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Novità dal Forum – Rassegna 2/2015 (04.03.2015) SOMMARIO TEMI D’ATTUALITA’ – PARLAMENTO Cronaca dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale: il “secondo presidente” della XXVII Legislatura – E. Lattuca I PAPER DEL FORUM L’art. 54 secondo comma Cost. e la voce «onore specifico» nel risarcimento del danno non patrimoniale per diffamazione di una carica pubblica – F. Ferrari E’ giunta l’ora di una legge sulle lobbies – T. E. Frosini La lunga notte della riforma costituzionale. Riflessioni a margine della “seduta-fiume” dell’11 febbraio 2015 – S. Polimeni Al crocevia del “caso Stamina” e dei suoi “problemi costituzionali” – P. Veronesi GIURISPRUDENZA – MONITORE DELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALI Decisioni C. cost. 235/2014-286/2014 GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014 Il controllo successivo delle leggi regionali si estende anche alla Regione siciliana: un overruling forzato, ma felice (sent. 255/2014) – G. Chiara EUROSCOPIO – NOTE DALL’EUROPA Il mostro del nazionalismo dalla Russia al Veneto – P. Ciarlo TELESCOPIO Verso un parlamento scozzese permanente? Dalla Commissione Smith allo Scotland Bill – M. Goldoni Diffamazione e libertà di espressione: la recente sentenza Lohé Issa Konaté v. Burkina Faso della Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli – T. Abbiate AUTORECENSIONI Marta Cerioni, Diritti dei consumatori e degli utenti, (2014) Daniele Chinni, Decretazione d’urgenza e poteri del Presidente della Repubblica (2014) Flavio Guella, Sovranità e autonomia finanziaria negli ordinamenti composti. La norma costituzionale come limite e garanzia per le dimensioni della spesa pubblica territoriale (2014) Filippo Pizzolato – Paolo Costa (a cura di), Sicurezza, Stato e mercato (2015) Francesca Sgrò, Legge elettorale, partiti politici, forma di governo: variabili e costanti del sistema costituzionale italiano (2014) Benedetta Vimercati, Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica (2014) INSERZIONI Laboratorio Vezio Crisafulli – Seminari primavera 2015 V° premio nazionale “Vittorio Frosini” in informatica giuridica e diritto dell’informatica


Cronaca dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale: il “secondo presidente” della XXVII Legislatura di Enzo Lattuca* (10 febbraio 2015) Sin dal messaggio del secondo giuramento di Napolitano il 22 aprile 2013, si era capito che lo strano incrocio tra la XVII Legislatura e l’elezione del Presidente della Repubblica avrebbe prodotto due prime volte. La prima si stava compiendo allora: la rielezione del Presidente uscente, mai verificatasi nella storia della Repubblica. La seconda si sarebbe consumata due anni dopo: una seconda elezione presidenziale da parte dello stesso Parlamento. Il Presidente Napolitano non era infatti intenzionato ad esercitare il potere di scioglimento anticipato delle Camere, (cosa avvenuta di fatto solo una volta nel corso del primo settennato) né era intenzionato a svolgere l’intero mandato. Aveva accettato di “risalire” al Colle solo di fronte ad una forte e chiara assunzione di responsabilità da parte del Parlamento, solo di fronte all’impegno delle forze politiche a prendere davvero sul serio i continui moniti per l’approvazione “delle riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”. Si trattava di “un ulteriore e non previsto impegno pubblico” da onorare fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni lo avrebbero richiesto e fino a quando le forze glielo avrebbero consentito, ma davanti ad un nuovo fallimento del sistema politico non avrebbe esitato “a trarne le conseguenze dinanzi al Paese” Messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Parlamento nel giorno del giuramento, 22/04/2013. Poche parole, pesanti come macigni, che hanno segnato il succedersi degli eventi della legislatura e che hanno trovato puntuale e limpida corrispondenza nei fatti sul finire dell’anno quattordici. Nei primi giorni di novembre indiscrezioni giornalistiche riferiscono l’intenzione di Napolitano di concludere il proprio incarico alla fine dell’anno, “allo spirare del semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea” S. Folli, la Repubblica, 09/11/2014. Il silenzio dell’ufficio stampa del Quirinale suona come una conferma. Le difficoltà della crisi economica non sono certo alle spalle, ma l’azione risoluta del Governo Renzi ha determinato una risalita dell’Italia nella credibilità internazionale insieme ad un’accelerazione del percorso delle riforme. Nel mese di gennaio Camera e Senato saranno infatti impegnate nell’esame, in seconda lettura, rispettivamente della legge di revisione costituzionale per il superamento del bicameralismo paritario e della nuova legge elettorale, il c.d. “Italicum”. Qualche settimana di attesa per le dimissioni potrebbe agevolare l’andamento dell’iter parlamentare evitando il rischio di quell’ingorgo istituzionale che spesso ha accompagnato le elezioni presidenziali; ma la decisione ormai è presa. Il Presidente Napolitano si dimetterà nei primi giorni del 2015, dopo il messaggio di fine anno e dopo l’intervento conclusivo del semestre europeo che verrà pronunciato da Renzi a Strasburgo. Il 14 gennaio i Presidenti delle Camere Grasso e Boldrini ricevono la lettera di dimissione del Capo dello Stato: il primo assume quindi le funzioni di Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 86 primo comma della Costituzione; la seconda convoca il Parlamento in seduta comune, con la partecipazione dei delegati regionali, per il 29 gennaio ai sensi dell’art. 86 secondo comma della Costituzione. Mentre i consigli regionali procedono all’elezione delle proprie delegazioni, le Assemblee di Camera e Senato sono impegnate nell’approvazione delle due riforme. 1


Il confronto parlamentare, per la verità alquanto compresso per il contingentamento dei tempi e per la determinazione a concludere prima del “grande giorno”, è continuamente interrotto da richieste di sospensione dei lavori motivate proprio dalla peculiare situazione di vacatio al Colle più alto, al netto della supplenza del Presidente del Senato. I precedenti nella prassi parlamentare non abbondano, le valutazioni di opportunità politica potrebbero consigliare una tregua, ma in definitiva, a maggioranza, si decide di proseguire. Gli interventi di filibustering si concentrano sulla denuncia del c.d. “Patto del Nazareno”, l’intesa per le riforme istituzionali siglata da Renzi e Berlusconi circa dodici mesi prima. Non mancano tensioni sull’applicazione dei regolamenti, alla Camera sulle richieste di votazioni segrete, al Senato sull’ammissibilità di un emendamento premissivo cfr G. Piccirilli, Tutto in un voto (premissivo)! La fissazione dei principi dell’Italicum nel suo esame presso il Senato, su questa rivista presentato da un senatore di maggioranza al fine di precludere, se approvato, buona parte degli emendamenti in discussione. Ed è proprio il voto su quell’emendamento alla legge elettorale (01.103), che produce un fatto politico così rilevante da poter apparire decisivo per la corsa al Quirinale. Contestualmente al dissenso di una trentina di senatori del Partito Democratico i voti di Forza Italia risultano decisivi per l’approvazione della proposta emendativa che, di fatto, riscrive la legge elettorale (anche sul punto del premio di maggioranza da attribuire alla lista e non più alla coalizione, sul quale, lo stesso partito, non si era mai detto convinto né tantomeno impegnato). Mancano poche ore alla seduta comune, nel cortile d’onore di Montecitorio sono già state allestite le postazioni televisive, nel pomeriggio del 27 gennaio a Palazzo Madama viene approvata la legge elettorale con 184 sì, 66 no, 2 astenuti. In tarda serata la Conferenza dei Capigruppo alla Camera dei Deputati prende atto che non c’è più tempo per concludere le votazioni sul disegno di legge costituzionale; ormai c’è tempo solo per far sistemare quei catafalchi fatti costruire da Scalfaro, nottetempo, nel Maggio del ‘novantadue, per garantire la segretezza del voto. Nella stessa giornata, una delegazione del Partito Democratico effettua, nella propria sede, un primo giro di consultazioni ufficiali con le altre forze politiche. Tutti rispondono all’invito eccezion fatta per il Movimento 5 Stelle che annuncia la propria intenzione di votare il candidato designato dalla consultazione on line dei propri attivisti. Il PD può contare su oltre 440 grandi elettori: è naturale che tutti gli riconoscano il diritto e il dovere di “dare le carte”. Tuttavia si è ben lontani dall’autosufficienza e lo spettro del disastro e delle divisioni del tredici consiglia la ricerca di una convergenza tanto ampia da neutralizzare probabili e nutrite schiere di “franchi tiratori”. Dal confronto con le correnti interne e dagli incontri con le altre forze politiche emerge un profilo sempre più definito: autorevolezza sul piano istituzionale, autonomia sul piano politico, nessuno spazio per candidature c.d. tecniche o per improvvisazioni da servire all’opinione pubblica. I nomi che si accreditano vieppiù sono quelli di Giuliano Amato e Sergio Mattarella insieme a quello di Anna Finocchiaro, (l’unica vera chance per i sostenitori di un Presidente per la prima volta donna). Perdono invece quota tutti gli altri, dai “tecnici” (come il Ministro Padoan e il Governatore della Banca d’Italia Visco) agli ex segretari di partito: i primi rassicurerebbero più i mercati internazionali che i parlamentari chiamati ad eleggerli; i secondi vengono considerati divisivi tanto all’interno quanto all’esterno dei rispettivi schieramenti di appartenenza. Nella mattina del 28 Gennaio Matteo Renzi incontra, da segretario di partito, prima i deputati e poi senatori democratici e definisce con decisione il metodo: “primo obiettivo l’unità del PD su un nome di alto profilo; nessuna rosa di candidati ma un 2


nome secco da proporre alle altre forze politiche; nessun diktat da parte nostra ma nessun veto da parte degli altri; autorevolezza certo, ma dovrà essere una scelta da poter raccontare ai cittadini”. Le consultazioni proseguono, l’incontro con Pierluigi Bersani certifica che la sinistra interna è pronta a sostenere con convinzione la candidatura di Mattarella così come quella di Amato. Sul secondo di questi è lo stesso Presidente del Consiglio a non essere affatto convinto anche dopo un primo confronto con i gruppi parlamentari del PD dal quale erano emerse chiaramente le difficoltà a cui sarebbe andata incontro la candidatura di Amato. Poco dopo Berlusconi, che nei giorni precedenti aveva stretto un patto di consultazione con Alfano, varca la soglia di Palazzo Chigi per una consultazione privilegiata con Renzi: per molti commentatori è la conferma che il “Patto” tiene. Berlusconi pone il veto su Mattarella pensando di neutralizzare le due candidature più forti ricavando così uno spazio di trattativa su un terzo nome. Ma non andrà così. Nessun veto aveva detto Renzi, nemmeno da Berlusconi. Di ora in ora la candidatura di Mattarella trova consensi, da Sel a Selta Civica per finire con una parte dei parlamentari fuoriusciti dal M5S. I 5 stelle alle prese con la consultazione on line mettono in gioco tra gli altri anche i nomi di Romano Prodi e Pierluigi Bersani con l’intento di creare scompiglio e magari di rientrare all’ultimo momento nella partita. La mattina seguente l’assemblea dei grandi elettori PD dà via libera all’unanimità alla candidatura di Sergio Mattarella, esponente della sinistra DC, parlamentare di lungo corso, estensore del c.d. “Mattarellum”, più volte Ministro della Repubblica (per i rapporti con il Parlamento e alla Difesa), Vice Presidente del Consiglio nel Governo D’Alema, giudice della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la legge elettorale con la sent. 1/2014. Manca poco alla prima chiama, ormai il dado è tratto. Il quorum dei due terzi nei primi tre scrutini è difficile da raggiungere. Si ritiene più saggio attendere la quarta votazione e nel frattempo testare la tenuta del gruppo sull’indicazione di voto “scheda bianca”, così come avvenne per la prima elezione di Napolitano. Il centrodestra è nel caos, FI e NCD non riconoscono il “metodo Renzi”, lamentano di non essere stati considerati, temono “un nuovo Scalfaro”, denunciano la costituzione di una maggioranza sul Quirinale diversa da quella di Governo e diversa da quella consolidatasi sulle riforme istituzionali. Il M5S invece annuncia, il proprio voto per il magistrato Ferdinando Imposimato, il preferito dal web, mentre LN e FdI si stringono intorno a Vittorio Feltri. Passano le ore e si avvicina la quarta votazione, quella decisiva, che si terrà nella mattina del 31 gennaio. La posizione di netta contrarietà del centrodestra si sgretola. Per il Presidente del Consiglio Renzi, il Ministro dell’Interno Alfano non può assumersi la responsabilità di non votare il Presidente della Repubblica; determinerebbe così uno strappo politico insanabile. Uno scarno comunicato stampa del PD auspica la più ampia condivisione sul nome di Mattarella. Il leader di NCD Alfano obtorto collo è costretto a convergere per garantire la tenuta della maggioranza di governo. Forza Italia invece, dopo aver preso in considerazione la linea della non partecipazione al voto, un vero e proprio Aventino, decide di votare scheda bianca. Lo scrutinio della quarta votazione consacra l’elezione di Sergio Mattarella. Con 665 voti va ben oltre i 505 necessari, sfiorando addirittura i due terzi. Almeno una quarantina i “franchi soccorritori” così S. Messina, la Repubblica, 10/05/2006 del centrodestra che non hanno rispettato l’indicazione di voto, segno di un terremoto 3


politico in atto che restituisce più di un interrogativo sull’andamento della legislatura e sulla possibilità di far convivere tre maggioranze in un Parlamento solo. Gli applausi accompagnano la proclamazione del risultato da parte della Presidente Boldrini, la quale si reca immediatamente alla Consulta per comunicare il risultato al nuovo Capo dello Stato. "Il mio primo pensiero - sono le parole del nuovo inquilino del Quirinale- va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini. E' sufficiente questo". Il 3 gennaio è il giorno del giuramento, del “sacramento del potere” P. Prodi, Il sacramento del potere, Bologna, Il Mulino 1992. Il messaggio di Sergio Mattarella è rivolto al Parlamento che “presenta elementi di novità e cambiamento” e a tutti i cittadini. Rappresentare l’unità nazionale significa “ridare al Paese un orizzonte di speranza”, la strada maestra è quella indicata dalla Costituzione. Non può mancare un riferimento alle riforme: il Parlamento si accinge alla revisione costituzionale per rendere “più adeguata la nostra democrazia”; la revisione è auspicata se ed in quanto orientata all’attuazione della prima parte della Costituzione. Il Presidente vede sé stesso come arbitro al centro delle dinamiche di un sistema compiutamente parlamentare, al quale “compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza” Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento, 03/02/2015. Quali saranno le caratteristiche del suo settennato è al momento difficile dire; è possibile che il profilo di terzietà del Presidente si consolidi, specie se non verrà messo alla prova da frequenti crisi di governo, come nel recente passato, e da un “disinvolto” utilizzo degli atti normativi del governo (in altre parole se i “giocatori” lo aiuteranno “con la loro correttezza”). In ogni caso, sarà chiamato ad un compito impegnativo per quella che è e rimane una “magistratura di persuasione, di equilibrio, di supremo arbitrato” come la definì Meuccio Ruini in Assemblea costituente, seduta del 12 marzo 1947. * Dottorando di ricerca Università di Bologna; componente Prima Commissione, Affari costituzionali”, della Camera dei deputati

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L’art. 54 secondo comma Cost. e la voce «onore specifico» nel risarcimento del danno non patrimoniale per diffamazione di una carica pubblica*

(4 marzo 2015) Fabio Ferrari** SOMMARIO: 1. Il tema. – 2. Tre casi: uno esemplare; due complessi. – 3. Onore, teoria e risarcimento. – 4. Onore e art. 54.2 Cost. – 5. La legalità entro l’onore. – 6. L’onore oltre la legalità. – 7. Conclusioni.

1. Il tema – L’obbiettivo di questo contributo è comprendere se, ed eventualmente in quali termini, la risarcibilità della voce di danno “onore specifico” nei processi per diffamazione di una carica pubblica sia compatibile con quanto disposto dall’art. 54 secondo comma della Costituzione, a norma del quale «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». La questione può così essere presentata: a) il “decalogo dei giornalisti” elaborato dalla Corte di Cassazione1 in tema di diffamazione consente alla scriminante ex art. 51 c.p. – esercizio di un diritto – di operare solo se l’articolo diffamatorio rispetta la verità sostanziale dei fatti, presenta un interesse pubblico alla conoscenza della notizia in esame, esprime un linguaggio ottemperante al canone della continenza; questo per quanto riguarda il diritto di cronaca; il diritto di critica, per sua stessa struttura, richiede il rispetto del secondo e del terzo requisito, non (sempre)2 della verità sostanziale dei fatti. b) Qualora uno dei tre parametri sopra descritti non sia rispettato, la scriminante non opera e la fattispecie delittuosa viene accertata, consentendo al diffamato di ottenere un risarcimento del danno3; tale risarcimento può essere patrimoniale e/o non patrimoniale, a seconda della fattispecie concreta presa in esame, degli effettivi danni cagionati dalle frasi incriminate e del contenuto specifico della domanda attorea.

* Scritto destinato agli studi in onore di Maurizio Pedrazza Gorlero. 1

Cass. Civ., sez. I, 18.10.1984, n. 5259. Per un approccio problematico alla distinzione tra diritto di cronaca e diritto di critica cfr. Cass. Pen., sez. V, 15.12.2004, n. 3403; per un tentativo di distinzione netta cfr. Cass. Pen., sez. V., 17 Marzo 2000, n. 3477. Sul tema in dottrina si veda L. PALADIN, Problemi e vicende della libertà d’informazione nell’ordinamento giuridico italiano, in L. PALADIN (cur.), La libertà d’informazione, Utet, Torino, 1979, pp. 10-12. 3 Quale pena accessoria l’art. 9 della l. 08.02.1948 n. 47 prevede altresì la pubblicazione della sentenza di condanna e la possibilità di chiedere, da parte dell’attore, la c.d. sanzione civile (art. 12). 2

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c) Limitando lo sguardo ai danni non patrimoniali, il loro risarcimento avviene per lo più in via equitativa4 e si compone di una serie di voci di elaborazione prettamente giurisprudenziale, mediante le quali il giudice tenta di determinare il quantum economico dovuto dal giornalista al diffamato: a tal fine, si utilizzano sia parametri oggettivi (la gravità delle espressioni, la diffusione della pubblicazione e la credibilità di cui questa gode, la reiterazione degli episodi di diffamazione) sia soggettivi (le qualità morali della persona offesa, la sua notorietà, il suo ruolo professionale e sociale)5. Nel caso di diffamazione di una carica pubblica, quest’ultima – quale particolare specie del genere “ruolo professionale o sociale” – consente al soggetto (pubblico) di chiedere ed ottenere un surplus monetario di risarcimento proprio perché, diffamando la persona fisica, si è arrecato altresì un danno alla carica da questa rivestita. Si tratta di uno dei possibili contenuti del c.d. “onore specifico” (o qualificato), con il quale si fa riferimento non al mero “onore comune o minimo” proprio di «ogni individuo in quanto persona»6, bensì ad «un tipo di onorabilità superiore alla media o quantomeno caratterizzata con riferimento ad una determinata categoria sociale o professionale o a meriti e funzioni particolarmente apprezzati dalla collettività»7. d) Seguendo il “decalogo” elaborato dalla Corte di Cassazione, è evidente che un giornalista può essere condannato per diffamazione – ed al risarcimento del relativo danno – anche a seguito della narrazione di un fatto sostanzialmente vero e socialmente rilevante: egli potrebbe, per esempio, aver ecceduto nella terminologia espressiva, infrangendo il “terzo precetto” concernente la continenza e meritando dunque la conseguente condanna 8 ; potrebbe egli aver narrato vicende provate ma, nell’ambito di una complessa cronaca giudiziaria, aver errato nella corretta qualificazione giuridica del reato ascritto al soggetto diffamato, associando quest’ultimo ad un’imputazione o ad un’indagine relativa ad una fattispecie 9 delittuosa più grave rispetto a quella effettivamente in essere ; ancora, potrebbe egli aver omesso particolari ritenuti dal giudice di merito determinanti per la corretta contestualizzazione dei fatti narrati, senza tuttavia che tale omissione pregiudichi – nella

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Sulla «necessaria» liquidazione in via equitativa (ex art. 1226 c.c.) del danno non patrimoniale da diffamazione cfr. Cass. Civ. 06.03.2008, Sez. III, n. 6041. 5 Cfr. la sentenza “madre” in materia: Tribunale di Roma del 27.03.1984, n. 3453. L’utilizzo e la quantificazione delle singole voci è attività del giudice di merito (per i limiti del sindacato della Corte di Cassazione sul punto, si veda Cass. Civ., 22.10.2009, sez. III, n. 22190). Un approfondimento sull’uso giurisprudenziale delle stesse richiede l’analisi di pronunce di primo e secondo grado per le quali, oltre a quanto segnalato in questo contributo, si rimanda ai numerosi casi descritti in L. GAUDINO – F. RANDI, Il prezzo dell’onore: la valutazione equitativa del danno da diffamazione a mezzo stampa, in Resp. Civ. e Prev., III-2012, pp. 946 ss.; S. PERON – E. GALBIATI, Diffamazione e risarcimento del danno tra principi consolidati e contrasti giurisprudenziali, in Giur. Merito, III-2011, pp. 720 ss. 6 M. SPASARI, “Diffamazione e ingiuria (Dir. Pen)”, in Enc. Dir., XII, Giuffrè, Milano, 1964, pp. 482-483. 7 Ibidem. 8 Cfr. Tribunale di Torino, 25.05.2010, n. 3775. 9 Cfr. Tribunale di Marsala, 11.10.2010, n. 765.

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sostanza – la verità o comunque la gravità delle vicende ascritte alla carica pubblica diffamata10. e) In tutti questi casi, ed in molti altri astrattamente ipotizzabili, l’accertamento della verità “sostanziale” dei fatti narrati e il riconoscimento, da parte del giudice, di un interesse pubblico alla divulgazione della notizia non impediscono di pervenire ad una condanna del giornalista; inoltre, essendo il soggetto attivo una persona fisica rivestente una carica pubblica, nella liquidazione del risarcimento può egli pretendere un surplus monetario derivante dalla voce “onore specifico”, dandosi per scontato che alla lesione dell’onore minimo della persona fisica debba aggiungersi il pregiudizio nei confronti dell’onore “qualificato” della carica pubblica rivestita. Qui il nodo: se i fatti sono sostanzialmente veri e se il giudice riconosce un interesse pubblico alla divulgazione della notizia, si può presumere che il comportamento della carica pubblica censurato dal giornalista non sia particolarmente encomiabile, anche qualora il processo per diffamazione si concluda – formalmente – con una condanna del giornalista, magari “solo” per mancata continenza o per altri “vizi minori” inidonei ad inficiare completamente la verità dei fatti; la conferma che le vicende descritte non narrano un comportamento dell’attore meritevole di particolare pregio è data proprio dall’azione giudiziaria instaurata dal medesimo, il quale ritiene di dover citare in giudizio il giornalista sentendosi da egli diffamato; se questo è vero, pare opportuno chiedersi a quale titolo il giudice di merito liquidi la voce “onore specifico” all’attore, il quale, proprio in qualità di soggetto che riveste una carica pubblica, è tenuto ad un comportamento onorevole e disciplinato così come imposto dal precetto dell’art. 54.2 Cost.; l’esempio della mancata continenza può chiarire lo scenario: se l’uomo pubblico Tizio cita in giudizio il giornalista Caio per aver quest’ultimo descritto frequentazioni del primo con personaggi legati alla criminalità organizzata, qualora il giudice attesti la verità dei fatti narrati, l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, ma la mancata continenza nell’esposizione, condannando Caio a risarcire Tizio, a quale titolo l’attore può pretendere la liquidazione – anche – della voce “onore specifico”? Non è forse l’attore ad aver (potenzialmente) disonorato la carica pubblica attraverso quelle frequentazioni accertate dal giudice? È possibile che la carica pubblica si saldi totalmente con il suo titolare pro tempore così da consentire all’attore di ottenere un surplus di risarcimento per il ruolo rivestito, senza che il giudice tenga minimamente in considerazione il precetto dell’art. 54.2 Cost.? Nell’esempio teorico qui descritto, la diffamazione per “mancata continenza” del giornalista lede certamente l’onore minimo (o comune) della persona fisica attore, la quale ha perciò diritto al risarcimento per quello specifico pregiudizio; ma l’onorabilità della carica da chi è realmente danneggiata? Dal giornalista, “reo” di aver raccontato fatti veri e di interesse pubblico, seppur espressi con eccessiva enfasi ingiuriosa? Oppure dall’uomo pubblico e dalle sue frequentazioni tutt’altro che “onorevoli”? Perché un uomo pubblico, per il solo fatto di essere tale, può 10

Cfr. Corte d’Appello di Torino, 03.11.2004, n. 1768.

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ottenere un ulteriore risarcimento monetario senza alcuna valutazione in merito al comportamento concretamente tenuto nell’esercizio della carica, quasi che l’“onore specifico” debba attivarsi aprioristicamente ed in astratto, senza un minimo di considerazione per quanto disposto dalla Costituzione nell’articolo qui in esame? La questione, pur di stretta afferenza processuale, presenta dei risvolti costituzionali di sicuro interesse; anzitutto, il tema dell’onore ed il relativo ancoraggio costituzionale, le sue diverse possibili concezioni teoriche ed il loro modo concreto di operare all’interno di una controversia giudiziale; risulta poi necessario tenere in considerazione il grado di deterrenza che un surplus monetario di condanna può esercitare nei confronti della libertà dei giornalisti e del loro diritto-dovere di cronaca e critica, soprattutto all’interno di una stampa – quella nazionale – da un lato economicamente povera, dall’altro particolarmente incline a specchiarsi, e talvolta ad adagiarsi 11 , sulle posizioni politiche dominanti, omettendo di esercitare quella funzione di rigido e severo controllo iscritta nel ruolo “istituzionale” del giornalismo in un regime democratico12. Ancora, vi è poi l’interesse nei confronti delle potenzialità interpretative di una disposizione, quella dell’art. 54 secondo comma Cost., spesso concepita come enunciazione di principio, o addirittura di mero auspicio, difficilmente applicabile in concreto e con poche possibilità di efficace giustiziabilità. Da ultimo, si tenga presente che la risarcibilità del danno non patrimoniale da diffamazione non implica necessariamente l’accertamento del relativo reato in sede penale: grazie ad una lettura “costituzionalmente orientata” dell’illecito civile ed in particolare dell’art. 2059 c.c., si è pervenuti a riconoscere il diritto ad ottenere il risarcimento del danno anche qualora il fatto incriminato configuri solo astrattamente il delitto, risultando così sufficiente la sua (mera) idoneità a ledere la norma penale 13 . La tutela di un bene costituzionalmente protetto come l’onore può, dunque, realizzarsi con sicura efficacia anche (ed eventualmente soltanto) entro il catino processuale civile: l’indubitabile pregio di questo orientamento deve però fare i conti con la perdita di quelle garanzie rigorose che avvolgono l’imputato all’interno del processo penale, prima tra tutti la richiesta di un

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Su questo, M. PEDRAZZA GORLERO, L’informazione giornalistica e il pluralismo interno, nella raccolta di opere dell’A. intitolata Saggi per un corso di diritto dell’informazione giornalistica, CEDAM, Padova, 2006, pp. 73-117. 12 Sul ruolo esercitato dalla libertà di stampa (e dall’opinione pubblica) in una democrazia la bibliografia è sterminata: ex pluribus, J. PULITZER, The power of public opinion, Columbia University, New York, 1904, pp. 49 ss; E. W. BÖCKENFÖRDE Staat, Verfassung, Demokratie: Studien zur vergassungstheorie und zum Verfassungsrecht, Suhrkamp, Frankfurt, 1991, trad. It. ID., Stato, costituzione, democrazia, Giuffrè, Milano, p. 585; R. DAHL, On democracy, Yale University Press, 1998, trad. It.. ID., Sulla democrazia, Laterza, Bari, 2000, p. 91 ss.; G. SARTORI, Homo videns, Laterza, Bari 2000, p. 172; N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, pp. 96 ss.; C. ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Giuffrè, Milano, 1958, pp. 7 ss. 13 Cfr. Cass. Civ., sez. III, 14.10.2008, n. 25157. Per un approfondimento sul tema si veda P. CENDON (cur.), La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, vol. I, Utet Giuridica, Torino, 2014, pp. 416-418.

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elemento soggettivo necessariamente doloso14; al contrario, in sede civile, in ottemperanza a quanto disposto dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., sarà sufficiente accertare la semplice colpa del convenuto. Quest’ultimo aspetto è senz’altro da tenere in considerazione, per almeno due diverse ragioni: se da un lato pare infatti condivisibile l’idea che la risarcibilità del danno derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti non debba superare necessariamente lo scoglio del dolo del “reo”, dall’altro va però puntualizzato che nel caso specifico della diffamazione il convenuto è spesso un operatore dell’informazione che esercita il proprio diritto-dovere di cronaca-critica, non di rado nei confronti di soggetti con incarichi pubblici: la semplificazione dei requisiti richiesti per accedere alla tutela risarcitoria può rivelarsi un ulteriore strumento di deterrenza per il giornalista, il quale dovrà essere cosciente delle insidie rappresentate da un “risarcimento monetario” rivendicabile dall’uomo pubblico anche in caso di mera imprudenza nella narrazione dei fatti o nell’esercizio della critica: la conseguenza, non potrà che essere quella di confinare con ancor più severità lo spazio concreto di libertà entro cui l’operatore della stampa potrà muoversi nell’esercizio dell’art. 21 Cost. 2. Tre casi: uno esemplare; due complessi - Numero uno. Il giudice X veniva condannato in primo e secondo grado per episodi di corruzione. La corte di Cassazione annullava la sentenza di condanna senza rinvio per intervenuta prescrizione, sottolineando l’impossibilità di pronunciare una completa assoluzione di X: la Suprema Corte confermava l’avvenuta consumazione del reato da parte del giudice, pervenendo tuttavia – causa decorso del tempo – ad un giudizio di prescrizione, senza possibilità alcuna di ricorrere a formule assolutorie preferenziali così come previsto ex art. 129 c.p.p.15. Il giornalista Y, parlando del giudice X in un suo libro, affermava che il magistrato risultava essere stato più volte «inquisito e condannato». X citava Y per diffamazione, sostenendo di non essere mai stato condannato in via definitiva, stante l’intervenuta prescrizione. La Corte d’Appello di Torino, alla quale X si era rivolto dopo che il giudice di primo grado aveva negato il carattere diffamatorio del virgolettato sopra riportato16, con sentenza del 03.11.2004, n. 1768 riconosceva l’avvenuta diffamazione di X da parte del giornalista Y: la prescrizione, pur non corrispondendo certamente ad una piena assoluzione, non poteva essere, in senso stretto, comparata ad una condanna; peraltro – continuava la Corte d’Appello – il rispetto della verità dei fatti nella cronaca giudiziaria doveva essere restrittivamente inteso, in generale non potendosi applicare l’esimente qualora l’inesattezza delle notizie rechi

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Su questo punto V. PEZZELLA, La diffamazione: responsabilità penale e civile, UTET, 2009, Torino, p. 596. 15 Si veda lo stralcio della sentenza della Corte di Cassazione in esame così come richiamato dalla pronuncia di primo grado del Tribunale di Torino, 19.03.2002, n. 2572. 16 Tribunale di Torino, 19.03.2002, n. 2572.

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pregiudizio all’attore17. Nel condannare il convenuto Y la Corte teneva conto di parte dei parametri oggettivi e soggettivi più sopra descritti, tra i quali – per quel che qui interessa – «le caratteristiche personali del soggetto e il ruolo svolto nella società», liquidando il tutto in € 5000,00. Numero due. Il giornalista Y narrava – attraverso articoli di giornale ed interviste rilasciate a trasmissioni televisive nazionali ad ampio seguito di pubblico – delle frequentazione professionali tenute dall’allora Presidente del Senato X con personaggi che, successivamente, sarebbero stati condannati per fatti di mafia. In merito a tali eventi il Presidente del Senato X precisava che una parte cospicua di tali frequentazioni erano tutte avvenute prima che egli assumesse qualunque incarico politico, essendo antecedenti di venti anni rispetto al momento della narrazione: a quel tempo, continuava X, non vi era alcuna traccia della vicinanza di quelle persone con ambienti legati alla criminalità organizzata; affermava inoltre che per quanto concerneva i contatti più recenti con alcuni di detti personaggi, essi erano inquadrabili come delle mere consulenze legali, da ritenersi dunque fisiologiche nell’attività di avvocato quale X era. Ancora, sottolineava il Presidente del Senato il tono offensivo del racconto di Y. Per tutti questi motivi, X citava in giudizio Y innanzi al tribunale civile chiedendo un’ingente somma di danaro per commessa diffamazione. Il Tribunale di Torino, con sentenza 01.06.2010, n. 3775, accoglieva solo parzialmente la domanda attorea: il giudice riscontrava infatti la verità sostanziale dei fatti narrati dal giornalista ed il sicuro interesse pubblico alla loro divulgazione, stante l’alta carica della quale era titolare l’uomo politico X. Tuttavia, riteneva il Tribunale di Torino che le affermazioni ingiuriose e sarcastiche di Y potessero essere solo in parte “coperte” dalle esimenti del diritto di critica e satira: il contenuto di taluni apprezzamenti negativi nei confronti di X sconfinavano nella contumelia, risolvendosi in attacchi personali privi di qualunque ancoraggio ai fatti narrati ed erano, inoltre, inidonei a rafforzare il pensiero – già chiaro – del giornalista Y. Ciò premesso, il Tribunale di Torino condannava Y a risarcire i danni non patrimoniali al politico Y per una somma complessiva di € 18.000,00 (poi ridotta ad € 12.000,00 sulla base di considerazioni equitative che qui non interessano) a fronte della cifra di € 1.750.000,00 richiesta dall’attore. Il giudice determinava il valore di ogni singola “voce” di danno, conferendo a ciascuna di esse (gravità e gratuità dell’offesa, mezzo di comunicazione utilizzato, ruolo istituzionale dell’attore “c.d. onore specifico”) il valore di € 6.000,00. Numero tre. Durante una trasmissione televisiva il giornalista Y definiva “figlioccio del boss mafioso” il parlamentare siciliano X, affermando che a carico del politico era stata emessa una misura cautelare di custodia in carcere. X ammetteva di essere, al momento della messa in onda della trasmissione televisiva, sottoposto a misura restrittiva della libertà personale, precisando però che il reato ipotizzato nel processo penale a suo carico 17

Sulla concezione restrittiva della verità sostanziale dei fatti all’interno della cronaca giudiziaria cfr. Cass. Civ., sez. III, 20.07.2010, n. 16917.

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era quello di “concorso esterno in associazione mafiosa”. Si doleva dunque X della parzialità dell’informazione di Y, considerato che l’espressione “figlioccio del boss” designava una sua radicale appartenenza organica a “cosa nostra” smentita dal capo d’imputazione (concorso esterno); aggiungeva poi che dall’ordinanza del GIP dalla quale Y aveva colto la notizia in esame non vi era alcun fatto che potesse lasciare intendere la benché minima relazione tra X e il “padrino” del quale egli sarebbe dovuto essere “figlioccio”; precisava inoltre che al momento dell’atto di citazione egli risultava essere stato assolto tanto in primo quanto in secondo grado dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Da qui, la richiesta di danni non patrimoniali, da determinarsi in via equitativa nella misura di giustizia stabilita dal giudice. Il Tribunale di Marsala, con sentenza 11.10.2010 n. 765, accoglieva le doglianze dell’attore, accertando l’arbitrarietà delle affermazioni di Y, il quale – pur partendo da un dato vero, la misura cautelare a carico di X – aveva descritto gli eventi non attenendosi allo stretto contenuto dell’ordinanza, attribuendo dunque al parlamentare siciliano fatti non completamente veri. Ne derivava una condanna per il giornalista Y al pagamento di € 15.000,00 di danni non patrimoniali per avvenuta diffamazione: come nel primo caso narrato, il giudice si limitava a richiamare i parametri oggettivi e soggettivi presi in esame (tra i quali il c.d. onore specifico), senza peraltro attribuire a ciascuno di essi uno specifico valore. 3. Onore, teoria e risarcimento – Posto il tema, descritti tre casi reali utili a contestualizzarlo nella realtà giurisprudenziale, pare ora necessario prendere in considerazioni alcuni profili del concetto di onore, del suo inquadramento teorico, delle peculiarità degli aspetti risarcitori legati al suo pregiudizio. Quale che sia la prospettiva settoriale (costituzionale, penale o civile) prescelta per il suo studio, l’onore offre al giurista seri problemi di definizione, comprensione e applicazione18. Stante la sua stretta relazione con il principio della dignità umana, esso rappresenta un diritto inviolabile meritevole di ampia protezione costituzionale, a tal punto da essere idoneo a bilanciare19 il diritto alla libera manifestazione del pensiero, definito dalla Corte 18

Riecheggia spesso nelle opere sul tema – per quelle richiamate qui si vedano Siracusano (p. 32), Manna (p. 225) , Tesauro (pp. 1-2) – la citazione di uno dei più importanti manuali di diritto penale in lingua tedesca, R. MAURACH – F. SCHROEDER – M. MAIWALD, Strafrecht, B. T., Teilband 1, Heildeberg, 2003, p. 247: «l’onore è il bene giuridico più sottile, più difficile da prendere con i guanti di legno del diritto penale e perciò quello tutelato con minore efficacia nel nostro sistema di diritto penale». 19 Corte cost., sent. 86/1974. Sulle basi costituzionali dell’onore, della sua protezione e della sua conseguente idoneità, entro certi limiti, a limitare la libertà di manifestazione del pensiero si vedano, tra gli altri: C. ESPOSITO, la libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, cit. p. 44; L. PALADIN, Libertà d’informazione nell’ordinamento giuridico italiano, cit., pp. 15-16; V. ZENO-ZENCOVICH, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Jovene, Napoli, 1985, pp. 55-92. In merito alla giurisprudenza dalla Corte EDU sul tema, anch’essa protesa – nonostante qualche oscillazione – a riconoscere all’onore e alla reputazione il carattere di diritti fondamentali protetti dalla Convenzione, meritevoli di bilanciare la libertà di espressione, si veda G. CARAPEZZA FIGLIA, Tutela dell’onore e libertà di espressione. Alla ricerca di un

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costituzionale forse il «più alto» tra i diritti «primari e fondamentali»20, vera e propria «pietra angolare»21 dell’ordinamento democratico. L’ancoraggio costituzionale dell’onore, correlato al progressivo inverarsi dei principi della Carta fondamentale nelle riflessioni non soltanto costituzionali, ha concorso a determinare un graduale discernimento dall’impostazione sul tema originariamente sposata all’interno della dottrina penalistica, stante il fisiologico legame di quest’ultima con l’orizzonte – pre-costituzionale – del codice penale: l’onore era infatti percepito nella sua accezione “fattuale”, la quale ne implicava una descrizione necessariamente relativa, il cui parametro di definizione era individuato o nella percezione che ciascuno aveva delle proprie doti e valore sociali (livello “interno” o “soggettivo” dell’onore), oppure nella considerazione della quale l’individuo godeva entro la comunità di appartenenza (relativo profilo “esterno” od “oggettivo”)22. Tale impostazione si esponeva ad una duplice obiezione: la prima riguardava l’impossibilità di tutelare soggetti incapaci di percepire l’offesa o socialmente screditati, la seconda sottolineava i rischi derivanti dal lasciare al singolo e alla sua arbitraria valutazione la definizione, e quindi il grado di tutela, del concetto. Il contributo di una lettura costituzionalmente orientata è stato dunque fondamentale per consentire il passaggio ad una teoria “normativa” dell’onore, la quale ha ancorato il bene alla persona umana in quanto tale, radicandolo nell’individuo come suo interesse fondamentale e pregiudicando – conseguentemente – qualunque omissione di tutela derivante da limiti propri della singola persona o dalla sua impossibilità - incapacità di proteggere i propri interessi. Nonostante il sicuro pregio, anche questa impostazione reca con sé talune problematiche, prima tra tutte il rischio di configurare una tutela del bene astratta ed eccessivamente aliena dalla realtà concreta: difatti, dal riconoscimento ad ogni essere umano della propria pari dignità sociale e del diritto di rivendicare un cifra protetta di onore non comprimibile da chicchessia, può derivare un’opinabile insensibilità nei confronti delle differenze che contraddistinguono i consociati all’interno della propria comunità di appartenenza: innanzi alla lesione del bene onore, una tutela effettiva del singolo non può prescindere dalla considerazione “materiale” del danno ad egli incorso; questa valutazione dovrà tenere conto dalle particolari condizioni “personali” – intese nel senso più lato – del soggetto leso, provocando delle fisiologiche differenze di protezione a seconda del singolo caso preso in esame. L’ambito nel quale questo aspetto del problema si esprime con maggior vigore è proprio quello civilistico, essendo quella la sede della valutazione del «giusto equilibrio» nel dialogo tra Corte europea dei diritti dell’uomo e giurisprudenza nazionale, in Dir. Fam., III-2013, in particolare pp. 1013-1017. 20 Corte cost., sent. 168/1971. 21 Corte cost., sent. 84/1969. 22 Sulle diverse concezioni di onore nella dottrina penalistica, si veda P. SIRACUSANO, “Ingiuria e diffamazione”, in Dig. Pen., Utet, Torino, 1993, pp. 32-36; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, vol. II – tomo I, Zanichelli editore, Bologna, pp. 96-99; A. TESAURO, La diffamazione come reato debole e incerto, Giappichelli, Torino, pp. 9-24.

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danno e del relativo risarcimento. L’elenco sopra indicato concernente i parametri soggettivi legati al risarcimento (le qualità morali della persona offesa, la sua notorietà, il suo ruolo professionale e sociale…) altro non rappresenta che la traduzione in termini quantitativi del “peso” dell’onore debitamente “tarato” sulla singola situazione concreta. Questo, proprio in virtù del principio di eguaglianza il quale, come noto, non può essere concepito come tutela delle più difformi situazioni soggettive mediante loro appiattimento od omologazione su di un asse (che si pretende essere) comune, bensì come ragionevole modulazione di protezione accordabile a realtà diseguali. Dunque, il dovere di trattare differentemente situazioni diverse consente all’onore di operare, nella concreta realtà del diritto, su un doppio binario: dal punto di vista “statico”, esso è riconosciuto come bene protetto proprio di ciascun individuo, prescindendo da qualunque qualità o difetto a quest’ultimo riconducibile; è la natura stessa della persona (art. 2 Cost.), combinata alla parità sociale costituzionalmente garantita (art. 3 Cost.), ad imporre questa forma di tutela aprioristica; dal punto di vista “dinamico”, una volta accertata la lesione, questa va poi contestualizzata entro il particolare sfondo personale e sociale del danneggiato, affinché il quantum del risarcimento appaia coerente con l’entità del danno…realmente cagionato23. Se quanto esposto è vero, risulta in teoria corretta la previsione della voce “onore specifico” nella determinazione del quantum risarcibile al diffamato: tale parametro aiuta cioè il giudice a calibrare il risarcimento sulle peculiarità del caso concreto, consentendo alla situazione contingente – personale e professionale – dell’attore di trovare un ristoro ad essa calzante; per esempio, la brutale diffamazione di un giudice al quale vengano attribuite – falsamente – parzialità indebite nel giudizio, reati più o meno gravi o comportamenti analoghi, non può che gettare discredito non soltanto alla persona fisica “magistrato”, bensì anche al prestigio e nell’onorabilità della delicata funzione istituzionale svolta: di qui, il diritto ad un particolare surplus di risarcimento24. Tuttavia, questo condivisibile approccio deve essere debitamente precisato: va anzitutto negato che una tale voce di danno possa fungere da strumento – alternativo ed ulteriore – di tutela della carica pubblica, perché l’ordinamento già prevede, in rigide ipotesi, fattispecie finalizzate a limitare la libertà di pensiero a cagione della preservazione del prestigio delle istituzioni. A questo fine rispondono, per esempio, i reati di vilipendio i quali, a tacere dell’autorevole dottrina che ne ha sostenuto l’incostituzionalità 25 , sono stati giudicati legittimi dal giudice delle leggi solo se restrittivamente concepiti26; nonostante le difficoltà pratiche che si incontrano quando si tenti di comprendere entro quali limiti una critica alle istituzioni sia “ordinaria”, non integrando quindi il reato di vilipendio, e quando 23

Su questo, G. CARAPEZZA FIGLIA, Tutela dell’onore e libertà di espressione, cit., p. 119. Cfr. Cass. Pen., sez. V, 23.10.2012, n. 41249. 25 P. BARILE, “La libertà di manifestazione del pensiero”, in Enc. Dir., Giuffrè, Milano, 1974, p. 477. 26 L’espressione utilizzata dalla Corte costituzionale è «tenere a vile», sent. 20/1974, n. 5 c.i.d. . Si veda anche, tra le altre, Corte cost., sent. 531/2000. 24

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invece manifesti un discredito in grado di negare loro qualunque rispetto, disprezzandole, il messaggio della Corte appare chiaro almeno nel suo profilo teorico: la critica, per assumere il contorno del vilipendio, deve essere estrema e sacrilega, non potendosi concepire una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero innanzi ad un ordinario, anche aspro, esercizio di dissenso; non pare un caso che lo strumento idoneo a delimitare il perimetro dei reati in oggetto sia proprio la norma penale, circondata da tutte quelle garanzie verso l’imputato proprie della disciplina, sia in merito all’elemento soggettivo, sia in ordine ai tempi di prescrizione del reato, sia in conformità alla sua morfologia “necessaria” (tassatività e determinatezza). Innanzi a questi delitti, per poter procedere processualmente è richiesta l’attivazione d’ufficio dei soggetti pubblici a ciò preposti, perché “pubblico” è il bene protetto e insensato sarebbe lasciare ai privati discrezionalità in materia27; esattamente l’opposto di quanto avviene con i reati di ingiuria e diffamazione: questo è un aspetto che pare necessario ricordare, di modo che sia sempre chiaro che il soggetto tutelato nei reati ex art. 594 e 595 c.p., o nei profili risarcitori che in quei reati – anche solo astrattamente – trovano la loro fonte, è il privato cittadino e solo il privato cittadino. È il privato, peraltro, non il pubblico, ad intascare il risarcimento. Mentre sono – coerentemente – le casse dello Stato ad essere destinatarie della multa mediante la quale si sanziona il reo dei reati sopra descritti. La limitazione della libertà di pensiero a tutela del prestigio delle istituzioni può avvenire soltanto, come ricorda la stessa Corte costituzionale nel giudicare non fondate le questioni di costituzionalità sopra descritte, entro limiti ben definiti: non innanzi ad una mera critica, bensì a causa di un discredito vile e totale dell’istituzione. Nei confronti delle sole istituzioni individuate dai relativi reati, non in relazione a dissensi verso qualunque istituzione, operando così surrettiziamente un’estensione indebita del campo materiale della fattispecie delittuosa. Infine, con le garanzie proprie della norma penale, non entro il catino ben più accomodante28 – per l’attore – della tutela aquiliana. Tuttavia, il tema qui proposto mostra come nella pratica tenda ad avvenire esattamente il contrario: se la sanzione economica (sotto forma di risarcimento) rappresenta una vera e 27

Sulla identificazione del titolare del diritto di querela con il soggetto titolare del bene protetto dalla norma penale cfr. Cass. Pen., sez. VI, 24.02.2004, n. 21090. Per un approfondimento sul tema B. GALAGNI, art. 120, pp. 861-864, in T. PADOVANI (cur.), Codice Penale, I, Giuffrè, Milano, 2007. Sulla procedibilità mediante querela come sintomo di reati di minor gravità sociale E. PAMIERI, art. 120, p. 838, G. MARINI – M. LA MONICA – L. MAZZA (cur.), Commentario al Codice Penale, UTET, Torino, 2002. Per la Corte costituzionale, da un lato «la scelta del modo di procedibilità (…) coinvolge la politica legislativa e deve quindi rimanere affidata a valutazioni discrezionali del legislatore», con possibilità da parte della Corte di sindacare tali scelte «solo per vizio di manifesta irrazionalità»: sent. 274/1997, n. 5 c.i.d.; dall’altro l’opzione legislativa a favore della querela reca con sé anche una valutazione di «tenuità dell’interesse pubblico» del reato in esame (ord. 204/1988). 28 Il discorso merita un breve approfondimento: in A. MANNA, Tutela penale della personalità, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 157-179 e in particolare p. 177 si sottolinea come la tutela dei beni della personalità sarebbe più efficacemente realizzabile entro il catino civilistico. Così operando si aumenterebbe senz’altro il grado di tutela concretamente rivendicabile dal diffamato, ma si rischierebbe altresì di limitare beni costituzionali primari, quale ad esempio la libertà ex art. 21 Cost.

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propria deterrenza nei confronti della libertà di pensiero e di stampa, soprattutto per quei giornalisti professionalmente giovani o comunque impossibilitati ad operare in contesti editoriali in grado di garantire loro una certa protezione, l’automatismo con il quale sembra essere accordato il c.d. onore specifico segna esattamente l’operare di quella minaccia, pregiudicando – nei fatti – la libertà del giornalista molto più efficacemente dello “spettro”, come si è visto spuntato, della norma penale; questo, anche innanzi a critiche ben lontane da quel vile dileggio idoneo a configurare il perimetro dei reati sopra descritti. Problema non da poco, se si tiene in considerazione che limitazioni alla libertà di stampa dovrebbero essere consentite solo qualora siano giustificate dall’operare di altri interessi costituzionalmente (altrettanto) rilevanti 29 : in questo caso, innanzi ad una concreta limitazione della libertà ex art. 21 Cost., si fatica addirittura ad individuare il (preteso) bene protetto dalla Carta da contrapporre sul piatto della bilancia, dovendosi ribadire che il presunto “prestigio delle istituzioni” non può essere invocato aprioristicamente a limitazione della libertà in esame. La legittimità della prassi mediante la quale i giudici di merito tendono a liquidare “a prescindere” la voce di danno in esame sembra dunque, sulla base delle considerazioni appena svolte, altamente opinabile; addirittura, si è visto come i dubbi sorgano prima ancora di chiamare in causa l’art. 54.2 Cost., il quale dovrebbe rappresentare – nelle intenzioni di chi scrive – il parametro costituzionale più critico nei confronti di un tale riconoscimento del c.d. onore specifico (o del suo equivalente semantico)30. Tuttavia, le critiche mosse non consentono di scordare quanto sopra descritto in merito al dovere di conseguire una concretizzazione del pregiudizio all’onore: è bene ribadire che tale fine non sembra realizzabile mediante una tutela eccessivamente astratta del bene in oggetto, dovendo quest’ultimo essere debitamente contestualizzano entro la realtà nella quale opera il diffamato. Una prima conclusione pare dunque la seguente: se, da un lato, risulta scorretto riconoscere acriticamente la voce di danno “onore specifico”, dall’altro, non è nemmeno possibile negare che tale parametro possa – in taluni casi – essere indispensabile per una corretta quantificazione del danno da parte del giudice. Sarà proprio il tentativo di interpretazione dell’art. 54.2 Cost. ad individuare una possibile soluzione al tema. 4. Onore e art. 54.2 Cost. – Disciplina, onore, giuramento. A cospetto dei tre lemmi presenti nel secondo comma dell’articolo in esame, si ritiene di dover confinare l’attenzione solo sull’onore: per quanto concerne il giuramento, va anzitutto sottolineato che sembra valere anche per esso quanto affermato per onore, fedeltà, e disciplina, cioè l’essere stato iscritto nel precetto costituzionale per rispondere ad una forte esigenza avvertita dal 29

Per un approfondimento sul tema, A. PACE, I limiti oggettivi. Introduzione al problema, in A. PACE – M. MANETTI, art. 21, in G. BRANCA (cur.), Commentario della Costituzione, Zanichelli – S.E. Foro Italiano, Bologna-Roma, 2006, pp. 97-101. 30 Spesso si fa riferimento al “ruolo istituzionale ricoperto dal diffamato”.

