12/2014
Novità dal Forum – Rassegna 12/2014 (22.12.2014) SOMMARIO TEMI D’ATTUALITA’ – PARLAMENTO Partiti e gruppi parlamentari nella XVII legislatura tra liquefazione e ristrutturazione – S. Ceccanti TEMI D’ATTUALITA’ – DIRITTI Misurazione dell’altezza nei pubblici concorsi e principio di uguaglianza – F. Tripodi I PAPER DEL FORUM Annotazioni sulle città metropolitane e sulle nuove province oggi viste dal punto di vista delle imprese, anche come soggetti del pluralismo – E. Balboni Memoria sui progetti di legge costituzionale A.C. 2613 ed ABB., in materia di revisione della Parte Seconda della Costituzione – G. Brunelli Un nuovo cantiere di riforme per la Quinta repubblica: l’adozione delle proposte della commissione Jospin – R. Casella Limiti costituzionali del contributo unificato per l’accesso cumulativo alla giustizia tributaria – M. Greco Considerazioni sui profili problematici della decisione della Corte cost. n. 1/2014 – S.F. Regasto I nuovi spazi di integrazione politica nell’Europa post-Lisbona – M. Rubechi GIURISPRUDENZA – CORTE COSTITUZIONALE 2014 L’inammissibilità costituzionale delle lesioni alla concorrenza da parte delle autonomie e l’ammissibilità dei limiti territoriali, conformativi e specifici, alla liberalizzazione del commercio (sent. 104/2014) – F. Guella Meglio tardi che mai: la Corte elimina la specialità del procedimento di controllo delle leggi siciliane (ovvero: la Sicilia si avvicina al continente…) (sent. 255/2014) – E. Rossi GIURISPRUDENZA – CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA La Corte di Giustizia proibisce i cosiddetti test di omosessualità e precisa alcuni diritti dei richiedenti asilo perseguitati a causa dell’orientamento sessuale (C-148/13, C-149/13 e C-150/13) – D. Mercadante EUROSCOPIO – NOTE DALL’EUROPA La nuova operazione congiunta FRONTEX Triton, dalla natura “gattopardesca” – G. Licastro AUTORECENSIONI Alessandro Morelli, Lara Trucco (a cura di), Diritti e autonomie territoriali (2014)
Partiti e gruppi parlamentari nella XVII legislatura tra liquefazione e ristrutturazione di Stefano Ceccanti * (12 dicembre 2014)
Si può utilizzare per questa prima parte della legislatura la sola categoria di liquefazione per spiegare cosa avviene rispetto a partiti e gruppi parlamentari? Fulco Lanchester lo aveva proposto per il sistema dei partiti scaturito dai risultati delle elezioni 2013. Discutiamo questa tesi ben sapendo che è sempre molto difficile individuare delle chiavi di lettura univoche di un sistema politico complesso, percorso da spinte ora centrifughe, ora centripete, difficilmente per questo riconducibile ad unità. Ferma questa cautela di fondo, quel riferimento mi sembrava allora integralmente appropriato. Le due forze maggiori del precedente Parlamento, Pd e Pdl, erano uscite ridimensionate dal voto giacché, per alcune mancate riforme, si erano scoperte sulla linea di frattura vecchio-nuovo favorendo il Movimento 5 Stelle e, per essersi posizionate su linee molto tradizionali in modo da confermare il proprio elettorato di appartenenza, si erano altresì scoperte anche sull’asse destra-sinistra lasciando un grande vuoto per gli elettori centrali su cui si era inserita la Lista Monti. Anche i primi due grandi assestamenti parlamentari del novembre-dicembre 2013 sono andati in quella stessa direzione di liquefazione: la frattura tra Forza Italia e il Nuovo Centrodestra in seguito all’uscita della prima (che ancora per poco aveva mantenuto il nome Pdl) dalla maggioranza e la scomposizione in due del gruppo centrista (uscito dalle urne inaspettatamente non decisivo per costituire la maggioranza di Governo). Stiamo comunque attenti: si tratta della crisi del polo di centro-destra e dell’area di centro, non di una somma di transfughismi individuali o di cambio radicale di schieramento. Rispetto ad altre legislature registriamo due crisi di soggetti collettivi e la loro scomposizione ma sempre dentro le medesime aree politiche. Chi esce dal Pdl va solo a costituire Ncd e la Scelta civica originaria si divide tra la nuova più piccola con lo stesso nome e il gruppo Per L’Italia sempre in area centrista. Vi è solo qualche limitata (ed apparente) eccezione di cui si parlerà tra breve. Alla stessa categoria di liquefazione può per altri versi essere ricondotto lo stillicidio di espulsioni che ha contrassegnato la vita dei Gruppi del Movimento 5 Stelle: già più di venti e, peraltro, le ultime due alla Camera avvenute persino in palese violazione dell’art. 18 dello Statuto del Gruppo, saltando il necessario passaggio in Assemblea. Una realtà che, in assenza dei due leaders storici, Grillo e Casaleggio, non solo dal Parlamento ma anche da Roma, si rivela strutturalmente non governabile. Anche qui, però, non si tratta di transfughismi individuali, ma di una volontà di maggior controllo che si esprime in espulsioni a cui i singoli cercano di resistere. In questo senso è un fenomeno del tutto nuovo, almeno nelle proporzioni. Non è peraltro chiaro se lo smottamento (prevedibile) del M5S verrà assorbito dal sistema capace di intercettarne le domande di cambiamento oppure sfocerà nell’astensionismo che sembra oggi il maggiore pericolo per una sua complessiva delegittimazione, accelerata dalla crisi economica.
Ci sono però almeno due segni di riaggregazione che vanno in direzione opposta alla liquefazione. Il primo, quello dominante, parte dalle primarie del Pd con la vittoria di Matteo Renzi quasi un anno fa, che ricentra la proposta del partito sia sull’asse vecchio-nuovo (rilanciando in particolare le riforme istituzionali promesse e non realizzate) sia su quello destra-sinistra (andando verso la riduzione del peso della constituency tradizionale, a cominciare dalla Cgil, riprendendo così la proposta originaria del partito a “vocazione maggioritaria”). Da lì, attraverso i due passaggi successivi, ovvero la fine del Governo di tregua di Enrico Letta (che non poteva sopravvivere alla fine della maggioranza larga con tutto il Pdl in modo efficace) con la decisiva unificazione della figura del segretario e del Presidente del Consiglio (la pima riforma istituzionale di fatto che ci allinea alle democrazie parlamentari) e, quindi, il successo nelle elezioni europee, il centrosinistra è stato resettato. Lo dimostra anche il trend delle adesioni ai gruppi: 13 deputati in più (10 provenienti da Sel e 3 dall’area centrista) e, apparentemente solo un senatore. In realtà, a causa di alcune particolarità del Regolamento del Senato sulla spalmatura dei Gruppi nelle Commissioni sono state disincentivate ulteriori adesioni soprattutto dall’area centrista, ma di fatto l’intero gruppo di Scelta Civica agisce in sintonia totale col Gruppo Pd. Neanche questi fenomeni si possono leggere come forme di transfughismo: in realtà si tratta del ritorno nel centrosinistra di parte del personale politico che era uscito dal Pd durante la gestione Bersani e di uno spostamento che appare peraltro in sintonia con quello degli elettori della Lista Monti trasmigrati verso il Pd nelle europee 2014. Queste riflessioni sul piano governativo e parlamentare non comprendono tutto e indubbiamente anche le ripercussioni del recente scandalo romano possono far parlare ancora, nel rapporto tra partiti e società, di spinte alla liquefazione nelle difficoltà di controllo dei terminali periferici e nei rapporti coi livelli amministrativi locali. Tuttavia sarebbe sbagliato tenere che anche su quei livelli non vi possa essere una capacità attiva di reazione. Il secondo, più piccolo e più recente fattore di riaggregazione, proprio di questi giorni, è la riaggregazione parlamentare dell’area di centro (Ncd e Udc), conseguente all’esperimento tentato alle europee, che contribuisce ulteriormente a stabilizzare la maggioranza. Non mi sfugge, comunque, se usciamo dalla sola analisi nell’ambito parlamentare, che ii movimenti politici lì registrati a livello parlamentare nella area di centro e di centro destra sono indubbiamente amplificati rispetto alla base elettorale. Mi pare che persiste un evidente asimmetria tra la forza parlamentare di tali gruppi parlamentari e il loro seguito elettorale come partiti. Tale disallineamento tra dato parlamentare e dato politico-elettorale mi pare trovi ulteriore conferma (fatto non inedito: era già successo in occasione della nascita parlamentare del Pd per fusione dei gruppi di Ds e Margherita) nel ruolo di avanguardia dei gruppi parlamentari di centro rispetto a futuri soggetti politici. Nello scarto quantitativo e qualitativo tra il primo e il secondo fattore di riaggregazione si rivela però tutta l’asimmetria e la problematicità dell’assestamento del sistema: il centrosinistra di Governo, cioè il Pd, è già strutturato per una competizione di Governo. Anche i dissensi parlamentari, a ben vedere, appaiono governabili. Vengono lasciati con poche briglie quando i numeri sono comunque in partenza certi (come nelle uscite dall’Aula della Camera sul jobs act) e si recuperano prontamente, invece, quando tale certezza non c’è (come in Senato sulla medesima legge), anche perché i dissensi non
preludono a un’effettiva proposta alternativa. Invece nel centrodestra domina ancora una complessiva liquefazione giacché l’incertezza strutturale di Forza Italia tra il ricomporsi col centrodestra di Governo e l’inseguire la protesta leghista (che è programmaticamente fuori dall’orizzonte di un Governo nazionale) non consente allo stato un’alternativa credibile da presentare agli elettori. Anzi, la sensazione di una maggiore vicinanza con la Lega potrebbe persino spingere, almeno in occasione delle Regionali e delle amministrative di primavera, larga parte dei centristi verso alleanze col Pd. In altri termini, al momento, in attesa del delicato e non facilmente prevedibile passaggio delle elezioni presidenziali che potrebbe problematizzare alcuni di questi assunti, il panorama è asimmetrico: la liquefazione c’è nel centrodestra, ma non anche, quanto meno a quei livelli, nel centrosinistra. Chi si attende però ulteriore liquefazione dalle Presidenziali dovrebbe però quanto meno tenere conto che, a differenza delle precedenti che si svolgevano a inizio legislatura, il prezzo che si potrebbe pagare per una lunga stasi con veti reciproci potrebbe stavolta consistere in uno scioglimento anticipato a breve scadenza. Forse questo deterrente renderà l’elezione meno confusa di quanto non possa sembrare oggi, specie se per designare i candidati si cercheranno procedure che coinvolgano in modo efficace i grandi elettori del centrosinistra, a cui spetta la proposta iniziale. Sullo scioglimento vi è chi non considera infatti che, a prescindere da chi sarà eletto Presidente della Repubblica, il duplice status di segretario del Pd, partito non aggirabile per le maggioranze, e di Presidente del Consiglio gli consente, in caso di crisi, stanti gli equilibri parlamentari non facilmente modificabili, di impedire la formazione di nuovi esecutivi successivi al suo e di potere nel caso giunger quindi ad elezioni anticipate. Il deterrente verso la liquefazione del suo Governo è quindi tutt’altro che debole. Per questo la XVII legislatura non sembra, allo stato, prossima alla conclusione ma, soprattutto, non sembra poter preludere ad una stasi nell’attuazione del programma di Governo.
* P. O. Diritto pubblico comparato, Università di Roma “La Sapienza”
ANNOTAZIONI SULLE CITTA’ METROPOLITANE E SULLE NUOVE PROVINCE OGGI viste dal punto di vista delle imprese, anche come soggetti del pluralismo * di Enzo Balboni (3 dicembre 2014) 1. (Premessa). Allarme e segnale di pericolo. Stanno pericolosamente venendo meno alcune importanti sedi di discussione, formazione del consenso e mediazione nell’articolazione della nostra società pluralista. Se volessimo segnalarlo col colore di un semaforo, questo dovrebbe lampeggiare sul “giallo-arancio”. Sempre più precario risulta, infatti, lo stato di salute (e di finanziamento nonché funzionamento autonomo: con le proprie forze) di partiti, sindacati, associazioni di categoria – comprese le associazioni di associazioni come RETE Imprese Italia – camere di commercio, soggetti not for profit, fondazioni e imprese sociali. Anche la deriva negativa che ha raggiunto adesso le Province, e tocca non solo superficialmente l’ente Regione, è un segnale di allarme in questa direzione. Di recente un intellettuale assai esperto della materia, Giuseppe De Rita, e non solo lui, ha parlato di “disintermediazione della società”. In questo contesto le AUTONOMIE LOCALI (Province e Regioni specialmente, ma non esclusivamente perché il discorso riguarda anche quelle funzionali e sociali) NON se la passano bene. 2. “In attesa della riforma del Titolo V Cost. e della sua attuazione….” alle Province si applica una disciplina provvisoria. Così dispone la Legge n. 56 del 7 aprile 2014 ai commi 51 – 100. Ma, in Italia, come sappiamo, niente è più definitivo del provvisorio…tanto più se per il provvisorio è prevista una durata di almeno 5/6 anni (2014-2015/2020-2021). La Legge Delrio – nella sua parte più vitale – istituisce e dà il via alle città metropolitane … (comma 44 e seguenti); per il resto si occupa di dare una qualche sistemazione alle funzioni provinciali che permangono… Le Province debbono sperare in un “effetto di trascinamento” proveniente dalle istituende Città metropolitane, se e quando queste funzioneranno…. Va fatto cenno all’eccezione che si sono guadagnata sul campo le c.d. “Province speciali” non costituzionalizzate, cioè Sondrio, Belluno e Verbano-Cusio-Ossola, in quanto enti
* Intervento al Seminario di Rete Imprese Italia, Lombardia, Milano 2 dicembre 2014.
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totalmente montani e confinanti con l’estero. A loro viene conferita una speciale autonomia statutaria, d’intesa con la Regione (questo è un passaggio non facile e tutto da costruire). 3. Le Province “normali” costituiscono oggi l’anello debole dell’amministrazione/autonomia locale. Non si dimentichi che le Province sono nate come ambiti di decentramento statale (Prefetture – Questure – Provveditorati OO.PP., Sovrintendenze beni artistici e culturali; Provveditorati degli Studi, ecc.) ed anche per questa ragione non sono riuscite a diventare quello che l’art. 2 della Legge Gava (n. 142 del 1990) prevedeva: enti esponenziali di una comunità (provinciale) presente e viva! (Come invece, in via naturale, succede ai Comuni e, in misura più ridotta, alle Regioni). Gran pasticcio e caravanserraglio dei tentativi di ridurre il numero delle Province (oggi 110), ri-formattarle e compattarle, utilizzando parametri artificiali e, in qualche modo arbitrari: numero minimo di abitanti e di Km quadrati, dimenticando storia, geografia, usi, ecc. Se ci fermiamo alla Lombardia si percepisce oggi l’incongruenza di aver accettato l’idea di una sezionatura della provincia di Milano, dando vita, nel 1992, alla provincia di Lodi e nel 2004 a quella di Monza. Grandi e significative porzioni di queste due Province fanno parte, ex natura rerum, dell’area-città metropolitana di Milano, anche se tale affermazione non va letta in modo polemico e campanilistico… 4. Piuttosto, viene qui a proposito una critica circa il tipo di soluzione “strutturale” piuttosto che “funzionale” che è stata data ai problemi di area vasta del territorio milanese… anzi lombardo. Se applicassimo dei criteri oggettivi e rigorosi, l’area vasta di Brescia appare per tanti versi più “metropolitana” di quelle di Reggio Calabria o Cagliari o ancora, se verrà, di Trieste… La domanda che ci dobbiamo porre è la seguente: esistono problemi tipici delle zone c.d. di area vasta? Dobbiamo, evidentemente, rispondere di sì, se guardiamo alle tematiche di viabilità e trasporti, ambiente e rifiuti, servizi pubblici locali a rete più ampia di quella di un Comune, funzioni di programmazione ecc. e soprattutto di pianificazione territoriale urbanistica (ex PTC), per i quali l’ampiezza e la qualità provinciale risultano congeniali: pensiamo ai casi di Brescia, Bergamo, Varese, Pavia…. ma anche tante altre realtà istituzionali lombarde.
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Grande sarebbe il ruolo della Regione, sempre che questa avesse la capacità-volontà di sostenere la parte, non facile, che le è propria, oggi messa duramente sotto critica anzi sotto accusa (cfr. ad esempio su Repubblica del 1 dicembre, Ilvo DIAMANTI La grande fuga dalle Regioni). 5. Oltre a ciò, ponendoci dal punto di vista delle possibili ricadute positive per l’impresa, va messa a fuoco tutta la problematica della facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, dando vita, finalmente, a politiche attive del lavoro capaci di dare risultanti concreti, ciò che non è avvenuto, ahinoi, nei “centri per l’impiego” che si sono impaludati in pastoie burocratiche senza senso, scontando – è vero – una drammatica carenza di fondi, ma dimostrando purtroppo pochissima energia. Stando ai dati pubblicati l’1 dicembre su La Stampa per ogni disoccupato da mettere per la prima volta al lavoro o da rioccupare, l’Italia spende 20 volte di meno della Germania. E’ vero, però, che l’azione delle Province in questo settore è del tutto ignota all’opinione pubblica che la considera trascurabile. Altrettanto importante sarebbe fare delle Province, ed ovviamente della Città metropolitana milanese, un laboratorio per la sperimentazione ed anche per l’innovazione tecnologica e la semplificazione amministrativa a tutti i livelli, acquisendo dallo Stato funzioni e competenze e ponendosi in collaborazione attiva con la Regione, cominciando dal campo di una formazione professionale qualificata. 6. Tutto ciò premesso, l’assetto costituzionale del comparto autonomie vedrà, tra pochissimo, la presenza di tre enti: Regione, Città metropolitana e Comuni, mentre le Province non avranno più copertura costituzionale. Di qui anche il loro “appannamento” democratico per il fatto che viene meno, per loro, la necessità di una elezione diretta degli organi di governo, a cominciare da quello principale: il Presidente della Provincia, oggi ad elezione diretta e dotato pertanto di una legittimazione “forte” – pur all’interno di una istituzione debole. Di conseguenza: se le Province vorranno contare
qualche cosa [nel senso dell’Abbé
Siéyès: “Qu'est-ce que le tiers-état?”1] dovranno inventarsi un ruolo che obblighi gli altri attori a prenderle in considerazione, purché si dimostrino capaci di fare le cose, di risolvere i problemi, di stimolare soluzioni innovatrici e alternative: in altre parole purché
1 E’ noto il folgorante incipit del suo straordinario pamphlet: «1. Cos’è il III Stato? Tutto (La Nazione intera). 2. Cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla. 3. Cosa chiede? Divenire qualche cosa».
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sappiano farsi riconoscere come istituzioni non immaginarie e di risulta ma vere e di qualitĂ .
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Misurazione dell’altezza nei pubblici concorsi e principio di uguaglianza di Francesco Tripodi ** (19 dicembre 2014) In claris non fit interpretatio: l’antico brocardo sembra azzeccato leggendo l’art. 587 del DPR 15 marzo 2010 n.90, testo unico in materia di ordinamento delle Forze Armate intitolato: “limiti di altezza”: “Per l'ammissione ai concorsi per il reclutamento del personale delle Forze armate sono richieste le seguenti misure di altezza: a) per gli ufficiali, sottufficiali e volontari, salvo quanto previsto dalle lettere b) e c): non inferiore a metri 1,65 per gli uomini e a metri 1,61 per le donne e, limitatamente al personale della Marina militare, non superiore a metri 1,95; b) per gli ufficiali piloti della Marina militare e per gli ufficiali dei ruoli naviganti normale e speciale dell'Aeronautica militare: non inferiore a metri 1,65 e non superiore a metri 1,90; c) per gli ufficiali dell'Arma dei carabinieri: non inferiore a metri 1,70 per gli uomini e a metri 1,65 per le donne”. Pochi dubbi insomma potrebbe avere l’interprete e ben poca produzione giurisprudenziale sarebbe logico rinvenire sul punto. Ma così non è. La giurisprudenza del TAR del Lazio territorialmente competente sulle procedure di concorso per le forze armate è ricca di sentenze in materia, su ricorsi larga parte dei quali rapidamente rigettati che esaminano gli argomenti più disparati: dall’esistenza di favorevoli misurazioni diverse compiute da propri consulenti o dinanzi ad altre amministrazioni, a modalità tecniche scorrette o alternative di misurazione, deducendo anche in via subordinata, ma senza successo, la questione della incostituzionalità (per irragionevolezza) di questi limiti la cui revisione da parte del legislatore è da tempo oggetto di proposte di legge che non riescono a tagliare il traguardo 1. Ma questo è un altro discorso. Giova premettere a giustificazione del proliferare dei ricorsi, che la statura – o altezza in piedi – è in termini pratici un dato “relativamente” oggettivo, rispetto al quale possono individuarsi tre ambiti di imprecisione: essi investono il soggetto misurato (sia per la posizione assunta nel corso dell’operazione, sia per il momento della giornata in cui si procede alla verifica), l'operatore (quanto alle condizioni corrette nelle quali esegue il rilevamento) ed infine gli strumenti utilizzati (antropometro o stadiometro portatile fisso o da fissare accuratamente al muro). Ad integrare la norma citata con le prescrizioni tecniche volte ad impedire imprecisioni dovrebbe essere la scarna disciplina prevista dall’art.1 della direttiva tecnica della Direzione Generale di Sanità militare del 5 dicembre 2005. Essa è concentrata tuttavia nel definire la tipologia degli strumenti adoperati e la correttezza del loro utilizzo da parte dell’operatore, mentre, come vedremo, non considera il rilievo cui si accennava e che assume una questione assai interessante e poco 1
In data 8 aprile 2014 è stata approvata dal Senato ed è in discussione al momento alla Camera dei Deputati, la proposta di legge «Modifica all'articolo 635 del codice dell'ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, e altre disposizioni in materia di parametri fisici per l'ammissione ai concorsi per il reclutamento nelle Forze armate, nelle Forze di polizia e nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco». Mentre il presente scritto stava per essere inviato per la pubblicazione (18 dicembre 2014) si è avuta notizia che la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il progetto per una revisione dei limiti di altezza introducendo la previsione (art. 1) che il candidato debba “rientrare nei parametri fisici correlati alla composizione corporea, alla forza muscolare e alla massa metabolicamente attiva, secondo le tabelle stabilite dal regolamento”. L’introduzione di parametri di armonicità fisica impedirà per il futuro le discriminazioni causate dalla regolazione rigida del mero requisito dell’altezza, ma non rende del tutto inutili, crediamo, anche ai fini della elaborazione di idonee norme tecniche e procedurali, le considerazioni fatte nel testo.
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conosciuta, costituita dal dato scientificamente indiscusso delle fisiologiche variazioni dell’altezza di un individuo nell’ambito della stessa giornata. La colonna vertebrale presenta infatti per ciascuna delle 23 vertebre che la compongono dei dischi intervertebrali i quali sono costituiti da sostanze prevalentemente in stato acquoso. Durante la giornata, in stazione eretta, il disco intervertebrale si riduce in altezza sotto la pressione del peso del corpo e della forza di gravità, cedendo acqua ai corpi vertebrali. È noto – ma purtroppo soltanto agli esperti del settore – che questa riduzione in altezza del disco vertebrale, in un soggetto normale, ancor più se giovane, determina nell'arco della giornata una diminuzione dell'altezza globale della persona, secondo stime obiettive addirittura fino a due centimetri. Ogni disco intervertebrale subisce variazioni quotidiane pari al 10% del suo spessore. Mentre il contenuto idrico nei dischi delle persone giovani si attesta intorno all'80-85%, nei soggetti anziani tale percentuale scende al di sotto del 70%. Durante il riposo notturno, i dischi intervertebrali si riempiono nuovamente di acqua per poi essere pronti ad affrontare la giornata successiva. A riprova del peso riconosciuto di tale circostanza in ambiti specialistici, basti considerare che i costruttori di biciclette da corsa professionali richiesti di realizzare telai su misura, esigono la misurazione dell’atleta al mattino ed a riposo. Che la statura al risveglio e a riposo sia circa uno o quasi due centimetri superiore rispetto a quella misurata al termine di una giornata lavorativa è perciò un dato sconosciuto ai più, ma di decisiva rilevanza nella organizzazione di una procedura di concorso che vede il raggiungimento di una determinata altezza quale requisito essenziale di idoneità. Impegnata in contestazioni spesso assai poco plausibili sulle tecniche di misurazione, la giurisprudenza ha solo raramente affrontato, per altro in termini spesso contraddittori2, questo aspetto del problema, difettando in particolare una riflessione approfondita del vulnus al principio di uguaglianza che la sottovalutazione del problema comporta. Alcune sentenze pur accettando l’evidenza scientifica l’hanno ritenuta irrilevante e tale da non escludere il giudizio negativo di idoneità, in presenza di una misurazione correttamente effettuata a norma di legge, posto che l’altezza richiesta deve essere posseduta in permanenza e non solo saltuariamente 3. Pacifico appare poi il principio che «un esclusivo riferimento a misurazioni effettuate, con garanzia di accuratezza e attendibilità strumentale, nelle date prefissate 2
Sostiene infatti che l’altezza è pur sempre “un fatto oggettivo” e non menziona per nulla l’incidenza delle variazioni fisiologiche dell’altezza nel corso della giornata TAR Lazio sez. 1 bis 26-11-2013 n. 985 che ritiene sufficiente garanzia l’idoneità della tecnica della misurazione; particolare attenzione viceversa attribuisce alla questione sempre la stessa sezione del TAR Lazio (sent. Sez. 1 bis n. 3950 del 21 febbraio 2012) muovendo dal dato, condiviso dal consulente di parte dell’Arma dei Carabinieri che la statura rappresenta “un parametro variabile che, come noto, risente oltre che del momento della giornata in cui la misurazione viene rilevata, anche e soprattutto di tecniche fisioterapiche specifiche che consentono un temporaneo allungamento delle strutture legamentose vertebrali …”. Secondo questa pronuncia uno scarto minimo (appena un centimetro) può quindi dipendere da molteplici fattori, non escluso il momento della giornata in cui viene effettuata la misurazione, il tono muscolare in generale ed in particolare dei muscoli del rachide, gli ordinari quotidiani esercizi ginnici e conclude rilevando come debba ragionevolmente ritenersi “non incompatibile con l’idoneità l’eventuale effettuazione, da parte del candidato, di semplici esercizi di allungamento muscolare nelle more della verificazione antropometrica”. 3 Così espressamente la sentenza TAR Lazio sez. 1 bis n. 6917 del 27 giugno 2012 (conforme n. 7348/2012 decisa in pari data) la quale ha negato spazio non solo, come in passato già accadeva, a distinte misurazioni precedenti e successive pur effettuate da strutture pubbliche sanitarie, ma anche al conseguimento dell’altezza minima nell’ambito di precedente reclutamento per volontario nelle stesse Forze Armate (VFP1). Ancor più rigorosamente la pronuncia limita la valenza dello strumento istruttorio della verificazione atteso il carattere ampiamente soddisfacente delle modalità con le quali l’Amministrazione militare oggi assicura la misurazione (doppia verifica, statimetro tarato, ecc.).
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per la procedura di concorso soddisfa una imprescindibile esigenza di par condicio fra tutti i candidati, nonché il principio tempus regit actus4». Quest’ultima regola, solitamente evocata a proposito della successione di leggi regolatrici dei procedimenti appare correttamente richiamata alla base del principio generale che i requisiti di chi partecipa a una procedura concorsuale devono essere posseduti e valutati al momento di presentazione della domanda. Più discutibile appare invece sostenere che, pur con il pieno rispetto della direttiva tecnica citata, il sistema della misurazione alla data prefissata offra sufficienti garanzie sul piano della par condicio dei candidati stessi e quindi del principio di uguaglianza. Poiché infatti l’altezza può variare fino a due centimetri nel corso della giornata, tra una pluralità di soggetti che si trovino nelle medesima condizione border line quanto all’altezza, saranno giudicati idonei “solo” coloro che avranno la fortuna di venire misurati nella prima fascia del mattino (momento in cui i muscoli sono più distesi e l’altezza è maggiore) e non gli altri, ancorché la permanenza del requisito “nel tempo” per gli stessi soggetti potrebbe mancare. Il sistema applicato e non messo in discussione fino al momento dalla giurisprudenza amministrativa appare quindi in conflitto con il principio di imparzialità della P.A. (art. 97 Cost. e, a livello di legge ordinaria, l’art. 1 L n. 241/1990 dopo la novella del 2005). Esso appare poi in ogni caso irragionevole, volendo ritenere la permanenza dell’altezza minima requisito implicito richiesto dalla norma perché, non disciplinando questo aspetto della misurazione, nessun obbligo viene fatto agli operatori di accertarla in concreto (ad esempio con doppia misurazione in orari diversi nei casi dubbi). Infatti, sia che l’ordine temporale delle misurazioni dei candidati sia affidato alla discrezione e ai tempi organizzativi predisposti dall’ufficiale di turno, sia che esso obbedisca a un criterio automatico (ad esempio quello alfabetico), la conseguenza sotto il profilo del vulnus al principio di eguaglianza è la stessa. Nel primo caso il sollecito compimento della misurazione del singolo candidato rischia di essere affidato all’arbitrio o alla “raccomandazione”; nel secondo il candidato border line che chiameremo Zucchi, misurato a mezzogiorno è destinato ad essere irrimediabilmente escluso, mentre il candidato Abele (pur alto esattamente come il suo collega) a passare. Occorre quindi prendere atto che la direttiva di sanità militare prescinde totalmente dalle richiamate acquisizioni scientifiche, mentre invece essa dovrebbe considerare questo aspetto in modo primario imponendo di assicurare “sempre” una seconda misurazione a riposo e comunque di adottare idonei parametri di correzione da rapportarsi alle fisiologiche diminuzioni dell’altezza che possono verificarsi nell’arco della stessa giornata. Né si dica che questo genere di diseguaglianze “di fatto” è in fondo inevitabile per ragioni di ordine pratico (così, per fare un esempio su altri piani, l’orario delle batterie di una gara di corsa può avvantaggiare un atleta e danneggiarne un altro), perché i rimedi sarebbero agevolmente individuabili attraverso una corretta ri-misurazione “a riposo” per tutti i casi dubbi. Quanto al controverso requisito della “permanenza” (che in realtà la legge non prevede) è agevole notare come, mentre ha un senso esigere pienezza e stabilità, ad esempio, della percezione uditiva o visiva, quale requisito funzionale ad un corretto svolgimento di compiti essenziali all’incarico militare ricoperto, lo stesso non è predicabile dell’altezza che è parametro convenzionale, tra l’altro assai opinabile. Pertanto l’amministrazione non può aggravare il requisito fissato dalla legge con una prassi volta a negare la possibilità del conseguimento dell’altezza minima del corpo a riposo e in condizioni ordinarie. 4
E’ questa la consolidata posizione del Consiglio di Stato sul tema: v. ad es. Cons. Stato sez. IV 11 giugno 2013 n. 3541.
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Si può dire, in conclusione, che in questo caso l’irragionevolezza non sembra tanto nella norma definitoria dei limiti di altezza, quanto nel potere dell’amministrazione di disciplinare gli aspetti tecnici della selezione, che non possono non essere pienamente in linea con tutte le acquisizioni scientifiche, senza limitarsi alla questione della taratura dello strumento e della posizione del misurando. La direttiva dovrebbe disciplinare questi casi, pena un insanabile vulnus alla correttezza ed alla trasparenza del procedimento. Torniamo all’inizio, a quella che sembrava una norma talmente chiara da non richiedere nemmeno una vera e propria “interpretazione”. Come insegnava l’ermeneutica tradizionale: “se un testo è chiaro, non occorre interpretarlo e anzi non deve essere interpretato (giacché interpretarlo non avrebbe presumibilmente altro scopo ed effetto che quello di stravolgere il “vero” significato”)5. Come osserva esattamente l’autore che riporta questo pensiero, però, anche una interpretazione letterale, una mera “comprensione” (di “significato senza interpretazione” parla taluno), presuppone una scelta da parte dell’interprete (in primo luogo la scelta di accantonare possibili interpretazioni estensive o restrittive), dovendosi quindi escludere che persino un’interpretazione letterale si possa limitare ad accettare il significato angusto della regola come appare ad un approccio linguistico superficiale. Il caso esaminato ci ammonisce invece in modo calzante su come l’interpretazione giuridica non sia mai scontata. Nel nostro caso, poi, la posta in gioco, dietro l’apparente sua banalità, è alta. Si tratta, infatti, di far valere nell’operato dei pubblici poteri fino in fondo il principio di uguaglianza. Che questo si raggiunga attraverso un orientamento giurisprudenziale volto alla disapplicazione della direttiva di sanità militare (imponendo alla amministrazione l’utilizzo di tecniche adeguate al problema), o passi attraverso una modifica della direttiva, come forse sarebbe più corretto, è questione meno rilevante. Tutto ciò, in attesa che il legislatore ripensi al carattere antiquato e rigido delle regole sull’altezza dei candidati ai fini della idoneità a servire nelle forze militari ed armate e ne adotti uno più moderno. ** Magistrato
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R. Guastini, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano 2011, 399 ss.
