionalmente garantiti. All’opposto, la pariordinazione tra gli enti costitutivi della Repubblica ed il fitto reticolo di relazioni intersoggettive che anima il tessuto pluralistico impongono e tollerano solo una concezione relazionale e multidirezionale di autonomia, che all’avvenuto riconoscimento del distacco dall’“intero” di un gruppo territorialmente localizzato aggrega la garanzia costituzionale di sopravvivenza nell’ordinamento territoriale più generale proprio attraverso luoghi precostituiti e strumenti di interrelazione. Ciò che connota la posizione costituzionale di autonomia di qualunque livello territoriale non è più l’isolazionismo e la difesa di una condizione precostituita ed immutabile, fatalmente destinata alla scomparsa, ma l’inserimento nell’ordinamento territoriale di dimensioni immediatamente maggiori ed il potenziamento della propria forza aggregativocomunitaria e della propria capacità creativo-costituente mediante la partecipazione ai processi decisionali ed organizzatori precostituiti dal diverso ordinamento territoriale. La distonia, rispetto alla dottrina pluralista dell’unità-autonomia, degli argomenti adoperati dalla Corte, nella decisione in commento, è di una certa evidenza. Per questa dottrina, infatti, non vi devono essere interessi onticamente e neppure assiologicamente tutelabili dalla struttura statuale e contro-interessi regionali. Nella sentenza, invece, la separazione tra controlli di competenza statale e controlli di competenza regionale si fonda sulla statualità/uniformità dell’interesse al«l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito» del «complesso delle pubbliche amministrazioni», nonché de«l’interesse alla legalità costituzionale-finanziaria ed alla tutela dell’unità economica della Repubblica» e sulla configurabilità di un separato «interesse della Regione». Ma qual è questo interesse della Regione? Non può esservi un separato interesse economico-finanziario: la Regione, con le altre autonomie territoriali, da un lato, concorre, ai sensi dell’art. 119, c. 1, Cost. ad assicurare l’osservanza dei vincoli economico-finanziari comunitari e l’unitario, desoggettivato, interesse della Repubblica all’equilibrio dei bilanci e sostenibilità del debito pubblico secondo l’art. 97, c. 1, Cost., dall’altro, è il custode degli equilibri finanziari nel proprio territorio ai sensi dell’art. 119, c. 8. Tutt’al più potrebbe immaginarsi il ruolo privilegiato dello Stato quale esclusivo garante degli equilibri finanziari della Repubblica solo nel caso di ricorso all’indebitamento per correggere gli effetti del ciclo economico e per eventi eccezionali, che non potranno non incidere anche sulle entrate e sulle spese di Regioni ed enti locali ovvero nelle fasi favorevoli del ciclo economico, che determinano il contributo degli enti territoriali al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato 87. Ma giammai potrebbe riconoscersi tale ruolo in generale ed ex ante. Dovrebbe, quindi, svolgersi uno stretto scrutinio sull’esigenza di tutela statale di interessi unitari rispetto alla loro tutela regionale. E rispetto all’autonomia locale perché la Regione non può controllare gli aggregati della finanza regionale complessiva? È la dimensione regionale quella a cui guardare per verificare che il complesso degli enti («di» ciascuna Regione, secondo l’infelice espressione dell’art. 119, c. 8, Cost., replicata dall’art. 10, c. 3, l. n. 243/2012) rispettino l’equilibrio di bilancio, bilanciando l’indebitamento degli uni con il risparmio degli altri per conseguire l’obiettivo aggregato: in una prospettiva che evoca alla mente il criterio dell’ottimo paretiano nell’allocazione delle risorse, il disavanzo di un ente deve essere compensato da posizioni di avanzo di altri enti, a dire che nessuno può migliorare la propria condizione senza che qualcun altro peggiori la propria. E la Regione, secondo il principio di sussidiarietà, dovrebbe essere il garante della compatibilità del progetto parziale con il progetto del composito soggetto unitario a dimensione regionale 88. Perché 86

Sulla valenza dimensionale e non assiologica dei rapporti tra gli enti costitutivi della Repubblica nella tutela delle esigenze unitarie cfr. O. CHESSA, Sussidiarietà ed esigenze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto, in questa Rivista, 2004, n. 4, 952, secondo cui «le esigenze unitarie non [appartengono] esclusivamente allo Stato, bensì a ciascun livello in relazione a quelli sottostanti. Sicché i rapporti di sovraordinazione e di sottoordinazione non [esprimono] una valenza assiologica, ma solo i rapporti dimensionali tra gli Enti, cioè la diversa ampiezza degli ambiti di intervento». 87 Secondo la disciplina di cui agli artt. 11 e 12, l. n. 243 del 2012. 88 Sull’interesse della Regione a garantire (e verificare) l’equilibrio di bilancio di cui all’art. 119, c. 8, Cost. vedi A. MORRONE, Pareggio di bilancio e Stato costituzionale, in Rivista AIC, 2014, n. 1, 7; M. BELLETTI, Forme di

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allora attribuire89 direttamente alla dimensione statale i controlli sui bilanci e rendiconti, estesi alla generalità degli enti locali, se poi è la dimensione regionale quella in cui sono ammissibili assestamenti con saldi a risultato zero? Perché supporre, come pare fare la Corte, che il sindacato sulla gestione finanziaria degli enti locali non può essere esercitato dalla Regione, che «non ne potrebbe assicurare la conformità ai canoni nazionali, la neutralità, l’imparzialità e l’indipendenza con riguardo agli interessi generali della finanza pubblica»90? Anche la Regione, come le altre autonomie, deve, infatti, rispettare i «canoni nazionali» e deve concorrere a perseguire gli interessi «generali» (e non statali) della finanza pubblica, appunto ormai allargata. La responsabilità o solidarietà) collettiva sostituisce l’etica della responsabilità individuale. E, in ogni caso e per ogni soggetto, il perseguimento di interessi contraddice la neutralità del sindacato. Il controllo da parte dello Stato potrebbe allora legittimarsi solo come controllo successivo al controllo regionale. Né potrebbe replicarsi l’argomento che fonda l’obiezione formulata per giustificare il medesimo modello per il controllo dello Stato sulle Regioni: non vi è, infatti, la possibilità di compensare, al di là delle tipiche ipotesi di perequazione o interventi speciali ex art. 119, c. 4 e 6, Cost., l’indebitamento di una Regione con i risparmi dell’altra 91. Di talché, dal punto di vista teorico, non vi dovrebbe essere ragione per supporre che lo Stato eserciti meglio dell’ente regionale il controllo sulla dimensione regionale per l’obiettivo aggregato. Rimane la possibilità di radicare la competenza statale nell’esercizio di «poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo» sul coordinamento della finanza pubblica92. Salvo rivolgere i medesimi rilievi critici all’interpretazione estensiva dell’azione di coordinamento della finanza pubblica accolta nella più recente giurisprudenza. La decisione in commento offre, però, un passaggio che potrebbe essere valorizzato per tentarne una lettura coerente con la dottrina pluralista dell’autonomia: il riconoscimento della concorrenza tra i controlli regionali e quelli statali nel sindacato finanziario delle leggi regionali 93. Potrebbero immaginarsi meta-controlli statali di natura residuale. Né la dimensione competitiva del controllo regionale si pone in contrasto con il predicato superamento della concezione garantistico-difensiva e questo per l’evidente ragione che si può competere in due modi: o cercando di imporre la propria soluzione come portato necessario dello spazio di libertà riconosciuto oppure tentando di affermare la propria visione delle cose come migliore per sé e per gli altri. In altri termini, non vi è nessuna corrispondenza necessaria fra il federalismo competitivo e la dottrina garantista perché l’elemento della competizione può essere ben supportato da un’idea propositivopromozionale dell’autonomia. Ma, soprattutto, vi è sostanziale armonia tra la prospettazione qui avanzata e l’ispirazione di fondo della Costituzione repubblicana che alla dimensione collaborativa aggrega quella competitiva perché l’abbandono della concezione garantista non vale affatto a rinunciare alla seconda delle due anime. E se tale affermazione potrebbe stupire il costituzionalista americano, abituato a concepire l’idea garantista dell’autonomia come portato del federalismo duale (in cui l’autonomia negativa degli stati membri è retaggio della loro sovranità esterna), non altrettanta meraviglia dovrebbe fare al pubblicista continentale, che ha visto affermare quella dottrina come conseguenza delle teorie politiche del liberalismo ottocentesco. In una, la contro-scrittura dei controlli e dell’autonomia si dà nella loro differenza rispetto all’economia dell’identità e della soggettivazione dell’unità.

coordinamento della finanza pubblica e incidenza sulle competenze regionali. Il coordinamento per principi, di dettaglio e “virtuoso”, ovvero nuove declinazioni dell’unità economica e dell’unità giuridica, disponibile al sito web www.issirfa.cnr.it., 16; C. TUCCIARELLI, ult. cit., 808. 89 Art. 1, c. 166-72, l. n. 266 del 2005 e art. 148-bis, d.lgs. n. 267 del 2000, introdotto dall’art. 3, c. 1, lett. e), d.l. n. 174 del 2012, su cui cfr. anche Corte cost. n. 40 del 2014. 90 Così, sent. n. 40 del 2014, punto 4.3 del Considerato in diritto. 91 Seppure con riguardo al testo previgente alla riforma costituzionale del 2012, la Corte, con la sentenza n. 176 del 2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della possibilità di traslare da una Regione ad un’altra, a seguito della «chiamata in solidarietà» obbligatoria, gli oneri connessi all’allentamento delle regole del patto di stabilità interno, 92 Corte cost., sentt. nn. 376 del 2003, 159 e 190 del 2008, 57 del 2010, 112 e 229 del 2011. 93 Punto 6.3.3 del Considerato in diritto.

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5. L’‘oikonomia’ e l’unità politica: «per la critica dell’economia politica» come ‘tecnologia’ La difficile compatibilità della concezione garantistico-difensiva del controllo e dell’autonomia locale con l’orizzonte della democrazia pluralista travolge il ragionamento del Giudice costituzionale. Gli argomenti enucleati nella pronuncia appaiono, infatti, concatenati con il rigore del sillogismo aristotelico, ove la premessa maggiore è la neutralità del controllo della Corte dei conti, la premessa minore è la separazione tra gli interessi (unitari) tutelati dai controlli disciplinati dallo Stato e gli interessi (regionali e locali) di competenza della fonte regionale in tema di finanza pubblica, la conclusione è la compatibilità dei primi con la sfera di interessi garantiti alle autonomie. Ma il tramonto delle dottrine liberali-garantiste recide sia la premessa maggiore che quella minore e, pertanto, priva di fondamento la conclusione. Resta sullo sfondo della sentenza la questione più generale: le ragioni dell’economia repubblicana devono essere le ragioni dell’uniformità escludente o si possono e si devono conciliare con il principio di autonomia e differenziazione territoriale?94 Limitatamente al capitolo dei controlli sulle autonomie, l’interrogativo diviene, in prospettiva controfattuale, se il controllo debba essere il comando di diffusione autoritativa della decisione di politica economica statale. La Costituzione presuppone la coerenza del rapporto tra unità della comunità politica e struttura economica 95. Cosicché si potrebbe dubitare che l’unità politica dell’ordinamento pluralista tolleri un sostanziale esaurimento del diritto del bilancio nella dimensione statale e si potrebbe ritenere che, nella forma di stato pluralista, la partecipazione delle autonomie territoriali alle decisioni di politica economica è prescrittivamente imposta dalla mutazione che ha subito l’unità politica. La declinazione territoriale del principio comprensivo-pluralista applicata alla decisione politica della struttura economica fornisce, infatti, la base teorica per sostenere il concorso della dimensione locale a costruire la nuova unità politico-economica della Repubblica e per interpretare il testo costituzionale senza annichilire, anche nella decisione di bilancio che soffre le tensioni immanenti ai mutamenti della forma di Stato, gli spazi dell’autonomia politica. In ogni caso, è ragione per indurre a consegnare definitivamente alla storia forme di controllo giustiziale, preventivo e/o repressivo-tutorio. Il punto non è tanto la difesa del privilegio della politica o del primato dell’autonomia territoriale sulle esigenze di unificazione economico-politica ovvero la costruzione ideologica di concezioni polemiche del diritto di bilancio dinnanzi alla possibilità di composizioni ireniche del conflitto96. Il punto è, piuttosto, che la Costituzione è la sede del principio di unità e di autonomia, di identità e di differenza, di autorità e libertà ovvero di politica e di economia. Quell’equilibrio non è più dato, non è più ipostatizzato attraverso il monopolio dello Stato sul principio di unità97. Ma quando si parla di progressivo ricostituirsi di una realtà armonica degli interessi, amministrabili su un piano giurisdizionale, «come una sorta di rivincita dell’economia sulla politica» 98 e si nega la dimensione del conflitto, nonché la necessità del suo governo, si ha, consapevolmente o no, la fuoriuscita dall’esperienza costituzionale del Novecento, che è il secolo della scoperta del conflitto. Si asseconda la tendenza dell’economia politica a sfuggire ai condizionamenti delle «determinazioni locali» ed a sviluppare «una energia cosmopolitica, universale, che travolge ogni barriera ed ogni vincolo per porsi al loro posto come l’unica politica, l’unica universalità, l’unica barriera e l’unico vincolo»99. Potrebbe anche attendersi una nuova alba. Con la consapevolezza, però, che quando il ‘politico’ non avanza più alcuna autorità che non si presenti al servizio del 94

Il tema dello scontro tra la tendenza gerarchico-militare dell’«estetica economicistica che oggi impera» e l’autogoverno delle collettività locali emerge con forza in R. BIN, Ricchi solo di idee sbagliate: i costi dell’antipolitica, in questa Rivista, 2012, n. 2, 447 ss. 95 L’immanente dimensione politica della struttura economica nella Costituzione repubblicana è argomentata da M. LUCIANI, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2011, passim. 96 Come pare, invece, ritenere A. MORRONE, ult. cit., 12. 97 M. FIORAVANTI, Cultura costituzionale e trasformazioni economico-sociali: l’esperienza del Novecento, in R. BIFULCO, O. ROSELLI (a cura di), ult. cit., 20 ss. 98 Ibidem. 99 K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, ed. 2004, 98.