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Costituente, quella di creare cioè un legame rigoroso tra l’esercente la carica pubblica e la preservazione della neonata Repubblica 31 : fine, quest’ultimo, perseguibile mediante un’imposizione altamente simbolica della quale dovevano essere destinatari soprattutto quei soggetti “politico-costituzionali” i quali, stanti i loro poteri, più di altri avrebbero potuto agire con propositi eversivi di restaurazione monarchica. Ciò posto, al netto delle tesi che descrivono la rilevanza giuridica del giuramento come elemento costitutivo o integrativo del rapporto di pubblico servizio che lo prevede32, dal punto di vista strettamente costituzionale si è faticato ad individuarne significati ulteriori rispetto a quello – valevole per tutti, non solo per i dipendenti pubblici – di doverosa osservanza della legge e della Costituzione, oltre che delle norme che caratterizzano l’impiego33. Difficoltà estremamente intuitiva, perché a volere seguire la tesi secondo la quale colui che giura è tenuto ad un surplus di obbedienza non rintracciabile nel mero rispetto delle norme vigenti, si rischia di cadere nel limbo di doveri “morali” posti oltre il perimetro del diritto e quindi, dal punto di vista giuridico, difficilmente significanti. In questo modo, il contenuto di giuramento si risolve in una pretesa di comportamento non solo “legale”, ma anche “onorevole”. La conseguenza appare semplice: la ricerca di ulteriori significati impatta con il tentativo di definizione dell’onore descritto nel medesimo articolo; sarà dunque, eventualmente, proprio l’analisi di cosa debba intendersi per condotta “onorevole” a fornire qualche possibile significato in più al concetto di giuramento. Quanto alla disciplina, è stato correttamente affermato34 che inerisce eminentemente ai rapporti di pubblico impiego inquadrati in un ordine gerarchico: ivi, essa assume la sua massima estensione, riducendo – sino a coprirlo – il campo operativo dell’onore: quest’ultimo, d’altro canto, esprime massima capacità operativa nei confronti di quelle cariche politiche e costituzionali non incasellabili entro tali rapporti, quali ad esempio magistrati e parlamentari. Questa opportuna distinzione non deve essere esagerata: il Presidente del Consiglio e i Ministri svolgono un ruolo primario nella determinazione dell’indirizzo politico, ma al contempo rappresentano l’apice gerarchico del proprio settore amministrativo; risulta dunque complesso, nei loro confronti, rivolgere con precisione netta la pretesa “alla disciplina” o “all’onore”, anche se la densità di carica politica espressa dal Governo e dai suoi componenti induce senz’altro a trattare il tutto sotto il profilo del lemma che qui più interessa. Infine, va ribadito che il c.d. onore specifico rappresenta una voce di risarcimento principalmente legata a processi concernenti cariche non “burocratiche” in senso stretto, bensì soggette ad una forte esposizione pubblica, siano esse politiche (membri del Governo nazionale o locale, del Parlamento, dei Consigli degli enti locali) o istituzionali 31

L. VENTURA, art. 54, in G. BRANCA (cur.), Commentario della Costituzione, cit., p. 83. G. M. SALERNO, art. 54, in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (cur.) Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, p. 1084. 33 L. VENTURA, art. 54, in G. BRANCA (cur.), Commentario della Costituzione, cit., p. 101 34 G. M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffrè, Milano, 1967, p. 196. 32

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(magistrati); dunque, anche questo argomento depone a favore di un’analisi, tra i tre lemmi del secondo comma, dell’onore. 5. La legalità entro l’onore – Confinata l’analisi, va anzitutto precisato che non sembra esservi una completa fungibilità tra l’onore prescritto ex art. 54.2 Cost. ed il medesimo concetto trattato nel diritto penale: un diverso approccio semantico al medesimo termine, che prelude ad un suo conseguente diverso contenuto a seconda della “collocazione”, non è soltanto dovuto alle specificità proprie di materie (quella penale e costituzionale) autonome: l’onore del codice esprime una qualità dell’essere umano, un sostantivo protetto da garanzie costituzionali ma dotato – almeno in teoria – di un proprio, seppur complesso da individuare, significato ontologico. L’onore “costituzionale” disegna invece un modo d’essere, una pretesa che ricade sulla modalità di esercizio della carica, caratterizzandosi, più che altro, per la sua funzione “aggettivizzante”. A segnare la differenza tra i due modi di intendere il concetto è poi il campo soggettivo di applicazione: l’onore dell’articolo in commento è preteso dalle cariche pubbliche 35 , non dai cittadini, ai quali si chiede, più sobriamente, di osservare «la Costituzione e la legge» e di essere «fedeli alla Repubblica». Il membro “laico” della comunità ha dunque, se così si può dire, il diritto di essere “disonorevole” nei suoi comportamenti quotidiani, rispondendo di questo solo alla propria coscienza e – da un punto di vista esclusivamente “etico” – alla società, almeno fintantoché questo modus vivendi non si sovrapponga perfettamente con un illecito punito da una norma giuridica. Questo, a differenza dell’onore “penale”, come si è visto rivendicabile da ciascun individuo in quanto persona: certo, il suo ancoramento costituzionale ha contribuito non poco al radicarsi della concezione normativa, ma la dottrina penale ne aveva posto le basi prima dell’entrata in vigore della Carta repubblicana36. Nemmeno pare possa identificarsi la condotta onorevole con il mero rispetto della legge e della Costituzione imposto dal primo comma dell’art. 54: questo, renderebbe di fatto inutile la previsione costituzionale in esame, dequalificando la fedeltà chiesta ai soggetti che esercitano cariche pubbliche e così appiattendola al livello proprio di ogni comune cittadino; d’altro canto, è la stessa lettura dell’art. 54 Cost., per come è costruita l’intera disposizione, che pare presupporre, nella successione dal primo al secondo comma, un surplus di onere per i soggetti pubblici: l’incipit prevede un precetto a comando generale – per tutti – mentre il seguito descrive un’imposizione particolare solo per taluni. È invece necessario comprendere se l’eventuale inottemperanza al primo comma dell’art. 54 Cost. implichi un comportamento disonorevole del soggetto rivestente la carica: se l’uomo pubblico viola la legge, ciò produrrà un’automatica violazione anche del dovere di comportarsi con onore, così come imposto dal secondo comma? 35

Si tratta della c.d. «fedeltà qualificata» elaborata da G. M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., p. 176. 36 P. SIRACUSANO, “Ingiuria e diffamazione”, cit., pp. 32-35.

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La risposta positiva può apparire intuitiva, ma non è in re ipsa: quel quid ulteriore – la condotta onorevole – richiesta alla carica pubblica nell’esercizio della funzione potrebbe essere, in linea di principio, altro rispetto all’ottemperanza al diritto, nulla essendo ancora stato detto sul contenuto ex art. 54.2 Cost. di onore: si potrebbe dunque avere un comportamento irrispettoso del principio di legalità ma rispettoso dell’onore. Vago il concetto costituzionale, certamente non lo è quello etimologico: onore condivide lo stesso tema di onestà37. Un uomo d’onore, richiama – etimologicamente – un uomo onesto. Ne era pienamente consapevole Tommaso d’Aquino, il quale scriveva «praetera, honestum dicitur quom est onore dignum»38. Se le parole vanno prese sul serio, non sembra possibile separare il concetto di onore da quello di onestà, con la conseguenza che il comportamento del disonesto dovrà essere considerato, logicamente, disonorevole. Così, si perviene ad una prima, fondamentale, chiarificazione: qualunque sia il personalissimo significato cha ciascuno è libero di attribuire ad onestà, difficilmente essa può essere scissa dall’ottemperanza alle regole che la comunità si dà, soprattutto da parte di chi, esercitando una carica pubblica, ne concorre alla produzione, esecuzione ed applicazione concreta, pretendendone poi il rispetto da parte dei comuni cittadini da una posizione privilegiata di autorità. Si potrebbe obbiettare, almeno da un punto di vista rigorosamente teorico, che l’inosservanza di regole ingiuste è comportamento doveroso, non solo onorevole, richiamando così, in nuce, l’annoso tema del diritto di resistenza, peraltro congenito alla trattazione teorica della disposizione costituzionale qui in esame 39 ; si potrebbe poi aggiungere, proseguendo su questo solco, che il rispetto delle regole è condicio sine qua non, almeno formale, della preservazione di qualunque regime, democratico o non, onesto o indegno, onorevole o indecoroso. Sono obbiezioni che non sembrano reggere: se all’uomo con responsabilità pubbliche fosse consentito di violare – sulla base di un presunto giusto motivo 40 – le leggi, non si comprenderebbe per quale motivo la stessa prerogativa non possa essere rivendicata dall’uomo comune; ma se così fosse, sarebbe lo stesso ordine costituzionale a venire meno al verificarsi di una continua violazione alle sue regole, contravvenendo in questo modo non (solo) al secondo comma dell’articolo in esame, ma direttamente al primo. Sia poi consentito affermare che non si può paragonare l’imposto rispetto delle regole all’interno di regimi diversi: un conto è osservare le leggi in un ordinamento fondato sul pluralismo e sulla sua istituzionalizzazione41, in cui ciascuno può avere libero accesso alle cariche pubbliche e nel quale la rigidità costituzionale – debitamente presidiata dal giudice delle leggi – impedisce propositi autoritari della 37

M. CORTELAZZO – P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1999, pp. 1074-1076. Per tale relazione nel significato letterale dei due termini G. DEVOTO – G. C. OLI, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1995, p. 1321. 38 TOMMASO d’ACQUINO , Summa theologiae, II, II, 145. 39 G. M. SALERNO, art. 54, cit. p. 1078. 40 Contra, ovviamente, PLATONE, Critone, 50 A-B ss. 41 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 11.

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maggioranza, altro è obbedire al “sovrano” in una condizione antitetica a quella appena descritta. Tra l’altro, scesi dal piano astratto della teoria a quello empirico del quotidiano giurisprudenziale, si può tranquillamente osservare come la maggior parte dei processi per diffamazione di cariche pubbliche non riguarda certamente comportamenti di politici o magistrati “rei” di nobili resistenze contro presunte tirannidi delle maggioranze, bensì vicende non propriamente encomiabili dal punto di vista dell’osservatorio morale o penale. Ciò ovviamente non esonera l’interprete dal dovere di fornire una copertura teorica al ragionamento: sulla base di quanto descritto, pare dunque si possa affermare che un comportamento di una carica pubblica inottemperante alla Costituzione ed alle leggi debba essere considerato privo dell’onore prescritto dal secondo comma dell’art. 54 Cost. Guadagno questo, nella presente ricerca, che non sembra affatto irrisorio, ma che nel porre alcuni punti fermi al ragionamento apre, inevitabilmente, altre problematiche senz’altro complesse. Va infatti chiarito, per esempio, se la violazione di qualunque legge (civile, penale…) produca un comportamento disonorevole, se quest’ultimo derivi soltanto dall’inottemperanza a norme costituzionali e di rango primario oppure anche secondario etc., se e in quali termini sia concepibile una violazione diretta della Costituzione; ancora, anche qualora si rispondesse esaurientemente a tutte queste complesse domande, il risultato sarebbe quello di esaurire l’onore con il rispetto della “legge”, riproducendo così – in sintesi – il precetto del primo comma dell’art. 54 Cost. nel secondo: non si sarebbe detto ancora nulla su cosa l’onore imponga suppletivamente, per le cariche pubbliche, rispetto a quanto giù richiesto a tutti i cittadini; il secondo comma dell’articolo in esame risulterebbe inutile. Le domande, riassunte, sembrano cioè essere due; la prima: quali leggi (Costituzione compresa?) devono essere violate per implementare un comportamento disonorevole? La seconda: l’onore costituzionale cosa prescrive oltre al rispetto delle regole? 6. L’onore oltre la legalità – Il punto da cui è opportuno muovere il ragionamento è il seguente: nello Stato costituzionale la Carta è concepita come la legge fondamentale, superiore alle altre norme, metro di giudizio della loro legittimità. Questo, tuttavia, non significa che nelle disposizioni costituzionali possa essere ravvisata una struttura analoga a quella normativa primaria, né che la Costituzione possa essere interpretata analogamente a qualunque altra norma “inferiore” dell’ordinamento: non lo consente la bassa definizione con la quale è individuato l’equilibrio tra gli interessi in gioco, la fisiologica genericità dei suoi enunciati; in una parola, la voluta contraddittorietà dei suoi principi 42 . Le difficoltà interpretative del comma in esame sembrano esserne una conferma; si pensi a quanti 42

Su questo, R. BIN, Che cos’è la Costituzione? In Quad. Cost. I-2007, pp. 11 ss e dello stesso autore Ordine delle norme e disordine dei concetti (e viceversa). Per una teoria quantistica delle fonti del diritto, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI, Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, Jovene, Napoli, 2009, pp. 35 ss.

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problemi si incontrano ove si sostenga che il disonore possa derivare da un comportamento del soggetto pubblico contrario al “principio di eguaglianza”, o ai “diritti inviolabili dell’uomo”, o alla “forma repubblicana”. Giudicare delle vicende umane a cospetto di parametri così ampi sarebbe probabilmente impraticabile. Ecco allora che la legge (a maggior ragione se corretta dalla Corte costituzionale), grazie alla sua strutturale idoneità a fissare punti di equilibrio più definiti, può aiutare l’interprete ad individuare alcune applicazioni concrete, più o meno dirette, dell’onore costituzionalmente imposto alle cariche pubbliche. Non si tratta affatto di bypassare la Carta, bensì semplicemente di comprendere se, attraverso la maggior nitidezza della legge, sia possibile rispondere con un po’ più di precisione ai quesiti posti. Si guardi alla disposizione del codice penale relativa alla prescrizione del reato e a quelle procedurali concernenti il diritto dell’imputato di impugnare sentenze di proscioglimento “non pieno”: in merito alla prima, è bene ricordare che fu la Corte costituzionale, con una sentenza additiva 43 , ad intervenire sull’art. 157 c.p. garantendo all’imputato il diritto di rinunciare alla prescrizione, al fine di poter ottenere una completa formula assolutoria; la Consulta affermò il diritto di ciascuno di vedere comprovata la propria piena innocenza, imponendo al legislatore di garantire le condizioni affinché questo diritto sia effettivo. Sempre la Corte costituzionale44 intervenne sulla contestata legge del 20 Febbraio 2006, n. 46, (recante modifiche anche all’art. 593 del c.p.p.) la quale limitava – fino a pregiudicarla – la possibilità per l’imputato e per il P.M. di appellare le sentenze di proscioglimento, fatto salvo l’insorgere di nuove prove: nella seconda di queste pronunce la Corte costituzionale ripristinò l’impugnazione di un giudizio di proscioglimento non completamente assolutorio, richiamando – non a caso – il diritto dell’imputato (e del cittadino) alla tutela dei propri interessi morali ed alla trasparenza del giudizio sugli stessi45. Ancora, qualora ne ricorrano con evidenza le condizioni, è lo stesso codice di procedura penale ad imporre al giudice – ex art. 129 secondo comma – di pronunciare formule assolutorie di più ampia portata rispetto alla mera estinzione del reato. L’ordinamento conferisce dunque al cittadino gli strumenti per tutelare, ai più alti livelli, la propria onorabilità, esplicitando che una pronuncia di proscioglimento priva della formula assolutoria piena deve sempre poter essere impugnata dall’imputato, al fine evidente da pregiudicare la sussistenza di qualunque dubbio circa la sua onestà. Il richiamo a queste disposizioni fornisce qualche importante elemento di riflessione: l’ordinamento stesso, attraverso l’osservatorio privilegiato del diritto penale – privilegiato perché espressivo di interessi fondamentali della persona – offre diverse gradazioni di giudizio nei confronti dei cittadini, quasi a voler conferire all’imputato il diritto di scegliere – nel caso di proscioglimento – quale sia la pronuncia più idonea a salvaguardare il proprio 43

Corte Cost., 275/1990. Sentt. 26/2007; 85/2008. 45 Cfr. punto 5.1 c.i.d. sentenza 85/2008. 44

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onore: discrezionale è la scelta del cittadino, il quale, come si è detto, ha il diritto a tenere condotte potenzialmente disonorevoli, potendo dunque accontentarsi di assoluzioni non piene; obbligata è la scelta dello Stato, il quale è tenuto a garantire gli strumenti ai consociati per la salvaguardia massima della propria credibilità sociale e personale. Ciò posto, guardando invece alla disciplina del pubblico impiego in merito al rapporto tra procedimento disciplinare e illecito penale, si può osservare il particolare rigore con il quale talune leggi dispongono la sospensione del lavoratore sottoposto ad accertamento penale non concluso: già nel T.U. sugli impiegati civili (d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) si prevedeva la possibilità di sospendere l’impiegato sottoposto a procedimento penale per reati particolarmente gravi mediante decreto del Ministro (art. 91.1), precisando poi (art. 97.2) che ove il procedimento penale non si fosse concluso con una piena assoluzione, ivi potesse essere confermata la sospensione. Ancora, la Corte costituzionale ebbe modo di pronunciarsi sulle censure di legittimità costituzionale che investivano la legge 19 Marzo 1990, n. 55, in particolare in relazione a quelle sue disposizioni che imponevano, senza alcun margine di scelta per la P.A., la sospensione automatica dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche riportanti condanna anche non definitiva per reati di una certa gravità: la Consulta precisò che la legge può essere mezzo idoneo a tutelare la credibilità della pubblica amministrazione, privando quest’ultima di discrezionalità (presente invece nell’art. 91 sopra richiamato) in merito alla sospensione del dipendente pubblico per fatti che, pur penalmente non accertati in via definitiva, risultino idonei a gettare «un’“ombra” di inquinamento»46 sull’apparato pubblico; questo, anche in spregio all’art. 54.2 Cost. Tale impostazione venne poi confermata dalla Corte costituzionale in una ulteriore sentenza47 con esito analogo a quella succitata, a fronte di una disciplina legislativa “contigua” a quella del 1990. La ratio delle disposizioni in oggetto appare chiara: la disciplina cui sono chiamati gli impiegati pubblici, ex art. 54 secondo comma Cost., consente – ed entro certi termini impone – al legislatore ed all’amministrazione di prendere provvedimenti sanzionatori nei confronti dei dipendenti anche solo “sospettati” di taluni fatti riconducibili a fattispecie criminose di una certa gravità. Quelle disposizioni che, entro il catino penalistico, consentono al cittadino di salvaguardare il massimo della propria integrità morale, nello scenario della pubblica amministrazione vengono – in un certo senso – “riflesse” a garanzia dell’amministrazione e del suo buon andamento, trovando sicuro ancoraggio nella pretesa di disciplina posta a carico del dipendente pubblico dal comma costituzionale in oggetto, pur con i dovuti e ragionevoli stemperamenti a tutela di altri interessi costituzionalmente meritevoli.

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Sent. 206/1999: ai fini che qui interessano, i passaggi più salienti della sentenza sono i punti 4,7,9,11 del c.i.d. 47 Sent. 145/2002: q.l.c. sull’art. 4 della legge 27.03.2001, n. 97.

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Se tutto questo vige per il dipendente pubblico in quanto parte della burocrazia, non si capisce per quale motivo non possa valere anche per l’“onore” (del medesimo comma) relativo a soggetti pubblici che rivestono cariche non inquadrabili entro uno specifico rapporto di gerarchia: seguendo il ragionamento, l’onore nell’adempimento della carica non viene a mancare solo innanzi alla violazione delle regole, bensì anche a fronte di un loro rispetto formale che tuttavia, nella sostanza, non consenta di fugare ogni dubbio sulla onorabilità-onestà della carica pubblica. Esattamente in questo pare corrispondere quel surplus richiesto ex art. 54 secondo comma: l’ordinamento non impone di rinunciare alla prescrizione, così come consente di “accontentarsi” di assoluzioni con formula non piena; tuttavia, l’uomo pubblico – a differenza del cittadino – “deve” dissolvere ogni distonia possibile in merito al suo operato, optando sempre per la soluzione processuale più idonea a rifletterne l’onorabilità-onestà. Senza richiamare l’annosa questione del diritto penale come c.d. “minimo etico”48, un uomo pubblico pregiudicato per gravi reati, o quantomeno per delitti contro la pubblica amministrazione, non dovrebbe avere diritto ad ottenere alcunché di risarcimento in tema di “onore specifico”, considerata la condotta con la quale – egli, non il giornalista – ha violato l’onorevole forma di adempimento alla carica impostagli dalla Costituzione. Ma nemmeno un uomo pubblico prosciolto senza una piena assoluzione, magari refrattario – come spesso capita – a rinunciare alla prescrizione, merita un risarcimento ad hoc per la carica rivestita, anche se questi fatti non integrano una violazione “esplicita” della legge. Per questo il caso numero uno del secondo paragrafo è parso “esemplare”: innanzi ad un giudice corrotto, la cui commissione del reato è accertata dalla Cassazione, nei confronti del quale è intervenuta tuttavia la prescrizione, senza peraltro che egli abbia manifestato la volontà di rinunciarvi, come è possibile riconoscere l’onore specifico a tutela del “prestigio” della carica? Se il giornalista ha erroneamente descritto le vicende giudiziarie, il giudice corrotto ha diritto al risarcimento per lesione dell’onore “comune”. Ma tutt’altra cosa è accordare a quest’ultimo addirittura l’onore specifico, in totale spregio non solo delle vicende processuali della quali il giudice ha piena cognizione, ma, soprattutto, dell’art. 54 secondo comma Cost. e dei suoi principi. È evidente che non ogni reato è uguale all’altro, specie nell’ordinamento italiano nel quale l’idea della sanzione penale come extrema ratio viene sovente disattesa: la corruzione di un giudice non è la contraffazione di un biglietto di un autobus, pur trattandosi in entrambi casi di delitti. Allo stesso modo, ci possono essere illeciti extra penali di una tale gravità da apparire altrettanto disonorevoli rispetto ad un comune reato, o addirittura – come già si è visto – comportamenti formalmente rispettosi del principio di legalità ma sostanzialmente indecorosi. Il ragionamento condotto porta dunque ad un’ulteriore conclusione: non sembra possibile, in astratto e preventivamente, descrivere con precisione tutte le ipotesi in cui l’adempimento di una carica si rivela privo dell’onore 48

Su questo, abbondantemente, V. MANZINI, Trattato di diritto penale, vol. I, Utet, Torino, 1985, pp. 35 ss.

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imposto dalla Carta, perché i casi che le fattispecie concrete presentano al giudice superano, come sempre, anche la più raffinata capacità classificatoria. Si possono prevedere parametri che appaiono irrinunciabili: la commissione di delitti – almeno per il valore simbolico che la tutela penale assume nell’ordinamento costituzionale – il mancato pieno proscioglimento, l’omessa rinuncia della prescrizione… rappresentano fatti a fronte dei quali difficilmente il comportamento potrà essere descritto come onorevole. Nei restanti casi, servirà la valutazione del giudice di merito, dominus dei fatti di causa. Per questo si è ritenuto opportuno inserire i casi numero due e tre nel secondo paragrafo. In essi non vi è alcun illecito: nel secondo si tratta di frequentazioni “pericolose” antecedenti di venti anni l’assunzione della carica; nel terzo di un’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa cristallizzata in un provvedimento cautelare restrittivo. In merito al secondo, può osservarsi quanto segue: l’art. 54.2 Cost. impone di adempiere con «onore» all’esercizio della carica; sembra cioè circoscrivere il raggio di operatività dall’assunzione dell’incarico alla sua cessazione. In questo senso, quali che siano le accuse rivolte ad X, esse riguardano fatti antecedenti. Può l’onore imposto dall’art. 54.2 Cost. estendersi fino a divenire parametro di giudizio di tali vicende? La risposta sembrerebbe negativa, ma la domanda è insidiosa: una possibile soluzione sembra fornirla proprio il giudice del medesimo caso, il quale scrive: «…deve chiedersi a chi ricopre incarichi pubblici l’assenza di zone d’ombra nella propria storia professionale o, per lo meno, una rivisitazione critica di eventuali inconsapevoli contatti avvenuti in passato con soggetti, oggetto di indagini giudiziarie anche successive, che ne hanno dimostrato l’inserimento (…) in organizzazioni criminali operanti in un territorio identificabile quale proprio bacino elettorale»49.

La citazione non può che essere condivisa: proprio per questo, viene da chiedersi se, in assenza di una tale rivisitazione, l’onore specifico possa essere accordato, dato che la presenza di quelle “zone d’ombra” autorizza almeno a nutrire fondati dubbi in merito. Non diversamente avviene nel caso numero tre: il giudice si trova innanzi all’imputazione di un uomo pubblico per concorso esterno in associazione mafiosa; nel momento in cui giudica, il politico è stato – dopo l’inflizione della misura cautelare – assolto in primo e in secondo grado, ma il procedimento è ancora pendente. Nel giudicare l’onore nell’esercizio della carica ed il relativo profilo di risarcimento, quale osservazione deve prevalere? Il principio di non colpevolezza, suffragato da una doppia assoluzione? Oppure la pendenza di un processo, comunque non concluso, per gravi fatti di mafia? 7. Conclusioni – Considerati gli interessi in gioco ed il relativo bilanciamento, a parer di chi scrive l’onore specifico deve essere accordato solo in casi di assoluta trasparenza 49

Passo della già citata sentenza n. 3775/2010 del Tribunale di Torino .

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dell’operato della carica. Se le ipotesi “astratte” sopra considerate pregiudicano senz’altro il diritto ad ottenere il risarcimento, negli ultimi due casi “concreti” descritti è la presenza quantomeno del dubbio a dover condurre il giudice verso una negazione del risarcimento di tale voce di danno. Quel che conta è che l’onore comune, in presenza di un’accertata diffamazione, sia comunque tutelato. Ma qualora esista anche una effettiva – seppur minima – “ombra” sull’operato della carica, devono prevalere la libertà di stampa ed il diritto al dissenso, senza che l’una o l’altro possano essere implicitamente minacciati dalla tutela di un’onorabilità istituzionale inesistente, perlopiù fatta valere attraverso un’ulteriore sanzione economica a carico del giornalista. Naturalmente, il riconoscimento o meno di quella voce di danno dovrà essere giustificato da una seria motivazione; qui sta l’ultimo nodo da sciogliere: quando attori del processo sono soggetti eletti o rappresentanti del potere esecutivo, si rischia di sottoporre al giudice fatti normalmente idonei ad essere valutati esclusivamente a livello politico dall’opinione pubblica, stimolando così una possibile compromissione di giudizi che dovrebbero, invece, rimanere rigorosamente distinti. Rischio quest’ultimo ancor più tangibile se, come qui proposto, si accoglie un sindacato del giudice meritevole di giudicare – nella loro conformità o meno all’onore prescritto dalla Carta – comportamenti e vicende personali non strettamente giuridiche. Il rischio c’è, ma sono proprio il processo e le sue regole a fornire protezione all’indipendenza ed alla credibilità del giudice: quest’ultimo conosce i fatti che le parti gli portano innanzi; il suo sindacato, per legge (e fatte salve rarissime eccezioni inidonee a confutare il ragionamento qui proposto) si concentra sul petitum processuale, potendo egli conoscere solo le vicende descritte dai soggetti in causa. Nella valutazione dell’onore, così come nell’accordare o meno il relativo profilo risarcitorio “specifico", il giudice valuterà entro e non oltre il confine che le parti hanno tracciato nella descrizione dei fatti posti a tutela dei propri diritti. Vicende estranee al perimetro della narrazione processuale, per quanto politicamente altisonanti, rimarranno – de jure – sconosciute al giudice. L’uomo politico deve accettare di essere giudicato in merito all’onorabilità o meno del suo comportamento: dai cittadini, nella stragrande maggioranza dei casi; da un giudice, qualora egli pretenda tutela giurisdizionale, rivendicando perlopiù il diritto al c.d. onore specifico; chiaramente, il giudice valuterà con i mezzi – ed entro i rigorosi limiti – propri del processo e delle sue regole, ma non potrà astenersi dal farlo. Questo aspetto si lega inscindibilmente con il tema della motivazione della sentenza: la Cassazione ha più volte ripetuto che, in tema di risarcimento del danno accordato in via equitativa, il giudice di merito «non è poi tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo

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accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata»

sottolineando inoltre come «l'esercizio in concreto del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà indicando il processo logico e valutativo seguito»50.

Ebbene, nelle pronunce che si è avuto modo di esaminare, il giudice di merito non ha mai dato prova, nemmeno sommaria, del processo «logico e valutativo» seguito nella determinazione del danno da onore specifico, né la Cassazione è mai intervenuta a sindacare l’eventuale inidoneità della motivazione del giudice sul punto. Si conferma ancora una volta la sensazione che questa voce di danno – una volta accertata la diffamazione – sia riconosciuta aprioristicamente, senza una seria indagine sull’effettiva onorabilità del modo in cui si è esercitata la carica; un po’ come se alla voce “tiratura del quotidiano” fosse attribuito un valore numerico costante, completamente disancorato dalla realtà del singolo caso. Questo approccio, oltre a negare in radice qualunque razionalità della motivazione relativa a questa frazione di risarcimento, segna inoltre un vulnus nell’interpretazione costituzionalmente orientata, considerato che l’art. 54.2 sembra, puramente e semplicemente, non esistere nella “cassetta degli attrezzi” dei giudici di merito. Per questo sarebbe bene – da parte dei giudici – operare un ripensamento sui requisiti concretamente necessari alle motivazioni delle sentenze in casi analoghi a quelli sopra descritti: continuando con questa giurisprudenza, è la libertà di stampa e del giornalista a subire, surrettiziamente, una chirurgica nella forma, ma pesante nella sostanza, limitazione. Ed è la Costituzione, nell’opera di interpretazione che di essa risulta necessaria, ad essere menomata in alcuni suoi principi – quelli espressi dall’art. 54.2 Cost. – ingiustamente alieni dal ragionamento giudiziale. Si è soliti affermare, anche nella giurisprudenza51, che il rigore della critica verso il potere deve essere direttamente proporzionale all’importanza della carica pubblica: più è rilevante il ruolo istituzionale del soggetto, più intransigente deve risultare il controllo dell’opinione pubblica: un approccio “non costituzionalmente orientato” al c.d. onore specifico, privo di qualunque riferimento all’art. 54.2 Cost., non solo nega questa

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Cass. Civ., sez. II, 15.01.2000, n. 409; nello specifico del danno da diffamazione cfr. Cass. Civ., sez. III, 22.10.2009, n. 22190. 51 Cfr. Cass. Pen., sez. V., 16.05.2007, n. 29433: «(…) maggiore è il potere esercitato, maggiore è l'esposizione alla critica, perché chi esercita poteri pubblici deve essere sottoposto ad un rigido controllo sia da parte dell'opposizione politica che dei cittadini».

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affermazione, ma la rovescia senza mezzi termini, perché più alto è il prestigio del ruolo, più minacciata risulterà, economicamente, la libertà di stampa. L’esito del ragionamento sin qui condotto non può che essere il seguente: l’onore specifico può essere riconosciuto come voce di risarcimento: ma l’uomo pubblico deve “costituzionalmente” meritarselo. ** Dottorando di ricerca in diritto costituzionale italiano ed europeo, Università di Verona, XXVIII ciclo.

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E’ giunta l’ora di una legge sulle lobbies* di Tommaso Edoardo Frosini (22 febbraio 2015) 1. Il tema dei gruppi di pressione – ovvero le lobbies – è cruciale per il buon funzionamento della democrazia di tipo liberale, per il semplice fatto che a esso è consustanziale la massima garanzia possibile della trasparenza del processo decisionale pubblico. Nelle democrazie pluraliste, il fenomeno di gruppi organizzati di individui che si fanno portatori di interessi particolari presso il decisore pubblico, nel tentativo di orientarne le scelte, è senz’altro da ritenersi una realtà imprescindibile: quindi, il lobbismo rappresenta una componente legittima dei sistemi democratici. E valga, innanzitutto e soprattutto, l’esempio statunitense, dove l’attività di lobbying è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale, al punto da considerarla, come dicono gli americani, “as American as apple pie”. Peraltro, come noto, negli Usa il lobbying gode di protezione costituzionale al Primo Emendamento, quale libertà di parola per convincere il decisore pubblico: come sostenuto dalla Corte Suprema, a partire da U.S. vs. Harris del 1954 fino alla più recente (e nota) decisione Citizens United vs. Federal Election Commission del 21 gennaio 20101, che ha dichiarato incostituzionale la norma (art. 441b FECA 1971, modificato in BCRA 2002) che vieta(va) alle corporations e alle unions di finanziare, con propri fondi, le comunicazioni elettorali a favore di candidati alle primarie o alle elezioni generali. Va altresì detto, che sempre più spesso il decisore pubblico ha avvertito la necessità di acquisire informazioni e conoscenze da * Testo depositato presso la Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica in occasione della audizione, tenuta il 12 febbraio 2015, sui disegni di legge in tema di regolamentazione dei gruppi di interesse.

1 Su cui, v. J. Mazzone, Lobbying and American Law, in «Percorsi costituzionali», n. 3, 2012, p. 133 ss.

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parte di portatori di interessi particolari, e ciò soprattutto al fine di deliberare su questioni altamente tecniche o specialistiche: come avviene, per esempio, nelle indagini conoscitive presso le commissioni parlamentari. In tal senso, la dottrina ha evidenziato l’azione positiva esercitata dai gruppi di pressione nel processo decisionale, in quanto fornitori di elementi indispensabili per la comprensione dell’impatto di determinate scelte, sebbene molto spesso essi siano le cause di normative oscure o dalla difficile interpretazione2. In molti ordinamenti tale attività di pressione – ovvero di lobbying, per usare l’espressione inglese – svolta da gruppi organizzati verso i decisori pubblici è sottoposta a una precisa regolamentazione volta ad assicurare la trasparenza del processo decisionale o anche la partecipazione dei gruppi di pressione (che rispettano precise regole) al processo decisionale stesso. In tali ordinamenti (Stati Uniti, Canada, Israele, Francia, Gran Bretagna, Australia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lituania) 3 si è avvertita, con sfumature profondamente diverse tra loro, la medesima esigenza di rendere conoscibili a tutti chi sono e quali sono i gruppi di pressione, definendo un assetto di regole volte, quanto meno, ad assicurare la trasparenza delle decisioni. Le analisi di diritto comparato evidenziano come nei sistemi in cui il Parlamento è “forte” –nel senso che gioca un ruolo chiave nei processi politici– esista una regolamentazione della rappresentanza parlamentare delle lobbies; all’opposto, al Parlamento debole corrispondono interessi oscuri. In tal senso, si è proceduto a classificare e comparare i “modelli” normativi sulle lobbies, con ricaduta in punto di forma di governo, come: “regolamentazione-trasparenza” (Gran Bretagna e Canada), “regolamentazione-partecipazione” (Usa e UE), 2 Cfr. P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato, Giuffrè, Milano 2011

3 Per un’analisi di diritto comparato, v. i saggi pubblicati in «Percorsi costituzionali», cit. V. altresì il recente volume Lobbyists, Government and Public Trust. Implementing the Oecd Principles for Transparency and Integrity in Lobbying, vol. 3, OECD 2014

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“regolamentazione-strisciante” (Italia)4. Di sicuro interesse è il caso dell’Unione europea dove vi è, fin dal 2011, un Accordo interstituzionale per l’istituzione di un “registro per la trasparenza” per censire e controllare le organizzazioni, le persone giuridiche e i lavoratori autonomi impegnati nell’elaborazione e attuazione delle politiche dell’Unione 5. E ora il nuovo Accordo interistituzionale di fine 2014, incentiva un maggior numero di registrazioni e rende il sistema più vincolante. Sullo sfondo poi, c’è il Trattato di Lisbona, che all’articolo 11 prevede: «le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Uinione» e «mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile». Prendiamo ora il caso italiano, dove mancano regole organiche in materia mentre esistono delle disposizioni, “disperse” fra norme di vario genere, che in qualche modo si riferiscono ai gruppi di pressione e alla loro lecita azione di orientamento della decisione pubblica. Si pensi, per esempio, alle norme del regolamento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in materia di istruttoria legislativa, ovvero alle disposizioni relative all’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), che impongono il coinvolgimento di soggetti privati nella redazione dell’atto normativo. Tali disposizioni, tuttavia, non hanno avuto l’effetto di rendere palese il fenomeno lobbistico, né era il loro obiettivo quasi che in Italia si fatichi ad ammettere che le lobbies esistono; e questo anche perché si è mossi dalla preoccupazione che la disciplina dei gruppi di pressione possa equivalere alla loro legittimazione, dunque una curiosa ritrosia a 4 Cfr. P.L. Petrillo, op.cit., p. 88 ss. 5 Sul tema del lobbismo e la sua regolamentazione nella UE, v. S. Sassi, I rappresentanti di interessi nel contesto europeo. Ruolo e sinergie con le istituzioni, Giuffrè, Milano 2012; Id., Processo legislativo europeo e centri di influenza, in «Percorsi costituzionali», cit., p. 111 ss.

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riconoscere che il Re è nudo. Le lobbies sono divenute, di conseguenza, un vero e proprio tabù giuridico-costituzionale, un argomento noto alle cronache giornalistiche ma ritenuto non sufficientemente degno di essere sottoposto ad analisi giuridica. Va però evidenziata la regolamentazione a livello regionale, come la legge n. 61 del 2010 della Regione Abruzzo (“Disciplina sulla trasparenza dell’attività politica e amministrativa e sull’attività di rappresentanza di interessi particolari”), la quale a differenza delle altre due leggi regionali (quella della Toscana, n. 5 del 2002 e quella del Molise, n. 24 del 2004) non si rivolge soltanto ai consiglieri regionali ma anche ai “decisori pubblici”, estendendo l’attività di lobbying anche nei riguardi dell’amministrazione regionale6. Va altresì ricordata l’iniziativa assunta dal Ministero delle politiche agricole che, con D.M. n. 2284 del 2010, ha istituito il registro dei lobbisti presso lo stesso Ministero7. 2. Certo, nessuno ignora il fatto che le decisioni pubbliche assunte a tutti i livelli nel nostro sistema siano comunque il frutto di una negoziazione tra interessi differenti, la cui sintesi spetta all’Autorità chiamata a formalizzare la decisione. Ugualmente è noto che all’interno della grandi società operano direzioni generali competenti proprio in materia di lobbying (o, con espressione più “pudica”, di relazioni istituzionali) e che in Italia numerose sono le società il cui scopo principale è proprio l’esercizio del lobbying per conto di terzi soggetti. Tale attività, infatti, non soltanto richiede, per essere esercitata correttamente, una specifica competenza basata su conoscenze tecniche e scientifiche, ma ha assunto una sua funzione economica-sociale. Con la crisi dei partiti politici, tradizionali mediatori degli interessi della società civile presso le istituzioni pubbliche, tale fenomeno ha assunto una dimensione maggiore, ed è sembrato 6 Cfr. G. Macrì, Lobbies, in Digesto delle discipline pubblicistiche, 5°Aggiornamento, Utet, Torino 2012, p. 483

7 Cfr. P.L. Petrillo, Italy: The regulation of lobbying and the evolution of a cultural taboo, in Lobbyists, Government and Public Trust, cit., p. 187 ss.

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configurarsi quale “succedaneo” della rappresentanza politica, se non addirittura alternativa a essa. Il punto è delicato e non posso certo trattarlo qui e adesso. Credo, però, che occorra partire da questa constatazione, relativamente alla crisi dei partiti, e dal presupposto che l’attività di lobbying non solo è lecita ma è anche utile e preziosa per il decisore pubblico, perché strumento indispensabile per acquisire informazioni tecniche, altrimenti difficilmente comprensibili, e prevenire impatti economicamente e socialmente insostenibili delle decisioni che si vogliono adottare. Il lobbying opererebbe, dunque, quale infrastruttura sociale ed economica in grado di unire, fermo restando le proprie rispettive responsabilità, soggetti privati e decisori pubblici. La crisi che permea le istituzioni partitiche, che erano i normali collettori di interessi collettivi, sollecita un intervento legislativo in tal senso. Non si può infatti negare che l’attività dei portatori di interessi sia sempre esistita ed esista in qualsiasi società evoluta. L’obiettivo che si deve raggiungere è quello di rendere trasparenti le attività, le finalità e gli scopi, i mezzi umani e finanziari impiegati, i gruppi che muovono tali interessi. Lo scopo, quindi, non è quello di istituire una nuova figura professionale o di imporre sui gruppi di interessi nuovi e maggiori oneri, ma quello di razionalizzare un’attività già presente ma non regolamentata, per fornire al decisore pubblico uno strumento e un supporto chiaro e con obiettivi e finalità ben definite e, al tempo stesso, garantire ai cittadini il diritto di conoscere le ragioni (non solo politiche) sottese alla decisione pubblica. Peraltro, che oggi l’esigenza di “regolare gli sregolati”, per così dire, risulti senz’altro avvertita è dimostrato e confermato anche, e forse soprattutto, dalla critiche che vengono mosse all’azione oscura, in quanto «viaggiano a fari spenti, nella notte delle regole», delle lobbies, accusate di divorare l’Italia. Per poi specificare, opportunamente: «come se il lobbying fosse un’attività criminosa, e non invece un veicolo d’informazione per

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le assemblee legislative, nonché di partecipazione per le categorie cui si rivolge la decisione del legislatore» 8. Sono lontani gli anni, ovvero il clima culturale dell’epoca, e quindi superati i timori, che facevano dire a Carlo Esposito, nel 1959, che il gruppo di pressione «è un fenomeno che deve essere ostacolato, combattuto e non inquadrato nello Stato», perché se così non fosse si rischierebbe di «attribuire agli interessi egoistici, parziali, la possibilità e il diritto di farsi valere come interesse del tutto»9. Posizione che era indirizzata, per allora, a valorizzare il ruolo e la funzione dei soli partiti politici quale unico e autentico veicolo di relazione fra società e istituzioni. Oggi non è più così. La crisi che caratterizza, ormai da tempo, le istituzioni partitiche, sempre meno collettori di interessi collettivi, induce sempre più a riconoscere e legittimare l’aggregazione e la sintesi degli interessi, ammettendoli a un’istruttoria procedimentale formale. Con l’obiettivo di favorire una migliore compenetrazione con l’interesse pubblico per costruire una migliore decisione. In una battuta finale: la democrazia esige trasparenza e la trasparenza esige una legge sulle lobbies. 3. Vi sono stati numerosi tentativi di regolamentare i gruppi di pressione ma hanno avuto, finora, tutti esito negativo. Risalgono alla IX legislatura le prime proposte di legge volte a regolamentare l’attività professionale dell’esercente relazioni pubbliche. Nella XV legislatura sono state presentate sei proposte di legge, di cui una di iniziativa governativa: si tratta del ddl AS n. 1866, proposto dall’allora ministro per l’attuazione del programma di governo on. Santagata. Mi piace ricordare anche il

8 Così, M. Ainis, Privilegium. L’Italia divorata dalle lobby, Rizzoli, Milano 2012, p. 31

9 C. Esposito, Intervento al Convegno I partiti politici nello Stato democratico, ora in Id., Scritti giuridici scelti, vol. III Diritto costituzionale repubblicano, Jovene, Napoli 1999, p. 202

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progetto redatto dall’Isle nell’ambito della sua Scuola di scienza e tecnica della legislazione nel febbraio 2010 10. Adesso, nella XVII Legislatura, sono all’esame della Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica ben nove disegni di legge, la cui finalità è quella di riconoscere l’attività di lobbying. Non mi soffermo sui singoli provvedimenti; la prima impressione che si avverte, nel leggerli, è quella di un eccesso di regolamentazione. Come se la preoccupazione non fosse quella di favorire la presenza e il contributo dei gruppi di interesse nella decisione pubblica, ma piuttosto di “ingabbiarli” con una serie di regole fin troppo specifiche e di eccessivo dettaglio. Credo che non sia questo l’approccio giusto. Fare una legge che regolamenti l’attività dei gruppi di interesse vorrebbe dire prevedere poche ma significative regole, allo scopo di consentire una corretta e trasparente agibilità delle lobbies. Nei nove disegni di legge all’esame della Commissione Affari Costituzionali del Senato, ci sforza nel volere fornire una serie di definizioni analitiche dei rappresentanti e dei portatori di interessi particolari; dei decisori pubblici e financo dei processi decisionali pubblici nonché delle attività di rappresentanza degli interessi. Sarebbe sufficiente prevedere – come è stato fatto nel progetto Isle – che “attività di rappresentanza di interessi” è ogni attività diretta a orientare la formazione della decisione pubblica, svolta anche attraverso la presentazione di proposte, documenti, osservazioni, suggerimenti, richieste di incontri; e il “rappresentante di interessi” è colui che svolge l’attività prima indicata. Altro tema sul quale si incorociano i vari disegni di legge: l’autorità di controllo sull’attività dei rappresentanti di interessi particolari con l’istituzione di un registro pubblico. Addirittura si prevede (AS n. 806) la istituzione di una “Commissione parlamentare di controllo sull’attività dei portatori e dei rappresentanti di interessi particolari”, che è un po’ un paradosso visto che dovrebbe controllare coloro i quali interagiscono anche 10 Vedilo pubblicato su «Rassegna parlamentare», n. 2, 2010, p. 495 ss. 7


con i parlamentari. La soluzione più auspicabile è senz’altro quella di affidare il controllo a un organo terzo, quale per esempio l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ovvero l’Autorità nazionale anti corruzione. Anche se quest’ultima suona un po’ come una sorta di monito implicito nei confronti delle lobbies, come se fossero materia ascrivibile al fenomeno della corruzione. Un aspetto importante è quello delle incompatibilità: anche qui però i disegni di legge si esercitano in una serie di specificazioni fin troppo eccessive e paralizzanti, anche con complicati rinvii ad altre norme operanti nell’ordinamento (v. p.es. AS nn. 992, 1522, 1632). Penso che possa essere sufficiente prescrivere che i decisori pubblici, già definitivi nella legge, non possono svolgere attività di rappresentanza di interessi nei due anni successivi alla cessazione dell’incarico, del mandato ovvero dell’ufficio ricoperto. Vietando altresì l’attività di rappresentanza di interessi ai giornalisti, professionisti e pubblicisti. Altri aspetti possono essere messi in evidenza. Credo però che una legge sulla regolamentazione delle lobbies, oltre a essere assai opportuna, deve essere promozionale e non repressiva. Ovvero deve favorire le forme collaborative degli interessi privati con quelli pubblici per migliorare le decisioni da assumere, secondo il motto einaudiano “conoscere per deliberare”. E poi, una legge sulle lobbies, si ha motivo di ritenere che possa servire anche a rafforzare il ruolo del Parlamento: il quale, nello svolgere un’attività di mediazione fra la rappresentanza della volontà generale con il pluralismo sociale, «può ritrovare un ruolo centrale di prestazione di garanzia e di integrazione dell’ordinamento»11. Aggiungo: la rappresentanza politica è da ritenersi una sorta di macrocategoria nella quale confluiscono sia la rappresentanza parlamentare che la rappresentanza di interessi, secondo una declinazione costituzionale della sovranità popolare (art. 1, comma secondo, Cost.) e dell’effettiva partecipazione 11 Così, A. Manzella, La funzione di controllo, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Annuario 2000-Il Parlamento, Cedam, Padova 2001, p. 226

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all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma secondo, Cost.). Concludo: proprio la confluenza della rappresentanza parlamentare e quella di interessi all’interno della macrocategoria della rappresentanza politica deve portare a una regolamentazione legislativa delle lobbies, come qui finora auspicato, che si accompagni in maniera convinta a una regolamentazione legislativa dei partiti politici, in attuazione dell’art. 49 Cost. Rivitalizzare il patto fra cittadini e partiti, vuol dire indurre questi ultimi a rinunciare ad una parte del loro arbitrio, subordinandosi a regole certe e trasparenti, rendendo pubblici i loro statuti oltre che i loro bilanci, dando più potere ai loro iscritti ed elettori. I partiti per tornare a svolgere la loro funzione nella democrazia italiana, devono divenire effettivamente e autenticamente soggetti democratici. E’ sempre più diffusa e avvertita una nuova legalità non solo dei partiti politici, ovvero relativa ai comportamenti dei soggetti politici, ma anche sui partiti politici attraverso principi, regole, indirizzi e forme di controllo in grado di garantire un contesto più trasparente e responsabile all’azione politica di rilievo pubblicistico12. E’ questo un passaggio indispensabile, sia per rifondare un nuovo patto fra politica e società civile, sia per rilanciare la funzione costituzionale e sociale dei partiti politici. E ciò vale anche per le lobbies.

12 Cfr. T.E. Frosini, E’ giunta l’ora di una legge sui partiti politici? ora in Id., Forme di governo e partecipazione popolare, III ed., Giappichelli, Torino 2008

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Al crocevia del “caso Stamina” e dei suoi “problemi costituzionali” * PAOLO VERONESI** SOMMARIO: 1. Il “caso Stamina” come metafora di un problema italiano. – 2. Tra “libertà di cura” e “libertà di scelta della cura”. – 3. Il “metodo Stamina” nel quadro (costituzionale) del d.m. 5 dicembre 2006. – 4. Problemi di “consenso informato”. – 5. Segue: complicità o acquiescenza dei medici? – 6. Il ruolo dei giudici. – 7. Cronaca di un decreto legge che doveva risolvere la questione (e invece l’ha complicata). – 8. Il d.l. n. 24/2013 come ineludibile “fatto legislativo”? – 9. Segue: un problema di “merito scientifico” del decreto legge. – 10. Altri capitoli della “storia” e una “morale”.

1. Il “caso Stamina” come metafora di un problema italiano. Il “caso Stamina” pone ancora una volta l’ordinamento giuridico italiano di fronte a taluni suoi evidenti “cortocircuiti”; esso evidenzia altresì una serie di “nodi costituzionali” sui quali conviene indagare. In estrema sintesi, la vicenda prende le mosse dal diffondersi di una terapia “segreta” e non sperimentata, la quale utilizza e manipola cellule staminali di tipo mesenchimale per curare gravissime patologie neurologiche: essa produrrebbe – si sostiene – effetti mirabolanti, benché questi non risultino né adeguatamente documentati, né suffragati da ricerche scientifiche e da personale specializzato 1. Posto ciò, occorre dunque interrogarsi sulle vicende che 2 – nell’ordine – hanno consentito a un simile metodo (conviene ripeterlo) “segreto” di fare ingresso in un ospedale pubblico ed essere praticato anche in talune strutture private del tutto inidonee; dato luogo a terapie poste addirittura a carico del Servizio Sanitario Nazionale; incontrato la silenziosa collaborazione del personale medico (neppure a conoscenza di ciò che andava a inoculare); tollerato che, a quanto pare, fossero in tal modo conseguiti vantaggi economici; fatto credere (falsamente) ai pazienti e ai loro familiari che vi fossero elevate possibilità di guarigione dalle malattie; stimolato il Governo ad adottare un decreto legge ad hoc (che lo ha in parte avallato); indotto numerosi giudici ad assumere atteggiamenti favorevoli alla sua somministrazione anche dopo i provvedimenti ostativi delle autorità competenti e la richiesta di rinvio a giudizio di molti soggetti coinvolti nella vicenda. Sulle norme del già menzionato decreto legge, è stato addirittura promosso un giudizio di legittimità costituzionale (mirante ad * Contributo destinato agli “Scritti in onore di Gaetano Silvestri”. 1 Contra v. P. CENDON, Cellule staminali somministrati ai pazienti sofferenti di gravi malattie

neurologiche (parere pro veritate), in Dir. fam. e persone, 2013, 598, per il quale la scienza ufficiale non potrebbe contestare «secondo quanto risulta da non pochi riscontri, l’esistenza di una casistica “confortevole”». 2 Molte delle osservazioni fattuali qui di seguito riportate tratte dall’Avviso di conclusione indagini preliminari della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, 22 aprile 2014, reperibile al sito www.biodiritto.org.


ampliare le possibilità di utilizzo del trattamento) recentemente definito con una pronuncia di infondatezza (sentenza n. 274/2014). Con tutte le cautele e il rispetto che meritano la disperazione o il “diritto alla speranza”3 dei malati e di chi li assiste, qualcosa sembra dunque essersi inceppato nel modo in cui il nostro sistema giuridico-istituzionale ha affrontato la vicenda. Va quindi compreso cosa sia accaduto, e “perché” – dopo la “vicenda Di Bella” – ciò sia stato di nuovo possibile.