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1 MEMORIA SUI PROGETTI DI LEGGE COSTITUZIONALE A. C. 2613 ED ABB., IN MATERIA DI REVISIONE DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE (Camera dei deputati, I Commissione Affari costituzionali) di Giuditta Brunelli * (novembre 2014) Sommario: 1. Il nuovo bicameralismo differenziato: aspetti positivi e punti critici della riforma – 2. Rappresentanza “nazionale” affidata alla sola camera politica: alcune conseguenze sulle funzioni del Senato – 3. Sul “divieto del mandato imperativo” – 4. Alcuni profili problematici del procedimento di formazione della legge – 5. “Voto a data certa” e limiti alla decretazione d’urgenza – 6. I diritti delle minoranze parlamentari – 7. Riforme mancate (la verifica dei poteri) o insufficienti (le leggi di amnistia e indulto). 1. Il progetto di legge costituzionale A.C. n. 2613, approvato, in prima deliberazione, dal Senato della Repubblica l’8 agosto 2014, incide in modo significativo sulla Parte II della Costituzione, e molti sarebbero dunque i profili meritevoli di analisi e approfondimento. Mi limiterò, in questa sede, ad una riflessione sulla struttura del nuovo bicameralismo, segnalandone alcuni punti critici. Nulla quaestio circa l’esclusione del Senato dal rapporto fiduciario, la conseguente diversificazione delle funzioni rispetto alla camera politica, il forte ridimensionamento numerico e la rappresentatività di secondo grado. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, ritengo che la costruzione di un bicameralismo differenziato in una forma di governo parlamentare come la nostra presupponga necessariamente l’impossibilità di eleggere direttamente la seconda camera, la quale finirebbe altrimenti per riprodurre al proprio interno dinamiche politico-partitiche estranee all’idea di rappresentanza delle istituzioni territoriali. Con il rischio ulteriore che la legittimazione popolare diretta, se mantenuta, possa indurre il nuovo Senato a rivendicare, nei fatti, una funzione politica analoga a quella della Camera dei deputati, smarrendo la propria (auspicabile) identità di luogo di espressione e di composizione dei diversi e multiformi interessi locali nella dimensione nazionale. Un luogo, insomma, in cui si realizzi finalmente, nell’ambito di un sistema a forte decentramento territoriale, la creazione di moduli cooperativi efficienti. La presenza di una camera a legittimazione di secondo grado (ma i cui componenti – consiglieri regionali e sindaci – sono comunque già legittimati democraticamente attraverso l’elezione popolare diretta) ed estranea al circuito fiduciario, costituisce altresì un elemento di razionalizzazione del parlamentarismo, idoneo a conferire maggiore stabilità ad un sistema messo duramente alla prova negli ultimi anni da una sostanziale difformità di maggioranze nelle due camere. Restano due problemi fondamentali da affrontare e risolvere: l’approvazione di una legge elettorale per la Camera dei deputati che – nel rispetto dell’equilibrio tra il principio costituzionale di rappresentatività dell’assemblea parlamentare e il legittimo obiettivo di favorire governi stabili (Corte cost., sentenza n.1/2014) – spinga verso la formazione di una maggioranza solida e, contestualmente, il rafforzamento, all’interno della camera politica, delle garanzie per le minoranze. Detto questo, vorrei proporre alcune sintetiche osservazioni su taluni punti del testo di riforma che mi paiono non privi di criticità: a) le possibile conseguenze del (corretto) riconoscimento della sola Camera dei deputati come sede della rappresentanza “nazionale”; b) la conferma (piuttosto opinabile) del divieto del mandato imperativo anche per i senatori; c) i rischi di appesantimento del processo legislativo, anche per il riaffiorare
2 del criterio della competenza “per materia” (si pensi alle leggi nelle materie di cui agli articoli 29 e 32, secondo comma, Cost., riguardanti la famiglia e il matrimonio e il divieto di essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori se non per legge); d) il rafforzamento del governo in parlamento (attraverso la previsione del “voto a data certa”) e l’inserimento nella Carta costituzionale di stringenti limiti alla decretazione d’urgenza; e) i diritti delle minoranze parlamentari; f) alcune riforme mancate o comunque parziali e insufficienti (verifica dei poteri, leggi di amnistia e indulto). 2. Nel nuovo testo dell’art. 55 Cost., al comma 3, si afferma che “Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione”, mentre il successivo comma 5 precisa che “Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali”. Che la sola camera direttamente elettiva sia sede della rappresentanza nazionale è affermazione coerente con la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale collega esplicitamente la “rappresentanza politica nazionale” alla “espressione del voto e quindi della sovranità popolare”, precisando che proprio ciò consente di affidare alle assemblee parlamentari “funzioni fondamentali, dotate di ‘una caratterizzazione tipica ed infungibile’ (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.)” (sentenza n. 1/2014). Si tratta di affermazioni di grande rilievo per il legislatore che si propone di riformare la Carta costituzionale. In primo luogo, vi è la conferma che solo la camera nella quale si esprime direttamente la sovranità popolare può essere titolare del rapporto fiduciario, il quale appunto si esprime nell’indirizzo e nel controllo sul governo; in secondo luogo, e qui sorge un problema, ci si può chiedere se l’inserimento, operato dalla Corte, tra le funzioni “tipiche ed infungibili” della camera direttamente elettiva di quelle “connesse alla stessa garanzia della Costituzione”, e cioè alla revisione costituzionale (art. 138), si concili con la previsione, contenuta nel comma 1 del nuovo art. 70 Cost., di una partecipazione paritaria del Senato al procedimento di revisione costituzionale. Diverso il discorso per l’elezione del Presidente della Repubblica, che resta affidata al Parlamento in seduta comune (nuovo art 83 Cost., comma 1). In questo caso, infatti, la partecipazione dei membri del nuovo Senato al collegio elettorale è in piena armonia con la funzione di rappresentante dell’unità nazionale riconosciuta al Capo dello Stato, se è vero che (come ha affermato il giudice costituzionale nella già ricordata sentenza n. 106/2002) le autonomie territoriali concorrono a plasmare l’essenza della sovranità popolare, essendo esse, nella visione della Costituente, “partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all’affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare”. In questo senso, anche la previsione che due dei cinque giudici della Corte costituzionale di investitura parlamentare siano eletti dal Senato della Repubblica (nuovo art. 135, comma 1) appare coerente con l’esigenza di dare spazio alla “voce delle regioni” 1 nell’organo deputato a dirimere i conflitti (legislativi e non) generati dal pluralismo territoriale. 3. Secondo il nuovo testo dell’art. 67 Cost. “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”. E’ davvero difficile comprendere il senso di questa previsione con riferimento ai componenti del nuovo Senato. In esso, infatti, i seggi vengono ripartiti tra le regioni in proporzione alla loro popolazione (art. 57, comma 4), proprio al fine di assicurare una corretta rappresentanza di interessi specifici e assai diversificati anche sulla base delle 1
R.BIN, Coerenze e incoerenze del disegno di legge di riforma costituzionale: considerazioni e proposte (22 aprile 2014), in www.forumcostituzionale.it, 12.
3 dimensioni territoriali. La durata del mandato dei senatori, inoltre, coincide con quella dell’organo dell’istituzione territoriale in cui essi sono stati eletti (art. 57, comma 5). Il Senato diviene in tal modo un organo a rinnovo parziale continuo, e ciò proprio in funzione della provenienza territoriale dei suoi membri. Stando così le cose, appare contraddittorio mantenere il divieto del mandato imperativo, inscindibilmente legato alla rappresentanza politica nazionale, come emerge chiaramente dal testo del vigente art. 67 Cost., nel quale trova espressione il principio (sorretto, a mio avviso, da una logica precisa e non superabile) secondo cui l’eletto deve rappresentare la nazione, proprio nel senso che il suo compito non è quello di dare voce ad interessi frazionari (come sono gli interessi a base locale), ma di operare una sintesi politica orientata all’interesse generale e libera da condizionamenti settoriali (compresi quelli, appunto, di natura territoriale) 2. Sarebbe anzi opportuno definire in Costituzione (anche attraverso un rinvio al regolamento parlamentare per gli aspetti di dettaglio) le modalità di espressione del voto nell’Assemblea senatoriale: è evidente che, per “pesare”, le “delegazioni” regionali dovrebbero esprimere una posizione unitaria, scevra da logiche politico-partitiche (la stesso carattere non direttamente elettivo dell’Assemblea dovrebbe muoversi in questa direzione, di distacco dalle dinamiche politiche in senso stretto). Il vincolo del voto unitario (da perseguire con meccanismi interni alla “delegazione” regionale, che consentano l’assunzione di posizioni condivise), insieme all’impossibilità di organizzazione dell’Assemblea per gruppi “trasversali”, riconducibili appunto ad appartenenze politiche, dovrebbero essere assicurati 3. Del resto, tracce evidenti della natura peculiare della composizione del Senato rispetto a quella della Camera dei deputati sono presenti nello stesso progetto di riforma: si pensi all’art. 72, comma 3, nel quale si afferma che le commissioni, anche permanenti, alla Camera dei deputati (non, dunque, al Senato) devono essere composte “in modo da rispettare la proporzione dei gruppi parlamentari”; e, ancora, all’art. 82, relativo alle inchieste parlamentari (limitate, per il Senato, alle “materie si pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali”), nel quale si legge che alla Camera dei deputati (e, di nuovo, non al Senato) “la Commissione è formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi” (comma 2). Dunque, l’organizzazione interna del Senato sarà governata da logiche diverse da quelle schiettamente politiche proprie della Camera, e le relative scelte saranno affidate al regolamento parlamentare. 4. Quanto al procedimento di formazione della legge (punto assai problematico in un contesto di bicameralismo differenziato), esso appare piuttosto appesantito dalle modifiche, numerose ed incisive, apportate dal Senato al testo originario del d.d.l. governativo. Esso, infatti, ridimensionava in modo netto il ruolo della seconda camera nell’ambito della funzione legislativa, sostanzialmente affidata alla Camera dei deputati, con la sola esclusione delle leggi di revisione della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, rispetto alle quali le due camere continuavano ad agire “collettivamente” in modo paritario. A questa unica ipotesi (sulla quale, peraltro, ho già espresso i dubbi derivanti da quanto affermato nella sentenza n. 1/2014 sul legame tra rappresentanza nazionale e revisione della Costituzione), si aggiungono oggi le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche e di referendum popolare, le leggi in materia di ordinamento, elezioni, organi di governo e funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane e disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni; leggi recanti principi fondamentali sul sistema di elezione e sui casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta 2
N.ZANON, Il divieto di mandato imperativo e la rappresentanza politica: autopsia di due concetti, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N.Zanon e F.Biondi, Milano, Giuffrè, 2001, 117. 3 Sulla necessità che il Senato debba essere in grado di esprimere il punto di vista dei territori singolarmente presi vedi R.BIN, Coerenze e incoerenze, cit., 6 ss.
4 regionale nonché dei consiglieri regionali, leggi che stabiliscono la durata degli organi elettivi regionali e i relativi emolumenti: così l’art. 70, comma 1, che si riferisce poi agli “altri casi previsti dalla Costituzione”. Fra tali casi (per la verità, né pochi né di poco momento: definizione del sistema elettorale del Senato; referendum propositivo e di indirizzo ed eventuali altre forme di consultazione; autorizzazione alla ratifica dei trattati UE; attribuzione alle regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, sulla base di intesa tra lo Stato e la regione) spicca la previsione, davvero stravagante e fuori luogo, delle leggi in materia di famiglia e matrimonio e di sottoposizione a trattamenti sanitari obbligatori (art. 55, comma 4). Perché una camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali, e non di rappresentanza politica generale, debba legiferare con gli stessi poteri della camera politica in materie delicatissime, relative a diritti civili fondamentali, è una domanda alla quale non esiste risposta giuridicamente fondata. Il sospetto è che si sia voluto in questo caso mantenere al nuovo Senato (in maniera del tutto incongrua rispetto alla sua nuova natura) un ruolo di “camera di riflessione” in materie politicamente conflittuali, a proposito delle quali si è fino ad oggi “deciso di non decidere”. Quasi che si temessero, in queste materie, “colpi di testa” delle future maggioranze politiche. C’è da augurarsi che una simile previsione venga eliminata nel prosieguo del procedimento di riforma del testo costituzionale. Ma, al di là di questo caso particolare, resta il fatto che un aumento tanto rilevante dei casi di legislazione bicamerale (caratterizzata da un ruolo paritario delle due camere), al quale si affianca la ricomparsa di quella distinzione per materie che tanta cattiva prova ha dato di sé nel rapporto fra Stato e Regioni, prefigura un procedimento legislativo complesso e foriero di conflitti tra le due camere su eventuali (e non improbabili) questioni relative alla natura del disegno di legge (dubbi interpretativi circa l’esatta delimitazione delle materie, disegni di legge a contenuto misto) e alla conseguente tipologia di procedimento di approvazione da seguire. E tutto ciò, si noti, in assenza di una sede e di modalità di risoluzione di tali questioni (quale potrebbe essere l’intesa tra i Presidenti delle Camere). Con il rischio ulteriore che, date queste difficoltà, si preferisca percorrere strade alternative, come quella di deleghe legislative ancor più numerose, vaste e generiche di quelle attuali, finendo così per trasferire massicciamente poteri normativi primari all’esecutivo. Su tutti gli altri disegni di legge, diversi da quelle previsti nel primo comma dell’art. 70 Cost., vi è soltanto l’eventualità che il Senato possa deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva (art. 70, comma 3). Nel caso, tuttavia, di alcune tipologie di disegni di legge, specificamente connesse alle funzioni delle autonomie territoriali, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato soltanto pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei suoi componenti (art. 70, comma 4). Va detto, tuttavia, che in un contesto nel quale, prevedibilmente, il sistema elettorale che verrà disegnato per la Camera direttamente elettiva sarà tale da garantire sempre e comunque la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione o alla lista vincente, una previsione di questo tipo appare sostanzialmente priva di significato, e dunque incapace di assicurare un ruolo effettivo alla camera rappresentativa delle istituzioni territoriali in settori che sono talora di particolare delicatezza per il rapporto centro-periferia. Peraltro, va anche detto che le materie su cui è richiesta la maggioranza assoluta nella votazione finale della Camera, laddove essa intenda discostarsi dalle proposte del Senato, appaiono eccessivamente numerose e a loro volta suscettibili di determinare incertezze interpretative che potrebbero dare origine a vizi procedimentali.
5 5. Il testo modificato dell’art. 72 Cost., comma 7, prevede il nuovo istituto del “voto a data certa”, destinato a garantire una corsia preferenziale per la discussione e la votazione di disegni di legge governativi. Il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare che un disegno di legge, qualora questo sia indicato come essenziale per l’attuazione del programma dell’esecutivo, sia iscritto con priorità all’ordine del giorno, per essere poi sottoposto alla votazione finale, entro sessanta giorni dalla richiesta governativa di iscrizione (restando peraltro escluse le leggi bicamerali ex art. 70, comma 1, le leggi in materia elettorale, quelle di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi per la cui approvazione è prevista una maggioranza speciale). Decorso il termine, il testo, proposto o accolto dal Governo, viene votato, su richiesta del Governo stesso, senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale. In tali casi, i tempi ordinari di esame del Senato (di cui all’art. 70, comma 3) sono ridotti della metà. Si tratta di un indubbio rafforzamento del ruolo del Governo in Parlamento, di un tentativo di assicurargli poteri efficaci di decisione attraverso uno strumento ordinario, regolato dalla Costituzione, anziché attraverso l’abuso di altri mezzi (soprattutto decretazione d’urgenza, in combinazione con maxi-emendamenti e questione di fiducia), come oggi accade. In effetti, la previsione di questi nuovi ed incisivi poteri del Governo nell’ambito del procedimento legislativo appare controbilanciata da una serie di disposizioni che rendono invece più difficile il ricorso al decreto-legge: la riserva d’assemblea per i disegni di conversione in legge dei decreti (art. 72, comma 5); la costituzionalizzazione dei limiti alla decretazione d’urgenza oggi previsti dalla legge n. 400 del 1988, quali il divieto di disciplinare con tale atto le materie di cui all’art. 72, comma 4, Cost. nonché di reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti e di ripristinare l’efficacia di norme dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. Si stabilisce inoltre – recependo anche l’orientamento in materia della Corte costituzionale (in particolare, sentenze n. 22 del 2012 e n. 32 del 2014) - che i decreti-legge devono recare misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo e che nel corso dell’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto (art. 77, nuovo testo). Questo insieme di previsioni appare, nel suo complesso, condivisibile. E, del resto, in senso analogo si muovono sia le ipotesi di riforma dei regolamenti della Camera e del Senato discusse negli ultimi anni, nelle quali si ipotizza un analogo rafforzamento dell’azione parlamentare del Governo attraverso la riqualificazione e il potenziamento dell’istituto, già previsto della Costituzione e dai regolamenti vigenti, della dichiarazione d’urgenza, sia la Relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali istituita con D.P.C.M. 11 giugno 2013. Va detto, peraltro, che sia in sede di riforma dei vigenti regolamenti parlamentari sia nella citata Relazione si fa riferimento ad un numero limitato di provvedimenti ritenuti prioritari dal Consiglio dei ministri. In particolare, nello schema di riforma del regolamento del Senato si parla di un massimo di tre provvedimenti nel calendario mensile dei lavori e in quello della Camera di un massimo di cinque progetti di legge se il programma è trimestrale e di tre se il programma è predisposto per due mesi. Limiti numerici dovrebbero essere inseriti anche nella nuova disposizione costituzionale. 6. Il testo modificato dell’art. 64, comma 2, si limita a prevedere che “I regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”. Ora, con riguardo alla camera politica, andrebbe in primo luogo valutata l’opportunità di aumentare la maggioranza prevista per l’approvazione del regolamento, portandola ad esempio ai due terzi dei componenti dell’organo (in un contesto di legge elettorale che, quasi certamente, attribuirà in modo automatico la maggioranza assoluta dei seggi della Camera alla coalizione o alla lista che abbia vinto le elezioni). In alternativa,
6 si potrebbe riconoscere a chi è stato minoranza nella riforma del regolamento la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale per violazione di norme costituzionali, così introducendosi un’ipotesi limitata, per legittimazione soggettiva e per natura dell’atto impugnabile, di accesso diretto di minoranze parlamentari alla Corte costituzionale (che andrebbe ad aggiungersi all’altra ipotesi, prevista dal nuovo testo dell’art. 73, comma 2, Cost., di impugnazione preventiva delle legge elettorale davanti alla Corte costituzionale su ricorso di almeno un terzo dei componenti di una camera, recante l’indicazione di specifici profili di incostituzionalità). Quanto ai meccanismi di garanzia dei diritti e delle prerogative delle minoranze riservati al regolamento, essi appaiono tanto più necessari in presenza di una previsione costituzionale che, come abbiamo visto, rafforza la posizione del Governo in Parlamento, con tempi certi e garantiti per l’approvazione dei provvedimenti che lo stesso esecutivo reputi essenziali per l’attuazione del suo programma. A questo proposito, sarebbe opportuno fissare direttamente nel testo costituzionale alcune regole minime a maggiore tutela delle minoranze, ad esempio secondo l’ipotesi formulata dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali istituita nella XIII Legislatura: “Il Regolamento della Camera dei deputati garantisce i diritti delle opposizioni in ogni fase dell’attività parlamentare; disciplina la designazione da parte delle stesse dei Presidenti di Commissione aventi funzioni di controllo o di garanzia; prevede l’iscrizione all’ordine del giorno di proposte e iniziative indicate dalle opposizioni con riserva di tempi e previsione del voto finale”. Di particolare rilievo, in questo contesto, diviene il potere di attivare un’inchiesta parlamentare (potere che il nuovo art. 82, comma 1, affida nella sua pienezza, con riferimento alle “materie di pubblico interesse”, alla Camera dei deputati, mentre il Senato può disporre inchieste su “materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali”). In questa ipotesi, coma già detto, è la stessa Costituzione a riconoscere la peculiarità della composizione del Senato, laddove richiede che soltanto alla Camera dei deputati la commissione d’inchiesta sia formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. Le ipotesi che qui propongo riguardano dunque la camera politica. Affidare alla sola maggioranza la decisione di aprire un’inchiesta, in particolare in un sistema parlamentare, fa sì che determinati temi, cari alle opposizioni e sgraditi alla maggioranza, possano essere sottratti allo strumento più incisivo di ispezione parlamentare. Senza contare il fenomeno degenerativo (verificatosi in concreto) delle c.d. inchieste “di maggioranza”, usate come arma contro l’opposizione. Si potrebbe allora pensare ad un recupero della proposta Mortati (respinta dall’Assemblea costituente) di consentire l’attivazione dell’inchiesta da parte di una frazione minoritaria di parlamentari (un quinto). Un’altra soluzione, certamente meno incisiva, e che prescinderebbe da una revisione dell’art. 82 Cost., potrebbe consistere in una riforma del regolamento della Camera che si ispiri al modello delineato dall’art. 162, comma 2, del vigente regolamento del Senato, il quale prevede che sia esaminata in tempi brevi e garantiti la proposta di istituzione di una commissione d’inchiesta avanzata da una minoranza di senatori (un decimo). 7. Il testo modificato dell’art. 66 Cost., in materia di verifica dei poteri, costituisce (almeno per la Camera dei deputati) una sostanziale conferma della disciplina vigente (art. 66, comma 1). In realtà, la riserva alle camere del giudizio relativo ai titoli di ammissione dei loro componenti e alle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità (per il Senato il discorso è in parte diverso, dato che delle cause ostative alla prosecuzione del mandato dei senatori deve essere data “comunicazione “ al Senato medesimo da parte del suo
7 Presidente: art. 66, comma 2) corrisponde ad un modello antiquato e insoddisfacente, tanto più in ambiente maggioritario. Già Mortati, nella Relazione sul potere legislativo presentata alla Commissione per la Costituzione, notava, in materia di verifica dei poteri, che “[a]l sistema prevalente nel continente di affidare tale verifica alle Camere si contrappone quello inglese che lo conferisce ad appositi organi di natura giurisdizionale. In un ambiente politico nel quale si presenti l’interesse di fornire una particolare tutela dei diritti delle minoranze preferibile appare questo secondo sistema”. Vi è l’esigenza, insomma, che le deliberazioni parlamentari in questa materia possano essere sottoposte al controllo di un organo terzo. Una possibile soluzione, spesso proposta in dottrina, è quella di attribuire la verifica dei poteri alla Corte costituzionale in seconda istanza, in funzione di giurisdizione di appello. In alternativa, al fine di prevenire frizioni tra maggioranze parlamentari e Corte costituzionale investita del potere di revisione delle decisioni della Camera o del Senato, si potrebbe proporre un competenza esclusiva in materia del giudice costituzionale. Infine, mentre appare condivisibile che la legge di amnistia e indulto divenga monocamerale, trattandosi di uno strumento di politica criminale, affidato come tale alle scelte dell’organo della rappresentanza politica, non appare invece opportuno il mantenimento dell’elevatissima maggioranza dei due terzi dei componenti dell’organo richiesta (in seguito alla revisione costituzionale del 1992) per la sua approvazione (articolo per articolo e nella votazione finale). Una maggioranza addirittura più elevata di quella richiesta per l’approvazione delle leggi costituzionali (con il paradosso che è più agevole modificare la norma sulla produzione che approvare la fonte di produzione) e tale da aver determinato la paralisi dell’istituto (con la sola eccezione dell’indulto del 2006, in ventidue anni non si è mai approvata una legge di clemenza generale). Lo stesso Presidente della Repubblica (comunicato del 27 settembre 2012) ha posto all’attenzione del Parlamento la questione “della necessaria riflessione sull’attuale formulazione dell’art. 79 Cost.”, che “oppone così rilevanti ostacoli” al ricorso agli istituti di clemenza generale. Sarebbe dunque necessario ridimensionare i quorum richiesti per l’approvazione della legge di amnistia e indulto, almeno con riferimento alla votazione articolo per articolo. * Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Ferrara
Limiti costituzionali del contributo unificato per l’accesso cumulativo alla giustizia tributaria* di Massimo Greco** (21 dicembre 2014) Sommario: 1. La tutela giurisdizionale del contribuente – 2. Il quadro normativo previgente – Lo ius superveniens della novella disciplina contenuta nella legge di stabilità 2014 - 3. Conclusioni. L’elevato livello di tassazione, in uno alla cosiddetta crisi della quarta settimana che ha contagiato la maggioranza delle famiglie italiane, costringe sempre più i contribuenti italiani a fare la radiografia ad ogni imposta, tributo, tariffa o balzello che viene loro recapitato. Non è infatti più consentito pagare “in bianco” o “in fiducia”. Il cittadino contribuente/utente/consumatore si è attrezzato per scrutinare non solo l’atto tributario, o tariffario, che riceve, ma anche gli atti di normazione primaria e secondaria prodromici, attraverso la lente della legittimità amministrativa ed a volte costituzionale. Tuttavia, mentre per i servizi pubblici, la cui somministrazione è regolata da un rapporto sinallagmatico di natura contrattuale (acqua, luce e gas), la tutela dell’utente/consumatore trova la propria fonte regolatrice nel sottoscritto contratto di utenza e nelle correlate disposizioni del C.C., in presenza di tributi, nel contesto dei quali il rapporto del contribuente non è con il gestore del servizio ma con l’Ente impositore del tributo (Stato, Regione, Ente locale), la tutela avverso la pretesa tributaria diventa più sfumata. 1. La tutela giurisdizionale del contribuente Lo strumento per contestare un atto avente natura tributaria è il ricorso alla competente Commissione Tributaria Provinciale. Appartiene al Giudice amministrativo la giurisdizione relativa alle controversie afferenti gli atti amministrativi prodromici alla pretesa tributaria, mentre appartiene alla Commissione Tributaria la giurisdizione in ordine alle questioni nelle quali costituisce oggetto di contestazione la sussistenza, nell’”an” e nel “quantum”, della pretesa tributaria azionata dall’Ente impositore, impugnandosi in questo caso gli atti impositivi e quindi la specifica obbligazione tributaria ad essi riferita. Alla Commissione Tributaria, in altri termini, residua il potere di disapplicare gli atti amministrativi presupposti alla imposizione1. Ma, poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, per accedere alla Giustizia tributaria occorre pagare il cosiddetto contributo unificato, cioè un altro tributo per remunerare il sistema processuale tributario che viene così attivato attraverso il ricorso del contribuente. In sostanza, il contribuente che attiva lo strumento della Giustizia tributaria deve pagare un contributo unificato il cui ammontare è rapportato al valore della lite. Quindi, all’aumentare del valore della lite il contribuente dovrà remunerare in misura crescente il sistema processuale attivato. Bene, a questo punto bisogna chiedersi se la remunerazione di questo sistema varia in presenza di ricorsi attivati collettivamente e/o cumulativamente dai contribuenti. Allorquando, infatti, la pretesa tributaria lede contestualmente la posizione giuridica di più contribuenti, l’attivazione di un solo ricorso mira decisamente a semplificare il sistema *
Scritto sottoposto a referee.
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Tar Sicilia-Palermo, sent. 02/07/2007 n. 1713.
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processuale. Ovviamente una distinzione va fatta nel caso in cui si sia in presenza di più contribuenti ricorrenti (ricorso collettivo soggettivo) ovvero in presenza di più atti tributari impugnati (ricorso cumulativo oggettivo). Diffusi sono anche diventati i casi di ricorsi contestualmente collettivi e cumulativi, ad esempio in materia di contestazione delle pretese tributarie riferite al sistema di gestione dei rifiuti (TARSU, TIA, TARES, TARI). E’ infatti ammessa l’applicabilità nel processo tributario dell’art. 103 c.p.c., per il quale, come noto, “più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo quando tra le cause che si prepongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni”2. Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, “Ciò è sufficiente per ritenere la legittimità del ricorso congiunto proposto da più contribuenti, anche se in relazione a distinte cartelle di pagamento, ove abbia ad oggetto – come evincibile nella specie dal contenuto dell’atto introduttivo integralmente riportato in ossequio al principio di autosufficienza – identiche questioni dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa”3. Orbene, se il ricorso cumulativo appare, ictu oculi, uno strumento deflattivo del sistema processuale tributario, attesa l’evidente valenza semplificativa (un solo ricorso per impugnare più atti tributari), nessuna rilevanza sembra aversi sull’ammontare del contributo unificato. Infatti secondo il Dipartimento delle Finanze, che sulla questione si è espresso con la Direttiva n. 2/DGT del 14/12/2012, il valore della lite va individuato sul singolo atto tributario impugnato e pertanto il contributo unificato va corrispondo per singolo atto impugnato e ciò, a prescindere dall’eventuale presenza di un ricorso cumulativo. Ovviamente tutti gli Uffici di Segreteria delle Commissioni Tributarie si sono adeguati al citato indirizzo richiedendo, all’occorrenza, l’integrazione del contributo unificato versato sulla base di una erronea valutazione del valore della lite. La questione, che ha recentemente indotto il legislatore a positivizzare l’interpretazione fornita dal Dipartimento delle Finanze, merita di essere approfondita, anche al fine di far emergere eventuali profili d’incostituzionalità della novella disposizione contenuta nella legge di stabilità per l’anno 2014. 2. Il quadro normativo previgente Per una migliore e più compiuta comprensione di tutti gli aspetti della questione occorre procedere a una preliminare rassegna della disciplina normativa di riferimento, alla cui stregua dev’essere giudicata la validità delle pretese tributarie principiando dalla Direttiva n. 2/DGT del 14/12/2012 a tenore della quale “In base a quanto disposto dal comma 5 dell’art. 12 del D.Lgs. n. 546/1992 “per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato”. Soltanto nel caso in cui siano impugnati gli atti di irrogazione delle sanzioni il valore della lite è dato dalla loro somma. Tenuto conto che la norma collega il valore della lite al singolo atto impugnato, in caso di un unico ricorso avverso più atti, si ritiene che il calcolo del contributo unificato debba essere effettuato con riferimento ai valori dei singoli atti e non sulla somma di detti valori”.
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Cass. sent. n. 171/91, n. 10578/2010. Cass. Civ. sent. n. 4490/2013.
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Il Dipartimento delle Finanze sembra interpretare la norma sul contributo unificato alla stregua del concetto utilizzato ai fini della definizione delle liti fiscali cd minori, (DL 98/2011) laddove si è sancito in guisa che, “quando con il medesimo atto introduttivo del giudizio siano stati impugnati, ad esempio, più avvisi di accertamento, si hanno tante liti autonome quanti sono gli avvisi di accertamento impugnati, con riferimento a ciascuno dei quali deve essere calcolato il valore della lite”4. L’autonomia della lite determinerebbe l’autonoma valutazione del contributo dovuto, da ragguagliarsi, singolarmente, al valore di ciascun atto oggetto di impugnazione. Tale interpretazione è stata già contestata in dottrina5. E’ stato altresì affermato dagli addetti ai lavori che “In primo luogo, rileva un argomento di interpretazione letterale. Il comma 5 dell’art. 12 parla di valore della lite con riferimento “all’atto impugnato”, non già al “singolo atto impugnato”. Il testo normativo, finalizzato ad individuare il limite di partecipazione al giudizio in assenza di difesa tecnica, si limita a chiarire quali tra le voci ordinariamente oggetto di recupero (imposta, interessi e sanzioni) vanno considerate al fine di valorizzare il detto limite. Un secondo argomento, di ordine sistematico, rimanda alla corretta individuazione della norma regolatrice gli elementi costitutivi del contributo unificato, ossia, presupposto e base imponibile. Necessita quindi ricostruire la disciplina in vigore”6. L’art. 9 del DPR 115/2002 stabilisce che “è dovuto il contributo unificato di iscrizione a ruolo, per ciascun grado di giudizio, nel processo civile, compresa la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, nel processo amministrativo e nel processo tributario, secondo gli importi previsti dall’art. 13 e salvo quanto previsto dall’art. 10”. L’art.13 del cennato DPR 115 quantifica gli importi dovuti individuati per scaglioni in base al “valore dei processi”; più in generale, l’art. 3 , comma 1 lettera o) definisce processo “qualunque procedimento contenzioso (…) di natura giurisdizionale”. Il comma 6 quater dell’art 13 disciplina il contributo unificato “per i ricorsi principale ed incidentale proposti innanzi alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali”. Il contributo dovuto va calcolato per scaglioni sul “valore della controversia”. Secondo la specifica previsione del comma 3 bis dell’art. 14, nei processi tributari, il “valore della lite”, è determinato ai sensi del comma 5 dell’articolo 12 del D.Lgs. 546/1992. Secondo la propria legge regolatrice, il contributo unificato è quindi dovuto “per il processo”. Può quindi fondatamente assumersi che l’apparente diversa locuzione utilizzata per il contenzioso tributario (controversia o lite) non muti lo spirito dell’imposizione, anche in conformità alle dichiarate intenzioni del legislatore, secondo il quale, il contributo unificato è stato introdotto per realizzare “un’evidente finalità di semplificazione”, eliminando tutti gli incombenti inerenti al procedimento relativi all’imposta di bollo, alla tassa di iscrizione a ruolo, ai diritti di cancelleria, nonché ai diritti di chiamata in causa dell’ufficiale giudiziario7. 4
CFR : Ag Entrate Circ. 48/2011.
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Mariagrazia Buzzone, “Il ricorso cumulativo sconta il <<contributo unificato tributario>> per ciascun atto impugnato”, commento alla Legge di Stabilità 2014, e-book IPSOA, 2014. A. Biscuola, “La base imponibile del contributo unificato nel caso del c.d. ricorso cumulativo oggettivo”, Rass. trib. n. 4/2013.
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Avv. Renato Torrisi, Tesoriere Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati Tributaristi, “Il contributo unificato nel processo tributario. Ricorso cumulativo oggettivo: una interpretazione problematica”, comunicato stampa del 09/04/2013.
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CFR Circ. Min. Finanze n. 33/2007.