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sistema tecnico-economico, esso cede alla centralità del ‘meccanismo’ dell’oikonomia. Si arrende all’idea che ogni problema vada espresso nell’immanenza della forma tecnicoamministrativa100 e sia insofferente verso ciò che trascende l’apparato 101. Salvo, poi, accorgersi che, a sua volta, l’economia politica è ‘ideologia’ e non ‘tecnologia’ 102.

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Sul paradigma ‘gestionale’ della teologia economica nella teologia cristiana delle origini, che sostituisce alla trascendenza della teologia politica l’idea di oikonomia, concepita come un ordine immanente di governo degli uomini, vedi la critica all’ordine discorsivo economico di G. AGAMBEN, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino, 2009, 13 ss. 101 M. CACCIARI, Il potere che frena, Milano, 2013, 122 ss. 102 K. MARX, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, Firenze, 2011, 68 e 88 ss.

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Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia: i controlimiti in azione* di Pietro Faraguna** (2 novembre 2014) La pistola dei controlimiti è dunque carica. E spara davvero. Questa è l’eco che si è udita, anche da molto lontano, della sentenza n. 238 del 2014, con cui la Corte costituzionale si è posta di traverso rispetto all’applicazione della sentenza della Corte internazionale di giustizia (CIG) che il 3 febbraio 2012 sembrava aver scritto la parola fine a una vicenda giudiziaria pendente ormai da diversi decenni e avente oggetto le azioni di risarcimento intentate contro la Germania da cittadini italiani deportati e costretti ai lavori forzati tra il 1943 e il 1945. Il punto controverso era innanzitutto la giurisdizione del giudice civile. Nel 1994 la Cassazione italiana (caso Ferrini) aveva ritenuto sussistente la giurisdizione italiana, superando la tradizionale concezione dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile. Questo nuovo indirizzo giurisprudenziale aveva però trovato la ferma opposizione della Germania, che riteneva invece sussistente la copertura dell’immunità relativamente a tali fatti. La questione era finita, per iniziativa della Germania, davanti alla Corte di giustizia, la quale aveva accolto le doglianze tedesche e aveva accertato la violazione italiana del diritto internazionale. Successivamente la Cassazione aveva dunque recepito l’interpretazione della CIG e con inusuale zelo anche il legislatore era intervenuto per porre rimedio all’illecito internazionale, aprendo tra l’altro la via della revocazione anche ai casi già passati in giudicato. Dopo questo generale riallineamento dell’ordinamento italiano alla sentenza della CIG, un giudice civile portava tuttavia la questione all’attenzione della Corte costituzionale. Non per contestare l’interpretazione della CIG, ma per sottoporre al vaglio dei giudici di palazzo della Consulta la questione della compatibilità della norma internazionale risultante dalla decisione della CIG con i principi supremi dell’ordinamento. Ad avviso del giudice remittente, l’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri sarebbe in contrasto con due principi supremi dell'ordinamento: il diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), e il diritto inviolabile alla dignità (art. 2 Cost.), alla cui tutela sarebbe strumentale l'ersercizio del diritto alla tutela giurisdizionale. Nella ricostruzione del giudicie a quo, il dispiegarsi dell'immunità non sarebbe consentito dall'ordinamento costituzionale, qualora protegga gravi e accertate violazioni dello ius cogens, derivanti da fatti compiuti sul territorio italiano, e in mancanza di altri rimedi giurisdizionali. La Corte costituzionale decide di sposare la linea del giudice remittente, e riapre dunque la vicenda, che sembrava definitivamente chiusa con la sentenza della CIG del 2012. Non è questa la sede per soffermarsi sui dettagli della questione, che meritano un’analisi ben più approfondita, ma può essere interessante operare qualche osservazione preliminare su due punti: da un lato la concezione che risulta dalla sentenza della Corte in merito alla categoria dei controlimiti e dall’altro il significato che va tratto dalla scelta del giudice costituzionale di fare ricorso proprio in questa occasione agli strumenti più potenti del suo arsenale decisionale.

*Scritto sottoposto a referee.


Quanto alla concezione dei controlimiti, la sentenza è uno strumento conoscitivo utilissimo ad avere un quadro ricostruttivo un po’ più preciso di una categoria finora del tutto sfuggente. Lo stesso termine, usato molto e da molto in dottrina, per la prima volta compare nel cuore motivazionale di una sentenza della Corte. Finalmente si trova una ricostruzione di sistema della nozione di controlimiti e della sua elaborazione giurisprudenziale. La Corte salda definitivamente sotto al concetto di controlimiti gli esiti dei molti rivoli della sua giurisprudenza sui “principi supremi”, “fondamentali”, “essenziali”. Convergono sotto all’ombrello dei controlimiti i frammenti di un lessico vario, distribuiti in segmenti giurisprudenziali collocati in un arco temporale molto ampio, e in settori materiali diversi. Il “cammino dei controlimiti” non è stato infatti soltanto comunitario, ma va dalla giurisprudenza sui limiti all’applicazione delle norme concordatarie (ove vi è l’unico precedente caso di accoglimento con la sentenza n. 18 del 1982) fino alla giurisprudenza sui limiti alla revisione costituzionale. Casi molto diversi, a cui si aggiunge un precedente specifico, rispetto al caso in esame, in materia di controlimiti internazionali (sentenza n. 48 del 1979) e la consistente giurisprudenza sui controlimiti al primato del diritto UE. Oggi è chiaro che la Corte riunisce gli esiti di questi sforzi interpretativi nell’unica categoria dei controlimiti, facendo un’operazione di chiarificazione senz’altro utile, seppure non fornisca giustificazioni teoriche approfondite di un esito non necessariamente scontato (vi sarebbero argomenti non banali per ipotizzare che i limiti posti al legislatore costituzionale debbano essere diversi rispetto ai limiti posti all’ingresso delle norme concordatarie). La pronuncia entra inoltre nel vivo dell’ossimoro dei principi supremi. Come principi sono destinati alle dinamiche del bilanciamento, ma con la pretesa – derivante dal loro essere supremi – di risultare vincenti all’esito del bilanciamento. Sempre? La Corte lo esclude espressamente e delinea chiaramente una concezione non assolutistica dei controlimiti: non hanno titolo a prevalere sempre, ma sono anch’essi destinati a essere bilanciati ed eventualmente a soccombere. La Corte infatti è chiamata a valutare che sia garantita l’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento interno, ovvero ne sia ridotto «al minimo il sacrificio» (sent. 238/2014, punto 3.1 c.i.d.). Un “piccolo” sacrificio è dunque ammissibile: ove sussistesse «un interesse pubblico potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell’art. 24 Cost., annoverato tra i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale» (punto 3.4 c.i.d.) le ragioni dell’immunità potrebbero prevalere. La Corte ritiene che in questo caso l’esito del bilanciamento porti invece a far prevalere le ragioni del diritto alla tutela giurisdizionale, fatto valere per tutelare l’inviolabile diritto alla dignità. Non è questa la sede per soffermarsi sulle ragioni addotte dalla Corte per giungere a questa valutazione. È però interessante fare un cenno agli argomenti che non trovano spazio nel bilanciamento operato dalla Corte: non pesa il principio di apertura dell’ordinamento, e il connesso interesse a conformarsi a una sentenza della CIG, istanza giurisdizionale senz’altro da connettersi a un’organizzazione internazionale rivolta allo scopo di assicurare la pace e la giustizia delle nazioni. Non pesa il dato che il difetto di giurisdizione, che lederebbe il diritto inviolabile che vuole garantito «a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (così corte cost., sent. n. 18 del 1982), sia stato pronunciato da un giudice (la CIG) secondo il diritto (internazionale). Nel bilanciamento della Corte non sembra trovare (sufficiente) spazio, in poche parole, l’art. 11 Cost.


La Corte, senza voler azzardare eccessi di realismo, avrebbe potuto senza grandi difficoltà giungere a una diversa soluzione al caso. Ha scelto invece di ricorrere all’arma più potente del suo arsenale, e le motivazioni di questa scelta non sono semplici da identificare. Non si trattava infatti di difendere delle caratteristiche peculiari dell’ordinamento costituzionale italiano, essendo i principi in questione – tutela giurisdizionale e dignità umana – patrimonio costituzionale comune dell’ordinamento europeo e internazionale, la cui protezione è scolpita chiaramente nelle fonti europee, internazionali e trova una delle più alte qualificazioni costituzionali, ironia della sorte, proprio nell’ordinamento tedesco. Sembra potersi escludere che il fine ultimo della Corte possa essere stato quello di rendere simbolicamente giustizia alla realtà storica delle deportazioni, dei lavori forzati, degli eccidi. I fatti di cui trattasi sono stati infatti qualificati come crimini di guerra e contro l’umanità da tutte le parti in causa. In tempi assai recenti i due Stati hanno riconosciuto «pienamente le gravissime sofferenze inferte agli italiani in particolare nelle stragi e agli ex-internati militari italiani» (Dichiarazione Congiunta sul vertice italotedesco a Trieste, 18 novembre 2008, la stessa peraltro in cui «l'Italia rispetta[va] la decisione tedesca di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per una pronuncia sul principio dell'immunità dello Stato [...] e come Paese che fa del rispetto del diritto internazionale un cardine della propria condotta, considera[va] che la pronuncia della Corte Internazionale sull'immunità dello Stato [fosse] utile al chiarimento di una complessa questione»). Altresì improbabile è che il lume che ha guidato la Corte fosse l’effettiva ristorazione dei danni. È infatti del tutto irrealistico che la Germania, forte della sentenza della CIG, accetti mai di pagare i danni liquidati da un giudice civile italiano. Ed è inverosimile pensare che la soddisfazione degli aventi diritto possa derivare dall’aggressione di beni di proprietà della Repubblica federale di Germania situati in Italia, come già avvenuto con l’ipoteca posta su Villa Vigoni (atto dichiarato illecito internazionale dalla CIG). Si potrebbe allora ipotizzare che l’intenzione remota della Corte fosse quella di stimolare la creazione di una nuova interpretazione dell’immunità degli Stati esteri nell’ordinamento internazionale. Ciò sembra suggerito dalla citazione che si legge nella sentenza n. 238 del decisivo contributo che la giurisprudenza italiana, all’inizio del secolo scorso, avrebbe dato alla comunità internazionale per l’affermazione di una lettura più restrittiva dell’immunità in questione, limitata agli atti iure imperii. Eppure è la Corte stessa ad escludere espressamente questa intenzione persuasiva, laddove afferma di lasciare «agli organi internazionali la ricognizione della prassi ai fini della rilevazione delle norme consuetudinarie e della loro evoluzione» (sent. 238/2014, punto 3.3 c.i.d.). Oltre a ciò, fosse stata questa l’intenzione, il mezzo sarebbe astrattamente inidoneo allo scopo. Infine, fosse quello l’obiettivo, la scelta della tempistica non potrebbe essere stata peggiore. In senso contrario si sono infatti pronunciate, e in tempi molto recenti, non solo la CIG (e l’elemento già basterebbe), ma anche la Corte EDU (caso Jones v. UK) e un consistente numero di Corti costituzionali e supreme, di cui le recenti sentenze delle istanze internazionali tengono e danno conto. Esclusa anche l’ipotesi dell’intento persuasivo, l’effetto collaterale della sentenza della Corte costituzionale, voluto o non voluto, potrebbe essere quello di incentivare Italia e Germania a riprendere in mano la questione, per dare una risposta diplomatica


alle pretese risarcitorie in sede di negoziato, come peraltro auspicato dalla stessa CIG nella sentenza del 2012. Difficile immaginare se ciò avverrà. Ma se da una parte la sentenza della Corte costituzionale ha certamente riportato il tema urgentemente all’attenzione delle parti, da un’altra prospettiva è lecito dubitare che abbia migliorato le pre-condizioni del negoziato. Qualunque accordo dovrebbe infatti comprendere la rinuncia all’esercizio di azioni giurisdizionali da parte degli Stati e dei loro cittadini. E proprio in quanto tale, attingendo dagli argomenti della sentenza n. 238, un tale accordo sarebbe lesivo del diritto alla tutela giurisdizionale e incompatibile con i principi supremi. Le azioni di risarcimento potrebbero perciò comunque continuare a essere radicate davanti al giudice italiano, e nemmeno una legge costituzionale potrebbe sistemare diversamente la faccenda. Difficile immaginare che ciò agevoli la conclusione di un accordo. **Emile Noël Fellow, Jean Monnet Center - NYU School of Law


La leale collaborazione ancora di fronte alla Corte. Nota a Corte costituzionale, sent. n. 39 del 2013 * di Valerio Picalarga ** (3 ottobre 2014)