2. Tra “libertà di cura” e “libertà di scelta della cura”. Dal punto di vista costituzionalistico, la vicenda Stamina coinvolge – in prima battuta – il grande tema della “libertà di cura” e della “libertà di scelta delle cure” ex art. 32 Cost. Essa rende però necessario distinguere (di nuovo) l’ipotesi in cui la libertà in questione si traduca in un consapevole rifiuto delle terapie da quella in cui il singolo rivendichi invece il diritto a ottenere e ricevere le cure a lui più gradite 4. Intesa come “diritto a non curarsi”, la libertà in oggetto configura un diritto soggettivo che – non senza resistenze – appare ormai ampiamente riconosciuto 5. Il “diritto del malato a scegliere e ricevere le sole cure a lui gradite” può invece essere esercitato – nel “pubblico” o nel “privato” – alla sola precondizione che il richiedente ne possa sopportare integralmente i costi6. Anche in tali circostanze non si tratta però di una pretesa senza confini e controlli. Non bisogna infatti dimenticare che la salute è anche un “interesse della collettività”; ragione per cui le modalità attraverso le quali una terapia è proposta e somministrata devono tutelare la sicurezza, l’affidamento e la salute dei potenziali pazienti7. D’altro canto – e sempre per garantire i malati – non devono mai riscontrarsi fattispecie di reato né irregolarità amministrative di vario genere; occorre inoltre incassare un consenso correttamente informato del paziente (e non già un suo “assenso alla cieca”). In aggiunta, lo stesso Codice deontologico vieta che il medico si pieghi compiacente a qualsiasi richiesta del malato, né egli può adottare o diffondere pratiche terapeutiche segrete ovvero prive di idonea documentazione scientifica 8. Non si può quindi pretendere né l’adozione di politiche sanitarie, né la somministrazione di terapie sempre ed esattamente corrispondenti ai desideri dei singoli. Come la stessa Corte costituzionale ha del resto precisato nella sentenza n. 185/1998, 3 Evocato, ad esempio, dal Trib. di Trento, sez. lav., ord. 29 marzo 2013 e dal Trib. di Taranto, sez. lav., ord. 23-24 settembre 2013 (in www.biodiritto.org). Per una critica all’applicabilità di un tale e del tutto «presunto diritto alla speranza» nel caso di specie, cfr. M. FERRARI, Il diritto alla speranza del paziente legittima la disapplicazione della legge? Principi e responsabilità a confronto in tema di “cure compassionevoli”, in Resp. civ. e prev. 2014, § 2. 4 A. SANTOSUOSSO, Un altro caso Di Bella?, in Minorigiustizia, 2013, n. 2, 250. 5 Non mancano però i problemi: si pensi soltanto ai tortuosi percorsi dei casi Welby ed Englaro. Per una dettagliata analisi di quest’ultima vicenda si rinvia, ex plurimis, a C. CASONATO, Consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza della Cassazione, in Quad. cost., 2008, 545 ss. 6 A. SANTOSUOSSO, op. cit., 252.


«non possono ricadere… sul SSN le conseguenze di libere scelte individuali circa il trattamento terapeutico preferito, anche perché ciò disconoscerebbe il ruolo e le responsabilità che competono allo Stato, attraverso gli organi tecnico-scientifici della sanità, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione d’efficacia, e di non nocività, delle sostanze farmaceutiche e del loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica»9. In aggiunta, il diritto alla salute è poi condizionato dalle risorse organizzative ed economiche concretamente disponibili 10; il che equivale a dire che va sempre protetto anche il diritto di altri malati a ottenere ulteriori trattamenti “che costano”.

3. Il “metodo Stamina” nel quadro (costituzionale) del d.m. 5 dicembre 2006. In base a queste premesse, le modalità mediante le quali il metodo Stamina ha fatto ingresso ed è stato praticato negli “Spedali pubblici di Brescia” – oltre che in alcune strutture private – evidenziano un approccio completamente “fuori asse”. Tanto per chi ha ricevuto le cure a carico del SSN, tanto per chi ha pagato le terapie di tasca propria, la somministrazione del trattamento ha palesato una serie di consistenti problemi (coinvolgenti anche profili di stretto diritto costituzionale). In primo luogo, l’Accordo di collaborazione tra gli Spedali bresciani e la Stamina Foundation era finalizzato a consentire il ricorso alla terapia nelle sole ipotesi previste dal d.m. 5 dicembre 200611. Tale provvedimento ammette l’“uso anticipato” di terapie geniche e cellulari in casi di urgenza ed emergenza che pongano il paziente nell’immediato pericolo di vita o in presenza di una grave patologia a rapida progressione; ciò anche al di fuori di una loro compiuta sperimentazione ma allorché vi sia almeno una minima base scientifica circa la loro efficacia. “Cure compassionevoli” s’è detto, anche se – a ben 7 Su tali profili v., ad esempio, D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana. Profili sistematici, Milano, 2002, 141 s. Anche per questo si rivela debole la proposta di adottare, nel caso, il criterio della “sfiducia costruttiva” (P. CENDON, op. cit., 604 s.), circoscrivendo cioè il potere e il diritto di parola dei contrari alla pratica di determinate cure non ortodosse ma potenzialmente foriere di benefici: è proprio quest’ultimo profilo che – come si è accennato e meglio si dirà – risulta del tutto carente nella circostanza. Per meglio comprendere lo spessore di questi pericoli nella vicenda de qua conviene consultare un esperto: C.A. REDI, Il trattamento sanitario di una bambina con cellule staminali. L’autorizzazione del giudice alla terapia e un punto di vista scientifico sullo stato dell’arte, in Minorigiustizia, 2013, 260 ss. 8 Art. 13 del Codice deontologico. 9 Punto 10 del Considerato in diritto. 10 V., per tutte, le sentt. n. 455/1990, n. 218/1994, n. 226/2000. 11 Si tratta del c.d. decreto Turco, successivamente reiterato dal ministro Fazio (c.d. decreto TurcoFazio). Nel mentre si licenzia questo scritto si apprende che – in data 22 gennaio 2015 – la ministra Lorenzin ha firmato un nuovo d.m., recante “Disposizioni in materia di medicinali per terapie avanzate preparati su base non ripetitiva”, che espressamente abroga il d.m. del 2006 e detta una disciplina assai più rigorosa della materia (garantendo, soprattutto, più razionali controlli e una maggiore sicurezza per i pazienti).


vedere – nel d.m. non si utilizza questa espressione, delineandosi invece la “controllata” possibilità di un utilizzo “precoce” di terapie ancora non del tutto validate (da autorizzarsi perciò di volta in volta), solo se si riscontri la contemporanea presenza di altre condizioni essenziali. Queste ultime traducono in forma normativa accorti bilanciamenti tra diritti e interessi di rango costituzionale; equilibri che non potrebbero dunque essere superati neppure mediante una legge12. Quali sono dunque tali ulteriori e ineliminabili presupposti? La normativa prevede che vi sia, nell’ordine, una previa autorizzazione dell’AIFA; la disponibilità di dati scientifici pubblicati su accreditate riviste internazionali; la responsabilità del medico prescrittore e del direttore del laboratorio di produzione dei medicinali; che sia acquisito il consenso informato del paziente; che intervenga il parere favorevole del Comitato etico «con specifica pronunzia sul rapporto favorevole fra benefici ipotizzabili ed i rischi prevedibili del trattamento proposto, nelle particolari condizioni del paziente»; che siano rispettati determinati requisiti di qualità farmaceutica (trattandosi di prodotti preparati “non a fini di lucro” e in laboratori autorizzati); che il trattamento sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o in struttura pubblica o a essa equiparata. In sintesi, le c.d. “cure compassionevoli” costituiscono terapie per le quali esiste già una compiuta evidenza preclinica di efficacia e un’accettabile evidenza clinica di sicurezza13; esse esigono inoltre che una valutazione “in concreto” ne renda quanto meno plausibile la somministrazione nel caso. Solo rispettando tali accorgimenti il paziente non viene pertanto trasformato in una cavia, in ossequio ai suoi diritti fondamentali e al principio di dignità umana14: anche se non ci fossero più speranze non sarebbe infatti giustificabile fornire ai malati una qualunque terapia. Da qui il primo problema: il metodo Stamina si colloca chiaramente ben al di fuori dei confini disegnati da questo essenziale “recinto” e dai bilanciamenti che l’hanno “edificato”. A seguito di ispezioni dei NAS, l’AIFA ha perciò vietato di effettuare prelievi, trasporti, manipolazioni, culture stoccaggi e somministrazione di cellule umane presso gli Spedali civili di Brescia, in collaborazione con Stamina Foundation, essendosi riscontrate gravi violazioni proprio in merito ai requisiti di cui al d.m. appena richiamato 15. Il punto d’equilibrio tracciato tra i vari diritti coinvolti nel caso – così faticosamente delineato dal provvedimento del 2006 – non sarebbe stato dunque rispettato.

12 Da qui i dubbi di legittimità da taluno nutriti nei confronti del d.l. n. 24/2013 (c.d. decreto Balduzzi), il quale avrebbe disatteso proprio gli “equilibri” menzionati nel testo. 13 V. le considerazioni della sen. E. Cattaneo, nell’ambito dell’Indagine conoscitiva in corso presso la Comm. Igiene e Sanità (12^), seduta del 12 febbraio 2014. 14 In questo caso-limite valgono insomma e senz’altro le osservazioni di G. SILVESTRI, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in Rivista AIC - Archivio (14 marzo 2008), 2, per il quale la dignità – concetto indubbiamente controverso – «non è l’effetto di un bilanciamento» (e non è dunque «suscettibile di riduzioni per effetto di un bilanciamento»), costituendo invece «la bilancia medesima» con la quale procedere a simili operazioni. 15 Ord. 15 maggio 2012, n. 1/2012, reperibile al sito www.biodiritto.org.


Il TAR Lombardia ha conseguentemente respinto i ricorsi proposti per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’ordinanza dell’AIFA 16. In particolare, il TAR riscontra (sulla scia dei NAS e dell’AIFA), la mancanza di dati scientifici pubblicati su accreditate riviste internazionali 17 e la palese irregolarità dei pareri forniti dal Comitato etico dell’Ospedale sul rapporto rischi/benefici del trattamento con riguardo alle condizioni del singolo paziente18. Oltretutto, vengono opportunamente sottolineate la mancata comunicazione all’AIFA dei dati disponibili, l’irregolarità nella tracciabilità dei prodotti, le carenze nel rapporto tra trattamento terapeutico e protocollo di ogni paziente, la mancata conoscenza della metodica per la produzione e l’uso terapeutico delle cellule mesenchimali utilizzate. Ove si palesasse la necessità di proseguire i trattamenti viene quindi consigliata la somministrazione di cellule prodotte da una Cell factory regolarmente autorizzata (come peraltro già suggerito anche dall’AIFA).

4. Problemi di “consenso informato”. Il caso Stamina solleva però problemi anche su un altro versante di rilievo costituzionale. Come già ricordato, il diritto alla salute esige che sia sempre e comunque garantito il “consenso informato” del paziente (espressamente richiesto anche dal citato d.m.)19. La Consulta ha quindi più volte affermato che tale diritto si traduce nella «consapevole adesione» del malato al trattamento sanitario proposto dal medico; la sua base normativa è stata rinvenuta negli artt. 2, 13 e 32 Cost., ma anche in numerose discipline nazionali e internazionali che variamente fungono da norme interposte (ex art. 117, comma 1, Cost.)20.

16 TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, sez. II, ord. 5 settembre 2012, in www.biodiritto.org. 17 Si noti che il decreto declina tutto, significativamente, al plurale La Procura afferma perciò che si sarebbe operato in assenza di qualsivoglia pubblicazione scientifica atta a identificare le caratteristiche del metodo Stamina e a renderlo consolidato e riproducibile (Avviso di conclusione indagini preliminari, cit., 11). A tal proposito, il TAR rileva infatti la disponibilità di un unico articolo di tre pagine a firma di un medico e socio della Stamina Foundation, apparso su una rivista coreana di cui non è affatto chiaro il credito scientifico: v. A. SANTOSUOSSO, op. cit., 258. 18 Il Comitato – sia detto per inciso – si è inoltre pronunciato sulla base di informazioni sbagliate: dando cioè per esistenti quattro brevetti americani mai rilasciati; senza conoscere i dettagli del metodo in questione; confondendo l’esistenza di scritti scientifici sull’uso delle cellule mesenchimali con l’opportunità di avallare un metodo del tutto sconosciuto solo perché attinente alle stesse cellule; senza prendere in considerazione la letteratura che mette in luce il rischio di effetti perniciosi provocati dall’uso terapeutico di cellule mesenchimali (come sottolineato dalla sen. Cattaneo durante l’audizione dei rappresentanti del Comitato etico bresciano nell’ambito dell’Indagine conoscitiva già citata, seduta del 18 febbraio 2014). 19 Sul tema v. per tutti C. CASONATO, Il consenso informato. Profili di diritto comparato, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2009, 1052 ss. 20 Specie dopo le note sentt. n. 347 e n. 348/2008 (e le successive che a esse si richiamano).


Nella sent. n. 438/2008 la Corte precisa anche meglio quale sia il contenuto essenziale di un consenso effettivamente informato21. Tale prerogativa costituisce la sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute. Ogni individuo ha il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto e delle eventuali terapie alternative che gli si prospettano. Informazioni che devono essere le più esaustive possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente, e, quindi, la sua stessa libertà personale 22. In altri termini, il consenso liberamente informato impone ed esige valide garanzie sia per il momento della manifestazione di volontà da parte del malato, sia nell’iter di formazione della volontà stessa, sia per l’esigenza che l’informazione sia davvero completa, non reticente e comprensibile. In base a quanto sta significativamente emergendo dall’Indagine conoscitiva in corso presso la 12^ Commissione (Igiene e Sanità) del Senato – oltre che da quanto denunciato nell’Avviso di conclusione delle indagini preliminare svolte dalla Procura della Repubblica di Torino – risulta tuttavia che, nella vicenda, queste prescrizioni non sono state affatto osservate. Dalle cartelle cliniche risulterebbero infatti dichiarazioni di consenso non correttamente formulate 23, essendosi altresì affermato che ai pazienti non sarebbe stata fornita un’adeguata informazione circa la natura dei trattamenti in questione e i possibili rischi a essi connessi 24. Contra quanto prescritto dal citato d.m., sarebbero poi stati curati pazienti affetti da patologie per le quali esistono validi metodi alternativi, mentre alcuni malati sottoposti al trattamento soffrivano in realtà di patologie a lenta progressione e non correvano quindi pericoli “immediati” 25. Occorre del resto chiedersi come sarebbe stato comunque possibile raccogliere un consenso effettivamente informato posto che gli stessi medici del Servizio pubblico che hanno inoculato le sostanze in discorso non conoscevano la composizione di ciò che andavano a somministrare. Quale consenso informato può inoltre esservi stato se – come emerge da ben due valutazioni di qualità – mentre si ribadiva ai pazienti che sarebbero state loro inoculate cellule staminali, è risultato invece che, almeno in taluni casi, quanto utilizzato non poteva affatto qualificarsi tale né appariva in grado di generare cellule neuronali26? 21 Su tale pronuncia v. R. BALDUZZI - D. PARIS, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giur. cost., 2008, 4953 ss. 22 Punto 4 del Considerato in diritto. 23 Così il Gen. Piccinno (dei NAS) nell’audizione svolta nella seduta del 29 gennaio 2014. 24 Cfr. l’Avviso di conclusione indagini preliminari, cit., 11. 25 Cfr. quanto sostenuto dalla sen. E. Cattaneo nella seduta del 18 febbraio 2014. La circostanza è confermata anche dall’Avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., 11, ove si sottolinea che molte delle patologie trattate (Parkinson, MSA, SMA di tipo adulto ecc.) sono a decorso cronico e lentamente invalidante – perciò inidonee a giustificare il ricorso a cure compassionevoli – mentre alcune di esse conoscono efficaci terapie di tipo alternativo. 26 Anche di questo s’è discusso nell’Indagine conoscitiva della Commissione Igiene e Sanità del Senato. Si v. anche l’Avviso di conclusione indagini preliminari, cit.


Già prima facie non parrebbe insomma rispettato quanto la Corte costituzionale ha stabilito essere il nerbo del diritto fondamentale a un consenso effettivamente consapevole, il quale costituisce il frutto «di un processo complesso, che presuppone un’informazione la più ampia possibile»27.

5. Segue: complicità o acquiescenza dei medici? Problemi ancora più gravi sembrano inoltre scaturire dall’azione svolta dai medici ospedalieri coinvolti nella somministrazione del metodo. Nella sent. n. 282/2002 la Corte ha infatti stabilito che, in quanto «la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione»28. Si tratta di criteri e principi che la Corte riscontra essere stati correttamente recepiti anche dal Codice deontologico all’epoca in vigore (e poi travasati nell’art. 13 del Codice approvato nel 2006 e nello stesso articolo di quello entrato in vigore nel 2014): in tal senso si vedano specialmente le prescrizioni per cui il medico è tenuto a un’adeguata conoscenza delle caratteristiche d’impiego dei mezzi terapeutici, mentre sono conseguentemente vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non supportati da adeguata documentazione clinico-scientifica o caratterizzati dalla segretezza. Come risulterebbe dai già menzionati lavori della Commissione Igiene e Sanita del Senato e dalle indagini torinesi, i medici di Brescia avrebbero invece accettato di non conoscere quanto andavano iniettando ai loro pazienti. Nelle stesse cartelle cliniche dei malati non è così mai stato indicato cosa veniva esattamente somministrato 29. E ciò a tutela dell’intutelabile segretezza del metodo. Nessuno dei criteri ribaditi dalla Corte in punto di autonomia e di responsabilità dei medici sembra perciò rispettato: questi ultimi non hanno infatti operato le loro scelte in completa autonomia; non hanno rispettato l’obbligo di rifarsi a un’adeguata conoscenza dei mezzi terapeutici utilizzati; non hanno conformato il loro comportamento a evidenze metodologicamente fondate; non hanno rispettato il divieto di collaborare in alcun modo con terzi “non medici” nel settore delle c.d. pratiche non convenzionali 30; hanno violato il divieto di adottare, somministrare e diffondere “terapie segrete” 31. Anche dalla 27 Cfr. l’audizione del Prof. Salvatore Amato alla Commissione Igiene e Sanità del Senato (seduta del 28 maggio 2014). 28 Punto 4 del Considerato in diritto. 29 Dichiarazioni rese dal Prof. Pani (Direttore Generale dell’AIFA) nella seduta del 29 gennaio 2014 della Commissione Igiene e Sanità del Senato. 30 Art. 15, Codice di deontologia medica 2006 e 2014. 31 Art. 13, Codice di deontologia medica 2006 e 2014.


metabolizzazione di queste circostanze è quindi scaturita la lettera spedita da nove medici degli Spedali civili di Brescia al Commissario straordinario del relativo nosocomio, con la quale essi chiedono («a tutela della loro dignità») di uscire dal gruppo che procede ai trattamenti32.

6. Il ruolo dei giudici. Attivati d’urgenza ex art. 700 c.p.c. da malati, parenti o amministratori di sostegno che chiedevano di continuare o d’iniziare la terapia, come hanno dunque reagito i giudici ordinari a fronte del provvedimento dell’AIFA poi confermato dal TAR? Le loro ordinanze sono assai eterogenee; ciò ha inoltre creato nuovi problemi, specie sul fronte delle «disparità di trattamento derivanti dal possibile diverso esito dei ricorsi proposti in via d’urgenza» 33. Da qui, dunque, il fioccare di una frammentata galassia di criteri decisionali, il progressivo sgretolamento del principio di certezza del diritto, le continue insidie al principio di uguaglianza e di non discriminazione, la completa espulsione del metodo scientifico dal novero dei ragionamenti esplicitati da molti giudici, i pericoli per lo stesso diritto alla salute dei pazienti. Nel complesso, è possibile classificare le pronunce giurisdizionali appena evocate per “grandi famiglie” d’appartenenza 34. Alcune decisioni hanno così sostanzialmente disatteso le aspettative dei ricorrenti, rigettando in toto i loro ricorsi oppure disponendo l’avvio o la prosecuzione dei trattamenti utilizzando cellule manipolate in laboratori ufficiali secondo le procedure espressamente autorizzate dall'AIFA. All’estremo opposto, una buona parte dei giudici si è invece dimostrata favorevole all’utilizzo dell’originale protocollo Stamina, ordinando perciò la somministrazione di cellule processate ed elaborate secondo tale (pur “misteriosa”) metodica. Una soluzione “intermedia” è invece consistita nel disporre che l’ospedale resistente richieda alla cell-factory che riterrà di individuare le cellule staminali mesenchimali prodotte secondo la metodica elaborata da Stamina Foundation» (con l’obbligo del mantenimento del segreto da parte dei tecnici). Si tratta insomma di pronunce tra loro incongruenti e (spesso) sorprendentemente diverse dalla decisione adottata dal TAR di Milano-Brescia. Ad esempio, in molte di queste pronunce la singola pubblicazione scientifica (non meglio precisata) è ritenuta condizione sufficiente per dar luogo alla deroga di cui al d.m. del 2006 35; si dà inoltre e comunque per esistente un consenso effettivamente informato dei pazienti; si afferma che il medico 32 Spedita il 20 gennaio 2014 e protocollata il 21 dello stesso mese. 33 G. D’AMICO, Il volto compassionevole del diritto e la dura scientia. A proposito del “metodo Stamina”, in Quad. cost., 2013, 422. 34 Per un’analisi sistematica di questa giurisprudenza v. M. TOMASI, Il diritto alla salute fra comprensione del bisogno e ragioni della scienza: note a margine della “vicenda Stamina”, in Rass. dir. pubbl. europeo, 2013, 63 ss. ed E. FALLETTI, La giurisprudenza sul “caso Stamina”, in Fam. e dir., 2014, 609 ss. 35 Che questo elemento sia stato del tutto trascurato dai tribunali che hanno accolto i ricorsi lo afferma altresì M. FERRARI, op. cit., § 1.5.


prescrivente può essere (ad esempio) un pediatra; si usano come prove dell’efficacia della cura sia un video che attesterebbe il miglioramento dei pazienti trattati secondo la metodica, sia le sole dichiarazioni dei pazienti o dei loro rappresentanti, senza alcuna ulteriore verifica o consulenza tecnica che avvalori questi approdi; rilevanza decisiva viene inoltre attribuita a «tangibili, se pur lievi, miglioramenti» riscontrati nel paziente 36 o a un «rallentamento del decorso della patologia» 37, senza preoccuparsi della difficoltà di collegare effettivamente questi fenomeni alla somministrazione del metodo.

7. Cronaca di un decreto legge che doveva risolvere la questione (e invece l’ha complicata). Proprio per ovviare all’evidente disparità di trattamento causata dalle discordanti decisioni giurisdizionali appena menzionate, il Governo è intervenuto adottando il citato d.l. n. 24/2013 (convertito poi dalla legge n. 57/2013) 38. Piuttosto che chiarire la cornice giuridica della vicenda, questo decreto ha però finito (suo malgrado) per complicarla. Lo prova quanto accaduto anche dopo la sua emanazione: le decisioni dei giudici ex art. 700 c.p.c. hanno infatti continuato a distribuirsi secondo lo “schema” già analizzato supra, dando addirittura luogo a un sensibile aumento delle pronunce più favorevoli alla metodica39. Non solo: l’intento del d.l. n. 24/2013 di limitare la prosecuzione della terapia solo per i trattamenti già “positivamente” iniziati al momento della sua entrata in vigore, è stata vanificata da molte pronunce giudiziali successivamente adottate in via d’urgenza (generando, in aggiunta, un giudizio di legittimità costituzionale inerente a questi stessi confini temporali). In sede di conversione del decreto è stato inoltre inserito un comma 2-bis che prevedeva l’obbligo di dare avvio a una sperimentazione clinica della durata di 18 mesi relativamente all’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali. Ciò «anche in deroga alla normativa vigente», superando così tutta la fase d’indagine pre-clinica e stanziando i relativi finanziamenti per il 2013 e il 2014 40. Se è vero che «la promozione di una sperimentazione clinica per tastare l’efficacia, ed escludere collaterali effetti nocivi, di un nuovo farmaco non consente, di regola, di porre anticipatamente a carico di strutture pubbliche la somministrazione del farmaco medesimo… per evidenti motivi di tutela della salute, oltre che per esigenze di corretta utilizzazione… dei fondi e delle risorse del SSN» 41, non pare affatto che il legislatore si sia 36 Trib. di Matera, sez. lav., ord. 8-9 ottobre 2012, in www.biodiritto.org. 37 Trib. di Venezia, sez. lav., ord. 30-31 agosto 2012, www.biodiritto.org. 38 Sulle vicende di approvazione del decreto, e sulle modifiche sui esso è stato progressivamente sottoposto, v. G. D’AMICO, op. cit., 422. 39 V., ad esempio, Trib. Di Chiavari, ord. 10 giugno 2013; Trib. di Trento, ord. 4 luglio 2013; Trib. Di Messina, sez. lav., 13 settembre 2013; Trib. di Taranto, ord. 23-24 settembre 2013; Trib. di Asti, ord. 12 novembre 2013; Trib. di Roma, sez. lav., 18 novembre 2013, n. 128057, fino a Trib. di Marsala, ord. 11 aprile 2014 (tutte in www.biodiritto.org).


ispirato a simili criteri nell’autorizzare la sperimentazione di un protocollo così controverso42. A parte le reazioni preoccupate del mondo scientifico nazionale e internazionale – anche la rivista Nature si è occupata a più riprese della vicenda con accenti a dir poco critici43 – quanto stabilito dal d.l. (e dalla relativa legge di conversione) ha alimentato dunque un’ulteriore serie di questioni giuridico-costituzionali piuttosto complesse. In primo luogo, occorre chiedersi se (in astratto) davvero esistessero – ex art. 77 Cost. – i presupposti per l’adozione di un decreto legge dotato degli specifici contenuti di cui s’è detto. La risposta dev’essere probabilmente affermativa, visti i contrastanti provvedimenti d’urgenza a cui il decreto intendeva porre rimedio, oltre alla marea montante presso l’opinione pubblica, opportunamente mobilitata da sedicenti scoop giornalistici. In questo senso si è del resto implicitamente espressa anche la sent. n. 274/201444. Il decreto rispetta tuttavia anche il requisito dell’“omogeneità? Esso contiene, a ben vedere, due oggetti nettamente distinti e del tutto incongruenti tra di loro, pur se entrambi riferibili al preambolo e al titolo alquanto generico del provvedimento (“Disposizioni urgenti in materia sanitaria”)45. Un simile (e strategico) “titolo-etichetta” avrebbe però potuto giustificare l’inserimento nel decreto di una serie di discipline di assai variegato tenore; si tratta peraltro di un fenomeno assai noto, sul quale occorre oggi prestare forse più attenzione che in passato. A tal proposito, è certo vero che la giurisprudenza costituzionale in materia di “illegittimità per disomogeneità” dei provvedimenti provvisori con forza di legge ha avuto 40 Ai sensi del d.l., il Fondo sanitario nazionale avrebbe dovuto vincolare fino a un milione di euro per l’anno 2013 e fino a due milioni di euro per l’anno 2014. La vicenda della sperimentazione si è finalmente conclusa con la “presa d’atto” ministeriale (datata 4 novembre 2014) delle conclusioni espresse dal Comitato scientifico nominato il 4 marzo 2014, il quale – all’unanimità – ha bocciato il “metodo Stamina”. In particolare, il Comitato ha messo in luce e motivato nel dettaglio l’“inadeguata descrizione del metodo”, l’“insufficiente definizione del prodotto”, i “potenziali rischi per i pazienti” e “altri rischi di fenomeni di sensibilizzazione anche gravi (ad esempio encefalomielite)”. Analogo parere era stato espresso dal precedente Comitato d’esperti: il TAR Lazio, sez. III-quater, ord. 4 dicembre 2013, in via cautelare, aveva tuttavia accolto il ricorso presentato dai sostenitori di Stamina, sospendendo il decreto di nomina del Comitato stesso e il suo parere negativo, affermando che taluni fra i suoi componenti si erano già espressi criticamente, in passato, sull’efficacia del metodo stesso. E’ tuttavia parso evidente che la decisione del TAR Lazio ha abbandonato i parametri tipici della valutazione scientifica, «a favore di quelli più prettamente giuridici di imparzialità assoluta propri della tradizione processuale»: E. FALLETTI, op. cit., 615. 41 Così nella sent. n. 274/2014, punto 6 del Considerato in diritto. 42 Lo rimarca G. SERENO, Il “caso Stamina” all’esame della Corte costituzionale: un esito condivisibile sorretto da una motivazione lacunosa, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (gennaio 2015), 5. 43 Si v. gli articoli ospitati sul sito www.biodiritto.org 44 Punto 6 del Considerato in diritto. 45 Il d.l. n. 24 tornava infatti a occuparsi del «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» e – appunto – dell’«impiego di medicinali per terapie avanzate».


finora a oggetto l’introduzione di emendamenti in corso di conversione 46. Tuttavia, nella sent. n. 22/2012 la Corte – più in generale – «collega il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti di cui all’art. 77, comma 2, Cost., a un’intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare»47. In base a queste asserzioni, occorre quindi chiedersi se sia davvero (e ancora) sufficiente – come accade proprio nel d.l. n. 24/2013 – intitolare un decreto legge in modo estremamente generico per poterlo poi riempire di contenuti visibilmente diversi, oltre che agganciati a casi straordinari di necessità e d’urgenza del tutto separati e autonomi. Esiste insomma nel d.l. n. 24/2013 – come prescritto nella sentenza n. 22/2012 – «il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente e il “caso” [al singolare, n.d.r.] che lo ha reso necessario»? O il decreto de quo è stato in realtà trasformato «in una congerie di norme assemblate soltanto da mera causalità temporale», posto che «il presupposto del caso straordinario di necessità e urgenza [ancora al singolare, n.d.r.] inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario… fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno» 48? Il d.l. n. 24 è insomma (e davvero) un “tutto unitario”? La semplice urgenza di provvedere in più casi per nulla connessi tra loro – neppure da quella parentela già giustificata dalla Corte per i decreti c.d. “milleproroghe”, ove è pressante l’esigenza “unitaria” di approntare provvisori «interventi regolatori di natura temporale»49 – può ancora legittimare l’adozione di decreti legge patchworks? E’ probabile che il d.l. n. 24 potesse comunque superare anche questo vaglio, ma il dubbio di legittimità che esso solletica – e che nessun giudice a quo ha proposto – è ulteriormente avvalorato da un significativo passaggio della più recente sent. n. 32/2014. Citando espressamente l’appena menzionata pronuncia del 2012 – e quindi confermando indirettamente che essa può leggersi anche in questa prospettiva 50 – la Corte afferma infatti che i «provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo… di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità» 51. Sono forse questi i primi

46 Cfr., ad esempio, le recenti sentt. n. 22/2012 e n. 32/2014. 47 Punto 3.3 del Considerato in diritto. 48 Punto 3.3 del Considerato in diritto. 49 Sent. n. 22/2012, punto 3.4 del Considerato in diritto. 50 Che la disomogenità illustrata nella sent. n. 22/2012 potesse leggersi in questo senso è opportunamente sottolineato da P. CARNEVALE, Giuridificare un concetto: la strana storia della “omogeneità normativa”, in www.federalismi.it (11 luglio 2014), 10. 51 Punto 4.1 del Considerato in diritto.


accenni a un ulteriore definirsi della giurisprudenza costituzionale sull’art. 77 Cost., la quale potrebbe, in futuro, travolgere decreti legge analoghi a quello rilevante nel caso 52?

8. Il d.l. n. 24/2013 come ineludibile “fatto legislativo”? Per quanto attiene più precisamente al suo profilo di merito, il d.l. n. 24/2013 ha invece sollecitato un dubbio di legittimità costituzionale per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Come già ricordato, esso limita infatti il diritto ad accedere al trattamento con il metodo Stamina solo a coloro che – nell’ordine – hanno già iniziato a riceverlo, a chi ha ottenuto decisioni in tal senso dell’Autorità giudiziaria pur non avendolo ancora iniziato, a coloro che si sono sottoposti a prelievo o per i quali si è già proceduto a prelievo da donatore; esso nega invece questa possibilità a chi si sia attivato solo dopo l’ordinanza dell’AIFA 53. Per giustificare ciò, nella “Nota illustrativa” del decreto si fa esplicito riferimento alla necessità di superare lo stato d’angoscia di chi ha iniziato la terapia e spera perciò nei suoi esiti positivi, e così pure all’esigenza di dare applicazione al principio etico, largamente seguito nella sanità, tale per cui un trattamento sanitario già avviato che non abbia provocato gravi effetti collaterali non deve essere interrotto. Se queste sono le (criticabili) premesse del provvedimento – esso configurerebbe infatti un’eccezione a una disciplina che è già eccezionale – a molti non sono parsi tuttavia chiari i motivi per cui il già evocato “diritto alla speranza” dovrebbe valere solo per chi abbia avuto un maggior tempismo nel richiedere la somministrazione della cura. La distinzione tra l’una e l’altra categoria di pazienti avverrebbe dunque in base a un criterio che nulla a che vedere con la salute dei malati medesimi, bensì in ragione di un mero fatto occasionale e accidentale (relativo ai “tempi” della richiesta e magari anche a quelli di emersione della patologia). Occorre inoltre chiedersi se rilevi anche in questo caso un’argomentazione che la Corte ha già speso nella già citata sentenza n. 185/1998 54. L’avvio di una sperimentazione gratuita del cd. “cocktail Di Bella” su alcuni pazienti – affermò la Corte – costituisce un «fatto legislativo» che ha una sua oggettività tale da differenziarlo da un qualsiasi «mero fatto sociale spontaneo». Esso è perciò «produttivo di aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute», legittimando quindi le pretese di chi è rimasto escluso dalla 52 E’ chiaro che decreti legge ab origine omogenei faciliterebbero il controllo sull’esistenza dei loro presupposti. A chi obiettasse che ciò si tradurrebbe in un’inutile perdita di tempo, potrebbe opporsi che non dovrebbe essere difficoltoso, per il Governo, adottare tanti decreti quante sono le emergenze da contrastare. In senso analogo si v. G. SILVESTRI, Alcuni profili problematici dell’attuale dibattito sui decreti legge, in Pol. dir., 1996, 430, a proposito di chi allora contestava la necessità di limitare i poteri emendativi del Parlamento in sede di conversione, ritenendo invece ammissibili solo i cambiamenti tesi a perfezionare il provvedimento originario. E’ stata poi questa – come noto – la strada intrapresa dalla Corte, sia pure a distanza di anni. 53 Così nell’ord. di rimessione del Trib. di Taranto, 24 settembre 2013, n. 4960, in www.biodiritto.org. 54 In tal senso v. anche G. SERENO, op. cit., 6.


sperimentazione medesima55. Può dunque ribadirsi lo stesso argomento anche in riferimento al decreto ora in esame? Nulla di sorprendente se molte delle argomentazioni sin qui illustrate compaiono perciò (praticamente alla lettera) tra le righe dell’ordinanza con la quale il Tribunale di Taranto ha sollevato questione di legittimità nei confronti del d.l. convertito56; tuttavia la Corte – come vedremo – se ne sbarazza con forse eccessiva rapidità.

9. Segue: un problema di “merito scientifico” del decreto legge. Un ulteriore dubbio di legittimità si faceva tuttavia strada nella vicenda. Esso potrebbe esemplificarsi in questi termini: se i criteri formalizzati nel d.m. del 2006 davvero scaturiscono dalle ponderazioni costituzionalmente significative di cui s’è detto, può un atto avente forza di legge valicare tali recinti? Nel decidere sul “caso Di Bella” la Corte aveva poi escluso di poter sindacare il “merito scientifico” delle scelte adottate dal legislatore. La vicenda Di Bella e quella Stamina non sono tuttavia commensurabili, ragione per cui la Corte ha avuto oggi a disposizione ben più ampi spazi di manovra, dei quali ha fatto (in parte) uso nella sent. n. 274/2014. Oggi non si stanno infatti utilizzando farmaci già conosciuti e testati, sia pure in una loro diversa combinazione (come avveniva invece nel caso Di Bella). Il metodo Stamina non è poi liberamente praticabile, mentre per i farmaci del cocktail Di Bella era stato ammesso un possibile impiego generalizzato, purché a carico del paziente e previa prescrizione medica57. Non esiste inoltre una vera divergenza di opinioni scientifiche sul metodo Stamina, o, quanto meno, non si riscontra quella minima apertura di credito allora sul tappeto (tanto è vero che nella stessa sent. n. 185/1998 la Corte ragionava della «non implausibile efficacia» della terapia allora in questione) 58. Il “fatto legislativo” di cui la Corte argomentava nella citata sent. n. 185 poggiava dunque almeno su un dubbio di credibilità del multitrattamento; il d.l. n. 24/2013 interviene invece soltanto per rimediare a divergenti pronunce giurisdizionali in materia, mentre nell’ordinanza dell’AIFA (e non solo) si fa espressa menzione della «mancanza di evidenze scientifiche» sull’utilità della terapia, affiorando altresì più d’un dubbio che essa possa rivelarsi addirittura dannosa 59. Anche 55 Punto 9 del Considerato in diritto. Su questo specifico profilo v. T. GROPPI, La Corte costituzionale tra fatto legislativo e fatto sociale, in Giur. cost., 1998, 2798 ss. 56 E’ la già citata ord. 24 settembre 2013, n. 4960 57 A. ANZON, Modello ed effetti della sentenza costituzionale sul “caso Di Bella”, in Giur. cost., 1998, 1528. 58 Punto 10 del Considerato in diritto. Sottolinea questo profilo G. VACCARI, Diritto, scienza e Costituzione. Tutela della salute e rilievo del dato scientifico nelle giurisprudenze costituzionali , in AA.VV., Forum BioDiritto 2008 - Percorsi a confronto. Inizio vita, fine vita e altri problemi, a cura di C. Casonato - C. Piciocchi - P. Veronesi, Padova, 2009, 123. 59 Come dimostrato anche dall’azione penale in corso e come attestato dall’Ufficio brevetti americano (che ha evidenziato i rischi di citotossicità della procedura)


perché – in base alle conoscenze a disposizione – per far proliferare in modo corretto le cellule staminali serve un complesso procedimento avente la durata di qualche settimana, laddove il metodo Stamina prevede l’inoculamento dopo solo quarantotto ore, con ciò verosimilmente utilizzando – sostengono gli esperti – un pericoloso siero bovino: oltre a ciò, si è denunciata la mancanza di screening e testing dei donatori60; non essendo inoltre prevista e predisposta la filtrazione delle sospensioni utilizzate, esisterebbe il rischio di mettere in circolo materiale osseo, con conseguenze anche molto negative per il paziente61. Nel caso Stamina sussistevano dunque (probabilmente) tutte le condizioni affinché la Corte potesse andare al di là della sua nota tendenza a presumere l’adeguatezza delle decisioni legislative in materia scientifica (se solo fosse stata sollecitata in questo senso) 62. Tra le righe della sentenza n. 274 non manca comunque un significativo accenno in tal senso, dal quale si desume che esso ha effettivamente assunto un qualche ruolo 63.

10. Altri capitoli della “storia” e una “morale”. Con la sent. n. 274/2014 la Corte costituzionale sembra aver posto (in buona parte) la parola “fine” alla vicenda Stamina. Per la Corte, la «particolare situazione fattuale» in cui s’è trovato invischiato il legislatore del 2013, avrebbe giustificato – fondendosi con «i principi di continuità terapeutica ed esigenze di non interferenza con provvedimenti dell’autorità giudiziaria» – «la prosecuzione dei trattamenti con cellule staminali già avviati o già ordinati da singoli giudici»; irragionevole sarebbe invece stata l’estensione indiscriminata della deroga anche ai pazienti che non avessero già “avviato” alcun trattamento con effetti apparentemente positivi. La Corte è dunque parsa assai più cauta di quanto non sia stata nel dipanare la vicenda Di Bella, ponendosi pertanto in solo apparente continuità con gli assunti della citata sent. n. 185/1998. In quella circostanza essa aveva infatti attributo grande importanza ed efficacia “espansiva” proprio all’esistenza del “fatto legislativo” che “apriva” alla sperimentazione: ora sono invece ben altri “fatti” – definiti un «anomalo contesto», ovvero «circostanze peculiari ed eccezionali» 64 – a indurre la Corte a suffragare l’intervento restrittivo del legislatore (che peraltro fa salvo senza spiegare fino in fondo le 60 Si v. l’Avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., 22. 61 Lo afferma anche l’Avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., 22. 62 R. BIN, La Corte e la scienza, in AA.VV., Bio-tecnologie e valori costituzionali, a cura di A. D’Aloia, Torino, 2005, 6. A tale scopo, essa avrebbe altresì potuto utilizzare opportune istruttorie formali, alle quali tuttavia quasi mai ricorre in questi casi (preferendo invece pratiche “informali” di cui non si ha notizia): G . D’AMICO, La Corte e lo stato dell’arte (prime note sul rilievo del progresso scientifico e tecnologico nella giurisprudenza costituzionale), in AA.VV., Il giudizio sulle leggi e la sua diffusione, a cura di E. Malfatti - R. Romboli - E. Rossi, Torino, 2002, 444. 63 Si v. il richiamo alla bocciatura del metodo Stamina da parte del Comitato scientifico ministeriale e del conseguente d.m. 4 novembre 2014 (punto 6 del Considerato in diritto): cfr., sul punto, G. SERENO, op. cit., cit., 8.


ragioni per cui, questa volta, l’annunciata sperimentazione e l’autorizzazione a continuare le terapie già iniziate per taluni pazienti non abbiano generato aspettative legittime negli altri malati)65. E’ probabile che questo suo atteggiamento sia stato determinato non solo dalla già descritta diversità tra le due vicende, ma anche – benché essa affermi il contrario – dall’accertata insussistenza delle condizioni valutando le quali la legge n. 57/2013 prescriveva l’avvio di una sperimentazione sul metodo Stamina: la Consulta menziona infatti il d.m. 4 novembre 2014, che, nelle more del giudizio di costituzionalità, ne ha inesorabilmente sancito il venir meno 66. E non del tutto ininfluente dev’essere inoltre stata anche la sentenza della Corte EDU, 6 maggio 2014, Durisotto c. Italia – citata solo a fortiori nella parte motiva della pronuncia costituzionale – con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il diniego di accesso alla terapia de qua persegua «lo scopo legittimo di tutela della salute», essendo «proporzionato a tale obiettivo» e non producendo «effetti discriminatori» 67. Detto questo, La Corte rimane tuttavia a metà del guado (anche perché condizionata dal tenore della domanda): perché infatti consentire di procedere (in taluni casi) al trattamento se la sua infondatezza scientifica è stata ormai smascherata e se sussistono addirittura seri dubbi (quando non addirittura conferme) circa la sua potenziale nocività? Non poteva, forse, la Corte approfittare di tale vicenda per chiarire meglio i contesti entro i quali si può effettivamente ragionare di un diritto alle cure in circostanze atipiche ed estreme, e cioè quando sussista almeno qualche elemento perché si possa presupporre «che di autentica cura si stia discutendo» 68? Tiriamo comunque le fila di quanto sin qui sommariamente sintetizzato, e spingiamoci anche oltre, traendone una sorta di “morale”. Com’è stato scritto, la vicenda Stamina pare inaugurare una vera e propria «nuova stagione», esaltatrice della «medicina c.d. pretensiva» 69. Nel suo concreto dipanarsi, i medici sono sembrati cioè assumere un ruolo sempre più passivo e quasi timoroso, trovandosi a dover prescrivere o praticare i trattamenti richiesti dal malato anche quando fossero del tutto all’oscuro della loro natura e dei loro potenziali effetti. S’intravede insomma – poco più in là – l’approdo a una concezione esasperatamente soggettiva del diritto alla salute. In nome di un frainteso diritto alla speranza 70, la vicenda «prefigura» quindi «uno scenario terribile in cui la libera scelta del paziente è confusa con la sua scelta disinformata, anzi mal guidata al fine di farla coincidere con interessi altri e impropri» 71. 64 Punto 6 del Considerato in diritto. 65 Lo sottolinea ancora G. SERENO, op. cit., cit., 8. 66 V. supra le note nn. 40 e 63. 67 Punto 6 del Considerato in diritto. 68 M. LUCIANI, I livelli essenziali delle prestazioni in materia sanitaria tra Stato e Regioni, in AA.VV., Diritto alla salute tra uniformità e differenziazione, a cura di E. Catelani - G. Cerrina Ferroni - M.C. Grisolia, Torino, 2011, 21. 69 A. SCALERA, Il caso Stamina tra diritto e scienza, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 84.


Come peraltro si è già anticipato, in senso “traslato” la vicenda Stamina getta una luce sinistra anche sul più generale versante politico-istituzionale, ossia con riguardo ai rapporti tra istituzioni e cittadini ch’essa lascia intravedere. Se la società scientifica (e il relativo metodo) sono democratici e liberali per definizione, quanto accaduto sottolinea infatti (e metaforicamente) ciò che si verifica allorché una società democratica viene aggredita sul piano inclinato del marketing mediatico, della contestazione dell’ufficialità per mero sospetto dell’ufficialità, del ripudio delle istituzioni solo perché si tratta di istituzioni; quando si adotti cioè una “prassi della sorveglianza” che va ben oltre il confine del legittimo controllo democratico per contestare invece (e per partito preso) tutto e tutti, divenendo preda di un sospetto patologico e perenne verso i poteri costituiti 72. La vicenda Stamina – trasposta su di un più ampio fronte istituzionale – pone insomma il problema di ciò che accade allorché l’irrazionalità emotiva rifiuti le mediazioni e i filtri abitualmente posti a garanzia della stessa prassi democratica. Nel nostro caso è evidentemente in discussione quella “particolare democrazia” rappresentata dalla comunità scientifica; dinamiche del tutto simili possono però manifestarsi – e già si appalesano – anche nelle società politiche tout court. Quanto accaduto ci rammenta insomma che le decisioni politiche in senso stretto – tanto più all’epoca della c.d. “democrazia del pubblico” 73 – corrono il rischio sempre più serio di abbandonare la strada della razionalità o del confronto per battere invece quella dell’irrazionalità più estrema, della scelta istintuale e del dilagante sospetto. Al contrario, soprattutto in tempi di crisi e di derive emozionali, sarebbe fondamentale affidarsi a taluni punti fermi. Tra questi è molto difficile non annoverare la società scientifica, con i suoi metodi universalmente accolti, la sua trasparenza internazionale, la sua disponibilità a mettere in discussione – se occorre – tutto e tutti. Lo stesso vale per il rispetto delle procedure di un’equilibrata “democrazia formale-razionale”, di contro alle scorciatoie ingannevoli di chi auspica l’approdo a variegate forme di “democrazia sostanziale”, non ammettendo (o non reputando utili) mediazioni, verifiche, falsificazioni. Nella scienza, così come nelle realtà politico-costituzionale, è invece importante che – come ci ricorda proprio Gaetano Silvestri – ciascuno svolga sempre «il suo ruolo», tenendo conto che sta operando «in un ordinamento che non conosce vertici assoluti, ma solo esercizio di poteri definiti e sempre condizionati o dall’altrui iniziativa o dall’altrui decisione»74. Non lo si dovrebbe mai dimenticare. **Associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara. 70 Come precisa infatti il Prof. Salvatore Amato, nella sua audizione presso la Commissione Igiene e Sanità del Senato (28 maggio 2014), la “speranza” presuppone la fiducia, e la fiducia l’affidarsi a qualcuno: «un ordinamento giuridico che voglia tutelare il diritto alla speranza ha il dovere di controllare come e a chi un soggetto si affida». 71 Così nella lettera aperta al Ministro della salute (14 marzo 2013) firmata da un gruppo di ricercatori e medici. 72 «Ciò che moltiplica anziché sedare la diffidenza distruttiva e il senso di minaccia da parte di nemici onnipresenti e di volta in volta evocati»: M. REVELLI, Finale di partito, Torino, 2013, 126. 73 B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, Bologna, 2010, 242 ss.


74 G. SILVESTRI, Popolo, populismo e sovranitĂ . Riflessioni su alcuni aspetti dei rapporti tra costituzionalismo e democrazia, in AA.VV., Scritti in onore di Lorenza Carlassare, V.1, Della democrazia e delle sue dinamiche, a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, Napoli, 2009,1994.


LA LUNGA NOTTE DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE Riflessioni a margine della “seduta-fiume” dell’11 febbraio 2015 * di Simona Polimeni ** (27 febbraio 2015) SOMMARIO:

1. Premessa: lo schiacciamento delle opposizioni come segno di crisi del parlamentarismo.- 2. Il fatto: il ddl di riforma costituzionale tra ostruzionismo, anti-ostruzionismo e decisionismo.- 3. Qualche considerazione giuridica sulla deliberazione della seduta-fiume, tra regole procedurali e valori sostanziali.- 4. La Repubblica extra-parlamentare e il suo fragile equilibrio: osservazioni conclusive.

1. Premessa: lo schiacciamento delle opposizioni come segno di crisi del parlamentarismo Il Parlamento dovrebbe essere una sorta di casa trasparente, di cristallo, «l’organo in cui il popolo si specchia tutt’intero, con le sue tendenze ed i suoi partiti» 1. L’immagine che invece se ne ricava – dopo la seduta notturna alla Camera dei deputati dell’11 febbraio scorso – rievoca piuttosto quella di uno specchio andato in frantumi, i cui pezzi si sono di spersi dentro e fuori dalle sue leggendarie “mura di cristallo”, che nulla hanno lasciato tra sparire, se non l’applicazione discutibile di regole procedurali usate con «arroganza» dalla maggioranza e guardando fisso le lancette di un orologio immaginario, che hanno concorso in modo determinante a riportare la nostra Repubblica fin «quasi al punto zero della democrazia»2. Forse ci si trova di fronte a due patologie speculari: da un lato, ad un Governo ed a una maggioranza “decisionisti” e poco inclini al dialogo e, dall’altro, ad un’opposizione “multicolore” , che, non potendo probabilmente aspirare – sic et simpliciter – a rivestire il ruolo di «opposizione-funzione», è divenuta, con varie alternanze, mera «opposizione-organizzazione», debole e polemica3. A ben vedere, l’ideologia sottesa al modus operandi della maggioranza (rectius: del Governo) sembra essere quella «aziendalista del fare e del lavorare», che, come tale, «mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo […] La logica aziendalista, trasposta in politica, fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità ad essere messa in mostra»4. *

Scritto sottoposto a referee. 1

M. RUINI, La nostra e le cento costituzioni del mondo. Come si è formata la Costituzione, Milano, 1961, p. 49. Con toni simili si esprimono, rispettivamente, M. AINIS, Il peggior modo di riscrivere la Carta è con arroganza: la Costituzione è di tutti, in Corriere della Sera, 15 febbraio 2015; e G. ZAGREBELSKY, Riforme, Zagrebelsky: “Siamo quasi al punto zero della democrazia”, in Libertà e Giustizia, 15 Febbraio 2015. Ma cfr. contra S. CASSESE, Il timore (inesistente) del tiranno, in Corriere della Sera, 12 febbraio 2015, che afferma: «Vedo […], anche presso quelli che ritengono modificabile la Costituzione, una fedeltà ai principi supremi costituzionali, una lealtà alle istituzioni e alle proce dure da essa create, un desiderio di non mutare le linee portanti delle scelte del secondo dopoguerra, che fanno ben spe rare nella lunga vita della parte essenziale della Costituzione». 3 I termini nel testo sono utilizzati nell’accezione propria di G. DE VERGOTTINI, Opposizione parlamentare, in Enc. giur., XXX, Roma, 1980, pp. 532 e s. 4 Cfr. G. ZAGREBELSKY, Sulla lingua del tempo presente, Torino, 2010, p. 50. 2

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Tuttavia, la suddetta “ideologia aziendalista” è di per se stessa inadatta ad essere trasposta sul piano stricto sensu politico; infatti, «la politica è essenzialmente decisione circa i fini, anche cambiando le leggi. Ridurla al fare, cioè alla mera esecuzione, significa sem plicemente, i fini, tenerseli per sé e nasconderli agli altri, cioè sottrarli alla vista della democrazia, oppure mascherarli con parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla» 5. Tutto questo attivismo e questa sovraesposizione (anche mediatica) del Governo e della maggioranza – sebbene al suo interno molto frammentata – che lo sostiene in Parlamento, implicano l’esercizio di un peculiare tipo di potere, proprio delle istituzioni – latamente intese – che si inseriscono ed operano all’interno del c.d. «Stato disaggregato», privo dei suoi classici elementi costitutivi 6. Si tratta del c.d. soft power, che si sostituisce progressivamente all’hard power, laddove il primo di basa sulla persuasione, che talvolta sconfina nella manipolazione, mentre il secondo sulla coazione. Ciò, invero, non deve indurre a ritenere che il carattere della coattività sia del tutto venuto meno, poiché «è evidente che dietro ogni forma di persuasione in termini di soft power agisce la minaccia dell’uso dell’hard power»7. In particolare, nello Stato «disaggregato» si verifica una «dislocazione della politica» ed una perdita del suo stesso “statuto ontologico”, per cui, invece di addivenire al definitivo e da più parti auspicato superamento della coppia oppositiva – di schmittiana memoria – amico-nemico8, si è giunti ad una nuova ed imprevista situazione, per cui lo spazio politico è divenuto fluido e non sembra più possibile definire ciò che è ad esso esterno ed estraneo. Pertanto, «se l’amico non è più distinguibile dal nemico, qualsiasi presunto amico può rivelarsi un nemico. E costui non è l’hostis, cioè un avversario ufficialmente riconosciuto come tale e dunque soggetto a un codice d’onore fatto di regole mutuamente accettate […]. Ma si tratta dell’inimicus, un soggetto privo di statuto giuridico da cui bisogna difendersi come da un male oscuro»9. Ma è l’idea stessa di un nemico (interno) che non pare compatibile con un fisiologico processo di revisione costituzionale: la Carta costituzionale, infatti, dovrebbe essere sempre la «casa di tutti», in cui non entrano dissidi e divisioni interne. È vero che la Costituzione prevede (o si accontenta) solo delle maggioranze previste dall’art. 138, ma quando si discutono riforme costituzionali, a maggior ragione di questa portata, si dovrebbe ricercare sempre e insistentemente un accordo quanto più possibile condiviso, per conseguire l’unità di intenti e di fini che dovrebbe ispirare ogni macro-revi sione di una Carta rigida. Sta anche qui, in fondo, la forza propulsiva della Costituzione, nel fungere da indicatore stradale e limite del sentiero, anche in tempi in cui la “macchina 5

Ivi, p. 51. L’“ideologia aziendalista” di cui qui si parla, però, non è – al contrario di quanto taluno sarebbe portato a pensare – esattamente quella che ha ispirato S. Berlusconi, l’altro politico italiano che, dopo B. Craxi e prima di M. Renzi, ha cercato (invano) di seguire la via del decisionismo. Sul punto, cfr. spec. A. SPADARO, Dal partito-azienda allo Stato-azienda, al Governo “comitato d’affari?” Un passaggio “difficile” della transizione italiana, in Ragion pratica, n. 19/2002, pp. 287 ss. 6 Per la definizione di «Stato aggregato» nella letteratura politologica, cfr., di recente, M. TERNI, Stato, Torino, 2014, in particolare pp. 40 ss. 7 Ivi, p. 49 (corsivo dell’Autore). 8 Sulla possibilità, anzi sulla necessità, del superamento di tale linguaggio binario in politica (che si contrappone al grande pensiero classico nella filosofia politica: Aristotele, S. Tommaso, ecc.), cfr. – fra i tanti – ora anche L. VIOLANTE, Governare. Beati quelli che amministrano la città con gli occhi dell’Altro, Milano, 2014, pp. 23 ss. 9 M. TERNI, Stato, cit., p. 58.