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L’interpretazione fornita in seno alla direttiva n. 2/DGT opera una trasposizione dal processo all’atto impugnato. Secondo quanto sopra esposto, si pretenderebbe di commisurare la tassazione in funzione dei singoli atti eventualmente contestualmente impugnati, che quindi rileverebbero singolarmente al fine della individuazione della base imponibile. Tuttavia, tale interpretazione esubera il portato della norma regolatrice del contributo, operando una discriminazione qualitativa tra procedimenti giurisdizionali, per cui quelli in ambito civile, penale ed amministrativo soggiacerebbero alla tassazione del processo mentre quello tributario, diversamente ed immotivatamente, alla tassazione dell’atto. Ciò, non considera il disposto dell’art. 10 c.p.c., laddove è espressamente stabilito che “le domande nello stesso processo contro la medesima persona si sommano tra loro”. Né tiene in conto la giurisprudenza della quinta sezione della Suprema Corte, secondo la quale “il principio del cumulo delle domande stabilito dall’art. 10 cod. proc. Civ., secondo il quale il valore della causa ai fini dell’individuazione del giudice competente, si determina sommando le domande proposte nel medesimo processo contro la medesima persona, e’ applicabile (…) quando le diverse domande sono formulate con lo stesso atto introduttivo del processo”, mentre invece, laddove le domande siano state proposte con giudizi separati e successivamente riunite, il detto principio non si applica in quanto “in questo secondo caso ciascuno dei singoli procedimenti mantiene la propria individualità nonostante l’intervenuta riunione e la competenza per valore deve essere stabilita verificando il valore di ciascuna domanda”8. Più in generale, laddove il contributo unificato è stato introdotto per “razionalizzare e semplificare il regime impositivo connesso all’esercizio dell’attività giurisdizionale”9 l’interpretazione proposta pare privilegiare le finalità di recupero al principio di economia degli atti processuali. Sulla questione si registra un interessante pronunciamento della Commissione Tributaria Provinciale di Bari che, con ordinanza del 22/4/2013, ha sospeso la richiesta del Ministero di ottenere un ulteriore pagamento del contributo unificato da parte di un ricorrente che aveva pagato un solo contributo unificato per vedersi annullare più cartelle di pagamento. Ma vi è di più, con sentenza n. 120/1/13 del 19/07/2013 la Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso, confutando tutte le argomentazioni fornite dall’Ufficio di Segreteria che richiedeva la medesima integrazione del contributo unificato, ha concluso affermando che “l’interpretazione dell’A.F. comporterebbe una ingiustificata discriminazione tra processi giurisdizionali poiché per quello civile (al quale si conforma di massima quello tributario) e per quello amministrativo il CU sarebbe commisurato al valore della lite mentre per quello tributario il CU dovrebbe essere commisurato al valore dei singoli atti contestualmente impugnati. Giova in proposito ricordare che il giudice delle leggi in più occasioni ha ricordato che se di una norma sono possibili diverse interpretazioni (ma non è nemmeno il caso di cui si discute attesa la palese illegittimità dell’interpretazione sostenuta dall’A.F.) deve sempre essere privilegiata l’interpretazione che sia costituzionalmente orientata. Pertanto anche sotto il profilo dell’interpretazione della legge in conformità dei principi costituzionali, deve ritenersi illegittima la tesi dell’A.F.”. Non mancano tuttavia pronunciamenti della medesima giustizia tributaria di segno opposto10.
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Corte Cass. sez. V°, sent. 1.4.2003 n. 4960. Camera dei Deputati - XIV Legislatura, Resoconto della II Commissione permanente Giustizia, seduta del 17.4.2002. 10 Comm. Trib. Prov. Bari, Sez. VIII, sent. n. 182 del 16 ottobre 2013; Comm. Trib. Prov. Frosinone, sent. n. 1218/04/14 del 17/09/2014. 9
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3. Lo ius superveniens: legge di stabilità 2014. Incostituzionalità, per manifesta irragionevolezza, degli artt. 3, 53, 24, 113 e 117, comma 1, della Costituzione. Se l’interpretazione costituzionalmente orientata del citato quadro normativo avrebbe potuto, ragionevolmente, indurci a condividere le ragioni sopra argomentate, l’avvenuta modifica dell’art. 14, comma 3 bis, DPR n. 115 del 2002, ad opera dell’art. 1, comma 559, legge n. 147/2013, suggerisce di affrontare la questione sotto il profilo della costituzionalità. Il nuovo art. 14, comma 3 bis, del DPR n. 115/2002 così recita: “Nei processi tributari, il valore della lite, determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello, ai sensi del comma 5 dell'articolo 12 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e successive modificazioni, deve risultare da apposita dichiarazione resa dalla parte nelle conclusioni del ricorso, anche nell'ipotesi di prenotazione a debito”. La disciplina precedente la citata modifica introdotta con la legge di stabilità per l’anno 2014 non contemplava un trattamento specifico per il ricorso cumulativo, sicchè, come sopra illustrato, vigeva il rinvio formale alla disciplina processualistica (art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546/92) secondo la quale trovava applicazione l’articolo 10 del Codice di procedura civile che, ai fini della determinazione del valore della controversia, introduceva il criterio secondo il quale, qualora l’atto contenga più tributi il valore della lite si identifica esclusivamente con quello del tributo di cui si chiede l’annullamento. Invero, il rinvio alla disciplina generale processualistica risultava perfettamente legittimo anche nella considerazione che il processo tributario è un processo come gli altri, non esistendo un principio che esiga una disciplina speciale. Peraltro, l’organizzazione del processo tributario non sottende alcun interesse fiscale. Orbene, la novella disciplina, nel determinare il valore della lite “per ciascun atto impugnato anche in appello”, escludendo quindi i soli giudizi instaurati davanti la Corte di Cassazione, appare idonea ad incidere direttamente e subitaneamente sulle situazioni giuridiche di coloro che attivano i meccanismi della giustizia tributaria in quanto potenzialmente dotata di efficacia innovativa, generando non pochi vulnus all’ordinamento costituzionale sotto il profilo della irragionevolezza. Da qui l’esigenza di valutare la conformità della modifica dell’art. 14, comma 3 bis, DPR n. 115 del 2002, ad opera dell’art. 1, comma 559, legge n. 147/2013 agli artt. 3, 53, 24, 113 e 117, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui nello stabilire “…il valore della lite per ogni atto impugnato, determinato, per ciascun atto impugnato anche in appello…”, non fa salva, escludendola, l’ipotesi del ricorso cumulativo. In tale cotesto, la natura giuridica del contributo unificato rappresenta il punto nodale del ragionamento qui illustrato e teso a dimostrare la manifesta irragionevolezza della norma censurata. Dalla natura tributaria del contributo unificato derivano infatti tutte le conseguenze qui individuate. Secondo la giurisprudenza costituzionale, “Un tributo consiste in un prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alla pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva; indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria”11. Se una decurtazione patrimoniale integri un tributo, indipendentemente dal nomen juris attribuitele dal legislatore, occorre interpretare la disciplina alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzante la nozione unitaria di
11
Corte Cost. sentt. nn. 91/1972; 97/1968; 89/1966; 16/1965; 45/1964.
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tributo: doverosità della prestazione, collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa in relazione ad un supposto economico rilevante12. Peraltro, sulla specifica natura tributaria del contributo unificato si registra già un pronunciamento della Corte Costituzionale a tenore del quale: “La natura di “entrata tributaria erariale” del predetto contributo unificato si desume infatti, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che lo disciplina: a) dalla circostanza che esso è stato istituito in forza di legge a fini di semplificazione e in sostituzione di tributi erariali gravanti anch’essi su procedimenti giurisdizionali, quali l’imposta di bollo e la tassa di iscrizione a ruolo, oltre che dei diritti di cancelleria e di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario (art. 9, commi 1 e 2, della legge n. 488 del 1999); b) dalla conseguente applicazione al contributo unificato delle stesse esenzioni previste dalla precedente legislazione per i tributi sostituiti e per l’imposta di registro sui medesimi procedimenti giurisdizionali (comma 8 dello stesso art. 9); c) dalla sua espressa configurazione quale prelievo coattivo volto al finanziamento delle «spese degli atti giudiziari» (rubrica del citato art. 9); d) dal fatto, infine, che esso, ancorché connesso alla fruizione del servizio giudiziario, è commisurato forfetariamente al valore dei processi (comma 2 dell’art. 9 e tabella 1 allegata alla legge) e non al costo del servizio reso od al valore della prestazione erogata. Il contributo ha, pertanto, le caratteristiche essenziali del tributo e cioè la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, quale è quella per il servizio giudiziario (analogamente si sono espresse, quanto alle caratteristiche dei tributi, le sentenze n. 26 del 1982, n. 63 del 1990, n. 2 del 1995, n. 11 del 1995 e n. 37 del 1997), con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante”13. Conseguenza della natura tributaria del contributo unificato è che la disposizione normativa censurata contrasta manifestamente coni principi di uguaglianza e della capacità contributiva (artt. 3 e 53 della Costituzione). In presenza di identico costo processuale, trattandosi di un unico processo generato dal ricorso cumulativo e collettivo, i contribuenti sarebbero infatti chiamati a corrispondere un contributo unificato rapportato al singolo atto impugnato e non al singolo processo tributario attivato. In sostanza se il contributo unificato rappresenta la spesa che lo Stato deve sostenere per remunerare il sistema della giustizia tributaria, l’ammontare di questo non può non tenerne conto, pena la violazione del citato principio della capacità contributiva. Il sacrificio che viene richiesto al contribuente è infatti strettamente limitato al perseguimento di quell’interesse pubblico sotteso al finanziamento della giustizia tributaria. Appare quindi evidente, ictu oculi, che il contributo unificato che viene richiesto per l’attivazione di un solo processo, ancorchè finalizzato a chiedere l’annullamento di più atti tributari, è finalizzato a sostenere il costo di quel processo. Se così non fosse, si arriverebbe all’ipotesi assurda di far pagare ai contribuenti ricorrenti, attraverso il contributo unificato, una somma pari a quella che il sistema avrebbe richiesto nel caso di singoli processi tributari attivati a seguito della presentazione di singoli ricorsi. Quindi, i contribuenti dovrebbero sostenere per il processo tributario attivato attraverso il ricorso cumulativo una spesa alla stregua di quella sostenuta per la celebrazione di un numero spesso elevato di processi. Ora, in disparte la violazione di ogni esigenza di semplificazione dei processi, la lesione della capacità contributiva appare in re ipsa.
12 13
Corte Cost. sentt. nn. 141/2009; 335 e 64/2008; 334/2006; 75/2005. Corte Cost. sent. n. 73/2005.
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Ma vi è di più, l’applicazione della novella disposizione comporta un’ingiustificata discriminazione tra processi giurisdizionali (art. 3 Cost.) poiché per quello civile (al quale si conforma di massima quello tributario) e per quello amministrativo il contributo unificato è commisurato al valore della lite mentre per quello tributario risulta adesso commisurato al valore dei singoli atti contestualmente impugnati, con ciò violando il citato principio di uguaglianza. Inoltre, la nostra Costituzione ed i Trattati istitutivi dell’Unione Europea vietano di imporre filtri economici gravosi all’accesso alla giustizia. Se anche nel processo tributario è ammesso il ricorso cumulativo e collettivo, in presenza di identiche questioni giuridiche sottoposte al Giudice per evidenti esigenze di semplificazione processuale, non si comprende perché le medesime esigenze non debbano avere riflessi sui costi per accedere a detto strumento di difesa. Risulta quindi violato anche l’art. 24 della Costituzione, perché subordinando l’utilizzo di uno strumento essenziale di difesa in giudizio, qual’è il ricorso collettivo e cumulativo, al pagamento del contributo unificato rapportato al singolo atto impugnato, si finisce per scoraggiare l’iniziativa di coloro che, collettivamente, vogliono agire in giudizio per la difesa delle proprie ragioni. Per le medesime motivazione risulta altresì violato anche l’art. 113 della Costituzione che, stabilendo che la tutela giurisdizionale “contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa", sancisce un principio teso ad assicurare la pienezza della tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A.. Va da sé, infatti, che onerare il ricorrente di un peso tributario eccessivo, peraltro – come già detto – non rapportato alla remunerazione del sistema processuale, comporta un limite ingiustificato alla tutela giurisdizionale di cui trattasi. Infine, risultano violati ex art. 117, comma 1, della Costituzione, anche i vincoli derivanti dagli articoli 6, 13 e 18 della CEDU, i quali sanciscono rispettivamente il diritto ad un processo equo, ad un ricorso effettivo e al divieto di restrizione dei diritti non strettamente connesse allo scopo per cui sono state previste. Dalla lettura di quanto sopra argomentato appare infatti evidente che l’applicazione della disposizione normativa, che anima la qui impugnata pretesa tributaria, finisce per restringere ingiustificatamente il diritto al “ricorso effettivo”, poiché, attraverso la pretesa integrazione del contributo unificato per singolo atto impugnato anche in presenza di un ricorso collettivo e cumulativo, non si mira a perseguire l’interesse pubblico, ma ad amplificarlo ultroneamente a danno dei contribuenti ricorrenti. A meno di voler sostenere che le esigenze, ancora attuali, legate all’emergenza finanziaria giustificano un siffatto sviamento della causa tipica del contributo unificato. 3. Conclusioni. Non sono in discussione le politiche pubbliche dello Stato italiano volte a mantenere gli impegni assunti con l’Unione Europea ed a ridurre il peso del debito pubblico attraverso la contrazione della spesa pubblica, così come non si obietta sul fatto che per remunerare il sistema processuale tributario venga utilizzata una modalità alternativa e complementare alla fiscalità generale, si vuole soltanto mettere in evidenza che nella cura degli interessi pubblici il legislatore non deve necessariamente prendere scorciatoie, soprattutto allorquando queste presentano invalicabili limiti costituzionali. Appare fin troppo evidente che il pagamento del contributo unificato nel ricorso cumulativo tributario, così come concepito dal Dipartimento delle Finanze prima e dal legislatore dell’emergenza finanziaria dopo, risulta poco compatibile con le esigenze deflattive e semplificative della giustizia 7
tributaria e molto più coerente con le sole esigenze di finanza pubblica. 14. Tuttavia, il principio salus rei publicae suprema lex est non può essere invocato al fine di derogare principi e garanzie stabiliti dalla Costituzione. Del resto, la Corte Costituzionale ha già affermato che neppure l’emergenza economica consente la violazione dei principi costituzionali15. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale.
** Funzionario Direttivo della Regione Siciliana e Cultore di diritto pubblico e comparato all’Università Kore di Enna – massimo.greco@unikore.it
14 15
Corte Cost. sent. n. 307/1983. Corte Cost. sent. n. 307/1983.
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Considerazioni sui profili problematici della decisione della Corte cost. n. 1/2014
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(Testo dell’Audizione informale presso la Giunta delle Elezioni della Camera dei Deputati del 15 ottobre 2014)
di Saverio F. Regasto **
I. Due premesse brevi ma necessarie 1. Com’è universalmente noto, gli effetti temporali di una Sentenza di accoglimento della Corte costituzionale sono regolati dall’art. 136 Cost. nel- la parte in cui prevede che, nel caso di dichiarazione d’illegittimità costituziona- le di una norma di legge, “essa cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Il puntuale contenuto della “cessazione d’efficacia” è, poi, individuato dall’art. 30, della Legge. 87/1953, terzo comma, nella parte in cui statuisce che “le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Autorevole dottrina ha affermato che il legislatore ha tradotto la locuzione “cessazione di efficacia” in “inapplicabilità”, fattispecie del tutto diversa da quella della “abrogazione” (Augusto CERRI)
2. La retroattività delle Sentenze della Corte è insita nel concetto stesso di modello incidentale di controllo di costituzionalità delle leggi ed è la più logica e rigorosa delle interpretazioni possibili; l’illegittimità costituzionale non può non retroagire, perché diversamente non si spiegherebbe come la questione di legittimità sia proponibile ad opera di un giudice, in vista della sorte di un processo subito sospeso nell’attesa della decisione della Corte (Livio PALADIN). Dunque si può senz’altro affermare che (una certa) retroattività possa considerarsi come effetto naturale delle pronunce di accoglimento. II. La “manipolazione” degli effetti temporali delle sentenze “nel passato”. Sembra pacifico che una norma annullata non possa più trovare applicazione nel futuro, ma appare di fondamentale importanza la valutazione degli effetti retroattivi di una pronuncia di accoglimento. Secondo dottrina più autorevole (Gustavo ZAGREBELSKY, Augusto CERRI), gli effetti delle pronunce di accoglimento retroagiscono sin dove la norma incostituzionale ha attitudine a regolare un caso della vita. Dove tale caso non sia più suscettibile di essere rimesso in discussione, per qualsivoglia motivo, l’efficacia retroattiva dell’illegittimità si arresta. La Consulta, peraltro, raramente interviene sugli effetti temporali delle proprie pronunce ma quando ciò è accaduto (Sent. 501/1989) essa ha stabilito un limite alla retroattività, ragionando sulle gravi conseguenze che tale accadimento avrebbe potuto comportare per l’ordinamento giuridico. Si può senz’altro affermare che la Corte “elimina le leggi incostituzionali *Il testo riproduce – dopo aver eliminato errori, refusi e alcune ridondanze – la relazione depositata in occasione dell’Audizione. Lo scritto è affettuosamente dedicato alla cara memoria del Prof. Paolo Cavaleri nel secondo, triste anniversario della Sua prematura quanto repentina scomparsa.
dall’ordinamento” ma, nel contempo, ha cura di non produrre situazioni di maggiori potenziali incostituzionalità. La Corte, nel momento in cui è conscia che una decisione di accoglimento (tipicamente retroattiva nel senso di cui più sopra si diceva) può avere un impatto sulla realtà ordinamentale tale da creare una situazione di maggiore incostituzionalità rispetto a quella che è già stata accertata, ne limita gli effetti nel passato, introducendo la cd. “teoria dei rapporti esauriti”. Nella Sent. 139 del 1984 la Consulta li definisce come “tutti quelli che sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità (ad eccezione della materia penale). Secondo prevalente dottrina, inoltre, vanno considerati esauriti anche i rapporti rispetto ai quali sia decorso il termine della prescrizione o della decadenza previsto dalla legge per l’esercizio dei relativi diritti.”
III. La “manipolazione” degli effetti temporali delle sentenze nel “futuro”. La Corte ha ampiamente sviluppato e consolidato una giurisprudenza cd. “manipolativa” degli effetti temporali pro futuro. Esempi di tale giurisprudenza si hanno nel momento in cui la Corte seppur operando un “riconosci- mento” della non conformità a Costituzione di una norma, non procede alla dichiarazione d’illegittimità (a causa, per esempio, della mancanza di rime obbligate o, con formula decisamente più osé, si direbbe oggi, l’assenza di “rime baciate”; Vezio CRISAFULLI, Costantino MORTATI), limitandosi a formulare un “invito” (che talvolta può essere persino un “monito”) al legislatore affinché intervenga celermente in materia, senza mai esondare verso il ruolo di le- gislatore/attuatore della Costituzione. Eppure l’efficacia della legge incostituzionale non potrebbe mai essere ultrattiva, ossia sopravvivere al tempo di pubblicazione della sentenza di accoglimento (Gaetano SILVESTRI). La Corte, in- somma, “denuncia” e “conferma” il dubbio di costituzionalità, ma emette una decisione di rigetto che contiene un “monito” per il legislatore, in particolare quando, sia pure individuando punti critici, non può sostituirsi alle Camere nella “approvazione” per via giudiziaria, di un nuova disposizione normativa di rango primario. L’invito al legislatore ad intervenire ed il monito (una sorta di spada di Damocle?) di una (futura) declaratoria di incostituzionalità.
IV. Un breve cenno ad altre esperienze costituzionali. In alcuni ordinamenti, i giudici costituzionali hanno la possibilità di graduare l’efficacia delle decisioni nel tempo. La Corte costituzionale austriaca – ed è inutile rammentare che quel modello di giudizio di costituzionalità delle leggi, cd. Verfassungsgerichtbarkeit, è quello che maggiormente ha ispirato i costituenti dell’Europa continentale del secondo dopoguerra – può differire fino ad un anno la dichiarazione d’incostituzionalità di una legge, così da consentire al Parlamento di regolamentare la materia in modo da evitare vuoti normativi. Ai sensi dell’art. 140, c. 5, di quella Costituzione, infatti, “la dichiarazione d’incostituzionalità acquista efficacia dal giorno della pubblicazione, se il Tribunale costituzionale non stabilisce un termine. Tale
termine non può essere superiore a 18 mesi”. Il Tribunale costituzionale tedesco può adottare sia pronunce di “mera incompatibilità” (accerta il contrasto di una norma di legge con la Costituzione ma non ne dichiara l’incostituzionalità), sia optare per una sentenza di “ancora costituzionalità” (la legge è dichiarata legittima solo in via provvisoria dal momento che il giudice costituzionale si riserva la possibilità di dichiarare successivamente l’incostituzionalità qualora il legislatore non intervenga prontamente ad adeguare la normativa nel senso indicato dal Tribunale costituzionale). Talvolta la vacatio delle sentenze opera de iure, come nella Repubblica slovacca “dove talune disposizioni normative cessano di avere efficacia sei mesi dopo la dichiara- zione d’incostituzionalità, qualora l’organo competente non abbia provveduto” (Lucio PEGORARO). Secondo la normativa polacca, infine, il Tribunale costituzionale “specifica la data di cessazione di efficacia dell’atto normativo in questione, sentito il Consiglio dei Ministri”.
V. Se e quando le elezioni delle Camere possono esser correttamente definite “un fatto esaurito”. Sembra arduo sostenere che le elezioni possano considerarsi “esaurite” con la proclamazione degli eletti (atto amministrativo meramente ricognitivo degli esiti delle votazioni emanato da un organo solo apparentemente “giurisdizionale”) per un motivo di semplice logica giuridica. Se, ai sensi dell’art. 66 Cost., ciascuna Camera “giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti” e se tale giudizio può essere sempre fatto valere in corso di legislatura per i più svariati motivi (valga per tutti il recente caso di decadenza, sopravvenuta rispetto all’originaria proclamazione a causa dell’emanazione di una sentenza penale di condanna, che ha riguardato l’ex Presidente del Consiglio), allora l’irreversibile esaurimento dei rapporti si ha solo, per quanto ciò possa essere considerata una tesi eccessivamente formalistica, con la prima riunione delle nuove Camere. A tal riguardo giova rammentare che in passato, in numerosi casi, si è dato luogo alla surroga di Deputati e Senatori a Camere sciolte e persino nella settimana precedente le elezioni. Di conseguenza, in corso di legislatura, il rapporto giuridico con i componenti dell’organo, non può in alcun caso considerarsi come esaurito e perciò la proclamazione degli eletti non può fungere da limite giuridico formale alla naturale retroattività della sentenza d’accoglimento in argomento. Un “sintomo” della “stabilizzazione” del rapporto può ben essere considerato la deliberazione della Camera di cui all’art. 66 Cost. Ma l’audizione odierna è stata richiesta proprio nella fase di formazione della deliberazione di cui sopra! A confutare la rilevanza della proclamazione degli eletti al caso di specie, si dovrebbe considerare anche il fatto che nuovi deputati (e senatori) possono sempre subentrare ai colleghi dimissionari, decaduti o (semplicemente) deceduti. Il rapporto fra Camera e componente subentrante può essere cronologicamente considerato, al momento della proclamazione, come “inesistente”, “non ancora nato”. Dunque, come può considerarsi esaurito un rapporto giuridico non ancora nato?
VI. Il “Considerato in diritto n. 7”: una manipolazione degli effetti temporali pro futuro?
1.La Sentenza n. 1 del 2014 si segnala in dottrina per l’audacia della decisione assunta (incostituzionalità parziale delle legge elettorale vigente), per il superamento dei precedenti (quasi sempre la Corte si è rifugiata nella declaratoria di inammissibilità, come peraltro puntualmente accade quando è chiamata a pronunciarsi su questioni tanto complesse quanto dibattute in dottrina e, in particolare, in Transatlantico o in qualche popolare talk show) e, infine, per l’infortunio (possiamo chiamarlo così) in cui è (forse involontariamente) occorsa nella motivazione in ordine agli effetti temporali. Mentre in passato, in particolare in tema di ammissibilità dei referenda abrogativi, la Corte ha sempre deluso le aspettative, provando ad “eluderle” attraverso la costruzione di motivazioni assai astratte e/o ricorrendo a numerosi bizantinismi procedurali, nella prima sentenza del corrente anno decide, sorprendentemente, di “andare (molto) oltre”… A sommesso avviso di chi scrive forse persino troppo! 2.“E’ evidente […] che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate […], produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale”. Ad una veloce lettura del primo periodo del “considerato in diritto n. 7” sembra che la Corte, con una presa di posizione netta e con una chiarezza a tratti sorprendente, intenda procrastinare in un momento futuro gli effetti della propria sentenza. Siccome, però, l’ordinamento costituzionale vigente non permette tale operazione, come abbiamo succintamente già detto, allora la Corte prosegue nella motivazione attingendo alla teoria dei “rapporti esauriti” ed affermando che “le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime, costituiscono […] un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti”. Ma non solo, al fine di ribadire come anche gli atti che le Camere hanno adottato e che adotteranno sono perfettamente validi, la Corte scomoda il “principio fondamentale della continuità dello Stato”, per cui il Parlamento è un organo costituzionalmente necessario ed indefettibile e quindi non ci può essere né una cesura e men che meno un periodo di vacazione. La Corte, insomma, “prende un granchio”, lo fa, per fortuna, esclusivamente nella motivazione su cui poggia il dispositivo della sentenza (e non, anche, in quest’ultimo), evitando altresì di richiamare la prima con la nota formula “nei sensi di cui in motivazione”. Si è tentato, nel breve appunto che precede, di dimostrare come le elezioni che hanno dato vita alla presente composizione delle Camere non sono un fatto compiuto e, anzi, che ci possono essere nascituri rapporti giuridici (ad esempio il subentro di nuovi deputati a seguito di dimissioni o di altri motivi di cessazione dalla carica)che dovranno essere in un qualche modo, su proposta di questa Giunta, risolti in sede di Assemblea, tenendo nella debita considerazione sia la decisione della Consulta (ivi compreso l’infelice quanto problematico (se non costituzionalmente illegittimo) “considerato in diritto n. 7) sia le disposizioni di rango costituzionale e/o legislativo, con annesse le pacifiche e logiche elaborazioni dottrinarie testé rammentate.