1. La sentenza in commento si inserisce nel filone delle pronunce della Corte che hanno dichiarato l’incostituzionalità di norme statali lesive del principio di leale collaborazione, in quanto non osservanti il requisito dell’intesa tra Stato e Regioni per l’adozione di atti amministrativi in determinati ambiti materiali 1. Le fattispecie in cui il principio di leale collaborazione assume rilievo sono molteplici. Esso opera, come noto, nei casi di c.d. “attrazione in sussidiarietà” statale di funzioni pertinenti a materie di competenza regionale o concorrente. Altra ipotesi è quella di interventi normativi in settori in cui vi è una connessione indissolubile tra materie di diversa attribuzione, senza la possibilità di rinvenirne una sicuramente prevalente 2. Nel caso di specie, era oggetto di scrutinio l’art. 61, comma 3, del d.l. n. 5 del 2012 3, impugnato dalle Regioni Veneto, Puglia e Toscana 4. La norma consentiva al Consiglio dei Ministri, fatta salva la competenza legislativa esclusiva delle Regioni, di adottare motivatamente un atto amministrativo, anche senza intesa o assenso delle Regioni interessate, nei sessanta giorni successivi alla scadenza del termine per la sua adozione da parte dell’organo competente. Qualora nel medesimo termine fosse stata raggiunta l’intesa, il Consiglio dei Ministri avrebbe potuto deliberare l’atto, motivando con esclusivo riguardo alla permanenza dell’interesse pubblico. Il successivo quarto comma prevedeva due eccezioni: sotto il profilo oggettivo, la disciplina non era applicabile «alle intese previste da leggi costituzionali»; sul piano soggettivo, essa non riguardava «le Regioni a Statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano». Scritto sottoposto a referee. Cfr., tra le più recenti, Corte cost. n. 179 del 2012; Corte cost. n. 165 del 2011, con nota di M. MICHETTI, La Corte censura il potere sostitutivo statale in materia di “interventi urgenti ed indifferibili” nel settore energetico, in www.rivistaaic.it, 4/2011. Si veda, anche, Corte cost. n. 33 del 2011, in cui la Corte, pur pronunciandosi per la non fondatezza di quasi tutte le questioni – ritenendo soddisfatto in concreto il principio di leale collaborazione – esplicita nettamente il proprio orientamento sul tema. Al riguardo, cfr. A. BARAGGIA, Il principio di leale collaborazione tra fatto e diritto, in Le Regioni, 2011, 1246 ss. 2 L’occasione di commento alla sentenza sconsiglia una digressione sull’istituto della chiamata in sussidiarietà o sul criterio, anch’esso di matrice giurisprudenziale, della prevalenza; più opportuno appare il rinvio bibliografico alle opere specifiche sui due temi. Peraltro, la riflessione dottrinale in tali campi ha raggiunto una densità tale da non consentire un’elencazione esaustiva dei contributi esistenti. Si ricordano, tra i molti, in tema di avocazione in sussidiarietà: G. SCACCIA, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, Napoli, 2009; C. MAINARDIS, Chiamata in sussidiarietà e strumenti di raccordo nei rapporti Stato-Regioni, in Le Regioni, 2011, 455. Con riguardo al ruolo assunto dal criterio del prevalenza nella giurisprudenza della Corte, si veda: R BIN, Prevalenza senza criterio, in Le Regioni, 2009, 618 ss; F. MANGANIELLO, L’interesse nazionale scompare nel testo… ma resta nel contesto. Una rassegna dei problemi, in Le Regioni, 2012, 89 ss.; E. BUOSO, Concorso di competenze, clausole di prevalenza e competenze prevalenti, in Le Regioni, 2008, 80 ss.; G. DI COSIMO, Materie (riparto di competenze), in Dig. disc. pubbl. – Aggiornamento 2008, 14 ss. 3 Pubblicato in G.U. 9.02.2012, n. 33, recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo”. Convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 4 aprile 2012, n. 35. 4 Rispettivamente, ricorsi nn. 89 e 91, pubblicati in G.U. n. 30 del 25.07.2012, e ricorso n. 92, pubblicato in G.U. n. 31 del 01.08.2012. *

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La disposizione censurata, dunque, permetteva al Governo di adottare un atto amministrativo in qualsiasi materia – all'infuori di quelle, come detto, di competenza esclusiva (rectius, residuale)5 delle Regioni – anche in mancanza di accordo con le stesse. L’impasse causata dal fallimento delle procedure concertative era così superabile – in presenza di specifici presupposti di legge 6 – sulla base del mero decorso infruttuoso di un termine. 2. Dopo aver ricordato che l’inclusione di clausole di formale osservanza del principio di leale collaborazione non è sufficiente a salvare le norme dalla declaratoria di incostituzionalità, qualora queste lo violino nella sostanza 7, la Corte giunge alla declaratoria di incostituzionalità seguendo un percorso argomentativo in larga parte fedele ai suoi precedenti in materia. Come accennato, il principio di leale collaborazione interviene necessariamente in ipotesi tipiche, che spaziano dai casi di c.d. chiamata in sussidiarietà, a quelli in cui vi sia un intreccio inestricabile di materie non risolvibile con il criterio della prevalenza 8. In tali occasioni, l’obbligo di cooperare rende illegittima un’automatica assunzione unilaterale del provvedimento da parte dello Stato, fondata sul solo presupposto del fallito accordo entro un certo lasso di tempo. Il principio è richiamato dalla sentenza n. 179 del 2012, ove la Corte ha chiarito che, allorquando l’intervento statale opera quale «mera conseguenza automatica del mancato raggiungimento dell’intesa, è violato il principio di leale collaborazione con conseguente sacrificio delle sfere di competenza regionale» 9. Si tratta, invero, di una massima enunciata sin dalla sentenza n. 383 del 2005, in cui il requisito dell’intesa è stato descritto con maggiore rigore argomentativo, con specifico riguardo all’istituto dell’avocazione in sussidiarietà. Secondo tale decisione, le intese costituiscono «condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della In tema di non perfetta assimilabilità della competenza regionale ex art. 117, comma 4, Cost. a quella “esclusiva” statale di cui al secondo comma dello stesso art. 117, si rinvia a A. RUGGERI, La riforma costituzionale del Titolo V e i problemi della sua attuazione, con specifico riguardo alle dinamiche della normazione e al piano dei controlli , in Aa. Vv., Il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione, Milano, 2002 (relazione al seminario del 14/01/2002 a Bologna), 55 ss.; G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Le Regioni, 2001, VI, 1251 e 1257 ss.; v. anche, R. NIRO, Note minime sulla potestà legislativa «residuale» delle Regioni ad autonomia ordinaria, in Giur. cost., 2003, 1855 ss., la quale evidenzia che la qualificazione della competenza residuale come potestà esclusiva «sembrerebbe contraddetta, prima ancora che da taluni dati testuali nonché dalla lettura sistematica del medesimo art. 117 Cost. e, più in generale, dell’intero dettato costituzionale, dallo stesso riferimento alle più consolidate esperienze costituzionali federali», là dove l’espansione degli implied powers ha comportato il riconoscimento di competenze allo Stato centrale che prescindono da quelle individuate negli elenchi materiali. Contra, per un’iniziale lettura della potestà legislativa residuale regionale come autenticamente “piena” e speculare a quella esclusiva statale, v. P. CAVALERI, La nuova autonomia legislativa delle Regioni, in Foro it., 7-8/2001, 202 e M. OLIVETTI, Le funzioni legislative regionali, in Aa. Vv., La Repubblica delle autonomie, Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, T. GROPPI E M. OLIVETTI (a cura di), Torino, 2001, 90 ss. 6 A tenore dell’art. 61, comma 3, del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 il potere governativo era attivabile «ove ricorrano gravi esigenze di tutela della sicurezza, della salute, dell’ambiente o dei beni culturali ovvero per evitare un grave danno all’Erario». 7 Corte cost., sent. n. 39 del 2013, 4.1. del Consid. in diritto: «Non è sufficiente, in ogni caso, il formale riferimento alla necessaria osservanza del principio di leale collaborazione». L’art. 61, comma 3 del decreto prescriveva, difatti, che l’esercizio del potere sostitutivo statale avvenisse «nel rispetto del principio di leale collaborazione». 8 Lo evidenzia A D’ATENA, Il riparto delle competenze legislative: una complessità da governare, in Aa. Vv. I cantieri del federalismo in Europa, A. D’ATENA (a cura di), Milano, 2008, 240 – 246. Tra i precedenti giurisprudenziali del primo tipo si annoverano le sentenze della Corte cost. nn. 139 e 179 del 2012, nn. 79 e 165 del 2011, n. 278 del 2010, nn. 62 e 383 del 2005, n. 6 del 2004, n. 303 del 2003; con riferimento al secondo genere di pronunce, si vedano, tra le altre, Corte cost., n. 27 del 2010, n. 168 del 2008, nn. 50 e 219 del 2005. 9 Corte cost., sent. n. 179 del 2012, 5.2.1. del Consid. in diritto. 5

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disciplina legislativa statale che effettui la “chiamata in sussidiarietà” di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale»; esse debbono strutturarsi “in senso forte”, nel senso che devono essere «atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti». Ai fini del perfezionamento di simili intese, la volontà espressa dalla Regione interessata non può dunque essere sostituita da una determinazione dello Stato; viceversa, questo «diverrebbe in tal modo l'unico attore di una fattispecie che (…) non può strutturalmente ridursi all'esercizio di un potere unilaterale» 10. Al riguardo, la giurisprudenza della Corte ha affermato l’obbligo nei confronti dello Stato di prevedere «procedure di reiterazione delle trattative, con l’impiego di specifici strumenti di mediazione (ad esempio, la designazione di commissioni paritetiche o di soggetti “terzi”), ai quali possono aggiungersi ulteriori garanzie della bilateralità, come, ad esempio, la partecipazione della Regione alle fasi preparatorie del provvedimento statale (sentenze n. 33 e n. 165 del 2011)»11. Si tratta, dunque, di attività positive volte al superamento di situazioni di “stallo”12. Come osservato, la norma censurata postula invece, per l’esercizio del potere sostitutivo statale, il semplice decorso di un lasso di tempo . La Corte evidenzia che un tale meccanismo esonera lo Stato dall’obbligo di osservare comportamenti ispirati al principio di leale collaborazione, non assegnando alcun rilievo giuridico all’atteggiamento tenuto dalle parti in sede di trattativa. Secondo i Giudici della Consulta, lo Stato potrebbe persino determinare volontariamente – con inerzia o altri comportamenti elusivi – l’infruttuoso decorso del termine 13, così compromettendo gravemente la partecipazione delle Regioni al processo decisionale. Corte cost., sent. n. 383 del 2005, 30. del Consid. in diritto. Corte cost., sent. n. 39 del 2013, 4.1. del Consid. in diritto. Si veda, in particolare, la sentenza n. 165 del 2011 (8. del Consid. in diritto): «La previsione dell'intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una "drastica previsione" della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, ma che siano necessarie ‘idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze’ (ex plurimis, sentenze n. 121 del 2010, n. 24 del 2007, n. 339 del 2005). Solo nell'ipotesi di ulteriore esito negativo di tali procedure mirate all'accordo, può essere rimessa al Governo una decisione unilaterale (…) L'intervento unilaterale dello Stato non si presenta quindi [nel caso di specie] come l'ipotesi estrema…» . La pronuncia richiamata sottolinea, dunque, il carattere di extrema ratio che l’intervento unilaterale statale deve possedere, ammissibile solo in esito al vano esperimento di tutte le attività concertative normativamente previste/da prevedersi. 12 È interessante notare come il principio di leale collaborazione, e il requisito dell’intesa quale suo corollario pratico, si strutturino in modo analogo (divieto di unilaterale determinazione dell’atto in esito alla mera scadenza di un termine; scambio di informazioni e previsione di meccanismi concertativi con eventuale ausilio di soggetti terzi, ecc.) anche in ipotesi diverse da quella canonica dei rapporti Stato-Regioni. Emblematico è il caso di una Regione, chiamata ad attuare tale principio nelle sue relazioni con le associazioni sindacali rappresentative dei datori e prestatori di lavoro . Si allude alla sentenza della Corte n. 24 del 2007 (2. del Consid. in diritto): «La disposizione di cui all'art. 2, comma 2, della legge regionale in scrutinio, nel prevedere che, se l'intesa non è raggiunta entro il termine di sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge stessa, provvede la Giunta regionale, attribuisce ad essa un ruolo preminente, incompatibile con il regime dell'intesa, caratterizzata, quest'ultima, nel caso in esame, dalla paritaria codeterminazione dell'atto in difetto di indicazioni della prevalenza di una parte sull'altra (sentenze n. 27 del 2004, n. 308 del 2003 e n. 116 del 1994). Né vale prospettare la necessità di un meccanismo idoneo a superare la situazione di stallo determinata dalla mancata intesa. Per ovviare a siffatta esigenza e dare concreta attuazione al principio di leale collaborazione – del quale la prescrizione dell'intesa, anche tra i soggetti indicati, costituisce pur sempre espressione – spetta al legislatore regionale stabilire, semmai, un sistema che imponga comportamenti rivolti allo scambio di informazioni e alla manifestazione della volontà di ciascuna delle parti e, in ultima ipotesi, contenga previsioni le quali assicurino il raggiungimento del risultato, senza la prevalenza di una parte sull'altra (per esempio, mediante la indicazione di un soggetto terzo). È, invece, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali la drastica previsione, in caso di mancata intesa, della decisività della volontà di una sola delle parti, la quale riduce all'espressione di un parere il ruolo dell'altra». 13 Corte cost., sent. n. 39 del 2013, 4.2. del Consid. in diritto. Al riguardo, cfr. Corte cost., sentt. nn. 179 del 2012, 33 del 2011, 121 del 2010, 24 del 2007, 378 del 2005. 10 11