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istituzionale” è avvolta da una fitta nebbia, persino quando oggetto del dissenso è la revi sione di una sua parte10. Bisognerà chiedersi se aver aumentato lo spazio della decisione a scapito di quello della discussione, e aver discutibilmente contingentato oltremisura i tempi e gli spazi di manovra propri della minoranza, non sia l’ultimo eloquente segno della crisi tout court dello stesso regime parlamentare11. La qual cosa acquista ancora maggiore gravità se solo si pensa al ruolo che l’organo legislativo oggi riveste – oltre che a livello nazionale – anche all’inter no del c.d. multilevel parliamentary field: un’evoluzione del «sistema parlamentare euronazionale», che supera i meri networks of legislators, per andare verso una partecipazione sempre più attiva dei Parlamenti nazionali alle decisioni politiche, economiche e sociali dell’UE12. Per poter affrontare la questione della crisi del Parlamento, sembra però opportuno analizzare previamente il fatto da cui scaturiscono queste brevi riflessioni. 2. Il fatto: il ddl di riforma costituzionale tra ostruzionismo, anti-ostruzionismo e decisionismo La questione delle riforme costituzionali si è imposta già sul nascere dell’attuale legislatura ed è stata più volte auspicata dal Presidente Giorgio Napolitano e da ultimo richiamata dal neo-Presidente Sergio Mattarella, in occasione del messaggio alle Camere, nel giorno del giuramento13. Anche il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nelle dichiarazioni programmatiche alle Camere e in successive occasioni, ha rimarcato l'esigenza di attuare, in tempi brevi, una riforma costituzionale, incentrata in particolare sul superamento del bicameralismo perfetto – dunque sulla necessità di dare un nuovo assetto istituzionale al Senato – e sulla revisio ne del Titolo V della Costituzione. Il Governo ha, pertanto, presentato un disegno di legge costituzionale che, in sintesi, dispone il superamento del suddetto bicameralismo perfetto; rivede il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni; espunge dal testo costituzionale le province; prevede la soppressione del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (CNEL). Il suddetto ddl costituzionale, che naturalmente si appresta ad essere esaminato con la procedura aggravata prevista dall’art. 138 Cost., è stato approvato dal Senato l’8 Agosto 2014 con 183 voti a favore, 4 astenuti, nessun voto contrario – perché le opposizioni, 10

La metafora nel testo è tratta da P. CASTAGNETTI, La Costituzione offesa, Reggio Emilia, 2005, il quale, a p. 18, scrive: «Se è vero […] che le costituzioni sono le leggi che i parlamenti si danno, nei loro momenti di maggior saggezza, per difendersi dai momenti di maggior dissennatezza, mai come oggi la nostra Carta ci appare un giacimento di prin cipi democratici e di virtù repubblicane particolarmente preziosi. A me […] viene in mente l’immagine della riga bianca che, sulle strade immerse nelle nebbie autunnali, aiuta a procedere, sia pure con prudenza e difficoltà». 11 Sul punto, acute considerazioni ante litteram in T. MARTINES, Governo parlamentare e ordinamento democratico, Milano 1967, passim. 12

Si tratterebbe, in particolare, di una vera e propria «“europeizzazione” dei parlamenti nazionali», per mezzo della predisposizione di diversi «fattori di connessione sistemica», che li vedono coinvolti in un «dialogo politico» fra tre or gani: Commissione UE, Parlamento UE e, appunto, parlamenti nazionali. Cfr. al riguardo, di recente A. M ANZELLA, Parlamento europeo e parlamenti nazionali come sistema, in Rivista Aic, n. 1/2015, pp. 1 e ss.; e R. IBRIDO, Oltre le “forme di governo”. Appunti in tema di “assetti di organizzazione costituzionale” dell’Unione Europea , in Rivista Aic, n. 1/2015, spec. pp. 19 e ss. 13 Cfr. S. MATTARELLA, Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento, Palazzo Montecitorio, 03 Febbraio 2015, in www.quirinale.it.

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Lega, SEL e M5S, hanno scelto di non partecipare al voto per rimarcare le critiche alla ri forma nel merito e nel metodo utilizzato per la discussione – ed è poi stato sottoposto all’esame della Camera dei deputati. L’iter alla Camera dei Deputati è stato complessivamente più faticoso e tormentato, rispetto all’esame al Senato. Infatti, l’esame in Commissione Affari Costituzionali – in sede referente – iniziato l’11 settembre 2014, si è concluso il 13 dicembre 2014. Invece, la di scussione susseguente in Assemblea è stata più lunga e tortuosa: iniziata il 16 dicembre 2014, si è protratta fino al 17 febbraio 2015. Le tensioni tra maggioranza e opposizioni sono cresciute in modo esponenziale a seguito di eventi (in buona parte) extraparlamentari che hanno determinato la rottura del c.d. “Patto del Nazareno” fra i segretari di FI e del PD, e che si sono ripercossi all’interno del Parlamento, comportando la fine della collaborazione tra il gruppo di Forza Italia e quello del Partito Democratico14. In particolare, il 10 febbraio, le suddette tensioni si sono palesate nella presentazione delle dimissioni da relatore di maggioranza del deputato di FI Francesco Paolo Sisto. Infatti, lo schema che si stava seguendo per proseguire sulla strada della riforma costituzionale era caratterizzato dalla scelta di affiancare due Relatori di maggioranza – al Senato Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, ed alla Camera Francesco Paolo Sisto ed Emanuele Fiano – allo scopo di sancire anche in sede parlamentare il patto sulle riforme, che è alla base dell’accordo raggiunto “al Nazareno”. Pertanto, a seguito delle mutate condizioni politiche, l’on. Sisto ha rimesso il proprio mandato e le opposizioni hanno interpretato le suddette dimissioni come valido motivo per rinviare il provvedimento in Commissione. La votazione, per 124 voti di differenza, ha de terminato il respingimento di tale proposta e la conseguente prosecuzione dell’esame degli emendamenti in Assemblea. All’inasprimento dell’ostruzionismo delle opposizioni, ha fatto fronte la determinazione della Presidente Boldrini di non autorizzare l’ampliamento di un terzo dei tempi a disposi zione di ciascun gruppo, procedendo, di converso, al contingentamento dei tempi della discussione. Tale decisione della Presidente – non nuova ad atteggiamenti anti-ostruzionistici – fu presa probabilmente per “saggiare” l’ostruzionismo delle opposizioni e verificarne le motivazioni intrinseche: per comprendere, cioè, se fosse determinato o meno da semplici in tenti dilatori, causati da questioni extraparlamentari, che poco avrebbero dovuto incidere sulla riforma in atto della Costituzione. Essa ha avuto l’effetto di fomentare la protesta già molto accesa delle opposizioni (specie dei gruppi che avevano terminato i minuti loro as segnati per la discussione), fino alla sospensione della seduta. A seguito della riunione della Conferenza dei Capigruppo, tenutasi alle ore 9.00 del giorno successivo (11 febbraio), la Presidente Boldrini ha comunicato che, a differenza di quanto annunciato in precedenza, avrebbe concesso ai gruppi che avessero esaurito i tempi a loro disposizione e che ne avessero fatto richiesta, un tempo aggiuntivo, pari ad un terzo di quello inizialmente attribuito, «nell'auspicio di favorire una discussione sul meri14

Per una lettura in tal senso degli avvenimenti parlamentari cfr. la sintesi di F. FABRIZZI-G. PICCIRILLI, Lavori parlamentari 5–11 febbraio. L’esame presso la Camera, tra le proteste delle opposizioni, potrebbe chiudersi in settimana. Dimissioni di uno dei relatori (Sisto, FI), in Federalismi, Osservatorio Parlamentare sulla Riforma costituzionale, n. 3/2015, pp. 3 s.

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to del provvedimento e di agevolare il raggiungimento di un'intesa tra i gruppi parlamentari che consenta di proseguire e di concludere i lavori in modo ordinato e costruttivo» 15. Tale tentativo di pacificazione non ha, però, sortito gli effetti sperati e le opposizioni hanno continuato la loro pressante manovra ostruzionistica, presentando oltre tremila emendamenti. In conseguenza di ciò – e sotto la costante pressione del Governo 16 – la maggioranza parlamentare ha avanzato la possibilità di richiedere la votazione di una se duta-fiume, per esaminare in tempi brevi l’ingente numero di emendamenti proposti dalle opposizioni e, soprattutto, per evitare la presentazione di nuovi emendamenti. Il capogruppo Pd alla Camera, R. Speranza, ha invitato le opposizioni a ritirare i suddetti emenda menti, in cambio della rinuncia al contingentamento dei tempi, garantita dall’apertura della Presidente Boldrini e dalla summenzionata concessione di un supplemento temporale per la discussione in Assemblea. Al rifiuto delle opposizioni, è seguita la richiesta della sedutafiume, che, com’è noto, consente di portare a termine i lavori parlamentari proseguendoli continuativamente, senza alcuna interruzione 17. Sul finire della seduta – la sospensione dei lavori era stata fissata per le ore 23 – tra accese proteste delle opposizioni (in particolare del M5S, della Lega Nord, di SEL, di Fratelli d’Italia e di Forza Italia), si è riunita la Conferenza dei Presidenti di gruppo, in cui si è stabilito di tornare in Aula e proseguire i lavori, votando sulla richiesta del PD della seduta-fiume. La Camera ha approvato la suddetta richiesta per 235 voti di differenza, così i lavori sono proseguiti ininterrottamente – salvo sospensioni tecniche previste dal Regolamento – fino alla votazione di tutti gli articoli e gli emendamenti in discussione. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio, si sono susseguite manifestazioni di dissenso da parte delle opposizioni e, com’è noto, persino una rissa tra deputati del PD e di SEL, a seguito di cui due deputati (di SEL) sono rimasti feriti e tredici sono stati espulsi dall’Aula (quasi tutti “grillini”)18. A completare il quadro, verso le tre di notte, si è presentato in Aula lo stesso Presidente del Consiglio Renzi, nel tentativo di “richiamare” i deputati – specie quelli di Forza Italia – all’ordine19. Nella mattina di del 13 febbraio, dopo una prima interruzione, sono ripresi i lavori, ma il clima non sembrava migliorato, nonostante la Presidente Boldrini avesse tentato di favorire una mediazione tra maggioranza e opposizioni concedendo una sospensione (rectius: una pausa tecnica) della seduta-fiume, per permettere l’incontro dei Capigruppo. Al culmine delle tensioni, le opposizioni – Forza Italia, M5S, SEL, Fratelli d'Italia e Lega – hanno deciso di abbandonare l’Aula e di non partecipare alla votazione degli articoli e 15

Cfr. Resoconto stenografico n. 375, seduta dell’11 febbraio 2015, in www.camera.it, p. 12. Così si è espresso il Presidente del Consiglio Renzi: «Sono mesi che la riforma è in discussione alla Camera. […] Il problema non è discutere nel merito: noi vogliamo fare le riforme insieme a tutti quelli che ci stanno», cfr. Riforme, il Pd chiede seduta fiume: “Voto finale la prima settimana di marzo”. Bagarre in aula, in www.lastampa.it. Di «legislatura […] sotto “ricatto” del premier» parla A. PACE, nell’intervista a cura di S. Truzzi, Riforme, il costituzionalista Pace: “Camere ricattate. Carta a rischio”, pubblicata su Il Fatto Quotidiano, del 14 febbraio 2015. 17 Cfr., in proposito, l’intervento dell’on. Speranza, in Resoconto stenografico n. 375, seduta dell’11 febbraio 2015, cit., pp. 105 s. 18 Evento accompagnato da un vasto clamore mediatico, cfr., ad es., Riforme, rissa alla Camera durante la maratona notturna. Scazzottata fra deputati di Pd e Sel: 13 espulsi, 2 contusi, in www.huffingtonpost.it, del 13 Febbraio 2015. 19 Sui contenuti della discussione tra il Presidente del Consiglio e i deputati di FI trapelano solo indiscrezioni; cfr., al riguardo, quanto riporta sempre l’Huffingtonpost, E nella notte Matteo Renzi piomba alla Camera: senza riforme, si va al voto..., secondo cui a Renzi sarebbe attribuibile la seguente frase, pronunciata tra i banchi di FI: «Senza riforme, la legislatura salta. E quando salta, c’è il voto…», in www.huffingtonpost.it, del 13 Febbraio 2015. 16

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degli emendamenti, rimessa pertanto alla sola maggioranza, che ha terminato l’esame il 17 febbraio. L’Assemblea della Camera non ha, però, in tal modo esaurito del tutto l’esame del ddl di riforma costituzionale. Infatti, sebbene siano stati esaminati e votati tutti gli articoli e i relativi emendamenti, restano ancora da svolgere gli ordini del giorno di istruzione al Governo, nonché le dichiarazioni di voto finali e il voto di approvazione del ddl nel suo complesso, fissati entro i primi giorni del mese di Marzo. Dopo tali ulteriori adempimenti, il testo tornerà al Senato e si potrebbe in tal modo concludere la prima lettura, ai sensi di quanto dispo ne l’art. 138 Cost20. Ciò che sembra opportuno sottolineare, è che la votazione degli articoli e dei relativi emendamenti è avvenuta con il solo contributo della maggioranza, in assenza delle opposizioni, che dopo aver abbandonato l’Aula, non hanno più preso parte alla votazione. La suddetta “manovra” ostruzionistica (attività finalizzata al boicottaggio di un'iniziativa, a causa della propria assenza) è stata subito battezzata dai media l’Aventino delle opposizioni, con chiara allusione, nel linguaggio politico, al precedente storico in cui gli esponenti dell’opposizione al governo fascista, il 27 giugno 1924, subito dopo il delitto Matteotti, guidati da G. Amendola decisero di non partecipare ai lavori parlamentari, finché un nuovo Governo non avesse ristabilito le libertà democratiche. Al contempo, non si può trascurare il finale della suddetta vicenda, per cui la protesta ebbe carattere solo “morale” ed il re confermò la fiducia a Mussolini e al fascismo, finché, nel novembre 1926, i c.d. deputati dell’Aventino furono dichiarati decaduti dal loro mandato. Non sembra lontano dal vero affermare che, probabilmente, quando i nostri Padri e le nostre Madri Costituenti scrissero la Carta fondamentale, pensarono anche a quella vicenda e si impegnarono per rinsaldare i valori e le libertà democratiche, che si dovrebbero riflettere anche nelle regole procedurali atte ad impedire derive parlamentariste, come quella su descritta. Anche a questo sembra alludere Piero Calamandrei quando scriveva: «Per far funzionare un Parlamento, bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. […] La maggioranza non deve essere un ventricolo pronto a trangugiare l’opposizione, né un pugno per strangolarla, né un piede per schiacciarla come si schiaccia un tafano sotto il tallone. La maggioranza, affinché il parlamento funzioni a dovere, bisogna che sia una libera intesa di uomini pensanti, tenuti insieme da ragionate convinzioni, non solo tolleranti, ma desiderosi della discussione […]. Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione, dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza» 21. Com’è possibile, allora, questo “salto all’indietro”, pur avvenuto apparentemente senza violare alcuna regola formale-procedurale? Forse il problema non riguarda più sic et simpliciter il metodo, ma coinvolge inevitabilmente anche il merito di alcune scelte, che, a poco a poco, rischiano di svuotare di senso gli istituti democratici, perché, se in uno Stato disaggregato il contenuto politico è «liquido», inevitabilmente si adatterà alla forma dell’og 20

Cfr. F. FABRIZZI-G. PICCIRILLI, Lavori parlamentari 12–18 febbraio. La Camera dei deputati conclude l’esame degli emendamenti in prima lettura, in Federalismi, Osservatorio Parlamentare sulla Riforma costituzionale, n. 3/2015, p. 2. 21 P. CALAMANDREI, Lo Stato siamo noi, Milano, 2011, spec. pp. 79 s.

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getto che lo contiene22. Se la sostanza politico-costituzionale vacilla, allora tutto diventa solo una questione di forma. Vale la pena, quindi, provare ad allentare le maglie della mera “forma”, per ricercare se persista o meno, al suo interno, una “sostanza” democratico-costituzionale. 3. Qualche considerazione giuridica sulla deliberazione della seduta-fiume, tra regole procedurali e valori sostanziali Nel ricostruire il tormentato iter procedimentale del ddl di riforma costituzionale alla Camera dei Deputati, si è cercato di evidenziare il necessario, sottile equilibrio tra “decisione” (della maggioranza) e “discussione” (con le opposizioni) che regge il buon andamento dei lavori all’interno di ciascuna Camera. Buon andamento che, come si sa e per ciò che qui più interessa, è compito precipuo del Presidente d’Assemblea assicurare 23. Per altro, non sembra possibile analizzare sic et simpliciter i singoli atti compiuti – prima facie piuttosto “autoritativamente” – dalla Presidenza della Camera, senza prima tentare di avere una visione d’insieme di quanto accaduto dentro e fuori dall’Aula parlamentare. Non si può dimenticare che molte volte, durante lo svolgimento dei lavori parlamentari che hanno interessato l’attuale legislatura, l’opposizione (spesso circoscritta ai soli deputa ti del M5S) abbia posto in essere una forma di ostruzionismo sistematico o di principio, finalizzata a “paralizzare” l’attività di indirizzo politico, opponendosi tout court al programma di Governo24. Ciò potrebbe spiegare, almeno in parte, l’iniziale decisione della Presidente Boldrini di contingentare i tempi per la discussione, rifiutando di concedere ulteriori minuti per la discussione ai gruppi che avevano terminato il tempo a loro disposizione. Tuttavia, la successiva instabilità della situazione politica si è ripercossa inevitabilmente all’interno di Montecitorio, dove l’opposizione “solitaria” del M5S ha trovato l’appoggio di altri quattro gruppi parlamentari, particolarmente risoluti a non votare una riforma costituzionale che sembra essere stata dettata alla, e per, la stessa maggioranza dal Presidente del Consiglio. Si comprende come sia obiettivamente difficile coordinare i lavori parlamentari e assicurarne il buon andamento in uno scenario dove ciò che resta sono solo frammenti di politi ca, caratterizzati da interessi egoistici tenuti insieme da un Governo che ha mostrato di preferire una linea dura e decisionista, poco incline alla discussione e al compromesso parlamentare di kelseniana memoria. In questo contesto è difficile non constatare che – nonostante la fine dell’intesa Renzi-Berlusconi – pezzi di FI continuano a rispecchiarsi nel progetto di riforma e che, al contrario, pezzi della maggioranza non la condividano.

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Cfr. Z. BAUMANN, La politica è liquida, intervista a cura di M. Di Forti, in Il Messaggero, del 10 settembre 2012, p. 17; Cfr., amplius, ID. Modernità liquida, Roma-Bari, 2006. Di «“partiti liquidi”, se non addirittura “gassosi”» discorre, inoltre, G. PITRUZZELLA, Crisi economica e decisioni di governo, Relazione al XXVIII Convegno Annuale dell’AIC, in Rivista Aic, p. 9. 23 Secondo quanto dispone, com’è noto, l’art. 8, 1° co., Reg. Cam., ai sensi del quale: « Il Presidente rappresenta la Camera. Assicura il buon andamento dei suoi lavori, facendo osservare il Regolamento, e dell'amministrazione inter na»; e similmente – sebbene no si ritrovi il riferimento ai lavori, ma solo all’amministrazione interna – dispone l’art. 8 Reg. Sen., a norma del quale: «Il Presidente rappresenta il Senato e regola l’attività di tutti i suoi organi, facendo osser vare il Regolamento. […] Assicura, impartendo le necessarie direttive, il buon andamento dell’Amministrazione del Senato». 24 Per la nozione di ostruzionismo sistematico o di principio, cfr. in particolare G. BERTOLINI, Ostruzionismo parlamentare, (voce), in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, 1981, p. 485.

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Eppure non bisognerebbe dimenticare che oggetto della discussione in esame era un ddl di riforma costituzionale, non una “semplice” legge ordinaria, o un disegno di legge di conversione di un decreto-legge (che pur potrebbe creare qualche problema, come spesso è avvenuto). Ciò avrebbe dovuto suggerire maggiore prudenza e ponderazione in una maggioranza in altre occasioni non sempre coesa, ed indurre a porsi come prima finalità l’insistente ricerca di un dialogo con le opposizioni, se ancora si crede che la Costituzione possa e debba essere «la casa comune», come si è già avuto modo di ricordare 25. Come s’è detto, al primo tentativo di contingentamento dei tempi – ed a causa dell’ina sprimento dell’ostruzionismo delle opposizioni – è seguito un tentativo di apertura e pacificazione, segnato dalla concessione del supplemento temporale, dapprima negato. Però le tensioni tra PD e FI hanno ulteriormente destabilizzato l’equilibrio già precario dell’Aula e hanno portato ad una diffusa diffidenza tra maggioranza e opposizioni. La prima, infatti – mossa dal Governo – ha deciso di privilegiare il momento della decisione a scapito di quello della discussione, accorciando i tempi e, soprattutto, impedendo alle opposizioni di presentare nuovi emendamenti. Invero, com’è noto, il Regolamento della Camera prevede – ex art. 86 – la possibilità di presentare all’inizio di ogni nuova seduta emendamenti e subemendamenti relativi agli articoli in discussione all’ordine del giorno. Pertanto, l’unico modo di fermare le opposizioni è sembrato la richiesta della seduta-fiume: un’unica, lunga seduta protrattasi fino alla votazione conclusiva di tutti gli emendamenti sino a quel momento presentati (oltre tremila, com’è stato ricordato). La scelta della seduta-fiume non è una decisione di poco conto, specie se si pensa all’oggetto della discussione in questione. Infatti, la suddetta misura anti-ostruzionistica è volta al raggiungimento di un unico fine: «l’assedio continuato e la conquista della decisione per “esaurimento fisico” delle opposizioni» 26. Se si può comprendere tale misura come extrema ratio nel caso di ostruzionismo sistematico, o nel caso di discussione di un provvedimento in scadenza (ad es. una legge di conversione di un decreto-legge), una simile risoluzione è più difficile da accettare se si tratta di discussione e votazione di emendamenti ad un ddl di riforma costituzionale. La Presidente Boldrini non ha dimenticato questo aspetto fondamentale della questione, ed ha preso atto che si è trattato della prima volta nella storia della Camera in cui si è deliberato e votato in favore di una seduta-fiume per la discussione di un ddl di riforma co stituzionale27. Subito dopo la votazione per la seduta-fiume, l’on. Sisto ha chiesto la parola e si è dichiarato contrario alla scelta votata dalla maggioranza, poiché ha ritenuto che tale misura anti-ostruzionistica non fosse consona alla discussione di un ddl di riforma costituzionale, affermando efficacemente che «una Costituzione by night cioè che approfitti della stanchezza dei parlamentari, che li metta alla dura prova di cultura e di resistenza, non è una 25

L’espressione, com’è noto, è da attribuire a G. LA PIRA, La casa comune. Una costituzione per l’uomo, a cura di U. De Siervo, Firenze, 1996. 26 Così si esprimono T. MARTINES-G. SILVESTRI-C. DECARO-V. LIPPOLIS-R. MORETTI , Diritto Parlamentare, II ed., Milano, 2011, p. 174. 27 D’altronde, non sorprende di certo questa decisione della Presidente Boldrini, la cui attività si è distinta, fino ad ora, per la “disinvoltura” con cui ha utilizzato strumenti anti-ostruzionistici che non erano mai stati applicati prima dai suoi predecessori. Cfr., ad esempio, l’applicazione della c.d. “ghigliottina” nella seduta del 29 gennaio 2014, riguardo alla votazione della legge di conversione del decreto-legge c.d. “Imu-Bankitalia”. Per approfondimenti sul punto, sia consentito rinviare a S. POLIMENI, La “geometria” della c.d. ghigliottina parlamentare: un difficile quadrilatero di interessi, in www.forumcostituzionale.it, 2014.

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Costituzione scritta come i nostri padri avrebbero voluto che fosse scritta», e ha chiesto alla Presidente di annullare o revocare la votazione appena intercorsa 28. La Presidente Boldrini ha dichiarato di condividere, in nome della Presidenza, «la preoccupazione e l’amarezza» espressa dall’intervento dell’on. Sisto, ma ha giustificato la deliberazione della seduta-fiume con l’impossibilità di raggiungere un accordo con le opposi zioni, nonostante i numerosi tentativi esperiti a tal fine. Le perplessità che genera una siffatta argomentazione, per non pochi aspetti contraddittoria, sono, tuttavia, molteplici. Alcune sono strettamente procedurali o di metodo, ma a ben vedere facilmente superabili: a) la seduta-fiume non è prevista nel Regolamento della Camera; b) non esiste un precedente a cui ancorare la decisione presidenziale, poiché mai la seduta-fiume è stata uti lizzata per discutere un ddl di riforma costituzionale. Tali obiezioni sono fondate, ma entrambe superabili, come si diceva, se solo si pensa che la «piramide» delle fonti del diritto parlamentare si presenta «rovesciata» rispetto a quella con cui il giurista si trova ad operare di solito, per cui un comportamento o un’inter pretazione della presidenza, un precedente, una prassi, una consuetudine hanno maggior valore rispetto ad una norma scritta nel Regolamento 29. Non si può, inoltre, dimenticare che il Presidente d’Assemblea è “interprete privilegiato” del Regolamento. Tuttavia, qui la Presidente Boldrini si spinge ancora oltre, fondando la sua decisione sull’interpretazione di una prassi (che riconosce il potere di un gruppo di chiedere la seduta fiume), non di una disposizione regolamentare30. È vero che si è trattato di una votazione, e che pertanto la responsabilità di tale delibe razione non è imputabile tanto alla Presidente, quanto piuttosto alla maggioranza che ha espresso voto favorevole. Ma la Presidente ha permesso/avallato tale votazione e ciò può essere ritenuto – sembra di poter dire: ragionevolmente – discutibile. Infatti, non si può ignorare che la Boldrini possedeva almeno due strumenti per concedere ancora ulteriore tempo ai gruppi parlamentari – e, quindi, anche ai partiti fuori dal Parlamento – per ricercare un accordo. In particolare, la Presidente avrebbe potuto: a) dichiarare la seduta in corso sospesa, per scadenza del termine ultimo stabilito per la prosecuzione dei lavori (le ore 23)31; b) dopo la votazione, revocare o annullare la stessa. In particolare: a causa della manovra ostruzionistica delle opposizioni (che hanno abbandonato l’Aula), sarebbe stata legittima (e auspicabile) la revoca della seduta-fiume; invece, prendendo atto – sebbene tardivamente – della scadenza del tempo concesso inizialmente prima della sospensione

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Cfr. Resoconto stenografico n. 375, cit., p. 114. Cfr. C. BERGONZINI, La piramide rovesciata: la gerarchia tra le fonti del diritto parlamentare, in Quad. cost., n. 4/2008, pp. 741 ss. 30 La Presidente Boldrini, dopo aver dichiarato, con riferimento alla deliberazione della seduta-fiume: «Io devo mettere sul piatto, come è stato del tutto evidente, che si tratta di una prima volta», ha però aggiunto, in modo, si diceva, quasi contraddittorio: «noi abbiamo come Presidenza semplicemente rispettato la prassi, abbiamo semplicemente sotto posto a votazione dell’Aula la proposta avanzata da un gruppo. Questa proposta è stata approvata e, quindi, non è un’interpretazione, è un’interpretazione coerente con la prassi e non è una votazione illegittima», cfr. Resoconto stenografico n. 375, cit., pp. 116 s. 31 Non può dimenticarsi, infatti, che la Conferenza dei Capigruppo, che ha deciso la continuazione della seduta in corso per permettere la votazione sulla seduta-fiume, si è riunita e ha deliberato sul limine della scadenza (anzi, proba bilmente quando il tempo era già scaduto, erano infatti le ore 23.05 quando la Presidente Boldrini ha comunicato in Aula la suddetta decisione): cfr. Resoconto stenografico n. 375, cit., p. 112. 29

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della seduta, si sarebbe potuto annullare il voto. Ma nessuna delle due vie, purtroppo, è stata percorsa. I rilievi che si possono muovere in relazione alla suddetta deliberazione non sono, tuttavia, solo di metodo, come si diceva, ma anche, anzi soprattutto, di merito, se solo si cerca di scorgere quali valori sostanziali si celino, di volta in volta, dietro le regole procedurali. Su questo piano, i rilievi sono essenzialmente tre e così sintetizzabili: a) mancanza di una ratio equilibrata per la deliberazione della seduta-fiume; b) perplessità circa la valutazione del rapporto che sussiste tra tempo e riforme costituzionali; c) visto l’oggetto del voto, necessità costituzionale di privilegiare il momento della discussione – e, precipuamente, della discussione con le opposizioni – rispetto a quello della decisione. Per quanto riguarda il primo profilo su evidenziato, risulta difficile comprendere a fondo quale sia la ratio che possa aver giustificato la deliberazione della seduta-fiume. L’intento della maggioranza è certamente quella di superare l’ostruzionismo delle opposizioni; ma esso andava “bilanciato” con l’esigenza di partecipazione delle opposizioni. Inoltre, non sussisteva alcun termine di scadenza, pertanto i lavori non erano assoggettati a tempi certi e perentori. Se si ritiene che l’ostruzionismo tecnico sia un presidio delle opposizioni, da garantire in maniera tanto maggiore quanto più è fondamentale la loro partecipazione alla decisione – e lo è senz’altro al massimo grado nel caso di discussione di un ddl di riforma costituzionale – allora si comprende come l’utilizzo di una misura anti-ostruzionistica non debba “soffocare” tale partecipazione, quando un accordo con la maggioranza si profila difficile da raggiungere. Diverso sarebbe stato il caso, non nuovo alla Camera, in cui oggetto della discussione fosse stato un provvedimento in scadenza, o un provvedimento dichiarato urgente, poiché in queste situazioni l’equilibrio interno della Camera e, conseguentemente, il buon andamento dei lavori sarebbero stati messi a rischio e gravemente compromessi da manovre ostruzionistiche particolarmente insistenti delle opposizioni. Per quanto riguarda il secondo rilievo (la relazione tra tempo e riforme costituzionali), la necessità costituzionale di trovare un accordo il più possibile ponderato tra maggioranza e opposizioni – proprio per gli effetti intrinsecamente prodotti da una legge di revisione della Costituzione32 – induce a qualificare il trascorrere del tempo come un valore e non un disvalore33. Ciò si deduce anche dalla struttura dell’art. 138 Cost., che, nell’operare una pre cisa scansione temporale – due successive deliberazioni, ad intervallo non minore di tre mesi – si palesa teleologicamente orientata a raggiungere una decisione quanto più possi bile ponderata e condivisa. Inoltre e com’è noto – a differenza della legge di conversione dei decreti-legge, di quella di bilancio, nonché, ai sensi della l. 234/2012, della legge di delegazione europea e della legge europea – il procedimento di formazione della legge, ordinaria o costituzionale che sia, non è soggetto in genere ad alcun termine. Insomma, il decorso del tempo – intendendo quest’ultimo nell’accezione di «fatto giuridico oggettivo», e non come mera dimensione temporale del diritto, elemento esterno al fenomeno giuridico 34 – è fenomeno fisiologico. 32

Cfr., in particolare, G. SILVESTRI, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in AA. VV., Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, Tomo II, Milano, 1987, pp. 1185 e s. e A. RUGGERI, Revisioni e interpretazioni della Costituzione, attraverso il prisma dei giudizi sulle leggi, in Diritto e Società, n. 4/2006, spec. pp. 634 ss. 33 Cfr. in questo senso, L. CUOCOLO, Tempo e potere nel diritto costituzionale, Milano, 2009, p. 156. 34 Per la cui trattazione cfr. l’insuperata analisi di T. MARTINES, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Opere, I, Teoria generale, Milano, 2000, spec. pp. 505 e ss.

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Più precisamente, se per «decorso del tempo» s’intende «la quantità del tempo giuridico», e si ammette che tale quantità di tempo non sia determinabile a priori quando si utilizza il procedimento ordinario, a maggior ragione nel caso di legge costituzionale si dovrà presumere che la suddetta quantità temporale debba essere ragionevole. Posto che il procedimento di formazione di una legge (anche costituzionale) è tutto interno al Parlamento, bisognerà ricercare la misura di tale quantità temporale. Tale «misura» altro non è che la «determinazione del decorso del tempo» 35, ma se questa non è posta a priori, per esempio in un regolamento, chi deve determinarla e come? Se si preferisce, chi – nel caso in esame – ha il potere di determinare il decorso del tempo? Se è vero che tempo e potere sono interconnessi36, si comprende come la suddetta mancanza di un termine per l’approvazione di una legge di revisione della Costituzione, determini che il potere in esame sia in qualche modo diffuso, nel duplice senso che si articola in più fasi nel corso del tempo e in più soggetti legittimati a parteciparvi, non essendo quindi concentrato nelle sole mani della maggioranza37. A ciò si assomma l’intrinseca maggiore stabilità nel tempo, che dovrebbe accompagnare gli effetti di ogni legge costituzionale (di attuazione o di revisione che sia). Tutti questi elementi dovrebbero comportare la necessità di privilegiare il momento della discussione rispetto a quello della decisione. E qui, il secondo rilievo si congiunge inevitabilmente con il terzo. Ovviamente, non è qui in discussione il ruolo di sintesi in genere svolto dal Presidente d’Assemblea, che dirige i lavori e, com’è noto, specie alla Camera ha un notevole potere discrezionale nella determinazione e gestione dei tempi della discussione. Si rimarca invece il fatto che, nel particolare caso di discussione e votazione di una legge di riforma costi tuzionale, il potere dello stesso Presidente d’Assemblea risulta limitato perché teleologicamente orientato in ragione delle peculiarità proprie delle leggi costituzionali sopra evidenziate; e ciò determina il quomodo dell’azione di determinazione dei tempi. In breve, se una legge ordinaria può essere “rivendicata” dalla maggioranza che l’ha voluta e votata, così non dovrebbe accadere per le riforme costituzionali, che – anche solo visti i numeri richiesti – non sono imputabili alla mera maggioranza, benché di fatto possa accadere che questa sola le voti. La differenza rispetto al procedimento ordinario consiste proprio nel momento della discussione o dibattito, che – nel caso di un ddl di riforma costituzionale – non dovrebbe subire contingentamenti, restrizioni o forzature. Tale garanzia implicita assume ancora maggior rilievo se solo si pensa che, ai sensi dell’art. 99 Reg. Cam.38, ai fini della seconda deliberazione del ddl di riforma costituzionale, nel corso della discussione in Assemblea, tra le altre cose, “non” sono ammessi nuovi emendamenti 39. 35

Sempre secondo l’insegnamento di T. MARTINES, op. ult. cit., p. 507. Per un’analisi di tale relazione cfr. L. CUOCOLO, op. cit., in particolare pp. 9 s., ma passim. 37 Il riferimento è ovviamente all’art. 138 Cost., che – alla luce dei quorum previsti – prevede che presumibilmente parte dell’opposizione partecipi al voto, al pari – nel caso di referendum costituzionale – del popolo e/o dei Consigli re gionali. 38 Che, com’è noto, dispone: «1. Ai fini della seconda deliberazione, la Commissione competente riesamina il pro getto nel suo complesso e riferisce all'Assemblea. 2. Nel corso della discussione in Assemblea non sono ammesse la questione pregiudiziale e quella sospensiva; può essere chiesto soltanto un rinvio a breve termine sul quale decide inappellabilmente il Presidente. 3. Dopo la discussione sulle linee generali si passa alla votazione finale del progetto di leg ge senza procedere alla discussione degli articoli. Non sono ammessi emendamenti, né ordini del giorno, né richieste di stralcio di una o più norme. 4. Sono ammesse le dichiarazioni di voto». 39 Cfr. al riguardo le osservazioni di A. PIZZORUSSO, Sub. Art. 138, in Commentario alla Costituzione, Garanzie Costituzionali, a cura di G, Branca, Bologna, 1981, spec. p. 716. 36

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Nella situazione qui in esame non si ravvisa solo un deficit di discussione e di coinvolgimento delle opposizioni da parte della maggioranza, ma addirittura la discussione e la vo tazione è andata avanti in assenza delle opposizioni (rappresentate da ben quattro gruppi parlamentari), che, come si è visto, hanno abbandonato fisicamente l’Aula. Seppure la scelta di questa assenza non sia strico sensu direttamente della maggioranza, indirettamente essa è certo imputabile a quest’ultima, avendo deciso di azzerare il dibattito con una seduta-fiume. In ultima analisi, se l’ostruzionismo delle opposizioni non è meramente di principio, ma è dettato da ragioni di metodo o di merito della riforma, e la maggioranza non riesce a (o non vuole) trovare un accordo, forse si dovrebbe semplicemente concludere che i tempi – politico-istituzionali e sociali – non sono ancora maturi per una riforma costituzionale, al meno per “questa” riforma. 4. La Repubblica extra-parlamentare e il suo fragile equilibrio: osservazioni conclusive Nell’esame della vicenda qui velocemente commentata, è lecito chiedersi “chi” ha di fatto determinato i tempi e i modi per la discussione e la votazione di articoli ed emendamenti del ddl di riforma costituzionale. Seppure prima facie e formalmente tutto si è svolto sotto il controllo della Presidente d’Assemblea, a ben vedere, tuttavia, sembrerebbe invece che la determinazione dei tempi sia stata predisposta unicamente dal Governo, melius del Presidente del Consiglio, che ha poi influenzato (buona parte de) la maggioranza parlamentare40. Se sussiste – come si è cercato di evidenziare – una stretta relazione tra tempo e potere, si può dedurre che, insieme ai tempi, il Governo Renzi si sia riservato di gestire anche una larga parte del potere che spetterebbe, di norma, al Parlamento. Non è molto lontano dal vero, pertanto, chi al riguardo ha parlato dei rischi di una «Repubblica extra-parlamentare» e di una democrazia decisionista e personalizzata 41. In ultima analisi ciò a cui si è assistito è un depotenziamento dei poteri non solo delle minoranze, ma dell’intero Parlamento – che dovrebbe essere il “centro” della vita democratica – a favore di un Governo sempre più forte e decisionista, qualcuno forse direbbe addirittura arrogante. Sotto questo profilo, sembra ragionevole assumere che la Presidente della Camera avrebbe potuto e dovuto (almeno tentare di) ricondurre “in” Assemblea la discussione, che invece è avvenuta largamente “fuori” dal Parlamento, assicurando un ampio margine di manovra alle opposizioni e sospendendo, in ogni caso, i lavori quando queste ultime hanno abbandonato l’Aula, in un clamoroso gesto di protesta. Per converso la Presidente altro

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Invero, come già segnalato, la stessa maggioranza al suo interno appare profondamente divisa; cfr. Riforme, Renzi: “Abbraccio a gufi e sorci verdi”. Brunetta: “Rimpiangerà il patto”, in Il Fatto Quotidiano, del 14 Febbraio 2015, in cui si legge: «Sul metodo […] le critiche più dure arrivano dagli esponenti della sinistra Pd. Come Alfredo D’Attorre, che […] ha parlato di “ruolo debordante del governo”. O come Stefano Fassina, che dice: “Avremmo dovuto sospende re i lavori e cercare un dialogo con le opposizioni, per non ripetere gli errori del 2001 e 2006 con azioni unilaterali sulle riforme”. Il senatore democratico Vannino Chiti insiste: “Suscita preoccupazione e sconcerto quanto è avvenuto alla Camera: procedere con l’assenza delle opposizioni non è un segno di determinazione ma l’esito di una sottovalutazione politica”». 41 Cfr. I. DIAMANTI, La Repubblica extra-parlamentare, in La Repubblica, 16 Febbraio 2015, p. 27.

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non ha fatto che assecondare formalmente la maggioranza, ma sostanzialmente ratificando il “trasferimento di potere” dal Parlamento al Governo. Non a caso le opposizioni hanno chiesto ed ottenuto di essere ricevute dal Presidente della Repubblica, per manifestare il proprio dissenso circa il metodo adoperato per la discussione e votazione del ddl di revisione costituzionale e per cercare, da ultimo, un possibile accordo42. Si tratta, in fondo, di un paradossale tentativo di “extraparlamentarizzare” una crisi politica nata, sì, fuori dalle Camere (fine del c.d. patto del Nazareno), ma celebratasi proprio all’interno del Parlamento (seduta fiume contro le opposizioni). In questo quadro emerge un altro paradosso: per un verso si conferma a prima vista che la figura del Presidente di Assemblea si è “politicizzata” nel corso del tempo e non incarna più l’imparziale «uomo della Costituzione», garante del Regolamento 43, per un altro verso è innegabile che la Presidente Boldrini (originariamente eletta tra le fila di SEL), ab bia avallato una decisione che va contro il suo stesso partito di origine. Più semplicemente, forse, bisogna prendere atto che il forte vento di “decisionismo”, che spira dentro e fuori di Montecitorio e Palazzo Madama, scuota fortemente la funzione di garanzia delle opposizioni che tradizionalmente spetta ai Presidenti d’Assemblea. In questo senso, non solo è stato ribaltato il delicato rapporto tra tempo e diritto – e, segnatamente, tra tempo e riforme costituzionali – ma lo stesso ruolo del Parlamento ha subito un’ennesima involuzione. Infatti, privilegiando il momento della decisione rispetto a quello della discussione e proseguendo i lavori addirittura in assenza delle opposizioni, si è negata in radice la funzione stessa dell’organo legislativo. Sotto quest’aspetto, le componenti extraparlamentari dell’ordinamento della Repubblica sembrano crescere: se e nella misura in cui il dialogo tra maggioranza e opposizioni sarà ricercato unicamente in luoghi diversi dal Parlamento, o, ancora, se i tempi della legislazione saranno appannaggio esclusivo del potere esecutivo e se il rispetto del «rigore costituzionale» verrà demandato ai soli giudici (comuni e costituzionali), invece di essere ricerca to e garantito in tutte le sedi istituzionali44. Dunque, restano auree e purtroppo inascoltate le parole di sconcertante attualità che scrisse Piero Calamandrei nell’ormai lontano 1948: «Queste forme di sprezzante rifiuto, colle quali la maggioranza ostenta di non degnarsi neppure di discutere gli argomenti del l’opposizione, mi sembrano, per la sorte del sistema parlamentare, più pericolose delle reazioni violente; è una specie di ostruzionismo a rovescio con cui la maggioranza, mirando a screditar l’opposizione, viene in realtà a tradire la ragion d’essere del Parlamento, nel quale il voto dovrebbe essere in ogni caso la conclusione di una discussione e non il mezzo brutale per soffocarla»45. 42

Cfr., tra gli altri, Sergio Mattarella incontra le opposizioni. Ascolto e mediazione ma senza intervenire. Brunetta: "Farà di tutto per il dialogo", in L’Huffington Post, 17 febbraio 2015; Le opposizioni al Quirinale. Salvini dice di no. Fedriga (Lega): "Ci andrò io", in Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2015. 43 Cfr., fra i molti, V. LIPPOLIS, Le metamorfosi dei Presidenti delle Camere, in Rivista Aic, ottobre 2013; S. CECCANTI, I Presidenti di Assemblea e la “mistica” dell’imparzialità, in Le trasformazioni del ruolo dei Presidenti delle Camere, Il Filangieri, Quaderno 2012-2013, Napoli, 2013, pp. 23 ss.; M. MIDIRI, L’incerta sorte dell’autonomia parlamentare, in Rivista Aic, n. 1/2014. In generale, sulla figura del Presidente d’Assemblea, cfr. ora E. GIANFRANCESCO-N. LUPO-G. RIVOSECCHI (a cura di), I Presidenti di Assemblea parlamentare. Riflessioni su un ruolo in trasformazione, Bologna, 2014. 44 Per la descrizione della nozione di “rigore costituzionale”, cfr. L. VIOLANTE, Il dovere di avere doveri, Torino, 2014, pp. 97 ss. 45 P. CALAMANDREI, Lo Stato siamo noi, cit., p. 84.

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È auspicabile che questa lunga notte della riforma costituzionale non coincida con la notte della Repubblica; che tutto sia concluso con la fine della seduta-fiume e che i prossi mi passi siano illuminati dalle luci dell’alba, nel rispetto delle opposizioni e in ossequio allo spirito della Costituzione. Il Parlamento, infatti, non è solo il luogo in cui «si decide», ma per definizione anche se non soprattutto il luogo «dove si parla» e non si deve avere paura di parlare. Con ciò, non si vuole sostenere che il Parlamento sia ancora il luogo – per dirla con J. Donoso Cortés, tanto amato da C. Schmitt – della sola «clasa discutidora», non intendendosi qui accentuare la “natura corrotta” e l’“incapacità di decidere” che, com’è noto, secondo Cortés caratterizzavano la classe borghese nei Parlamenti liberali 46. Si sostiene invece che la “discussione” costituisce elemento ontologico – pertanto intrinseco ed irrinun ciabile – della stessa “decisione”, a cui si dovrebbe, pertanto, addivenire per mezzo di una composizione dialettica più ampia possibile delle diverse opinioni in campo. Stia attento, quindi, il Parlamento se e quando deciderà di abdicare alla sua funzione, che Habermas definirebbe deliberativo-discorsiva, e si ricordi che ancora, nella nostra Repubblica, non ha eredi legittimi. ** Dottoranda di ricerca in Giurisprudenza ed Economia, nell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria (simona.polimeni@unirc.it).

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Più in generale, per una panoramica sulle diverse posizioni di Kelsen, Schmitt e Donoso Cortés in merito al rapporto sussistente tra democrazia e valori meta-democratici, privilegiando, rispettivamente, il primo il momento della discussione, e i secondi due invece quello della decisione, cfr. A. SPADARO, Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano, 1994, spec. pp. 245 e s.