VII. Considerazioni conclusive
Alla luce di ciò, possono sostenersi due tesi, contrapposte ma egualmente fondate, ma esse necessitano e richiedono una certa coerenza argomentativa e una proposta di buon senso: a) Se si ritiene di dover applicare la vigente legge elettorale anche per le parti dichiarate incostituzionali per tutto il corso della presente legislatura si dovrebbe sostenere che la Corte, ai sensi del primo periodo del “considerato in diritto n. 7” (in cui afferma specificamente che gli effetti della sentenza si produrranno in occasione di una nuova consultazione elettorale), ha compiuto una manipolazione pro futuro. Com’è noto la Consulta è un giudice di ultima istanza, le cui sentenze non possono venir disapplicate e quindi affermare che la Corte ha violato la Costituzione sarebbe una tesi tanto grave quanto giuridicamente priva di senso. Tuttavia in una contrapposizione insanabile fra organi di ultima istanza (Corte e Parlamento) avente ad oggetto gli effetti temporali di una decisione, non può esser sottaciuto la conseguenza politicoistituzionale (che prescinde, quindi dal dato giuridico in senso stretto) che vede la Corte “sbagliare” e il Parlamento “disattendere”… Se sul piano giuridico non v’è alcun dubbio che si possa creare una sorta di dicotomia vincitore/sconfitto, tesi corretta/tesi sbagliata, su quello più squisitamente politico-istituzionale si può senz’altro “creare” una zona franca di compromesso che consenta di riaffermare la tenuta complessiva dell’intero sistema costituzionale italiano. b) Si ritiene di applicare (immediatamente) la Sentenza e, quindi, la normativa di risulta. In tal caso il calcolo per eventuali surroghe dovrebbe avvenire senza il premio di maggioranza nell’ambito di una legge elettorale proporzionale i cui correttivi rimangono, sostanzialmente, so- lo le clausole di sbarramento. Non si può sottacere, tuttavia, che in tale circostanza, disattendendo l’errore (o sottolineando e stigmatizzando, appunto, l’errore commesso) della Corte (superando, di conseguenza) il principio che vuole la Consulta come organo di ultima istanza e di chiusura del sistema) si potrebbe finire per travolgere anche gli stessi esiti della consultazione, rendendo persino ragionevole far retroagire le “nuove disposizioni” (prive del premio di maggioranza) alla composi- zione stessa delle Camere. Soluzione radicale, giuridicamente non scorretta, almeno secondo una visione ortodossa, ma politicamente inopportuna, in quanto destinata a provocare, ovviamente, l’anticipata interruzione della legislatura. Non potendo certo sottacere che in tema di legittimazione dei suoi componenti le Camere agiscono – a loro volta – come organi di ultima istanza. Argomentate le tesi, appare opportuno abbozzare una proposta che, senza aver alcun carattere di esaustività e men che meno quello del primato scientifico, prova, in una logica complessiva vocata all’interpretazione sistematica della Costituzione, a soddisfare esigenze contrapposte ed altrimenti inconciliabili. Essa si sostanzia in una applicazione a metà delle motivazioni della Corte, consentendo, da una parte, la conservazione degli esiti della originaria proclamazione attraverso un “definitivo” atto di convalida e, dall’altro, di procedere alle surroghe sulla scorta delle “nuove disposizioni” contenute nella Sentenza n. 1 del 2014. ** Ordinario di Diritto pubblico comparato - Università degli Studi di Brescia
I nuovi spazi di integrazione politica nell’Europa post-Lisbona * di Massimo Rubechi ** (15 dicembre 2014) Questo intervento tenta di offrire tre spunti di riflessione sul complesso tema della demo craticità delle istituzioni europee, alla luce delle innovazioni apportate dal Trattato di Lisbo na. Alcuni degli ultimi sviluppi normativi e istituzionali mostrano infatti come l’integrazione politica europea non sia in una fase totalmente ed esclusivamente recessiva, nonostante il suo recente sviluppo si collochi all’interno di un contesto economico di crisi profonda: co stringendo le istituzioni politiche ed economiche a delle scelte gravose e impopolari, la crisi economica contribuisce ad amplificare l’idea di un’Europa dei tecnocrati e finisce con l'evidenziare soprattutto gli aspetti connessi all'integrazione economica e monetaria. Nonostante oggi gli strumenti giuridici di integrazione politica siano di più, più robusti rispetto al passato, e capaci di produrre dei risultati apprezzabili anche con riferimento al potenzia mento del circuito rappresentativo, le istituzioni eurounionali scontano ancora, almeno in parte, una sorta di suggestione collettiva che fa percepire i processi decisionali come più opachi e il deficit democratico come più profondo di quanto in realtà non siano. Non vi è dubbio che la strada per giungere ad un livello più profondo di democraticità delle istituzioni politiche europee sia ancora lunga, a maggior ragione in un contesto di perma nente, spesso determinante, forza del principio intergovernativo. Tuttavia si ritiene che esi stano, oggi e non in passato, nuovi strumenti istituzionali di integrazione politica, degli embrioni le cui potenzialità espansive non sono state ancora espresse appieno ma che non possono tuttavia essere trascurati. Gli strumenti giuridici di cui si parla sono principalmente tre e investono i rapporti fra il Par lamento europeo e la Commissione, quelli intercorrenti fra i parlamenti nazionali e le prin cipali decisioni a livello europeo, nonché quelli fra i cittadini degli stati membri e le istituzioni. In tutti e tre gli ambiti appena richiamati, il Trattato di Lisbona, 1 entrato in vigore nel dicembre 2009, e le scelte politiche poi in parte istituzionalizzate prese negli anni immedia tamente precedenti, hanno apportato innovazioni che meritano di essere prese in considerazione. Il ruolo del Parlamento europeo nell’elezione del Presidente della Commissione. La Commissione europea, nell'ambito del triangolo istituzionale rappresentato da Consiglio, Commissione e Parlamento, è in qualche modo quella che, accanto al Parlamento, incar na di più una vocazione sovranazionale dell'Unione, potendosi configurare, pur con i dovuti distinguo rispetto agli ordinamenti statuali classici, come l’organo esecutivo dell’Unione europea. Se già in passato numerose erano state le modifiche relativamente al procedimento di nomina soprattutto del Presidente della Commissione, 2 è il Trattato di Lisbona ad aver modificato significativamente il ruolo e le modalità di composizione della Commissione, soprat*
Intervento al Seminario “Quo vadis Europa? Stabilità e crescita nell’ordinamento europeo”, Urbino, 9-10 ottobre 2014. Atti di prossima pubblicazione nel numero monografico di Cultura giuridica e diritto vivente, n. 1/2015. 1 Sul trattato di Lisbona si vedano almeno in generale BASSANINI F. e TIBERI G. (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, il Mulino, 2010 e CANTARO A. (a cura di), Il costituzionalismo asimmetrico dell’Unione. L’integrazione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, Giappichelli, 2010. 2 CURTI GIALDINO C., Elezioni europee del 2014 e scelta del candidato alla presidenza della Commissione europea. I primi passi della procedura, in federalismi.it n. 11/2014 (28 maggio 2014), p. 2. 1
tutto con riferimento al suo rapporto politico con il Parlamento a partire da una rinnovata modalità di elezione. Il Presidente della Commissione prima del Trattato di Lisbona veniva infatti designato dal Consiglio e il Parlamento doveva successivamente approvarne la designazione tramite un voto a maggioranza semplice. L’articolo 17, comma 7 del Trattato dell’Unione Europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona, ha invece previsto il rafforzamento del ruolo del Parlamento nella scelta del candidato alla presidenza della Commissione. Il potere di designazione del candidato continua a spettare al Consiglio, ma esso deve tener conto dell’esito delle elezioni europee. Rispetto al potere di designazione riconosciuto al Consiglio, peraltro, occorre notare come, da Nizza in poi, si sia passati dalla designazione all’unanimità a quella da adottarsi con la maggioranza qualificata degli Stati membri. Il nuovo articolo 17, comma 7, del Tue, recita infatti che: «Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio euro peo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di Presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono». Il successivo passaggio parlamentare non è dunque una sorta di ratifica, a maggioranza semplice, della scelta effettuata dal Consiglio bensì una vera e propria elezione politica del candidato sostenuto dal partito europeo maggiormente rappresentato (e rappresentativo) a maggioranza assoluta3. Ciò è tanto più vero se si considera che la maggior parte dei partiti politici ha scelto di indicare i rispettivi candidati per la Presidenza della Commissione già durante la campagna elettorale: una svolta decisiva per connotare in senso europeo le elezioni per il rinnovo dei membri del Parlamento Ue. In quest’ottica, andavano peraltro la comunicazione della Commissione del 13 marzo 2013 che auspicava la creazione di un legame tra l’elezione dei rappresentanti e quella del candidato alla presidenza della Commissione e la risoluzione del Parlamento europeo del 4 luglio dello stesso anno, in cui si invitava i partiti anche a presentare un programma politico, giungendo a specificare che il partito che avesse ottenuto la maggioranza dei seggi avrebbe avuto la prima opportunità di vedere eletto il suo candidato al vertice della Commissione. Per la prima volta, gli elettori europei hanno dunque percepito che la loro scelta elettorale sarebbe andata oltre la semplice “proiezione rappresentativa” in Parlamento operata tramite la scelta dei membri italiani, ma si sarebbe estesa anche all’individuazione della guida della Commissione. La legittimazione dell'elezione del Presidente rimane ovviamente ancora duplice (intergovernativa e parlamentare) e certamente non si può parlare formalmente di elezione diretta, ma l’opzione dei principali partiti europei di indicare il candidato alla presidenza prima delle elezioni e il voto in Parlamento con la procedimentalizzazione del dibattito sul candidato 4 hanno certamente contribuito a far conoscere i candidati all’elettorato e a creare un embrione di continuum fra la scelta della maggioranza parlamentare e la successiva designazione del capo dell’“esecutivo” dell’Unione europea. 3
Cfr. CARTABIA M., Elezioni europee 2014: questa volta è diverso, in Quaderni costituzionali, n. 3/2014, pp. 715-718, anche in Forum on line di Quaderni costituzionali (25 luglio 2014). 4 Sulle modifiche al regolamento interno del parlamento europeo a seguito delle innovazioni di Lisbona v. FASONE C. e LUPO N., Il Parlamento europeo alla luce delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona e nel suo regolamento interno, in Studi sull’integrazione europea, 7/2012, pp. 329-357 e FIORILLO V., Strasburgo si adegua: le modifiche del regolamento parlamentare europeo in risposta al Trattato di Lisbona, in Forum on line di Quaderni costituzionali, (15 dicembre 2009). 2
La prima applicazione dei nuovi dispositivi ha certamente messo in luce delle criticità 5, per la presenza di forze antieuropeiste che hanno impedito la formazione di una maggioranza solida espressione di uno dei due partiti e hanno condotto alla formazione di una Commissione “di larga coalizione”, per usare una espressione tipica degli ordinamenti nazionali. Vero è, tuttavia, che in una fase di prima applicazione forse la formula della grande coali zione può consentire un adattamento graduale e più armonico alle nuove regole, scongiurando il rischio – tale almeno in prima battuta – di una maggioranza monopartitica di orientamento opposto alla maggioranza del Consiglio, che avrebbe potuto ingenerare tensioni non trascurabili fra la (nuova) legittimazione democratica della Commissione e il (persistente) principio intergovernativo espresso nel Consiglio. Ma al di là degli effetti legati al l’offerta politica di questo nuovo meccanismo istituzionale, le innovazioni istituzionali non si ritiene abbiano perso la loro potenzialità espansiva, quanto meno nel medio o lungo periodo. Il coinvolgimento dei Parlamenti nazionali nel procedimento decisionale Ue. L’introduzione di nuovi strumenti di partecipazione – o anche il rafforzamento di strumenti già esistenti, sin dai tempi di Nizza e Laeken – dei Parlamenti nazionali al decision making process dell’Unione Europea rappresenta uno dei principali assi lungo il quale il Trattato di Lisbona ha inteso rafforzare la democraticità delle istituzioni dell’Unione europea. Lo sforzo è infatti quello di coinvolgere le assemblee rappresentative in un circuito decisionale ancora primariamente di tipo inter-governativo, in una logica di integrazione politica crescente e di partecipazione non solo degli esecutivi ma anche delle assemblee rappresentative degli Stati membri ai processi decisionali in quanto, queste ultime, espressione della sovranità popolare dei singoli Stati. Per comprendere il ruolo svolto dai Parlamenti nazionali a seguito delle novità introdotte dal Trattato di Lisbona occorre rifarsi all'art. 12 del TUE, al protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità e a quello sul ruolo dei Parlamenti nazionali. Ma tra gli strumenti assegnati ai Parlamenti degli Stati membri nella fase ascendente del diritto Ue, cioè nella fase di formazione degli atti e dunque nella fase in cui maggiore è il rilievo del coinvolgimento di soggetti democraticamente eletti, in particolare due sono quelli che assumono particolare rilievo in questa sede: la procedura di early warning e il c.d. “dialogo politico”. La prima è stata sancita dal Trattato di Lisbona, la seconda prende le mosse dalla comunicazione del 10 maggio 2006 della Commissione europea. Sotto il primo versante, i Parlamenti nazionali sono tenuti a vigilare sul rispetto del princi pio di sussidiarietà attraverso le procedure dei cd. cartellino giallo (già presente nel Trattato costituzionale europeo) e arancione, quest’ultimo la vera novità introdotta a Lisbona (v. art. 7 commi 2 e 3 Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionali tà). Tali meccanismi attuano una sorta di «allarme preventivo» o anche «allerta precoce» ( early warning) attraverso cui i Parlamenti nazionali possono, entro otto settimane dalla trasmissione degli atti, formulare dei pareri sulle proposte di atti legislativi e obbligare le istituzioni europee a un riesame (nel caso del cartellino giallo) o azionare un voto in seno al Consiglio o al Parlamento su una «pregiudiziale di sussidiarietà» (nel caso del cartellino arancione). L’interpretazione offerta dalla letteratura scientifica sulla natura dell’early warning non è univoca, poiché vi è una consistente parte che si limita ad riconoscergli un ruolo prevalen5
Su cui v. CECCANTI S., Le elezioni dei quattro vincitori e le possibili conseguenze nel futuro prossimo, in federalismi.it, 8 maggio 2014 e GUASTAFERRO B., La prima volta del Presidente della Commissione “eletto” dal Parlamento europeo. Riflessioni sui limiti del mimetismo istituzionale, in Forum di Quaderni costituzionali (10 ottobre 2014). 3
temente tecnico-giuridico6 secondo cui la procedura dovrebbe limitarsi ad una mera ricognizione della conformità delle proposte legislative europee al principio di sussidiarietà, secondo le procedure definite dalla Commissione nelle sue guidelines. Vi è invece un’altra parte della letteratura7 che, a partire dalla natura politica delle assemblee e dall’impossibilità di fatto delle Camere di limitarsi ad uno stretto e rigoroso esame del solo principio di sussidiarietà, sostiene che i pareri motivati si possano soffermare anche sul merito e sul rispetto del principio di proporzionalità (anche se poi la procedura si attiva solo in caso di violazione del principio di sussidiarietà). L’altro strumento di cui s’è detto è la cd. procedura Barroso. Anche se priva di fondamento giuridico nei Trattati, in quanto sviluppatasi su iniziativa della stessa Commissione (COM (2006) 211 final of 10 May 2006), essa ha dato però avvio ad una prassi consolidata di dialogo tra la Commissione europea e i Parlamenti. Sia le camere politiche, sia anche le camere alte8, esprimono pareri di più ampio respiro e da essi non conseguono vincoli di natura giuridica consistenti in obblighi procedurali precisi, come nel caso dell’early Warning, ma la Commissione si è in più occasioni impegnata a tenerne conto. Con l’entrata in vigore del Trattato, la Commissione avrebbe potuto ragionevolmente considerare superata la procedura del “dialogo politico” in seguito all’introduzione delle procedure dell’early warning. Al contrario, nel suo report annuale (COM(2010) 291 final del 2 giugno 2010) la Commissione ha sostenuto l’importanza di continuare anche con esso perché, a differenza della procedura dell’allerta precoce, consente di avere un più ampio scambio di visioni politiche, che non si limitano all’analisi delle proposte legislative e che vanno al di là dell’esame della conformità al principio di sussidiarietà. A tal proposito, la Commissione ha infatti dichiarato che le due procedure possono essere descritte come due lati della stessa medaglia e che la procedura Barroso permette l’affermarsi di un più ampio rapporto politico tra la Commissione e i Parlamenti nazionali. L’iniziativa popolare europea. L'inserimento nel TUE di riferimenti alla democrazia partecipativa per i cittadini dell'Unione è anch'esso un residuo di un’idea già presente nel Trat tato costituzionale europeo. Tra di essi, viene in rilievo quanto introdotto all'art. 11 TUE: l’i niziativa popolare europea o iniziativa dei cittadini europei (European Citizens’ Initiative cd. ECI).9 La disposizione prevede che «I cittadini dell'Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare 6
V. almeno KIIVER P., The Early Warning System for the Principle of Subsidiarity. Constitutional theory and empirical reality, London and New York, 2012: Routledge; FABBRINI S. e GRANAT K., ‘Yellow Card, But no Foul’: The Role of the National Parliaments Under the Subsidiarity Protocol and the Commission Proposal for an EU regulation on the right to strike’, in Common Market Law Review, Vol. 50, 2013, pp. 115-144. 7 In Italia v. LUPO N., ‘National and Regional Parliaments in the EU decision-making process, after the Treaty of Lisbon and the Euro-crisis’, in Perspective on Federalism, Vol. 5, No. 2/2013. 8 Sul ruolo delle seconde camere v. ROMANIELLO M., Beyond the Constitutional ‘Bicameral Blueprint’: Europeanization and National Identities in Belgium, in M. CARTABIA, N. LUPO e A. SIMONCINI (a cura di), Democracy and Subsdiarity in the EU. National Parliaments, Regions and Civil Society in the Decision-Making Process, Series 'Percorsi- Nova Universitas', Il Mulino: Bologna, 2013, pp. 285-318. 9 In generale si vedano sul tema: ALLEGRI G., Il diritto di iniziativa dei cittadini europei (ECI) e la democrazia partecipativa nell’Unione europea: prime riflessioni, in federalismi.it, n. 23/2010; BOVA C., Il diritto d’iniziativa dei cittadini europei ed i confermati limiti dell’iniziativa legislativa popolare in Italia, in Forum on line di Quaderni costituzionali, 2010, pp.1-13; DAU F., La democrazia partecipativa alla prova dell’ordinamento comunitario. L’iniziativa legislativa dei cittadini europei, in Diritto pubblico comparato ed europeo online n. 2014-1, pp. 1-15; DE TOGNI G., L’iniziativa dei cittadini europei (Ice). Tra democrazia rappresentativa e prove di democrazia partecipativa, in Osservatorio costituzionale AIC, settembre 2014. 4
una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei Trattati.» Il diritto di iniziativa popolare è esercitabile dinanzi la Commissione, istituzione predominante nell'iniziativa legislativa e dunque si tratta di uno strumento nuovo e importante di in terlocuzione dei cittadini nei confronti delle istituzioni europee, che si affianca al diritto di petizione,10 esercitabile dagli stessi nei confronti, invece, del Parlamento. Si è dato attuazione a tale disposizione con il Regolamento (UE) n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, riguardante l’iniziativa dei cittadini. Il numero minimo di Stati membri da cui i cittadini sostenitori dell’iniziativa devono provenire insieme al numero minime di firme per ciascun Stato sono stati i temi principalmente dibattuti nell’ambito tanto della procedura di consultazione sul primo Libro verde della Commissione (COM (2009)622) quanto di quella relativa alla vera e propria bozza di regolamento. Questo non per un mero esercizio procedurale o formale ma per garantire che l’iniziativa dei cittadini fosse effettivamente rappresentativa di interessi dell’intera Unione. È stato infine stabilito che ciascuna ECI debba essere sottoscritta da cittadini provenienti da almeno un quarto degli Stati membri (attualmente, con l’Europa a 28, la quota è pari a 7), come peraltro suggerito all’epoca anche dalla I Commissione affari costituzionali del Senato italiano, che giudicò eccessivamente onerosa la proposta iniziale di un terzo degli Stati membri11. Il regolamento n. 211/2011 prevede, inoltre, una soglia fissa di firme per ciascuno Stato membro, in proporzione decrescente rispetto alla popolazione rispettiva, per non svantaggiare comparativamente gli Stati più popolosi, vincolando tale parametro al numero di eu roparlamentari eletti in ciascuno di essi 12. Avendo legato il numero minimo di firme da raccogliere in ciascun Stato membro al numero di membri del Parlamento europeo eletti in ognuno di essi, una volta modificata la composizione del parlamento europeo nel 2011 è stato peraltro necessario rivedere subito anche il numero di firmatari necessario 13. La Commissione non è tenuta a trasformare l’ECI in una propria proposta di atto legislativo ma ha un obbligo di risposta al comitato proponente, a cui è tenuta a motivare, entro tre mesi dalla ricezione dell’iniziativa, la scelta di proseguire o meno l’iter legislativo. Così come entro lo stesso termine il comitato promotore ha il diritto di presentare l’iniziativa in un’audizione pubblica presso il Parlamento europeo (artt. 10 e 11 del regolamento). Queste disposizioni, accanto alla possibilità di raccolta firme anche in modalità elettronica e alla pubblicità dell’intera procedura – assicurata da un portale ufficiale ove si trovano documentate tutte le varie fasi e l’interlocuzione con la Commissione – contribuiscono a dare ampia rilevanza politica a questo istituto di democrazia partecipativa. Senza sottovalutare il fatto che una siffatta iniziativa politica su così ampia scala, coinvolgendo un numero di cittadini sufficientemente consistente per ogni Stato e decisamente diffuso in tutto il territo 10
MEZZANOTTE M., Il diritto di petizione nell’Unione europea: strumento davvero mineur?, in federalismi.it, n. 21/2012. 11 Si veda la Risoluzione Doc. XVIII n. 27 del 28 aprile 2010, adottata dalla I Commissione nella cd. fase ascendente su preparazione di atti comunitari. 12 Più precisamente il numero minimo di firmatari richiesti in ciascuno Stato membro dovrebbe essere pari al numero di membri del Parlamento europeo eletti in ciascuno Stato membro moltiplicato per settecentocinquanta (art. 7 par. 2 del Regolamento). È interessante notare come con quest’ultimo calcolo numerico si sia creato un ulteriore collegamento, ancorché di carattere concettuale, tra un istituto di democrazia partecipativa e il Parlamento, organo che incarna quella democrazia rappresentativa su cui dichiaratamente l’Unione si fonda (art. 10 TUE). 13 L’allegato 1 del Regolamento, recante la tabella con il numero minimo di firmatari per stato membro è stato infatti successivamente modificato con il Regolamento delegato (UE) n. 268/2012. L’ordinamento italiano a sua volta ha indi viduato le modalità attuative del Regolamento n. 211/2011 con il D.P.R. 18 ottobre 2012 , n. 193, nel quale è stato stabilito che il Ministero dell’interno è autorità competente per la verifica e la certificazione delle dichiarazioni di sostegno delle iniziative dei cittadini, mentre l’Agenzia per l’Italia Digitale è competente per la certificazione dei sistemi di raccolta elettronica. 5
rio dell’Unione, non può che avere un'eco sulle decisioni che la Commissione europea è chiamata a prendere. Anche se la presentazione di un’iniziativa legislativa popolare europea non determina l’attivazione di procedure legislative rinforzate né un obbligo di esame, si tratta dunque di un istituto che, seppur nel suo essere ancora ad uno stadio embrionale, può contribuire a riavvicinare le istituzioni ai cittadini, tramite una interlocuzione diretta e mirata di questi ultimi14. L’introduzione di questi tre principali strumenti risponde ad un triplice tentativo di allargamento delle basi democratiche e di offrire nuovi spazi integrazione politica nelle istituzioni dell’Unione europea, da sempre considerate lontane dai cittadini e viziate da un deficit di democraticità complessivo. Il primo tentativo è stato operato tramite una più marcata connotazione politica delle ele zioni europee, attraverso una indicazione popolare del leader della Commissione da parte di ciascun partito che certamente contribuisce a rendere il momento elettorale non solo un momento di confronto fra forze politiche nazionali ma anche un vero e proprio voto (anche) per il governo unico europeo. Ovviamente il principio interstatuale rimane decisivo e particolarmente marcato nella definizione dell’indirizzo politico nella determinazione di una ipotetica «forma di governo» dell’Unione europea, ma è indubbio che viene rafforzata la politicità sia dei partiti europei sia del vertice della Commissione. Parimenti viene rafforzato il ruolo del Parlamento europeo, che non diviene più il mero esecutore delle scelte del Consiglio in tema di individuazione del Presidente della Commissione, ma diventa soggetto politico di primo piano. Il secondo profilo è quello della partecipazione delle assemblee rappresentative nazionali alla fase di predisposizione (ascendente) degli atti legislativi europei, tramite la procedura dell’early warning e quella del dialogo politico. Questo senza peraltro dimenticare, come portato più o meno diretto e certamente come prodromo di un loro rafforzamento, il dialogo interparlamentare15 già esistente (tramite, in particolare ma non in via esclusiva, la Cosac). Anche questi profili contribuiscono all’allargamento delle basi della democrazia europea e gli spazi di confronto politici, poiché permette una interlocuzione politica (pareri) e giuridico-politica (pareri motivati/early warning) fra le istituzioni europee e le assemblee rappresentative nazionali e non solo fra le prime e gli organi di governo dei singoli stati membri. Il terzo ed ultimo profilo mira invece a rafforzare un legame diretto fra i cittadini e le istituzioni, nel contesto degli istituti di democrazia diretta anziché solo di quella classicamente rappresentativa. La scelta di introdurre l’iniziativa legislativa popolare potrebbe costituire – a livello europeo più che a livello nazionale – un modo decisivo attraverso cui avvicinare i cittadini degli Stati membri al livello centrale, considerato il numero significativo di firme ri chieste, il numero dei paesi coinvolti e il consenso da ottenere necessariamente in ciascuno Stato, che certamente rende complessi i potenziali tentativi di arginare la portata di tale strumento. Insomma, se è vero che la crisi economica e le conseguenti misure tecniche restituiscono l’immagine di un’Europa distante e burocratica in cui la politica viene sostituita dalla tecni ca e dal rigore, gli sviluppi degli istituti giuridici riscontrati negli ultimi anni sembrano portare ad un rafforzamento della democraticità delle istituzioni: a partire dalle modalità di scelta del Presidente della Commissione, passando per il coinvolgimento delle assemblee legi slative nazionali, sino all’intervento diretto dei cittadini. Le ultime riforme istituzionali euro14
Ad oggi sono state finora presentate 49 iniziative, a circa una ventina delle quali è stata negata la registrazione per carenza dei requisiti regolamentari, mentre tra le rimanenti, solo 7 hanno finora raggiunto il numero di firme necessarie e sono state presentate alla Commissione o sono in procinto di esserlo Cfr. http://ec.europa.eu/citizensinitiative/public/welcome. 15 In generale sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea si veda M. OLIVETTI, voce Parlamenti nazionali nell’Unione europea, in Digesto delle discipline pubblicistiche. Aggiornamento, Torino, Utet, 2012, p. 565ss. 6
pee tentano, in altre parole, di mettere, seppur timidamente, i cittadini e la politica al centro delle decisioni prese a livello europeo. Si tratta, ovviamente, di tentativi – di embrioni, per riprendere la metafora usata in avvio –, i quali devono dimostrare alla prova dei fatti se le loro (significative) potenzialità si trasfor meranno in reali allargamenti degli spazi di integrazione politica nell’Europa post-Lisbona. Ma i segnali, senza dubbio, ci sono. ** Ricercatore t.d. di Diritto costituzionale – Università degli Studi di Urbino Carlo Bo massimo.rubechi@uniurb.it
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Un nuovo cantiere di riforme per la Quinta repubblica: l’adozione delle proposte della commissione Jospin * di Rino Casella ** (10 dicembre 2014) Sommario: 1. Le riforme istituzionali nel programma elettorale di Hollande– 2. L’avvio del mandato presidenziale e la nomina della commissione Jospin – 3. Le proposte della commissione: una rappresentanza politica rinnovata e un esercizio esemplare delle funzioni pubbliche – 3.1. Un’elezione presidenziale modernisée – 3.1.1. La riforma del meccanismo di presentazione delle candidature presidenziali – 3.1.2. La modifica delle regole di finanziamento della campagna presidenziale – 3.1.3. La nuova regolamentazione dell’accesso dei candidati presidenziali ai media audiovisivi – 3.1.4. Gli interventi sul calendario elettorale – 3.2. Un parlamento più rappresentativo – 3.2.1. L’introduzione di una componente proporzionale nell’elezione dell’assemblea nazionale – 3.2.2. La riforma del collegio elettorale del senato – 3.2.3. Le misure per facilitare l’accesso delle donne al mandato parlamentare – 3.3. Una condotta esemplare da parte dei rappresentanti eletti e dei funzionari pubblici – 3.3.1. Il divieto di cumulo dei mandati – 3.3.2. La riforma dello statuto del presidente della repubblica e la soppressione del privilegio di giurisdizione dei ministri – 3.3.3. La prevenzione dei conflitti di interesse – 4. L’adozione delle proposte dalla commissione – 4.1. I progetti di legge di revisione costituzionale presentati dal governo Ayrault – 4.2. L’introduzione del divieto di cumulo tra mandato parlamentare e funzioni esecutive locali – 4.3. L’approvazione della legge sulla «trasparenza della vita pubblica» – 4.4. La riforma del sistema di elezione del senato e le misure per favorire la parità di genere nelle elezioni politiche – 5. La natura delle riforme adottate tra rinnovamento democratico e sostanziale continuità istituzionale.
1. L’attuale crisi politica francese e le sue potenziali conseguenze sulla stabilità della Quinta repubblica hanno posto in ombra il programma di riforme politico-istituzionali presentato da Hollande durante la campagna elettorale presidenziale, nonché i risultati che sono scaturiti, nei primi due anni del quinquennato, dal processo avviato per la sua attuazione1. Com’è noto, già nel marzo 2012, in un discorso pronunciato a Digione nel corso della campagna elettorale per l’Eliseo, Hollande aveva indicato le nuove direttrici lungo le quali avrebbe esercitato il proprio mandato presidenziale, differenziandosi dalla pratica politico-istituzionale fino ad allora adottata da Sarkozy. Secondo il candidato socialista all’Eliseo, tali cambiamenti dell’assetto della Quinta repubblica non dovevano scaturire da un’ampia riforma del sistema costituzionale quanto piuttosto dal recupero di quei principi, come il «rispetto, la considerazione, la democrazia e il senso dello Stato» 2, alla base del rapporto tra cittadini e istituzioni, ma oscurati proprio dall’«onnipresidenza» sarkozienne, Quest’ultima, incentrata su una logica istituzionale volta invece ad assicurare «il regime di un solo uomo», aveva infatti determinato, secondo Hollande, una concentrazione dei poteri presidenziali destinata a produrre al vertice dello Stato una sostanziale «impotenza» e soprattutto una permanente «irresponsabilità» 3. Per Hollande, invece, il futuro presidente della repubblica, nel porsi come «esempio» all’intero Paese, doveva dimostrarsi politicamente indipendente (rinunciando tra l’altro ad assumere la leadership del proprio partito) e limitarsi a operare solo le scelte politiche essenziali, in modo da lasciare al governo il compito di determinare e condurre la politica nazionale. Inoltre, il capo dello Stato era tenuto a rispondere costantemente del proprio operato di fronte ai cittadini attraverso il rispetto di alcuni precisi impegni * Scritto sottoposto a referee. 1 Sul punto, fra tutti, P. JAN, La Ve République. La tragédie institutionnelle, in Le Huffington Post, 26-08-14; L. BOUVET, François Hollande sauvé et piegé par les institutions de la Ve République, in Le Monde, 26-08-14. 2 Cfr., Discours de François Hollande à Dijon , 03-03-12, p. 2. 3 Per Hollande, infatti, «a voler concentrare tutti i poteri, si finisce per non esercitarne nessuno»(ibidem). In merito, si veda P. JAN, La conception Hollandaise de la Présidence de la République, in Droitpublic.net, 04-03-2012.
2 istituzionali: esporre la propria linea politica, confrontare periodicamente i risultati raggiunti con le scadenze programmatiche, assicurare al parlamento gli strumenti necessari al controllo delle politiche pubbliche e verificare annualmente la sussistenza del rapporto fiduciario tra il governo e l’assemblea nazionale. Nel suo manifesto programmatico di sessanta proposte 4, Hollande indicava la necessità di garantire una «république exemplaire» fondata su una presidenza capace di garantire «l’imparzialità dello Stato, l’integrità degli eletti e il rispetto dei contro-poteri» e si impegnava a realizzare una serie di riforme in ambito politico e costituzionale tra cui spiccavano, tra le altre, la modifica dello statuto penale del capo dello Stato, la soppressione della categoria dei membri di diritto (gli ex presidenti della repubblica) del consiglio costituzionale, l’aumento del potere di iniziativa e controllo del parlamento, adozione di una legge sul divieto di cumulo dei mandati, il rafforzamento della parità di genere con l’inasprimento delle sanzioni finanziarie a carico dei partiti inadempienti e l’introduzione di una quota proporzionale nell’elezione dell’assemblea nazionale. 2. Al momento dell’insediamento ufficiale all’Eliseo come nuovo presidente della Quinta repubblica, Hollande, nell’assumersi tutte le «eccezionali responsabilità» connesse all’haute mission affidatagli dagli elettori, dichiarava, in linea con la doctrine de Dijon, di voler svolgere un ruolo politico-istituzionale non più caratterizzato da un’interpretazione eccessivamente estensiva dei propri poteri. Per il nuovo presidente della Cinquième, il capo dello Stato non doveva infatti decidere «di tutto, per conto di tutti e dappertutto», ma solo fissare le «priorità» nazionali, ovvero adottare un’«esemplare»5 condotta istituzionale in grado di riguadagnare la fiducia dei cittadini. Dopo poche settimane, la necessità di adottare un’iniziativa volta a garantire proprio tale exemplarité au sommet de l'État veniva ribadita ufficialmente dal presidente Hollande nel corso della tradizionale intervista televisiva del 14 luglio. In tale occasione, il capo dello Stato annunciava la nomina di una commissione, presieduta dall’ex primo ministro socialista Lionel Jospin e composta di esperti espressione di tutte le diverse sensibilità politiche, con l’incarico di formulare, in breve tempo, proposte per assicurare la «moralizzazione» e il «rinnovamento» della vita politica e istituzionale della Quinta repubblica, come il divieto del cumulo dei mandati elettivi a carico dei parlamentari, l’adozione del principio della rappresentanza proporzionale per l’elezione di una quota dei seggi dell’assemblea nazionale, la riforma del sistema elettorale del senato, l’introduzione di una nuova disciplina del finanziamento della vita politica, l’elaborazione di codici etici per tutti gli eletti a cariche pubbliche finalizzati a prevenire i conflitti di interessi 6. Il 16 luglio, con il decreto n. 2012-875, Hollande istituiva infatti, sul modello di altri precedenti comitati e commissioni de réflexion aventi il compito di elaborare proposte destinate alla successiva redazione di progetti di legge anche di revisione costituzionale 7, la «Commissione per il rinnovamento e la deontologia della vita pubblica», presieduta, come preannunciato, dall’ex primo ministro socialista Lionel Jospin e composta da 4
Cfr., F. HOLLANDE, Élection Présidentielle 22 Avril 2012 Le changements c’est maintenant», Mes 60
engagements pour la France, 2012.
5 Il testo completo del discorso di investitura di Hollande è disponibile sul sito dell’Eliseo. 6 Cfr., Interview du 14 juillet du Président de la République, pp. 31-32.
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Cfr., comité consultatif pour une révision de la constitution presieduto da Georges Vedel nel 1993 ;
commission de réflexion sur la justice presieduta da Pierre Truche nel 1997; commission de réflexion sur le statut pénal du president de la république presieduta da Pierre Avril nel 2002; comité de réflexion et de proposition sur la
3 magistrati, professori universitari e alti funzionari, fissando al 15 novembre successivo il termine entro cui avrebbe dovuto concludere i propri lavori 8. Nella lettre de mission, annessa al decreto istitutivo, il capo dello Stato indicava gli obiettivi della commissione, precisando che le riforme da essa proposte potevano essere adottate sia con una revisione costituzionale che con una legge organica e ordinaria. Hollande, nello specifico, chiedeva ai “saggi” non di pronunciarsi sull’equilibrio generale delle istituzioni della Quinta repubblica, ma di rispondere a cinque precise domande ritenute centrali per il rinnovamento della vita pubblica francese: definire le condizioni necessarie a migliorare lo svolgimento dell’elezione presidenziale, posti il vigente sistema di patrocinio (parrainage) delle candidature, il meccanismo di finanziamento della campagna elettorale e la disciplina relativa all’eguale accesso dei candidati alla radio e alla televisione; esprimersi sul calendario delle elezioni legislative che seguono quelle presidenziali; valutare la fattibilità di riforme costituzionali volte, da un lato, a «far evolvere» lo statuto penale del capo dello Stato e, dall’altro, a sopprimere la “corte di giustizia della repubblica” (cour de justice de la république), competente, com’è noto, a giudicare i membri del governo per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni; proporre una riforma dei sistemi elettorali dell’assemblea nazionale e del senato in grado sia di assicurare una distribuzione dei seggi più proporzionale e il rafforzamento della parità di genere tra gli eletti; indicare le soluzioni più idonee a impedire il cumulo dei mandati dei parlamentari e degli incarichi ministeriali con l’esercizio di funzioni esecutive locali, a prevenire i conflitti di interesse dei membri delle camere, del governo e degli alti funzionari dello Stato e a garantire, attraverso l’elaborazione di regole deontologiche, la trasparenza della vita pubblica. La commissione, il 9 novembre 2012, al termine dei propri lavori, svoltisi, attraverso quindici riunioni, dal 25 luglio al 30 ottobre, presentava al presidente della repubblica un rapporto intitolato Pour un renouveau démocratique contenente 35 proposte di riforma formulate in risposta alle richieste avanzate dallo stesso Hollande 9. I “saggi”, così come modernisation et le rééquilibrage des institutions de la Ve Republique diretto da Edouard Balladur nel 2007; comité de réflexion sur le preambule de la constitution presieduto da Simone Veil nel 2008; commission de réflexion pour la la prévention des conflits d’intérêts dans la vie publique diretta da Jean-Marc Sauvé nel 2010. Sull’adozione della procedura seguita in Francia, in riferimento all’attività della commissione per le riforme costituzionali (“commissione dei 42”) istituita dal governo Letta nel giugno 2013, in modo così da «evitare che la formulazione delle proposte sia influenzata o resa impossibile dai dissidi presenti tra maggioranza e opposizione», F. FERRONI, La riforma del sistema bicamerale nella relazione del Comitato dei saggi: un crocevia per le riforme?, in Forum costituzionale, 11-11-13. 8 Cfr., d. n. 2012-875 del 16-07-2012, in Journal Officiel, n. 164 del 17-07- 12, p. 11680, testo n. 2. Dei tredici membri della commissione (sette uomini e sette donne), due erano personalità politiche (oltre allo stesso Jospin, l’ex ministro Roselyne Bachelot), sette professori e accademici (Julie Bénetti, Jean-Claude Casanova, Wanda Mastor, Ferdinand Mélin-Soucramanien, Agnès Roblot-Troizier, Dominique Rousseau ed Hélène Ruiz-Fabri), tre magistrati (Chantal Arens, Jean-Louis Gallet e Olivier Schrameck) e due alti funzionari dello Stato (Jean-Pierre Duport e MarieChristine Lepetit). Da sottolineare come due membri (Olivier Schrameck e Jean-Claude Casanova) fossero già stati componenti del comité Balladur. Sui timori sorti nell’ambiente politico-parlamentare circa la composizione e il ruolo della commissione, J. BENETTI, Le Parlement et la Commission Jospin: levons les malentedus!, in Constitutions, n. 4, 2012, pp. 564 ss.. Sulla natura del mandato ricevuto dai “saggi”, F. MÉLIN-SOUCRAMANIEN-D. ROUSSEAU-B. MATHIEU, La Commission Jospin, premier bilan et prespectives, ivi, n. 1, 2013, pp. 28 ss.. 9 COMMISSION DE RÉNOVATION ET DE DÉONTOLOGIE DE LA VIE PUBLIQUE, Pour un rénouveau démocratique, in seguito citato solo come Rapport). Sul forte legame tra le risultanze della commissione e le indicazioni
4 richiesto dalla lettre de mission, indicavano le soluzioni operative da adottare, ma non allegavano al rapporto alcun organico progetto di legge, così da non anticipare la soluzione normativa – legge costituzionale, organica, ordinaria o decreto – giudicata dal governo e dal parlamento più idonea alla messa in opera delle riforme proposte, né tantomeno indicavano, a differenza delle commissioni Vedel e Balladur, le modifiche testuali da apportare alle disposizioni costituzionali oggetto della loro riflessione 10. 3. Secondo la commissione, spetta alla république, fondata sulla condivisione di una serie di valori fondamentali e sull’adesione dei cittadini alle istituzioni, prevenire i rischi cui è esposta la democrazia francese, sempre più afflitta da una vera e propria «crisi di fiducia»11. Quest’ultima, aggravata dalla perduranti difficoltà economiche del Paese e dalla crescente insoddisfazione per l’azione svolta dai pubblici poteri, rischia infatti di determinare una perdita di legittimità dell’intero sistema istituzionale, posto che nessun responsabile politico o funzionario pubblico è ormai considerato «pienamente legittimo» 12 solo in ragione del proprio mandato elettivo o dell’essere stato assunto per concorso o grazie alla propria competenza tecnica. In altri termini, secondo la commissione, le attese dei cittadini francesi, nel porre in discussione tanto «le modalità di accesso» alle cariche pubbliche quanto «le condizioni» nelle quali esse sono esercitate, impongono di aprire «il cantiere del rinnovamento della vita pubblica»13 e, all’interno di esso, di sviluppare l’azione riformatrice lungo due direttrici (a cui fanno riferimento le parti in cui è stato articolato il rapporto finale). Così, riguardo l’accesso alle cariche elettive, per la commissione è necessario intervenire sulle condizioni di svolgimento della competizione elettorale affinché possano garantire un confronto equo ed una giusta rappresentanza (parte I: Una rappresentanza politica rinnovata). A tale scopo, i “saggi” propongono di riformare alcuni profili della disciplina dell’elezione presidenziale relative alle condizioni della candidatura, alle modalità di svolgimento della campagna elettorale e alla configurazione del calendario elettorale, nonché di accrescere la rappresentatività del parlamento attraverso una modifica del sistema elettorale sia dell’assemblea nazionale che del senato. Per i sages è necessario anche garantire che tutti i titolari di cariche pubbliche siano sempre chiamati a rispondere del proprio operato, così da consacrarsi pienamente alla propria missione senza venir meno agli impegni assunti nei confronti dei cittadini e senza poter godere di alcuna indebita immunità volta a sostanziarsi nella previsione di ingiustificate deroghe al diritto comune (parte II: Un esercizio esemplare delle funzioni). In questa prospettiva, il Rapport propone così degli interventi riformatori finalizzati a superare la pratica del cumulo di un mandato parlamentare e di un incarico ministeriale con l’esercizio di funzioni esecutive locali, a modificare la disciplina della responsabilità del presidente della contenute nella lettre de mission del capo dello Stato, si vedano D. BARANGER e O. BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, in Revue française de droit administratif (RFDA), 2013, p. 390 e il loro richiamo alla «logica puramente presidenziale» del rapporto. 10 Rapport, p. 5. 11 Ibidem, p. 3. 12 Ibidem. 13 Ibidem.