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Lungo il suo excursus motivazionale, la sentenza affronta anche l’eccezione, sollevata dallo Stato, relativa alla straordinarietà delle attuali circostanze economiche e finanziarie, che consentirebbero una deroga “centralista” al formale riparto di competenze. La Corte è netta nel ribadire che una, pur evidente, «situazione di necessità» come quella prospettata dalla difesa erariale, non legittima lo Stato «ad esercitare funzioni legislative in modo da sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali previste, in particolare, dall’art. 117 Cost.»14. Pertanto, l’argomento salus rei publicae suprema lex esto – frequentemente evocato dalla difesa erariale, con formulazioni più o meno esplicite15 – ancora una volta non trova consenso nella giurisprudenza costituzionale, restia a concedere allo Stato un passepartout per interventi normativi totalmente disancorati dal riparto formale di competenze posto dalla Costituzione a garanzia delle autonomie territoriali16. 3. Esaminate le ragioni poste a fondamento della declaratoria di incostituzionalità, sembra interessante indagare i motivi sottesi all’emanazione di discipline manifestamente carenti del requisito dell’intesa, destinate a plausibili censure di costituzionalità. Peraltro, inserite in testi normativi di contenuto eterogeneo 17 e corredate di clausole di formale osservanza del principio di leale collaborazione, quasi a volerne celare la natura costituzionalmente illegittima. Non v’è dubbio che l’art. 61 del d.l. n. 5 del 2012, a dispetto della formula di stile ricordata18, costituisse un nuovo tentativo 19 di dotare il Governo di un potere sostitutivo “agile”, uno strumento per operare al di fuori di pratiche concertative di complessa attivazione e perseguimento. Per provare a cogliere le ragioni di tale intervento normativo, occorre ampliare lo spettro della riflessione. Le difficoltà di funzionamento del riparto di competenze previsto dal Titolo V della Costituzione sono ben note, ed hanno generato una rigogliosa elaborazione Corte cost., sent. n. 39 del 2013, 4.3. del Consid. in diritto, che richiama la sent. n. 148 del 2012. In motivazione è citata anche la sent. n. 151 del 2012, ove si precisa come lo Stato sia sempre tenuto ad «affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale». 15 Che rinviano ad una pluralità di parametri costituzionali, più o meno conferenti: solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), uguaglianza economica e sociale (art. 3, secondo comma, Cost.), unitarietà della Repubblica (art. 5 Cost.), responsabilità internazionale dello Stato (art. 10 Cost.), appartenenza all'Unione europea (art. 11 Cost.), concorso di tutti alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), sussidiarietà (art. 118 Cost.), responsabilità finanziaria (art. 119 Cost.), tutela dell'unità giuridica ed economica (art. 120 Cost.) e gli «altri doveri espressi dalla Costituzione (artt. 41-47, 52, 54)» . Cfr. Corte cost. n. 148 del 2012, 3. del Consid. in diritto. Invero, nel caso di specie, il riferimento compiuto dalla difesa erariale all’eccezionalità dell’attuale congiuntura economica e finanziaria sembrava non tradursi in una formale difesa. Cfr. atto di costituzione del PdCM, depositato il 13/07/2012 pp. 1-2: «La norma denunciata (…) reca una serie di provvedimenti diretti ad assicurare “nell’attuale eccezionale situazione di crisi internazionale” – così la premessa del decreto in ordine alle motivazioni della necessità ed urgenza – “e nel rispetto del principio di equità, una riduzione degli oneri amministrativi per i cittadini e le imprese e la crescita, dando sostegno ed impulso al sistema produttivo del Paese”. (…) In tale contesto, dunque, si inserisce e va letta la norma impugnata (…) la prospettata questione di legittimità costituzionale appare con evidenza inammissibile e/o infondata». 16 Sul tema la Consulta si è espressa anche in occasione della relazione annuale dell’allora Presidente, prof. Franco Gallo, del 12 aprile 2013, pp. 4-5: «Nell’esaminare le numerose questioni (…) la Corte, pur riconoscendo l’indubbia gravità della crisi finanziaria, ha negato che questa possa integrare una sorta di “stato di eccezione”, tale da giustificare la sospensione e, tanto meno, la deroga delle regole costituzionali di riparto delle competenze fra Stato e Regioni (sentenze n. 40, n. 136, n. 148, n. 151 e n. 294 del 2012). Ha, perciò, sottolineato che, per affrontare la crisi, il legislatore statale può utilizzare solo gli strumenti e i rimedi previsti dalla Costituzione». 17 La disciplina si colloca in un decreto legge che – come accade di frequente – contiene previsioni caratterizzate da un alto tasso di eterogeneità; lo stesso art. 61 contiene, nei primi due commi, disposizioni (rispettivamente, in materia di beni culturali e contratti pubblici di lavori, servizi e forniture) non direttamente afferenti alla normativa censurata di cui ai commi 3 e 4. 18 Supra, nota 7. 19 Analoghi episodi si erano conclusi con le ricordate Corte cost., sentt. nn. 179 del 2012, 33 e 165 del 2011. Supra nota 1. 14

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giurisprudenziale e dottrinale in tema di rapporti tra potestà dello Stato e delle Regioni. È un dato di fatto, come autorevolmente messo in luce, che il Titolo V riscritto dalla legge cost. n. 3 del 2001 abbia necessitato di un vistoso “sostegno ortopedico” 20 della Consulta per trovare attuazione: difatti, la laconicità, quando non evidente incongruenza 21, di molteplici disposizioni costituzionali ha richiesto alla Corte una vera e propria opera di integrazione del parametro costituzionale 22. Tale intervento suppletivo ha, in particolare, riguardato le norme volte ad assicurare allo Stato centrale il perseguimento delle c.d. esigenze unitarie; ciò a fronte di un nuovo riparto formale di competenze che sembra aver obliato nella lettera ma non nello spirito la figura dell’interesse nazionale, fattore insopprimibile e coessenziale anche alle forme di Stato più “garantiste” nei riguardi delle Autonomie territoriali23. Sono quindi sorti istituti di matrice giurisprudenziale, come la chiamata in sussidiarietà di funzioni legislative, e canoni ermeneutici, come il criterio della prevalenza, affiancati dal principio di leale collaborazione, a cui si è conferito un inedito rilievo procedimentale; ciò al fine di porre rimedio ad un assetto formale di competenze improntato – sul modello del dual federalism – ad una forse troppo rigida separazione in astratto di attribuzioni tra ente centrale e autonomie territoriali. I congegni giurisprudenziali così predisposti sembrano, tuttavia, non essere (più) adeguati alla realtà odierna. La stessa disciplina della leale collaborazione elaborata dalla Corte – pur tesa a contemperare la garanzia delle attribuzioni costituzionali regionali con l’esigenza di soddisfare le istanze unitarie – costringe a passaggi procedimentali tortuosi, dalla non sempre chiara intellegibilità delle forme e prevedibilità degli esiti. Non casualmente, alcune decisioni recenti sono parse legate più alla peculiarità delle vicende storiche sottese al giudizio, che all’esito di un vaglio su puntuali disposizioni della Costituzione o norme interposte. Paradigmatica, in tal senso, è la ricordata sentenza della L’espressione è di A. D’ATENA, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2003, 2776 ss. e in Le Regioni dopo il big bang, Milano, 2005, 141 ss., riferita alla celebre sentenza n. 303 del 2003 (rel. Mezzanotte), capostipite, come noto, delle pronunce che hanno “dettato la disciplina” dell’istituto dell’avocazione legislativa in sussidiarietà. 21 Lo stesso Autore, con riguardo alla collocazione – con legge cost. n. 3 del 2001 – all’interno della competenza concorrente – in luogo di quella statale esclusiva – di materie a carattere manifestamente nazionale (“trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” e “grandi reti di trasporto”) ha parlato di veri e propri «errori materiali», che sembrano «da ascrivere, più che a una decisione politica (per discutibile che possa essere), all’impiego non sorvegliato dei comandi “taglia” e “incolla” del programma di videoscrittura usato». V. A. D’ATENA, Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost. n. 1/2003, 17. 22 Il riferimento è a G. RESCIGNO, nella recensione a G. SCACCIA, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, Napoli, 2009, in Dir. Pubbl., 2, 2009, 675-677. 23 Significative, in tal senso, sono le conclusioni raggiunte da alcuni studiosi con specifico riguardo al criterio della prevalenza, utilizzato dalla Corte in misura sempre crescente per risolvere le ipotesi di intreccio di materie: cfr. R BIN, Prevalenza senza criterio, cit., 618 ss e F. MANGANIELLO, L’interesse nazionale scompare nel testo… ma resta nel contesto. Una rassegna dei problemi, cit., 89 ss., in particolare 92, 93. Entrambi gli Autori rimarcano l’utilizzo unidirezionale del canone della prevalenza, di per sé neutro, a favore dell’espansione delle competenze dello Stato, esonerando quest’ultimo dall’obbligo di ricorrere alla leale collaborazione in presenza di intrecci di materie (di «uso centripeto del criterio di prevalenza» parla R. BIN). Gli stessi ne traggono argomenti per affermare, rispettivamente, che il criterio della prevalenza «altro non è che la riedizione post-riforma dell’interesse nazionale» (BIN) e che «nonostante sia stato eliminato il nomen (interesse nazionale), la res (lo spirito dell’ordinamento statocentrico), sia rimasta immutata, trovando la stessa applicazione, tendenzialmente, mediante il criterio della prevalenza» (MANGANIELLO). Del resto, a non dissimili conclusioni è pervenuto S. BARTOLE, Interesse nazionale, supremazia dello Stato e dottrina giuridica, in Le Regioni, 2011, 566, 567 il quale, con una proposizione teorica quasi provocatoria, evidenzia come si sia «di fatto affermata l’appartenenza dell’interesse nazionale al novero dei limiti inespressi della revisione costituzionale, per cui esso, sarebbe sfuggito e sfuggirebbe alla competenza della fonte prevista e disciplinata dall’art. 138 Cost. Incarnandosi in esso il principio di unità ed indivisibilità, l’interesse nazionale ne rappresenterebbe una chiara ed irretrattabile conseguenza sul piano operazionale». 20

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Corte cost. n. 33 del 2011, in cui un’interpretazione “sostanzialistica” del parametro della leale collaborazione aveva salvato dalla declaratoria di illegittimità costituzionale la normativa statale in materia di individuazione di siti nucleari. La Corte, dopo aver riconosciuto l’esigenza delle procedure concertative – trattandosi di intervento nella materia concorrente dell’energia (art. 117, comma 3, Cost.) – le aveva ritenute soddisfatte nel caso concreto, sebbene in una forma irrituale, diversa da quanto previsto dalla legge di delega, specificativa dell’onere collaborativo. Pur orientata da comprensibili ragioni di praticità ed opportunità, la pronuncia sembrava aver aperto un ulteriore fronte di incertezza, laddove il soddisfacimento del canone di leale collaborazione era rimasto vincolato a valutazioni fattuali, pratiche, difficilmente registrabili sul piano giuridico 24. 4. La Corte è ope Constitutionis chiamata a preservare il riparto di competenze StatoRegioni e a tutelare la sfera di autonomia degli Enti territoriali che compongono la Repubblica: nello svolgimento di tale ruolo, essa ha ricostruito il canone della leale collaborazione in chiave “procedimentale”, valorizzando il requisito dell’intesa. Per tale motivo, la declaratoria di incostituzionalità si è posta, nel caso di specie come negli altri precedenti ricordati, come conseguenza non evitabile. Su altro versante, lo Stato – e in particolare il Governo, nell’attuazione del suo programma politico – deve rispondere anche a quelle istanze della collettività che sono infrazionabili sul territorio nazionale ed assicurabili solo per il tramite di prestazioni unitarie. Svolgendo tale compito, tende naturalmente a introdurre discipline che gli assicurino flessibilità e capacità di intervenire con speditezza. In questi termini, il requisito dell’intesa con le Regioni, elaborato dalla giurisprudenza della Corte, sembra risultare un impaccio talvolta troppo gravoso nei confronti dell’azione di Governo. Questa “dialettica” Stato-Corte si intensifica, peraltro, nei periodi storici come il presente, in cui le contingenze economiche rendono più pressante l’esigenza di decisioni celeri da parte dell’organo politico 25. Lo scenario descritto sembra offrire il destro ai propugnatori di una revisione costituzionale dei rapporti tra Stato e Autonomie territoriali: è significativo, in tal senso, che la recente azione di Governo abbia posto come punto prioritario dell’agenda una riforma della Costituzione volta a riscrivere – oltre alle norme riguardanti il Senato – l’attuale Titolo V. Non sembra questa la sede per analizzare il disegno di legge costituzionale, approvato in Senato ed ora all’esame della Camera 26. Un dato di partenza nella riflessione può essere Il punto è in parte evidenziato da A. BARAGGIA, Il principio di leale collaborazione tra fatto e diritto, cit., 1251-1252. Tale deficit “positivo-formale” del parametro del giudizio di costituzionalità, almeno in parte ripiegato su pronunce giurisdizionali che si sono imposte come fatti normativi integranti la lettera della Costituzione, è stato oggetto di alcuni rilievi critici in dottrina. Il dato è stato messo in luce, tra gli altri, – con peculiare riguardo alla sentenza n. 303 del 2003 e alla successiva giurisprudenza della Corte in materia di avocazione in sussidiarietà e connesso rispetto del principio di leale collaborazione – da G.U. RESCIGNO, nella recensione a G. SCACCIA, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa, cit., supra nota 21. Lo rileva, anche, A. BARBERA, La polverizzazione delle materie regionali e la (ormai necessaria) clausola di supremazia, in Le Regioni, 2011, 561: «I margini delle competenze statali e regionali sono così affidati alle avvocature regionali e statali e a sentenze che, proprio perché provocate da un caso specifico, non possono avere uno sguardo di insieme. Si può parlare in proposito di “effetto di polverizzazione”, che rende indecifrabile il quadro delle competenze?». 25 In tale ottica si comprendono i ricordati appelli, contenuti nelle difese erariali, alla straordinarietà delle attuali congiunture economiche per giustificare gli interventi normativi in esame. 26 Il disegno di legge costituzionale di iniziativa del Governo, recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituione” , è stato presentato in data 8 aprile 2014 al Senato e approvato in prima lettura l’8 agosto 2014 (S.1429) Il testo è al vaglio della Camera dei Deputati, in data 11 24

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tuttavia rintracciabile: le disfunzioni del riparto di competenze post l. cost. 3/2001 hanno messo in luce come la garanzia costituzionale delle autonomie locali non possa escludere, del tutto, forme di intervento dello Stato estranee a una divisione materiale delle competenze disegnata a priori in Costituzione. Si può discutere sull’opportunità di recuperare l’originaria formula dell’interesse nazionale o ispirarsi, in ottica comparata, a note clausole vigenti in altri Stati 27. Il tema cruciale concerne, in ogni caso, la procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri “extra-riparto”, che dovrebbe avvenire sulla base di una disciplina più solidamente ancorata a disposizioni costituzionali, bisognosa di un minore apporto ricostruttivo da parte della giurisprudenza della Corte.