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Monitore della Giurisprudenza costituzionale (decisioni 235-286/2014)

DIALOGO TRA CORTI IN TEMA DI DANNO MORALE Corte Cost., sent. 6 – 16 ottobre 2014, n. 235, pres. Tesauro, red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 139 del d. lgs. 7 settembre del 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private)] (artt. 2, 3, 24, 32, 76, 117, primo comma) Il meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico (permanente o temporaneo) da lesioni di lieve entità derivanti da sinistro stradale, introdotto dall’art. 139 del Codice delle assicurazioni private (d. lgs. 209/2005), a parere dei ricorrenti risultava lesivo del diritto alla piena riparazione del danno subìto poiché irrigidiva i criteri e limitava le percentuali di calcolo risarcitorio per i soli danni derivanti da sinistri stradali e non prevedeva il c.d. danno morale tra le voci di risarcimento. Con riferimento a tale ultima doglianza la Corte nel decidere per l’infondatezza della questione, richiama la celebre sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni unite della Corte di cassazione civile dalla quale risulta “ben chiarito (nel quadro, per altro, proprio della definizione del danno biologico recata dal comma 2 del medesimo art. 139 cod. ass.) come il cosiddetto “danno morale” − e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato − «rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente».” Di conseguenza, la norma denunciata non impedisce la risarcibilità anche del danno morale, che il giudice potrà liquidare all’interno del danno biologico, laddove ne ricorrano in concreto i presupposti. Anche per ciò che concerne i limiti lamentati alla risarcibilità del danno alla persona la Corte dichiara la non fondatezza della questione. Infatti, la rigidità dei criteri risarcitori introdotti dalla disciplina oggetto del giudizio è frutto di un ragionevole bilanciamento di interessi, e, segnatamente, l’integralità del risarcimento del danno alla persona da un lato e l’interesse, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi obbligatori dall’altro. Nuovamente la Corte ricorda la citata pronuncia delle Sezioni unite nella parte in cui si puntualizza “come il bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona ed il dovere di solidarietà (di cui, rispettivamente, al primo e secondo comma dell’art. 2 Cost.) comporti che non sia risarcibile il danno per lesione di quei diritti che non superi il «livello di tollerabilità» che «ogni persona inserita nel complesso contesto sociale […] deve accettare in virtù del dovere di tolleranza che la convivenza impone».” [F. Minni]

CREDITI D’IMPOSTA E RICOSTRUZIONE CARENTE DEL QUADRO NORMATIVO Corte Cost., sent. 6-16 ottobre 2014, n. 236, Pres. Tesauro, Red. Coraggio


Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 29, c. 1 e 2, lett. a) e 3, primo periodo e prima parte della lett. a), d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con modif. dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2] (Art. 3 Cost.) La decisione ha ad oggetto le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Commissione tributaria provinciale di Treviso relativamente alle norme del d.l. 185/2008 che estendono la disciplina generale sul monitoraggio dei crediti d’imposta a tutti i crediti vigenti all’entrata in vigore dello stesso, fissando un tetto massimo all’ammontare del credito riconoscibile alle imprese, senza fare salvi i diritti sorti ai sensi della disciplina previgente (art. 1, c. 280-283, l. 27 dicembre 2006, n. 296). A detta dei giudici a quibus, tali previsioni si risolverebbero nell’abolizione di crediti già entrati nel patrimonio dei contribuenti, con una lesione dell’art. 3 Cost. sia sotto il profilo della tutela dell’affidamento del cittadino nella certezza delle situazioni giuridiche, sia in relazione al criterio di selezione delle imprese in concreto autorizzate a fruire del beneficio, basato esclusivamente sulla priorità cronologica di invio dell’apposito modulo all’Agenzia delle Entrate. Le ordinanze di rimessione hanno tuttavia omesso di considerare le non trascurabili innovazioni apportate al quadro normativo dall’art. 2, c. 236, l. 191/2009 e dall’art. 4, c. 1, d.l. 40/2010, peraltro in senso favorevole al contribuente. Il fatto che tali disposizioni, pur citate dai rimettenti, non siano state valutate nella loro concreta incidenza “sulle situazioni soggettive e sui valori che venivano in gioco”, rende quindi inammissibili le questioni [M. Morvillo]. Un altro traguardo per il principio di coordinamento della finanza pubblica Corte Cost., sent. 6-16 ottobre 2014, n. 237, Pres. Tesauro, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Artt. 1, commi 5 e 8, e 4, comma 10, del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, conv., con mod., dall’art. 1, comma 1, della legge 30 ottobre 2013, n. 125] (Artt. 79, 103 e 104 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; Artt. 79, 80 e 81 dello statuto e relative norme di attuazione di cui agli artt. 17, 18 e 19 del d.lgs 16 marzo 1992, n. 268; Artt. 87 e 88 dello statuto e d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305; Artt. 8, num. 1), e 16 dello statuto; Artt. 2 e 4 del d.lgs 16 marzo 1992, n. 266; Artt. 117, commi 3, 4, 6, 118 e 119, comma 1, Cost.; Art. 10 della l. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3; principio di ragionevolezza) Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Provincia autonoma di Trento aventi a oggetto disposizioni disciplinanti: a) la ulteriore decurtazione della spesa sostenuta dalle amministrazioni pubbliche dell’elenco ISTAT per studi e incarichi di consulenza rispetto a quanto previsto dall’art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010; b) l’affidamento del compito di verificare il rispetto dei vincoli finanziari in materia di contenimento della spesa ad organi ministeriali; c) le modalità di accesso alle pubbliche amministrazioni. L’iter argomentativo della Corte e’ duplice: le disposizioni censurate sono infatti riconducibili al principio di coordinamento della finanza pubblica (a e c), connotandosi altresi’ come disposizioni di principio, determinanti un mero obbligo di adeguamento in capo alla Provincia, in virtù della clausola di salvaguardia di cui all’art. 12-bis del d.l. (a, b e c). La sentenza si colloca peraltro in continuità con precedenti


pronunce con cui la Corte aveva qualificato disposizioni analoghe come principi fondamentali di coordinamento (sentt. 221/2013, 72/2014, 277/2013, 18/2013) [E. Pattaro]. CONVENZIONI INTERNAZIONALI E CRIMINI NAZISTI: SUL FRONTE DEI CONTROLIMITI Corte cost., sent. 22-29 ottobre 2014, n. 238, Pres. Tesauro, Red. Tesauro Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 1, L. 17 agosto 1957, n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite); Art. 1 [recte: Art. 3], L. 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni)] (Artt. 2 e 24 Cost.) La consuetudine internazionale sull’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati stranieri, nel suo contenuto preclusivo della tutela giurisdizionale per i danni subiti dalle vittime di crimini di guerra e contro l’umanità, vede chiudersi le porte dell'ordinamento italiano, per mano della Corte costituzionale, in forza del baluardo dei controlimiti. Con la sentenza del 3 febbraio 2012, infatti, la Corte internazionale di giustizia (CIG) aveva ritenuto inclusi, tra gli atti iure imperii sottratti per generale riconoscimento internazionale alla giurisdizione di cognizione, anche i gravi crimini lesivi di diritti inviolabili della persona commessi nei confronti di cittadini italiani tra il 1943 e il 1945 dalle truppe del Terzo Reich. Pur premettendo che «l’interpretazione da parte della CIG della norma consuetudinaria […] è un’interpretazione particolarmente qualificata, che non consente un sindacato», e «lasciando agli organi internazionali la ricognizione della prassi ai fini della rilevazione delle norme consuetudinarie e della loro evoluzione», la Corte colloca la propria decisione tra i materiali normativi giurisprudenziali che producono «un ulteriore ridimensionamento della portata della predetta norma, limitato al diritto interno ma tale da concorrere, altresì, ad un’auspicabile e da più parti auspicata evoluzione dello stesso diritto internazionale». Facendo un inedito excursus ricognitivo della categoria dei controlimiti, la Corte vi annovera il diritto ad accedere alla giustizia per far valere i propri diritti inviolabili, posto a presidio, nella dimensione sostanziale e processuale che emerge congiuntamente dagli artt. 2 e 24 Cost, dell'inviolabile diritto alla dignità della persona. Tale principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale non si sottrae al bilanciamento, purché sussista «un interesse pubblico riconoscibile come potenzialmente preminente» di cui deve essere garantita «una rigorosa valutazione […] alla stregua delle esigenze del caso concreto». Nel caso di specie, la Corte ritiene che «il sacrificio totale del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti delle suddette vittime» non sia giustificato da un prevalente interesse pubblico, poiché «ciò che si protegge è l’esercizio illegittimo della potestà di governo dello Stato straniero, quale è in particolare quello espresso attraverso atti ritenuti crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona». Essa dichiara pertanto che «la parte della norma sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati che confligge con i predetti principi fondamentali non è entrata nell’ordinamento italiano», contrastata dai limiti all'operatività del rinvio di cui all'art. 10, c. 1, Cost. La questione di legittimità sulla consuetudine internazionale è dunque infondata, mentre quegli stessi motivi di «manifesto» contrasto con gli artt. 2 e 24 Cost. conducono alla dichiarazione di incostituzionalità delle norme di adattamento alla Carta delle Nazioni Unite e di adesione alla Convenzione di New York, nella misura


in cui impongono al giudice di negare la propria giurisdizione in ottemperanza alla sentenza della CIG [C. Domenicali].

BILANCIAMENTO E AUTOMATISMI LEGALI Corte cost., sent. 22 ottobre 2014, n. 239, Pres. Tesauro, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, co 1] (Artt. 3, 29, 30 e 31 Cost.) Impugnata è la disposizione della legge sull’ordinamento penitenziario che esclude la concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti condannati per taluni gravi delitti che non collaborino con la giustizia, nel punto in cui tale disposizione accomuna sotto lo stesso regime di esclusione benefici “comuni” e la misura della detenzione domiciliare speciale prevista a favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni. La legge, così facendo, accomuna due ordini di misure alternative al carcere in maniera irragionevole: mentre, infatti, per i comuni benefici penitenziari si ha riguardo al solo reinserimento sociale del condannato, nel caso della detenzione domiciliare speciale si ha riguardo al preminente interesse del figlio minore a recuperare un normale rapporto di convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario. In tal modo, fra l’altro, la legge finisce per far ricadere su un soggetto “terzo” e incolpevole le responsabilità della madre e la sua scelta di non collaborare con la giustizia. Nel giungere all’accoglimento della questione così formulata, la Corte ripercorre sia la progressiva estensione normativa dei benefici legati alla maternità delle condannate sia l’evoluzione della propria giurisprudenza tesa a mitigare gli automatismi normativi diretti a escludere i benefici penitenziari sulla base di indici presuntivi di pericolosità dei condannati (sentt. 306/1993; 135/2003; 177/2009). La Corte accoglie la questione fissando però alcuni paletti, frutto di bilanciamento tra esigenze di tutela dell’interesse del minore ed esigenze di protezione della società dal crimine. La speciale misura alternativa al carcere, infatti, deve poter essere concessa alla condannata madre non in virtù dell’assoluta preminenza dell’interesse del minore, ma anche a condizione dell’insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti. Tale requisito va comunque valutato dal giudice di sorveglianza; quello che muta con l’intervento demolitorio della Corte è il superamento del vincolo alla discrezionalità del giudice determinato dalla collaborazione della condannata con la giustizia quale esclusivo indice della mutata pericolosità della condannata. A rincalzo dei parametri “sostanziali” di costituzionalità interni (artt. 29, 30 e 31 Cost., che si aggiungono a quello dell’art. 3 Cost.) la Corte invoca anche i parametri internazionali ed europei della Convenzione sui diritti del fanciullo di New York e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, laddove entrambe qualificano come “superiore” l’interesse del minore. [A. Guazzarotti]

Il GIUDIZIO DI UGUAGLIANZA È «NECESSARIAMENTE DINAMICO» Corte Cost., sent. 22-24 ottobre 2014, n. 241, Pres. Napolitano, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale


[D. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 271, c. 2] (Cost., artt. 3, 18, 114, 118, 199, 97) Oggetto di impugnazione è la norma del t.u. EE.LL. che esclude la possibilità per gli enti locali di distaccare il personale presso associazioni diverse da quelle tassativamente indicate (ANCI, UPI, etc). Secondo la Corte, «il parametro della eguaglianza non esprime la concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata in funzione di un valore immanente dal quale l’ordinamento non può prescindere, ma definisce l’essenza di un giudizio di relazione che, come tale, assume un risalto necessariamente dinamico» (sent. n. 89 del 1996). L’ordinanza di rimessione risulta carente di una adeguata motivazione, con riferimento agli artt. 3 e 18 Cost.; tutto immotivate si configurano anche le denunciate ulteriori violazioni che la norma arrecherebbe agli artt. 114, 118 e 119 e all’art. 97 Cost. A siffatti profili di inammissibilità, si aggiunge quello derivante dalla specifica formulazione della richiesta di pronuncia di incostituzionalità della norma: «il petitum, per la ampiezza della sua portata additiva – in cui, tra l’altro, l’evocato princípio della maggiore rappresentatività neppure viene contemplato quale criterio per l’attribuzione del beneficio de quo –, non si configura come unica soluzione costituzionalmente obbligata (sentt. nn. 81 e n. 30 del 2014), in quanto diretta ad una generale ed indiscriminata estensione dell’ámbito di applicabilità del beneficio medesimo a tutte le altre associazioni di enti locali». [A. Cossiri] LE SCUOLE PARITARIE, PARI SONO! Corte Cost., Sent. 22 ottobre – 24 ottobre 2014, n. 242, Pres. Napolitano, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 1, comma 4, lettera f), della legge 10 marzo 2000, n. 62 recante Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione] (artt. 3, 33, 41, 76 Cost.) La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate tutte le censure. Si è rilevato che la normativa oggetto di impugnazione prevede una serie di requisiti, che devono contestualmente sussistere, ai fini del riconoscimento della parità degli istituti scolastici. É nell’ambito di tali requisiti che è prevista, alla lett. f), «l’organica istituzione di corsi completi» e la possibilità – in via eccezionale, nella fase di istituzione di nuovi corsi − di ottenere la parità per singole classi, ad iniziare dalla prima. Secondo il Giudice delle leggi l'interpretazione della normativa impugnata deve necessariamente «tenere conto sia del riferimento alla nozione di “corsi completi”, sia dell’ulteriore principio di “organicità”; entrambi inducono ad escludere – nella fase transitoria di passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento scolastico − la possibilità del riconoscimento della parità per quelle classi che non possano più funzionare sulla base dell’ordinamento ormai superato». Si è esclusa la sussistenza di irragionevoli disparità di trattamento nei confronti degli istituti paritari poiché la possibilità di attivare solo le classi prime dei nuovi percorsi didattici è stata affermata allo stesso modo, sia per le scuole statali, sia per le scuole non statali, come peraltro risulta anche da una nota del Ministero dell'istruzione dell’università e della ricerca del 16 marzo 2010 con cui si è stabilito che, a partire dall’anno scolastico 2010/11, tutte le istituzioni scolastiche (statali e paritarie) avrebbero dovuto confluire nel nuovo ordinamento e avrebbero potuto attivare solo classi prime relative ai nuovi percorsi didattici. Infondata la censura relativa all'art. 33 Cost.: non è compresso il diritto delle studente e della famiglia di scegliere la scuola, rinvenendo la ratio del divieto di istituire


classi successive alla prima «nell’esigenza di assicurare il graduale ed organico passaggio dai vecchi ai nuovi corsi di studio». Secondo la Consulta, «il principio di organicità ... è volto ad escludere dall’ambito della parità scolastica quegli istituti che − nell’indirizzare la propria attività verso un’offerta formativa ormai superata − non assicurino la piena rispondenza al progetto educativo della programmazione scolastica statale. Ed invero può escludersi che sussista tale rispondenza per quegli istituti privati, non ancora paritari, che chiedano il riconoscimento della parità non solo per il nuovo corso istituito a partire dalla prima classe in base al nuovo ordinamento, ma per la prosecuzione di corsi già avviati in base all’ordinamento previgente». In ragione di ciò la Corte ritiene che la ratio della norma oggetto di impugnazione appaia «coerente con la finalità di assicurare il rispetto degli standard qualitativi ai quali la scuola paritaria deve rispondere e, in secondo luogo, di garantire il ruolo riconosciuto alle scuole paritarie nel sistema nazionale di istruzione pluralistico, previsto dall’art. 33, quarto comma, Cost.». Rispetto all'art. 41 Cost., la Corte ritiene che non sia integrata alcuna violazione della libertà di iniziativa economica delle scuole paritarie, perché si tratta di limiti frutto di un ragionevole bilanciamento. Del tutto inconferente, infine, la violazione dell'art. 76 Cost. [C. Drigo]

ISTITUTI PROCESSUALI E DISCREZIONALITA’ DEL LEGISLATORE Corte Cost., sent. 22 ottobre 2014 , n. 243, Pres. Tesauro, Red. Criscuolo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 445-bis c.p.c.; art. 10 c. 6-bis d.l. 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito con modificazioni dall’art.1 c.1 L. 2 dicembre 2005, n. 248– comma aggiunto dall’art. 20, c. 5bis, del d.l. n. 78 del 2009, come modificato dalla relativa legge di conversione n. 102 del 2009, indi innovato dall’art. 38, comma 8, del d.l. n. 98 del 2011, come modificato dalla relativa legge di conversione n. 111 del 2011] (Artt. 3, 24, 38, 111) Il giudice a quo impugna in toto l’art. 445-bis c.p.c., il quale disciplina l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio (ATP) nelle controversie in materia d’invalidità civile. In tali casi, infatti, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti deve preventivamente presentare ricorso per ottenere l’accertamento tecnico delle proprie condizioni sanitarie. E’ impugnato anche l’art. 10 c. 6-bis d.l. n. 203/2005, come convertito e da ultimo modificato, che nei procedimenti giurisdizionali civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed assistenziali, e dunque anche nell’ATP, produrrebbe uno scompenso del principio del contraddittorio, attribuendo al consulente di parte INPS una sorta di libera mobilità e di intervento senza regole di cui non gode l’eventuale consulente di parte del lavoratore. L’intera disciplina illustrata violerebbe, per il rimettente, l’art. 3 (prevalentemente per la disparità di trattamento riservata ai ricorsi in materia di invalidità civile), l’art. 24 (diritto di azione e difesa), l’art. 38 (diritto di assistenza sociale), l’art. 111 sotto vari profili (es. poiché la disciplina in oggetto avrebbe introdotto una nuova forma di «giurisdizione condizionata» non giustificata da «interessi generali» e avrebbe ridotto l’organo giudiziario «a mero organismo sussidiario» rispetto alle operazioni peritali). L’articolata motivazione della Corte che analizza puntualmente le varie questioni sollevate può essere ricondotta a due principali argomentazioni che rendono le questioni infondate o addirittura inammissibili: il congruo bilanciamento che il legislatore ha svolto


tra i principi invocati dal giudice a quo e altri interessi generali (quali la riduzione del contenzioso assistenziale, il contenimento della durata dei relativi processi, il conseguimento della certezza giuridica in ordine all’accertamento del requisito medicosanitario) e l’ampia discrezionalità del legislatore in tema di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali. In riferimento a questo secondo profilo la Corte ritiene non ammissibile la questione relativa all’art. 445-bis c. 7 c.p.c. che sancisce l’inappellabilità della sentenza che definisce l’ATP. Come ricordano i giudici costituzionali «la garanzia del doppio grado di giurisdizione non gode, di per sé, di copertura costituzionale (ex multis, ordd. 42/2014, 190/2013, 410/2007, 84 /2003). In ogni caso, si verte nella fattispecie in tema di conformazione degli istituti processuali, non sindacabile da questa Corte per l’ampia discrezionalità spettante al legislatore (ex multis, sentt. 65/2014 e 216/2013; ordd. 48/2014 e 190/2013)». [C. Bologna] LEGITTIMA LA “MARCIA INDIETRO” SUL TFR DEI DIPENDENTI PUBBLICI Corte Cost., sent. 22-28 ottobre 2014, n. 244, Pres. Napolitano, Red. Morelli Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 1, c. 98-99, legge 24 dicembre 2012, n. 228 – legge di stabilità 2013] (artt. 3, 24, 35 c. 2, 36 c. 1, 101, 102, 103, 104, 113, Cost.) Per comprendere l’oggetto della decisione di infondatezza è necessario ripercorrere le tappe della intricata vicenda normativa e giurisprudenziale. Inizialmente, il lavoratore pubblico alla fine del rapporto aveva diritto alla indennità di buonuscita disciplinata per i dipendenti del comparto statale dal d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 ed alla indennità premio di servizio, riconosciuta ai dipendenti del comparto locale dalla legge 8 marzo 1968, n. 152. L’indennità di buonuscita – detta anche trattamento di fine sevizio (TFS) – era corrisposta da un fondo finanziato, tra l’altro, da un contributo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda a carico dell’Amministrazione di appartenenza, con diritto, della stessa, di rivalersi sul dipendente del 2,50% di tale importo. L’art. 2 del d.p.c.m. 20 dicembre 1999, dando concreta attuazione alle previsioni già contenute nella n. 335 del 1995 di Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, disponeva il passaggio al regime del trattamento di fine rapporto (TFR), di cui all’art. 2120 del codice civile, nei confronti del personale delle pubbliche amministrazioni assunto (a tempo indeterminato) successivamente al 31 dicembre 2000. In tal modo, si dava luogo ad un duplice regime: TFS, per i dipendenti assunti prima del 2001 e TFR per i dipendenti assunti a partire dal medesimo anno. Il d.l. n. 78/2010, al fine di completare l’estensione delle regole civilistiche in materia di TFR a tutti i pubblici dipendenti, superando il dualismo esistente, disponeva che a decorrere dal primo gennaio 2011 «il computo dei trattamenti di fine servizio si effettua secondo le regole di cui al citato articolo 2120 del codice civile, con applicazione dell’aliquota del 6,91 per cento». La disposizione citata nulla specificava in ordine alla vigenza, o meno, della trattenuta del 2,50%, che tuttavia le Amministrazioni pubbliche avevano di fatto continuato ad operare nei confronti del dipendente. Da qui una prima sentenza della Corte costituzionale, n. 223 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art. 12, c. 10, d.l. n. 78 del 2010, nella parte «in cui non esclude l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032». In seguito, il legislatore interviene con d.l. n. 185 del 2012 con cui si prevede l’abrogazione dell’art. 12, c. 10, del d.l. n. 78 del 2010, con sostanziale ripristino del regime di TFS per i dipendenti pubblici da questo interessati. Il d.l. in parola decade in quanto non convertito in legge, ma i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge n. 228 del 2012, che forma oggetto della


questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Reggio Emilia: le disposizioni impugnate, abrogando le citate disposizioni del d.l. 78/2010, prevedono che «I trattamenti di fine servizio, comunque denominati, (…) sono riliquidati d’ufficio» (c. 98) e che sono estinti di diritto i «processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,50 per cento» e «le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti» (comma 99). La Corte costituzionale rigetta la questione di costituzionalità promossa ai sensi degli artt. 3 e 36 Cost., in quanto il ristabilirsi del regime del regime duale TFS/TFR «non integra un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto» e, comunque, «il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi». Non vi è neanche violazione degli altri parametri (artt. 24, 101, 102, 104 e 113 Cost.) evocati dal rimettente. La disposta estinzione dei giudizi in corso è legittima, nella misura in cui l’interesse dei ricorrenti alla restituzione del contributo del 2,50% è venuto meno con il ripristino (ad opera della normativa impugnata) del previgente regime di TFS, nel cui contesto quel contributo concorre a finanziare il fondo erogatore dell’indennità di buonuscita: infatti «il legislatore, intervenendo a regolare una data materia, può anche incidere sui giudizi in corso, dichiarandoli estinti, senza ledere il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall’art. 24 Cost., ove la nuova disciplina, lungi dal tradursi in una sostanziale vanificazione dei diritti azionati, sia tale da realizzare, come nella specie, le pretese fatte valere dagli interessati, così eliminando le basi del preesistente contenzioso (sentenze n. 223 del 2001 e n. 310 del 2000)». Inoltre, «non può dirsi irragionevole la diversità di trattamento tra i dipendenti che, nelle more, abbiano ottenuto la restituzione del 2,50% con sentenza passata in giudicato (…) e quelli che non l’abbiano ottenuta per il sopravvenuto ripristino dell’indennità di buonuscita», poiché ciò è «inevitabilmente dovuto alla successione di diverse disposizioni normative ed al generale principio di intangibilità del giudicato» [S. Calzolaio]. SULLA LEGITTIMITA’ DELLA DIVERSITA’ DI ALCUNE DISPOSIZIONI DELLA PROCEDURA PENALE DI FRONTE AL GIUDICE DI PACE Corte Costituzionale, Ordinanza 22 ottobre – 28 ottobre 2014 n. 245, Pres. Tesauro – Red.Frigo; Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art.20 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace a norma dell’articolon14 della legge 24 novembre 1999 n.468), come modificato dall’art.17 del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale) convertito con modificazioni dalla legge 31 luglio 2005 n. 155, nella parte in cui prevede che il decreto di citazione possa essere emesso in difetto di istruttoria o comunque di avviso della conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p.] (cost. artt. 3 e 24) Con due ordinanze di analogo tenore il Giudice di pace di Viterbo ha sollevato in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione questioni di legittimità costituzionale rispetto all’art. 20 del decreto legislativo n. 274 del 2000 “nella parte in cui prevede che il decreto di citazione possa essere emesso in difetto di istruttoria o comunque di avviso della conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415 bis c.p.p.” poiché alla prima


udienza dibattimentale il difensore dell’imputato aveva eccepito la nullità della citazione a giudizio , in quanto il suo assistito non era stato preventivamente “ascoltato” dal pubblico ministero deducendo a tal fine l’illegittimità costituzionale della suddetta disposizione. Secondo il giudice rimettente infatti tale questione sarebbe rilevante giacchè la sua risoluzione si porrebbe in rapporto di “strumentalità necessaria” rispetto alla pronuncia sull’eccezione della difesa. Il giudice a quo sottolinea che nel prevedere l’immediata citazione a giudizio della persona che è stata sottoposta ad indagini , la norma censurata violerebbe il principio di uguaglianza (art.3 cost.), ponendo l’indagato per reati di competenza del giudice di pace in posizione deteriore rispetto all’indagato per reati di competenza del giudice ordinario. Nel procedimento davanti al giudice ordinario trova infatti applicazione l’art. 415 bis c.p.c. in forza del quale il pubblico ministero , qualora non debba chiedere l’archiviazione, e tenuto a far notificare all’indagato ed al suo difensore – a pena di nullità del successivo decreto di citazione a giudizio – l’avviso di connclusione delle indagini preliminari. I rimettente sottolinea altresì che la medesima disposizione riconosce all’indagato la facoltà di prendere visione della documentazione relativa agli atti di indagine e, nei venti giorni successivi alla notifica dell’avviso, di presentare memorie , produrre documenti chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine , ovvero di essere ascoltato: facoltà delle quali resta privo l’indagato per reati di competenza del giudice di pace . Sempre secondo il rimettente, in siffatti giudizi di fronte al giudice di pace, tale disparità di trattamento non troverebbe una ragionevole giustificazione nel le esigenze di celerità e semplificazione proprie del procedimento dinnanzi al giudice di pace . Nella mancata previsione della necessità di notificare all’indagato ed al suo difensore l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’art.415 bis c.p.p. ravvisa una violazione del principio di eguaglianza (art. 3 cost.) in rapporto alle maggiori garanzie accordate all’indagato per i reati di competenza del tribunale nonché del diritto di difesa (art.24 Cost.). La Corte, rilevando che le due ordinanze hanno contenuto identico, riuniscono i giudizi. In primo luogo i giudici della Corte sottolineano di aver già dichiarato in più occasioni , manifestamente infondate questioni sostanzialmente analoghe ancorchè riferite ad altra norma. ( ord. 415 e 85 del 2005, nn 349 e 201 del 2004). Si osserva poi che” le forme di esercizio del diritto di difesa possono essere variamente modulate dal legislatore in relazione alle caratteristiche dei singoli riti e ai criteri che li ispirano- si è infatti rilevato che il procedimento penale davanti al giudice di pace configura un modello di giustizia autonomo, non comparabile con il procedimento per i reati di competenza del tribunale in quanto ispirato a finalità di snellezza , semplificazione e rapidità”. La Corte nota altresì che “l’omessa previsione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari si rivela in particolare , con il ruolo marginale che nel procedimento in questione è assegnato alla fase delle indagini, le quali si sostanziano in una fase investigativa affidata in via principale alla polizia giudiziaria : ruolo marginale che a sua volta rispecchia, tanto le esigenze di massima semplificazione tipiche di tale procedimento, quanto la vocazione conciliativa della giurisdizione onoraria la quale trova la sua sede naturale di esplicazione nell’udienza di comparizione , ove avviene il primo contatto tra le parti ed il giudice.” Si rileva inoltre che “le esigenze di informazione dell’imputato prima di tale udienza sono comunque assicurate dall’avviso, contenuto nella citazione a giudizio, , della facoltà di prendere visione e di estrarre copia del fascicolo relativo alle indagini preliminari, depositato presso la segreteria del pubblico ministero, nonché dall’indicazione , contenuta nel medesimo atto , delle fonti di prova di cui il pubblico ministero chiede l’ammissione ( art.20 comma 1 lett. f e c, d.lgs n. 274 del 2000). Pertanto la corte ritiene che la questione debba essere dichiarata manifestamente infondata [C. Camposilvan]. DECRETO DI LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA


E TUTELA DEI TERZI: UNA QUAESTIO MAL POSTA Corte Cost., sent. 22-31 ottobre 2014, n. 248, Pres. Tesauro, Red. Napolitano Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 200, c.1, in comb. disp. con artt. 42 e 44, R. D. 16 marzo 1942, n. 267] (Art. 3 Cost.) La Corte costituzionale dichiara «inammissibile sotto molteplici profili» una q.l.c. proposta dal Tribunale di Pisa in relazione all’art. 200, c. 1, in combinato disposto con gli artt. 42 e 44, della L. fallimentare, nella parte in cui prevede che per i terzi di buona fede gli effetti della liquidazione coatta amministrativa si producano «dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione, anziché dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale o di iscrizione nel registro delle imprese del medesimo provvedimento». Raffrontando tale disciplina con quella prevista per il fallimento (in cui i terzi sono «tutelati adeguatamente» dal regime di pubblicità della relativa sentenza), il rimettente denuncia una «ingiustificata disparità di trattamento dei terzi di buona fede nell’ambito della liquidazione coatta», per i quali la conoscenza legale della procedura coincide con la «mera emissione del decreto» di liquidazione. L’inammissibilità è motivata dalla Corte su tre profili. Primo, la formulazione del petitum evidenzia come il Tribunale abbia chiesto di rimuovere l’illegittimità della disposizione «attraverso due distinte modalità di intervento sul testo della norma censurata senza optare per l’una ovvero per l’altra»: la questione risulta quindi ancipite, in quanto proposta in termini di alternatività irrisolta e, per giurisprudenza costante (ex plurimis, sentt. n. 198/2014 e 87/2013), non spetta alla Corte «scegliere tra le due soluzioni prospettate dal rimettente». Secondo, il regime di pubblicità del decreto di liquidazione coatta «consente di ipotizzare diverse soluzioni in ordine alla decorrenza dei suoi effetti rispetto ai terzi», tutte «praticabili perché non costituzionalmente obbligate». L’intervento chiesto dal rimettente appare perciò «senz’altro creativo» e la richiesta di una «pronuncia manipolativa non costituzionalmente obbligata» eccede i poteri della Consulta. Terzo, l’ordinanza di rimessione tace su aspetti che la Corte ritiene essenziali, imperniati sull’ampiezza della nozione di “terzi” e sulla possibilità di includervi i creditori dell’impresa: dato che il caso di specie riguarda proprio un pagamento effettuato ad un creditore, l’ordinanza risulta carente di motivazione sulla rilevanza. [C. Bergonzini] LA CORTE TORNA SUL RINVIO RECETTIZIO Corte cost., sent. 3 novembre 2014, n. 250, Pres. Napolitano, Red. Napolitano Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 6-ter, comma 1, del decreto-legge 20 giugno 2012, n. 79 (Misure urgenti per garantire la sicurezza dei cittadini, per assicurare la funzionalità del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e di altre strutture dell’Amministrazione dell’interno, nonché in materia di Fondo nazionale per il Servizio civile), aggiunto dall’art. 1, comma 1, della legge di conversione 7 agosto 2012, n. 131 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 giugno 2012, n. 79, recante misure urgenti per garantire la sicurezza dei cittadini, per assicurare


la funzionalità del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e di altre strutture dell’Amministrazione dell’interno, nonché in materia di Fondo nazionale per il Servizio civile. Differimento di termine per l’esercizio di delega legislativa] (artt. 3, primo comma, 24 e 113, primo e secondo comma, Cost) Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio pone la Corte costituzionale di fronte ad un’annosa questione, laddove sostiene che la disciplina contestata, nella parte in cui prevede, in relazione al settore del traffico e della mobilità nel territorio delle Province di Treviso e Vicenza, che “Restano fermi gli effetti” della deliberazione del Consiglio dei ministri 31 luglio 2009, e, segnatamente, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 40191 del 31 luglio 2009 (e successive proroghe) nonché dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3801 del 15 agosto 2009, provvedimenti che hanno, rispettivamente, dichiarato la situazione emergenziale ed attuato la gestione commissariale nell’ambito dei lavori per la realizzazione dell’opera viaria denominata strada pedemontana veneta, abbia contenuto provvedimentale, operando un rinvio materiale e dunque recettizio al richiamato provvedimento amministrativo. Così facendo, il legislatore avrebbe “legificato” sia la dichiarazione dello stato di emergenza sia le conseguenti previsioni di nomina e attribuzione dei poteri al Commissario delegato, così violando l’art. 3, 1° c. Cost., per avere dettato una disciplina che ha irragionevolmente cristallizzato un regime derogatorio; gli artt. 3, 1° c., 24 e 113, 1° e 2° c. Cost., per avere ridotto l’ambito del diritto di difesa dei ricorrenti nei giudizi a quibus, limitando la possibilità di ottenere l’annullamento di provvedimenti illegittimi e creando, per costoro, una disparità di trattamento nei confronti di tutti gli altri soggetti lesi dall’attività amministrativa. La Consulta non condivide tuttavia il presupposto del ragionamento del giudice remittente, ricordando che, secondo costante giurisprudenza costituzionale, per accertare la natura del rinvio e il significato che ad esso deve attribuirsi è necessario desumere “dal testo della disposizione censurata, l’intento del legislatore” (cfr., sent. n. 85 del 2013). In particolare, quanto ai criteri per distinguere la natura del rinvio, nella sentenza n. 80 del 2013 la Corte ha affermato che “l’effetto − che produce una forma di recezione o incorporazione della norma richiamata in quella richiamante − non può essere riconosciuto a qualsiasi forma di rimando, ma è ravvisabile soltanto quando la volontà del legislatore di recepire mediante rinvio sia espressa oppure sia desumibile da elementi univoci e concludenti”, non essendo sufficiente “rilevare che una fonte ne richiama testualmente un’altra, per concludere che la prima abbia voluto incidere sulla condizione giuridica della seconda o dei suoi contenuti”. Ne discende che, nel solco tracciato dalla dottrina tradizionale, anche la Corte ha ritenuto operante una presunzione di rinvio formale. Nella recente sentenza n. 85 del 2013 si precisa, infatti, che “La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e n. 536 del 1990)”. Nel caso di specie, invece, in senso contrario alla natura recettizia del rinvio militano numerosi fattori, tra i quali − oltre alla portata meramente ricognitiva della locuzione “Restano fermi gli effetti” desunta dall’analisi complessiva della norma nel contesto della sua genesi − rilevano l’eterogeneità dei provvedimenti richiamati dalle lettere a) e b) del comma 1 della disposizione gravata; la volontà del legislatore di selezionare le gestioni commissariali meritevoli di essere tenute indenni dalle limitazioni introdotte dal precedente d.l. n. 59 del 2012 col quale si era attuato il riordino della protezione civile, in relazione all’importanza dell’opera o alla rilevanza dell’interesse inciso; l’assenza, in tali casi, di nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica; la mancata previsione di effetti sananti, espressi o desumibili


dalla finalità della norma. Il che esclude che il legislatore abbia inteso “legificare” i citati provvedimenti, conferendo loro forma di legge provvedimento [M. Belletti]. GIUDIZIO DI OMOGENEITÀ DELLA CONVERSIONE E “CONTESTUALITÀ” Corte Cost., sent. 3-7 novembre 2014, n. 251, Pres. Napolitano, Red. Cartabia Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 11-nonies, c. 1, lett. a) e b) e 2, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, conv. con modif. dalla l. 2 dicembre 2005, n. 248] (Artt. 3, 41 e 77, c. 2 Cost.) La sentenza in esame rigetta le questioni sollevate dal Consiglio di Stato con due distinte ordinanze relativamente alla disciplina dei diritti aeroportuali introdotta dal d.l. 203/2005. Quanto al presunto contrasto delle norme impugnate con gli artt. 3 e 41 Cost., la questione è da ritenersi inammissibile. Il contrasto con l’art. 77, c. 2 Cost. deriverebbe invece dalla circostanza che la disciplina censurata sarebbe disomogenea rispetto al decreto-legge, per essere stata introdotta in sede di conversione per mezzo di un maxi-emendamento su cui è stata posta la fiducia. Limitandosi a considerare il profilo dell’omogeneità, la Corte ribadisce come una violazione di tale requisito sia ravvisabile solo in caso di “evidente o manifesta mancanza di ogni nesso di interrelazione tra le disposizioni incorporate nella legge di conversione e quelle dell’originario decreto-legge” (sentt. 22/2012 e 32/2014). Ciò che non appare ricorrere nel caso in esame, poichè, al momento della conversione, la riconducibilità o meno dei diritti aeroportuali alla materia tributaria (successivamente smentita dalla Corte di cassazione e dalla stessa Corte costituzionale con sent. 51/2008), era ancora incerta. Di qui la sussistenza di un nesso “plausibile” fra il testo originario del d.l. e gli emendamenti ad esso apportati [M. Morvillo]. FLUIRE DEL TEMPO E RAGIONEVOLI DIFFERENZE NORMATIVE Corte Cost., sent. 3-13 novembre 2014, n. 254, Pres. Napolitano, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 29, comma 2, del d.lgs 10 settembre 2003, n. 276, come modificato dall’art. 1, comma 911, dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296; Art. 36-bis, comma 7, lettera a), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con mod., dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248] (Art. 3 Cost.) Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal Tribunale di Bologna, in funzione di giudice del lavoro, per la violazione dell’art. 3, sotto due distinti profili: a) disparità di trattamento, dovuta all’introduzione di una modifica normativa, che comporta l’applicazione di differenti discipline giuridiche alla stessa fattispecie a seconda che quest’ultima si sia verificata in epoca antecedente o successiva all’intervento normativo. In particolare, l’art. 21 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, esclude che la responsabilità solidale del committente in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali da parte dell’appaltatore comprenda anche il debito per sanzioni civili e somme aggiuntive, a differenza di quanto invece previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs 276/2003. La Corte dichiara non fondata la questione, escludendo che un trattamento differenziato


applicato alla stessa fattispecie, in momenti diversi del tempo, possa tradursi in una violazione del principio di eguaglianza, “poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”, in applicazione dei principi generali di successione di leggi nel tempo (ord. 25 del 2012 e 224 del 2011); b) irragionevolezza del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 36-bis, comma 7, lett. a) del d.l. 223/2006, laddove prevede, per il caso di assunzione non regolare di lavoratori, una sanzione civile non inferiore a €3000 per ciascun lavoratore, indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa accertata. L’irragionevolezza si desumerebbe peraltro dalla modifica introdotta dall’art. 4 della legge 4 novembre 2010, n. 183, che ha abolito la soglia minima di €3000 e ha rapportato la sanzione civile all’ammontare del contributo evaso. La Consulta dichiara la questione fondata, ricollegandosi alla ratio dell’istituto delle sanzioni civili dovute in caso di omesso versamento di contributi: queste ultime, aventi una funzione risarcitoria, sono finalizzate a quantificare “in via preventiva e forfettaria” il danno subito dall’ente previdenziale. Di conseguenza, essendo la durata della prestazione lavorativa svolta strettamente correlata all’entità del danno subito dall’ente, risulta irragionevole il trattamento sanzionatorio computato indipendentemente da questa [E. Pattaro]

MEGLIO TARDI CHE MAI: LA FINE DEL CONTROLLO PREVENTIVO PER LE LEGGI SICILIANE Corte Cost., sent. 3-13 novembre 2014, n. 255, Pres. Napolitano, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), limitatamente alle parole "ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo Statuto speciale della Regione Siciliana"] (Art. 127 Cost. e art. 10, l. cost. n. 3 del 2001) La sentenza n. 255 del 2014 pone fine all’anomalo controllo di costituzionalità sulle leggi della regione Sicilia. Come noto lo Statuto regionale siciliano definiva, in ossequio alla sua specialità, un procedimento di impugnazione delle leggi regionali unico rispetto a quello di tutte le altre regioni, differenziandosi dalla disciplina dell’art. 127 Cost., anche dopo la riforma costituzionale del 2001. Al di là del peculiare ruolo dell’Alta Corte per la regione Sicilia, in ogni caso, il procedimento si caratterizzava per essere preventivo, non preceduto dal rinvio all’Assemblea, svolgendosi in termini molto brevi e promosso da un organo, il Commissario dello Stato, specificamente previsto dallo Statuto siciliano, nel quadro dei rapporti da questo originariamente tracciati tra Regione e Stato. Sebbene l’Alta Corte fu immediatamente dichiarata illegittima in forza dell’unità della giurisdizione costituzionale da subito rivendicata dalla Corte costituzionale già con la sentenza n. 38 del 1957, invero, il procedimento fu fatto salvo e mantenuto in essere – seppur con molte altre variazioni sempre giurisprudenziali – anche dopo la revisione costituzionale del 2001, in applicazione dell’art. 10 della legge n. 3, perché considerato espressione di “maggiore di autonomia”. Anzi successivamente l’art. 9 della legge n. 131 del 2003 aveva modificato il secondo comma dell’art. 31, legge n. 87 del 1953, specificando che al controllo di controllo di costituzionalità si aggiungeva “la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”.


Dubbi sulla possibilità di considerare tale procedimento, dopo la riforma costituzionale del 2001, come espressione di maggiore autonomia, ai sensi dell’art. 10, erano stati rilevati già dalla stessa Corte costituzionale nella sent. 314 del 2003, la quale, però, fece salvo il procedimento statutario, anche in considerazione del fatto che fosse in corso “il processo di adeguamento dello Statuto alle norme del nuovo Titolo V della II Parte della Costituzione” (invero poi non giunto a compimento). Con la presente decisione, la Corte, sollevando innanzi a sé questione di legittimità, ritiene di dover riesaminare la costituzionalità di tale sistema di controllo con l’art. 10 della l. cost. n. 3 del 2001, concludendo che nonostante le previsioni statutarie sul controllo delle leggi regionali, come detto, siano state radicalmente modificate e adeguate dalla giurisprudenza costituzionale, il controllo preventivo rimane un ostacolo e non un elemento di maggiore autonomia per la Sicilia. Pertanto, al fine di escludere l’operatività dell’intero procedimento statutario – comprese le funzioni del Commissario dello Stato – la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale del rinvio contenuto nell’articolo 31, comma 2, della legge n. 87 del 1953, limitatamente alle parole “ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”, estendendo così anche alla regione Sicilia la piena operatività dell’art. 127 Cost. [E. Raffiotta]

LA MOTIVAZIONE DELLE QUESTIONI PROPOSTE IN VIA PRINCIPALE: SI PUO’ FARE DI PIU’ Corte Cost., sent. 3-13 novembre 2014, n. 256, Pres. Napolitano, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 1, c. 82 e 83, l. 24 dicembre 2012, n. 228] (Artt. 117, 118, 119, 120 Cost.; art. 10 l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, artt. 8, n. 1), 9, n. 10), 16, 75, 75-bis, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 103, 104, 107 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670; d.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115, d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474, d.P.R. 26 gennaio 1980, n. 197; art. 8, d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526; artt. 2 e 4, d. lgs. 16 marzo 1992, n. 266; artt. 9, 10, 10-bis, 17, 18, 19, d. lgs. 16 marzo 1992, n. 268) La Corte costituzionale dichiara inammissibile per insufficienza dell’apparato argomentativo la questione proposta in via principale dalla Provincia autonoma di Bolzano, in relazione alla normativa che impone alla stessa di farsi carico della regolazione finanziaria delle partite debitorie e creditorie connesse alla mobilità sanitaria internazionale, ferma restando la competenza del Ministero della salute in materia di assistenza sanitaria transfrontaliera e ai cittadini all’estero. L’insufficiente motivazione emerge in particolare se si considera che la normativa censurata si è di fatto limitata ad estendere alle altre Regioni una disciplina già prevista per la Provincia autonoma ricorrente, non risultando quindi chiaro il suo impatto lesivo dell’autonomia finanziaria provinciale. Ciò vale a rendere inammissibile la questione, anche in ragione del fatto che l’onere di corredare il ricorso di una motivazione esaustiva assume connotati particolarmente pregnanti nei giudizi in via principale (sentt. 139/2006, 450/2005) [M. Morvillo]. RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: “INTRECCIO” DI MATERIE STATALI E REGIONALI


Corte Cost., sent. 7 ottobre-5 novembre 2014 , n. 259, Pres. Napolitano, Red. Mattarella Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Legge reg. Veneto 29 novembre 2011, n. 32, art. 7, comma 1, art. 10, comma 6, art. 11, commi 1 e 2] (Art. 117, commi secondo, lettera s), e terzo, in relazione al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 65, commi 4-6, al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 3, comma 1, lettera d), e al d.P.C.m. 29 settembre 1999) Il Governo solleva varie questioni su diverse disposizioni di una legge edilizia veneta. La prima questione – riguardante la demolizione e ricostruzione di edifici ubicati in area ad alta pericolosità idrogeologica – è rapidamente liquidata come inammissibile per la carenza di argomentazioni che sviluppino il mero riferimento al parametro (ex plurimis, sent. n. 36 del 2014). La seconda questione offre un esempio di effetti sulla competenza regionale dell’evoluzione dei principi fondamentali di una materia di legislazione concorrente – nel caso, l’edilizia, intesa come parte del governo del territorio – in relazione alla competenza regionale. La questione riguarda il rispetto della sagoma nelle ristrutturazioni, ove esse siano attuate mediante la demolizione dell’edificio preesistente e la sua ricostruzione: la sent. n. 309 del 2011 aveva qualificato tale precetto come principio fondamentale, basato sulla disciplina dei titoli e degli interventi edilizi contenuta nel relativo TU (v. poi anche sent. n. 171 del 2012, sent. n. 139 del 2013); in seguito, la stessa legislazione statale ha superato questo principio, che pertanto non vincola più le scelte normative regionali. Con riguardo a questa fattispecie, il ricorso statale – non del tutto perspicuo – lamentava come la legge regionale non avesse fatto espressamente salvo il rispetto della sagoma, per le ristrutturazioni di edifici vincolati a norma del d.lgs. n. 42 del 2004. La doglianza è respinta: certo le ristrutturazioni di immobili vincolati devono rispettarne la sagoma, per ovvie ragioni di tutela dei beni culturali; proprio per questo, però, si verte in un ambito di competenza esclusiva statale, in cui «le Regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva» (cfr. sent. n. 18 del 2013, in tema di ordinamento civile; sent. n. 29 del 2006, in materia di organi di governo degli enti locali); e quindi il silenzio della legge regionale «non può che essere interpretato (…) nel senso della vigenza della disposizione statale» [M. Massa]. CONFINI DELLA SINDACABILITÀ DELLE DICHIARAZIONI EXTRA MOENIA DI UN PARLAMENTARE Corte Cost., Sent. 17 novembre – 26 novembre 2014, n. 264, Pres. Napolitano, Red. Grossi Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato [deliberazione della Camera dei deputati del 19 dicembre 2008] (artt. 68 Cost.) Nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dalla Corte d’Appello di Milano nei confronti della Camera dei deputati, la Consulta si è trovata a dover precisare i confini dell’insindacabilità ex art. 68 Cost. I giudici di Milano, infatti, hanno


contestato la deliberazione assunta dalla Camera dei deputati il 19 dicembre 2008 con la quale è stata affermata l’insindacabilità - a norma dell’art. 68, comma primo, Cost. - delle dichiarazioni rese da un deputato e pubblicate su un quotidiano, a seguito delle quali è stato promosso giudizio civile nei confronti dello stesso deputato. In primo grado il Tribunale aveva rigettato la domanda risarcitoria promossa da alcuni magistrati componenti l’ufficio centrale circoscrizionale estero i quali sostenevano di esser stati diffamati dalle dichiarazioni del deputato (dichiarazioni che vagheggiavano l’esistenza di brogli elettorali – relativi al voto degli italiani all’estero - e suggerivano un comportamento delittuoso in capo agli stessi magistrati ricorrenti, asseriti responsabili di aver certificato il falso). Il rigetto della domanda attorea trovava il proprio fondamento nella delibera di insindacabilità approvata dalla Camera dei deputati. La Corte d’Appello, tuttavia, si è dimostrata di diverso avviso e ha lamentato la lesione delle attribuzioni garantite dal disposto di cui agli artt. 24, 101 e 102 Cost., sul presupposto che «spetti all’autorità giudiziaria ordinaria la cognizione sull’«effettiva idoneità» delle dichiarazioni in discussione «a integrare o meno l’illecito dedotto in causa»». Inoltre secondo tale Corte le dichiarazioni del parlamentare non potrebbero ritenersi coperte da insindacabilità non essendo ravvisabile alcun “nesso funzionale” tra esse e gli atti di esercizio delle sue funzioni istituzionali, anche in ragione della mancata indicazione e documentazione dell’attività parlamentare svolta o delle opinioni espresse nell’ambito del dibattito relativo alla regolarità delle operazioni di voto degli italiani all’estero, sia da parte del parlamentare, sia negli atti della giunta per le autorizzazioni o nella conseguente deliberazione della Camera dei deputati. La Consulta, riepilogando la propria costante giurisprudenza e rifacendosi anche alla giurisprudenza della Corte EDU, ha confermato che il «nesso funzionale che deve sussistere tra le dichiarazioni divulgative extra moenia da un membro del Parlamento e l’attività parlamentare propriamente intesa, «non può essere visto come un semplice collegamento di argomento o di contesto politico fra l’una e l’altra, ma come identificabilità della dichiarazione quale espressione della attività parlamentare, postulandosi anche, a tal fine, una sostanziale contestualità tra i due momenti, a testimonianza dell’unitario alveo “funzionale” che le deve, appunto, correlare»». La Corte Costituzionale ha poi precisato che una lettura differente avrebbe quale effetto quello di dilatare ingiustificatamente il perimetro tracciato dall’art. 68 Cost. giungendo finanche a delineare un’immunità non soltanto funzionale ma di fatto sostanzialmente “personale” a vantaggio di coloro i quali possano fregarsi della qualifica di parlamentare. Nel caso di specie, né il parlamentare, né la deliberazione oggetto del conflitto di attribuzione hanno allegato elementi a sostegno della sussistenza di un effettivo nesso funzionale fra dichiarazioni espresse e attività del parlamentare, pertanto, non potendo «le valutazioni circa l’applicabilità in concreto dell’art. 68, comma primo, Cost, restare affidate ad un mero enunciato assertivo o attestativo, insuscettibile, tra l’altro, di qualsiasi controllo “esterno” sotto il profilo della competenza, ad opera del Giudice dei conflitti», la Corte ha ritenuto la «non spettanza del potere, per come esercitato» e, conseguentemente, annullato la deliberazione impugnata. [C. Drigo]

IL PERIMETRO dell’INSINDACABILITÀ “EXTRA MOENIA” Corte Cost., sent. 17-26 novembre 2014, n. 265, Pres. Napolitano, Red. Carosi Giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato [Deliberazione del Senato della Repubblica del 21 dicembre 2012]


(Cost., art. 68, c. 1) Le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare sono coperte dalla prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68, c. 1, Cost., a condizione che esse siano legate da un nesso funzionale con l’attività parlamentare in concreto esercitata. In questa prospettiva è stato ritenuto indefettibile «il concorso di due requisiti: a) un legame di ordine temporale fra l’attività parlamentare e l’attività esterna […], tale che questa venga ad assumere una finalità divulgativa della prima; b) una sostanziale corrispondenza di significato tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni e gli atti esterni […], non essendo sufficiente né una semplice comunanza di argomenti né un mero “contesto politico” entro cui le dichiarazioni extra moenia possano collocarsi […], né il riferimento alla generica attività parlamentare o l’inerenza a temi di rilievo generale, seppur dibattuti in Parlamento […], né, infine, un generico collegamento tematico o una corrispondenza contenutistica parziale (da ultimo, sent. n. 55 del 2014)» (sent. n. 221 del 2014). «L’esigenza di salvaguardia della autonomia e libertà delle assemblee parlamentari dalle possibili interferenze di altri poteri (in particolare, di quello giudiziario) – quale sottesa alla insindacabilità delle opinioni espresse da membri del parlamento, ex art. 68 Cost. – deve, infatti, bilanciarsi con l’esigenza, di pari rilievo costituzionale, di garanzia del diritto dei singoli alla tutela della loro dignità di persone, prescritta dall’art. 2 Cost. E l’individuazione del punto di equilibrio, tra i corrispondenti contrapposti valori, porta, appunto, ad escludere che l’insindacabilità copra la complessiva attività politica posta in essere dal membro del Parlamento – poiché ciò trasformerebbe la prerogativa dell’immunità funzionale in un privilegio personale (sentt. nn. 313 del 2013, 329 del 1999 e 289 del 1998) – ed a delimitare l’area di operatività della immunità in correlazione all’ambito di esercizio delle funzioni parlamentari» (sent. n. 221 del 2014). Con riguardo alla fattispecie in esame, richiamata la giurisprudenza sopra indicata, la Corte afferma che i giudizi formulati nell’articolo di stampa si collocano al di fuori del perimetro entro il quale opera la garanzia dell’insindacabilità delle opinioni del parlamentare: non sono dichiarazioni meramente divulgative della attività svolta e neppure direttamente ricollegabili all’esercizio della funzione parlamentare. La battaglia politica svolta in Parlamento dal senatore contro la tendenza a costruire ipotesi investigative sulla base delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia non è infatti sufficiente a porre in essere il richiesto nesso funzionale con le gravi e specifiche critiche rivolte nei confronti di un singolo magistrato relativamente alla vicenda processuale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. [A. Cossiri] LA RINUNCIA AL RICORSO, ACCETTATA DALLA CONTROPARTE, COMPORTA L’ESTINZIONE DEL GIUDIZIO COSTITUZIONALE Corte Cost., ord. 17-26 novembre 2014, n. 268, Pres. Napolitano, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [D.l. 29 dicembre 2010, n. 225, art. 2, c. 1-bis, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, c. 1, l. 26 febbraio 2011, n. 10] (Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, principio di leale collaborazione) Le Province autonome di Trento e Bolzano hanno promosso questione di legittimità costituzionale in via principale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in


materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10, laddove prevede che «Per l’anno 2011, una parte dell’intervento finanziario di cui al comma 117, nella misura dello 0,6 per cento del totale, è riservata per le spese dell’organismo di indirizzo relative all’istruttoria e verifica dei progetti di cui al medesimo comma 117». I ricorrenti lamentano la lesione di diverse disposizioni dello Statuto speciale di autonomia, nonché del principio di leale collaborazione; in particolare, la norma impugnata incide sui rapporti finanziari tra lo Stato e la Provincia autonoma, in quanto imporrebbe a quest’ultima l’obbligo di destinare, nell’anno 2011, una parte dell’intervento di cui al c. 117 dell’art. 2 della legge n. 191 del 2009 (legge finanziaria 2010), concernente il finanziamento di progetti per i territori di confine – alla copertura delle spese dell’organismo di indirizzo, addirittura fissando la misura di tale riserva; la norma, pertanto, avrebbe dovuto essere approvata con il procedimento rinforzato previsto dall’art. 104, c. 1, dello statuto speciale, ai sensi del quale le disposizioni del Titolo VI dello statuto, in materia di finanza della Regione e delle Province autonome, possono essere modificate con legge ordinaria dello Stato, previa intesa tra il Governo e la Regione o le due Province. Dopo l’introduzione del giudizio, lo Stato ha abrogato i commi da 118 a 121 dell’art. 2 della legge n. 191 del 2009 e le province di Trento e Bolzano hanno dichiarato di rinunciare all’impugnativa, dando atto del venir meno delle ragioni che avevano indotto alla proposizione del ricorso. La Presidenza del Consiglio dei ministri ha dichiarato di accettare entrambe le rinunce. Ai sensi dell’art. 23 delle n.i. per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita da accettazione della controparte costituita, comporta l’estinzione del giudizio (ex multis, da ultimo, ordd. nn. 164 e 55 del 2013). [A. Cossiri] INTERPRETATIVA A FAVORE DELLA TUTELA DELLE MINORANZE Corte cost., sent. 18 novembre - 3 dicembre 2014, n. 269, Pres. Napolitano, Red. Cartabia Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [L.p. Trento 27 dicembre 2011, n. 18, art. 77] (Costituzione, artt. 3, 6 e 97; statuto della Regione Trentino-Alto Adige / Südtirol, artt. 2, 8, numero 1, 92 e 102 ) La sentenza respinge le censure portate contro l’art. 77 della legge provinciale di Trento n. 18 del 2011 (legge finanziaria 2012), che consente l’affidamento dell’incarico di direttore dell’Istituto cimbro di Luserna anche a un soggetto privo dei requisiti per la nomina a dirigente, purché in possesso di “professionalità e attitudine alla direzione”. La norma impugnata dal Governo è considerata dalla Corte non lesiva dei principi di ragionevolezza e di buon andamento della pubblica amministrazione, per quanto sia derogatoria rispetto a quanto previsto in generale dalla legislazione provinciale in punto di requisiti per l’accesso agli incarichi dirigenziali. Secondo la sentenza, che per questa parte ha natura interpretativa, la disposizione deve essere intesa nel senso che la professionalità richiesta per il conferimento dell’incarico direttivo va valutata con specifico riferimento alla conoscenza della lingua e della cultura dei cimbri, piccola popolazione linguistica germanofona con una consistenza di un migliaio di persone, concentrate per lo più nel comune di Luserna. La disposizione così interpretata tiene conto delle difficoltà di reclutamento che si possono incontrare all’interno di una ristrettissima cerchia di persone come è quella costituita dalla minoranza cimbra, e


risulta quindi giustificata dal principio della tutela delle minoranze linguistiche garantito sia dall’art. 6 Cost., sia dallo statuto speciale del Trentino-Alto Adige/Südtirol (in generale nell’art. 2; con specifico riferimento alla lingua cimbra, negli artt. 92 e 102) e dalle relative norme di attuazione di quest’ultimo. [Sulla tutela delle minoranze linguistiche si vedano, da ultimo, le sentenze nn. 159 del 2009, 170 del 2010 e 88 del 2011] [F. Corvaja]