5 repubblica, a sopprimere il privilegio di giurisdizione previsto per i ministri e a prevenire i conflitti di interesse nella vita pubblica. 3.1. Per la commissione, il compito di moderniser l’elezione presidenziale impone una «riflessione d’insieme» che tenga conto dell’indiscussa centralità assunta da tale consultazione nella dinamica della democrazia francese, sempre più intesa dai cittadini come «momento privilegiato» di partecipazione attiva alla vita politica nazionale, nonché dell’opportunità di proporre, in armonia con quanto previsto dalla lettre de mission, solo quelle riforme giudicate realmente «utili» e suscettibili di essere adottate in una fase politica ancora non condizionata dall’avvio della campagna elettorale per la scelta del capo dello Stato. Così, i “saggi”, una volta valutata come «globalmente positiva» l’elezione presidenziale, ritengono necessaria la riforma del meccanismo di presentazione delle candidature in quanto non più corrispondente «alle esigenze di una democrazia moderna», si limitano a proporre solo alcune modifiche della disciplina relativa al finanziamento della campagna elettorale e all’eguale accesso dei candidati ai media audiovisivi e considerano infine «conforme alla logica istituzionale» 14 il calendario adottato per lo svolgimento delle elezioni presidenziali e di quelle legislative. 3.1.1. Com’è noto, nella Quinta repubblica, ogni aspirante alla carica di presidente della repubblica è tenuto, tra l’altro, ad assicurarsi il parrainage di almeno 500 eletti a livello locale e nazionale. Tale meccanismo di presentazione delle candidature è il risultato delle modifiche progressivamente apportate nel tempo alla disciplina (legge organica n. 62-1292) adottata nel 1962 dopo l’introduzione dell’elezione popolare diretta del capo dello Stato allo scopo di ridurre il numero dei présidentiables fantasiosi o espressione di interessi meramente localistici 15. Originariamente, infatti, i parrainages richiesti erano 100, ma la legge organica n. 76-528 del 18 giugno elevò il loro numero alla cifra attuale, ampliò la loro distribuzione territoriale attraverso la previsione di una clausola di rappresentatività nazionale (trenta dipartimenti o collettività d’oltremare, con un massimo di un decimo per ogni dipartimento o collettività) e affidò al consiglio costituzionale il compito di predisporre la lista pubblica dei patrocinanti richiesti a ogni candidatura per poter validamente partecipare alla competizione presidenziale. Successivi interventi normativi hanno aggiunto da un lato nuove categorie di presentatori (come, tra gli altri, i rappresentanti della Francia al parlamento europeo e i titolari di un mandato regionale, il presidente della Polinesia francese e del governo della Nuova Caledonia) 16, dall’altro modificato alcuni profili organizzativi del meccanismo, consentendo al consiglio costituzionale di 14 Ibidem, p. 9. 15 Prima della revisione del 1962, i candidati alla presidenza della repubblica dovevano essere patrocinati da almeno 50 membri del collegio di 80.000 elettori originariamente previsto dal testo costituzionale. Sull’evoluzione del sistema di presentazione delle candidature presidenziali, C. GUETTIER, Les candidats à l’élection présidentielle sous la Ve République, in Revue du droit public, 1, 1990, pp. 49 ss; J.-P. CAMBY, Le Conseil et les cinq cents: les “parrainages” des candidats à l’élection présidentielle, ivi, 3, 2002, pp. 595 ss.; P. JAN, La sélection des présidentiables, une question ancienne et en devenir, ivi, 2, 2007, pp. 547 ss. ; F. MÉLIN-SOUCRAMANIEN, Devenir candidat: quels filtres?, in Pouvoirs, 138, 2011, p. 22; D. GELY, Le parrainages des élus pour l’élection présidentielle, Paris, L’Harmattan, 2011; J.C. COLLIARD, Les parrainages à l’élection présidentielle, in Les Nouveaux Cahiers du Conseil constitutionnel, n. 34, 2012, pp. 14 ss.; S. PINA, Parrainages et élection présidentielle: le statu quo, in Revue française de droit constitutionnel, 96, 2013, pp. 941 ss.; sul tema, sia consentito il rinvio anche a R. CASELLA, La presentazione delle candidature presidenziali in Francia, in Forum di Quaderni costituzionali Rassegna, 7, 2012.
6 predisporre, a partire dalle elezioni del 2002, degli appositi formulari ufficiali non duplicabili da inviare agli eletti nazionali e locali per facilitare la raccolta e la successiva verifica dei parrainages. Il sistema viene ormai regolarmente contestato a ogni elezione del capo dello Stato in quanto giudicato non più capace di rispondere alle proprie funzioni originarie: impedire alle candidature prive di rappresentatività di creare confusione nel dibattito democratico e assicurare a tutte le forze politiche presenti in modo significativo nella vita politica francese la partecipazione al primo turno della consultazione presidenziale 17. Così, mentre il numero dei présidentiables continua a mantenersi elevato (16 nel 2002, 12 nel 2007 e 10 nel 2012), il meccanismo per un verso rende possibile l’accesso al primo turno dello scrutinio a candidati destinati poi a raccogliere un numero estremamente limitato di voti e per l’altro trasforma la presentazione delle candidature in un passaggio politicamente delicato per le formazioni più importanti, preoccupate, a ogni elezione presidenziale, di non raccogliere in tempo utile un numero sufficiente di parrainages18 (difficoltà, quest’ultima, che potrebbero peraltro incontrare tutte le forze politiche nell’ipotesi che debba svolgersi un’elezione anticipata del capo dello Stato per vacanza della carica o impedimento permanente19). Anche la difficile attuazione della disciplina legislativa che obbliga a rendere pubblici i nominativi dei patrocinanti ha evidenziato i limiti del sistema di presentazione delle candidature presidenziali. Al riguardo, fin dalle presidenziali del 1974, il conseil constitutionnel ha costantemente richiesto al parlamento una modifica della legge del 1962 al fine di garantire la pubblicazione di tutti i parrainages, giungendo, dal 1988 al 2002, persino ad affiggere nei propri locali la lista integrale degli eletti abilitati a patrocinare un 16 Le categorie degli eletti che possono presentare un candidato sono ormai circa venti, corrispondenti, con riguardo alla consultazione presidenziale del 2012, a 42.000 possibili patrocinanti (numero calcolato sulla base del cumul des mandats, posto che ad ogni titolare di più cariche elettive viene riconosciuta la possibilità di esercitare un solo parrainage). Da sottolineare che tra gli eletti abilitati la categoria principale è costituita dai sindaci (circa il 78 per cento ) in prevalenza (57 per cento ) di comuni con meno di 1.000 abitanti (in merito, PINA, Parrainages et élection présidentielle: le statu quo, cit., p. 944). 17 Già nel 1974 il conseil constitutionnel aveva sottolineato come lo «spirito dell’istituzione dell’elezione del presidente della repubblica a suffragio universale» imponesse candidature con «un’assise veramente nazionale» e in grado di esprimere ogni «reale corrente di opinione» presente nella società» (Cfr., Décision n° 74-33 PDR del 24-051974).
18 In merito, si vedano le osservazioni del consiglio costituzionale sulle elezioni presidenziali del 2012 ((Décision n. 2012-155 PDR del 21-06-2012, Observations du Conseil constitutionnel sur l'élection présidentielle des 22 avril et 6 mai 2012, pubblicata sul Journal Officiel, 23-06-2012, p. 10354). 19 In tale eventualità, infatti, dovendosi le elezioni svolgersi non meno di 20 e non più di 35 giorni dopo l’inizio della vacanza presidenziale o la dichiarazione di impedimento permanente del capo dello Stato da parte del consiglio costituzionale, la procedura verrebbe a svolgersi in tempi molto stretti, posto che la lista dei parrainages e quella dei candidati dovrebbero essere rispettivamente presentate al più tardi 19 e 16 giorni prima del voto. Sui problemi connessi alla riduzione, in tale ipotesi, dei «délais d’organisation» alla base dell’attuale procedura di presentazione delle candidature presidenziali, si rinvia anche all’appena citata sentenza n. 2012-155 del consiglio costituzionale.
7 candidato (pratica poi interrotta nel 2007 a seguito della mancata adozione da parte delle camere di una riforma in tal senso) 20. Nel 2012, la questione è divenuta oggetto di un’accesa controversia politico-istituzionale in quanto la candidata del Front National (FN) Marine Le Pen, nell’imputare al sistema di presentazione le difficoltà incontrate nella raccolta del numero previsto di patrocinanti, ha contestato di fronte al conseil la legittimità costituzionale della norma relativa all’obbligo di rendere pubblici i loro nomi. In tale occasione, l’esponente dell’estrema destra francese, nel richiedere ai giudici del PalaisRoyal il riesame della disciplina alla luce del mutamento delle circostanze politicoistituzionali sottese all’evoluzione conosciuta dalla Cinquième, ha invocato la violazione dei principi costituzionali di uguaglianza e segretezza del voto sulla base dell’equiparazione del parrainage a un atto di adesione politica verso un candidato presidenziale21. Alla luce di ciò, la necessità di modificare la disciplina dei parrainages si ripresenta costantemente nel dibattito politico-istituzionale francese e in tale prospettiva numerose sono le proposte di riforma dell’attuale sistema di presentazione delle candidature presidenziali22. Così, una volta riconosciuta la necessità di mantenere un meccanismo di filtro, i diversi progetti si caratterizzano per la previsione di un numero più elevato di patrocinanti, il rafforzamento della loro rappresentatività geografica, la presenza di un collegamento obbligatorio tra la candidatura presidenziale e un partito che sia stato capace di raccogliere almeno il 5 per cento dei voti nel primo turno delle elezioni legislative, un’accresciuta trasparenza dell’intera procedura e l’introduzione di un parrainage citoyen affidato direttamente a un certo numero di elettori 23. Significativa, al riguardo, la proposta formulata nel 2007 dal Comité Balladur incentrata su due possibili soluzioni, poi, tuttavia, non riprese dal progetto di legge costituzionale destinato a sfociare nella revisione del luglio 2008: uno scrutinio di preselezione del candidato presidenziale a opera di un collegio di 100.000 eletti nazionali, locali e rappresentanti dei consigli municipali, chiamato a esprimersi a scrutinio segreto sulla base di due soglie minime di voto (da calcolare sul totale nazionale e sul numero dei 20 Sul punto, J.- E. SCHETTL, La publication des “parrainages” de candidats à l’élection présidentielle, in Les Petites affiches (LPA), 29-12-2006, n. 260, p. 18. 21 Il 22 dicembre 2011, dopo aver richiesto l’abrogazione dell’art. 7 del d.n. 2001-213 del 08-03-01, Marine Le Pen ha infatti presentato una question prioritaire de constitutionnalité relativa all’obbligo di rendere pubblici i nomi dei patrocinanti (sancito dalla legge n. 62-1292, così come modificata dalla citata legge organica n. 76-528), poi rigettata, il successivo 21 febbraio 2012, dal consiglio costituzionale con la sent. n. 2012-233. I giudici costituzionali, ammettevano, alla luce delle nuove circostanze di diritto scaturite dalla riforma costituzionale del 2008, il riesame della norma impugnata, ma rigettavano la question presentata da Marine Le Pen, giudicando la presentazione delle candidature presidenziali non equiparabile all’espressione di un voto. Per il consiglio, inoltre, la scelta del legislatore di rendere pubblici i nominativi dei patrocinanti è meramente funzionale alla necessità di garantire la trasparenza della procedura e il rispetto del pluralismo, mentre la presenza di un limite alla pubblicazione dei parrainages per ogni candidatura e la loro scelta tramite un’estrazione a sorte sono in «rapporto diretto» con l’obiettivo di assicurare l’eguaglianza tra i candidati ammessi alla competizione elettorale. 22 Sulla riforma del sistema di presentazione all’elezione presidenziale, come un classico «serpent de mer», PINA, Parrainages et élection présidentielle: le statu quo, cit., p. 946. 23 Ibidem, p. 947.
8 dipartimenti) e un parrainage citoyen (e non più notabiliaire), affidato direttamente ai cittadini iscritti nelle liste elettorali, ma segnato da forti limiti operativi in caso di una consultazione indetta a seguito della vacanza della presidenza della repubblica 24. Posto ciò, la commissione Jospin ritiene che il meccanismo di filtro dei présidentiables debba essere mantenuto al fine di assicurare un corretto dibattito democratico, ovvero non alterato da un numero eccessivo di candidature, spesso totalmente prive di un minimo di rappresentatività. Tuttavia, secondo la commissione, una volta distinto «il sistema istituzionale di qualifica dei candidati» da quello delle primarie di partito, per il quale viene raccomandata una specifica disciplina normativa, il meccanismo dei parrainages, caratterizzato da una «doppia fragilità» 25 (rischio di esclusione di alcune forze politiche dalla consultazione e permanenza di un numero ancora elevato di candidature) deve essere riformato in quanto non più corrispondente «alle esigenze di una democrazia moderna»26. In tale prospettiva, le soluzioni individuate dai sages riguardano la designazione delle candidature ad opera di un collegio elettorale ampliato in combinazione con un sistema di selezione politica affidato ai partiti e l’introduzione di un parrainage citoyen. Riguardo al primo modello, i sages, nel sottolineare come l’introduzione nel 1962 dell’elezione diretta del capo dello Stato abbia fatto venir meno la logica istituzionale alla base della sostanziale omogeneità tra i componenti del collegio dei grandi elettori previsto originariamente dai costituenti e la tipologia degli eletti abilitati a patrocinare i candidati presidenziali, ritengono necessario un allargamento del collegio elettorale ai rappresentanti delle collettività territoriali più importanti. Tale patrocinio sarebbe infatti complementare a un altro meccanismo di presentazione delle candidature affidato invece ai partiti politici più rappresentativi (ovvero a quelli che dispongono come minimo di cinque seggi parlamentari o hanno raccolto almeno il due per cento dei voti nelle ultime elezioni legislative), chiamati a comunicare al consiglio costituzionale i nominativi dei propri candidati designati con modalità, come le primarie, da essi liberamente definite. Secondo il comitato, è tuttavia il parrainage citoyen a essere il meccanismo di filtro delle candidature «più conforme allo spirito dell’elezione presidenziale» 27 in quanto capace nel contempo di assicurare la partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni democratiche e di evitare un numero eccessivo di candidati e in particolare di quelli privi di un’effettiva rappresentatività politica a livello nazionale. A tale scopo, la commissione Jospin, nella sua proposta, suggerisce di fissare in 150.000 le firme necessarie per concorrere alla competizione presidenziale – soglia degli elettori iscritti conforme alla media presente nei paesi dell’unione europea che presentano un analogo meccanismo di presentazione delle candidature a capo dello Stato – prevedendo nel contempo che esse provengano da almeno 50 dipartimenti o collettività d’oltremare senza che un dipartimento
24 Cfr., COMITÉ DE RÉFLEXION ET DE PROPOSITION SUR LA MODERNISATION ET LE RÉÉQUILIBRAGE DES INSTITUTIONS DE LA Ve RÉPUBLIQUE, Une Ve République plus démocratique, Paris, Fayard-La Documentation française, 2008, p. 24, ( in seguito citato come Rapport Balladur). 25 Rapport, p. 12 26 Ibidem, p. 9. 27 Ibidem, p. 14, proposta n. 1.
9 o una collettività possa fornire più del cinque per cento dei parrainages e 7.500 sottoscrizioni28. In merito alle modalità tecniche relative alla raccolta e alla verifica delle firme, la commissione sottolinea la necessità di predisporre un apposito formulario in grado di essere direttamente ricevuto per posta, ritirato presso il comune o scaricato da uno specifico sito internet da parte di ogni cittadino iscritto nelle liste elettorali. Inoltre, il Rapport raccomanda l’adozione di tutte le misure idonee a salvaguardare l’anonimato dei cittadini che intendono patrocinare un candidato presidenziale, sottolineando al riguardo come il parrainage di un eletto sia da considerarsi un atto di responsabilità politica da far conoscere agli elettori, mentre quello di un cittadino, equiparabile all’espressione di un vero e proprio voto, debba invece essere mantenuto segreto. Infine, la commissione, nel constatare come in caso di vacanza della presidenza della repubblica i ridotti tempi previsti dall’attuale disciplina per avviare il procedimento elettorale finiscano per favorire più i parrainages degli eletti a livello locale nazionale che quelli dei cittadini, garantendo così in ogni caso la partecipazione alla competizione ai candidati sostenuti dai grandi partiti politici, suggerisce una revisione dell’articolo 7 della costituzione volta ad allungare la durata della campagna elettorale nell’ipotesi eccezionale di una consultazione presidenziale anticipata, posto comunque che un’eventuale riforma del dispositivo dei parrainages non richiede una modifica del dettato costituzionale. 3.1.2. Per quanto attiene il finanziamento della campagna per l’elezione del presidente della repubblica, la commissione Jospin ritiene che esso debba continuare a essere oggetto di una specifica disciplina normativa volta da un lato a garantire le condizioni per una competizione «equa e leale» tra i candidati, posto il previsto limite alle spese elettorali e la loro parziale presa in carico da parte dello Stato, dall’altro ad assicurare, di fronte ai cittadini, la più ampia trasparenza finanziaria della vita politica 29. La commissione, in merito, ritenendo che il quadro normativo esistente risponda all’esigenza 28 Ibidem, pp. 14 ss.. La soglia delle 150.000 firme corrisponde in Francia allo 0,33 per cento degli elettori iscritti. Da sottolineare come in Portogallo (art. 124 della costituzione) i candidati alla presidenza della repubblica siano presentati da un minimo di 7.500 e un massimo di 15.000 elettori, in Lituania da almeno 20.000 (art. 79. primo comma della costituzione), in Polonia (art. 127, terzo comma) da almeno 100.000 elettori, soglia che passa a 200.000 in Romania. In altri paesi, la presentazione delle candidature alla carica di capo dello Stato avviene invece attraverso un meccanismo basato sul patrocinio sia degli eletti che dei cittadini: in Finlandia è sufficiente il sostegno di un deputato o di 20.000 elettori, in Slovacchia di 15 deputati del consiglio nazionale o di 15.000 elettori (art. 101, terzo comma della costituzione), mentre in Austria sono necessari 5 membri della camera bassa o 6.000 firme. In merito, M.- C. PONTHOREAU, La désignation par les partis politiques des «candidats présidentiels» en Europe occidentale, in Pouvoirs, 138, 2011, pp. 97 ss.; GELY, Le parrainages des élus pour l’élection présidentielle, cit, pp. 13 ss.. Sul carattere «audace» della proposta della commissione, BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., p. 399.
29
A partire dall’approvazione nel 1988 della l. n. 88-227 dell’ 11-03-88 sulla «trasparenza finanziaria della vita
politica», misura che veniva a colmare un vero e proprio «vuoto normativo» in materia (su cui si veda J.-F., MÉDARD, Finanziamento della politica e corruzione: il caso francese, in F. LANCHESTER, (a cura di), Finanziamento della politica e corruzione, Milano, Giuffré, 2000, pp. 192 ss..), il legislatore francese ha adottato numerose disposizioni volte a disciplinare il finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali, nonché ad assicurare la trasparenza patrimoniale degli eletti. I principali punti caratterizzanti questa disciplina normativa hanno riguardato, tra l’altro, l’introduzione di un meccanismo di finanziamento pubblico diretto dei partiti, il rimborso statale delle spese elettorali,
10 di impedire il ricorso a finanziamenti illeciti o non consentiti 30 ed un improprio utilizzo dei fondi raccolti, giudica necessario mantenere gli obblighi previsti a carico dei candidati presidenziali da tale disciplina. Tra questi spiccano, in particolare, la designazione un mandatario elettorale, la redazione di un rendiconto delle spese predisposto da un esperto contabile e la presentazione dei conti economici della campagna alla “Commissione nazionale dei conti della campagna elettorale e dei finanziamenti politici” (commission nationale de contrôle des comptes de campagne e des financements politiques, CNCCFP), un’autorità amministrativa indipendente chiamata al loro controllo e alla loro pubblicazione31. In tale ottica, viene ritenuto indispensabile anche mantenere la disposizione volta a fissare l’ammontare massimo delle spese elettorali con la raccomandazione di procedere nel contempo a una chiara definizione della nozione di “spesa elettorale”, vista la centralità ormai assunta da quest’ultima all’interno della complessa normativa relativa al finanziamento della campagna presidenziale. Nello specifico, i sages ritengono che tale definizione non debba essere precisata in un testo di legge, come già costantemente suggerito dalla stessa CNCCFP, ma invece elaborata per via giurisprudenziale in modo così da adattarla alla costante evoluzione della pratica politico-elettorale32. In merito alle fonti di finanziamento della campagna per l’elezione del capo dello Stato, sostanzialmente identiche a quelle previste per le altre competizioni elettorali, la commissione, pur giudicando come «soddisfacente» 33 la disciplina vigente relativa alla loro la previsione di un limite massimo delle spese sostenute nel corso delle varie elezioni, il divieto delle donazioni a partiti e candidati da parte delle persone giuridiche, il tetto alle donazioni delle persone fisiche, la verifica dei rendiconti delle campagne elettorali e dei bilanci dei partiti; la previsione di sanzioni penali e pecuniarie o persino finalizzate a sancire l’ineleggibilità (ad esclusione dei candidati presidenziali). In merito, si veda la scheda di sintesi Le financement de la vie politique: partis et campagne électorales pubblicata dall’assemblea nazionale.
30
Il quadro normativo relativo al finanziamento delle campagne elettorale per le presidenziali e al suo controllo,
in gran parte comune a quello previsto per le altre consultazioni, è fissato dal code électoral. Il testo di riferimento è la legge organica n. 62-1292 del 1962 (alla quale si applicano molte disposizioni di quest’ultimo) modificata dalle l.o. nn. 404-2006 del 5-04-06, 2011-410 del 14-04-11 e 2012-272 del 28-02-12.
31
La citata legge organica n. 2006-404 ha trasferito l’esame dei conti della campagna elettorale e dei
finanziamenti pubblici relativi all’elezione del presidente della repubblica, prima assicurato dal consiglio costituzionale, alla CNCCFP, istituita dalla l. n. 90-55 del 15-01-90 con il compito di verificare le spese elettorali e rendere più trasparente il finanziamento delle attività politiche. Tale commissione è composta da tre membri del consiglio di Stato, tre magistrati della corte di cassazione e tre magistrati della corte dei conti, nominati con decreto del primo ministro, su proposta del presidente dell’organo di appartenenza, per un periodo di 5 anni (rinnovabile). Da sottolineare la possibilità riconosciuta a ogni candidato di ricorrere di fronte al consiglio costituzionale contro le decisioni della commissione. In merito, si veda R. LAMBERT, Le financement de la campagne des candidats à l'élection présidentielle au travers des comptes de campagne, in Les Nouveaux Cahiers du Conseil constitutionnel , 2012, 1, pp. 47 ss..
32
Sulla nozione di «spesa elettorale», ibidem, pp. 57 ss., nonché N. FERCHICHE, La rationalisation du droit du
financement des campagnes législatives et le renforcement de la transparence de la vie politique, in Revue française de droit constitutionnel, 2, 2012, pp. 92 ss.. 33 Rapport, p. 20.
11 regolamentazione, ritiene che debbano essere riviste le modalità di calcolo del rimborso pubblico delle spese elettorali sostenute dai candidati presidenziali nella parte in cui prevedono il raggiungimento o meno, nel primo turno, del 5 per cento del totale dei voti espressi. Tale disposizione, nel far variare l’ammontare del rimborso in base al numero dei voti ottenuti al primo turno di elezioni, finisce infatti per creare un marcato «effetto soglia» 34 in grado di penalizzare eccessivamente i candidati minori. La commissione si è poi espressa sulle sanzioni previste per la mancata osservanza delle norme sul finanziamento della campagna dei candidati presidenziali, constatando che questi ultimi, a differenza dei candidati nelle elezioni europee, legislative e locali, non incorrono nell’ineleggibilità neppure in caso di frode o di mancanza grave agli obblighi previsti dalla normativa. Al riguardo, pur giudicando tale disparità «difficilmente giustificabile sul piano dei principi», la commissione riconosce che un’eventuale sanzione di ineleggibilità finirebbe per porre la delicata questione politico-istituzionale delle dimissioni d’ufficio di un candidato presidenziale eletto. Così, i sages si limitano a proporre che nell’ipotesi di rigetto, per gravi mancanze, del rendiconto di campagna di un candidato eletto, spetti alla CNCCFP oppure, in caso di ricorso, al consiglio costituzionale, notificare la propria decisione ai presidenti delle camere affinché queste ultime, qualora lo ritengano necessario, possano avviare una procedura di destituzione del capo dello Stato ai sensi dell’art. 68 della costituzione. 3.1.3. Sempre nel quadro della formulazione di proposte volte alla modernizzazione dell’elezione presidenziale, la commissione ha affrontato il tema dell’accesso dei candidati ai mezzi audiovisivi, ritenendo la sua regolamentazione come indispensabile ad assicurare il rispetto del principio costituzionale del pluralismo e la trasparenza della competizione politica35.
34 Ibidem, pp. 22 ss., proposta n. 2. In base alle modifiche apportate dalla citata legge l.o. n. 2012-272, adottata nel quadro degli interventi legislativi finalizzati a promuovere il riequilibrio delle finanze pubbliche, è prevista una generale riduzione dei rimborsi “forfettari” delle spese elettorali calcolati in base ai voti ottenuti da un candidato al primo turno di elezioni. Così, per ciascun candidato alla presidenza della repubblica è calcolato un rimborso statale pari al 4,75 per cento del massimale previsto per le spese relative alla campagna elettorale (le montant du plafond des dépenses de campagne), mentre per i candidati che hanno ottenuto più del 5 per cento delle elezioni presidenziali, tale rimborso è pari al 47,5 per cento del massimale previsto per le spese relative alla campagna elettorale (prima dell’intervento riformatore, il rimborso era pari, rispettivamente, al 5 per cento e al 50 per cento del massimale). Il rimborso per ciascun candidato non può comunque mai superare l’ammontare delle spese effettivamente sostenute e dichiarate nel rendiconto della campagna presentato alla CNCCFP dopo le elezioni.
35 Sullo storico «rendez-vous» tra televisione ed elezione presidenziale reso possibile dalla nascita della Quinta repubblica e sull’immediata rilevanza assunta, in tale dinamica, dalle questioni connesse all’accesso dei candidati ai nuovi media, J.-M. CHARON, Introduction générale, in R. CAYROL e J.-M. CHARON (a cura di), Médias, opinions et présidentielles, Paris, INA Éd., 2012, p. 9 ss..
12 Al riguardo, giudicando il sistema attuale come «globalmente soddisfacente» 36, il Rapport propone di conservarne l’equilibrio generale alla luce di alcune raccomandazioni. Così, secondo i sages, è necessario lasciare inalterato l’ambito della regolamentazione (e non estenderlo a internet, posta la complessità di un suo organico inquadramento giuridico), riaffermare il divieto della pubblicità politico-elettorale a mezzo stampa o mediante ogni mezzo di comunicazione audiovisiva 37, mantenere l’attuale meccanismo di distribuzione degli spazi radiotelevisivi gestito dal CSA e articolato sul riconoscimento di un «tempo di antenna» (complessivamente dedicato ai diversi candidati e ai loro sostenitori) distinto dal «tempo di parola» (consacrato invece in modo specifico alle dichiarazioni dei vari candidati e dei loro sostenitori) e rinnovare le proposte formulate dal CSA, volte a rendere più fruibili sul piano mediatico i programmi delle emittenti pubbliche dedicati alla campagna elettorale per le presidenziali e a migliorare l’organizzazione e lo svolgimento di quest’ultima 38. In particolare, la commissione, riprendendo proprio tali raccomandazioni, propone due specifiche misure giudicate in grado di migliorare il dispositivo attuale: modificare il criterio per l’accesso ai media nel periodo definito «intermedio» della campagna elettorale e unificare l’orario di chiusura dei seggi. In effetti, la normativa in materia suddivide la campagna presidenziale in tre diversi periodi: quello «preliminare», precedente la pubblicazione sul Journal Officiel della lista dei candidati ufficiali, quello «intermedio», compreso tra quest’ultimo passaggio e l’avvio della campagna elettorale e quello della «campagne officielle», destinato a concludersi il giorno in cui avviene l’elezione. In relazione a essi, è stato introdotto l’obbligo per le emittenti radiotelevisive di dosare, tra i vari candidati (prima dichiarati o presunti e poi ufficiali), il tempo di parola e quello di antenna in modo da assicurare il principio di equità oppure di eguaglianza. Così, mentre nel primo periodo vige il principio dell’equo trattamento e nell’ultimo quello più rigido dell’assoluta parità tra i candidati, invece, nella fase intermedia si applicano entrambi tali criteri sia al tempo di parola che a quello di antenna 39. La commissione, al riguardo, ritenendo tale distinzione ormai superata dalla dinamica del confronto politico-elettorale, incentrato più sull’avvio della campagna ufficiale che sulla presentazione della lista dei candidati, propone di adottare, nel periodo intermedio, solo il principio dell’equo trattamento in quanto giudicato più idoneo a tutelare il diritto di accesso dei candidati40. 36 Rapport, p. 24. Le principali fonti normative in materia sono la legge sull’audiovisivo n. 86-1067 del 1986, le raccomandazioni del “Consiglio superiore dell’Audiovisivo” (Conseil Superieur de l’Audiovisuel, CSA, istituito dalla l. n. 89-25 del 17-01-89) e le decisioni del consiglio di Stato. Sul punto, si veda M.-L. DENIS, La régulation audiovisuelle et l’élection présidentielle, in Les Nouveaux Cahiers du Conseil constitutionnel, 2012, 1, pp.23 ss.. 37 Per la commissione, la pubblicità politica costituisce un potenziale fattore di degrado della dialettica politica (per la “pubblicità negativa” sui candidati che viene abitualmente a diffondere) ed è destinata a diventare, per l’onerosità della distribuzione degli spazi che la caratterizza e la diversa disponibilità economica dei candidati, una fonte di gravi diseguaglianze tra questi ultimi. In merito, sulla specificità dell’esperienza francese, fra tutti, R. BORRELLO, Par condicio e radiotelevisione, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 58 ss.., 38 Cfr, CONSEIL SUPERIEUR DE L’AUDIOVISUEL, Rapport sur l'élection présidentielle de 2012. Bilan et propositions. Sulla questione anche DENIS, La régulation audiovisuelle et l’élection présidentielle, cit., pp. 37 ss.. 39 Sul punto, si veda DENIS, La régulation audiovisuelle et l’élection présidentielle, p. 27. 40 Rapport, pp. 26 ss., proposta n. 3.
13 I “saggi”, inoltre, richiamano anche la rilevanza della questione relativa all’orario di chiusura dei seggi sul territorio metropolitano della Francia in occasione delle elezioni presidenziali. Dal momento che tradizionalmente le operazioni di voto terminano, specialmente nei piccoli comuni, due ore prima rispetto al resto del territorio nazionale, è possibile osservare come sempre più frequentemente numerosi siti internet e emittenti straniere diffondano proiezioni elettorali o risultati parziali relativi alla competizione presidenziale nonostante gli altri seggi siano ancora aperti. Tale pratica, risultata ben evidente durante le presidenziali del 2012 e del 2007, oltre a rappresentare una palese violazione dell’art. L. 52-2 del code électoral volto proprio a proibire la diffusione anticipata dei risultati elettorali prima della chiusura di tutti i seggi sul territorio metropolitano, è potenzialmente in grado – come già sottolineato dal CSA e dal consiglio costituzionale – di influenzare il regolare svolgimento della votazione e di alterare il suo risultato finale 41. Posto ciò, secondo la commissione Jospin è dunque opportuno che il governo, attraverso l’emanazione del decreto di convocazione degli elettori, contenente anche l’orario ufficiale dei seggi, fissi la stessa chiusura di tutti i seggi del territorio metropolitano, adottando per essa, anche al fine di non causare una diminuzione del tasso di partecipazione alla consultazione, l’orario in vigore nelle grandi città (le ore 20.00) 42. 3.1.4. Altrettanta attenzione è stata dedicata dai “saggi” anche al delicato tema del calendario elettorale, ovvero della sequenza adottata per lo svolgimento dello scrutinio presidenziale e di quello per il rinnovo dell’assemblea nazionale. Com’è noto, il tema è di fondamentale rilevanza ai fini della tradizionale dinamica politico-istituzionale della Quinta repubblica, visto che, in base a quest’ultima, la centralità assunta dall’elezione diretta del capo dello Stato nella determinazione dell’indirizzo politico nazionale non può essere posta in discussione da una consultazione parlamentare immediatamente precedente. Dal 2002, a seguito alle disposizioni costituzionali (l’introduzione del quinquennato), a eventi fortuiti non collegati tra loro (la morte nel 1974 del presidente Pompidou e lo scioglimento anticipato dell’assemblea nazionale nel 1997) e a un intervento del legislatore (la legge organica n. 2001-419 del 15 maggio 2001 (inversione del calendario elettorale al fine di far svolgere le elezioni del presidente della repubblica prima di quelle legislative43), le due consultazioni hanno sempre mantenuto lo stesso ordine, con l’elezione per l’Eliseo chiamata a svolgersi tra aprile e maggio, qualche settimana prima di quella dei deputati, tenutasi nel giugno dello stesso anno. Tale configurazione del calendario elettorale ha sempre assicurato la presenza del fait majoritaire, ossia la concordanza politica della maggioranza presidenziale con quella presente in seno all’assemblea nazionale, evitando così che si ripresentasse la cohabitation tra i due vertici dell’esecutivo conosciuta dal regime nel corso della presidenza di Mitterrand (nei periodi 1986-88 e 1993-95) e di quella di Chirac (nel periodo tra il 1997 e il 2002). Le elezioni per il capo dello Stato infatti dispiegano un vero e proprio effetto di trascinamento su quelle della rappresentanza parlamentare in quanto gli elettori,
41 Al riguardo, in particolare, si veda il punto V della citata sentenza del conseil constitutionnel n. 2012-155 sulle elezioni presidenziali del 2012. 42 Rapport, pp. 29 ss., proposta n. 4. 43 Sul punto, sia consentito il rinvio a R. CASELLA, La riforma del calendario elettorale e le nuove prospettive della Quinta repubblica, in Quaderni costituzionali, 3, 2001, pp. 557 ss..