** Dottorando di ricerca in diritto pubblico – indirizzo costituzionalistico, XXVII Ciclo, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.

settembre 2014 la Commissione Affari costituzionali ne ha avviato l’esame (A.C. 2613). 27 Come la supremacy clause americana o la previsione di cui all’art. 31 del Grundgesetz tedesco. United States Constitution, art. 6, clause 2: «This Constitution, and the Laws of the United States which shall be made in pursuance thereof; and all treaties made, or which shall be made, under the authority of the United States, shall be the supreme law of the land; and the judges in every state shall be bound thereby, anything in the constitution or laws of any state to the contrary notwithstanding». Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland, art. 31: «Bundesrecht bricht Landesrecht».

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Rinvio pregiudiziale e questione di legittimità costituzionale (nota a Corte di giustizia UE, C-112/13)* di Pietro Faraguna ** (18 settembre 2014)

La Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, lo scorso 11 settembre 2014, su una questione pregiudiziale che va al cuore di quel dialogo tra Corti che da ormai diversi decenni è uno dei leitmotiv del percorso costituzionale dell’UE. La pronuncia, che da subito ha attirato su di sé una certa attenzione, è legata al sistema di giustizia costituzionale da cui è originato il rinvio pregiudiziale – quello austriaco – che prevede possa sorgere in capo al giudice un obbligo di sollevare una questione di legittimità costituzionale, qualora ne sussistano i presupposti. Il sistema di giustizia costituzionale austriaco consente altresì di qualificare le fonti europee in materia di diritti fondamentali alla stregua di norme di rango costituzionale. A ciò condurrebbe l’intreccio di alcune specificità dell’ordinamento austriaco: da una parte il rango costituzionale della CEDU in tale ordinamento, e dall’altra un recente indirizzo giurisprudenziale del Tribunale costituzionale austriaco. Quest’ultimo, con un’ambigua decisione (14 marzo 2012, U 466/11), sembrerebbe aver affermato che la tutela dei diritti contenuti nella Carta che abbiano contenuto identico rispetto a quelli della CEDU dovrebbe essere affidata – in virtù del principio di equivalenza – al controllo accentrato di costituzionalità. La sovrapposizione dei due livelli di identica tutela – quello europeo e quello costituzionale interno – era suscettibile di condurre a un cortocircuito ordinamentale, laddove la decisione del tribunale costituzionale austriaco venisse interpretata come una perentoria soluzione del noto problema della doppia pregiudizialità (costituzionale e comunitaria) nel senso di dare priorità alla questione di legittimità costituzionale, congelando nel frattempo la facoltà del giudice del caso di sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La pronuncia della Corte di giustizia va perciò considerata nel contesto di queste peculiarità, alcune delle quali suggeriscono di usare molta cautela nell’eventuale esportazione degli argomenti spesi nel caso di specie ad altri ordinamenti costituzionali. Tuttavia il caso offre un’occasione alla Corte di giustizia di chiarire ancora una volta la sua visione in merito alla sovrapposizione dei livelli di tutela dei diritti fondamentali e agli strumenti di dialogo processuale con i giudici degli Stati membri, motivo per il quale la pronuncia merita una certa attenzione. La controversia da cui originava il rinvio pregiudiziale è presto ricostruita. Nell’ambito di un giudizio per la richiesta di risarcimento dei danni instaurato dagli attori in Austria – Paese nel quale questi sostenevano il convenuto avesse il suo domicilio abituale – non era stato possibile notificare l’atto di citazione. In tal casi la legislazione austriaca *

Scritto sottoposto a referee.


prevede la possibilità di adempiere all’obbligo di notifica con la pubblicazione in un albo pubblico, nonché con la nomina di un curatore in asbentia. Nel caso di specie l’atto veniva notificato con tali formalità. Il curatore nominato dal giudice produceva un controricorso nel quale non eccepiva la competenza internazionale del giudice adito. Soltanto successivamente il convenuto, attraverso un difensore di fiducia, interveniva nel giudizio eccependo il difetto di competenza del giudice austriaco. L’eccezione veniva accolta dal primo giudice della controversia (il giudice di primo grado, nel caso il Landesgericht Wien), contro la decisione del quale gli attori proponevano appello all’Oberlandsgericht Wien (corrispondente alla Corte d’appello italiana). Questi accoglieva le ragioni dell’appello, sostenendo che il difetto di competenza sarebbe stato ravvisabile solo qualora il convenuto non fosse comparso, ma che gli atti processuali del curatore del convenuto in absentia sarebbero stati nel caso produttivi degli stessi effetti giuridici dell’atto di un mandatario convenzionale. E che tra questi effetti vi era l’applicazione dell’art. 24 del regolamento 44/2001 che prevede una “proroga di competenza”, nella misura in cui stabilisce che «il giudice di uno Stato membro davanti al quale il convenuto è comparso è competente. Tale norma non è applicabile se la comparizione avviene per eccepire l’incompetenza [...]» Il convenuto del primo giudizio adiva perciò l’Oberster Gerichtshof (istanza corrispondente alla Corte di Cassazione italiana) con ricorso per Revision, facendo valere la violazione dei propri diritti di difesa, come sanciti dall’art. 6 della CEDU e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale). Gli attori del giudizio da cui originano le ulteriori controversie sostenevano invece che tali stesse disposizioni della CEDU e della Carta garantissero il loro diritto fondamentale a un ricorso effettivo, ravvisando nella nomina del curatore del convenuto in absentia un ragionevole bilanciamento dei diritti in conflitto operato dal diritto processuale austriaco. È a questo punto che la questione assume contorni interessanti nel quadro tracciato da quel dialogo tra Corti di cui si è molto scritto negli ultimi anni. L’Oberster Gerichtshof austriaco infatti rilevava che la consolidata giurisprudenza avrebbe condotto il giudice del caso a decidere autonomamente sull’eventuale incompatibilità tra diritto processuale austriaco e diritto dell’UE, ricorrendo alla disapplicazione della normativa nazionale qualora ne ricorressero i presupposti. Ma ad avviso dello stesso Oberster Gerichtshof una recente pronuncia del Verfassungsgerichsthof (Tribunale costituzionale austriaco) avrebbe cambiato le carte in tavola. Con la sopra menzionata sentenza (U 466/11) il Verfassungsgerichtshof si sarebbe discostato da tale consolidata giurisprudenza, nella misura in cui avrebbe dichiarato che nell’ambito del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali anche i diritti garantiti dalla Carta – in virtù dell’applicazione del principio di equivalenza – potrebbero essere ivi fatti valere. L’Oberster Gerichtshof traeva da questa decisione del Tribunale costituzionale una conseguenza dirompente nell’ambito dei rapporti tra giudici austriaci e Corte europea: i primi non potrebbero più semplicemente disapplicare la normativa in contrasto con la


Carta, ma sarebbero tenuti a sollevare questione di legittimità costituzionale. Ad avviso del giudice del rinvio il Tribunale costituzionale austriaco avrebbe così anche implicitamente escluso in tal casi alcun obbligo di operare il rinvio pregiudiziale, in quanto si tratterebbe di conoscere di un diritto garantito dalla Costituzione e uno fondato sulla Carta, aventi lo stesso ambito di applicazione. A fronte di questa lettura della sentenza del Tribunale costituzionale austriaco, l’Oberster Gerichtshof sospende il procedimento e sottopone alla Corte di giustizia tre domande pregiudiziali, tra le quali la prima è quella di interesse più generale. La domanda che pone il giudice austriaco, la cui formulazione è resa in realtà un po’ più arrovellata dal meccanismo di cui all’art 267 TFUE, è di pronunciarsi sul funzionamento del rinvio pregiudiziale qualora sussistano i seguenti presupposti: a) il giudice del caso operi in un sistema – quale quello austriaco – di controllo di costituzionalità accentrato con accesso incidentale; b) sul giudice del caso penda, in applicazione della legislazione nazionale e sussistendone i presupposti, l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale e c) il giudice si trovi di fronte a una legge nazionale che sia contemporaneamente in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e con la Costituzione nazionale. La Corte di Giustizia affronta la questione pregiudiziale sollevata dal giudice austriaco ripercorrendo suoi ben noti precedenti. Ma in prima battuta riprende la sentenza del Tribunale costituzionale austriaco, dalla cui interpretazione erano sostanzialmente sorti i dubbi del giudice del rinvio. Con un fraseggiare che la complessità del procedimento rende un po’ impacciato – la Corte di Giustizia non “dialoga” infatti mai direttamente con il giudice costituzionale austriaco, ma si riferisce alla sua sentenza che risulta «dal fascicolo di cui dispone la Corte» – la Corte europea mette subito in chiaro un punto che sarà risolutivo. I giudici della Corte di giustizia annotano infatti come la sentenza del Verfassungsgerichtshof austriaco, nella parte in cui si riferisce all’obbligo pendente sul giudice di sollevare la questione di legittimità costituzionale, chiarisce anche che ciò non pregiudica la facoltà dei giudici ordinari di sollevare il rinvio pregiudiziale in qualunque fase del procedimento ritengano opportuno (punto 32). Alla luce di tali circostanze la Corte di Giustizia non fa altro che ribadire dei punti fermi della sua giurisprudenza sul rinvio pregiudiziale. È infatti la «natura stessa del diritto dell’Unione» (punto 37) a impedire che il giudice chiamato ad applicare il diritto dell’Unione sia obbligato a chiedere o attendere la rimozione in via legislativa o attraverso qualunque altro procedimento giurisdizionale di una norma nazionale che contrastando con una norma di diritto dell’Unione ne impedisca la piena efficacia (la Corte rimanda alle sentenze Simmenthal, Filipak, Factortame, Åkeberg Fransson, Melki e Abdeli). La Corte ribadisce poi che anche nel caso in cui il giudice consideri la norma nazionale in contrasto sia con il diritto dell’Unione che con la Costituzione nazionale, e il sistema di giustizia costituzionale imponga su di esso in determinate circostanze l’obbligo di sollevare la questione di legittimità costituzionale, questi non sia né privato


della facoltà, né dispensato dall’obbligo del rinvio pregiudiziale, ove ne sussistano i presupposti. La Corte distingue quindi il caso in cui l’oggetto del contendere sia una norma nazionale che si limita a trasporre le disposizioni imperative di una direttiva dell’Unione, dal caso di una normativa nazionale che attui un atto di diritto dell’Unione, lasciando allo Stato Membro un margine di discrezionalità. Nel primo caso, rileva la Corte, il carattere prioritario di un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale – che è paventato nella ricostruzione del giudice del rinvio – potrebbe privare in sostanza la Corte della sua competenza esclusiva a dichiarare l’invalidità di un atto dell’Unione, garantendo l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione. Il carattere prioritario della questione di legittimità costituzionale potrebbe infatti condurre alla rimozione della norma dall’ordinamento nazionale privando il giudice europeo della possibilità di intervenire. In tal caso, perciò, gli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza «sono tenuti in linea di principio in forza dell’articolo 267 terzo comma, TFUE, a chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità di detta direttiva e, successivamente, a trarre le conseguenze derivanti dalla sentenza pronunciata dalla Corte in via pregiudiziale» (punto 43). In buona sostanza nel caso di una legge nazionale di mera trasposizione di una direttiva «la questione se la direttiva sia valida riveste, alla luce dell’obbligo di trasposizione della medesima, carattere preliminare» (punto 43, riprendendo la decisione Melki e Abdeli). Nel caso in cui la direttiva lasci un margine di discrezionalità nella trasposizione, invece, le autorità giurisdizionali nazionali hanno comunque la facoltà di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale, purché l’applicazione di tali standard non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia, risolvendo il dubbio di interpretazione in merito al funzionamento dell’art. 267 TFUE in rapporto alla pregiudiziale di costituzionalità, pone alcuni paletti del tutto in linea con la giurisprudenza precedente (e in particolare Melki e Abdeli). Il giudice europeo infatti ritiene incompatibile con il diritto dell’Unione una normativa nazionale che – stabilendo la priorità della questione di legittimità costituzionale sul rinvio pregiudiziale – congeli la possibilità per i giudici nazionali di adire la Corte di giustizia con il rinvio pregiudiziale. Non ravvisa alcuna preclusione a una normativa che imponga al giudice nazionale di sollevare la questione di legittimità costituzionale, soltanto se il giudice resta libero di sottoporre alla Corte di giustizia qualsiasi questione pregiudiziale, in qualunque fase del procedimento e anche eventualmente al termine del procedimento incidentale di controllo di costituzionalità. Il giudice nazionale deve peraltro avere a disposizione gli strumenti per adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione e comunque di disapplicare, al termine del procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione, ove la ritenesse in contrasto con il diritto dell’Unione.