UNO STOP AL POTERE DI RIMESSIONE DEI GIUDICI DI RINVIO? Corte Cost., sent. 18 novembre – 3 dicembre 2014, n. 270, Pres. Napolitano, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Artt. 292, comma 1, e comma 2, lettera c), e 309, comma 9, del codice di procedura penale] (Cost., artt. 111, secondo e sesto comma, 24, 13, secondo comma, e 3) Con due diverse ordinanze di rimessione, il Tribunale del riesame di Brescia, in funzione di giudice del rinvio, ha messo in dubbio la legittimità costituzionale di una norma ricavata dal combinato disposto di alcuni articoli del codice di procedura penale “nella parte in cui esclude che il Tribunale del riesame possa annullare l’ordinanza cautelare nelle ipotesi di nullità per difetto di motivazione sui gravi indizi di colpevolezza”. La Corte, riuniti i giudizi, ha dichiarato l'inammissibilità delle questioni per carenza di rilevanza. Infatti, l'applicazione della norma censurata non rientrava nell'oggetto del giudizio a quo, essendo già stata compiutamente operata dalla Corte di cassazione ed “era preclusa la possibilità di giungere sul punto a una conclusione diversa”. Uniche eccezioni alla regola sono i casi in cui il “principio di diritto relativo a una norma” enunciato dalla Cassazione “deve trovare ulteriore applicazione nel giudizio di rinvio”. In caso contrario, la Corte sarebbe chiamata a svolgere “un ruolo di giudice dell'impugnazione, che ovviamente non le compete” (s. 294 del 1995), ma che invece non sembra essere stato disdegnato in alcuni dei precedenti richiamati (cfr. s. 293 del 2013: “la proposizione di una simile questione di legittimità costituzionale rappresenta l’unico mezzo a disposizione del giudice del rinvio per contestare la regula iuris che sarebbe costretto altrimenti ad applicare”; cfr. anche s. 308 del 2008). [F. Conte] “DIRITTO” AL GIUDIZIO ABBREVIATO E CONTESTAZIONI DIBATIMENTALI “FISIOLOGICHE”: ancora un’ADDITIVA C. cost., sent. 1 dicembre - 5 dicembre 2014, n. 273, Pres. Napolitano, Red. Frigo Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 516 c.p.p.] (artt. 3 e 24 Cost.) La Corte costituzionale continua a riscrivere i rapporti tra le cd. contestazioni “suppletive” e l'accesso dell'imputato ai riti speciali, già toccati dalle sentenze nn. 333/2009 e 237/2012. La prima delle due decisioni ha dichiarato incostituzionali gli art. 517 c.p.p. e 516 c.p.p., nella parte in cui non consentivano la scelta del rito abbreviato per il reato concorrente o


per il fatto diverso emerso a seguito delle cd. contestazioni “patologiche”, cioè di circostanze già note ma non rilevate nell'atto di accusa per errore o negligenza. La seconda sentenza ha, invece, dichiarato illegittimo l'art. 517 nella parte in cui non consente la scelta del rito speciale per il reato concorrente emerso a seguito di contestazioni “fisiologiche”, cioè a seguito di circostanze nuove non conosciute al momento dell'imputazione. La sentenza n. 273/2014 dichiara illegittimo l'art. 516 c.p.p., mostrandosi teleologicamente connessa alla decisione n. 237/2012: come per il reato concorrente, le circostanze, emerse nel corso dell'istruttoria dibattimentale, che portano a una modifica dell'imputazione per il fatto “fisiologicamente” diverso, non possono comportare la perdita del diritto di accedere al giudizio abbreviato. Se così fosse, vi sarebbe una irragionevole compressione del diritto di difesa, «posto che non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta». Non solo. L'impossibilità di accedere al rito abbreviato a seguito della contestazione “fisiologica” del fatto diverso produce un'ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe: si pensi al recupero, da parte dell’imputato, del “diritto” al giudizio abbreviato per circostanze puramente “occasionali”, che determinino la regressione del procedimento, con conseguente rimessione in termini dell'imputato per la richiesta del rito speciale, in tutti quei casi in cui il reato rientri tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta. [C. Caruso] CASO STAMINA: LA SCIENZA CONTA, NONOSTANTE TANTI “MAMMASANTISSIMA” Corte Cost. Sentenza 1 dicembre - 5 dicembre 2014 n. 274; Pres. Criscuolo, Red. Morelli; Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art.2 decreto legge 25 marzo 2013 n.24 “Disposizioni urgenti in materia sanitaria” convertito con modificazioni dall’art.1 co.1 della legge 23 maggio 2013, n.57] (Cost. artt. 2,3,32) Sciolti alcuni nodi sui presupposti della questione, l’attesa decisione della Corte, interviene dopo che la vicenda sul “caso Stamina” è stata finalmente risolta con il d.m. salute 4 novembre 2014 che ha messo fine alla sperimentazione. La decisione di non fondatezza, sulla scorta dei sicuri precedenti a partire dalla sent. n. 202/2002 fino a quelle in materia di PMA, è giustificata perché le decisioni sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza, lungi dal poter essere formulate puramente sulla base di valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore devono prevedere “l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite tramite istituzioni e organismi […] a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che a questi fini rivestono gli organi tecnico scientifici”. Inoltre, precisa la Corte, la promozione di una sperimentazione clinica per testare l’efficacia o escludere gli effetti nocivi di un farmaco nuovo non consente di regola di porre anticipatamente a carico di strutture pubbliche la somministrazione del farmaco medesimo e ciò per evidenti motivi di tutela della salute oltre che per esigenze di corretta utilizzazione e destinazione dei fondi e delle risorse a disposizione del SSNN. Rispetto a tali principi, la legislazione del 2013 è intervenuta parzialmente in deroga, consentendo la prosecuzione dei trattamenti con cellule staminali già avviati o già ordinati dai singoli


giudici, allo scopo di privilegiare i principi di continuità terapeutica e le esigenze di non interferenza con provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Se già la parziale apertura nei confronti dei trattamenti già avviati costituiva per la corte una deroga alla norma, è chiaro che l’estensione della possibilità di accesso a tali trattamenti anche per i pazienti che non abbiano già attivato o comunque iniziato le cure in questione sarà giudicata come una misura del tutto irragionevole. Ad opinione della Corte infatti le circostanze eccezionali che hanno indotto il legislatore a non interrompere il trattamento con cellule staminali nei confronti dei pazienti che di fatto l’avevano già attivato, […] non ricorrono nei riguardi di altri pazienti che chiedono successivamente che quel trattamento sia loro somministrato. In relazione a tali soggetti non trova infatti giustificazione una deroga al principio di doverosa cautela nella validazione e somministrazione di nuovi farmaci. La Corte precisa che tale considerazione è di per sé sufficiente ad escludere sia la lamentata violazione del principio di uguaglianza tra i pazienti che avessero, all’epoca dell’entrata in vigore del decreto legge 24 del 2013 come convertito, già avviato o meno i trattamento con cellule staminali, sia ad eliminare i sospetti di illegittimità per lesione del diritto alla salute o per violazione del dovere di solidarietà nei confronti dei pazienti per i quali non può darsi avvio presso strutture pubbliche al trattamento in questione dopo l’entrata in vigore del decreto legge n. 24 del 2013. In base a tali premesse la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità in analisi. [C.CAMPOSILVAN]

NON TUTTI I PREMI DI MAGGIORANZA SONO UGUALI Corte Cost., sent. 1-5 dicembre 2014, n. 275, Pres. Criscuolo, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 87, c. 1, lett. h, Decr. del Pres. Reg. T.A.A. 1 febbraio 2005, n. 1] (artt. 1 c. 2, 3, 48 c. 2, 67, Cost.) Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento dubita della legittimità costituzionale del decreto del Presidente della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol del 1 febbraio 2005, n. 1, nella parte in cui dispone che, nelle elezioni dei Comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, se la lista o la coalizione di liste collegate al candidato eletto sindaco non abbia conseguito il 60 per cento dei seggi del consiglio (detratto il seggio assegnato al sindaco), ad essa venga assegnato, oltre al seggio del sindaco, il numero di seggi necessario per raggiungere quella consistenza, con eventuale arrotondamento all’unità superiore. La Corte rigetta il tentativo di ritenere questa disciplina in violazione degli artt. 1, c. 2, 3 e 67 Cost. e, soprattutto, della sent. n. 1/2014 sulla legge Calderoli. Non si tratta si situazioni analoghe: in primo luogo, la normativa statale oggetto della richiamata sentenza n. 1 del 2014 riguarda l’elezione delle assemblee legislative nazionali, espressive al livello più elevato della sovranità popolare in una forma di governo parlamentare, mentre la legge regionale impugnata riguarda gli organi politico-amministrativi dei Comuni, e cioè il sindaco e il consiglio comunale, titolari di una limitata potestà di normazione secondaria e dotati ciascuno di una propria legittimazione elettorale diretta. In secondo luogo, la legge statale disciplina un’elezione a turno unico, mentre quella regionale prevede il doppio turno, secondo il modello della disciplina elettorale del TUEL. Infine, la legge statale fa riferimento, per l’attribuzione del premio di maggioranza, ad una sorta di collegio unico nazionale, che ha dimensioni non comparabili a quelle dei Comuni regolati dalla legge


regionale. Sulla scia della propria giurisprudenza pregressa (sent. n. 107/1996), la Corte enfatizza la distinzione fra elezioni a turno unico ed a doppio turno che si ritengono «non comparabili ai fini della attribuzione del premio» e, d’altra parte, ricorda che il principio di uguaglianza del voto, «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, esso esige che l’esercizio del diritto di elettorato attivo avvenga in condizioni di parità (…) ma non anche che il risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettorato debba necessariamente essere proporzionale al numero dei consensi espressi, dipendendo questo invece dal concreto atteggiarsi delle singole leggi elettorali (…) fermo restando in ogni caso il controllo di ragionevolezza» (S. Calzolaio). SOCIETA’ DI CAPITALI FALLITE E NUOVE SOCIETA’ DI FATTO: DIFETTA LA MOTIVAZIONE DELLA RILEVANZA Corte Cost., sent. 1 dicembre 2014 , n. 276, Pres. Napolitano, Red. Napolitano Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 147 c. 5 R.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa)] La disposizione è impugnata nella parte in cui non consente l’estensione del fallimento dichiarato nei confronti di una società di capitali ad una società di fatto costituita tra la società originariamente fallita e altri soci di fatto. Il tenore letterale della disposizione imporrebbe infatti di ritenere che l’estensione del fallimento alla società di fatto e ai suoi soci sia possibile solo nel caso in cui il fallimento originario riguardi un imprenditore individuale, implicando, secondo il giudice a quo, un’ingiustificata disparità di trattamento per le società di capitali e la conseguente violazione del diritto di difesa dei loro creditori. A parere della Corte, tuttavia, la questione è inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza. Il rimettente non si è infatti preliminarmente interrogato sulla possibilità, per una società di capitali, di partecipare ad una società di fatto, che si costituisca dunque per facta concludentia, alla luce dell’art. 2361 c. 2 c.c. che, nel consentire alle società per azioni di assumere partecipazioni in imprese comportanti la responsabilità illimitata, stabilisce che tale assunzione sia deliberata dall’assemblea dei soci e che gli amministratori ne diano specifica informazione nella nota integrativa del bilancio. Il giudice a quo non ha fornito inoltre adeguate motivazioni circa la sussistenza nel caso di specie di una società di fatto di cui fosse socia la società dichiarata fallita, così come ha omesso di verificare se l’attività imprenditoriale svolta dalla società dichiarata fallita fosse riferibile alla società di fatto eventualmente ritenuta esistente, secondo quanto previsto dalla disposizione censurata. [C. Bologna]. ADDITIVE E POLITICA LEGISLATIVA GIUDIZIARIA: LA CORTE FRENA Corte Cost., sent. 1-12 dicembre 2014, n. 277, Pres. Criscuolo, Red. Grossi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 4, c. 3 e art. 5, c. 5, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286] (Art. 3 Cost.) Con due ordinanze pressoché identiche Il TAR Trento solleva q.l.c. degli artt. 4, c. 3 e 5, c. 5., del T.U. Immigrazione, il cui combinato disposto riconnette automaticamente il


diniego di rinnovo del permesso di soggiorno ad una condanna penale (o a una sentenza di patteggiamento) anche per reati per i quali, ex art. 381 c.p.p., è previsto l’arresto facoltativo in flagranza, equiparandoli perciò, quanto agli effetti “espulsivi” per gli stranieri, ai reati per cui l’art. 380 c.p.p. prevede l’arresto obbligatorio , e privando l’Amministrazione del potere di valutare in concreto la pericolosità sociale del reo; si produrrebbe così, secondo il rimettente, una irragionevole disparità di trattamento tra condotte di diversa gravità. La Corte rileva che «nel delineare le condizioni ostative collegate al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno in dipendenza di condanne penali […] la scelta del legislatore è stata quella di dar vita ad un sistema “bipartito” basato sulla enucleazione di due criteri concorrenti di natura composita.». Il primo è riferito ai casi in cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza; il secondo criterio (quello impugnato) è «calibrato in funzione di “tipologie” di reati, individuati ratione materiae e raggruppati, per così dire, all’interno di complessi normativi delineati solo attraverso il richiamo ai relativi “settori di criminalità”. La disamina delle “materie” in questione […] dimostra come sia evidente l’intento del legislatore di assumere a paradigma ostativo non certo la gravità del fatto […] quanto – e soprattutto – la specifica natura del reato […].» Da tale ricostruzione del contesto la Corte ricava che un eventuale accoglimento si tradurrebbe «non tanto in una pura e semplice deroga all’automatismo […], quanto nella creazione di un “sistema” del tutto nuovo – diverso e alternativo – rispetto a quello prefigurato dal legislatore», anche in considerazione del fatto che l’addizione sollecitata dal rimettente non sarebbe circoscrivibile alla tipologia di reato de quo, ma «prevederebbe per tutti i reati una soglia di divieto di automatismo ove la pena sancita sia iscrivibile nella soglia edittale prevista dall’art. 381 cod. proc. pen. per i casi di arresto facoltativo in flagranza». In conclusione, poiché «il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di manipolatività, derivante dalla “natura creativa” e “non costituzionalmente obbligata” della soluzione evocata», le questioni sono dichiarate inammissibili. [C. Bergonzini] AGEVOLAZIONI FISCALI E RAGIONEVOLEZZA Corte cost., sent. 1 dicembre 2014, n. 279, Pres. Criscuolo, Red. CORAGGIO Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [art. 1, comma 1, quinto periodo, della Parte Prima della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come introdotto dall’art. 3, comma 14, lettera b), del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669 (Disposizioni urgenti in materia tributaria, finanziaria e contabile a completamento della manovra di finanza pubblica per l’anno 1997), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30] (art. 3 Cost.) Nel presente giudizio, la Corte costituzionale si pronuncia in ordine alla riproposizione di una questione di legittimità costituzionale già dichiarata manifestamente inammissibile con ordinanza n. 268 del 2012, pervenendo, così, non senza aver svolto talune mirate argomentazioni, a dichiarare la non fondatezza della questione. In particolare, la Commissione tributaria provinciale di Trapani riteneva che l’impianto normativo sub iudice ledesse l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo, in modo irragionevole, un trattamento


agevolato per gli acquisti di immobili di proprietà di soggetti IVA e non anche per quelli di soggetti privati, discriminerebbe situazioni tra di loro omogenee. La giurisprudenza costituzionale si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni normative che prevedevano agevolazioni fiscali, affermando che tali norme, di carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono comunque esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile dalla Corte costituzionale unicamente per l’eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità. Ne deriva che la Corte costituzionale non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici stessi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009). Nel caso di specie, invece, il diverso trattamento giuridico delle due fattispecie in comparazione – una operazione IVA, sia pure “esente”, ed una operazione non rientrante nell’“area IVA” – è la logica conseguenza di un sistema di alternatività così costruito fin dalle origini e che fin dalle origini non ha escluso le operazioni esenti dal beneficio. Cosicché, in mancanza della omogeneità delle situazioni raffrontate, è da escludere che la norma impugnata sia irragionevole e discriminatoria [M. Belletti].

MANIFESTA INAMMISSIBILITÀ PER SOPRAVVENUTA CARENZA DELL’OGGETTO Corte Cost., ord. 3-17 dicembre 2014, n. 283, Pres. Criscuolo, Red. Lattanzi Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale [Art. 69, c. 4, c.p.] (Artt. 3 e 25 Cost.) La Corte dichiara la manifesta inammissibilità della q.l.c. sollevata dal Tribunale di Genova sull’art. 69, c. 4, cod. pen, nella parte in cui prevede[va] il divieto di prevalenza dell’attenuante dell’art. 648, c. 2., c.p., sulla recidiva ex art. 99, c. 4, c.p., perché la questione è stata decisa nel senso dell’accoglimento con la sentenza n. 105 del 2014, successiva all’ordinanza di rimessione. [C. Bergonzini]

Il Governo impugna, la Regione modifica Corte Cost., ord. 3-17 dicembre 2014, n. 285, Pres. Criscuolo, Red. Amato Giudizio di legittimità costituzionale in via principale [Art. 1, c. 1, lett. e); art. 4, c. 1, lett. e), l. reg. Calabria 6 giugno 2014, n. 8] (artt. 3, 48 c. 2, 51, 117 c. 3, 122, Cost.) Il Governo impugna diverse di disposizioni della l. reg. Calabria n. 8 del 2014, che modificano la legge elettorale regionale, e propone apposita istanza di sospensione delle disposizioni impugnate, le quali, ragionevolmente, avrebbero rischiato di essere applicate alle elezioni regionali delle fine del 2014, prima della decisione del giudice costituzionale.


Nelle more del giudizio entra in vigore la l. reg. 12 settembre 2014, n. 19, la quale modifica le disposizioni censurate, con il dichiarato fine di «dirimere il contenzioso con il Governo, in vista delle imminenti elezioni regionali». In effetti il Governo rinuncia alla istanza sospensiva (come rileva la Corte cost. nell’ord. n. 233 del 10 ottobre 2014) e, con atto depositato il 20 ottobre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri dichiara di rinunciare all’impugnativa. Non essendosi costituita in giudizio la Regione Calabria, la Corte di fronte all’intervenuta rinuncia al ricorso dichiara l’estinzione del processo (ex plurimis, ordinanze n. 246, n. 103 e n. 34 del 2014, n. 164 e n. 55 del 2013) (S. Calzolaio).

SPETTANZA E LIMITI DEL POTERE DI DICHIARARE L’INSINDACABILITA’ DELLE OPINIONI ESPRESSE DA UN PARLAMENTARE Corte Costituzionale, Ordinanza 3 dicembre 2014-dicembre 2014, n. 286; Pres. Criscuolo - Red. Grossi; Conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato [Deliberazione della Camera dei deputati relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse del 28 novembre 2012] (Art.68 cost) Con ricorso depositato l’11 agosto 2014, il Giudice Monocratico del Tribunale ordinario di Prato, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla deliberazione del 28 novembre 2012 (doc IV- quater) con la quale l’assemblea ha dichiarato l’insindacabilità delle opinioni espresse dall’ On. Lucio Barani, nei confronti del Sistema Integrato degli Ospedali Regionali (SIOR), dell’Azienda USL di Massa e Carrara, dell’Azienda USL n.2 di Lucca, dell’Azienda USL n.3 di Pistoia e dell’ dell’Azienda USL n.4 di Prato. In tale contesto il ricorrente si trovava a giudicare sulle domande di risarcimento dei danni non patrimoniali e di pagamento della riparazione pecuniaria prevista dalla legge sulla stampa, proposte dalle menzionate aziende in relazione a dichiarazioni dell’ On. Barani ritenute gravemente lesive dell’immagine e del prestigio delle parti attrici. Nel caso di specie il ricorrente sosteneva tra l’altro che la mera comunicazione “per conoscenza” al presidente della Commissione parlamentare di inchiesta in analisi, dell’esposto, inviato a più procure della Repubblica, non può costituire atto, sebbene atipico, della funzione parlamentare trattandosi di una denuncia che può essere fatta da qualsiasi cittadino. “Il giudice a quo, in conclusione ritiene che […] nella specie non risulta provata la configurabilità (necessaria anche in ossequio all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali) del nesso funzionale tra le dichiarazioni extra moenia oggetto di lite e l’esercizio di atti anche atipici costituenti esercizio della funzione parlamentare come indicati dalla Camera di appartenenza. [Il giudice a quo] chiede pertanto che la Corte – previa ammissione del conflitto - dichiari che non spettava alla camera dei deputati la valutazione della condotta addebitabile all’onorevole Lucio Barani, in quanto estranea alla previsione dell’art.68 Cost. e conseguentemente annulli la delibera della Camera dei deputati del 28 novembre 2012 di insindacabilità delle dichiarazioni rilasciate dall’on. Baran”i nei confronti dei soggetti sopra menzionati. La Corte dichiara ammissibile il conflitto in esame osservando che: “sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del giudice monocratico del tribunale ordinario di Prato a promuovere conflitto di attribuzione tra i


poteri dello Stato in quanto, organo giurisdizionale , in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nell’esercizio delle funzioni attribuitegli; che parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Camera dei deputati (cui apparteneva il convenuto all’epoca dei fatti) ad essere parte nel presente conflitto quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all’applicabilità dell’art.68 co.1 della Costituzione”; e “che per quanto attiene al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per inesistenza dei relativi presupposti, del poter spettante alla camera dei deputati di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse da un membro di quel ramo del Parlamento ai sensi dell’art. 68 co.1 della Costituzione. [C.Camposilvan]


Il controllo successivo delle leggi regionali si estende anche alla Regione siciliana: un overruling forzato, ma felice* di Giuseppe Chiara** (27 febbraio 2015) SOMMARIO: 1. Le peculiarità del controllo delle leggi regionali in Sicilia ed il “salvataggio” compiuto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 314 del 2003. ‒ 2. La svolta realizzata dalla sent. n. 255 del 2014. ‒ 3. L’adeguamento dello Statuto siciliano dopo la sent. n. 255: l’irragionevolezza di un’eventuale reformatio in peius. ‒ 4. Il controllo delle leggi regionali siciliane nella cornice di un più ampio ripensamento del regionalismo in Italia.

1. Le peculiarità del controllo delle leggi regionali in Sicilia ed il “salvataggio” compiuto dalla Corte costituzionale nella sent. n. 314 del 2003 ‒ La recente sentenza della Corte costituzionale n. 255 del 2014 costituisce l’ultima tappa del lungo percorso giurisprudenziale di “riallineamento”, in Sicilia, del controllo di costituzionalità degli atti normativi statali e regionali al modello tracciato dalla Costituzione. Essa si riferisce allo specifico segmento del controllo delle leggi regionali siciliane, alle quali estende, come già avvenuto per le altre Regioni speciali, il procedimento di cui all’art. 127 Cost., in applicazione della clausola «di maggior favore» contenuta nell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 20011. Questo risultato, peraltro, è stato conseguito, proprio nel segmento in oggetto, attraverso percorsi tutt’altro che lineari. Certo, l’esito della vicenda era già ampiamente pronosticabile alla luce delle espressioni univoche utilizzate dalla Corte nell’ordinanza di rinvio della questione davanti a se stessa 2 e, prima ancora, dello stesso modus procedendi del giudice delle leggi, che, impugnando l’art. 31, comma 2, della legge n. 87 del 1953, come novellato dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003 (limitatamente alla parte iniziale di questo 3), in occasione del sindacato su talune previsioni normative della Regione siciliana di carattere finanziario, aveva tratto occasione da un giudizio che si sarebbe potuto risolvere de plano con una decisione nel merito, per * Scritto sottoposto a referee. Il presente lavoro riproduce, con alcune integrazioni, il testo di un saggio destinato agli Scritti in onore di Maurizio Pedrazza Gorlero. 1 Ai sensi del quale, come noto, «Sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite».

2 Con l’ord. n. 114 del 2014; in dottrina, sul provvedimento, cfr. A. RUGGERI, Colpi di maglio della Consulta sul meccanismo di controllo delle leggi siciliane (“a prima lettura” di Corte cost. n. 114 del 2014), in www.consultaonline.it; G. MOSCHELLA, A. RUGGERI, Disapplicazione, in nome della clausola di maggior favore, delle norme dello statuto siciliano relative all’impugnazione delle leggi regionali ed effetti sui ricorsi pendenti , ivi; F. GIUFFRÈ, Verso la fine della giustizia costituzionale “alla siciliana” (commento all’ordinanza della Corte costituzionale n. 114 del 7 maggio 2014) , in www.federalismi.it (n. 10/2014).

3 «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana , il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere, ai sensi dell’articolo 127, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale della legge regionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione» (il corsivo evidenza la parte di cui è stata dichiarata l’incostituzionalità); su tale clausola, criticamente, cfr., per tutti, E. ROSSI, La Sicilia resta un’isola (anche giuridicamente). Il procedimento di controllo delle leggi siciliane resiste alla riforma dell’art. 127 Cost., in Giur. cost., 3, 2003, p. 3036 ss. 1


operare una “svolta” evidentemente ritenuta non più rinviabile, stante la perdurante situazione di stallo in cui da tempo ristagnano i tentativi di riforma dello Statuto siciliano. Così operando, però, la Corte ha «rinnega[to] se stessa» 4 e l’(ormai) ingombrante precedente rappresentato dalla nota sentenza n. 314 del 2003, nella quale, con dovizia di argomentazioni, essa aveva sostenuto la non confrontabilità tra il modello di controllo preventivo delle leggi regionali realizzato, in Sicilia, dal Commissario dello Stato e quello generale, di cui al vigente art. 127 Cost., applicato alle Regioni ordinarie e, ancora per mano della Consulta, rapidamente esteso alle altre Regioni speciali 5. Descrivendo le singole disposizioni dello Statuto siciliano, nei loro elementi di difformità rispetto al procedimento configurato in Costituzione, la Corte adottava il metodo della scomposizione della disciplina del controllo sulle leggi regionali per “parti” separate, già inaugurato, peraltro, nella nota sentenza n. 38 del 1957, in cui, nel caducare, in forza del principio di unicità della giurisdizione costituzionale, le disposizioni statutarie che prevedevano un organo di giustizia costituzionale ad hoc per la Sicilia, si riconosceva «la perdurante vigenza delle regole di procedura statutariamente fissate, in quanto non necessariamente collegate alla competenza dell’Alta Corte», ritenendo applicabili tali regole ai giudizi da svolgere davanti ad essa in sostituzione della stessa Alta Corte 6. Allora l’esclusione della comparabilità della disciplina siciliana con quella generale offerta dall’art. 127 Cost. fu argomentata considerando le rispettive disposizioni non omogenee. Rimasero pertanto irrisolti una serie di nodi problematici, che la dottrina non 4 L’espressione è di A. RUGGERI, op. cit., secondo il quale, peraltro, il mutamento dell’orientamento manifestato dalla Corte rispetto alla sent. n. 314 del 2003 «non si registra al sopravvenire di un fatto nuovo o […] di una nuova “situazione normativa”, qual è appunto quella dovuta alla revisione del 2001, avendosi senza alcun segno premonitore, ex abrupto, in occasione del giudizio sulla finanziaria siciliana».

5 All’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, nelle Regioni ad autonomia differenziata diverse dalla Sicilia, gli originari regimi di controllo, ispirati al previgente art. 127 Cost., sono stati considerati confrontabili e recessivi rispetto a quello fissato dall’attuale normativa costituzionale, proprio in considerazione del ruolo del Governo, che nel controllo preventivo si ingerisce nel procedimento legislativo regionale, mentre in quello successivo risulta a questo del tutto estraneo, potendo far valere, solo dopo l’entrata in vigore della legge, un eventuale “eccesso di competenza” di fronte alla Corte costituzionale. Cfr., in tal senso, l’ord. n. 377 del 2002, sul procedimento di controllo relativo alle leggi della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; l’ord. n. 65 del 2002, riferita al FriuliVenezia Giulia; le sentt. n. 408 e 533 del 2002 riguardanti il Trentino-Alto Adige e le Province autonome di Trento e Bolzano.

6 La dottrina si è soffermata, specie in passato, sul senso da dare alla formula «le disposizioni della presente legge» contenuta nell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, al fine di individuare l’unità minima da porre a raffronto per applicare la clausola «di maggior favore» ivi contenuta, sostenendosi da alcuni che la comparazione dovesse essere svolta alla luce di un’unica, complessiva valutazione dei dati offerti dalle discipline comparate; da altri che, invece, la stessa potesse avvenire anche per parti separate, purché dotate di autonomia concettuale e guardando anche alla logica complessiva della disciplina che risulti da tale raffronto, della quale andrà comunque preservata la coerenza e non contraddittorietà. Quest’ultima soluzione, con non eccesive diversità di intonazioni, è stata prevalente in dottrina; cfr., in tal senso, E. ROSSI, Il controllo di costituzionalità della legge regionale siciliana dopo le modifiche dell’articolo 127 della Costituzione , in G. Verde (a cura di), La specialità siciliana dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, p. 61 ss., in specie pp. 68-70; A. RUGGERI, Il controllo sulle leggi siciliane e il “bilanciamento” mancato (nota a Corte cost. n. 314 del 2003), in www.forumcostituzionale.it (5 novembre 2003), p. 2; C. PADULA, L. cost. n. 3/2001 e statuti speciali: dal confronto tra norme al (mancato) confronto tra sistemi , ivi, p. 2, che propende, sulla scorta del dato letterale offerto dall’art. 10 cit., per la possibilità di frazionare l’art. 127 Cost. ed applicarlo alle Regioni speciali solo là dove amplia la loro autonomia; G. DI COSIMO, Nuova disciplina del controllo sulle leggi regionali. Il caso delle Regioni a statuto speciale, in Le ist. del federalismo, 2/2002, p. 360, secondo cui il senso complessivo della riforma del Titolo V spinge nella direzione dell’estensione immediata dell’intero testo della legge costituzionale 3/2001 alle Regioni speciali, ma «un argomento contro l’estensione su tutta la linea è dato dall’esistenza stessa della clausola, la quale invita a distinguere all’interno della legge costituzionale 3/2001 ciò che è immediatamente applicabile da ciò che non lo è». La giurisprudenza costituzionale più recente appare attestata sul “principio di unitarietà degli istituti”, in base al quale, appunto, gli istituti disciplinati nel Titolo V introdotto con la riforma del 2001 e quelli contenuti nei vecchi Statuti speciali devono essere comparati considerandoli nella loro unitarietà, che comprende gli aspetti più favorevoli e quelli meno favorevoli per l’autonomia regionale; in tal senso, cfr., per tutte, le sentt. n. 274 del 2003 e n. 51 del 2006. 2


aveva mancato di rilevare e per i quali erano state anche prospettate soluzioni di vario tenore, la cui praticabilità subì una sorta di “forzoso arresto” ad opera della Corte 7. Così, la vexata quaestio relativa alla ruolo del Commissario dello Stato, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, che ne aveva sì preservato l’esistenza, ma all’interno di una cornice funzionale profondamente mutata rispetto all’originario impianto statutario. Di tale organo la Corte aveva mantenuto, infatti, la competenza in ordine al controllo delle leggi regionali, impugnabili (ormai) davanti alla Corte costituzionale, ma non quella, di cui agli artt. 27 e 30 St. siciliano, sulle leggi e sui regolamenti emanati dallo Stato, rispetto allo Statuto speciale ed ai fini dell’efficacia dei medesimi entro la Regione8. Tale “mutilazione” fu letta, in dottrina, come fattore di appannamento del ruolo super partes del Commissario, quale «organo imparziale di difesa degli interessi costituzionali connessi con il regime autonomistico» 9, a favore di una prospettiva più realistica, che ne coglieva la “vicinanza” all’esecutivo nazionale, assimilandolo sostanzialmente al modello commissariale previsto per le altre Regioni 10. 7 Si può affermare fin d’ora, comunque, che la dottrina si è orientata in prevalenza nel senso di ritenere il procedimento di cui all’art. 127 Cost. complessivamente più favorevole rispetto a quello disposto dallo Statuto siciliano, in quanto ‒ come detto ‒ esso esclude il potere statale di incidere dall’interno sul procedimento di formazione delle leggi regionali; in tal senso cfr., per tutti, C. PINELLI, Art. 9. Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge La Loggia), in www.astridonline.it; ID., Quali controlli per gli enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione?, in Le Regioni, 1/2005, p. 165; P. CARETTI, Il contenzioso costituzionale. Commento all’art. 9, in G. Falcon (a cura di), Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Bologna 2003, p. 183 ss., in particolare pp. 196-197; contra E. GIANFRANCESCO, L’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ed i controlli nelle regioni ad autonomia speciale, in Giur. cost., 2002, p. 3317 ss.; ID., Il controllo sulle leggi regionali nel nuovo art. 127, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino 2003, p. 147, in considerazione del fatto che la promulgazione (anche parziale) amplierebbe l’autonomia della Regione, che potrebbe decidere se procedere o meno in tal senso, secondo criteri di opportunità politica.

8 Cfr. la sentenza n. 545 del 1989, con la quale la Corte, in occasione del primo ed unico ricorso del Commissario dello Stato avverso un atto normativo statale, dichiarò non più operante la competenza sopra ricordata, poiché connessa indissolubilmente alle attribuzioni dell’Alta Corte, in nome del principio di unicità della giurisdizione costituzionale, già richiamato, peraltro, nella sentenza n. 38 del 1957. Il carattere “tombale” di questa pronuncia sulle competenze commissariali in ordine al controllo delle leggi statali appare confermato dall’ombra negativa gettata dall’organo di giustizia costituzionale sulla perdurante utilità istituzionale del Commissario dello Stato, affermando che, se il potere di impugnativa in esame «si poteva ben giustificare nella fase di primo impianto dell'ordinamento siciliano, quando, in assenza di un sistema di garanzie definitivamente fissate in sede costituzionale, si tendeva ad individuare nel Commissario il garante imparziale del “patto di autonomia” tra l'ordinamento siciliano e l'ordinamento statale, non si giustifica certamente più nell'ambito di un ordinamento costituzionale quale quello attuale, dove il quadro dei rapporti tra Stato e Regioni, ordinarie e speciali, risulta completamente delineato e regolato nonché garantito attraverso un sistema di giustizia costituzionale ispirato a principi unitari» (punto 2 del considerato in diritto).

9 In questi termini, secondo la prospettiva dottrinale più risalente, P. VIRGA, Commissario del Governo, in Enc. dir., VII, Milano 1970, p. 856; sul Commissario dello Stato come organo super partes tra Stato e Regione siciliana, cfr. F. TERESI, Regione Sicilia, ivi, XXXIX, Milano 1988, p. 410; G. VERMIGLIO, Commissario del Governo nella Regione, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma 1988, p. 1 ss.; A. CIANCIO, L’impugnazione delle leggi statali da parte del Commissario dello Stato nella Regione siciliana, in V. Angiolini (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Torino 1998, p. 430 ss.

10 Cfr. E. ROSSI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-1989), Torino 1990, p. 183; sul punto, A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2014, p. 269 rilevano come il Commissario dello Stato si sia posto, nell’esperienza, «al pari degli altri rappresentanti del Governo nei capoluoghi regionali, quale mera longa manus del Governo stesso, distaccandosi tuttavia dagli altri Commissari per il carattere sostanzialmente “suo proprio” del potere di controllo, sistematicamente esercitato a senso unico nei riguardi dei soli atti regionali». Per una disamina approfondita degli elementi strutturali e funzionali connotanti in Commissario dello Stato, cfr. G. SCALA, Il controllo di costituzionalità delle leggi in Sicilia dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in G. Verde, G. Scala (a cura di), Legislazione regionale siciliana e controllo di costituzionalità, Milano 2005, p. 119 ss.

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Anche in ordine alla natura, preventiva o successiva, del controllo, la sentenza n. 314 del 2003 aveva lasciato il quadro normativo immutato. Secondo il dettato originario degli artt. 28 e 29 St. siciliano, infatti, le leggi regionali dovevano essere inviate entro tre giorni dall’approvazione al Commissario dello Stato, che nei successivi cinque giorni avrebbe potuto impugnarle davanti all’Alta Corte; quest’ultima avrebbe dovuto decidere sulle impugnazioni entro venti giorni dalla ricezione delle medesime. Decorsi otto giorni, senza che al Presidente regionale fosse pervenuta copia dell’impugnazione o trenta giorni dall’impugnazione, senza che allo stesso Presidente fosse pervenuta da parte dell’Alta Corte sentenza di annullamento, le leggi sarebbero state promulgate ed immediatamente pubblicate sulla Gazzetta ufficiale. Nell’interpretare queste disposizioni, dotate di un’innegabile coerenza ed unitariamente rivolte a garantire la rapidità del controllo in vista dell’entrata in vigore delle leggi regionali, un’autorevole dottrina sostenne il carattere perentorio del termine di trenta giorni, individuando in capo al Presidente, decorso infruttuosamente lo stesso, un preciso dovere di promulgazione in pendenza di giudizio e spingendosi ad affermare che, una volta avvenuta la promulgazione, la tardiva pronuncia dell’Alta Corte fosse da considerare inutiliter data11. Gli interventi successivi dell’Alta Corte e della stessa Corte costituzionale, subentrata alla prima, hanno comportato una trasformazione profonda del modello originario ed un’alterazione degli stessi equilibri istituzionali tra gli organi di vertice della Regione. La prima, infatti, in una delle sue poche decisioni, ammise la promulgazione parziale di un testo di legge successivamente alla dichiarazione di parziale illegittimità dello stesso, riconoscendo in capo al Presidente la possibilità (rectius: il dovere) di valutare discrezionalmente se la parte di testo non annullato potesse essere promulgato, in quanto dotato di autonoma efficienza, o se occorresse una nuova delibera assembleare, che riesaminasse la legge nel suo complesso. Tali assunti offrirono le basi per un ulteriore ampliamento del potere-dovere di promulgazione parziale del Presidente in materia, esteso anche al caso di impugnazione parziale della delibera legislativa da parte del Commissario dello Stato, prima della decisione di legittimità costituzionale. Da parte sua, la Corte costituzionale, nel confermare l’orientamento dell’organo di giustizia costituzionale siciliano, pur lasciando intatti i modi e i termini di proposizione del giudizio, stabilì che «il termine di trenta giorni oltre il quale, ai sensi del secondo comma dell'art. 29 dello Statuto siciliano, le leggi sono promulgate ed immediatamente pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Regione, crea non già un obbligo di promulgazione immediata, ma soltanto la facoltà per la Regione di procedere alla promulgazione e pubblicazione della legge anche in pendenza di ricorso per illegittimità costituzionale. Il fondamento e i limiti di questa facoltà sono tali da escludere che essa possa influire, allorché sia stata esercitata, sullo svolgimento del processo costituzionale e sulla relativa decisione. Pertanto, anche se la legge regionale in oggetto possa ritenersi formalmente perfetta come atto legislativo, l'esercizio della anzidetta facoltà di promulgazione non impedisce che una dichiarazione di illegittimità della Corte costituzionale ponga nel nulla la legge e travolga tutti gli effetti che essa, medio tempore, possa avere prodotto con eventuali conseguenti responsabilità 12». Ciò affidava alla valutazione discrezionale del Presidente la promulgazione parziale o integrale della legge, trasformando il giudizio da 11 Così V. CRISAFULLI, Controllo preventivo e controllo successivo sulle leggi regionali siciliane, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, p. 645.

12 Così la sent. n. 60 del 1958, parte iniziale del considerato in diritto; ma, in senso conforme, v. già la sent. n. 9 del 1958 e, poi, n. 31 del 1961.

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preventivo in successivo; la promulgazione parziale, poi, poteva aversi o prima della decisone della Corte costituzionale o in esito al giudizio di questa 13. Un’ulteriore tappa su questo percorso è stata segnata, poi, dalla giurisprudenza che ha dichiarato la cessazione della materia del contendere in caso di promulgazione parziale delle sole disposizioni non impugnate, che avrebbe implicitamente manifestato una volontà di acquiescenza della Regione nei confronti dei rilievi di incostituzionalità mossi dal Commissario14. Interpretando la promulgazione parziale come implicita rinuncia alle parti della legge impugnate, si conferiva, come ampiamente rilevato dalla dottrina, al Presidente della Regione un improprio ruolo di legislatore negativo 15, dotandolo del potere di causare, proprio attraverso la promulgazione parziale, l’abrogazione parziale della legge, anche a detrimento delle determinazioni assunte dall’organo rappresentativo regionale e senza effettivi rimedi attivabili dalla Corte costituzionale 16. Su tali aspetti e, in genere, su tutto il procedimento di controllo delle leggi siciliane, nel 2003 la Corte costituzionale evitò di formulare un giudizio di valore assumendo, sì, come termine di riferimento l’art. 127 Cost., ma limitandosi a dichiarare che i due modelli erano essenzialmente diversi e non si prestavano ad essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza adottato dal menzionato art. 10. A fondamento di tale impedimento la Corte collocò la distinzione tra tipi di diversità, quantitativa e qualitativa, giungendo ad affermare che in presenza della prima il confronto sarebbe stato possibile, mentre sussistendo la seconda (come nel caso del sistema di controllo previsto dall’art. 127 e di quello disciplinato dallo Statuto siciliano) qualsiasi comparazione sarebbe stata irrealizzabile. In particolare, il meccanismo definito dagli artt. 28 e 29 St. siciliano, nel fissare un procedimento di impugnazione delle leggi di carattere preventivo, in quanto anteriore alla promulgazione e pubblicazione, era congegnato in modo che la pronuncia della Corte non fosse necessariamente preventiva, «potendo questa intervenire a legge promulgata e pubblicata, cioè successivamente alla decorrenza del termine previsto dall’art. 29 dello Statuto». Altri elementi di difformità furono individuati, poi, nell’assenza di un rinvio, preventivo allo stesso procedimento di impugnazione, all’Assemblea legislativa per sollecitare una seconda deliberazione da parte di questa; nella previsione di termini particolarmente brevi; nel fatto che il controllo sulle leggi fosse promosso, in Sicilia, da un organo, il Commissario dello Stato, specificamente previsto dallo Statuto siciliano, nel quadro dei rapporti da

13 Cfr. Corte cost., sentt. n. 9 del 1958 e 31 del 1961. In dottrina, diffusamente, M. MOSCATO, La c.d. promulgazione parziale, in A. Ruggeri, G. Verde (a cura di), Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Sicilia, Torino 2012, p. 393 ss.

14 Cfr., ex multis, le sentt. n. 142 del 1981 e 13 del 1983 che avviarono un orientamento costantemente ribadito in seguito.

15 Cfr., sul tema, G. VOLPE, Dalla promulgazione parziale all’abrogazione parziale delle leggi siciliane: il Presidente della Regione come “legislatore negativo”, in Le Regioni, 1/1983, p. 475; P. BERRETTA, Il Presidente della Regione Siciliana giudice della costituzionalità delle leggi regionali?, in Giur. cost., 3/1983, p. 1045.

16 Sul punto, cfr. ancora M. MOSCATO, op. cit., p. 396, che ricorda come a «bilanciamento di tali poteri abnormi, riconosciuti al capo dell’Esecutivo regionale, la Corte ha individuato unicamente la possibilità, da parte dell’Assemblea regionale, di rilegiferare sulla materia regolata nelle precedenti disposizioni non promulgate (id est abrogate) dal Presidente, riproducendole in tutto o in parte». In caso di nuova impugnazione da parte del Commissario dello Stato, comunque, il Presidente manteneva il potere di una nuova “abrogazione attraverso la non promulgazione”, perpetuando sfibranti tensioni tra i due organi di vertice dell’apparato regionale.

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questo originariamente tracciati tra Regione e Stato. Quest’ultimo, poi, «è bensì nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri […], ma, pur non essendo più riconducibile all’originaria figura di "garante imparziale del "patto di autonomia" tra l’ordinamento siciliano e l’ordinamento statale" (secondo le parole della sentenza n. 545 del 1989), esercita pur tuttavia un proprio potere di controllo e attivazione del giudizio costituzionale, avente natura essenzialmente giuridica, non spettantegli in qualità di tramite del Governo, ma affidatogli direttamente da norma di rango costituzionale; mentre il controllo sulle leggi delle altre Regioni è attivato da una delibera del Consiglio dei ministri, espressiva dell’indirizzo politico-giuridico del Governo» 17. Ponendo l’accento sull’eccentricità del sistema isolano e negando, allora, che esso potesse costituire un vulnus all’autonomia della Regione in rapporto a quella riconosciuta, in tale ambito, alle altre, la Corte evitò di addentrarsi in ambiti politicamente impegnativi, nei quali sia il legislatore nazionale, con il citato art. 9 della legge n. 131 del 2003, sia l’Assemblea Regionale Siciliana avevano mostrato ancora un diffuso gradimento per il regime siciliano18. La dottrina accolse, invece, la decisione in termini assai critici e non mancò chi denunciò, con forza, l’esigenza di difendere l’autonomia «anche contro… se stessa, contro cioè gli usi abnormi, irragionevoli che se ne fanno […]» 19. A oltre dieci anni di distanza, di fronte alla conclamata incapacità dell’autonomia di avviare percorsi di autoriforma, gli sviluppi recenti della giurisprudenza costituzionale hanno confermato la fondatezza di quella intuizione. 2. La svolta realizzata dalla sent. n. 255 del 2014 ‒ Dalla lettura della sentenza n. 255 del 2014 appare subito evidente come l’analisi dei due modelli di controllo sulle leggi, quello “siciliano” definito statutariamente e quello di ordine generale descritto dall’art. 127 Cost., si collochi, rispetto alla sentenza n. 314 del 2003, entro un’ottica di fondo profondamente mutata: puramente descrittiva e “osservazionale”, allora; prescrittiva e fondata su una serie di giudizi di valore, oggi. La Consulta ribadisce che l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, nell’introdurre la clausola «di maggior favore», impone di svolgere un confronto fra gli istituti previsti dagli Statuti speciali e le analoghe disposizioni contenute nel Titolo V della Costituzione, «al fine di compiere un giudizio di preferenza, nel momento della loro applicazione, privilegiando le norme costituzionali che prevedono forme di autonomia «più ampie» di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie». Nello sforzo di dimostrare la confrontabilità tra il modello siciliano e quello previsto in Costituzione, essa prende le distanze, oggi, da quanto affermato nella sentenza n. 314 del 2003.

17 Così la citata sentenza n. 314 del 2003, punto 3.2 del considerato in diritto.

18 Con l’ordine del giorno n. 22, approvato in data 29 novembre 2001, infatti, l’Assemblea regionale confermò, in attesa della revisione dello Statuto, l’applicazione degli artt. 28 e seg. dello stesso, ritenendo tale sistema di controllo più garantista rispetto a quello ordinario, riformato nel 2001. Si ricordi, altresì, che anche il Commissario dello Stato aveva presentato nel giudizio definito dalla sentenza n. 314 una memoria, rivolta a sostenere la “possibilità di una sopravvivenza” della disciplina prevista dallo Statuto siciliano “in quanto lex specialis dopo la riforma del Titolo V” (cfr., per queste indicazioni, il punto 3.1 del Ritenuto in fatto della sent. cit.).

19 Così A. RUGGERI, Il controllo sulle leggi siciliane, cit., p. 1; in senso critico, cfr. anche C. PADULA, op. cit., passim, in specie pp. 1-3; F. TERESI, La inaspettata cristallizzazione del sistema di sindacato costituzionale delle leggi siciliane prevista dallo statuto speciale in una discutibile sentenza della Corte costituzionale, ivi; M. BARBERO, Brevi note alla sentenza della Corte costituzionale n. 314 /2003 in tema di controllo sulle leggi della Regione Sicilia, ivi.

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Lungi dal riproporre la criticatissima distinzione tra tipi di diversità (quantitativa e qualitativa), la nuova pronuncia recepisce, alla lettera, i suggerimenti interpretativi avanzati da autorevole dottrina, secondo cui l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 presuppone «la diversità degli elementi costitutivi e dei tratti identificativi degli istituti comparati», rispettivamente previsti dalle norme costituzionali e da quelle statutarie, «al fine di stabilire quali di essi risultino maggiormente vantaggiosi per l’autonomia» 20. Data per scontata la presenza di siffatta diversità, gli istituti in esame, chiamati a svolgere la medesima funzione di definizione del controllo sulle leggi regionali, ben possono essere comparati. Gli sforzi argomentativi successivi della Corte sono in gran parte orientati in tal senso. In primo luogo, essa passa in rassegna gli snodi giurisprudenziali salienti del processo di ampliamento della sfera applicativa del “nuovo” art. 127 Cost. ai controlli svolti sulle leggi delle altre quattro Regioni speciali diverse dalla Sicilia, affermando, come leitmotiv di fondo, la confrontabilità, appunto, tra il modello ivi definito e quello tracciato dai rispettivi Statuti. Il controllo successivo ha assunto così portata generale, isolando il “caso” siciliano, e risultando dotato di una particolare primazia anche sul piano assiologico, in quanto espressivo, ex art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, di una logica di maggiore garanzia dell’autonomia legislativa regionale rispetto al sistema originariamente previsto dagli Statuti delle suddette Regioni. Venendo poi all’esame del sistema di controllo sulle leggi siciliane, la Corte parte sì dalla descrizione del modello “in origine”, ma riconosce immediatamente anche come questo, a seguito della profonde trasformazioni intervenute ad opera della giurisprudenza costituzionale, sia divenuto, «quanto agli aspetti principali, sostanzialmente analogo a quello allora [prima della riforma del Titolo V della Costituzione] previsto per le leggi delle altre Regioni ad autonomia speciale e ordinaria, tutte soggette a un sistema di controllo preventivo»21. Ciò consente al giudice del leggi di svolgere due ulteriori, connesse considerazioni in merito alla percorribilità del metodo del confronto. Per un verso, esso rileva come proprio la “riscrittura” di taluni passaggi centrali del procedimento di controllo delle leggi siciliane compiuta dalla Corte si sia svolta, in almeno due casi, anche attraverso la comparazione di questo con quello disciplinato dal previgente art. 127 Cost.22 Per altro verso, sottolineando l’analogia del procedimento di controllo sulle leggi siciliane con quello disposto, originariamente, per le altre Regioni speciali, la Corte osserva come “l’eccentricità” del modello siciliano non costituisca un ostacolo insormontabile alla confrontabilità tra istituti, così come già avvenuto per i regimi di controllo delle leggi regionali previsti dagli Statuti di quelle regioni, portando all’applicazione, in forza del criterio della prevalenza, della disposizione costituzionale 23. Si traccia, così, un ulteriore elemento di discontinuità con la sentenza n. 314 del 2003, enfatizzando i fattori di somiglianza qualitativa, prima ancora che quantitativa (potremmo dire, utilizzando le ricordate categorie concettuali di quella pronuncia) tra le discipline delle 20 Cfr. il punto 4.2 del considerato in diritto, che riprende alla lettera A. RUGGERI, Il controllo sulle leggi siciliane, cit., p. 2.