14 una volta scelto l’orientamento politico fondamentale, decidono con la conferma di una maggioranza parlamentare in linea con esso, di affidare al presidente gli strumenti per realizzare in parlamento il proprio programma attraverso l’azione del governo da lui nominato. La commissione Jospin esprime il proprio favore al mantenimento dell’attuale ordine delle elezioni, pur richiamando tutti i rilievi critici mossi da tempo al calendario elettorale, come gli effetti negativi che verrebbe a produrre a livello politico-istituzionale in termini di depotenziamento delle elezioni legislative, di fatto trasformate ormai in una mera conferma delle scelte operate qualche settimana prima, l’aumento del tasso di astensione al secondo turno delle elezioni parlamentari (dal 2002 percentualmente doppio di quello registrato al secondo turno delle presidenziali) e l’impossibilità di eliminare del tutto il rischio di una nuova coabitazione, considerata l’eventualità di un repentino mutamento dell’orientamento politico dell’elettorato nell’arco di tempo tra le due consultazioni. Ai “saggi”, infatti, una nuova inversione del calendario elettorale oppure una sua «disgiunzione strutturale»44 attraverso lo svolgimento delle legislative a metà del mandato presidenziale o la modifica della durata di uno dei due mandati, non appaiono coerenti con la «logica politica» che scaturisce dall’elezione diretta del presidente della repubblica e dall’introduzione del quinquennato. Anche l’ipotesi di una simultaneità totale o parziale delle due elezioni, peraltro suggerita dal comité Balladur45, viene esclusa dalla commissione per il rischio di disorientamento che potrebbe produrre sugli elettori, resi incapaci di valutare la reale portata politica di entrambe le consultazioni 46. Il Rapport non ritiene opportuna neppure l’introduzione di meccanismi finalizzati a mantenere inalterata la sequenza adottata nel 2002, quali lo scioglimento automatico dell’assemblea nazionale in caso di anticipata interruzione del mandato del capo dello Stato e le dimissioni d’ufficio di quest’ultimo nell’ipotesi di dissolution. Nel quadro di tale configurazione, la commissione suggerisce solo due limitati aggiustamenti al calendario 47. Così, al fine di consentire al nuovo governo di avviare la propria azione nelle migliori condizioni politico-istituzionali, il Rapport consiglia di anticipare le scadenze elettorali di due mesi, in modo che la fine del mandato presidenziale sia fissata a metà marzo, come già suggerito dalla commissione Vedel 48, 44 Rapport, p. 32. 45 Nella proposta n. 4 (destinata alla modifica del code électoral e dei decreti di convocazione degli elettori), il comitato suggeriva infatti, al fine rafforzare la simultaneità delle elezioni presidenziali e legislative, di far coincidere il primo turno di queste ultime con il secondo turno delle prime (Rapport Balladur, p. 11). Sulle difficoltà tecniche sottese alla realizzazione di tale riforma e sul rischio di «tentazioni tattiche», sull’esempio statunitense, da parte dell’elettore, in grado di riproporre la discordanza politica tra le due maggioranze, J.-C. COLLIARD, Une confirmation de l’évolution présidentialiste de l’Executif, in Revue politique et parlementaire, 1045, 2007, p. 11. 46 Per S. AROMATARIO, Élections présidentielles-Élections législatives: l’installation d’un binôme électoral, in Revue administrative, n. 397, 2014, p. 83, dal momento che due elezioni sono nel contempo indissociabili e poste alla base della dinamica istituzionale della Quinta repubblica, «non si può toccare il calendario elettorale senza rischiare di rimettere in discussione il regime». 47 Rapport, pp. 33 ss., proposte nn. 5 e 6. Sul punto, BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., pp. 399 ss..
15 nonché di anticipare ad aprile termine della legislatura per l’assemblea nazionale 49. Oltre a ciò, viene proposta la riduzione di una o due settimane il periodo, pari a cinque settimane, intercorrente tra il secondo turno dell’elezione presidenziale e il primo delle legislative in modo da limitare il periodo in cui l’attività governativa appare più soggetta a essere influenzata dalla campagna elettorale per le legislative. 3.2. Riguardo all’individuazione delle misure giudicate necessarie ad accrescere la rappresentatività del parlamento, la commissione ritiene che il mantenimento del fait majoritarie, indispensabile alla formazione di una stabile maggioranza in seno all’assemblea, debba essere considerato preliminarmente come un «obiettivo fondamentale» da conciliare con ogni modifica del sistema elettorale delle camere volta ad assicurare una distribuzione dei seggi più proporzionale e il rafforzamento della parità di genere tra gli eletti. 3.2.1. Secondo i sages, l’obiettivo di una migliore rappresentanza del pluralismo politico da parte dell’assemblea nazionale deve contemperarsi con l’esigenza della stabilità di governo. Così, per il Rapport, nel quadro del vigente sistema elettorale maggioritario a due turni, contraddistinto da indiscutibili qualità (legame diretto tra deputato ed elettore, semplicità di funzionamento, presenza in ogni collegio di un solo eletto dotato di una forte legittimazione politica), ciò può essere assicurato soltanto dall’introduzione di una limitata componente proporzionale nell’elezione dei deputati 50. Secondo questa proposta, il 10 per cento degli attuali componenti l’assemblea nazionale, pari a 58 deputati, sarebbe da eleggere in una circoscrizione nazionale unica e senza alcuna soglia di sbarramento, attraverso uno scrutinio proporzionale di lista ad un turno, indipendente da quello maggioritario a due turni. La commissione non prevede infatti un legame tra i due sistemi in quanto il riparto proporzionale dei seggi non sarebbe limitato alle sole liste dei partiti penalizzate dallo scrutinio maggioritario, ma operando parallelamente a quest’ultimo, risulterebbe incentrato su candidature distinte e su un doppio voto dell’elettore51. 48
Cfr, COMITE CONSULTATIF POUR UNE REVISION DE LA CONSTITUTION, PRESIDE PAR LE
DOYEN GEORGES VEDEl, Rapport au Président de la République. Propositions pour une révision de la Constitution, 15 février 1993, in seguito citato come Rapport Vedel, cap. I, A.a. 49 La commissione, al riguardo, propone la revisione dell’art. 6 della costituzione e la modifica dell’ art. LO. 121 del code électoral. 50 I sages, nell’ipotesi dell’adozione di un sistema elettorale di tipo proporzionale con correttivi finalizzati ad assicurare la stabilità governativa, considerano come una possibile «fonte di ispirazione» pure il modello adottato per la consultazione regionale (scrutinio di lista a due turni con premio di maggioranza assegnato alla lista arrivata prima), scartandolo tuttavia per il forte indebolimento del legame tra il deputato e i suoi elettori che viene a produrre ( Rapport, p. 37). Su tale modello, schematicamente, si veda Documents d’études: droit de suffrage et modes de scrutin, Paris, La Documentation française, 1.05, 2008, pp. 49 ss..
51
Per la commissione, il sistema proporzionale non verrebbe a operare come uno scrutinio «di compensazione
degli effetti» del maggioritario in quanto sarebbe «poco auspicabile che candidati sconfitti allo scrutinio uninominale siano eletti col proporzionale». Alla luce della scelta di molti candidati di non essere collegati a una lista, solo il doppio voto consentirebbe infatti di riconoscere nel sostegno a un candidato di collegio un’adesione non necessariamente partisane (Rapport, p. 38). Sulla proposta della commissione, si veda AROMATARIO, Élections présidentielles-
16 Inoltre, la commissione propone di ripartire tra i dipartimenti i seggi assegnati con il sistema maggioritario sulla base di alcuni correttivi finalizzati a rendere tale operazione più equa sul piano demografico, nonché di eleggere i deputati all’estero con uno scrutinio proporzionale in due grandi circoscrizioni. Allo scopo poi di evitare la presenza al secondo turno di un solo candidato in caso di desistenza di altro candidato, i “saggi” suggeriscono che sia comunque consentito l’accesso alla consultazione del candidato successivo al desistente per numero dei voti ottenuti al primo turno, benché inferiore alla prevista soglia del 12,5 per cento degli iscritti52. 3.2.2. Posto ciò, la commissione indica i «difetti» 53 del sistema di elezione del senato che ritiene essere un ostacolo a una sua maggiore rappresentatività. Così, in primo luogo, la commissione critica la composizione del corpo elettorale dei senatori in quanto giudicata non in grado rappresentare pienamente le diverse collettività territoriali francesi. Il collegio senatoriale è formato infatti per circa il 96 per cento dai delegati dei consigli municipali e in quest’ultima categoria i piccoli centri rurali risultano sovrarappresentati rispetto alle comunità metropolitane molto più popolose, visto che i due terzi dei delegati sono riconosciuti a comuni sotto i 10.000 abitanti, nonostante essi comprendano soltanto la metà della popolazione. I “saggi” non intendono espressamente riprendere la riforma avviata nel 2000 dal governo Jospin, poi censurata dal conseil constitutionnel, in cui il criterio di rappresentanza territoriale veniva fissato strettamente su base demografica, ma si limitano a proporre una diversa ponderazione, proporzionale alla popolazione, dei voti dei grands électeurs senatoriali come pure l’esclusione da questi ultimi dei deputati, in ragione la scelta di far partecipare all’elezione solo i membri di un’assemblea deliberante locale54. Élections législatives, cit., p. 82. In merito alla riforma elettorale, è necessario richiamare la Commission de réforme du mode de scrutin nominata il 25 giugno 1992 dal primo ministro Bérégovoy e affidata al doyen Vedel (al quale, nel successivo dicembre, doveva essere affidata, com’è noto, anche la direzione del comité sulla riforma del sistema istituzionale della Quinta repubblica) che, nel suo rapporto finale pubblicato nel febbraio 1993, raccomandava l’«instillazione» di una dose di proporzionale, pari sempre al 10 per cento, all’interno del sistema maggioritario, prospettando due distinte soluzioni: accesso allo scrutinio proporzionale riservato alle formazioni «penalizzate» dal maggioritario o scrutinio proporzionale di lista «aggiunto» a quello maggioritario. In merito, G. VEDEL, Réformer les institutions… Regard rétrospectif sur deux commissions, in Revue française de la science politique, 1997, vol. 47, pp. 313 ss.; R. GHEVONTIAN, Élections; la réforme est-elle possible?, in Revue française de droit constitutionnel, 2008, pp. 29 ss..). Il comitato Balladur nella sua proposta n. 62 si esprimeva invece per l’introduzione di una quota proporzionale «compensatrice» (compresa tra 20 e 30 seggi) in grado di assicurare la rappresentanza in seno all’assemblea nazionale alle «formazioni politiche minoritarie» (Rapport Balladur, pp. 69 e 122); sul punto B. PAUVERT, Les modes de scrutin dans les propositions du Comité Balladur, in Revue politique et parlementaire, 2007, n. 1045, pp. 84 ss.. 52 Rapport, pp. 38 ss., rispettivamente, proposte nn. 7, 8 e 9. 53 Ibidem, p. 42. 54 Ibidem, pp. 45 ss., proposta, n. 10. Il progetto di legge del 2000 fissa in modo uniforme il criterio per la rappresentazione delle collettività territoriali prevedendo un delegato senatoriale ogni 300 abitanti, ma il consiglio costituzionale, adito da 60 senatori, nella sua sent. n. 2000-431 del 6-07-00, dichiara incostituzionale tale progetto perché disconosce la natura stessa del senato quale assemblea «eletta da un corpo elettorale che è esso stesso
17 Oltre a ciò, la commissione propone da un lato di elevare (dal 52 al 73 per cento) la quota di senatori eletti con la proporzionale, prefigurando una riforma più incisiva per estendere tale sistema elettorale all’intero collegio attraverso l’introduzione di circoscrizioni regionali55, dall’altro suggerisce di abbassare a 18 anni l’età per l’eleggibilità anche al senato56. 3.2.3. Nel disegno riformatore elaborato dalla commissione, le proposte formulate per accrescere il pluralismo nelle due assemblee appaiono finalizzate a favorire anche l’accesso delle donne al mandato parlamentare, in modo così da contribuire all’estensione della parità di genere sancita dopo la revisione del 1999 dall’art. 1, secondo comma della costituzione. Secondo i “saggi”, infatti, l’introduzione dello scrutinio proporzionale nel meccanismo elettorale dell’assemblea nazionale – seppur limitatamente a una piccola quota dei seggi – e l’estensione del suo impiego per l’elezione dei senatori consentono, di emanazione delle collettività territoriali». Nel 2007 il comitato Balladur, sempre al fine di assicurare una rappresentanza equilibrata delle collettività territoriali, suggerisce di inserire nell’art. 24 della costituzione la frase «in funzione della loro popolazione» ripresa dalla legge censurata. Tuttavia, il progetto governativo di revisione costituzionale del 2008, nel riallacciarsi a tale proposta sulla base della nuova formulazione adottata («tenendo conto della loro popolazione»), non riesce a superare l’opposizione della maggioranza dei senatori, contrari all’inserimento nella costituzione di qualsiasi cambiamento al sistema di elezione della seconda camera. In ragione di ciò, la modifica dell’art. 24 a opera della revisione costituzionale del 2008 finisce per essere limitata alla sola previsione del numero massimo di senatori. Sulla proposta del comité Balladur, tra gli altri, PAUVERT, Les modes de scrutin dans les propositions du Comité Balladur, cit., pp. 83 ss.; sul tentativo di riforma del modo di scrutinio dei senatori, R. BIAGI, La costituzione francese tra continuità ed innovazione, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 81 ss.. 55 Secondo la commissione, il numero dei senatori eletti con il proporzionale è troppo esiguo per tre ragioni: lo scrutinio indiretto, quando maggioritario, amplifica gli effetti propri della logica maggioritaria; inoltre, il sistema maggioritario non favorisce l’accesso delle donne alla carica di senatore in quanto l’obbligo dell’alternanza tra candidati di sesso diverso introdotta dalla legge legge n. 2000-493 è applicabile solo alle liste della componente proporzionale; infine, l’argomento della stabilità governativa, richiamato per giustificare il sistema elettorale maggioritario nell’elezione dei deputati, non è valido per il senato, dal momento che quest’ultimo non può sfiduciare il governo, né dispone dell’ultima parola nel procedimento legislativo (Rapport, pp. 45 e 47, proposte, nn. 11 e 12). Il rapporto tra la componente maggioritaria e proporzionale del collegio elettorale dei senatori (rispettivamente pari al 48 e al 52 per cento del totale) scaturisce dalla riforma che nel 2003 (l.o. n. 2003-696 e l.o. n. 2003-697 del 30-07-03) aveva ridotto la quota dei seggi assegnati con il proporzionale (pari ai due terzi del totale) prevista dalla l. n. 2000-641 del 10-07-00 (osteggiata dal senato). La riforma del 2003 ha introdotto anche altri significativi cambiamenti, come la riduzione della durata del mandato senatoriale da nove a sei anni (per adeguarla al quinquennat), l’abbassamento dell’età per l’eleggibilità a senatore (da 35 a 30 anni), la modifica del meccanismo del rinnovo parziale dei componenti dell’assemblea (la metà – e non più un terzo – ogni tre anni), nonché il graduale aumento del numero dei senatori (dagli iniziali 321 fino ad arrivare a 348). Sulla riforma del 2003, si vedano, fra tutti, F. ROBBE, Le Sénat à l’heure des demiréformes, in Revue française de droit constitutionnel, 56, 2003, pp. 725 ss. ; M. CALAMO SPECCHIA, Il Senato in Belgio e in Francia, in S. BONFIGLIO (a cura di), Composizione e funzioni delle seconde camere. Un’analisi comparativa, Padova, Cedam, 2008, pp. 36 ss.; BIAGI, La costituzione francese tra continuità ed innovazione, cit., pp. 66 ss..
18 accrescere sensibilmente la presenza delle donne tra gli eletti al parlamento in virtù delle già citate norme relative alla parità di genere che rendono obbligatoria la presentazione di liste composte alternativamente da un candidato di ciascun sesso 57. Tale dinamica sarebbe favorita, secondo la commissione anche dall’introduzione del divieto di cumulo dei mandati, visti gli effetti che l’incompatibilità tra il mandato parlamentare e l’esercizio di funzioni esecutive verrebbe produrre, in termini di ricambio del personale politico, sul risultato delle prossime elezioni. Oltre a ciò, la commissione propone, per completare gli effetti dell’estensione dello scrutinio proporzionale sul rispetto del principio della parità di genere, anche di rimodulare il finanziamento pubblico ai partiti in ragione della misura dello scarto esistente tra il numero delle candidature dei due generi alle lezioni legislative, così da penalizzare ulteriormente quelle formazioni politiche che si sono discostate dall’obiettivo della piena applicazione della legge 58. 3.3. La commissione, al fine di garantire la condotta exemplaire dei rappresentanti eletti e dei funzionari pubblici, propone una serie di riforme finalizzate a promuovere il rinnovamento della vita pubblica francese. Al riguardo, secondo i sages l’introduzione del divieto di cumulo dei mandati, assicurando il rispetto da parte dei parlamentari e dei membri del governo dei compiti loro assegnati dalla costituzione, rappresenta una misura indispensabile per migliorare il funzionamento delle istituzioni e rafforzare la fiducia dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti eletti a livello nazionale e locale. Anche lo statuto del presidente della repubblica e il privilegio di giurisdizione assicurato ai ministri, già oggetto in passato di due revisioni, rispettivamente nel 2007 e nel 1993, rappresentano, secondo la commissione, un altro snodo fondamentale di un’azione riformatrice rivolta a garantire che il comportamento «esemplare e irreprensibile» dei titolari dei massimi incarichi istituzionali sia fondato sul rispetto della legge e sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla giustizia. In tale prospettiva, la 56 La l.o. n. 2011-410 del 14-04-2011 aveva già abbassato il limite a 24 anni (dai precedenti 30 previsti, come già ricordato, dalla legge organica n. 2003-696). 57 Secondo i dati dell’Haute Conseil à l’Égalité entre les femmes et les hommes, dopo le elezioni legislative del 2012, la componente femminile dell’assemblea nazionale è risultata pari al 26,9 per cento. La percentuale delle donne elette al senato dopo l’applicazione delle norme sull’alternanza di genere nella compilazione delle liste è cresciuta in modo sensibile: dal 5,9 per cento nel 1998 al 25 per cento dopo il rinnovo del 2014. Al riguardo, da sottolineare come la commissione non ritenga realizzabile l’introduzione, per l’elezione dei deputati, di uno scrutinio maggioritario «binominale», ovvero di un sistema volto a far esprimere gli elettori, in ogni circoscrizione, su «binomi» comprendenti obbligatoriamente un uomo e una donna, a causa del complesso redécoupage dei collegi e della difficile ripartizione dei seggi imposti da tale complesso meccanismo elettorale (Rapport, p. 50). Da sottolineare, in merito, come la l.o. n. 2013-402 e la l. n. 2013-403 del 17-05-13 abbiano modificato il sistema di voto per le elezioni dei consiglieri comunali, comunitari e dipartimentali, introducendo uno scrutinio «maggioritario binominale misto» a due turni (finalizzato a garantire la parità di genere) che ha imposto un ridisegno dei cantoni e, di conseguenza, il rinvio al 2015 del turno elettorale. In merito, si veda il dossier legislativo completo relativo alla riforma del sistema elettorale locale. Sull’argomento, fra tutti, M. VERPEAUX, Réformes des modes de scrutin locaux: révolutions et continuités, in La Semaine juridique, édition administrations et collectivités territoriales, no 2186, 24-06-13. 58 Rapport, p. 50, proposta n. 13.
19 commissione propone così di modificare la disciplina vigente in modo da ridurre il più possibile la differenziazione di trattamento del capo dello Stato e dei ministri rispetto al diritto comune, senza tuttavia privare tali organi di quella protezione dalle azioni giudiziarie prive di fondamento necessaria a garantire il libero esercizio delle loro funzioni costituzionali. Oltre a ciò, secondo i “saggi”, la predisposizione di un’articolata strategia preventiva dei conflitti di interessi, rappresentando la più efficace tutela dell’imparzialità, trasparenza e obiettività dell’azione pubblica, contribuisce a salvaguardare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. 3.3.1. Secondo la commissione, la riforma del cumulo dei mandati, vero «banco di prova» di ogni politica finalizzata a rinnovare la vita pubblica francese, deve articolarsi lungo due direttrici ossia assicurare il «pieno coinvolgimento dei ministri al servizio dello Stato» e «limitare strettamente»59 il cumulo dei mandati dei parlamentari. In merito, i sages sottolineano come nessuna disposizione impedisca a un ministro di svolgere a livello locale una funzione esecutiva o di partecipare a un’assemblea deliberante, eccetto il caso di un primo ministro intenzionato a chiedere ai membri del proprio governo di rinunciare a tali incarichi per consacrarsi interamente ai compiti istituzionali loro assegnati. In realtà, l’esercizio di una funzione ministeriale esige un impegno diretto e costante del suo titolare, chiamato come membro del governo a contribuire alla determinazione della politica nazionale e come vertice di un complesso apparato amministrativo ad assicurare il proprio sostegno ai programmi di modernizzazione dell’azione pubblica senza essere influenzato da alcun interesse o impegno locale. Nel contempo, secondo la commissione, le responsabilità politiche e amministrative riconosciute agli eletti locali sono troppo rilevanti per essere esercitate a mero titolo «accessorio»60 dai titolari di una funzione ministeriale. Così, affinché un ministro sia posto nelle condizioni di esercitare pienamente i propri compiti, la commissione Jospin propone, al pari del comitato Balladur, la modifica dell’art. 23 della costituzione affinché venga sancita l’incompatibilità delle funzioni di membro del governo con l’esercizio non solo di una funzione esecutiva, ma anche di qualsiasi mandato locale61. Il Rapport precisa inoltre che tale incompatibilità scatti alla scadenza del termine di un mese dalla data della nomina a ministro con la rinuncia di quest’ultimo al mandato locale. Qualora il ministro sia dimissionario, i “saggi”, escluso il ricorso a una supplenza temporanea comparabile a quella prevista per i parlamentari chiamati a far parte del governo, propongono la sua sostituzione, secondo i casi, da parte del supplente o del primo dei non-eletti della lista di appartenenza. Riguardo il cumulo di un mandato parlamentare con uno locale, i “saggi” sottolineano l’anomalia della situazione francese, caratterizzata dalla presenza maggioritaria in seno alle due assemblee di deputati e senatori titolari sia di un mandato locale semplice, sia di una funzione esecutiva come quella di sindaco, vicesindaco, 59 Ibidem, pp. 54, 55 e 56. 60 Ibidem, p. 56. 61 Ibidem (proposta n. 14), nonché Rapport Balladur, p. 29, proposta n. 18. Da sottolineare come il comitato Vedel, proponendo di rendere incompatibile la funzione di membro del governo con la presidenza di un esecutivo o di un’assemblea locale e con le funzioni di sindaco, avesse comunque ammesso la possibilità per un ministro di mantenere un mandato elettivo in un’assemblea locale (cfr, Rapport Vedel, Cap. I, C.c).
20 sindaco di arrondissement, di presidente o di vicepresidente del consiglio regionale, dipartimentale o di un ente pubblico di cooperazione intercomunale (EPCI) 62. Tale pratica, secondo la commissione, ostacola il rinnovamento della funzione parlamentare avviato dalla revisione costituzionale del 2008, accresce il coinvolgimento dei deputati e senatori nelle questioni locali a scapito del carattere nazionale del loro mandato, non consente una piena valorizzazione delle funzioni elettive locali e impedisce un effettivo ricambio del personale politico 63. Sulla base di ciò, i “saggi”, esprimendo comunque la propria contrarietà alla soluzione del “mandato unico” in ragione dell’esigenza di assicurare ai parlamentari un minimo «ancoraggio» politico a livello locale, propongono di rendere incompatibile il mandato di deputato e di senatore con ogni mandato elettivo, a eccezione di un mandato locale semplice. Così, i parlamentari non possono esercitare qualsiasi funzione esecutiva locale, anche se “derivata”, in quanto esercitata d’ufficio da eletti locali, né ricevere alcuna indennità relativa al mandato locale 64. Secondo la commissione la riforma riguarda l’insieme dei parlamentari e non è possibile prevedere, sulla base del disposto costituzionale, un trattamento differenziato tra deputati e senatori. Questi ultimi, infatti, pur essendo membri di una camera chiamata ad assicurare la rappresentanza delle collettività territoriali, non sono degli eletti locali, i compiti dell’assemblea nazionale non vengono distinti da quelli del senato e tutti i parlamentari rappresentano l’intera nazione. Infine, i sages ritengono opportuno che la riforma sia applicata già a partire dalle elezioni del 2014 per il rinnovo dei mandati locali e da quelle per i mandati dipartimentali e regionali previste per l’anno successivo. In tale prospettiva, al fine di prevenire un 62 Secondo il Rapport, (ibidem, p. 58), in riferimento all’assemblea nazionale eletta nel giugno e al senato nella composizione dopo il rinnovo parziale del 2011, ben 476 deputati su 577 e 267 senatori su 348 (rispettivamente 82 per cento e 77 per cento) sono in situazione di cumulo e tra essi 340 deputati (59 per cento) e 202 senatori (58 per cento) esercitano funzioni esecutive locali nelle collettività locali. Inoltre, viene sottolineato come tali parlamentari spesso presiedano gli esecutivi di cui sono membri: 261 deputati (45 per cento) e 166 senatori (48 per cento) sono infatti nel contempo sindaci, presidenti del consiglio dipartimentale e regionale. Sul punto, BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., pp. 395 ss.. 63 Sulla persistenza nel tempo degli argomenti a sostegno del divieto del cumulo dei mandati, B. PERRIN, Cumul des mandats: le dénouement, in Revue administrative, n. 297, 2014, p. 58 che al riguardo richiama il rapporto «Vivre ensemble» presentato nel 1976 dalla commissione Guichard. Quest’ultima, infatti, pur non riuscendo ad accordarsi su una proposta volta a separare nettamente i mandati locali da quelli nazionali, riuscì comunque a esporre con chiarezza tutti gli inconvenienti legati alla pratica del cumulo dei mandati, nonché a enumerare le diverse soluzioni possibili al problema e i loro potenziali vantaggi. Sull’incapacità, tuttavia, del rapporto Jospin di cogliere la «dimensione sistematica» della questione del cumulo dei mandati così da coglierne l’origine nel «policentrismo» istituzionale francese, BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., p. 396 ss..
64
Rapport, pp. 61 ss. (proposta n. 15). In merito, il comité Vedel aveva raccomandato l’interdizione del cumulo
tra mandato parlamentare e funzione di sindaco nei comuni con più di 20.000 abitanti (Rapport Vedel. cfr, Cap. II, B. a), mentre il comitato Balladur aveva proposto di vietare «il cumulo tra un mandato nazionale e delle funzioni esecutive locali, compresa la direzione di un ente pubblico di cooperazione intercomunale», richiamando comunque la necessità di giungere a «mandato parlamentare unico» (Rapport Balladur, p. 64, proposta n. 64, su cui si veda M. DE VILLIERS, Réforme du Sénat et cumul des mandats, in Revue politique et parlementaire, 2007, n. 1045, pp. 99 ss.).
21 eccessivo ricorso alle elezioni suppletive, sia legislative che senatoriali, nel caso molti parlamentari decidano di dimettersi per mantenere i mandati locali, il Rapport suggerisce che sia supplente o il primo dei non eletti della lista di appartenenza a sostituire il deputato o il senatore dimissionario. 3.3.2. Riguardo la questione relativa allo statuto del capo dello Stato, i “saggi”, pur esprimendosi a favore del principio generale di irresponsabilità per gli atti funzionali, ritengono necessaria una modifica della procedura di destituzione prevista dall’art. 68 della costituzione per inadempimento dei propri doveri «manifestamente incompatibile» con lo svolgimento del mandato, incentrata sulla deliberazione a maggioranza dei due terzi dei membri del parlamento riunione in Alta Corte a partire da una proposta congiunta dell’assemblea nazionale e del senato adottata in ciascuna camera con analoga maggioranza qualificata65. Così, allo scopo di affermare in modo netto il carattere essenzialmente politico di tale procedura, intesa come il principale strumento per assicurare una soluzione istituzionale a una possibile crisi scatenata da una condotta del presidente gravemente lesiva dell’autorità e della dignità della sua funzione, la proposta della commissione prevede che il termine «Haute Cour» venga sostituito da quello di «parlamento riunito in congresso»66. Riguardo inoltre la responsabilità extrafunzionale del presidente della repubblica (sancita dall’art. 67, secondo e terzo comma della costituzione), la commissione ritiene che sia necessario eliminare la garanzia dell’improcedibilità in base alla quale il capo dello Stato non può, per tutta la durata del mandato, essere giudicato, né costretto a testimoniare davanti ad alcuna autorità giurisdizionale o amministrativa e le azioni avviate nei suoi confronti possono essere riproposte dopo un mese dalla cessazione delle funzioni67. Secondo i sages, infatti, tale disciplina, nell’ipotesi di un quinquennato (e ancor più in quella di due mandati successivi), da un lato non assicura, in ambito penale, un tempo raisonnable in cui poter perseguire e giudicare il presidente della repubblica per gli atti commessi prima dell’ingresso nella carica o nel corso del mandato e dall’altro rende di fatto impossibile ai cittadini intentare delle cause civili nei confronti del capo dello Stato nonostante quest’ultimo sia in grado invece di avviare un’azione legale contro chiunque 68. Sulla base di ciò, la commissione propone di rendere il capo dello Stato soggetto ad azioni penali e civili, ma con alcune particolarità relative alla competenza e al procedimento: l’istituzione di una «commissione superiore di esame preliminare» 65 Al riguardo, fra tutti, si veda M. CAVINO, Francia: la nuova disciplina della responsabilità del Capo dello Stato. Quinta o Sesta Repubblica? In Diritto pubblico comparato e europeo, n. 2, 2007, pp. 271 ss.; ID., L’irresponsabilità del Capo dello Stato. Nelle esperienze italiana (1948-2008) e francese (1958-2008), Giuffrè, Milano, 2008, pp. 161 ss.. Sul tema sia consentito anche il rinvio a R. CASELLA, Francia: la nuova disciplina della responsabilità del Presidente della Repubblica, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 171-172, 2011, pp. 155 ss.. 66 Rapport, pp. 69-70, proposta n. 16. Al riguardo, si segnalano le osservazioni di BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., pp. 401 ss.. 67 Secondo l’ex presidente del consiglio costituzionale Robert Badinter, il presidente della repubblica è posto così sotto una sorta di «campana protettiva» (citato da M. POUJOL, La constitution de partie civile du chef de l’État. État des lieux et perspectives, in Revue française de droit constitutionnel, n. 94, 2013, pp. 397 ss.).