Le maglie della decisione della Corte di giustizia sono perciò sufficientemente larghe per adattarsi a quella varietà di sistemi di giustizia costituzionale che presentano gli Stati membri dell’Unione. La scelta pare molto saggia, perché se da un lato è inevitabile che la Corte di giustizia tenga a tutelare l’integrità del circuito di cui all’art. 267 TFUE, che fino ad oggi ha funzionato come l’autostrada sulla quale è corso il flusso del diritto dell’UE verso gli ordinamenti degli Stati membri, dall’altro lato è opportuno che la Corte di giustizia non chiuda la porta a nuove funzioni che l’art. 267 TFUE potrebbe assumere, soprattutto dopo il riconoscimento del valore giuridico della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione. Vanno infatti considerati degli aspetti sostanziali che potrebbero venire toccati dalla sistemazione dell’ordine delle pregiudizialità. Potrebbero darsi casi in cui il contributo delle Corti costituzionali degli Stati membri risulti molto prezioso nel circuito del rinvio pregiudiziale, e non a intralcio di esso. Una novità degli ultimi anni di dialogo tra Corti è l’aver registrato una progressiva perdita di diffidenza delle Corti costituzionali nell’attivare in prima persona il rinvio pregiudiziale, soprattutto quando siano in ballo questioni capaci di incidere sul nucleo fondamentale di un ordinamento costituzionale (vedi le recenti decisioni di accedere al rinvio pregiudiziale del Tribunale costituzionale spagnolo, del Consiglio costituzionale francese, del Tribunale costituzionale tedesco e della stessa Corte costituzionale italiana). Questa nuova forma di dialogo – per lo più valutata positivamente dalla dottrina – deve però fare i conti con i sistemi di accesso alla giustizia costituzionale degli ordinamenti nazionali. Affinché le Corti costituzionali promuovano questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFU, deve potersi presentare l’occasione, posta nelle corrette forme processuali. E non è difficile immaginare l’occasione in quei sistemi di giustizia costituzionale che contemplino un accesso diretto al giudice costituzionale. Questo è stato infatti il caso del giudizio che ha originato il primo rinvio del Tribunale costituzionale tedesco (il noto e potenzialmente dirompente caso OMT), pur dovendo anch’esso forzare i criteri di ammissibilità in sede di Verfassungsbeschwerde al fine di soddisfare l’impellente desiderio di arrivare al faccia a faccia con la Corte di giustizia. Negli ordinamenti che indirizzino l’accesso al giudice costituzionale prevalentemente dalla porta del giudizio incidentale le cose stanno diversamente, soprattutto qualora in caso di doppia pregiudizialità il rinvio pregiudiziale vada sempre posto prima della questione di legittimità costituzionale. Bene ha fatto quindi la Corte di giustizia a non escludere la possibilità per il giudice del caso di sollevare l’incidente di costituzionalità, purché vengano rispettate le condizioni sopra menzionate. Quanto poi alla questione meno generale e più strettamente legata al caso di specie, la Corte di giustizia risolve la vicenda molto più semplicemente. Ritiene infatti che il sistema di comparizione del curatore in asbentia del convenuto non possa ritenersi equivalente alla comparizione del convenuto e che perciò la norma di diritto austriaco sia inidonea a far scattare la competenza internazionale del giudice ai sensi dell’art. 24 del regolamento 44/2001. Il punto, a cui è dedicato uno sforzo argomentativo comparativamente minore rispetto a quello dedicato a sciogliere il nodo della doppia


pregiudizialità, risulta di un certo interesse. La decisione, se riportata al caso della vita da cui origina il rinvio e la decisione della Corte di giustizia, ha infatti un sapore squisitamente costituzionale. Si trattava di bilanciare contrapposti interessi che trovavano argomenti di conforto nella CEDU e nella Carta. Da una parte il convenuto del giudizio originario sosteneva che il sistema predisposto dal diritto austriaco ledeva il suo diritto di difesa. Dall’altra parte gli attori sostenevano che il sistema predisposto dal diritto austriaco attuava il loro diritto a un ricorso effettivo, garantito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non c’è dubbio, peraltro, che in tutti gli Stati membri le opposte pretese trovano argomenti anche nel diritto costituzionale. Nell’ordinamento costituzionale italiano potrebbero essere scomodati persino i controlimiti, posto che le contrapposte pretese dei ricorrenti e del convenuto sarebbero tutte in qualche modo riferibili all’art. 24 Cost. (da una parte l’aver diritto «per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» dall’altra aver diritto a difendersi nel giudizio). Il seguito della vicenda mostrerà se il giudice austriaco sarà soddisfatto della decisione fornita dalla Corte di giustizia, dedicando eventualmente più attenzione a questo secondo aspetto che al primo. ** Emile Noël Fellow, Jean Monnet Center, New York University


U.S.A.: Prosegue lo smantellamento del Voting Rights Act? Il recente caso dell'Ohio* di Alessandro Martinuzzi ** (30 ottobre 2014) Il dibattito costituzionalistico statunitense in materia elettorale è stato recentemente animato da un provvedimento adottato dalla Corte Suprema Federale a fine settembre che ha attratto l'attenzione della gran parte delle testate giornalistiche 1. La questione, riguarda, in particolare, l'accoglimento dell'istanza di sospensiva presentata dal Segretario di Stato dell'Ohio, Jon Husted, nella causa Husted et al. v. NAACP. Tale controversia è stata posta all'attenzione della Corte Suprema con la presentazione del ricorso avverso la decisione della Corte d'Appello Federale per il VI Circuito che ha confermato il giudizio di illegittimità della nuova normativa statale volta a limitare il c.d. Early Voting (o Voto Anticipato). Tale istituto consiste nella possibilità, prevista dalla legge elettorale statale, di esprimere il voto prima dell’election day al fine di favorire una maggiore partecipazione da parte di coloro che sarebbero altrimenti impossibilitati per ragioni di lavoro, di salute o anche religiose. Si tratta di un istituto che non è presente solo negli Stati Uniti ma che, sebbene con caratteristiche differenziate, si può riscontrare anche in numerosi altri ordinamenti 2. All'interno dell'ordinamento statunitense, tuttavia, essendo la materia elettorale di competenza statale3, il c.d. Early Voting non è previsto uniformemente in tutti gli stati federati. Infatti, secondo i dati aggiornati della Conferenza Nazionale dei Parlamenti Statali4, solo 33 stati, oltre il Distretto di Columbia, prevedono la possibilità del Voto Anticipato senza che sia richiesto addurre alcuna motivazione da parte dell'avente diritto al voto. Tuttavia, l'istituto dell'Early Voting si trova spesso collegato, nel contesto delle * Scritto sottoposto a referee. 1 Vedi, per esempio, msnbc (http://www.msnbc.com/msnbc/supreme-court-rules-against-early-voting-ohio), cnn (http://edition.cnn.com/2014/10/01/opinion/brazile-early-voting-rights-ohio/index.html), aljazeera america (http://america.aljazeera.com/blogs/scrutineer/2014/9/30/supreme-court-helpsohiogoplimitearlyvoting.html), huffington post (http://www.huffingtonpost.com/2014/09/29/ohio-early-voting-_n_5902616.html), us today (http://www.usatoday.com/story/news/politics/2014/09/29/supreme-court-ohio-voting-rights/16427069/), washington post (http://www.washingtonpost.com/politics/courts_law/supreme-court-rules-5-4-for-republicanplan-to-limit-early-voting-in-ohio/2014/09/29/9bc0042e-4758-11e4-b72e-d60a9229cc10_story.html), reuters (http://www.reuters.com/article/2014/09/29/us-usa-ohio-election-idUSKCN0HO28020140929), fox news (http://www.foxnews.com/politics/2014/09/29/supreme-court-rules-to-put-off-start-early-voting-in-ohio/), new york times (http://www.nytimes.com/2014/09/30/us/supreme-court-blocks-order-to-restore-7-days-of-voting-inohio.html?_r=0). 2 Per esempio, l'istituto si riscontra sostanzialmente anche in Australia, Canada, Finlandia, Germania, Irlanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia, Svizzera e Thailandia. 3 Vedi, al riguardo, Artt. 1, § 4.1 e 2, § 1.2, della Costituzione degli Stati Uniti d'America, i quali recitano rispettivamente: "Date, luoghi e modalità di elezione dei Senatori e dei Rappresentanti saranno fissati in ciascuno Stato dai relativi organi legislativi; ma il Congresso potrà in qualsiasi momento stabilire o modificare tali norme, tranne che per quanto riguarda i luoghi di elezione dei Senatori " e " Ciascuno Stato nomina, nei modi indicati dal suo organo legislativo, degli Elettori, in numero pari alla somma di Senatori e Rappresentanti ad esso spettanti nel Congresso; tuttavia nessun Senatore o Rappresentante, o persona che ricopre una carica fiduciaria o retribuita alle dipendenze degli Stati Uniti, potrà essere nominata Elettore". 4 Dati disponibili sul sito ufficiale della NCSL all'indirizzo: http://www.ncsl.org/research/elections-andcampaigns/absentee-and-early-voting.aspx .


legislazioni statali, con quello del voto dell'assente (c.d. absentee voting5). Si tratta, in generale, di istituti volti a favorire la maggiore partecipazione possibile degli aventi diritto anche e soprattutto in un'ottica antidiscriminatoria. E', infatti, stato verificato che la variazione del periodo di tempo in cui è possibile esercitare il voto può produrre effetti politici, in taluni casi anche molto significativi, in relazione all'accesso di determinate fasce della popolazione al voto. In particolare, come rilevato sistematicamente dai report annuali della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP)6, la previsione della possibilità del voto anticipato ha inciso significativamente sulla partecipazione della popolazione afro americana, determinando, come nel caso specifico dello Stato dell'Ohio, non soltanto mutamenti di affluenza al voto, ma altresì mutamenti della compagine degli eletti in virtù del sistema c.d. "first-past-the-post". Non va dimenticato che questi effetti interessano sia la formazione delle classi politiche locali sia la composizione del Congresso. La recente questione salita alle cronache di stampa, ha coinvolto il governatore repubblicano dell’Ohio, John Kasich, il quale nel febbraio 2014 ha firmato una riforma della legge elettorale fortemente limitativa del periodo di voto anticipato (Senate Bill N. 238 )7. In particolare, va osservato che, prima della riforma, la legge elettorale statale prevedeva un periodo di Early Voting di 35 giorni8 mentre la Costituzione statale richiede a tutti i cittadini dell'Ohio che intendano votare di provvedere alla registrazione nelle liste elettorali almeno 30 giorni prima dell'election day9. Dunque, dall'inizio del periodo di voto anticipato al termine ultimo per registrarsi prima delle elezioni passavano alcuni giorni durante i quali era consentito compiere entrambe le operazioni in una unica occasione. In altre parole la combinazione delle due previsioni consentiva per un periodo di poco meno di una settimana di provvedere alla registrazione e di votare lo stesso giorno (c.d. "Golden Week"). Come sostenuto fortemente dalla NAACP e da altre associazioni per i diritti civili 10, l'espediente della Golden Week ha, nel corso degli anni, incentivato notevolmente i lavoratori afro americani a partecipare al voto, favorendo tendenzialmente il Partito Democratico. La riforma dei Repubblicani dell'Ohio cancella definitivamente la Golden Week limitando i giorni di Early Voting a 28. Risulta, quindi, chiusa quella finestra durante la quale era possibile provvedere alla registrazione e al voto lo stesso giorno. Inoltre, il Segretario di Stato Husted nel febbraio 2014 emette la Direttiva 2014-06 con il dichiarato fine di uniformare gli orari di apertura dei seggi elettorali (compresi quelli nel periodo di voto anticipato) in tutto lo Stato. In realtà, la Direttiva elimina gli orari di voto serali e quelli 5 Il c.d. absentee voting consiste nel voto espresso dall'elettore che è impossibilitato o semplicemente non disponibile a recarsi presso i seggi elettorali né in occasione dell' election day, nè durante il periodo di Early Voting. Per far fronte a questa situazione le legislazioni statali possono prevedere una varietà di sistemi che vanno dal voto per corrispondenza, al voto per delega, al voto tramite internet, fino alla possibilità di recarsi presso altro seggio scelto dall'elettore stesso. La gran parte delle legislazioni statali in materia elettorale non prevede la necessità di motivare la richiesta se non con riferimento all'election day. (Fonte: www.fvap.gov). 6 I report sono disponibili all'indirizzo: http://www.naacp.org/pages/annual-reports 7 Il Senate Bill n. 238/2013 è stato approvato dal Senato statale il 13 novembre 2013 e dalla Camera dei Rappresentanti statale il 19 febbraio 2014, per essere poi promulgata dal Governatore il 21 febbraio. Il Senate Bill n. 238 ha modificato la subsection 3509.01 (B) dell'OHIO REVISED CODE. 8 OHIO REVISED CODE § 3509.01 (B) nella versione precedente la riforma. 9 OHIO CONSTITUTION § 5.01. 10 Quali, per esempio, la Lega delle Donne Elettrici dell'Ohio e la American Civil Liberties Union,


domenicali al fine di ridurre gli effetti politici del sistema di voto personale anticipato (c.d. Early- In Person Scheme)11. Nel corso degli anni è, infatti, emerso che la normativa sul voto anticipato introdotta in applicazione del XIV 12 e del XV13 Emendamento, oltreché del Voting Rights Act del 196514, aveva favorito il fenomeno c.d. dei "Souls to the polls" ovverosia omelie e gospel a sfondo politico tenute nelle chiese delle comunità afroamericane. In altri termini, cinque settimane di voto anticipato significavano cinque domeniche di prediche volte a indurre i lavoratori afro americani ad andare a votare nell'unico giorno libero della settimana 15. In questo senso si spiega con maggiore chiarezza l'effetto politico della riduzione degli orari e dei giorni di voto. Dato il notevole impatto della riforma elettorale repubblicana soprattutto in relazione all'approssimarsi dell'importante appuntamento elettorale di novembre 16, alcune associazioni per i diritti civili hanno fatto ricorso ad un tribunale distrettuale federale 17 per vedere dichiarati la subsection 3509.01 (B) dell'OHIO REVISED CODE, così come riformata dal Senate Bill n. 238, e la Direttiva 2014-06 incostituzionali e in violazione della Sezione 218 del Voting Rights Act. Il Giudice Economus, dopo avere valutato attentamente i delicati equilibri coinvolti in un giudizio in materia di legge elettorale, ha accolto le istanze dei ricorrenti ritenendo dimostrato il rapporto eziologico tra la limitazione dell'Early- In Person Voting e la riduzione della partecipazione della popolazione afro americana dell'Ohio. In altre parole viene valutato l'effetto discriminatorio della norma, piuttosto che lo 11 Va precisato che il c.d. Early- In Person Scheme è un particolare tipo di voto anticipato dal momento che anche le procedure necessarie per esercitare il voto per corrispondenza rientrano generalmente nella disciplina di Early Voting. Quando il voto viene esercitato personalmente recandosi in anticipo rispetto all' election day presso i seggi elettorali si configura l'EIP (i.e. Early In Person voting). 12 XIV Emendamento alla Costituzione Federale: Sezione 1- Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla loro giurisdizione, sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato potrà porre in essere e dare attuazione a leggi che disconoscano i privilegi e le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti; e nessuno potrà privare alcuna persona della vita, della libertà e della proprietà senza un giusto processo, né negare ad alcuna persona all’interno della propria giurisdizione un’eguale protezione da parte della legge. [...] Sezione 5 - Il Congresso avrà il potere di dare attuazione, per mezzo di apposita legislazione, alle previsioni di questo articolo.