21 Cfr. il punto 3 del considerato in diritto, nel quale si evidenzia come, rispetto a quei meccanismi, il modello siciliano presentasse alcuni spazi di maggiore autonomia, «non essendo previsto il rinvio all’organo legislativo regionale per un secondo esame e ben potendo il Presidente della Regione promulgare le leggi decorsi trenta giorni dalla loro impugnazione».

22 Cfr. il punto 4.2 del considerato in diritto, in cui la Corte richiama i precedenti offerti dalle sentt. n. 38 del 1957 e n. 545 del 1989.

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Regioni differenziate, compresa la Sicilia, nonché la tendenza ad estendere l’applicazione dell’art. 127 Cost. oltre i confini delle autonomie ordinarie, per argomentare la praticabilità, e doverosità, del metodo del confronto tra istituti. Una volta affermata la confrontabilità degli istituti di controllo, la Corte ha buon gioco nel dimostrare come il controllo preventivo di matrice statutaria costituisca, per la Regione, un minus, proprio in termini di autonomia, rispetto al procedimento previsto in Costituzione, nel quale «la soppressione del meccanismo di controllo preventivo delle leggi regionali, in quanto consente la promulgazione e l’entrata in vigore della legge regionale […] si traduce in un ampliamento delle garanzie di autonomia» 24. Dichiarando, infine, l’incostituzionalità dell’incipit del suddetto art. 31, comma 2, la Corte ritiene «non più operanti le norme statutarie relative alle competenze del Commissario dello Stato nel controllo delle leggi siciliane, alla stessa stregua di quanto affermato da questa Corte con riguardo a quelle dell’Alta Corte per la Regione siciliana (sentenza n. 38 del 1957), nonché con riferimento al potere del Commissario dello Stato circa l’impugnazione delle leggi e dei regolamenti statali (sent. n. 545 del 1989)» 25, traendo conclusioni coerenti con le premesse poste nell’ordinanza di rimessione. Questa, infatti, si era appuntata (solo) sulla parte iniziale del citato articolo, lasciando già presagire l’estensione alla Regione siciliana del modello di controllo successivo delle leggi regionali, individuato in Costituzione e disciplinato in dettaglio dalla restante parte della disposizione. La figura del Commissario dello Stato risulta così espunta dal procedimento di controllo, quantunque, a rigore, essa non risultasse «strettamente ed inscindibilmente legata al meccanismo di sindacato preventivo» 26. Appare probabile che su questa scelta abbiano pesato finalità di semplificazione e di certezza del quadro normativo, nonché l’intento di garantire l’immediata applicabilità della disciplina di risulta, attraverso l’estensione (dichiarata expressis verbis dalla Corte) alle leggi siciliane del meccanismo di controllo disposto dall’art. 127 Cost. e 31 della legge n. 87 del 1953. Ora, proprio la scelta per l’estensione “a blocco” del modello costituzionale, con l’integrazione offerta dalla legislazione ordinaria (art. 31 cit., depurato della parte iniziale) pare consentire, ed anzi favorire, l’applicazione dell’intera procedura di controllo successivo previsto per le altre Regioni, anche negli aspetti definiti dalla legislazione ordinaria, secondo la lettura a questi offerta dalla giurisprudenza costituzionale 27. Il riferimento va, in particolare, alla disciplina dei rapporti tra la delibera del Consiglio dei 23 Cfr. ancora il punto 4.2 del considerato in diritto, dove si ricordano le citate sentt. n. 408 e 533 del 2002, «nelle quali non ha rappresentato ostacolo all’estensione della disciplina relativa ai giudizi in via principale prevista per le Regioni di diritto comune, la circostanza che l’art. 55 del D.P.R 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) preveda un peculiare sistema di controllo delle leggi regionali e provinciali».

24 Cfr. ancora il punto 4.2 del considerato in diritto.

25 Così il punto 5 del considerato in diritto.

26 Così A. RUGGERI, Colpi di maglio, cit., p.3.

27 Si tratta della proposta avanzata, tra gli altri, da A. RAUTI, Il controllo sulle leggi delle Regioni a statuto speciale fra “condizioni più ampie di autonomia” e novità introdotte dalla legge “La Loggia”, in www.federalismi.it (24 luglio 2003).

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ministri e il ricorso del Presidente del Consiglio, a quella della tempistica processuale, nonché alla possibilità di sospendere gli effetti dell’atto impugnato. Quanto al primo punto, una volta venuta meno la figura del Commissario dello Stato, l’esigenza di offrire alla Regione la maggior tutela dell’autonomia impone di garantire il valore di “scelta di politica istituzionale” costantemente attribuito alla delibera statale di sollevazione del ricorso nei riguardi delle leggi regionali, suffragato dalla stessa Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 33 del 1962, allorché affermò che la delibera consiliare trova giustificazione e fondamento «in un’esigenza non di natura formale, ma di sostanza, connessa all’importanza dell’atto d’impugnativa della legge e alla gravità dei suoi possibili effetti di natura costituzionale»28. In tal senso va ribadita non solo l’esigenza di un “contenuto minimo” della delibera collegiale, comprensivo, tra i termini del ricorso, anche dell’indicazione, sia pure sintetica, dei motivi dell’impugnazione, ma anche l’opportunità di incentivare prassi “virtuose”, volte ad integrare tale contenuto minimo 29. Quanto al secondo punto, l’art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003, sancisce, in caso di impugnazione di uno Statuto regionale o di una legge statale o regionale, un obbligo per la Corte di fissare l’udienza di discussione del ricorso entro novanta giorni dal deposito dello stesso, termine che potrebbe apparire particolarmente vantaggioso per l’autonomia regionale, ove letto come dotato di carattere perentorio. La prassi, però, sembra orientata in senso diverso, considerandolo come meramente ordinatorio. Sui tempi della decisione, pertanto, rimane grande incertezza e non sarà la nuova disciplina, con ogni probabilità, ad accelerarli30. In ordine al terzo punto, infine, una volta ammesso, come pare necessario fare alla luce della clausola «di maggior favore», che la Regione possa avanzare davanti alla Corte costituzionale, ancora ex art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003, un’istanza di sospensione dell’efficacia della legge statale impugnata, si deve ritenere altrettanto necessario riconoscere allo Stato il medesimo potere cautelare, in forza di un “effetto di trascinamento” consequenziale al principio della “parità delle armi” tra le parti del giudizio. In tal caso, anzi, proprio l’esigenza di sospendere l’esecuzione di un atto che comporti «il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini» 28 Cfr. Corte costituzionale, sent. n. 33 del 1962, punto 3 del considerato in diritto; in dottrina, per tutti, E. LAMARQUE, Il nuovo art. 127 della Costituzione e il giudizio di legittimità costituzionale in via d'azione, in Quad. cost., 2002, pp. 96-99, in specie p. 98, secondo cui la valutazione rimessa all’intero Governo (piuttosto che al solo Commissario dello Stato) risulta maggiormente idonea a garantire l’autonomia della Regione la cui legge sia oggetto di impugnazione; nello stesso senso, anche E. ROSSI, Il controllo di costituzionalità, cit., p. 76.

29 Si fa riferimento, ad esempio, alla prassi di accompagnare le delibere di autorizzazione del Consiglio dei ministri con una relazione del Ministro o del dipartimento degli affari regionali, che è allegata al verbale delle sedute del Consiglio stesso. La Consulta ha, in varie occasioni (sentenze 315 del 2003, 240 e 357 del 2010), riconosciuto a questa relazione una funzione “integrativa” della delibera consiliare, quanto al contenuto minimo di quest’ultima. In un’ottica collaborativa si colloca, invece, la direttiva del Ministro per gli affari regionali del 26 giugno 2006, che, nel definire le procedure da seguire per l’esame governativo delle leggi regionali, ha rilevato l’opportunità «che l’operazione di composizione dei valori confliggenti dell’unità della Repubblica e dell’autonomia regionale sia affidata ad un processo di negoziazione politica ed al confronto tra i diversi soggetti del pluralismo piuttosto che alla Corte costituzionale». Su tali strumenti cfr. E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino 2013, pp. 173-174.

30 In argomento, cfr. E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, op. cit., p. 158, i quali, opportunamente, osservano come «A ciò si aggiunga che la disposizione in esame potrebbe essere letta nel senso che, entro novanta giorni dal deposito del ricorso, la Corte debba fissare la data dell’udienza e non che entro i novanta giorni debba tenersi l’udienza. Neppure l’interpretazione più restrittiva appare comunque risolutiva, in quanto […] lo svolgimento dell’udienza entro novanta giorni dal deposito del ricorso, non garantisce certamente in ordine ai tempi di deposito della decisione».

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impone di offrire un’applicazione puntuale di tale principio, indipendentemente dalla provenienza dell’atto medesimo. Sembra, in altre parole, che in questo caso il ricorso alla clausola «di maggior favore» arresti, in modo del tutto irragionevole e asimmetrico, il percorso di estensione “a blocco” del modello costituzionale “a metà del guado”, rendendosi necessario il completamento della disciplina applicabile alla luce di altri principi, pure di rango costituzionale31. Al di là delle considerazioni tecniche fin qui svolte, permangono poi, sullo sfondo, tutte le perplessità legate al repentino overruling impresso dalla Corte ad un orientamento che appariva ormai consolidato. L’organo di giustizia costituzionale ha, in un sol colpo, determinato i tempi e le modalità dell’intervento riformatore sul sistema di controllo vigente per le leggi siciliane, che nel 2003, invece, era stato esplicitamente affidato alle valutazioni degli organi politici isolani. La denuncia dell’anomalia siciliana resa palese, in particolare, dalla prassi della promulgazione e pubblicazione parziali, si risolveva così, allora, in un implicito, ma, nel complesso, blando, appello al legislatore siciliano, perché avviasse la stagione dell’adeguamento dello Statuto ai nuovi equilibri istituzionali tracciati dalla riforma costituzionale del 2001, arrestandosi, peraltro, di fronte all’impossibilità di formulare un giudizio di merito sulla preferibilità dei differenti sistemi di impugnazione delle leggi regionali. Di più: proprio quest’ultimo assunto, fondandosi sulla disomogeneità delle grandezze a confronto, poteva valere a “blindare” il modello invalso in Sicilia, rinviando sine die i tempi della riforma statutaria e del rilancio della specialità. La sentenza in oggetto rivela, invece, una Corte molto più risoluta ed intraprendente, disposta a “intestarsi” la questione di legittimità costituzionale, individuandone parametro ed oggetto, pur nel contesto di un quadro normativo rimasto, sul punto, invariato rispetto al 2003. In particolare, la proposizione della questione da parte della Corte costituzionale, se, certo, non costituisce una novità assoluta, essendo stata preceduta da non pochi precedenti, nei quali il giudizio finale si è quasi sempre risolto in una pronuncia di accoglimento, appare però, più che rimedio “forte” contro le zone d’ombra del controllo di costituzionalità32, resipiscenza tardiva in un segmento normativo la cui legittimità, anche dopo la revisione costituzionale del 2001, era stata avallata e consolidata dalla stessa Consulta33. Su queste premesse, non sorprende che il Presidente del Consiglio dei ministri, il Commissario dello Stato e la stessa Regione siciliana abbiano deciso di non costituirsi nel giudizio che ha condotto alla sentenza in esame. Come visto, l’esito della pronuncia era già ampiamente scontato e lo stesso contraddittorio si sarebbe ridotto a vuoto simulacro, 31 Cfr. A. RUGGERI, Il controllo sulle leggi siciliane e il “bilanciamento” mancato, cit., p. 3, che, a proposito del citato art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003 (relativo, appunto, anche al potere cautelare), ritiene che, considerata nella sua unitarietà ed interna specularità, tale norma sia “neutra”.

32 Secondo la giustificazione tradizionale proposta in dottrina; in argomento cfr., ex multis, B. CARAVITA, Corte «giudice a quo» e introduzione del giudizio sulle leggi, Padova 1985; ID., Appunti in tema di «Corte giudice a quo» (con particolare riferimento alle questioni sollevate nel corso dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale), in Giur. cost., II, 1988, p. 40 ss.; C. PINELLI, Prospettive di acceso alla giustizia costituzionale e nozione di giudice a quo, in A. Anzon, P. Caretti, S. Grassi (a cura di), Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale, Torino 2001, p. 618 ss.; E. MALFATTI, S. PANIZZA, R. ROMBOLI, op. cit., p. 88 ss.; F. MARONE, Appunti su Corte costituzionale giudice a quo e giudizio di ammissibilità del referendum, in www.federalismi.it (n. 21/2013).

33 Prima della riforma del 2001, a partire – come detto – dalla “storica” sent. n. 38 del 1957 e ancora nella sent. n. 545 del 1989; dopo, appunto, con la più volte citata sent. n. 314 del 2003.

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data la sostanziale contiguità tra la posizione del Commissario e quella della Regione, entrambi interessati ad un (impossibile) mantenimento dello status quo e la già ridondante presenza dell’istanza di ampliamento della portata applicativa dell’art. 127 Cost., che ha probabilmente indotto il Governo ad evitare un (inutile) intervento nel processo. A ben vedere, allora, il cambio di rotta dei giudici del palazzo della Consulta si iscrive entro un orizzonte di senso più ampio, costituito dal variegato e composito rapporto tra politica e giurisdizione, segnato da oscillazioni che vanno da «una tendenziale (ed alle volte fin troppo benevola) “copertura” offerta alla politica» 34 ad una «tendenza pervasiva della giurisdizione, che tende a creare autonomamente le regole della propria azione, e nella tendenza recessiva della politica, che stenta a dare alla giurisdizione le regole alla cui formazione sarebbe chiamata» 35. Nel caso in esame le discontinuità sul piano delle regole dell’azione appaiono forse meno evidenti che in altri, ma rimane il dato secondo cui il recente overruling della Corte risulti difficilmente giustificabile perfino nella prospettiva, notoriamente elastica, assiologico-sostanziale. Tale prospettiva, anzi, avrebbe imposto di imprimere una vigorosa virata al procedimento di controllo delle leggi siciliane già all’indomani della riforma del Titolo V della Cost., in nome, come oggi “si scopre”, della maggiore autonomia dell’ente territoriale che questa opzione avrebbe comportato e, dunque, in esito ad un giudizio compiuto su un piano rigorosamente assiologico. Né varrebbe obiettare che, in fondo, la sentenza n. 314, tenendo conto dell’elaborazione, allora in corso, di una proposta di revisione dello Statuto siciliano da parte dell’Assemblea Regionale, avrebbe tentato di bilanciare le ragioni (e i tempi) della politica con quelli del diritto, perché proprio la soluzione prescelta, fondata sulla non confrontabilità dei due sistemi, introduceva una sorta di “pietrificazione”, senza termine finale, della soluzione siciliana. La radicalità dell’overruling di oggi è conseguenza, dunque, della radicalità della soluzione tranchant del 2003 e di un certo modo di concepire la specialità, come separatezza, coniugato alla elasticità con cui la Corte definisce, di volta in volta, le proprie relazioni con la sfera politica36. 3. L’adeguamento dello Statuto siciliano dopo la sent. n. 255: l’irragionevolezza di un’eventuale reformatio in peius ‒ La pronuncia distingue “chirurgicamente” – come accennato ‒ tra l’annullamento dell’art. 31, comma 2, della legge n. 87 del 1953, nella versione novellata dalla legge “La Loggia” del 2003, limitatamente alle parole iniziali, e la non applicazione delle previsioni statutarie, che risultano semplicemente «non più operanti», a seguito dell’estensione del procedimento sancito in Costituzione 37. 34 In questi termini, A. RUGGERI, La corte costituzionale davanti alla politica (nota minima su una questione controversa, rivista attraverso taluni frammenti della giurisprudenza in tema di fonti), in www.giurcost.org, p. 7.

35 Così S. STAIANO, Politica e giurisdizione. Piccola cronaca di fatti notevoli, in www.federalismi.it, pp. 1-2.

36 Al di là dell’atteggiamento ondivago tenuto nel caso della disciplina del controllo di costituzionalità delle leggi siciliane, dopo il 2001 la Corte ha manifestato anche in altri ambiti una certa ambivalenza nel determinare forme e spazi della specialità regionale. In argomento, cfr. S. PAJNO, L’incerto futuro dell’autonomia speciale siciliana, in www.osservatorioaic.it (gennaio 2015), pp. 19-20 ed ivi ampi riferimenti alla oscillazioni della giurisprudenza, talora propensa a mantenere lo status quo, ritagliando ambiti di autonomia refrattari a qualsiasi innovazione di sistema (come nel caso della cancellazione del limite dell’interesse nazionale, dell’introduzione del principio di sussidiarietà o del potere sostitutivo straordinario previsto, in via generale, dall’art. 120, comma 2, Cost.), talaltra indirizzata ad appiattire l’autonomia speciale su quella ordinaria (in particolare, nel segmento relativo al riparto della competenza legislativa e, soprattutto, in materia di coordinamento della finanza pubblica).

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Il “riposizionamento” dell’autonomia siciliana in materia di controllo delle leggi è avvenuto, pertanto, in concreto, non per via di abrogazione, né per via di annullamento, almeno delle disposizioni statutarie meno “autonomiste”, ma per via di disapplicazione di queste ultime ad opera dell’organo di giustizia costituzionale, che, certo, non si è sentito frenato, sul punto, dal rischio di utilizzare gli strumenti tipici del giudice comune quale “giudice naturale” della non applicazione. La Corte, in effetti, ha già da tempo elaborato una giurisprudenza molto raffinata, atta a modulare gli effetti temporale e gli ambiti applicativi delle sue pronunce ed inoltre, nello specifico ambito del controllo sulle leggi siciliane, è venuta consolidando un orientamento tenue nella forma, ma solidissimo nella sostanza, teso, nel tempo, a privare di efficacia le disposizioni statutarie dissonanti con i principi costituzionali (le vicende relative all’Alta Corte e allo stesso controllo del Commissario dello Stato sulle leggi e sui regolamenti statali docent). E, d’altra parte, anche chi, in dottrina, ha autorevolmente sollevato il problema del “giudice naturale” della disapplicazione, è pervenuto alla conclusione che la Corte ben possa utilizzare tale mezzo in relazione alle norme meno favorevoli per l’autonomia regionale, anticipando già a commento dell’ordinanza di rinvio, con una prognosi confermata dagli svolgimenti successivi, come l’esito finale della vicenda sarebbe stata la «devitalizzazione definitiva e irreversibile (e, perciò, in buona sostanza coincidente con l’annullamento)» del disposto statutario, «salvo il caso […] che in sede di rifacimento dello statuto venga ripescato quel meccanismo di controllo preventivo sulle leggi regionali che la clausola suddetta ha inteso spazzar via» 38. A questo punto, gli autori dei nuovi Statuti speciali potrebbero dare nuovo slancio al percorso di “adeguamento” indicato dall’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, entro un quadro normativo che, sul piano costituzionale, appare, peraltro, in rapida evoluzione. A tal proposito, se, certo, il tenore letterale del suddetto art. 10 consente interpretazioni di marca “restauratrice”, per mezzo di un “adeguamento” degli Statuti speciali soltanto formale, in pratica l’eventualità di un ritorno a superate forme di controllo preventivo si profila come «remota, per non dire impossibile» 39. I futuri ed auspicabili interventi di “adeguamento” dello Statuto siciliano potranno certo incidere sul regime dei controlli, ma dovranno farlo in forma espressa (perché il silenzio sul punto equivarrebbe a tacita accettazione del regime generale, esteso anche alle leggi isolane) e confermando o ampliando la portata dell’autonomia ormai riconosciuta alla Regione, secondo le linee evolutive di un adeguamento inteso come “parificazione sostanziale” 40. L’inserzione di clausole che comportino, in nome dell’autonomia, un arretramento della stessa, si profilerebbe come palesemente irragionevole, in contrasto con la stessa ragion d’essere della distinzione tra Regioni speciali e ordinarie. A ciò si aggiunga che proprio il segmento 37 Cfr. ancora il punto 5 del considerato in diritto: «gli artt. 27 (per la perdurante competenza del Commissario dello Stato ad impugnare le delibere legislative dell’Assemblea regionale siciliana), 28, 29, 30 dello statuto di autonomia non trovano più applicazione, per effetto dell’estensione alla Regione siciliana del controllo successivo previsto dagli artt. 127 e 31 della legge n. 87 del 1953 per le Regioni a statuto ordinario, secondo quanto già affermato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte per le altre Regioni ad autonomia differenziata e per le Province autonome».

38 Le due citazioni sono tratte da G. MOSCHELLA, A. RUGGERI, Disapplicazione, in nome della clausola di maggior favore, cit., cit. p. 3.

39 Così ancora da G. MOSCHELLA, A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 3.

40 Secondo l’espressione utilizzata da C. PADULA, op. cit., p. 3.

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normativo in esame intercetta l’ambito delle modalità di accesso alla giustizia costituzionale, in modo che l’introduzione di modelli fortemente disomogenei apparirebbe, ancora alla luce del principio di ragionevolezza, quanto meno “sospetta”. In tal senso, il regime dei controlli fissato dall’art. 127 Cost. individua un livello di autonomia generalmente consolidato e non suscettibile di reformatio in peius. 4. Il controllo delle leggi regionali siciliane nella cornice di un più ampio ripensamento del regionalismo in Italia ‒ Seppure alla conclusione di un itinerario giurisprudenziale faticoso e incerto, l’approdo cui la Corte è pervenuta risulta condivisibile ed in linea con i più recenti sviluppi riformistici del sistema delle autonomie. Mancata l’occasione di un’elaborazione politica delle ragioni della specialità, sono queste stesse a dover fare i conti con un più generale “ripensamento” delle tecniche di ripartizione delle funzioni di governo tra una pluralità di enti politici. Gli esiti dell’applicazione della clausola «di maggior favore» alla materia dei controlli sulle leggi regionali ‒ ictu oculi paradossali, considerando il fatto che la maggiore autonomia si sia realizza in Sicilia (e, come visto, anche negli altri ordinamenti regionali speciali) per via di omologazione a quanto già previsto per le altre autonomie politiche territoriali, nonché tardivamente e ab esterno, ad opera di un organo estraneo al circuito politico ‒ sono sintomo di una più ampia “crisi” del regionalismo italiano e, in particolare, di quello speciale, costretto ad “inseguire” quello ordinario 41. In relazione all’esperienza autonomista siciliana, le cause di tale crisi sono state amplificate da un certo modo di concepire la stessa autonomia speciale, secondo una prospettiva rivendicativa e autoreferenziale, che ha frenato nell’isola gran parte del dinamismo politico ed amministrativo, vanificando le potenzialità più genuine, ma anche più impegnative, del riconoscimento statutario degli spazi di autogoverno in capo alla collettività regionale. Ne è derivata una prolungata ritrosia della classe dirigente locale a compiere scelte anche audaci, assumendone, al contempo, la piena responsabilità politica e si è favorita la creazione di un assetto istituzionale parallelo e autocefalo rispetto a quello statale, perpetuando sacche di privilegio, più che di reale autonomia 42. Oggi, però, il tempo degli attendismi e delle politiche volte a custodire gelosamente una specialità più o meno separata dal contesto istituzionale generale, pregiudizialmente refrattaria agli strumenti di confronto, collaborazione e controllo generalmente condivisi, appare irreversibilmente concluso. Al momento, non conosciamo l’esito cui andrà incontro il disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa approvato in prima lettura dal Senato in data 8 agosto 2014 ed ora 41 Si tratta di valutazione ampiamente condivisa in dottrina e manifestata anche nelle recenti audizioni parlamentari tenute nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle questioni connesse al regionalismo ad autonomia differenziata presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali della Camera dei deputati; si vedano, in articolare, le audizioni di A. D’Atena, S. Mangiameli, R. Toniatti, nella seduta del 26 marzo 2014; di G. Cerea, G.C. De Martin, U. De Siervo, in quella del 2 aprile 2014.

42 Sul punto cfr. S. PAJNO, op. cit., p. 4 ss., ma passim, che utilizza le due espressioni richiamate in corsivo nel testo in riferimento ad una diffusa prassi applicativa dell’autonomia speciale siciliana. L’A. svolge un’analisi ampia e documentata sulle distorsioni più gravi cui ha condotto una visione “isolazionista” dell’autogoverno regionale. Spiccano, in tal senso, la mancanza di una reale autonomia impositiva della Regione, che «determina l’assenza di meccanismi volti a sanzionare la responsabilità politica connessa all’utilizzo delle risorse » (p. 5; corsivi dell’A.), secondo assetti invalsi nella fase di attuazione delle disposizioni dello Statuto, ma ben lontani dal modello ivi tracciato, imperniato, invece, su un prelievo diretto; la tendenza ad esercitare la potestà legislativa esclusiva secondo modalità autoreferenziali e in vista del consolidamento delle posizioni di vantaggio di determinate categorie; una certa “rilassatezza” dei vertici regionali nel rivendicare davanti alla Corte costituzionale le competenze normative e amministrative fissate statutariamente, eccezion fatta per gli atti statali ritenuti lesivi delle prerogative finanziarie e specificamente tributarie della Regione; l’utilizzo prevalente delle norme di attuazione «come un mezzo per assicurarsi risorse economiche, e per presidiare gli istituti di privilegio degli organi politici. L’autogoverno tramite la concreta cura di interessi pubblici, tramite la gestione di funzioni amministrative, è restato nel complesso in secondo piano» (p. 11).

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all’esame dell’assemblea della Camera dei deputati (C. 2613 e abb.). In questo, però, sono rinvenibili non pochi segnali di un neo-centralismo istituzionale, nel quale sarebbero coinvolte tutte le autonomie territoriali. Il testo dell’art. 117 Cost., che la riforma intende introdurre, opera un complessivo ripensamento delle competenze delle Regioni ordinarie, attraverso la tecnica redazionale dell’enumerazione delle stesse, in uno con la riproposizione finale della c.d. “clausola di residualità”. Si prevede, altresì, l’adozione della “clausola di supremazia”, che consente allo Stato, con legge proposta dal Governo, di intervenire in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva, quando lo richieda «la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale», secondo un modello che tende ad appiattire le differenze (a meno che non se ne faccia un uso “mirato”, attivandola soltanto nei confronti di alcune Regioni) e risulta, per la portata delle ragioni giustificative dell’intervento statale, difficilmente giustiziabile 43. Scompare qualsiasi riferimento alla potestà legislativa cd. concorrente, foriera, in questi anni, di un endemico contenzioso costituzionale, mentre è mantenuta, all’art. 116, comma 3, Cost., la previsione di forme di autonomia territoriale a “geometria variabile” 44. Quanto alle Regioni speciali, il disegno di legge prevede che «Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale [cioè quelle inerenti al Titolo V] non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento a Bolzano sino all'adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome»45. Nel testo originario non era contenuto il riferimento alle intese, che sembra un correttivo interessante, ma probabilmente insufficiente a correggere l’ambiguità e la contraddittorietà di fondo di tale disposizione 46. Su queste premesse, pensare ad un adeguamento statutario che riproponga, riveduta e corretta, la figura del Commissario dello Stato, appare piuttosto sterile, in quanto, se anche se ne voglia fare una sorta di “bandiera” dell’autonomia siciliana, per la sua distanza dai palazzi romani e una presunta maggiore attenzione alle istanze isolane, ben altre sono le forme in cui l’autonomia speciale va rilanciata. In un momento di sostanziale sfiducia nei confronti del regionalismo e di un suo complessivo ripensamento, svolto sia sul versante dei fondamenti teorici (il “fattore

43 Tra i commenti più recenti alla riforma costituzionale in itinere, con particolare riguardo alle prospettive di cambiamento del regionalismo italiano, in generale, e di quello speciale, in particolare, cfr., per tutti, P. CARETTI, La riforma del Titolo V Cost., in www.rivistaaic.it (n. 2/2014); A. D’ATENA, Passato, presente… e futuro delle autonomie regionali speciali, ivi (n. 4/2014); A. RUGGERI, Quali insegnamenti per la riforma costituzionale dagli sviluppi della vicenda regionale?, ivi.

44 Reintrodotta ad opera dell’emendamento 25.1000 dei Senatori Finocchiaro e Calderoli; il disegno originario presentato dal Governo prevedeva, invece, l’abrogazione dello stesso art. 116, comma 3, Cost., sostituendolo con la possibilità di un con ferimento o di una delega (con legge bicamerale) dell’esercizio di competenze esclusive statali.

45 Come osservato da parte di L. Antonini, nell’audizione del 16 aprile 2014, ancora nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sopra ricordata «Da un lato […] si stabilisce l'applicazione della nuova configurazione del Titolo V – quindi la fortissima ricentralizzazione – ma, dall'altro lato, si rimanda al momento dell'adeguamento degli statuti». La previsione «da un lato segna la fine dell'autonomia speciale perché pone l'obbligo di adeguamento, ma poi lo rinvia al momento dell'adeguamento degli statuti, quindi è una disposizione non correttamente costruita. […] O rimarrà per sempre inattuata, ma non si può scrivere in Costituzione qualcosa che sappiamo destinato a rimanere inattuato, o prima o poi verrà attuata. Se però verrà attuata, siccome non modifica l'articolo 116, commi primo e secondo, tale articolo conserva le autonomie speciali». 14


distintivo” e la “cultura dell’autonomia”, di cui parla R. Toniatti 47), che su quello delle applicazioni pratiche, anche in considerazione della primaria esigenza di razionalizzare e semplificare la disciplina della finanza pubblica, accentrandone la competenza, la scelta per un modello autonomista solidale e cooperativo richiede, in primo luogo, l’introduzione di una seconda Camera delle autonomie, che diventi (in alcuni settori ritenuti strategici per l’autonomia territoriale) la sede di un indirizzo politico centrale “negoziato” con i rappresentanti delle comunità stanziate sui territori. Sul piano metodologico, il rilancio della specialità impone semplificazione e certezza delle sedi del confronto istituzionale e, conseguentemente, consistente riduzione del contenzioso costituzionale. Per questo, è auspicabile la creazione di un “filo rosso”, che colleghi la Regione siciliana alle altre entità regionali e all’esecutivo, prima di tutto come interlocutore “di spessore” nella determinazione e distribuzione delle responsabilità relative allo svolgimento delle politiche pubbliche e solo in via secondaria come “avversario” in fase di contenzioso. In questa direzione, le ragioni della specialità dovranno essere prospettate non più nella forma, asfissiante e deformante, del “contratto” tra la Regione, considerata solipsisticamente, e lo Stato, bensì in quella, più congeniale al modello cooperativo, del confronto aperto in vista del raggiungimento di decisioni assunte collettivamente e nell’interesse generale. Ciò non equivale, naturalmente, a negare tout court la specialità, ma a rilanciarla in un contesto di integrazione interistituzionale più ampio, per porre in evidenza bisogni realmente differenziati in determinate aree del Paese o soddisfare aspirazioni avvertite in modo particolarmente intenso da talune popolazioni locali48. Per altro verso, si profila come auspicabile una «stagione statutaria», che determini ex novo la cornice di riferimento delle competenze delle Regioni speciali e le coinvolga nei processi decisionali, in un’ottica di «specialità responsabile». Si tratta del percorso indicato dalla stessa riforma costituzionale attualmente al vaglio del Parlamento, che, pur mantenendo la specialità regionale, ne sollecita, anche se in maniera piuttosto confusa, un complessivo ripensamento49. 46 Su tale previsione cfr., ex multis, S. PAJNO, op. cit., p. 22, secondo il quale «Si sceglie dunque non solo di non mettere mano agli statuti speciali, come già accaduto nel 2001, ma addirittura di tener fuori le autonomie particolari dai processi di riforma che trovano corpo a livello nazionale, con il doppio effetto di abbandonare queste ultime alla propria sorte […], e di correre il rischio di pregiudicare seriamente il raggiungimento degli obiettivi che la stessa riforma si propone, dato che le Regioni speciali continuano a rappresentare un settore davvero significativo del nostro sistema di governo»; diverso il giudizio di A. D’ATENA, op. cit., p.15, che individua in essa lo strumento per una “messa in sicurezza” degli Statuti speciali vigenti, seppure nella cornice di un esito paradossale: l’ultrattività del Titolo V attualmente in vigore. «In base alla disciplina da essa dettata, infatti, agli enti predetti dovrebbero seguitare ad applicarsi l’art. 10, l. cost. n. 3/2001, con conseguente attrazione, in loro favore, delle “forme di autonomia più ampie” contemplate dall’art. 117, nella sua formulazione attuale». Ciò comporterebbe, tra l’altro, anche la non applicabilità alle Regioni speciali della clausola di supremazia.

47 Nella citata audizione presso la Commissione parlamentare per le questioni regionali della Camera dei deputati del 26 marzo 2014. Sul tema dell’inadeguatezza della riproposizione delle premesse storiche che giustificarono la specialità agli albori del regionalismo italiano e sull’esigenza di rifondarla su nuove basi, peraltro di non agevole praticabilità, insiste V. TEOTONICO, La specialità e la crisi del regionalismo, in www.rivistaaic.it (n. 4/2014).

48 Cfr., in tal senso, V. TEOTONICO, op. cit., pp. 14-15, secondo il quale l’estensione delle negoziazioni multilaterali a discapito di quelle bilaterali, varrebbe «a raffrenare le spinte eccessivamente asimmetriche, nonché a contrastare la conservazione di prerogative non più tollerabili».

49 Sul punto cfr., però, ancora A. D’ATENA, op. loc. cit., che ritiene realisticamente poco probabile l’avvio di una fase di riforma degli Statuti speciali sulla base di intese con le Regioni e le Province autonome, stante la presenza, nella proposta di revisione presentata dal Governo, di una disciplina costituzionale notevolmente penalizzante per le autonomie regionali, dunque poco “appetibile” per quelle

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In tal senso, la sentenza n. 255 può essere foriera di risvolti positivi, incentivando, con la disapplicazione del controllo preventivo ed il venir meno dell’ambigua prassi della promulgazione parziale, l’assunzione di responsabilità da parte di una classe politica troppo spesso corriva nell’approvare leggi omnibus, ben sapendo che queste non avrebbero superato il vaglio del controllo commissariale. L’intervento preventivo è divenuto, indirettamente, elemento di un meccanismo spesso perverso, generatore di un facile consenso politico senza responsabilità e dell’affermazione di diritti “scritti sull’acqua”, in testi normativi destinati a cadere alla prima prova di forza. La cooperazione tra i livelli di governo e l’individuazione delle responsabilità necessitano, oggi, di una semplificazione dei meccanismi di raccordo istituzionale. La partita si gioca ben prima dei controlli (quantunque questi non vadano certo allentati, ma contestualizzati) e di un Commissario dello Stato - ultimo alfiere dell’autonomia, isolato e depotenziato, non si avverte proprio la mancanza. ** Professore Associato di Diritto costituzionale, Università degli studi di Catania.

speciali.

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IL MOSTRO DEL NAZIONALISMO DALLA RUSSIA AL VENETO di Pietro Ciarlo (11 febbraio 2015) Poiché agli spettri non crede più nessuno, un mostro si aggira per l’Europa, il mostro del nazionalismo. Naturalmente il pensiero subito corre alla Russia di Putin o all'Ungheria di Orban. Ma non si tratta solo di questo. Un certo coinvolgimento va addebitato anche a quella cultura politica ed istituzionale che ha nutrito le tematiche identitarie e territorialiste in modo indiscriminato, in particolare senza mettere in guardia dalle ambiguità di tali narrazioni. Esse, infatti, non sono politicamente neutre. Possono servire a costruire la consapevolezza di noi stessi della nostra plurima cittadinanza locale, statale, europea, mondiale. Oppure a fondare i miti populistici del sangue e della terra, della chiusura e dell'odio verso l’altro. Il rapporto con l'altro deve essere letto in stretta connessione con le ricadute interne agli Stati. Esistono sempre delle coalizioni di interessi politici ed economici che cercano di utilizzare a fini propri la rappresentazione dell'altro. Il nemico è alle porte, dunque bisogna votare per i veri difensori della Patria, della casa, della fede. Fabbricare e vendere più armi. Avere governi e uomini forti. Non lasciarsi intenerire dalle vicende umane, più importante è combattere i nemici. Ovvero e specularmente, noi siamo altro dagli altri, gli altri ci opprimono, abbiamo diritto a liberarci del potere degli altri, vogliamo comandare noi a casa nostra. Secessione, sovranità, indipendenza. Anche queste possono essere parole del nazionalismo. Ma è difficile che tutto ciò diventi una politica incisiva se non è sorretto da una comunicazione e una cultura che siano ancillari, serventi. Ci possono essere disegni, strategie consapevoli, ma a volte si può servire qualcuno anche senza accorgersene. Non è molto lusinghiero, ma può accadere. Si tratta di un’attenuante. Il conformismo e la pigrizia intellettuale sono molto più diffusi e pericolosi di quanto si creda. Scriveva Lucien Febvre: “Non ignorate la storia, se la si ignora si vendica”. Ad ascoltare Marine Le Pen e Putin sembra di sentire i discorsi anti tedeschi che precedettero la prima guerra mondiale. A guardare una carta geografica Kalinigrad, la kantiana Konisberg, somiglia spaventosamente a Danzica. Per non essere sciocchi servitori del maligno spirito del nazionalismo dobbiamo porci delle domande. Chi si interroga non sbaglia. Ma la Catalogna o la Scozia sono proprio così prive di libertà ? La Spagna e il Regno unito sono Stati così oppressori ? Sta di fatto che in Europa, e in particolare in Italia, finora è sembrato prevalere un irrimettibile cupio dissolvi. Tutto ciò che è parso in qualche modo destrutturante è stato il benvenuto. Basta guardare a come sono stati rappresentati i risultati del referendum catalano nell’informazione italiana. Il tanto conclamato trionfo dell'indipendentismo non c’è stato affatto, non a caso la stessa politica spagnola e catalana sta cercando di metabolizzare con molta cautela tali risultati. Il quesito referendario era il seguente: “Vol que Catalunya esdevingui un Estat? En cas afirmatiu, volque aquest Estat sigui independent?” La struttura duplice del quesito ha offerto all'elettore una triplice possibilità di voto: “No”, “Sì-No”, “Sì-Sì” (cfr. G. Ferraiuolo, Due referendum non comparabili, in questa rivista, n. 3, 2014). Gli aventi diritto al voto, cioè i cittadini spagnoli residenti in Catalogna, compresi i sedicenni, gli stranieri residenti da almeno tre anni, e i cittadini catalani residenti all'estero, ammontavano a poco più di 6,2 milioni. I votanti sono stati 2,3 milioni, cioè il 37 % degli elettori. Pochi i precedenti. Al referendum sull’indipendenza della Scozia i votanti sono stati l’85 %, a quelli in Quebec del 1980 il 98%, del 1995 il 94%. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che quello catalano non era un referendum ufficiale, essendo stato dichiarato inammissibile dal


Tribunal constitucional. I partecipanti al voto equivalgono, grosso modo ai votanti per i partiti che appoggiavano la consultazione. In sostanza i lealisti, come del tutto prevedibile, non sono andati a votare per un referendum formalmente dichiarato illegale e privo di effetti giuridici. Dei votanti l'80,7 % (circa 1,8 milioni) vogliono la Catalogna indipendente, il 10 % (232 mila voti) vuole lo stato catalano, ma non l’indipendenza. Il 4,54 (104 mila voti) ha risposto “No” ad entrambi i quesiti. In definitiva circa il 30 % degli aventi diritto al voto ha detto “Si” alla secessione. Una percentuale consistente che delinea un successo di mobilitazione e politico, ma insufficiente ad assicurare la vittoria in un referendum che facesse sul serio. Resta da chiedersi perché, viceversa, in Italia politica ed informazione hanno accreditato una travolgente vittoria degli indipendentisti. La risposta non credo sia lusinghiera. Non viviamo un buon momento culturale, la sfiducia nella politica è un sentimento molto diffuso. L’informazione e paradossalmente buona parte della stessa politica per inseguire questo sentimento a fini di consenso, enfatizza tutti quei fatti che possono apparire o che effettivamente sono espressione di una crisi di legittimazione. Il conformismo si autoriproduce. Il corto circuito tra informazione e politica scadenti è un problema non secondario del nostro Paese. Viceversa e non a caso ci sono poi vicende gravissime che passano quasi sotto silenzio, anche presso gli addetti ai lavori. Come è poco noto la Regione Veneto nel 2014 ha approvato le leggi n. 15, “Referendum consultivo sull'autonomia del Veneto” e n. 16, addirittura, “Indizione del referendum consultivo sull'indipendenza del Veneto”, (cfr. G. Ferraiuolo, cit.). Fortunatamente ambedue le leggi sono state impugnate dal Governo con i ricorsi nn. 67 e 68 del 2 settembre 2014. Fortunatamente, perché non è detto che un esecutivo ad egemonia leghista lo avrebbe ugualmente fatto, benché quasi ad ogni parola di queste leggi corrisponde un motivo di illegittimità. Comunque, bisognerebbe chiedersi cosa altro sia ipotizzabile perché il controllo sugli atti si trasformi in sanzione sugli organi, ai sensi dell'art. 126 Cost., anche considerando che la Repubblica dovrebbe essere una e indivisibile. Siamo dinanzi ad un referendum regionale sull'indipendenza del Veneto prospettato non da uno sparuto movimento, ma dalla Regione con una sua legge. Eppure di tutto questo i mezzi di informazione nazionale non hanno dato praticamente notizia. Nel nostro Paese l'idea che ogni diritto ha i suoi limiti, da anni ormai non gode di grande fortuna. Un anarchismo anti istituzionale dissimulato dietro la parola “libertà” ha consentito quasi tutto, nella vita pubblica come in quella privata. Il cosiddetto diritto a decidere più degli altri sembra non tollerare limitazioni (cfr. F. Bilancia, Il “derecho a decidir” catalano nel quadro della democrazia costituzionale, in corso di pubblicazione in Le istituzioni del federalismo). Tutto può essere assecondato in cambio di qualche voto. Non a caso quelle leggi del Veneto risultano approvate anche grazie ad un atteggiamento acquiescente delle opposizioni. La sordina forse faceva comodo a molti. Tanti hanno ritenuti di mostrarsi indipendentisti in Veneto e Italiani a Roma. Nessuno ha ritenuto doveroso o utile rinfacciare a chi ne è protagonista politiche così avventurose. Nelle relazioni ai disegni di legge regionali la maggioranza proponente espressamente dichiara di ispirarsi alle esperienze referendarie di Scozia e di Catalogna, ma a parte le debite differenze (cfr. ancora Ferraiuolo, cit.), ci interessa evidenziare lo slittamento progressivo dal federalismo, al secessionismo, al nazionalismo, con alcuni corollari. Con il territorialismo si sa da dove si inizia ma non si sa dove si va a finire. Il passaggio al nazionalismo regionale in Veneto ha segnato altresì l’assunzione di una posizione nettamente avversa all'Europa e antitedesca, non avversa alle politiche che la Germania persegue in Europa, anti tedesca che è una altra cosa, è una politica nazionalista. Una nuova e perniciosa pedagogia politica circola nel Paese. Tutto questo si traduce in una inedita operatività politico-istituzionale. La Lega-Nord cerca di trasformarsi, un po’


goffamente, in un partito nazionale sfruttando massimamente la vena xenofoba. Ma cosa che credo ancor più rilevante, questo partito pur non avendo i numeri nel Parlamento europeo per formare un gruppo insieme al Front Nationale ha con quest’ultimo, con i Belgi del Vlaams Belang e gli Austriaci FPO uno strettissimo coordinamento politico. D’ altra parte la Lega nell'Assemblea parlamentare del Consiglio d’ Europa si integra con il partito Russia unita di Putin. Infine, Putin, per stessa ammissione della Le Pen (cfr. Corriere della sera, 24 novembre 2014), finanzia generosamente il Front Nationale (nove milioni di euro per la prossima campagna elettorale). Dunque, il cerchio dei nazionalismi xenofobi e anti europei si chiude. C’è ne quanto basta per riconsiderare il senso politico e istituzionale del territorialismo, e domandarsi se la Gran Bretagna, la Spagna e l'Italia siano degli stati così liberticidi da giustificare movimenti indipendentisti che in modi diversi si collegano alle forze che vogliono destabilizzare l'Europa e riportare la guerra nel nostro continente. Dinanzi a leggi regionali come quelle del Veneto non credo sia un bene far finta di niente ed aspettare le sentenze della Corte Costituzionale, come si trattasse di ordinaria amministrazione. Credo viceversa sia necessario aprire una battaglia culturale contro il nazionalismo in nome della Costituzione e dell'Europa, diversamente le giovani generazioni si ritroveranno sprovvedute dinanzi ad una storia che potrebbe vendicarsi per essere stata dimenticata. Finalmente la democrazia europea ha un nemico comune: il nazionalismo. Non è una novità ma è così.


Verso un parlamento scozzese permanente? Dalla Commissione Smith allo Scotland Bill* di Marco Goldoni** (27 febbraio 2015) Il percorso successivo al referendum scozzese del 18 settembre 2014 è spia di un disagio costituzionale e segnala la presenza, all’orizzonte, di una possibile trasformazione costituzionale dello Stato britannico. Per comprendere la posta in gioco in questi mesi successivi alla consultazione referendaria occorre partire dall’analisi della reazione del sistema politico britannico alla mobilitazione che ha accompagnato il referendum. Come è noto, con tempistica sospetta, i principali leader unionisti avevano giurato pochi giorni prima del Referendum, con uno scritto pubblicato su un quotidiano (il Daily Record), di procedere ad ulteriore devoluzione di poteri verso la Scozia. Così, il giorno successivo al referendum è stata annunciata la creazione di una Commissione presieduta da Lord Smith, con l’incarico di produrre una relazione con annesse proposte di trasferimento di altri poteri alla Scozia. Il processo di formazione della Commissione Smith è stato tanto rapido quanto precipitato dagli eventi. I tempi sono stati dettati dalla convinzione diffusa che occorreva un immediato gesto simbolico per non deludere le aspettative di quanti, su entrambi i fronti, avevano investito energie e risorse in un conflitto politico come quello creatosi attorno alla questione indipendentista. Infatti, è chiaro che la vittoria del No non significava rifiuto di ulteriore devoluzione. La composizione della Commissione è stata organizzata attorno ai cinque partiti considerati più rappresentativi: SNP (Partito nazionalista scozzese), Verdi, Labour, Tories e Libdem. Come era prevedibile, la formula della composizione non ha accontentato tutti. Si tratta di una nomina fatta dai partiti con un preciso mandato per negoziare una serie di proposte da sottoporre all’attenzione di Westminster. In particolare, colpisce l’esclusione di quelle forze politiche che avevano partecipato attivamente come componente del Sì nella campagna referendaria a fianco del SNP e dei Verdi, come il Partito Socialista Scozzese. Per evitare le prevedibili critiche di aver ricondotto un processo politico mosso dal basso nell’alveo elitario della politica istituzionalizzata, la Commissione Smith, seguendo una tradizione affermatasi in occasione della formazione del Parlamento scozzese, ha lasciato aperta la possibilità di inviare contributi provenienti dalla società civile (gruppi e associazioni) e dalla sfera pubblica intesa in senso ampio nel corso del mese di Ottobre (con scadenza per l’invio fissata al 31 del mese). Per alcuni, tale apertura avrebbe potuto aggiungere una qualità deliberativa ai lavori della Commissione creando le condizioni per una forma di agire comunicativo fra società civile e istituzioni politiche. Tuttavia, il tempo intercorrente fra la scadenza per l’invio dei contributi e la data finale dei lavori della Commissione, alla luce della mole dei documenti da esaminare (407 da associazioni e gruppi, oltre 18000 dal pubblico), non lasciava reali speranze che questi input potessero realmente essere tenuti in debita considerazione. Un mese è sicuramente un tempo troppo breve anche solo per poter leggere con cognizione di causa la mole di proposte giunte alla Commissione. In secondo luogo, in un contesto non federale come quello della costituzione britannica, dare mandato ad una Commissione di rivedere i rapporti fra una delle nazioni che compongono l’Unione senza prevedere modalità di bilanciamento e riconsiderazione sugli impatti che eventuali trasformazioni costituzionali in ambito scozzese potrebbero avere sugli equilibri nel Regno Unito costituisce quantomeno una mossa azzardata. La questione * Scritto sottoposto a referee.


dell’ulteriore devoluzione di competenze evoca immediatamente il più ampio tema del riassetto dei poteri all’interno del Regno Unito. Infine, il calendario dei lavori della Commissione non può essere considerato totalmente ragionevole, visto che nella migliore delle ipotesi era già risaputo che ogni proposta avrebbe dovuto essere votata nella legislatura successiva dal nuovo Parlamento. La fretta che ha contraddistinto le ultime settimane di lavoro della Commissione appare quindi immotivata, se non alla luce della volontà di mandare un messaggio rassicurante all’elettorato scozzese (soprattutto a quello che ha votato no) da parte di Westminster. Rimane il fatto che in tal modo si viene a spezzare in due parti il processo di trasformazione costituzionale: una prima parte velocemente elaborata e proposta prima delle recenti elezioni e una seconda parte, dipendente dall’esito elettorale, nella quale si rischia semplicemente di implementare senza ulteriori riflessioni le proposte così formulate. In breve, le credenziali politiche della Commissione Smith non sono eccelse. Essa riflette in parte (ma non in modo proporzionale) il peso delle forze politiche presenti nell’Unione, ma non attribuisce alcuna rappresentanza ad altre componenti della sfera sociale. Non stupisce, pertanto, che i lavori della Commissione siano apparsi come un ritorno ad una politica costituzionale guidata dall’alto ed un’occasione persa per capitalizzare il momento politico del referendum al livello del registro costituzionale. Nell’ambito della saga del processo devolutivo, il passaggio caratterizzato dai lavori della Commissione Smith non verrà ricordato come uno dei più innovativi da un punto di vista procedurale. Da una prospettiva sostanziale, il contributo della Commissione potrebbe risultare più stimolante. Il rapporto della Commissione, pubblicato il 27 novembre 2014 (ossia solo quattro settimane dopo la chiusura dei termini per l’invio dei pareri della società civile), si articola attorno ad alcuni punti distinti, alcuni dei quali di notevole rilevanza per gli assetti costituzionali britannici. Esso è suddiviso in tre pilastri: il primo riguarda l’introduzione di un accordo costituzionale duraturo per il governo della Scozia, il secondo tratta di giustizia sociale, lavoro, e sviluppo economico, il terzo della responsabilità fiscale della Scozia. In apertura, in modo icastico, il testo afferma che il Parlamento e il governo scozzesi diverranno permanenti. Centrale, nel modo in cui la frase è costruita, è la forma passiva del verbo (“Parliament will be made permanent”). Fino ad oggi, la riesumazione del Parlamento scozzese era fondata su un atto (una legge) del Parlamento di Westminster, lo Scotland Act 1998. In tal senso, il Parlamento di Holyrood era e ad oggi rimane un’emanazione di quello britannico. Il suo fondamento costituzionale non è radicato nella sovranità della nazione scozzese, ma nella generosa delega di potere concessa da Westminster. Pertanto, la previsione di un organo parlamentare e del rispettivo governo scozzese non avevano intaccato, almeno a livello di teoria costituzionale, il pilastro della sovranità parlamentare. Il rapporto Smith propone, alla sezione 20, di dichiarare, tramite legislazione, il carattere permanente del Parlamento e del governo scozzesi. È prevedibile che questa proposta abbia immediatamente accesso il dibattito sui destini del principio di sovranità parlamentare. Essa ha inoltre rianimato (come previsto su questa Rivista da Justin Frosini) la West Lothian Question ossia la questione del peso dei voti scozzesi su temi che riguardano solo l’Inghilterra. L’intero quadro rimanda alla necessità di ridiscutere gli assetti devolutivi del Regno Unito (e in questo rientra anche una redistribuzione dei poteri a livello locale, non solo nazionale), nel corso del quale potrebbe anche emergere un’opzione federale (o quasi federale). In seguito, il 22 gennaio 2015 è stato presentato lo Scotland Bill, ispirato da alcune delle indicazioni contenute nel rapporto Smith. Esso è diviso in sei parti delle quali la prima si propone di regolare gli aspetti costituzionali della questione scozzese mentre le successive si concentrano sulla leva fiscale, il potere esecutivo e le misure legate al Welfare.