68 Per la commissione Jospin ciò costituisce una «spiacevole asimmetria» (ibidem, p. 69). In merito, MÉLINSOUCRAMANIEN-ROUSSEAU-MATHIEU, La Commission Jospin, premier bilan et prespectives, cit., pp. 31 ss. ;
22 composta da sei membri (i presidenti della corte di cassazione, del consiglio di Stato e della corte dei conti e un membro scelto da ciascuno di essi) chiamata a operare come “filtro” contro le azioni infondate e strumentali, la presenza di più magistrati cui affidare l’istruzione, l’attribuzione della competenza territoriale esclusiva agli organi giudiziari di Parigi, il rafforzamento della collegialità del tribunale e della corte di assise, il divieto di disporre la comparizione, il fermo o la carcerazione preventiva del presidente della repubblica69. La commissione Jospin propone anche la soppressione del privilegio di giurisdizione dei ministri in virtù del quale questi ultimi possono giudicati per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni davanti alla corte di giustizia della repubblica, istituita dalla riforma costituzionale del 1993 e composta da tre magistrati della corte di cassazione e da dodici giudici parlamentari eletti dalle camere tra i propri componenti. Secondo i “saggi”, proprio questa composizione della corte, incentrata sulla presenza maggioritaria della componente politico-parlamentare, è all’origine della progressiva delegittimazione delle sue decisioni, da tempo accolte dai cittadini come prive della necessaria imparzialità. Così, secondo i sages, attraverso la modifica degli artt. 69, primo e secondo comma della costituzione, la cour deve essere soppressa in modo che i ministri vengano giudicati come gli altri cittadini anche se nel quadro di una disciplina speciale in grado di offrire loro, grazie alla previsione di particolari garanzie relative sempre alla competenza e agli aspetti procedurali, una «protezione appropriata» 70 contro il rischio di azioni temerarie e strumentali. 3.3.3. In merito alla messa in opera di una «strategia di prevenzione globale» dei conflitti di interesse nella vita pubblica, così come peraltro già proposto dalla commission Sauvé71 nel 2010, i “saggi” decidono di elaborare le proprie proposte – espressamente non estese anche alla repressione della corruzione – a partire sia da una chiara definizione della nozione di conflitto di interesse, di cui propongono l’introduzione nella legislazione francese, che dalla formulazione di alcuni principi-guida (il miglioramento del quadro normativo esistente, lo sviluppo delle buone pratiche deontologiche e il ricorso all’esternalizzazione)72. Sempre, in tale ottica, la commissione decide inoltre di delimitare POUJOL, La constitution de partie civile du chef de l’État. État des lieux et perspectives, cit., pp. 397 ss.. Sulla posizione «offensiva» (e non solo «difensiva») che può essere assunta dal citoyen-président nel caso di decida di promuovere un’azione giudiziaria, J. MARTINEZ, L’action en justice du président dela Rèpublique: un ciyoten comme un autre?, ivi, n. 99, 2014, pp. 533 ss.. 69 Rapport, pp. 70-75, proposte nn. 17 e 18. 70 Ibidem, pp. 78 ss., proposta n. 19. 71 La già citata commissione di riflessione per la prevenzione dei conflitti di interesse nella vita pubblica, istituita con il d. 2010-1072 del 10-09-10 e affidata alla direzione di Jean-Marc Sauvé, vicepresidente del consiglio di Stato, ha presentato il suo rapporto finale nel gennaio 2011. Per un confronto delle due commissioni, BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., pp. 404 ss.. 72 Secondo il Rapport, costituisce un conflitto di interesse ogni «situazione di interferenza tra un interesse pubblico e degli interessi pubblici e privati in grado di compromettere l’esercizio indipendente, imparziale e obbiettivo di una funzione» (Rapport, p. 84). Su tale problema definitorio, si vedano le considerazioni di Y. MÉNY, De la confusion des intérêts au conflit d’intérêts, in Pouvoirs, n. 146, 2013, p. 9 e di M. MEKKI, La lutte contre les conflits
23 la propria riflessione ad alcune categorie di agenti pubblici, come i membri del governo e dei gabinetti ministeriali, i collaboratori del presidente della repubblica, i titolari di alte funzioni amministrative dello Stato, i membri e i responsabili delle autorità amministrative indipendenti, i parlamentari e i componenti del consiglio costituzionale. In particolare, riguardo ai membri del governo, la commissione Jospin raccomanda la modifica dell’art. 23 della costituzione, al fine di estendere il regime delle incompatibilità anche «a ogni funzione di direzione o di amministrazione all’interno di un partito o di un gruppo politico» (come quella di presidente, segretario generale, segretario nazionale e tesoriere) e «a ogni altra persona morale» (comprese le società commerciali e le associazioni), nonché l’introduzione dell’obbligo di sottoscrivere una «dichiarazione di interessi e di attività» (déclaration d’intérêts et d’activités73) destinata a essere resa pubblica dopo un controllo di veridicità e completezza da parte della costituenda «autorità per la deontologia della vita pubblica» (Haute autorité pour la transparence de la vie publique, HATVP)74. La commissione impone tale obbligo anche ai parlamentari, ai collaboratori del presidente della repubblica, ai componenti dei gabinetti ministeriali, ai titolari di alte funzioni amministrative dello Stato e ai membri delle autorità amministrative indipendenti, prescrivendo però solo la remissione della dichiarazione all’Haute autorité e non anche la sua pubblicazione, prevista invece per i deputati e i senatori 75. d’intérêts: essor de la transparence ou règne de la méfiance?, ivi, p. 20. Sui passaggi obbligati della politica di prevenzione dei conflitti di interessi, M. PINAULT, Conflits d’intérêts: glaive ou boomerang?, ivi, p. 33 ss.. 73 Tale dichiarazione viene così ad aggiungersi a quella «sulla situazione patrimoniale» resa obbligatoria per i membri del governo dalla citata l. n. 88-227 (istituto poi ampiamento riformato con la legge n. 95-126 dell’8-02-95 relativa alla «dichiarazione del patrimonio dei membri del Governo e dei titolari di alcune funzioni»). 74 I “saggi”, riprendendo la proposta avanzata dalla citata commissione Sauvé, sottolineano la necessità di «costruire un’architettura istituzionale della deontologia e della prevenzione dei conflitti di interesse» intorno a un’autorità centrale posta al centro di una rete di esperti designati da ogni amministrazione pubblica. L’Haute autorité, chiamata a prendere il posto della Commission pour la transparence financière de la vie politique, istituita dalla già citata legge n. 88-227, è composta da tre membri di diritto (il vicepresidente del consiglio di Stato, il primo presidente della corte di cassazione e il primo presidente della corte dei conti) e da altre sei personalità qualificate, di cui due nominate dal presidente della repubblica, due dal presidente dell’assemblea nazionale e due dal presidente del senato sentito il parere delle competenti commissioni delle due assemblee. Nel progetto della commissione, l’HATVP, oltre a esercitare un controllo sulle dichiarazioni di interessi e di attività, offre alle varie amministrazioni la propria attività di consulenza riguardo la redazione delle carte deontologiche e dei codici di buone pratiche, nonché la validazione delle regole di correttezza previste per i rappresentanti di interessi. Oltre a ciò, il Rapport prevede l’introduzione di un dispositivo di «allerta etica» in grado di consentire al cittadino che ha identificato un conflitto di interessi, potenziale o già in atto, di adire l’Alta autorità (Rapport, pp. 103 ss., proposte nn. 33-35). 75 Dal momento che i parlamentari, in base alle disposizioni del code électoral, sono obbligati a presentare una dichiarazione sulla situazione patrimoniale e una dichiarazione delle attività, nonché a predisporre, in ragione delle regole deontologiche adottate dall’assemblea nazionale e dal senato, anche una dichiarazione di interessi, la commissione raccomanda che quest’ultima, una volta riconosciuta dalla legge come obbligatoria, sia resa identica in entrambe le camere nel quadro di un unico documento pubblico comprendente anche la dichiarazione delle attività. Sulla necessità di un quadro deontologico unitario per i parlamentari, si vedano M.-P. PRAT e C. JANVIER, Les conflits d’intérêts chez les élus, ivi, pp. 60 ss..
24 Inoltre, viene proposto che i membri del governo debbano obbligatoriamente consegnare a un intermediario un mandato di gestione del loro patrimonio mobiliare (comparabile a quello già da tempo imposto, quale “buona pratica deontologica”, dal primo ministro ai propri ministri) in cui si prevista, al fine di evitare l’abuso di informazioni privilegiate, l’impossibilità per il ministro di fornire ordini di acquisto o di vendita di strumenti finanziari prima del mese successivo alla cessazione dalle funzioni ministeriali. Sempre in riferimento ai membri del governo, la commissione suggerisce anche alcune modifiche alle misure sanzionatorie previste per il reato di «difesa illegale di interessi» (prise illégale d’intérêts). In effetti, l’art. 432-12 del codice penale prevede che sia perseguibile il titolare di un incarico pubblico che compia un atto in grado di favorire un proprio interesse personale a scapito di quello dell’organismo pubblico presso cui opera, mentre l’art. 432-13 del codice penale disciplina la sanzione per i dipendenti pubblici («functionnaires et agents d’une administration publique») che commettono il reato di «difesa illegale di interessi» una volta cessato il loro incarico 76. Secondo i sages, è necessario non solo estendere la pena prevista da quest’ultima disposizione del codice penale ai membri del governo, ma anche modificare la redazione dell’art. 432-12 del codice penale in modo che venga meglio precisato l’elemento materiale del reato. La commissione raccomanda inoltre di estendere le regole di incompatibilità previste per i dipendenti pubblici anche ai collaboratori del presidente della repubblica e ai membri dei gabinetti ministeriali e al fine di limitare gli abusi del c.d. pantouflage (il passaggio degli alti funzionari dello Stato, una volta cessati dal servizio, ai più remunerativi incarichi del settore privato) propone di rafforzare il controllo esercitato su tale accesso dalla «commissione di deontologia della funzione pubblica» (commission de déontologie de la fonction publique istituita dalla legge n. 93-122 del 29 gennaio 1993, prospettando di estendere la vigilanza all’intera attività svolta da tutti gli organismi pubblici svolgenti un’attività economica, nonché di integrare la stessa commissione con l’Haute autorité77. Nel Rapport viene inoltre proposto il rafforzamento della disciplina delle incompatibilità professionali previste a carico dei parlamentari (con l’impossibilità di accedere alla professione di avvocato nel corso del mandato e di svolgere funzioni direttive all’interno di imprese private), l’abolizione della categoria dei membri di diritto del consiglio costituzionale – come peraltro già suggerito dalle commissioni Vedel e Balladur 78
76 In merito, si veda D. REBUT, Les conflits d’intérêts et le droit pénal, ivi, pp. 123 ss.. 77 Rapport, pp. 87 ss., proposte nn. 20-30. Sulla dimensione del pantouflage, fra tutti, B. BOUZIDI et al., Le pantouflage des énarques: une prémière analyse statistique, in Revue française d’économie, n. 3, 2010, pp. 115 ss.; sul tema, anche J. LASSERRE CAPDEVILLE, Le délit de «pantouflage», in Actualité juridique collettivités locales, (AJCT), 2011, p. 395 ss.. 78 Cfr., Rapport Vedel, cap. 1, A.b. § 3 e Rapport Balladur, p. 90, proposta n. 75. Sulla principale anomalia del sistema di giustizia costituzionale d’oltralpe, richiamata anche dalla commissione Jospin, ovvero la confusione tra funzioni giurisdizionali e funzioni politiche causata dalla presenza in seno al consiglio, come membri di diritto, degli ex presidenti della repubblica, si veda BIAGI, La costituzione francese tra continuità ed innovazione, cit, pp. 132 ss.. Sull’argomento sia consentito anche il rinvio a R. CASELLA, L’indipendenza del Consiglio costituzionale francese, in M. CALAMO SPECCHIA (a cura di), Le Corti Costituzionali. Composizione, Indipendenza, Legittimazione, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 277 ss..
25 – nonché il divieto per i componenti dello stesso conseil di esercitare qualsiasi attività di consulenza, ancorché regolamentata 79. 4. A due anni dalla presentazione del Rapport, solo una parte delle proposte della commissione Jospin risulta essere stata adottata dal parlamento francese. Diverse proposte di legge di revisione costituzionale, da tempo presentate dal governo alle camere, non sono state ancora discusse, mentre alcune riforme al centro del programma di «rinnovamento democratico» predisposto dai “saggi” sono divenute l’oggetto di leggi organiche e ordinarie relative all’introduzione del divieto di cumulo dei mandati, al rafforzamento della trasparenza della vita pubblica, alla modifica delle modalità di elezione del senato e all’ampliamento delle modalità di accesso delle donne al mandato parlamentare. 4.1. L’8 gennaio 2013, nel corso del tradizionale scambio di auguri con i membri del consiglio costituzionale, il presidente Hollande ha manifestato l’intenzione di promuovere una «démocratisation» delle istituzioni francesi attraverso una serie di riforme costituzionali già al centro, com’è stato sottolineato, del proprio programma elettorale80. Il capo dello Stato, in particolare, richiamando direttamente le risultanze della commissione Jospin, ha annunciato l’avvio del procedimento di revisione per sopprimere la categoria dei membri del conseil constitutionnel, abolire la corte di giustizia della repubblica, rafforzare il ruolo del consiglio superiore della magistratura, modificare lo statuto del presidente della repubblica e sviluppare la democrazia sociale. Hollande, inoltre, ha dichiarato di rinunciare all’introduzione del parrainage citoyen in ragione della mancata adesione dei partiti alla riforma, ma ha reso noto di aver richiesto al governo la predisposizione di un progetto di legge volto a «migliorare» le modalità di finanziamento delle campagne presidenziali e a modificare le regole di accesso dei candidati ai media nel periodo «intermedio»81. Il successivo 13 marzo, nel corso del consiglio dei ministri, il primo ministro Ayrault ha presentato, su impulso del presidente della repubblica e dopo aver consultato i vertici dei gruppi parlamentari al fine di individuare le riforme in grado di raccogliere la maggioranza qualificata necessaria alla loro adozione da parte del parlamento riunito in congresso, quattro disegni di legge di revisione costituzionale aventi per oggetto la democrazia sociale, la disciplina delle incompatibilità relative all’esercizio delle funzioni ministeriali e alla composizione del consiglio costituzionale, la riforma del consiglio superiore della magistratura e la responsabilità del presidente della repubblica e dei membri del governo82. A differenza di Sarkozy che nel 2008 aveva scelto di elaborare un testo unico per la revisione di più disposizioni della carta, il presidente Hollande decide così di presentare 79 Rapport, pp. 98 ss. (proposte nn. 31 e 32). 80 Il testo completo dell’intervento di Hollande è disponibile sul sito dell’Eliseo.
81 Sul punto, P. JAN, F. Hollande annonce au moins deux chantiers constitutionnels, in Droitpublic.net, 0801-13. Sul punto anche P. PICIACCHIA, Il presidente Hollande ad un anno dalla conquista dell’Eliseo: un indirizzo portato avanti tra crescente impopolarita’ interna, “affaire Cahuzac” e qualche rilancio in politica estera, in Nomos, 1, 2013. 82 I progetti di legge di revisione costituzionale sono rispettivamente i nn. 813, 814, 815 e 816.
26 diversi disegni di legge costituzionale, non solo in ragione del carattere «molto globale» della république exemplaire (non paragonabile al disegno unitario sotteso alla proposta del suo predecessore, finalizzata a una “riforma di insieme” della Cinquième), ma anche della necessità di ottenere, articolando in modo pragmatico il proprio progetto, un consenso minimale da parte dei parlamentari nel quadro di una strategia volta a evitare una discussione generale sull’insieme degli interventi fondata sulla contrattazione politica e sulla ricerca di mere soluzioni compromissorie 83. In particolare, in merito alle due proposte connesse alle risultanze della commissione Jospin, l’art. 1 del progetto di legge relativo all’incompatibilità degli incarichi governativi e alla composizione del conseil constitutionnel emenda l’art. 23 della costituzione al fine di interdire il cumulo tra le funzioni ministeriali e quelle «esecutive» in seno alle collettività territoriali (anche d’oltremare) od ai più importanti enti pubblici di cooperazione (EPCI) costituiti al loro interno 84, mentre all’art. 2 sopprime il secondo comma dell’art. 56 della costituzione volto a consentire agli ex presidenti della repubblica di diventare membri di diritto del consiglio costituzionale, escludendo però, all’art. 3, qualsiasi effetto retroattivo di tale abrogazione, in modo da non porre così in discussione la posizione degli attuali componenti dell’Haute instance. Riguardo invece la disciplina della responsabilità del capo dello Stato e dei membri del governo, il testo presentato dal governo, da un lato, attraverso la revisione dell’art. 67, prevede che il presidente della repubblica, una volta concessa l’autorizzazione della commissione per i ricorsi prevista dal nuovo testo dell’art. 68-1 ed esclusa ogni azione in grado di compromettere l’adempimento del suo incarico e di attentare alla dignità della sua funzione, possa, al pari di ogni altro cittadino, essere oggetto di un’azione legale in ambito civile (ma non penale, come previsto nel programma elettorale di Hollande); dall’altro, con la modifica del titolo X della costituzione, sopprime il privilegio di giurisdizione dei ministri in modo che questi ultimi possano venire giudicati da tribunali ordinari anche per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni, pur attraverso il “filtro” operato dalla commissione per i ricorsi e sulla base di particolari garanzie. Tuttavia, il 4 luglio 2013, il governo ha sospeso la riforma del consiglio superiore della magistratura dopo che il senato, in seconda lettura, aveva profondamente modificato, fino a snaturarne il contenuto, il testo iniziale del relativo progetto di legge costituzionale e da allora si è astenuto dal porre all’ordine del giorno delle camere gli altri tre progetti di revisione85. 4.2. Il 3 aprile 2013 il ministro dell’interno ha presentato due progetti di legge organica e di legge ordinaria volti a vietare il cumulo delle funzioni esecutive locali 83 Per P. JAN, Réforme constitutionnelle à la carte, in Droitpublic.net, 14-03-13, la riforma proposta è «nettamente meno ambiziosa del previsto». Sulla strategia politica adottata dal capo dello Stato per la sua approvazione, ID., Constitution. Réforme constitutionnelle. Question de méthode avant tout, in Le Huffigton Post, 19-03-13. 84 Tra i motivi esposti dal governo riguardo la presentazione del disegno di legge costituzionale viene richiamata la necessità di dare una «base costituzionale» alla decisione, adottata dallo stesso gabinetto Ayrault e da altri esecutivi, a partire da quello presieduto da Lionel Jospin nel 1997, di vietare tale cumulo di funzioni ai membri del governo (divieto di fatto imposto dalla sola autorità del primo ministro e da allora ribattezzato come «jurisprudence Jospin») 85 Sulle circostanze politiche che hanno posto in minoranza il governo, si veda l’analisi di P. JAN, Pas de réforme de CSM, in Droitpublic.net, 04/07/13.
27 rispettivamente con il mandato di deputato e di senatore e con quello di rappresentante al parlamento europeo86. I due progetti di legge sono stati adottati dal consiglio dei ministri e contestualmente presentati all’assemblea nazionale con la richiesta della procedura d’urgenza per entrambi. L’iniziativa, preannunciata il 20 marzo dal primo ministro di fronte all’assemblea nazionale su indiretta indicazione dell’Eliseo, è stata pubblicamente sollecitata da una parte dei parlamentari del partito socialista quale misura in grado di assicurare «un’indispensabile modernizzazione della vita politica francese» 87, giudizio non condiviso da un alcuni noti giuristi e politologi francesi, firmatari invece di una lettera al capo dello Stato e ai presidenti delle camere di aperta opposizione alla riforma 88. Com’è noto, il fenomeno del cumulo dei mandati – dal XIX secolo una costante della storia costituzionale d’oltralpe da riconnettere alla centralizzazione del sistema 86 Cfr., Projet de loi organique interdisant le cumul de fonctions exécutives locales avec le mandat de député ou de sénateur n, 885 e Projet de loi interdisant le cumul de fonctions exécutives locales avec le mandat de représentant au Parlement européen n. 886. 87 Il 28 febbraio 2013, era stato pubblicato sul quotidiano Le Monde un appello al governo («Le non-cumul des mandats, c’est maintenant!») sottoscritto da 39 deputati socialisti che, nel ricordare l’impegno morale, assunto di fronte agli elettori, di rassegnare le dimissioni dal loro mandato negli esecutivi locali entro l’autunno 2012 (peraltro non ancora rispettato da una minoranza dei loro colleghi di partito), sottolineavano quanto ormai «l’esigenza democratica, la trasparenza e di esemplarità» imponessero di porre fine al cumulo dei mandati, definito come una vera e propria «incongruità francese» in grado di «avvelenare i meccanismi istituzionali». I parlamentari chiedevano così all’esecutivo la presentazione del relativo progetto di legge al fine di assicurare l’applicazione della riforma già a partire dalle successive scadenze elettorali del 2014. 88 Nella loro lettera del 20 marzo 2013, i professori di diritto o di scienza politica Pierre Avril, Olivier Beaud e Laurent Bouvet, nonché lo storico e politologo Patrick Weil (che aveva già pubblicato l’articolo Il faut cumuler les mandats politiques su Le Monde del 20-02-13), hanno sostenuto che il divieto del cumulo dei mandati, in luogo di favorire il «rinnovamento democratico», come affermato dal presidente Hollande in campagna elettorale, al contrario altererebbe l’equilibrio dei poteri. Secondo i firmatari, l’introduzione del quinquennato e il nuovo calendario elettorale adottato in relazione ad esso, rendendo l’assemblea nazionale e il governo strettamente dipendenti dal capo dello Stato, finirebbero per accentuare la dinamica in senso presidenziale della Quinta repubblica. In tale quadro istituzionale, un fattore di riequilibrio del sistema sarebbe proprio la presenza degli eletti locali in seno alle camere. Questi ultimi, infatti, godrebbero di fronte al potere esecutivo di una forza e di un’indipendenza assai maggiori rispetto ai colleghi titolari del solo mandato parlamentare e, in qualità di eletti a livello locale (e in particolare di sindaci), sarebbero capaci di curare gli interessi di tutti i cittadini e non solo degli elettori del proprio partito. In sostanza, «l’eccezione francese del cumulo dei mandati» verrebbe ad assicurare «un contrappeso all’«eccezione francese del cumulo dei poteri e della concentrazione estrema di questi poteri nelle mani del presidente della repubblica» e pertanto la riforma proposta, seppur «popolare», costituirebbe in realtà una «falsa soluzione». Tale iniziativa ripropone il confronto tra le tesi a sostegno della riforma e quelle invece al mantenimento del cumulo dei mandati (al riguardo, se ne veda l’ampia ed efficace sintesi nel Rapport d’information della commissione leggi costituzionali, legislazione e amministrazione generale della repubblica presentato il 26 giugno 2013 dal deputato Christophe Borgel, p. 33 – in seguito citato come Rapport Borgel – a cui rinvia anche PERRIN, Cumul des mandats, cit., pp. 61 ss.). Così, al riguardo, la principale tra le argomentazioni che giustificano l’introduzione del divieto è quella che scaturisce dal fatto di intendere il cumulo dei mandati come un ostacolo al pieno esercizio da parte dei parlamentari
28 politico-amministrativo89 – si è particolarmente accentuato nel corso della Quinta repubblica fino a porsi come uno degli elementi caratterizzanti del suo sistema politico, tanto da originare una vera e propria «specificità» della Francia rispetto alle altre esperienze europee90. Posto ciò, molteplici sono state, fin dagli anni Ottanta, le iniziative finalizzate all’adozione di una legislazione capace di contrastare in modo efficace la pratica del cumulo dei mandati, definita efficacemente come una «représentation multicartes»91, ma la costante impossibilità di formare una maggioranza parlamentare suscettibile di adottare una legge adeguatamente restrittiva ha sempre impedito di giungere ad un’organica riforma. La prima normativa in materia di divieto di cumulo dei mandati è stata quella assicurata dalla legge organica n. 85-1405 del 30 dicembre 1985, adottata a seguito della delle prerogative loro riconosciute dalla costituzione, specie dopo la revisione del 2008 che ha ampliato i poteri delle camere (considerazione che ha spinto Guy Carcassone a coniare la formula lapidaria «ciò che manca al Parlamento non sono i poteri, ma i deputati per esercitarli», cfr, G. CARCASSONNE; Préface a R. DOSIÈRE, L’argent caché de l’Élysée, Paris, Seuil, 2007). In merito, lo studio condotto sulla XIII legislatura (2007-2012) dal direttore di ricerca CNRS, Luc Rouban, ha evidenziato l’assenza di una correlazione tra il numero dei mandati e «l’investimento nell’insieme del lavoro parlamentare» (cfr., M. L. ROUBAN, Le cumul des mandats et le travail parlementaire, note de CEVIPOF, 2012, n. 9), mentre altre ricerche suggeriscono invece un impatto negativo sull’attività parlamentare dell’esercizio tanto di funzioni esecutive locali (in tal senso A. FRANÇOIS, Cumul des mandats et activité législative des députés français: quelle incidence? Une analyse de la production législative durant la XII e législature», comunication au Colloque de Groupe d’études sur la vie et les institutions parlementaires (GEVIPAR), «Retour sur le cumul des mandats», 6 mai 2010) che di un mandato elettivo locale (così L. BACH, Faut-il abolir le cumul des mandats?, Paris, Éditions Rue d’Ulm, 2012, pp. 57 ss. sulla base di uno studio condotto sul periodo 1988-2011 e in riferimento all’attività svolta dai deputati in seno alle commissioni parlamentari). Altri argomenti invocati a sostegno della riforma sono il contributo che l’introduzione del divieto del cumulo dei mandati può offrire a una migliore articolazione tra i diversi livelli territoriali di governo e il rinnovamento del personale politico locale e nazionale. Al contrario, i difensori dello statu quo, oltre a invocare il legame tra cumulo dei mandati e mantenimento dell’equilibrio istituzionale, tema richiamato dalla citata lettera dei quattro docenti universitari, ritengono necessario che i parlamentari mantengano un «ancoraggio locale» in grado di assicurare loro un «legame di prossimità» con gli elettori, posta anche la scelta di questi ultimi di preferire regolarmente candidati all’assemblea nazionale già titolari di molteplici mandati (Rapport Borgel, pp. 23 ss..). 89 In merito, è obbligatorio il ricorso alla celebre frase di Michel Debré sul cumulo dei mandati come «uno dei processi della centralizzazione francese», in M. DEBRÉ, Trois caractéristiques du système parlementaire français, in Revue française de science politique, 1955, n. 1, p. 27.
90
Nel confronto con gli altri paesi europei, la situazione della Francia appare significativamente peculiare visto
che la percentuale dei suoi parlamentari che ricoprono altri mandati è pari all’85 per cento contro il 18 per cento dell’Italia, il 15 per cento della Spagna, il 13 per cento della Gran Bretagna e il 10 per cento della Germania (cfr., PERRIN, Cumul des mandats, cit., p. 61). Sul punto si rinvia anche a J. BOUDON, Sur le cumul des mandats: quelle originalité française?, in Revue du droit public et de la science politique en France et à l’étranger, 2010, 6, pp. 1696 ss.; M. PASTOR, Le cumul des mandats, une «exception française» à revoir, in Actualité juridique des collectivités territoriales, 2012, pp. 112 ss..
29 décentralisation del 1982-83. Tale disciplina ha stabilito il principio dell’incompatibilità tra il mandato di deputato e l’esercizio di più di un mandato fra quelli di rappresentante all’assemblea delle comunità europee, di consigliere regionale, dipartimentale, di Parigi, di sindaco di un comune di oltre 20.000 abitanti o di vicesindaco in comuni con oltre 100.000 abitanti. La legge n. 85-1406, intervenendo sui mandati locali, ha poi vietato il cumulo di oltre due dei mandati previsti dalla normativa organica, nonché quello tra le funzioni di presidente di consiglio dipartimentale e regionale. Successivamente, il parlamento, rendendo meno restrittivo il progetto di riforma della materia presentato dal governo Jospin nel 1998, ha adottato la legge organica n. 2000-294 del 5 aprile 2000 relativa alle incompatibilità tra mandati elettorali e la legge n. 2000-295 del 5 aprile 2000 volta a limitare il cumulo dei mandati elettorali e delle funzioni, nonché le loro condizioni di esercizio. La nuova legislazione circoscrive il cumulo dei parlamentari nazionali a due mandati, con la possibilità di esercitare un mandato di consigliere municipale in un comune con meno di 3.500 abitanti, ma consente agli altri eletti di conservare solo due mandati e una sola funzione esecutiva locale, senza peraltro impedire ai titolari di un mandato elettivo, trovatisi in una situazione di incompatibilità alla data di promulgazione della legge, di continuare a disporre dei loro mandati fino al successivo rinnovo. La legge n. 2000-295 sancisce inoltre l’incompatibilità tra il mandato di parlamentare europeo e la presidenza di un esecutivo locale. In seguito, al fine di non mantenere un diverso trattamento tra parlamentari nazionali e parlamentari europei, la legge n. 2003-327 dell’11 aprile 2003 ha tuttavia allineato il regime delle incompatibilità previsto per i membri del parlamento europeo a quello dei deputati e dei senatori. Posti tali precedenti, il progetto di legge organica presentato dal governo Ayrault, in linea con le indicazioni della commissione Jospin vieta all’art. 1, il cumulo di funzioni esecutive locali con il mandato di deputato e di senatore, inserendo nel code électoral un nuovo art. LO 141-1 volto a sancire l’incompatibilità dei due mandati con l’esercizio di una funzione esecutiva locale, mentre il disegno di legge ordinario all’art.1 estende tale divieto anche ai deputati europei. Il perimetro di tale interdizione stabilito dai due progetti di legge è dunque molto ampio in quanto comprendente le funzioni di sindaco e di vice-sindaco (indipendentemente dal numero di abitanti del comune), di presidente e vice presidente del consiglio generale e del consiglio regionale, nonché quelle esercitate come presidente o vice presidente dell’assemblea delle collettività a statuto speciale (la Corsica o le collettività d’oltremare come, tra le altre, la Guyana, la Martinica, la nuova Caledonia e la Polinesia francese) ed anche come presidente e vice presidente di un ente pubblico di cooperazione intercomunale dotato di imposte proprie (EPCI). La nuova disciplina non impedisce comunque al parlamentare di ricoprire un mandato locale semplice come quello di consigliere. Nell’ipotesi di incompatibilità, l’art. 2 del progetto di legge organica (nonché l’art. 1 della legge ordinaria), riprendendo il dispositivo previsto dalla citata legge organica n. 2011-410 del 14 aprile 2011 sul divieto di cumulo tra il mandato di parlamentare e più di un mandato elettivo locale, prevede la libertà di scelta entro il termine di trenta giorni dalla data di proclamazione dei risultati relativi alla consultazione che ha fatto sorgere il conflitto, scaduto il quale l’eletto decadrebbe automaticamente dal mandato più risalente. Viene inoltre resa più semplice la sostituzione del deputato o del senatore dimissionario che abbia optato, con le proprie dimissioni da parlamentare, per l’esercizio di funzioni esecutive locali, in quanto, secondo le indicazioni della commissione Jospin, è prevista anche per questa fattispecie la possibilità di sostituzione da parte del supplente, contestualmente eletto, in luogo del ricorso all’elezione suppletiva. Il governo ha voluto così evitare che dopo ogni consultazione locale si possano svolgere, nel corso della 91 Così J. JULLIARD, Le malheur français, Paris, Flammarion, 2005, p. 108.
30 legislatura, molteplici elezioni parziali in grado di “destabilizzare”, al pari di tanti «miniscioglimenti»92, la composizione delle assemblee parlamentari. L’art. 4 del progetto di legge organica e l’art. 3 del progetto di legge ordinaria prevedono infine un’entrata in vigore della nuova incompatibilità dal primo rinnovo di ciascuna assemblea parlamentare successivo alla data del 31 marzo 2017. In sostanza, tali rinnovi vengono a riguardare l’elezione dell’assemblea nazionale prevista nel giugno 2017, di una parte dei senatori nel successivo settembre e del parlamento europeo nel 2019. Il governo ha scartato infatti un’entrata in vigore della riforma a partire dai successivi rinnovi dei mandati locali, quali le elezioni municipali del 2014 e quelle dipartimentali e regionali del 2015, come proposto dalla commissione Jospin, in quanto destinata a cambiare le régles du jeu nel corso della legislatura (con una conseguente diseguaglianza tra i parlamentari in funzione del mandato locale eventualmente ricoperto e della relativa situazione di incompatibilità), nonché a determinare un significativo aumento dei casi di ricorso al supplente 93. L’approvazione della riforma ha conosciuto un iter parlamentare piuttosto sofferto. Il testo, infatti, dopo essere stato adottato il 9 luglio 2013 in prima lettura dall’assemblea nazionale con alcune modifiche introdotte dalla commissione delle leggi costituzionali 94, 92 Cfr, Rapport Borgel, p. 33. 93 Al riguardo, si rinvia allo studio di impatto allegato dal governo alla proposta di legge organica. Sulla questione dell’entrata in vigore della riforma già dalle elezioni locali del 2014, si veda il confronto tra le posizioni di vari costituzionalisti francesi sollecitato dal relatore Borgel e riportato nel citato Rapport Borgel, pp. 35 ss.. In particolare, secondo Guy Carcassonne, uno dei principali propugnatori dell’abolizione del cumulo dei mandati, l’entrata in vigore della riforma a partire dal 2014 sarebbe da ritenersi incostituzionale in ragione dei numerosi casi di ricorso al supplente da essa determinati. Questa tesi è condivisa anche da Jean-Philippe Derosier a partire dall’assenza di un motivo di interesse generale in grado di giustificare la modifica delle regole elettorali nel corso del mandato parlamentare (in merito si veda J.-P. DEROSIER, Limitation du cumul des mandats; pourquoi il faut attendre 2017, in Slate.fr, 14-03-2013, ivi citato). Meno categorici riguardo il rischio di costituzionalità risultano essere Julien Boudon e Jean-Eric Gicquel: il primo sottolinea come il progetto di legge organica non contempli l’eventualità di uno scioglimento anticipato dell’assemblea nazionale prima della data fissata per l’entrata in vigore della riforma, mentre il secondo evoca la possibilità che il consiglio costituzionale, al fine di evitare il rischio di un’instabilità politica provocata da un numero elevato di elezioni parziali, possa ammettere un’estensione dei casi di ricorso al supplente limitata al 2014 e 2015 (J.-E. GICQUEL, Non-cumul des mandats:à Pâques ou à Trinité?, in La Semaine juridique. Édition générale, 11-03-2013, n. 11-12, pp. 515 ss., ivi citato). Favorevole invece all’applicazione della riforma già dal 2014 è invece Dominique Rousseau (membro, com’è noto, della commissione Jospin) secondo cui è necessario ricordare la competenza del legislatore organico, ex art. 25, secondo comma della costituzione, a stabilire le condizioni per l’elezione delle persone chiamate ad assicurare, in caso di vacanza del seggio, la sostituzione dei parlamentari, nonché l’orientamento adottato dal consiglio costituzionale nei casi in cui è stato chiamato a esprimersi sulla modifica della durata dei mandati elettivi. I giudici del Palais-Royal, sottolinea Rousseau, hanno da un lato sempre precisato di non disporre in materia di un potere di valutazione e di decisione equiparabile a quello del parlamento, dall’altro valutato la necessità di assicurare la rapida applicazione di una riforma come un motivo di interesse generale per giustificare la riduzione o l’allungamento dei mandati in corso. 94 Tra le altre, il testo prevede l’introduzione di nuove incompatibilità con le funzioni di presidente e vicepresidente di un syndacat mixte e di qualunque altro organo deliberante di ente locale in seguito istituito per legge, di presidente o di membro dell’ufficio di presidenza dell’assemblea dei francesi all’estero, nonché di presidente o vice-
31 non è votato dal senato che, al contrario, ne approva per due volte uno diverso in cui i senatori sono esclusi dal divieto assoluto di cumulo delle cariche ed è loro consentito di mantenere sia la carica parlamentare che l’esercizio di un solo mandato esecutivo locale, pur in presenza del divieto di cumulo delle rispettive indennità 95. Secondo il senato, infatti, è necessario applicare un diverso regime per le due camere in virtù dell’art. 24, quarto comma della costituzione, in base al quale, com’è noto, spetta all’Haute assemblée di rappresentare le collettività territoriali della repubblica. Secondo invece l’orientamento dell’assemblea nazionale e le previsioni del governo, nonché, com’è stato richiamato, le indicazioni della commissione Jospin, tale differenziazione non è giuridicamente fondata, dal momento che l’art. 24 della costituzione, nel definire i compiti del parlamento, non distingue tra quelli dell’assemblea nazionale e quelli del senato, mentre il successivo art. 27, relativo al divieto di mandato imperativo, impone che anche i senatori, seppure scelti da un collegio composto in prevalenza da eletti locali, rappresentino come i deputati l’intera nazione. Inoltre, ammettere una diversa disciplina tra deputati e senatori avrebbe potuto porre in discussione il bicameralismo, avviando la trasformazione del ruolo del senato, da assemblea legislativa «à part entière» a camera competente unicamente sulle questioni relative alle collettività territoriali96. Posta l’incompatibilità delle due versioni adottate dalle assemblee, la commissione mista paritaria non è stata in grado di proporre un testo comune di compromesso e così, dopo una nuova lettura in ciascuna camera, il 22 gennaio 2014 l’assemblea nazionale, su richiesta del governo e conformemente all’art. 46, terzo comma della costituzione, si è
presidente del consiglio di amministrazione – e in taluni casi anche del consiglio di sorveglianza – di una serie di enti pubblici (così da coprire, come indicato dalla commissione Jospin, anche le funzioni «derivate»), nonché l’introduzione dell’obbligo per i parlamentari in situazione di cumulo di conservare l’ultimo mandato acquisito. 95 In merito, si rinvia al testo adottato dal senato in prima lettura e in seconda lettura. Sul punto, anche PERRIN, Cumul des mandats, cit., pp. 63 ss.. 96 Sul punto, si veda l’étude d’impact elaborato dall’assemblea nazionale sul progetto di legge in prima lettura.