13 XV Emendamento alla Costituzione Federale: Sezione 1 - Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da un singolo Stato in base alla razza, al colore, o alla previa condizione di schiavitù. Sezione 2 - Il Congresso avrà il potere di dare attuazione, per mezzo di apposita legislazione, alle previsioni di questo articolo. 14 42 U.S.C. §§ 1973–1973bb-1 15 Il tasso di registrazione degli aventi diritto al voto di colore resta, comunque, al di sotto di quello degli aventi diritto bianchi. Vedi, al riguardo, Paul F. Hancock e Lora L. Tredway, The Bailout Standard of the Voting Rights Act: An Incentive to End Discrimination, 17 URB. LAW. 379, 393–94 (1985). 16 Il 4 Novembre 2014 si terranno le general elections con le quali si rinnoveranno un terzo dei senatori e i 435 membri della Camera dei Rappresentanti.

17 UNITED STATES DISTRICT COURT FOR THE SOUTHERN DISTRICT OF OHIO, EASTERN DIVISION, Case No. 2:14-cv-404, Ohio State Conference of the National Association for the Advancement of Colored People, et al. v. Jon Husted, et al. (Designated Judge: P.C. Economus) 18 Public Law 89- 110, Voting Rights Act (1965), Sezione 2: Nessuna qualificazione o prerequisito per votare, o standard, prassi, o procedura può essere imposta o applicata da alcuno Stato o altro ente politico al fine di denegare o limitare il diritto di tutti i cittadini degli Stati Uniti di votare per ragioni di razza o colore.


scopo. Questa controversa valutazione si inserisce nel più ampio contesto del dibattito costituzionale sulla tutela dei diritti di voto. Infatti, come risulta dalla relazione annessa al disegno di legge del 1965 19, il Voting Rights Act è stato introdotto come legge federale di attuazione degli Emendamenti XIV (Sezione 5) e XV (Sezione 2) alla Costituzione Federale. Tuttavia, come sottolineato dalla Corte Suprema già nel 1980 con il caso Mobile v. Bolden, gli emendamenti citati sono volti a colpire lo scopo discriminatorio degli atti di legge e non gli eventuali effetti 20 mentre il Voting Rights Act si propone esplicitamente di colpire gli effetti discriminatori, a prescindere dallo scopo perseguito (c.d. "results test") 21. Non è un caso che, nel corso degli anni, l'avvicendarsi delle sentenze della Corte Suprema che hanno tentato di chiarire questa incongruenza sia stato accompagnato da una serie di emendamenti alla legge federale approvati dal Congresso e specificamente volti ad annullare i precedenti della Corte. Va, infatti, rilevato che l'emendamento approvato nel 1982 ha ribaltato il caso Mobile (1980); gli emendamenti approvati nel 2006 hanno annullato i precedenti Reno v. Bossier Parish School Board (2000) e Georgia v. Ashcroft (2003) e il recente Voting Rights Amendment Act approvato quest'anno è inteso a dare una risposta alla decisione Shelby v. Holder (2013) con la quale la Corte Suprema ha demolito la Sezione 4(B) e, in conseguenza, la Sezione 5 della legge. Quest’ultima sezione prevedeva una forma di protezione delle minoranze etniche in distretti caratterizzati da una storia di discriminazione, attraverso la previsione di un parere preliminare obbligatorio del Dipartimento di Giustizia sui disegni di legge statali di modifica dei sistemi elettorali. Al fine di determinare in modo oggettivo se nello stato o nel distretto elettorale vi fosse stata una storia di discriminazione, la Sezione 4 del Voting Rights Act prevedeva una formula, o meglio un test, di questo tenore: 1) Il distretto adotta una normativa, come il test di alfabetizzazione, per disincentivare le persone dall’inserimento nei registri elettorali? 2) Nel 1964 meno del 50% dei potenziali aventi diritto risultarono iscritti nei registri elettorali o meno del 50% di questi soggetti votò in una elezione presidenziale? Se la risposta a queste domande era sì, allora lo stato o il distretto elettorale diveniva soggetto al parere obbligatorio del Dipartimento di Giustizia (c.d. Coverage formula). Tale meccanismo risultava, evidentemente, volto a limitare riforme dei sistemi elettorali potenzialmente discriminatorie attraverso l'autorità del governo federale, benché, come già sottolineato, la Costituzione riservi agli Stati la competenza legislativa in materia elettorale. In altre parole si tratta di un artificio fondato sulla competenza federale a tutelare il diritto di voto in forza degli emendamenti XIV e XV e che finisce per limitare, in certi casi anche molto invasivamente, la discrezionalità degli stati nell'esercitare le competenze legislative riservate. Tuttavia, se la chiave di questo artificio è basata sugli emendamenti XIV e XV, non deve sorprendere se la Corte Suprema è intervenuta in più occasioni per tentare di coordinare la tradizionale lettura di queste disposizioni con la legislazione federale. Si delinea, quindi, una sorta di conflitto tra Congresso e Corte Suprema che resta tutt'oggi irrisolto e che si sta riproponendo con rinnovato vigore con il caso dell'Ohio. La decisione del Giudice Distrettuale di prima istanza è stata poi confermata dalla Corte d'Appello Federale di Cincinnati il 24 settembre 2014 22. Le argomentazioni del Segretario 19 Federal Senate Bill N. 1564 presented to the Congress on March 17, 1965. 20 Issacharoff, S. Karlan, P. S. Pildes, R. H. (2012), The Law of Democracy: Legal Structure of the Political Process (4th ed.). New York, NY: Foundation Press. 21 Vedi a questo riguardo le presunzioni specifiche che sono oggetto della Sezione 4 del Voting Rights Act, laddove si proibiscono tout court tutti quegli espedienti che apparentemente non hanno uno scopo discriminatorio verso gli Afro americani, ma che, in sostanza, determinano effetti discriminatori (e.g. i test di alfabetismo o di cultura generale americana).

22 UNITED STATES COURT OF APPEALS FOR THE SIXTH CIRCUIT, Case No. 14-3877, Ohio State Conference


di Stato Husted si erano, d'altra parte, limitate a sottolineare, da un lato, gli alti costi che l'Early In Person Scheme dell'Ohio comportava e, dall'altro, il fatto che il sistema di voto anticipato così come riformato restava uno dei più garantisti di tutto il paese; tutte argomentazioni che non sono state ritenute sufficienti a giustificare una compressione di un prioritario interesse pubblico alla prevenzione di effetti discriminatori nell'esercizio del diritto di voto. Il Segretario di Stato dell’Ohio, insieme al Procuratore Generale DeWine, ha fatto, quindi, ricorso alla Corte Suprema federale chiedendo la sospensione cautelare dell'ingiunzione ottenuta dal tribunale di prima istanza, in attesa del giudizio sulla concessione del writ of certiorari che consenta eventualmente di accedere alla fase del merito. La Corte Suprema, con una risicata maggioranza di Giudici di nomina Repubblicana (5-4), ha accolto la richiesta del Segretario Husted e ha concesso la sospensiva del provvedimento in data 29 settembre 2014. Data la delicatezza della questione non è dato fare previsioni sulle valutazioni della Corte se si tiene conto che, da un lato, le elezioni generali di novembre si avvicinano e che, dall'altro, la Corte ha inferto un duro colpo al Voting Rights Act in tempi recentissimi (vedi Shelby County v. Holder). Sotto un profilo costituzionalistico è questo secondo aspetto quello che preme maggiormente sottolineare in questa sede. Infatti, al di là delle contingenze elettorali, il caso dell'Ohio pone la Corte Suprema nella condizione di giudicare in via definitiva la costituzionalità della Sezione 2 del Voting Rights Act. In questi termini il caso in questione potrebbe assumere un'importanza decisamente superiore rispetto a Shelby County v. Holder dal momento che la Sezione 2 costituisce la previsione portante dell'intera legge. In altre parole, la Corte si troverebbe nella difficile posizione di giudicare della costituzionalità complessiva di una delle leggi più popolari d'America nonché simbolo delle battaglie di Martin Luther King. Ad ogni buon conto, quel che pare sicuro è che questa sospensiva consentirà alla normativa di riforma introdotta dal governo dell'Ohio di produrre effetti in occasione della prossima tornata elettorale, tendendo così a favorire i Repubblicani in alcuni distretti in bilico. In estrema sintesi, con il provvedimento cautelare concesso nel caso Husted et al. v. NAACP, et al., la Corte Suprema ha fatto quello che aveva promesso di non fare nel caso Bush v. Gore, ovvero, da un lato, intervenire su questioni elettorali a ridosso delle elezioni e, dall'altro, creare incertezza nelle regole del sistema elettorale. Tuttavia, i nove giudici della Corte potrebbero riservare delle sorprese nel caso in cui decidessero di negare il writ of certiorari prima delle elezioni di novembre. In tal caso il dibattito resterebbe aperto, ma non si rischierebbe di alterare l'esito politico delle elezioni. ** Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna

of the National Association for the Advancement of Colored People, et al. v. Jon Husted, et al.


U.S.A.: Default, speculazione finanziaria e sovranità. L’Argentina davanti alle Corti federali* di Donato Messineo** (26 Settembre 2014) Recentemente, la Corte Suprema USA è stata chiamata ad occuparsi di vicende legate alla ristrutturazione del debito argentino. Due sue decisioni hanno tenuto indenni pronunce della Court of Appeals for the Second Circuit, le quali a loro volta avevano confermato precedenti arresti della Southern District Court of NY. Nel febbraio 2012, il giudice Griesa della District Court of NY aveva ordinato allla Repubblica Argentina di pagare – ai fondi speculativi detentori – l’intero valore facciale, accresciuto degli interessi, di titoli del debito pubblico emessi nel 1994. I titoli in questione erano stati acquistati a poco prezzo sul mercato secondario, dopo il default sovrano del 2001, da hedge funds specializzati nell’acquisto di strumenti emessi da debitori decotti, in quanti tali di scarso valore. La strategia di tali fondi prevede in generale che, dopo acquisti siffatti, essi non aderiscano alle ristrutturazioni del debito ed agiscano invece per ottenere il pagamento alle condizioni originarie. Ciò, una volta che l’emittente sia tornato in bonis, anche grazie alla falcidia accettata dagli obbligazionisti per converso aderenti alla ristrutturazione. Nel caso di specie, a seguito del default l’Argentina ha offerto, nel 2005 e nel 2010, in sostituzione dei bond originari, nuovi titoli di importo minore, con scadenze più lontane e rendimenti inferiori. L’offerta è stata accettata da più del 90% degli obbligazionisti. Per contro, i citati fondi speculativi non hanno aderito alla ristrutturazione e hanno agito in giudizio per ottenere il pagamento alle condizioni originarie, ottenendo dalla District Court gli ordini surriferiti. Gli ordini emessi in prime cure sono stati impugnati dall’Argentina, ma nell’ottobre 2012 la Court of Appeals for the Second Circuit li ha confermati. Da ultimo, il 16 giugno 2014 la Corte Suprema U.S.A. ha deliberato di non esaminare il ricorso proposto dall’Argentina per ottenere un writ of certiorari nei confronti della Court of Appeals. La condanna sopravvissuta ai gravami riguarda $ 1,33 mld dovuti a una parte dei creditori non aderenti al concambio (“holdouts”), ma il totale degli holdouts (che potrebbero ottenere pronunce analoghe) ammonta a $ 15 mld. Va aggiunto che il 16 giugno 2014 la Corte Suprema ha altresì respinto – nel merito – un’ulteriore istanza rivolta dall’Argentina contro una decisione della medesima Court of Appeals. Quest’ultima aveva confermato l’ordine emesso, sempre su iniziativa dei fondi creditori, nei confronti di intermediari localizzati negli USA affinché questi esibissero informazioni relative ai conti presso di essi intrattenuti dall’Argentina, nonché alle operazioni effettuate su tali conti, per agevolare l’esecuzione coattiva sul debitore sovrano (Republic of Argentina v. NML Capital, LTD). Le due decisioni della Corte Suprema hanno reso inoppugnabili le pronunce gravate. La prima, in particolare, comporta che l’Argentina non potrà effettuare in favore dei creditori aderenti alla ristrutturazione alcun pagamento di quanto dovuto, tempo per tempo, in forza dei bond da costoro accettati in cambio di quelli originari se contestualmente non soddisfa, per una percentuale equivalente, i fondi speculativi non aderenti al concambio. Questo risultato è il frutto dell’interpretazione data dai giudici newyorkesi a una clausola contenuta nel regolamento di emissione del prestito del 1994 (molto comune negli strumenti della specie) secondo cui le relative obbligazioni “shall at all times rank pari passu and without any preference among themselves”; e “the payment * Scritto sottoposto a referee