In termini di assetto costituzionale è opportuno prendere in considerazione soprattutto la prima parte. Le due sezioni che la compongono hanno il fine dichiarato di rendere il parlamento scozzese permanente e di dotare la Sewel Convention – secondo la quale il parlamento di Westminster non dovrebbe intervenire normalmente nelle materie devolute in assenza di un accordo con il relativo parlamento devoluto – di un fondamento legislativo e non solo convenzionale. Se approvato, il primo articolo dello Scotland Bill inserirebbe una nuova sezione I(IA) nello Scotland Act 1998 secondo la quale “Il parlamento scozzese è riconosciuto come parte permanente della costituzione del Regno Unito”. Rispetto alle parole utilizzate nel rapporto Smith si può notare una differenza di non poco conto. Nel caso dello Scotland Bill, il parlamento scozzese viene riconosciuto e non reso permanente. Si tratta di una differenza lessicale di non poco conto. Sul piano concreto rimane da vedere come questo riconoscimento verrà trattato. Come sottolineato da Mark Elliot, nessuna menzione di una plausibile clausola di entrenchment viene fatta negli articoli successivi, a dispetto del fatto che in altre sezioni si richiedono esplicitamente maggioranze qualificate, lasciando intendere che dal punto di vista giuridico l’autonomia e la permanenza del parlamento scozzese non godono di alcuna extra-protezione formale. Rimane il fatto che simbolicamente e, soprattutto, politicamente, tali misure potranno essere annullate solo nel lungo termine, mentre nel breve termine formano un equilibrio costituzionale non rettificabile e sembrano aprire uno spiraglio sulla natura non assoluta (vale a dire, aperta ad eccezioni) della dottrina della sovranità parlamentare. D’altronde, basti pensare al caso di scuola di un’eventuale decisione di Westminster di abolire con legislazione ordinaria il parlamento scozzese. Essa darebbe quasi certamente luogo alla disintegrazione del Regno Unito. Il secondo punto che merita di essere menzionato da una prospettiva costituzionale riguarda la Sewel convention. La sezione 28 dello Scotland Act 1998 autorizza il parlamento scozzese a legiferare ma allo stesso tempo riconosce, in 28(7), che tale previsione non limita il potere del parlamento del Regno Unito di legiferare per la Scozia. Lo Scotland Bill prevede un’ulteriore sezione, la 28(8), con la quale si riconosce “che il parlamento del Regno Unito non legifererà in condizioni normali su materie devolute senza il consenso del Parlamento Scozzese”. Si tratta, come notato in precedenza, di un tentativo di dotare la Sewel convention di una base legislativa. Quale è l’efficacia di questo provvedimento? Intanto, da un punto di vista simbolico, serve a rafforzare la validità formale della convenzione Sewel dotandola di una base legislativa. Politicamente sembra inoltre fornire un ulteriore argomento contro ogni tentazione da parte di Westminster di riappropriarsi di materie devolute in modo unilaterale. A differenza della permanenza del Parlamento scozzese, questo sembra essere un caso meno di scuola e più realistico. La previsione di una norma che codifichi la Sewel convention non è quindi ridondante, ma aggiunge ulteriori fonti alla disciplina delle relazioni fra i due parlamenti. I dubbi, casomai, sono creati dal riferimento alla presenza di ‘condizioni normali’ alle quali viene legata la forza legislativa della convenzione. Il referendum scozzese, l’ascesa dello SNP, le trasformazioni del sistema politico britannico con l’emersione di nuovi soggetti politici (UKIP), la prevedibile richiesta di ulteriore devoluzione delle altre nazioni del Regno, nonché, da ultimo, una serie di decisioni della Corte Suprema (si pensi ad AXA) sono tutti fattori che sembrano evocare la presenza di un momento costituzionale nel Regno Unito il cui esito finale appare, tuttavia, ancora molto incerto. ** Lecturer in Legal Theory, University of Glasgow School of Law


Diffamazione e libertà di espressione: la recente sentenza Lohé Issa Konaté v. Burkina Faso della Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli* di Tania Abbiate ** (16 febbraio 2015) Con la decisione Lohé Issa Konaté v. Burkina Faso emessa il 5 dicembre 2014, la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (in seguito: Corte) si è pronunciata sul tema della libertà di espressione e più specificamente sul difficile bilanciamento tra l’esercizio del diritto di critica e la protezione della reputazione personale. La pronuncia appare particolarmente rilevante sia dal punto di vista delle argomentazioni sviluppate dalla Corte sia perché costituisce un altro tassello della finora esigua giurisprudenza sviluppata dall’organo giurisdizionale africano: occorre infatti notare che le sentenze di merito della Corte sono state finora solo tre (o quattro se si considera anche il seguito della prima pronuncia), cui vanno aggiunte numerose pronunce di inammissibilità. La sentenza trae origine da un ricorso individuale presentato nel giugno 2013 dal direttore di un giornale del Burkina Faso (L’Ouragan),il signor Lohé Issa Konaté, condannato a un anno di prigione e ad una considerevole pena pecuniaria in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli in cui il Procuratore della Repubblica locale veniva accusato di corruzione. Sulla base degli artt. 109-111 del Code de l’information del 30 dicembre 1993 e dell’articolo 178 del Code pénal del 13 novembre 1996, il signor Konaté era stato infatti ritenuto colpevole di diffamazione e oltraggio a pubblico ministero sia dal Tribunal de grande instance de Ouagadougou, che dal Tribuanal d’appel de Ouagadougou, e si era quindi rivolto alla Corte africana, beneficiando del fatto che il Burkina Faso ha depositato nel 1998 la dichiarazione che consente l’accesso diretto all’organo giudiziario da parte di singoli cittadini e organizzazioni non governative . Dinnanzi al giudice di Arusha il ricorrente ha lamentato la violazione della sua libertà di espressione, riconosciuta dall’art. 9 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e dall’art. 19 del Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici (in seguito: Patto). In aggiunta a tali parametri egli ha invocato anche l’art. 66 c. 2 lett. c) del Trattato della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale che sancisce che «Gli Stati si impegnano a rispettare i diritti dei giornalisti». Il richiamo a tali parametri mette in luce una particolarità del sistema africano di protezione dei diritti umani: infatti, sulla base dell’art. 3 c. 1 del Protocollo, la Corte è competente a pronunciarsi sulla violazione non solo della Carta africana, ma anche di altri trattati eventualmente ratificati dallo Stato interessato da un contenzioso . Passando ad una rapida disamina del contenuto della sentenza, occorre dire fin da subito che la Corte ha sostanzialmente accolto le doglianze del ricorrente, riconoscendo 1

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* Scritto sottoposto a referee. 1 Il Protocol to the African Charter on Human and People’s Rights on the Estabilishment of an African Court on Human and People’s Rights (in seguito: Protocollo) non contempla un vero e proprio meccanismo di accesso alla Corte, ma, ai sensi dell’art. 5 c. 3 e dell’art. 34 c. 6 del Protocollo, gli Stati possono depositare una dichiarazione di accettazione della competenza della Corte per ricorsi che provengano da individui ed organizzazioni non governative. Si noti che la deposizione di tale dichiarazione da parte del Burkina Faso nel 1998 è divenuta effettiva nel 2004 con l’entrata in vigore del Protocollo in seguito al raggiungimento del numero di ratifiche necessario. 2 La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ha sede ad Arusha, in Tanzania. 3 Per una panoramica d’insieme sulla Corte si veda A. Lollini, La corte africana dei dirittidell'uomo a dei popoli e il nuovo sistema regionale di protezione dei diritti fondamentali, in L. Cappuccio, A. Lollini, P. Tanzanella (cur.), Le corti regionali tra stati e diritti. I sistemi di protezione dei diritti fondamentali europeo, americano e africano a confronto , Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, pp. 203-252. 1


all’unanimità l’illegittimità delle misure privative della libertà personale in materia di diffamazione e ordinando al Burkina Faso di modificare la normativa a riguardo in un tempo ragionevole e comunque non eccedente i due anni. La Corte ha tuttavia affermato, con una maggioranza di 6 voti favorevoli a fronte di 4 contrari, che la limitazione della libertà di espressione attraverso misure che non restringono la libertà personale non è di per sé contraria all’artt. 9 della Carta africana, all’art. 19 del Patto e all’art. 66 c. 2 lett. c) del trattato del Trattato della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. Soffermandosi sulle motivazioni della decisione, due sono gli aspetti sui quali pare doveroso soffermarsi: la questione relativa al mancato previo esperimento dei gradi di giudizio nazionali e la valutazione della legittimità della limitazione della libertà di espressione. Con riferimento al primo punto, previsto dall’art. 40 del Regolamento della Corte, occorre infatti notare che lo Stato resistente aveva invocato l’irricevibilità del ricorso sulla base del fatto che il ricorrente non aveva adito la Corte di cassazione. Questa doglianza rappresenta per il giudice di Arusha un’occasione per chiarire il significato di tale principio: la Corte da un lato conferma l’esistenza di questa regola, ritenendola una «norma internazionalmente riconosciuta e accettata», in ragione del fatto che essa sussiste anche negli altri due sistemi regionali di protezione dei diritti umani, l’interamericano e l’europeo; dall’altro,sottolinea che le vie di ricorso interno devono essere non solo disponibili, ma anche efficaci e sufficienti, nel senso che esse devono offrire una prospettiva effettiva di riparazione ai danni subiti . Sulla base di tale argomentazione la Corte ritiene che il fatto che il ricorrente non avesse fatto ricorso alla Corte di cassazione non costituisce un fattore di inammissibilità, in quanto quest’ultima non avrebbe potuto annullare la normativa sulla base della quale il ricorrente era stato condannato. Tale competenza appartiene infatti nel sistema giuridico burkinabé alla Corte costituzionale, la quale tuttavia non può essere adita direttamente dagli individui . Per quanto riguarda il secondo punto, la legittimità della limitazione della libertà di espressione, la Corte fa ricorso al principio di proporzionalità, confermando quindi il fenomeno della circolazione degli schemi di bilanciamento di principi nello spazio giuridico globale. Benché infatti la Carta africana non contenga una clausola generale limitativa dei diritti, la Corte applica il principio di proporzionalità al caso di specie, prendendo le mosse dalla norma di diritto internazionale invocata dal ricorrente (l’art. 19 del Patto). Tale disposizione afferma infatti al terzo comma che la libertà di espressione può essere limitata per legge qualora ciò sia necessario per assicurare il rispetto di un diritto o della reputazione altri o la salvaguardia della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico; è significativo che secondo la Corte le stesse motivazioni possano essere dedotte dall’espressione «nel rispetto delle leggi e dei regolamenti» contenuta all’art. 9 della Carta africana . La Corte considera quindi che la limitazione della libertà di espressione è prevista dalla normativa burkinabé e risponde ad un fine legittimo, quello cioè di proteggere la reputazione dei pubblici ufficiali, nella fattispecie i magistrati . Tuttavia rileva una sproporzione tra il mezzo prescelto e l’obiettivo perseguito: secondo la Corte infatti la 4

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4 Affaire Lohé Issa Konaté c. Burkina Faso, requête No. 004/2013, par. 108. 5 Ivi, par. 112. 6 L’art. 9 della Carta afferma infatti che: « Toute personne a le droit d'exprimer et de diffuser ses opinions dans le cadre des lois et règlements» e l’espressione «dans le cadre des lois et réglements» include infatti ad avviso della Corte anche le norme internazionali relative alla limitazione dei diritti. Cfr. Affaire Lohé Issa Konaté c. Burkina Faso, par. 129. Inoltre l’art. 27 c. 2 della Carta africana afferma che i diritti «s’excercent dans le respect du droit d’autrui, de la sécurité collettive, de la morale et de l’interet commun». Cfr. Ivi, par. 134. 7 Cfr. Ivi, par. 130-137. 2


condanna a 12 mesi di carcere, unita alla multa particolarmente ingente (corrispondenti a circa 20 volte il reddito medio procapite in Burkina Faso, secondo i dati della Banca Mondiale) e alla sospensione della pubblicazione del giornale per sei mesi comporta un sacrificio eccessivo della libertà di espressione. Richiamando la giurisprudenza della Commissione africana per i diritti dell’uomo e dei popoli, della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte interamericana dei diritti dell’uomo, nonché quella degli organismi quasi-giurisprudenziali delle Nazioni Unite, il giudice afferma che le misure detentive devono essere eccezionali, ovvero vanno adottate unicamente in circostanze particolarmente gravi, come i discorsi di incitamento all’odio, alla violenza o alla discriminazione . Nel prendere in considerazione la legittimità delle restrizioni alla libertà di espressione, la Corte considera anche che il limite al diritto di cronaca deve risultare meno stringente nel caso in cui esso venga esercitato nei confronti di un personaggio pubblico, il quale è più soggetto a critiche in ragione della sua funzione . Nello sviluppare questa argomentazione, la Corte si basa su analoghe considerazioni sviluppate dalla Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, ma la stessa interpretazione si può ritrovare anche nella giurisprudenza di altri sistemi regionali di protezione dei diritti umani (basti pensare ad esempio alla sentenza Obershlick c. Austria in cui la Corte EDU è giunta alla medesima considerazione). La sentenza si chiude con l’opinione concorrente di quattro giudici, che pur dichiarandosi sostanzialmente d’accordo con il giudizio espresso dalla maggioranza sviluppano alcune ulteriori considerazioni circa l’ordine logico e cronologico seguito dalla Corte nel caso di specie. In particolare essi esprimono dubbi circa il fatto che la Corte abbia dapprima valutato la sua competenza a pronunciarsi, invece che altri aspetti, come la ricevibilità del ricorso. Analoghe considerazioni erano state già peraltro espresse nelle opinioni concorrenti di alcune precedenti sentenze della Corte, come la decisione Tanganika Law Society c. Tanzania emessa a giugno 2013 . Da ciò si evince quindi che la Corte non ha ancora messo a punto una sequenza procedimentale consolidata nella sua giurisprudenza. La sentenza conferma tuttavia l’orientamento assunto recentemente dal giudice di Arusha: dopo numerosi anni di “rodaggio” – si ricorda infatti che l’organo giurisdizionale è entrato infatti in funzione nel 2006 – la giurisprudenza sviluppata dal 2013 ad oggi testimonia la volontà della Corte di affermarsi come meccanismo regionale in grado di offrire una piena protezione dei diritti fondamentali. L’emanazione della sua prima sentenza di merito a giugno 2013, la già ricordata decisione Tanganika Law Society c. Tanzania, ha infatti inaugurato una fase di grande attività: nel 2014, in particolare, la Corte ha emesso la prima pronuncia in materia di risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dei diritti fondamentali (Reverend Christopher R. Mtikila v. The United Republic of Tanzania) e ha avviato il primo processo in materia di diritti collettivi (African Commission on Human Rights and People’s Rights c. Kenya). Sempre nel 2014, la Corte ha poi ritenuto colpevole il Burkina Faso di non aver avviato un’indagine giudiziaria sulla morte di un giornalista (Late Norbert Zongo and Others c. Burkina Faso) e ha per la prima volta attivato la possibilità di garantire assistenza legale gratuita ad un ricorrente, che lamentava di essere illegittimamente detenuto (Peter Joseph Chacha v. Tanzania) . 8

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8 Cfr. Ivi, par. 158-165. 9 Cfr. Ivi, par. 155. 10 Cfr. V. Piergigli, La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli giudica sulla violazione dei diritti di partecipazione politica e delle regole democratiche in Tanzania, in Focus Africa di Federalismi, n. 1, 2014. 11Cfr. O. Windridge, 2014 at the African Court of Human Rights on Human and People’s Rights – A Year in Review, in Opinio Juris, 2015, http://opiniojuris.org/2015/01/10/guest-post-2014-african-court-human-peoples-rights-year-review/ 3


La sentenza che si annota rappresenta tuttavia il precedente più rilevante in materia di limitazione della libertà di espressione ed è destinata ad avere risonanza in tutto il continente africano, poiché in molti Paesi sono in vigore normative dal contenuto analogo a quella censurata dalla Corte, le quali sono state oggetto anche di pronunce da parte degli organi giurisprudenziali nazionali . A riprova della rilevanza del tema in Africa, si segnala anche che alcuni Stati africani, come la Tanzania e il Benin, hanno già da qualche tempo avviato un processo di modifica della propria legislazione in materia di diffamazione attraverso l’attività legislativa ordinaria. Pare quindi di poter affermare che la Corte africana con la sentenza Konaté c. Burkina Faso ha formalizzato un orientamento condiviso ormai da sempre più Paesi nel continente. Benché la sentenza in commento assuma un’importanza sia simbolica che sostanziale, si segnala che sullo sfondo restano alcuni aspetti problematici, come il fatto che solo 27 dei 54 Paesi dell’Unione africana hanno accettato la giurisdizione della Corte. La recente giurisprudenza mostra inoltre che l’accesso diretto alla Corte, accettato finora da solo sette Paesi (Burkina Faso, Côte d'Ivoire, Ghana, Malawi, Mali, Rwanda, and Tanzania), rappresenta la via privilegiata per ricorrere a questo organo. Nondimeno il caso African Commission on Human Rights and People’s Rights c. Kenya mostra, che in alcuni casi la Commissione africana è disposta ad adire la Corte, facendosi portavoce delle cause sollevate dai soggetti dei Paesi membri che non hanno accettato l’accesso diretto da parte dei singoli e delle organizzazioni non governative . Benché dunque il sistema africano di protezione dei diritti umani mostri tuttora delle criticità e la cautela sia d’obbligo, la giurisprudenza più recente lascia sperare che esso si affermi come meccanismo in grado di garantire un piena affermazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta africana e dagli altri trattati internazionali in materia. 12

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**Dottoranda di ricerca in Istituzioni e diritto dell’economia, Università di Siena, taniaabbiate@libero.it

12 In particolare sugli interventi giurisprudenziali in tema di rapporto tra rispetto della vita privata e libertà di stampa nei sistemi di common law si veda B.T. Balule, Striking a balance between media freedom and protection of reputation: the defence of reasonablepublication in Botswana, in The comparative and international law journalof Southern Africa, vol. 46, n. 1, 2013, p. 1-18. 13 Il Protocollo prevede agli artt. 2 e 5 c. 1 lett. a) che la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli sia uno dei soggetti abilitati ad azionare i ricorsi dinnanzi alla Corte africana, in aggiunta agli Stati ed eventualmente agli individui e alle organizzazioni non governative, qualora gli Stati abbiano depositato l’apposita dichiarazione che consente tale possibilità. 4


Marta Cerioni*, Diritti dei consumatori e degli utenti, Editoriale scientifica, Napoli, 2014, pp. 476. INDICE SOMMARIO Introduzione; I. L’emersione e la codificazione dei diritti dei consumatori; II. Il figurino del consumatore: uno, nessuno o centomila?; III. I diritti dei consumatori sul piatto della bilancia della giustizia; IV. Ricostruzioni (e critiche) sul fondamento costituzionale dei diritti dei consumatori; V. La natura costituzionale dei diritti dei consumatori e degli utenti; VI. La tutela dei diritti dei consumatori; VII. Diritti dei consumatori e forma di stato. Lo studio ha lo scopo di individuare se ed in quali norme costituzionali sia possibile ancorare un fondamento dei diritti dei consumatori e degli utenti. Il volume presenta inizialmente una ricostruzione dello stato dell’arte composta dalla descrizione della complessa emersione della tematica dei “consumatori” e dei loro diritti con particolare attenzione alle influenze internazionali e comunitarie. Ciò, tuttavia, pone immediatamente l’interprete di fronte a difficoltà aggiuntive rispetto ai nuovi diritti che sono stati fin’ora studiati. Nessuno di questi ultimi, infatti, contiene oggetti di tutela così ampi ed eterogenei, tanto che ogni nuovo diritto ha preso il nome del bene giuridico che va a tutelare: si pensi al diritto alla privacy, al diritto all’identità sessuale, al diritto all’abitazione e così via. Al contrario, i “diritti dei consumatori” contengono nel proprio nomen i soggetti destinatari della tutela e non gli oggetti, come accade per esempio per i “diritti dell’uomo” e i “diritti del cittadino”. Questa scelta – sicuramente ragionevole perché accomuna in una sola denominazione molteplici e differenti beni giuridici – pone subito alcuni preliminari interrogativi: chi sono i consumatori e gli utenti? I consumatori e gli utenti rappresentano una categoria omogenea riconducibile ad unità (uno) oppure sono una «massa di figure negative, raccolte nel nome di ‘consumatore’» (nessuno) o ancora, risultano come innumerevoli soggetti di cui è possibile tratteggiare le caratteristiche che li differenziano fra loro (centomila)? Inoltre, i consumatori sono soltanto uomini, cittadini o anche persone giuridiche ed enti collettivi? Le risposte alle summenzionate domande sono rilevanti in quanto il concetto di consumatore finisce per riverberarsi nella natura dei propri diritti. In primo luogo, vi è una disamina normativa delle varie definizioni e successivamente dei brevi cenni alle interpretazioni prodotte dalle Corti e dagli studiosi con ampie citazioni dei principali contributi sull’argomento. Infine, si è tentato di avanzare delle prime parziali conclusioni sulle virtualità di queste “figure”, individuando la differenza tra le varie teorie nelle diverse metodologie di analisi tra cui spicca quella “interna” che consente di qualificare il consumatore come qualità trasversale, transeunte. Meritevole di attenzione è la figura dell’utente dei servizi pubblici che rappresenta la nuova risposta in termini di enforcement del cittadino rispetto alle prestazioni erogate dallo Stato. Nel prosieguo, l’opera si caratterizza per l’adozione sia del metodo casistico sia di quello sistematico; pertanto, partendo da una ricognizione dello stato dell’arte, si procede allo studio dei casi nel III capitolo. L’analisi prende le mosse dall’esame della giurisprudenza per comprendere il fondamento costituzionale dei diritti dei consumatori. La disposizione di cui all’art. 12 del T.F.U.E., richiedente che «nella definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività dell’Unione» siano «prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori», ha posto la tutela dei diritti di questi ultimi in posizione paritaria rispetto a tutte le altre attività di competenza dell’Unione stessa, poiché impone una costante valutazione di bilanciamento in capo al legislatore comunitario. Nell’ordinamento italiano, ovviamente, non esiste un simile obbligo; tuttavia, dallo studio della giurisprudenza costituzionale ed ordinaria emergono degli spunti di riflessione che fanno propendere per l’opinione opposta. Nel quotidiano bilanciamento o metabilanciamento operato dalle Corti, infatti, i diritti dei consumatori e degli utenti si trovano inseriti in un contesto «già affollato di diritti», proprio perché «sono diritti di nuova acquisizione; ma non per questo […] necessariamente “nuovi” diritti». Ciò significa


che, sebbene la sensibilità in merito sia stata solo recentemente espressa e condensata in un precipitato di “diritti fondamentali”, il nostro ordinamento prevedeva già, nelle maglie delle proprie disposizioni, delle norme che, direttamente o indirettamente, tutelavano quelli che oggi sono definiti come “diritti dei consumatori”. Inoltre, considerato che i consumatori “vivono” nel mercato, i conflitti si producono con gli altri suoi tradizionali “abitanti”, ovvero imprenditori e lavoratori. Pertanto, è stato possibile classificare i conflitti tra: a) diritti dei consumatori e utenti vs. diritti degli imprenditori (pubblici o privati); b) diritti dei consumatori e utenti vs. diritti dei lavoratori (pubblici o privati) ove tra, l’altro, è stato possibile individuare l’emersione delle Associazioni dei consumatori quali parti istituzionali nell’ordinamento giuridico. Non di secondaria importanza, è infine l’ordine giuridico del mercato ovvero lo statuto giuridico che l’ordinamento – artificialmente, politicamente e giuridicamente – sceglie di imporre al mercato e che proprio per il cruciale ruolo che ricopre è da considerare come il terzo fattore (c) con cui i diritti dei consumatori e degli utenti si misurano abitualmente. Il IV capitolo prende in analisi le posizioni della dottrina che affermano vi sia un fondamento costituzionale dei diritti dei consumatori. Poiché il dibattito dottrinario sui diritti dei consumatori affonda le proprie radici in tempi piuttosto recenti, presenta innumerevoli posizioni e sfaccettature. Pertanto, si è tentato di presentare in paragrafi unici, posizioni tendenzialmente omogenee, portando in evidenza i punti di contatto e di differenziazione. Il V capitolo si occupa di esaminare il fondamento dei diritti dei consumatori in maniera sistematica a partire dal dato legislativo dell’art. 2 c. cons. Lo studio, già effettuato nei capitoli precedenti, ha permesso di proporre due distinti filoni ricostruttivi in ragione del punto di vista da cui si analizza il fenomeno. Il primo analizza parzialmente i singoli diritti fondamentali dei consumatori attribuiti dall’art. 2 del c. cons. al fine di verificare se ciascuno di essi abbia un fondamento nella Costituzione, aderendo alla tesi che subordina il riconoscimento di un “nuovo diritto” a un diritto enumerato in combinato disposto con il principio supremo di libertà-dignità. L’altro, invece, si occupa di ricostruire i diritti dei consumatori in una prospettiva più completa e soprattutto in correlazione con i diritti degli altri operatori economici, collocandoli all’interno dell’ordine giuridico del mercato, individuando un fondamento costituzionale sia nella fonte (art. 117 Cost.) sia nella “sostanza” di tali diritti (artt. 2, 3, 2° comma, 41 Cost. anche in riferimento al principio di libera concorrenza). Il VI capitolo si prefigge di analizzare il profilo giurisdizionale dei diritti dei consumatori e degli utenti. La giustiziabilità rappresenta un altro punto di vista privilegiato per comprendere la natura delle situazioni giuridiche soggettive sottese alle proclamazioni dei diritti poiché misura giuridicamente l’effettività della loro tutela. In questo caso specifico, inoltre, la dimensione della tutela giuridica è stata decisiva per la costruzione della “classe” dei consumatori, i quali si sono coagulati intorno ai propri diritti, divenendo ‘soggetto’ ovvero un autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, sia individuali sia collettive sia diffuse. Anche questo aspetto ha subito molto l’influenza comunitaria e l’esperienza di altri Stati, specialmente quelli di tradizione common law, recependone l’aspetto più caratterizzante ovvero la precedenza dell’istituzione del mezzo di tutela rispetto all’individuazione legislativa delle caratteristiche dei soggetti titolari. In questo capitolo, per esigenze di sintesi, sono stati affrontati solo sommariamente i vari procedimenti mentre si è posta maggiore attenzione su quelle tutele che presentano profili di interesse costituzionale, in particolare sulla natura dell’interesse fatto valere in giudizio per capire se l’interesse diffuso dei consumatori sia assimilabile all’interesse generale e agli interessi legittimi di diritto privato (anche con riferimento alle tecniche processuali esperibili di fronte alle Authorities); sulla legittimità costituzionale della class action e sulla sua natura che conduce a delle comparazioni suggestive con l’azione popolare e persino a scorgere un ulteriore fondamento di costituzionalità di tali diritti. Infine, si è approdati a delle conclusioni più generali sul ruolo della class action (sia civilistica sia quella contro la P.A.) nonché delle Authorities nell’ordinamento costituzionale. Infine, il VII capitolo è dedicato al rapporto dei diritti dei consumatori con la forma di stato. Partendo dall’interrogativo se appartengano a una terza o quarta generazione di diritti, la ricerca fotografa le mutazioni che i diritti dei consumatori determinano rispetto al circuito sovranitàrappresentatività-cittadinanza valorizzando il loro ruolo ed analizzando anche i lati negativi di


una investitura politica del consumatore che potrebbe portare alla c.d. “democrazia dei consumatori”: pericolosa deriva del sistema attuale. * Assegnista di ricerca in diritto pubblico presso l’Università Politecnica delle Marche di Ancona. Dottoressa di ricerca in “Diritto costituzionale e diritto pubblico generale” presso l’Università Sapienza di Roma – marta.cerioni@univpm.it


Daniele Chinni*, Decretazione d’urgenza e poteri del Presidente della Repubblica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, XVI-440 Il volume propone un’indagine sui poteri del Presidente della Repubblica di emanazione del decreto-legge e di promulgazione della legge di conversione, con l’obiettivo di individuare le regole costituzionali che li delimitano e di analizzare come essi siano stati esercitati durante la storia repubblicana. A tal fine, l’Autore muove dalla convinzione che non si possa prescindere dallo studio delle fonti del diritto che sono oggetto dei poteri presidenziali, poiché, specie in ragione della assai stringata disciplina costituzionale sul punto, ritiene che il regime delle prime finisce per influenzare e delineare il regime dei secondi. Questa convinzione, assieme all’osservazione della profonda distanza tra la configurazione costituzionale della decretazione d’urgenza e la prassi sviluppatasi nel corso dell’esperienza repubblicana, guida significativamente la ricerca, che si articola secondo un doppio piano d’indagine. Nel primo, corrispondente alla Parte Prima del lavoro, la ricerca è compiuta in un’ottica legata esclusivamente al testo della Costituzione. Si conduce, allora, innanzitutto un’analisi sulle fonti del diritto di cui all’art. 77 Cost. alla luce del disegno costituzionale, rimarcando tanto l’eccezionalità del decreto-legge quanto la sua stretta connessione con la legge di conversione. Poi, si individuano le regole costituzionali relative ai poteri del Capo dello Stato, insistendo, da un lato, sulle circostanze che legittimano non solo il rinvio del decreto-legge, ma anche il rifiuto di emanazione, ed evidenziando, dall’altro, le specificità del controllo presidenziale in sede di promulgazione della legge di conversione. Nel secondo, corrispondente alla Parte Seconda del volume, sono invece presi in considerazione la storia repubblicana della decretazione d’urgenza e quella dei controlli presidenziali su di essa. Dopo aver ripercorso la radicale trasformazione che ha interessato il decreto-legge e la legge di conversione e valutato l’atteggiamento che al riguardo hanno tenuto il Parlamento e la Corte costituzionale, si analizza l’esercizio che i diversi Presidenti della Repubblica hanno fatto dei poteri di emanazione e di promulgazione. A tal proposito, si mette in luce come, per un verso, il controllo presidenziale sia stato meno incisivo di quanto le norme costituzionali consentano e, per un altro, come la metamorfosi della decretazione d’urgenza lo abbia profondamente condizionato, al punto che esso ha finito per svolgersi anche secondo modalità alternative a quelle tracciate dalla Costituzione. * Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali presso l’Università di Pisa


Flavio Guella*, Sovranità e autonomia finanziaria negli ordinamenti composti. La norma costituzionale come limite e garanzia per le dimensioni della spesa pubblica territoriale, Editoriale Scientifica, Collana della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trento, n. 2, 2014, pp. XXI-799. Il testo integrale è disponibile anche in Open Access al portale Unitn-eprints Research dell’Università degli Studi di Trento: http://eprints.biblio.unitn.it/4438/ Tra le norme fondamentali degli ordinamenti statali composti – dal co. 4 dell’art. 119 Cost. italiana, che tratta di finanziamento integrale delle funzioni attribuite agli enti territoriali, alle soluzioni variamente sperimentate nel panorama comparato – sono spesso rinvenibili dei “principi di connessione” tra un volume quantitativamente adeguato di risorse e le competenze affidate ai diversi livelli di governo. Allo stesso modo, a tutela dell’interesse unitario alla stabilità finanziaria, la disciplina costituzionale prevede diffusamente regole di responsabilizzazione delle gestioni e di equilibrio dei bilanci che, complementari ai profili invece di garanzia delle dimensioni della spesa pubblica, impongono limitazioni e razionalizzazioni nell’esercizio dei poteri finanziari territoriali. Partendo da tali dati, in questo volume si è cercato di analizzare la sovranità e l’autonomia di entrata e di spesa dalla specifica prospettiva dell’impatto che – sulle relazioni finanziarie tra livelli di governo – presentano quelle norme costituzionali le quali sono rivolte a regolare le dimensioni, sia quantitative che qualitative, della spesa pubblica territoriale; ciò riconducendo la discrezionalità allocativa nei paradigmi del coordinamento e della negozialità nelle relazioni istituzionali, per enucleare le categorie specificamente giuridiche di un tema che si colloca tra politica, economia e diritto. Il lavoro si struttura in un capitolo introduttivo, dedicato alle premesse generali – tra modelli a finanza propria o derivata, e diverse forme di Stato composto – dalle quali emerge la rilevanza costituzionale delle decisioni con cui si definisce il volume della spesa pubblica territoriale, e di tre parti in cui è analizzata la regolazione dell’allocazione delle risorse tra livelli di governo. La prima parte, in particolare, è incentrata sul panorama comparato, con due capitoli che trattano degli strumenti mediante i quali le diverse esperienze nazionali, federali o regionali, provvedono – specularmente – o a garantire o a limitare i livelli quantitativi della spesa territoriale; il tutto enucleando una classificazione degli approcci di fondo, articolata in diversi equilibri tra gli strumenti di coordinamento e quelli negoziali, in dipendenza dei caratteri della forma di Stato. La seconda parte, seguendo un analogo approccio, è dedicata invece all’esame dell’ordinamento regionale italiano, con tre capitoli incentrati sull’evoluzione delle regole di distribuzione quantitativa delle risorse tra Stato e Regioni, e tra Regioni, passando da modelli di finanza sostanzialmente derivata a varie soluzioni di finanza autonoma, verificando da ultimo l’impatto – quantitativo e qualitativo – che le regole del c.d. federalismo fiscale, del patto di stabilità interno e dell’equilibrio di bilancio hanno determinato sulle modalità di garanzia e limitazione dei volumi di spesa regionale e locale. La terza parte, conclusiva, è infine divisa in due capitoli, dedicati rispettivamente ai profili sostanziali e ai profili rimediali della questione della quantificazione delle risorse territoriali, enucleando da un lato le regole contenutistiche e procedurali in base alle quali sono assunte le decisioni di garanzia o di limitazione dei volumi di spesa pubblica territoriale (tra funzione di coordinamento e obblighi di negoziazione), e d’altro lato individuando i principi sulla cui base è possibile sindacare “ai margini” l’esercizio della discrezionalità con cui l’ente sovrano eventualmente intervenga in senso riduttivo sulle risorse poste a disposizione delle autonomie, ovvero con cui l’ente autonomo ponga in essere condotte di


sovra-spesa lesive delle esigenze unitarie (tra generale ragionevolezza delle opzioni allocative e regole contenutistico-procedurali, quali gli obblighi di copertura finanziaria o i vincoli di equilibrio di bilancio). Tale ultima parte, in continuità con la sistematica delle ricostruzioni del quadro comparato e nazionale delineata in precedenza, costituisce quindi un tentativo di definizione trasversale delle categorie mediante le quali il tema dell’allocazione delle risorse tra diversi livelli di governo viene affrontato sul piano normativo, cercando di enucleare gli istituti specificamente giuridici che presiedono alle relazioni finanziarie interne agli ordinamenti composti. Alla domanda assunta come base della ricerca, relativa al come le norme costituzionali possano porre limiti e garanzie per le dimensioni della spesa pubblica territoriale, si è cercato così di rispondere valorizzando a pieno il metodo giuridico; metodo impiegato per l’analisi di un tema – quale quello del federalismo fiscale – che peraltro si pone come particolarmente multidisciplinare, così che lo studio della componete giuridica delle questioni tende a risentire fortemente delle categorie tanto del ragionamento politico, quanto della tecnica economico-finanziaria. Nonostante tale rilevanza della realtà pregiuridica, l’analisi svolta cerca di offrire un (certamente parziale e settoriale) contributo alla verifica di quanto il sistema dei rapporti finanziari tra livelli di governo si possa in parte affrancare – proprio per mezzo delle regole costituzionali e della relativa sistematica – tanto da una dimensione meramente politica delle relazioni tra Stato e enti territoriali minori (dove il rapporto istituzionale sarebbe fondato sulla semplice volontà di allocazione di un certo quantitativo di mezzi finanziari), quanto da una regolazione meramente tecnicocontabile dei flussi di entrata e di uscita (dove la definizione dei fatti economici costituirebbe un ineluttabile condizionamento delle scelte di distribuzione delle risorse). All’interno dell’ampio complesso delle esperienze di regolazione della finanza territoriale, che nel volume sono state sistematizzate secondo alcuni – tra i molti – percorsi logici possibili, si è quindi tentato di individuare in quali spazi e in quali modi la decisione relativa alla quantità delle risorse da destinare a ciascuna sfera di governo possa essere governata – grazie a “principi di connessione” tra risorse e funzioni territoriali, muniti di adeguata consistenza costituzionale – da una razionalità specificamente giuridica, che vada oltre la contingenza del potere politico e renda controllabili le decisioni riconducibili al campo della tecnica contabile. * Assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato, Università di Trento


FILIPPO PIZZOLATO – PAOLO COSTA (a cura di), Sicurezza, Stato e mercato, Giuffrè, Milano 2015, p. VII – 298. Forse con una qualche approssimazione, è possibile individuare tre distinti modelli di relazione tra sicurezza, Stato e mercato, schematicamente riassumibili come segue. Un modello premoderno, in cui il problema della sicurezza non è un problema autonomo in sé capace di concettualizzazione politica, non essendo ancora sviluppato in termini astratti e generali. La sicurezza, concepita come condizione particolare, concreta, resta sullo sfondo di una comprensione politico-sociale dominata da un’idea di naturalità tanto dell’autorità quanto della libertà, entrambe radicate in un’oggettività giuridica ed etica presupposta. Il tema della sicurezza non coincide con il problema moderno della sicurezza quale “prodotto” dello Stato, ma è piuttosto un problema di ordine pratico e concreto contestualizzato in un orizzonte di pensiero che assume ancora la naturalità e la realtà tanto dell’autorità quanto della libertà. Un modello moderno, che concepisce invece la libertà in termini naturali, l’autorità (lo Stato) in termini artificiali e la sicurezza come “prodotto” di quest’ultimo, dunque, a sua volta, artificiale. Lo Stato moderno, diversamente dall’auctoritas medievale, è un prodotto artificiale della ragione umana e deve giustificare la sua esistenza innanzi alla naturale libertà degli individui: la garanzia di condizioni di sicurezza e conservazione costituisce esattamente tale giustificazione. Uno sguardo critico su questo modello consente di scorgerne lo sviluppo contemporaneo, che forse potrebbe definirsi – anche se in fondo non è fondamentale farlo - postmoderno, all’interno del quale non solo ad uno Stato artificiale corrisponde una sicurezza artificiale, ma la stessa libertà viene concepita come prodotto del “governo liberale” della collettività. Al fondo di tale considerazione, sembra dominare un certo primato del livello economico: si rammentino a tale proposito le celebri riflessioni di Michel Foucault (Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 67, 68). Tale ultimo modello risulta di grande interesse nell’attuale fase dei rapporti tra sfera pubblica e mercato, proprio con riguardo al profilo della sicurezza. Sembra infatti prendere forma una crescente erosione da parte del mercato di prerogative giuspubblicistiche classicamente monopolio dell’apparato autoritativo statale. Stiamo forse assistendo ad un fenomeno di “privatizzazione” della sicurezza, di “mercato” della sicurezza, che sembra porre in dubbio il modello liberale classico e, con ciò, la sua legittimità. Cresce la legittimazione dell’auto-difesa, tanto da lambire le funzioni di polizia interna (fenomeno delle cosiddette ronde) e di difesa militare (fenomeno dei cosiddetti contractors). Ma se le suggestioni di Foucault non sono infondate, forse anche questa apparente privatizzazione potrebbe nascondere un altro “prodotto” del “governo liberale” della collettività. Partendo da queste considerazioni di teoria e di prassi, l’opera collettanea (che raccoglie contributi di Filippo Pizzolato, Giovanni Bombelli, Camilla Buzzacchi, Monica Bonini, Auretta Benedetti, Federica Liparoti, Paolo Costa) tenta di approfondire, non solo su diversi versanti del diritto pubblico, ma anche su


diversi versanti della scienza giuridica in generale, fino a toccare i temi della filosofia del diritto, gli incroci, ora congeniti ed armonici, ora oppositivi, tra le ragioni della sicurezza, le ragioni del mercato e le funzioni (indisponibili?) dello Stato.


Francesca Sgrò*, Legge elettorale, partiti politici, forma di governo: variabili e costanti del sistema costituzionale italiano, Cedam 2014. L’opera muove dalla distinzione tra “elementi costanti” dell’ordinamento costituzionale (cioè, gli assetti di potere sanciti nella Costituzione, che definiscono i tratti salienti della forma di Stato e della forma di governo) ed “elementi variabili” (legge elettorale e partiti politici) i quali invece – pur essendo menzionati nella Costituzione – non sono da essa disciplinati, e quindi possono essere modificati con modalità più agevoli (in via legislativa o mediante regolamentazione interna), così da realizzare la loro funzione precipua, e cioè adeguare (a Costituzione invariata) la distribuzione del potere politico alle evoluzioni della società. Infatti, la legge elettorale ed il sistema dei partiti sono elementi variabili in quanto – identificandosi come “valvole di adattamento politico” – consentono di assorbire e trasferire nella dimensione costituzionale dei pubblici poteri le tendenze culturali e le prospettive ideologiche dei gruppi sociali in un determinato contesto storico. A fronte di crisi congiunturali o croniche che hanno condotto ad una fibrillazione istituzionale, in più occasioni è stata invocata una riforma strutturale della forma di governo (elementi costanti), tale da rinforzare l’Esecutivo per accelerare le risposte politiche dello Stato. Risulterebbe invero opportuno procedere in via preliminare ad un adeguamento degli elementi variabili, in modo riattivare quel processo circolare che, da un lato, favorisce la costante sintonia della legge elettorale e dei partiti politici alle contingenze storico-sociali e che, dall’altro, allinea in modo indiretto e senza strappi costituzionali la forma di governo agli equilibri che si rinnovano nel tempo, agevolando il passaggio tra differenti paradigmi di democrazia. Nel volume si analizza il sistema elettorale italiano nella sua essenza ontologica e nei suoi aspetti procedurali attraverso una ricostruzione legislativa e dottrinale che dall’epoca liberale si dipana lungo la stagione repubblicana per concludersi con l’esame del disegno di riforma attualmente al vaglio delle Camere. Si procede poi all’esegesi dei partiti politici dalla loro genesi alle attuali trasformazioni (c.d. partiti di “terza generazione” e democrazia elettronica). Quindi, si esaminano, da un lato, le reciproche interferenze tra le due variabili e, dall’altro, l’influenza da esse esercitata sulla forma di governo (si pensi alla transizione dalla democrazia consociativa alla democrazia d’investitura). Si conclude, infine, rilevando come sia la flessibilità il maggiore pregio che connota il nostro sistema costituzionale: le sue maglie larghe sono testimoniate anche dal ruolo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, che identificano i c.d. poteri elastici (di cui si propone una breve analisi). Pertanto, alla luce di questa elasticità immanente alla Costituzione, il bilanciamento tra i poteri dello Stato, che garantisce la democraticità dell’ordinamento, richiede – per motivi di metodo e per motivi di merito – di ripristinare l’equilibrio all’interno degli “elementi variabili”, eliminando eventualità criticità o disfunzionalità, prima di procedere ad una revisione degli “elementi costanti”. * Assegnista d ricerca in Istituzioni di diritto pubblico, Università di Milano


BENEDETTA VIMERCATI, Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, Giuffrè, Milano, 2014, VII-346 Nel nostro ordinamento, il riconoscimento del consenso informato quale autonomo diritto soggettivo, in quanto declinazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica, è figlio di un percorso lento e accidentato, culminato con la sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale. Da tale riconoscimento scaturiscono alcune domande essenziali che coinvolgono profonde questioni antropologiche e le relative declinazioni giuridiche: quale il contenuto e i confini che il costituzionalismo garantisce al diritto all’autodeterminazione terapeutica? A quali soggetti tale diritto deve essere effettivamente garantito? Solo a coloro che siano perfettamente capaci o anche a coloro che, per circostanze di fatto, non sono più, o non sono mai stati nelle condizioni di esprimere la propria volontà? E in quest’ultimo caso, in quale modo è possibile ricostruire la volontà del paziente? Come noto, il venir meno della capacità di agire non priva di per sé il soggetto della possibilità che vengano tutelate le sue libertà, le quali, in quanto strutturalmente collegate all’essenza stessa del concetto di persona, sono riconosciute dall’ordinamento costituzionale. Infatti, nessuno Stato che riconosca come pilastro di tutta la sua impalcatura giuridica il principio personalista potrebbe giungere a negare a tale categoria di soggetti i diritti costituzionali di libertà. Ma, al contempo, come può una persona incapace accettare o rifiutare un trattamento sanitario? La sua autodeterminazione terapeutica può sostanziarsi in un vero e proprio consenso/dissenso avente tutti i caratteri necessari al fine della sua validità (informato, libero, personale, attuale)? Come si contempera il legame – sempre più spesso messo in evidenza da dottrina e giurisprudenza – tra scelte di fine vita, integrità, dignità e identità con la situazione di coloro che siano incapaci di esprimere la propria volontà? Nel tentativo di sfuggire ad una endemica lentezza del legislatore che non ha saputo o non ha voluto fornire risposta a questi interrogativi, i ricorrenti hanno bussato e continuano a bussare alle porte dei tribunali, chiedendo ai giudici di confrontarsi con le nuove esigenze di tutela che emergono dal tessuto sociale. Per rispondere a tali istanze i giudici hanno plasmato e adattato strumenti giuridici pensati per altri fini, con l’obiettivo di tutelare il diritto all’autodeterminazione terapeutica di coloro che siano impossibilitati ad esprimere la propria volontà. La ricostruzione ex post dei desiderata del paziente, così come delineato nella sentenza Englaro, e l’amministrazione di sostegno, che viene utilizzata come una sorta di alter ego giurisprudenziale al testamento biologico, sono esempi di questa pratica di law in action. L’efficacia di questi strumenti e la loro capacità di fornire effettiva garanzia alla volontà del paziente incapace necessitano però di essere vagliate alla luce del diritto costituzionale. È proprio il diritto costituzionale che, oltre a fungere da fondamento per la creazione e l’utilizzo di questi strumenti giuridici, può essere impiegato per verificarne gli esiti, proprio in punto di tutela del diritto di autodeterminazione. Dopo un affondo sulla natura del rapporto medico-paziente, cui segue la ricostruzione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica e dei suoi tratti essenziali, il presente lavoro monografico mira a rendere manifeste le luci e le molteplici ombre che caratterizzano l’impego della ricostruzione ex post della volontà e della figura protezionistica dell’amministrazione di sostegno nell’ambito delle end-life decisions, attraverso un excursus nella giurisprudenza ordinaria e costituzionale in materia di decisioni di fine vita.


Un percorso che condurrà a riconoscere come necessario l’intervento di un ultimo soggetto rimasto nell’ombra: il legislatore. Egli, l’attore dimenticato, il convitato di pietra, deve tornare protagonista. Laddove vi è in discussione il riconoscimento e la tutela di diritti, ma anche la volontà di affermare posizioni etiche e filosofiche che inevitabilmente si fondono e si confrontano con il diritto, egli rappresenta quella figura che può e anzi deve impegnarsi attivamente, assumendosi la responsabilità di disciplinare le dichiarazioni anticipate di trattamento e di definire le singole posizioni giuridiche coinvolte. D’altra parte, l’intervento del legislatore non esclude – ovviamente – l’altrettanto possibile incisiva azione degli altri soggetti, su tutti il giudice nel caso singolo. È fondamentale però che tale ultimo attore possa agire nell’ambito di principi chiarificati in sede legislativa così almeno arginando il rischio che l’attività conoscitiva del giudice si trasformi in puro esercizio della volontà.

Assegnista di ricerca Università degli studi di Milano Bicocca


Laboratorio Vezio Crisafulli Seminari primavera 2015 Il Laboratorio Vezio Crisafulli, istituito presso IUSS – Ferrara 1391, ha fissato il calendario dei Seminari dedicati alla discussione dei working paper selezionati a seguito del Primo Bando pubblicato nel luglio dello scorso anno. Ogni seminario sarà introdotto dall'autore del paper e da quattro discussant, di cui due esterni al Laboratorio, e proseguirà con la discussione cui possono partecipare tutti gli intervenuti. Questo il programma: 5 maggio 2015 – Tema: Le garanzie d'indipendenza dei giudici di Lussemburgo e Strasburgo Relatrice: Alessia Fusco Discussant: Vladimiro Zagrebelsky, Giuseppe Tesauro, Sergio Bartole, Andrea Guazzarotti 8 maggio 2015 – Tema: La delegazione legislativa tra inquadramenti dogmatici e svolgimenti delle prassi Relatrice: Anna Alberti Discussant: Massimo Luciani, Giovanni Tarli Barbieri, Lorenza Carlassare, Giovanni Di Cosimo; 24 giugno 2015 – Tema: I diritti nel limbo. Leggi “sospese”, ruolo dei giudici, tutela dei diritti Relatrice: Stefania Parisi Discussant: Michele Taruffo, Roberto Romboli, Carlo Padula, Gian Paolo Dolso I Seminari si terranno presso la Sala consiliare del Dipartimento di Giurisprudenza di Ferrara (Palazzo Giordani, Corso Ercole d'Este 44, Ferrara) con orario 11-17. Sono aperti al pubblico ma, essendo limitati i posti disponibili, è indispensabile prenotarsi e registrarsi scrivendo una mail all'indirizzo laboratorio.crisafulli@unife.it. I Seminari potranno essere seguiti anche in streaming e sarà possibile intervenire nel dibattito a distanza. Per qualsiasi informazione logistica si può contattare la Segreteria IUSS: tel. 0532.455286 elena.caniato@unife.it


Fondazione Centro di iniziativa giuridica Piero Calamandrei V PREMIO NAZIONALE

VITTORIO FROSINI

IN INFORMATICA GIURIDICA E DIRITTO DELL’INFORMATICA

La Rivista Il diritto dell’informazione e dell’informatica, unitamente con la famiglia Frosini, promuove il quinto premio nazionale dedicato alla memoria di Vittorio Frosini e destinato a una tesi di dottorato in informatica giuridica e diritto dell’informatica. Il Premio intende rendere omaggio alla memoria di Vittorio Frosini, ricordando il Suo contributo di fondatore della informatica giuridica in Italia, attraverso la Sua pionieristica opera Cibernetica, diritto e società del 1968, e poi in numerosissimi studi nell’arco di oltre trent’anni. Il Premio offre, inoltre, occasione per ulteriori riflessioni sul pensiero di Vittorio Frosini, quale straordinario divulgatore della materia, attraverso la Sua opera di Maestro, di docente universitario, di conferenziere e anche di coordinatore del primo dottorato di ricerca in informatica giuridica attivato nelle Università italiane. Il Premio Nazionale Vittorio Frosini prevede l’assegnazione al vincitore della somma di duemila euro, ed è riservato ad una tesi di dottorato dedicata a un tema di informatica giuridica e/o diritto dell’informatica, già discussa, oppure presentata in via definitiva, negli anni 2013-

2014-2015. Una parte della tesi premiata potrà essere pubblicata sulla Rivista Il diritto dell’informazione e dell’informatica. Entro il 4 maggio 2015 i concorrenti dovranno inviare una copia della loro tesi, insieme con un breve curriculum della loro attività di ricerca, indirizzandola a: “Redazione della Rivista Il diritto dell’informazione e dell’informatica, via Boezio n. 14 - 00193 Roma” (farà fede il timbro postale). La Commissione del Premio Nazionale Vittorio Frosini - composta dai professori Pietro Rescigno, Tommaso Edoardo Frosini e Vincenzo Zeno Zencovich - ha il compito di premiare la migliore tesi di dottorato, il cui estratto verrà pubblicato sulla Rivista Il diritto dell’informazione e dell’informatica. Responsabile della Segreteria del Premio è l’avv. Pieremilio Sammarco. In occasione del conferimento del Premio Nazionale Vittorio Frosini, la Rivista Il diritto dell’informazione e dell’informatica promuoverà una giornata di studi in memoria di Vittorio Frosini su di un tema concernente l’informatica giuridica e il diritto dell’informatica.

*Il materiale inviato non sarà restituito. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito internet www.fondazionecalamandrei.it oppure contattando la segreteria della Fondazione Piero Calamandrei al numero 06 32 111 680.



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