obligations of the Republic under the Securities shall at all times rank at least equally with all its other present and future unsecured and unsubordinated External Indebtness”. Secondo la lettura più diffusa, clausole siffatte vietano al debitore sovrano di discriminare dal punto di vista giuridico lo status dei bond-holders, attraverso provvedimenti formali; ma non anche di pagare, nei fatti, taluni creditori a preferenza di altri [cfr. L.C. BUCHHEIT, The pari passu clause sub specie aeternitatis, 10 Int’l Fin. L. Rev. 12 (1991)]. I giudici hanno accolto, invece, la tesi – minoritaria, ma già seguita dalla Corte di Appello di Bruxelles nella sentenza del 26.9.2000 relativa al caso Elliott vs Peru – secondo cui, in forza della clausola “pari passu”, ogni qual volta il debitore non abbia risorse sufficienti per soddisfare tutti i creditori, costui sarebbe tenuto a pagare ciascuno di essi pro rata [cfr. R. OLIVARES CAMINAL, The pari passu clause in sovereign debt instruments: development in recent litigation, in http://www.bis.org/publ/bppdf/bispap72.htm (2013)]. Peraltro, poiché l’emissione del 1994 è assistita da una clausola di accelerazione – che dà diritto al creditore di esigere immediatamente l’intera prestazione se il debitore è divenuto insolvente – a seguito del default del 2001 l’Argentina è “decaduta del termine” (per usare il lessico dell’art. 1186 cod. civ. it.), e l’importo dovuto agli holdouts comprende da allora l’intero capitale più gli interessi. Su tali basi, la District Court aveva ordinato che l’Argentina non pagasse le cedole del debito ristrutturato che vengono a scadenza senza prima aver soddisfatto per intero i fondi: ciò, appunto, in quanto il pagamento del 100% di quelle cedole esigerebbe il contestuale pagamento del 100% di quanto dovuto ai detti fondi, che hanno ormai titolo a pretendere l’intera prestazione. Inoltre, la District Court aveva evidenziato che secondo la legge statunitense gli effetti dell’ordine investono anche la banca depositaria e gli esercenti i servizi di compensazione. Per comprendere appieno l’effetto della condanna descritta va tenuto presente che la legge argentina e le clausole che regolano il debito ristrutturato, adottate al fine di incentivare l’adesione dei bond-holders alla ristrutturazione, impediscono che i creditori aderenti al concambio possano subire un trattamento deteriore rispetto agli holdouts: di conseguenza, l’eventuale pagamento che l’Argentina effettuasse ai fondi in esecuzione della condanna potrebbe porre sostanzialmente nel nulla la ristrutturazione stessa. Da più parti (governi, istituzioni finanziarie internazionali, esperti) è stata manifestata preoccupazione per l’esito del contenzioso in esame, sia in relazione all’affermata lesione di prerogative sovrane, sia per le possibili conseguenze dell’estensione dei principi di diritto patrocinati dai giudici americani. In particolare il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha posto l’accento sulle possibili conseguenze “di sistema” della vicenda, evidenziando che la sospensione dei pagamenti agli aderenti alla ristrutturazione potrebbe in futuro ostacolare soluzioni concordate alle crisi dei debitori sovrani, incentivando, tra l’altro, iniziative individuali da parte dei singoli creditori [v. FMI, The Fund’s lending framework and sovereign debt – preliminary considerations, in http://www.imf.org/, 31(2013)]. Al riguardo, va rilevato che nel 1994 l’Argentina – al fine di rendere i titoli più appetibili per gli investitori – aveva espressamente stabilito non soltanto il loro assoggettamento alla legge di New York, ma anche la devoluzione di eventuali controversie alla giurisdizione di quello Stato. Correlativamente, sin dalla sua opinion del 26.10.2012, la Court of Appeal ha rilevato che “Argentina voluntarily waived its immunity from the jurisdiction of the district court”. Nel caso di specie, dunque, la giurisdizione delle Corti statunitensi può essere riconosciuta senza bisogno di interrogarsi sull’estensione del principio consuetudinario “par in parem non habet jurisdictionem”. Segnatamente, non assume rilievo la dubbia riconducibilità delle decisioni di uno Stato concernenti l’adempimento del proprio debito pubblico al novero degli atti di natura privatistica (esclusa, ad esempio, da Cass., SS.UU., ord. n. 6532/2005) piuttosto che a quelli iure


imperii, che in quanto tali sarebbero oggetto di immunità. Neppure il menzionato ordine di esibire le informazioni relative ai conti argentini e alle rispettive movimentazioni appare problematico. Esso infatti non pregiudica il regime di immunità “funzionale” dall’espropriazione forzata di cui godono, in forza di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta, i beni in concreto destinati da ciascuno Stato all’adempimento delle proprie funzioni pubbliche (al riguardo, cfr. la sent. della Corte cost. n. 329/1992). La ricordata interpretazione della clausola pari passu accolta dalla Court of Appeal potrebbe comunque apparire incompatibile con le prerogative statali sotto un diverso profilo. Certo, è difficile negare che l’Argentina abbia alterato la par condicio creditorum attraverso provvedimenti formali (basti notare che la sospensione dei pagamenti dovuti agli holdouts è stata disposta e rinnovata sulla base di una legge, c.d. “Lock Law”). Nondimeno, la pretesa di determinare giudizialmente l’ordine dei pagamenti da parte dello Stato debitore appare sovradimensionata, giacché il provvedimento finisce per replicare taluni effetti tipici delle misure adottabili nell’ambito delle procedure concorsuali ai danni di soggetti privati sulla base delle legislazioni nazionali: tali procedure presuppongono, però, la possibilità di spossessare il debitore del proprio patrimonio, liquidarlo e distribuirne il ricavato, cosa per definizione impensabile nei confronti di uno Stato. In generale, in assenza di procedure sovranazionali per la risoluzione delle crisi dei debitori sovrani, l’eguale trattamento dei rispettivi creditori è garantito attraverso ristrutturazioni volontarie del debito. Tuttavia, il consenso unanime di costoro è difficile da raggiungere, tra l’altro, per l’esistenza di un conflitto immanente tra l’interesse collettivo del ceto creditorio – da una parte – e l’interesse del singolo creditore – dall’altra: difatti, mentre i creditori come gruppo hanno interesse al più celere risanamento dell’emittente sovrano, anche a costo di rinunciare a una parte delle proprie pretese, il singolo obbligazionista (che si tratti di un originario sottoscrittore o di un acquirente successivo) può trarre vantaggio attendendo che, grazie alla ristrutturazione accettata dagli altri obbligazionisti, il debitore ritorni solvibile, per poi pretendere l’adempimento dell’intero credito originario (cfr. F. ELDERSON – M. PERASSI, Collective Action Clauses in sovereign foreign bonds; towards a more harmonized approach, in Euredia 2003, 250). Per superare l’inconveniente, a livello internazionale, fin dal “Rapporto Rey” del G-10 del 1996, sono stati compiuti sforzi per diffondere l’introduzione nell’ambito delle emissioni sovrane delle cc.dd. “Collective Action Clauses” (CACs). Tali clausole attribuiscono a una maggioranza qualificata di titolari dei bond il potere di approvare modificazioni dei termini del prestito con effetti vincolanti anche nei confronti dei creditori assenti o dissenzienti. Esse hanno dunque l’effetto di incentivare comportamenti collaborativi, e comunque di impedire l’esercizio da parte degli holdouts di azioni giurisdizionali pregiudizievoli del buon esito della ristrutturazione. Da ultimo, ai sensi dell’art. 12, para. 3 del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità, è stato stabilito che clausole siffatte, redatte secondo un modello uniforme, siano incluse “a partire dal 1° gennaio 2013… in tutti i titoli di Stato della zona euro di nuova emissione e con scadenza superiore ad un anno”. Naturalmente, però, l’introduzione delle CACs nelle nuove emissioni sovrane non altera le problematiche concernenti eventuali ristrutturazioni del debito in passato già emesso senza clausole siffatte da Stati che in futuro dovessero fronteggiare difficoltà, e pertanto non consente di fugare le surriferite perplessità destate dall’interpretazione della clausola “pari passu” offerta dalle richiamate pronunce delle Corti statunitensi. ** Dottore di ricerca in diritto costituzionale, Università di Ferrara


Bruno Di Giacomo Russo, “La coAmministrazione della cultura. Un modello di sussidiarietà”, Aracne Editrice, Roma, 2014, pp. 264. La tutela e la valorizzazione concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e a promuovere lo sviluppo della cultura. In tal senso, l’art. 9 Cost. traduce un significato di rinnovata modernità, assegnando alla Repubblica compiti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, obbligandola a non disinteressarsi della sua identità culturale, e lasciando intendere che è nell’effettiva funzionalità, anche privata, della cultura l’interesse generale. All’interno della Repubblica, lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province (fino alla loro eliminazione), i Comuni hanno il dovere non solo di conservare il patrimonio culturale, ma anche di assicurarne la pubblica fruizione e, perciò, di consentire a chiunque di godere di tali memorie, valorizzando così la civiltà del nostro Paese. La forma più diffusa di promozione culturale si è storicamente realizzata mediante il sostegno di finanziamenti pubblici, soprattutto, con il C.N.R. e il Ministero dei beni e le attività culturali. Anche se, da diversi anni, molti Ministeri e le Regioni hanno qualche istituto, pubblico o privato, con il compito di contribuire alla promozione della cultura. I beni culturali possono essere privati e pubblici. Quando i beni sono pubblici, la fruizione collettiva è in re ipsa, in quanto un bene pubblico è di per sé destinato a un pubblico interesse. Invece, nel moneto in cui il bene è di proprietà privata lo Stato e gli altri Enti pubblici devono, comunque, adottare tutti i provvedimenti per favorire la conservazione, il radicamento nel territorio e la destinazione pubblica del bene, compatibilmente con l’interesse privato ad una fruizione e disposizione esclusiva. Alla distinzione nella tutela dei beni culturali pubblici e privati, si affianca un processo di integrazione dell’azione dei pubblici poteri rispetto ai privati nell’ambito dell’Amministrazione della cultura, oltre al fenomeno della dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, che interessa anche la proprietà pubblica del patrimonio storicoartistico, per motivi di risanamento della finanza. In questo senso la tendenza, ormai conclamata, è quella per cui il prodotto culturale è fonte di un numero altissimo di attività imprenditoriali. Nel senso che sorge una vera e propria industria culturale, che dalle riproduzioni di opere d’arte e dalla musica si è estesa ai films, all’editoria, alla stampa, alla televisione, condizionando l’attività legislativa e fruendo spesso anch’essa di sovvenzioni pubbliche. Nel quadro di questo fenomeno, sempre più in espansione, si intende illustrare, ponendo all’attenzione del lettore, le fondamenta costituzionali e amministrative delle principali caratteristiche di un modello di interazione tra il privato e il pubblico, in base al principio di sussidiarietà. L’ambito culturale è il grande campo di prova, per comprendere l’evoluzione, in parte intrapresa, e in parte ancora da esplorare, della nostra forma di Stato, nel senso del

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cambiamento in atto del rapporto tra il privato e il pubblico nel perseguimento dell’interesse generale, e perciò, del rapporto tra la cittadinanza e lo Stato. La ricerca parte dell’approfondimento della cultura, in generale, come aspetto essenziale dell’ordinamento giuridico, quale esso stesso prodotto della cultura, per approfondire alcuni specifici ambiti della cultura, beni o attività culturali in particolare, e ambiti del sistema amministrativo, in funzione del tentativo di descrivere l’applicazione della sussidiarietà, come modello di coAmministrazione della cultura. Lo studio dell’evoluzione storica dell’Amministrazione della cultura nel Paese risulta importante per capire il percorso della stessa lungo i cambiamenti della forma di Stato italiana. La storia serve a capire e – poi – ad approfondire i particolari essenziali dello Stato di cultura, dai principi, che caratterizzano la promozione della cultura alle regole, che definiscono le competenze legislative e le funzioni amministrative delle diverse articolazioni della Repubblica. Al sistema delle funzioni culturali si applica il principio costituzionale della sussidiarietà verticale per delineare i ruoli delle diverse Amministrazioni pubbliche coinvolte. Per il suo funzionamento amministrativo, il sistema pubblico della cultura, deve, necessariamente, rapportarsi ai principi costituzionali del federalismo fiscale, introdotto con la riforma del Titolo V Cost. e con l’adozione della principale legge di attuazione, la legge n. 42/2009. Il sistema delle pubbliche responsabilità nell’ambito della cultura deve – inevitabilmente – confrontarsi anche con l’altra faccia della sussidiarietà: la dimensione orizzontale, quella del favor del soggetto privato in termini di coprotagonismo con le Pubbliche Amministrazioni. Oltre al quadro costituzionale e a quello ordinario consolidato, la ricerca si sofferma sul decreto Valore Cultura del 2013 e anche si sofferma, a titolo di commento a prima lettura, vista la recente adozione, sul decreto ArtBonus, il decreto Valore Cultura 2014, e sul recentissimo decreto ministeriale 19 giugno 2014, che entra in vigore il 1 luglio, atti normativi che si orientano verso un innovativo prototipo di Amministrazione della cultura. Nel tentativo di una visione globale del mondo del fare cultura, lo studio si focalizza sugli aspetti oggettivo e soggettivo della coAmministrazione, quale modello prospettico della cogestione tra pubblico e privato delle attività e dei servizi culturali. In questo senso, dal punto di vista del soggetto del modello di sussidiarietà, la ricerca si concentra su due tipologie diverse di coattori, di natura privata che interagiscono con il pubblico, tra cui un tipo particolare di fondazione e di associazione, analizzando nel concreto l’Associazione per lo Spettacolo dal Vivo “Alpi in scena” della Provincia di Sondrio. Inoltre, dal punto di vista del profilo oggettivo, estremamente fondamentale per un modello di sussidiarietà, lo studio si concentra sull’interssante Regolamento sulla

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collaborazione tra cittadini e Amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani del Comune di Bologna, quale complesso di norma volto a stimolare la tutela dei beni comuni, quali anche i beni culturali. Questi due specifici campi di ricerca, quello soggettivo e quello oggettivo, sono in linea con l’intento del presente studio, di elevare il modello di sussidiarietà, oltre l’ambito circoscritto del fare cultura in termini di coAmministrazione. Perché il modello della sussidiarietà culturale è in grado, direttamente e/o indirettamente, di condizionare in termini di sviluppo, oltre che culturalmente, in senso sociale, economico e civico, altri ambiti di interazione tra pubblico e privato, tra cui il sociale e il turismo, separatamente ma anche congiuntamente. Il sistema di coAmministrazione si caratterizza per un profondo cambiamento nei rapporti tra i soggetti privati e i poteri pubblici verso l’orizzontalizzazione dei loro rapporti.

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