32 espressa in via definitiva. Una volta pronunciatosi il consiglio costituzionale 97, le due leggi sono state poi promulgate dal capo dello Stato il successivo 14 febbraio 98 4.3. Il 10 aprile 2013 il primo ministro Ayrault e poi il presidente Hollande, nel tentativo di far fronte alle polemiche politiche e alla reazione dell’opinione pubblica provocate dall’affaire Cahuzac99, hanno presentato alcune misure volte a «rinforzare la trasparenza della vita pubblica» come, in particolare, la pubblicazione della dichiarazione sulla situazione patrimoniale dei ministri, peraltro già obbligati a presentare, dall’assunzione del proprio incarico nel giugno 2012, una dichiarazione di interessi. Il consiglio dei ministri del successivo 24 aprile ha deliberato la presentazione al parlamento di due progetti di legge (organica e ordinaria) che, nel richiamare espressamente le risultanze delle commissioni Jospin e Sauvé in tema di conflitto di 97 Cfr. sent. n. 2014-689 DC del 13-2-2014 (relativa alla l.o. n. 2014-125), pubblicata sul Journal Officiel del 16-02-2014, p. 2706, t. n. 3 e sent. n. 2014-688 DC del 13-2-2014 (relativa alla l. n. 2014-126), pubblicata sul Journal Officiel del 13-02-2014, p. 2709, t. n. 4. Al riguardo, il conseil ha globalmente giudicato le due leggi conformi alla costituzione, limitandosi alla censura di una disposizione secondaria della legge organica e a una riserva d’interpretazione per quella ordinaria. Così, i giudici, delineando senza equivoci la propria giurisprudenza, sottolineano che ogni legge organica applicabile al senato non è da considerarsi come una legge organica relativa allo stesso, nella misura in cui le disposizioni della disciplina organica «né modificano, né instaurano delle regole applicabili al senato o ai suoi membri diverse da quelle che si applicano all’assemblea nazionale e ai suoi membri». Inversamente, le disposizioni (art. 8, IV) relative alla sostituzione dei senatori eletti con un sistema proporzionale, distinguendosi da quelle previste per le elezioni suppletive dei seggi vacanti dei deputati, determinano una differenziazione tra le due assemblee che richiede, ai sensi dell’art. 46, quarto comma della costituzione sulle leggi organiche relative al senato, l’adozione dello stesso testo da parte delle due camere. Così, secondo il consiglio, poiché il senato ha votato un testo diverso da quello approvato dall’assemblea nazionale in ultima lettura, tale articolo è da censurare in quanto adottato secondo una procedura contraria alla costituzione. Con la riserva di interpretazione, il conseil estende invece le regole sulle incompatibilità anche alle funzioni del vice presidente eletto dell’assemblea della Corsica. Sulla sentenza, fra tutti, si veda J. BENETTI, La réforme du cumul des mandats devant le Conseil constitutionnel, in Constitutions, n. 1, 2014, pp. 47 ss..
98 Cfr., l.o. n. 2014-125 e l. n. 2014-126. Oltre ai dossier di documentazione relativi alle due leggi, per un quadro complessivo, si veda L’introduzione in Francia del divieto di cumulo tra mandato parlamentare e funzioni esecutive locali, Nota breve predisposta dal servizio studi del senato della repubblica n. 28 (marzo 2014). Sulla riforma, si rinvia ai numerosi contributi pubblicati sul numero speciale de Les Petites Affiches, n. 152, Les mandats électifs (coordinato da J.-P. CAMBY, J-P. DEROSIER e P. JAN), 31-07-2014, pp. 32 ss., nonché, fra gli altri, a, S. BERTHONC.-A. DUBREUIL, Commentaire de la loi organique n° 2014-125 et de la loi ordinaire n° 2014-126 du 14 février 2014, in Actualité juridique des collectivités territoriales, 2014, pp. 362 ss.; J.-E. GICQUEL, Fin du cumul des mandats: la troisième tentative fut le bonne, in Juris-classeur périodique (JCP)-La Semaine juridique, n.9, mars 2014, pp 260 ss ; F. HOURQUEBIE, Le cumul des mandats: clap de fin!, in Actualité juridique du droit administratif (AJDA),, 2014, pp. 733 ss.; M. VERPEAUX, La fin du cumul des mandats: tout s'éclaircit? in La Semaine juridique. Administrations et collectivités territoriales, 14-04-2014 (n° 15), pp. 23 ss.. 99 Il riferimento è allo scandalo politico-finanziario che ha coinvolto Jérôme Cahuzac, ministro delegato al bilancio del secondo governo Ayrault e deputato socialista. Accusato nel dicembre 2012 del possesso di fondi non dichiarati all’estero, il ministro ha negato tali accuse a più riprese, anche di fronte all’assemblea nazionale, salvo poi
33 interessi, prevedono, tra l’altro, l’obbligo, per una serie di soggetti 100, di presentare e rendere pubblica una dichiarazione sulla propria situazione patrimoniale; l’incompatibilità tra mandato parlamentare ed esercizio di un’attività professionale di consulenza, fatte salve le eccezioni previste dalla legge; l’istituzione dell’Haute autorité de la transparence de la vie publique, autorità amministrativa indipendente chiamata a sostituire, con poteri e competenze ampliate, la Commission pour la transparence financière de la vie politique; l’ineleggibilità, per un periodo di dieci anni o più, per tutti gli eletti, i ministri e i titolari di incarichi pubblici decisi dal consiglio dei ministri che siano stati giudicati colpevoli di corruzione, traffico di influenza, frode fiscale o elettorale 101. Dopo una discussione parlamentare segnata dalla contrarietà del presidente dell’assemblea nazionale alla pubblicazione delle dichiarazioni sulla situazione patrimoniale dei deputati e dal disaccordo tra le camere, i due testi sono stati approvati in via definitiva il 17 settembre 2013 e promulgati dal capo dello Stato il successivo 11 ottobre102. Le leggi presentano alcune significative differenze rispetto allo schema iniziale in ragione non solo delle modifiche adottate nel corso della discussione parlamentare, ma anche della censura di alcune disposizioni operata dal consiglio costituzionale 103. doversi dimettersi il 19 marzo 2013 a seguito dell’apertura da parte della procura di Parigi di un'inchiesta nei suoi confronti per evasione fiscale. Dopo aver ammesso in seguito l’esistenza del conto estero, ha rinunciato al proprio seggio di deputato ed è stato allontanato dal partito socialista. In merito, si veda J. BENETTI , Les lois du 11 octobre 2013 relatives à la transparence de la vie publique. Du remède au trouble, in Actualité juridique.du droit administratif, 27-01-2014, n° 3, p. 157 ss.; PICIACCHIA, Il presidente Hollande ad un anno dalla conquista dell’Eliseo, cit.. 100 I ministri, i parlamentari nazionali e europei, i componenti del consiglio costituzionale, i «principali responsabili degli esecutivi locali», i membri dei gabinetti ministeriali e delle autorità amministrative indipendenti, i collaboratori del presidente della repubblica e ogni altra personalità chiamate dal governo a svolgere una funzione pubblica.
101
ID., Transparence de la vie publique: quelles obligations nouvelles pour les parlementaires?, in Constitutions,
n. 4, 2013, pp. 542 ss. ; P. BACHSCHMIDT, Transparence de la vie publique: des textes riches pour la procédure parlementaire, ivi, p. 545 ss. ; P. JAN, Transparence de la vie publique. État des projets, in Droitpublic.net, 11-04-2013; BENETTI , Les lois du 11 octobre 2013 relatives à la transparence de la vie publique, cit.,, p. 157 ss..
102
Cfr., l.o. n. 2013-906 e l. n. 2013-907 con il relativo dossier législatif.
103
Cfr., sent. n. 2013-675 DC del 09-10-2013, pubblicata sul Journal Officiel del 12-10-2013 p.16838, texte n° 7
(@ 7), Recueil, p. 956 (pubblicata all’indirizzo:) e sent. n. 2013-676 DC del 9-10-2013, pubblicata sul Journal Officiel del 12-10-2013 p. 16847 (@ 9). In merito, si vedano M. VERPEAUX, La transparence de la vie publique face au juge constitutionnel, in La Semaine juridique.Administrations et collectivités territoriales, 27-01-2014, n. 4, p. 27 ss. ; N. LENOIR, La déontologie parlementaire à l'aune de la jurisprudence du Conseil constitutionnel, in Constitutions, n. 1, 2014, p. 7 ss. ; J.-E. GICQUEL, Le Conseil constitutionnel et la transparence de la vie publique, in La Semaine juridique. Édition générale, 28-10-2013, n° 44-45, pp. 2020 ss. ; T. ACAR e A. GELBLAT, Transparence de la vie publique (Constitution: validation partielle des lois organique et ordinaire du 11 octobre 2013), in Lettre "Actualités Droits-Libertés" du CREDOF, 21-10-2013, pp. 6 ss..
34 La nuova disciplina pone una definizione del conflitto di interessi identica a quella proposta dalla commissione Jospin e stabilisce gli obblighi di probità e imparzialità che ogni responsabile di una funzione pubblica è tenuto a rispettare. Il legislatore, inoltre, nel prevedere la presenza di meccanismi di prevenzione dei conflitti di interesse, così come raccomandato dai sages, ha ampliato il numero di soggetti istituzionali soggetti all’obbligo di presentazione delle dichiarazioni sulla situazione patrimoniale e ha introdotto nell’ordinamento la dichiarazione di interessi, affidandone la verifica e il controllo di entrambe alla citata Haute Autorité, istituita dalla legge n. 2013-907, definendo anche le modalità della loro presentazione104. Tuttavia, a differenza di quanto previsto dal progetto di legge presentato al parlamento dal governo, il testo adottato in via definitiva prevede che le dichiarazioni relative alla situazione patrimoniale dei parlamentari e dei membri del governo siano solo consultabili presso le prefetture e non possano essere divulgate (sotto pena di un’ammenda). Il consiglio costituzionale, infatti, esprimendosi sulla legge licenziata dalle due camere, oltre a escludere gli eletti locali da tale obbligo, ha formulato una riserva di interpretazione avente l’effetto di vietare, in nome del rispetto della «vita privata», anche la pubblicazione delle dichiarazioni di interessi dei soggetti non titolari di un mandato elettivo105. Infine, in linea con quanto proposto dalla commissione Jospin, la legge n. 2013-907, oltre a obbligare i membri del governo e delle autorità indipendenti che intervengono nel campo economico a conferire la gestione dei propri interessi finanziari sulla base di condizioni volte a impedirne il controllo per l’intera durata dell’incarico (art. 8), estende ai primi la sanzione della «difesa illegale di interessi» commessa da una persona all’indomani dalla cessazione del proprio incarico pubblico (art. 28). 4.4. La legge 2013-702 del 2 agosto 2013, approvata dalla gauche (com’è noto, dopo il 2011, maggioritaria anche nella seconda camera), ha riformato il sistema di 104 Ai sensi dell’art. 19 della legge, l’HATVP è composta da nove membri: il presidente (nominato dal capo dello Stato, due consiglieri di Stato (eletti dall’assemblea generale), due consiglieri presso la corte di cassazione (eletti dall’insieme dei giudici della magistratura giudicante collocati “fuori gerarchia”), due consiglieri della corte dei conti (eletti dalla camera di consiglio della corte) e due personalità qualificate (nominate dai presidenti delle camere). Sulle modalità di presentazione da parte dei deputati e dei senatori si vedano in particolare gli artt. da LO135-1 a LO135-6 del codice elettorale (modificati dalla l.o. n. 2013-906), mentre su quelle relative ai membri del governo si veda l’art. 4 della legge n. 2013-907. Sulle specifiche condizioni di presentazione delle due dichiarazioni, si veda anche il d. n. 2013-1212 del 23-12-2013, relativo alle dichiarazioni della situazione patrimoniale e alle dichiarazioni di interessi inviate all’Alta autorità per la trasparenza della vita pubblica». Da sottolineare come l’art. 9 della l.o. n. 2013906, modificando l’art. 3 della citata legge n. 62-1292, abbia disposto che ogni candidato alla presidenza della repubblica presenti al consiglio costituzionale, pena la nullità della sua candidatura, una «dichiarazione sulla propria dichiarazione patrimoniale» conforme alle disposizioni del citato art. LO 135-1 del code électoral. Le dichiarazioni presentate devono poi essere trasmesse all’Haute autorité per la loro pubblicazione almeno quindici giorni prima del primo turno elettorale secondo i limiti definiti dall’art. LO 135-2 del code électoral. All’Alta autorità deve essere trasmessa anche la dichiarazione patrimoniale presentata dal capo dello Stato alla conclusione del proprio mandato. 105 Il consiglio costituzionale ha anche giudicato non conforme alla costituzione l’art. 2, par. V della legge organica che, superando l’incompatibilità originariamente prevista dal testo presentato dal governo, vietava ad un parlamentare di avviare una nuova attività professionale nel corso del mandato.
35 elezione del senato secondo le indicazioni offerte dalla commissione Jospin. Così, la nuova disciplina ha da un lato rinforzato la rappresentatività dei comuni urbani in seno al collegio elettorale (integrato di altri 3.000 grandi elettori provenienti dai comuni con più di 30.000 abitanti), dall’altro, al fine di accrescere la parità di genere tra gli eletti e il pluralismo politico, ha incrementato il numero dei seggi senatoriali assegnati mediante il metodo proporzionale, portandolo a 255 (il 73,3 per cento del totale) 106. Infine, la legge n. 2014-873 del 4 agosto 2014 per «l'égalité réelle entre les femmes et les hommes» ha raccolto la proposta avanzata dalla commissione, prevedendo all’art. 60 addirittura di raddoppiare, a partire dalla prossima legislatura, le penalità esistenti a carico dei partiti e dei raggruppamenti politici che alle elezioni politiche non rispettano le leggi sulla parità. 5. L’attuale congiuntura politica francese non consente di prevedere se le proposte della commissione Jospin potranno trovare in futuro un pieno accoglimento grazie all’approvazione delle riforme costituzionali avviate nel marzo 2013 e all’adozione di eventuali nuovi progetti di legge relativi alle altre indicazioni del Rapport. Nonostante ciò, è possibile riconoscere già alle riforme politico-istituzionali finora varate dal parlamento con leggi organiche e ordinarie un profilo paragonabile a quello di una vera e propria revisione della costituzione. Del resto, nella pratica della Quinta repubblica, le leggi organiche hanno acquisito una crescente autonomia, tanto da essere spesso adottate e modificate indipendentemente dall’adozione di una revisione costituzionale e inoltre risultano essere sempre più utilizzate da parte del legislatore grazie all’interpretazione, spesso estensiva, delle norme costituzionali di rinvio che ha ampliato il loro ambito di applicazione107. Così, una volta date per acquisite le basi giuridiche di tipo costituzionale, il legislatore organico e quello ordinario, in ragione del grado di prossimità delle norme, tendono a porre in essere incisivi interventi riformatori anche in assenza di una revisione. La relazione materiale sempre più stretta tra la legge costituzionale e quella organica si combina pertanto al rapporto tra quest’ultima e la legge ordinaria 108. 106 Sulla legge, oltre al relativo dossier législatif e al dossier di documentazione n. 36/1 del 2013, Le Camere alte in Europa e negli Stati Uniti, pubblicato dal servizio studi del senato della repubblica, pp. 49 ss., si veda P. JAN, Sénat. Réforme du mode de scrutin. Plus de proportionnelle, in Droitpublic.net, 25-07-2013. Dal momento che la legge non fa riferimento ai francesi all’estero e la l. n. 2013-659 del 22-07-13, relativa alla rappresentanza dei francesi all’estero, non ha introdotto nel nuovo collegio elettorale i senatori chiamati a rappresentare i francesi all’estero (assieme ai deputati eletti dai francesi all’estero e ai consiglieri e ai delegati consolari), il legislatore è intervenuto successivamente per integrare la disciplina attraverso l’art. 26 della l. 2013-1029 del 15 novembre relativa all’oltremare (sul punto, criticamente per il ricorso a un cavalier législatif, G. TOULEMONDE, Élections des Sénateurs: une loi mal ficelée, in Constitutions, n. 4, 2013, pp. 540 ss.). 107 Dal 1958 al 1992 non è stato introdotto nella costituzione alcun rinvio a una nuova legge organica, mentre dopo il 1992 la media è di uno per anno (cfr., R. FRAISSE, Six ans de lois organiques devant le Conseil constitutionnel (2001-2006). Bilan et perspectives, in Les petites affiches, n. 238, 29-11-06, p. 19). Da sottolineare, al riguardo, come la revisione costituzionale del 2008 abbia richiesto per la messa in opera ben 18 leggi organiche. 108 In merito, D. ROJAS, La traduction juridique d’une «réforme constitutionnelle». Réflexion sur la mise en œuvre des propositions du rapport de la Commission de rénovation et de déontologie de la vie publique , communication au IX
éme
Congrés de l’Association française de droit constitutionnel (AFDC)- Atelier E : Droit
constitutionnel, Histoire et Théorie du droit, Lyon, 26, 27 et 28 juin 2014, pp. 7 ss..
36 Come risulta evidente proprio dalle modalità di adozione della maggior parte delle proposte della commissione Jospin, incentrate sulla pressoché contestuale approvazione di leggi organiche e ordinarie aventi lo stesso oggetto, il legislatore, nel quadro di un più generale approccio amministrativo della costituzione 109, tende a privilegiare la logica dell’efficacia e a relegare in secondo piano la natura normativa della legge organica e di quella ordinaria. Così, il ricorso a tali soluzioni normative non esclude la possibilità di riconoscere alle riforme approvate dal parlamento, una volta esaminate nella loro globalità e non singolarmente, una peculiare complementarietà in grado di conferire loro un profilo unitario di «natura costituzionale» 110. Le misure adottate, infatti, sono caratterizzate dal fatto di convergere tutte verso l’obiettivo del «rinnovamento democratico» posto dalla commissione Jospin a fondamento del proprio programma riformatore. Così, in altri termini, è possibile interpretare l’azione del legislatore, al di là degli strumenti normativi impiegati, come lo sforzo di seguire il «fil rouge materialmente costituzionale» dipanato dal Rapport: la democrazia francese, resa più moderna grazie ad una maggiore rappresentatività delle istituzioni e a una compiuta responsabilizzazione degli eletti 111. Tuttavia, come peraltro già espressamente indicato dal presidente Hollande nella sua lettre de mission alla commissione, il renouveau démocratique avviato dalle riforme finora adottate non appare destinato a modificare i consolidati equilibri politico-istituzionali del regime. La fedele traduzione legislativa delle indicazioni del Rapport, fino a oggi operata dal parlamento, mantiene infatti inalterata la logica di «rétouche» – e non di «rottura» – istituzionale che appare sottesa al lavoro dei “saggi” 112. Questi ultimi, del resto, dichiarando preliminarmente di far propria l’interpretazione classica del regime della Quinta repubblica fondata sul presidenzialismo maggioritario, hanno deciso di riconnettere l’auspicata rivitalizzazione della democrazia francese all’adozione di un’articolata serie di
109 Sulla «lettura amministrativa della costituzione», BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., p. 391 per i quali il rapporto della commissione Jospin tende a «privilegiare le soluzioni tecniche», proponendo, al pari dei suoi omologhi già presentati in passato, una serie di soluzioni «chiavi in mano» destinate a precisare quale norma – costituzionale, organica oppure ordinaria – debba essere modificata. 110 Così ROJAS, La traduction juridique d’une «réforme constitutionnelle», cit, p. 3 che al riguardo sottolinea anche l’«incontestabile finalità costituzionale» delle riforme adottate (p. 18). 111 Ibidem, p. 15. 112 Al riguardo, secondo l’opinion séparée allegata al rapporto dal commissario Dominique Rousseau, la commissione, preferendo l’«operatività immediata» all’«audacia riformatrice», non avrebbe proposto le riforme più idonee a ricostituire il legame sociale e a fronteggiare la crisi della democrazia: una modifica della vigente legge elettorale in senso più marcatamente proporzionale, il mandato parlamentare unico, il rafforzamento del consiglio economico, sociale e ambientale, la trasformazione del senato in «assemblea dei territori», la riforma del consiglio costituzionale e l’ampliamento delle garanzie costituzionali a tutela della giustizia e del pluralismo dell’informazione (Rapport, pp. 111 ss.). Sempre sulla scelta della commissione di non provocare uno «choc istituzionale», MÉLINSOUCRAMANIEN-ROUSSEAU-MATHIEU, La Commission Jospin, premier bilan et prespectives, cit., p. 34.
37 “aggiustamenti” mirati a correggere i principali disfunzionamenti del sistema politico e istituzionale, ma non a rimettere in discussione le attuali basi della Cinquième: da un lato il binomio quinquennato-calendario elettorale, garanzia della permanenza del fait majoritaire e del primato politico del capo dello Stato, dall’altro la capacità dell’attuale sistema elettorale di garantire l’omogeneità delle maggioranze parlamentari e la stabilità governativa113. ** Ricercatore di Diritto pubblico comparato, Università di Pisa
113 In tal senso anche le osservazioni di BARANGER e BEAUD, Un regard de constitutionnalistes sur le rapport Jospin, cit., p. 391 ss..
Meglio tardi che mai: la Corte elimina la specialità del procedimento di controllo delle leggi siciliane (ovvero: la Sicilia si avvicina al continente…) (commento a Corte cost. 13 novembre 2014, n. 255) di Emanuele Rossi * (dicembre 2014) (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2015)
1. Diciamolo subito: questa sentenza, emessa a seguito di auto-rimessione della questione1, doveva essere pronunciata almeno dieci anni fa, come in molti avevano auspicato e indicato2. In ogni caso, meglio tardi che mai, come suol dirsi. Le ragioni che la motivazione della decisione adduce per giungere a ritenere non più sostenibile il procedimento di controllo delle leggi siciliane previsto dallo statuto meritano di essere considerate con attenzione: tuttavia esse rivelano - probabilmente - soltanto una parte. Ci sono forse ragioni non dette, relative al modo con cui il procedimento legislativo siciliano si è venuto a realizzare nella prassi, che probabilmente hanno esercitato una qualche influenza sulla decisione della Corte, sebbene di esse non vi sia esplicito riferimento nella motivazione. Tali prassi si è affermata, come noto, in questi termini: a seguito dell’approvazione da parte dell’Assemblea siciliana di una delibera legislativa, il Commissario dello Stato provvede, quando ritenuto necessario, ad impugnarla davanti alla Corte; a quel punto il Presidente regionale, trascorsi trenta giorni dalla impugnazione, “senza che al Presidente della Regione sia pervenuta da parte dell’Alta Corte sentenza di annullamento ” (come recita l’art. 29 dello statuto siciliano), provvede (nella maggioranza dei casi) a promulgarla parzialmente, ovvero con omissione delle parti non oggetto di ricorso. A quel punto, la Corte - sulla base di una giurisprudenza formatasi a partire dal 1981 3 - dichiara cessata la materia del contendere sulla parte non promulgata, e la vicenda si conclude 4. Tale prassi, 1
L’ordinanza con cui la Corte ha sollevato davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 2, della legge n. 87/1953, come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge n. 131/2003, è la n. 114 del 7 maggio 2014. Su tale ordinanza v. i commenti a prima lettura di F. GIUFFRE’, Verso la fine della giustizia costituzionale “alla siciliana”, in federalismi.it, n. 10/2014; A. RUGGERI, Colpi di maglio della Consulta sul meccanismo di controllo delle leggi siciliane (“a prima lettura” di Corte cost. n. 114 del 2014), in www.consultaonline.it; G. MOSCHELLA – A. RUGGERI, Disapplicazione, in nome della clausola di maggior favore, delle norme sullo statuto siciliano relative all’impugnazione delle leggi regionali ed effetti sui ricorsi pendenti, ivi. 2 Mi sia premesso riportare quanto scrissi nel 2003: “il mantenimento tout court del sistema siciliano è sicuramente meno favorevole all’autonomia di quanto previsto dall’art. 127 Cost.: se così è, se ne dovrebbe trarre la conseguenza di un’incostituzionalità dell’art. 9 della legge n. 131/2003, almeno nella parte in cui fa salvo tutto il procedimento di controllo statutario, per contrasto con l’art. 10 della legge cost. n. 3/2001. Tale incostituzionalità dovrebbe essere rilevata dalla Corte costituzionale, cui non dovrebbe essere difficile -qualora lo volesse- sollevare davanti a sé la questione nel caso di un giudizio instaurato tramite ricorso promosso in via principale dal Commissario dello Stato secondo le modalità previste dallo statuto” (E. ROSSI, Il controllo sulle leggi siciliane e la (insoddisfacente) soluzione della legge n. 131/2003, in Forum di Quaderni costituzionali, giugno 2003). Secondo E. MALFATTI – S. PANIZZA – R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, IV ed., Torino, 2013, 193, la disposizione della legge La Loggia doveva ritenersi – in alternativa - o incostituzionale o inutile: incostituzionale ritenendo che il nuovo sistema di controllo previsto dall’art. 127 Cost. costituisse una “forma di autonomia più ampia” per la Regione siciliana rispetto a quanto previsto dallo statuto; inutile nel caso opposto, dal momento che l’applicazione del procedimento statutario sarebbe derivata come conseguenza diretta dell’art. 10 della l. cost. n. 3/2001, qualora si fosse ritenuto il procedimento previsto dallo statuto maggiormente “autonomista”. 3 La prima decisione che ha dichiarato la cessazione della materia del contendere sulla parte della legge non promulgata è sentenza n. 142 del 1981: su tali vicende v., da ultimo, M. MOSCATO, I giudizi davanti alla Corte costituzionale, in A. RUGGERI – G. VERDE, Lineamenti di diritto costituzionale della Regione Sicilia, Torino, 2012, 393 ss. 4 Osserva al riguardo F. GIUFFRE’, Verso la fine, cit., 10, come in tal modo Il Presidente della Regione Sicilia “entra prepotentemente (ma anche – sia consentito – abusivamente) tanto nel circuito della produzione della fonte primaria
merita segnalare, è divenuta, nel corso degli ultimi anni, pressoché una costante: come in altra sede ho indicato5, dal 2011 ad oggi essa si è verificata in tutti i casi di impugnazione di leggi siciliane; nell’unico caso in cui non si è avuta promulgazione parziale ciò è avvenuto perché essa risultava logicamente impossibile (si trattava, nello specifico, del ricorso conclusosi con la sentenza n. 51/2013, ove era censurata la mancata copertura finanziaria del disegno di legge: è evidente che non fosse possibile promulgare parzialmente il resto della legge senza la disposizione sulla copertura finanziaria)6. In sostanza, dunque, in tutti i casi in cui, negli ultimi anni, è stata impugnata una legge siciliana, il contenzioso costituzionale si è risolto in via extra-giudiziale: e ciò sebbene in alcune pronunce la Corte abbia fatto intendere che la correttezza di tale prassi risulti assi dubbia sul piano costituzionale (più volte essa ha usato il termine “anomalia”). Si vedano, da ultimo, le ordinanze n. 138 e 228 del 2012, in cui si legge che il Presidente della Regione siciliana, “attraverso l’istituto della promulgazione parziale, non viene investito di un arbitrario potere di determinare autonomamente la definitiva non operatività di singole parti del testo approvato dall’Assemblea regionale, in contrasto con la ripartizione delle funzioni tra gli organi direttivi della Regione stabilita da norme di rango costituzionale” (corsivo aggiunto). Tale affermazione sembra confermare quanto in dottrina si è costantemente affermato, ovvero che mediante quella prassi il Presidente regionale esorbita dai propri poteri e menoma quelli dell’Assemblea legislativa (facendo parlare, lo si ricorda, del Presidente della Sicilia come di un “legislatore negativo” 7); ma - al contempo – essa esprime l’impotenza della Corte nel far valere tale violazione costituzionale 8. Così che, per tentare di rimediare agli inconvenienti evidenti, ed al fine quindi di impedire l'esercizio da parte del Presidente regionale di un potere così esteso e penetrante quale quello di stabilire, di una delibera legislativa approvata, quali parti debbano entrare in vigore e quali no, in talune circostanze l’Assemblea regionale ha provveduto ad approvare – in pendenza di giudizio costituzionale - una successiva legge regionale, contenente l'"abrogazione" delle disposizioni non promulgate 9. La promulgazione di questa seconda legge veniva effettuata contemporaneamente alla promulgazione della prima; le due leggi venivano di conseguenza pubblicate sul medesimo numero del Bollettino ufficiale, con identica data ma con un numero diverso: in forza del principio della lex posterior la prima entrava quindi in vigore parzialmente già abrogata. Alla luce di tutto ciò, è dunque pienamente comprensibile che la Corte abbia colto l’occasione per rovesciare il tavolo, facendo saltare tutto il procedimento di controllo delle leggi siciliane e così impedire alla radice il mantenimento di quella prassi. Per conseguire il risultato, la Corte ha peraltro dovuto sconfessare nettamente e completamente la propria precedente giurisprudenza: se si rileggono le motivazioni della sentenza n. 314 del 2003 si può agevolmente valutare come gli argomenti che furono regionale, quanto nel circuito del sindacato della medesima”. 5 F. DAL CANTO – E. ROSSI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. ROMBOLI (cur.), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011-2013), Torino, 2014, 224-225. 6 Anche in precedenza i dati erano solo parzialmente diversi: come osserva S. PAJNO, La Sicilia, ovvero dell’autonomia sfiorita, in Riv. giur. Mezzogiorno, 2011, 532, tra il 2001 e il 2011 su 49 ricorsi proposti dal Commissario dello Stato soltanto 8 hanno portato a decisioni nel merito. 7 G. VOLPE, Dalla promulgazione parziale all’abrogazione parziale delle leggi siciliane: il Presidente della regione come “legislatore negativo”, in Regioni, 1983, 475 ss. 8 Secondo T. MARTINES – A. RUGGERI – C. SALAZAR, Lineamenti di diritto regionale, IX ed., Milano, 2012, 327, il rigore della Corte (consistente nel dichiarare cessata la materia del contendere sulla parte della legge impugnata ma non promulgata) “si spiega se in esso si legge il tentativo di bloccare la prassi”: tentativo che, peraltro, non ha prodotto -come si è detto - effetti significativi. 9 Su tali profili v. S. MANGIAMELI, La cessazione della materia del contendere tra "promulgazione parziale" ed "abrogazione" delle leggi regionali, in Giur. cost., 1995, 551; E. ROSSI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. ROMBOLI (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1993 - 1995), Torino, 1996, 262 ss.
allora addotti per giustificare il mantenimento dello status quo siano gli stessi che ora conducono al rovesciamento della conclusione 10. 2. Venendo alla motivazione (ovvero, alla luce di quanto detto, alla sua parte “esplicita”), la Corte ritiene che il procedimento di controllo previsto per le leggi siciliane sia meno autonomista di quello previsto dall’art. 127 Cost., e ciò in ragione del suo carattere preventivo: essendo meno autonomista, deve dunque farsi applicazione dell’art. 10 della legge cost. n. 3/2001, che estende alle regioni a statuto speciale le disposizioni del Titolo V della Costituzione (come riformato) nella parte in cui queste prevedono “forme di autonomia più ampie”. Con inevitabile conseguente caducazione dell’art. 31, comma 2, della legge n. 87/1953, come sostituito dall’art. 9, comma 1, delle legge n. 131/2003, nella parte in cui mantiene in vita “la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale”. La decisione della Corte, sul punto, mi pare del tutto condivisibile, facendo - come detto - giustizia della motivazione della sentenza n. 314 del 2003 11, nella quale la Corte aveva rifiutato un confronto in termini di autonomia, giudicando (allora) che quello siciliano e quello previsto in via generale dall’art. 127 Cost. si dovessero ritenere “sistemi essenzialmente diversi, che non si prestano a essere graduati alla stregua del criterio di prevalenza adottato dal menzionato art. 10”, dato che il sistema di controllo sulle leggi siciliane “è preventivo, quanto alla sua attivazione; ma i termini per promuoverlo sono assai più stretti di quelli previsti per il controllo successivo delle leggi delle altre regioni”, ed inoltre perché esso non ha “effetti sospensivi sull’efficacia della legge impugnata; ma la legge siciliana può essere comunque promulgata e pubblicata decorsi i trenta giorni previsti dall’art. 29, secondo comma, dello Statuto”. Per spazzare via tale argomentazione alla Corte basta una riga: “il peculiare controllo di costituzionalità delle leggi dello statuto di autonomia della regioni siciliana – strutturalmente preventivo – è caratterizzato da un minor grado di garanzia dell’autonomia rispetto a quello previsto dall’art. 127 Cost.”. Gli overruling, come si sa, sono sempre esistiti, e pertanto non dobbiamo sorprenderci più di tanto: tuttavia l’oggettività del giudizio di costituzionalità richiederebbe qualche sforzo in più per argomentare un cambiamento così netto di giurisprudenza 12. Magari facendo ricorso, come si diceva sopra, alla prassi che tale sistema ha consentito di instaurare, e che costituisce una buona ragione per cambiare le regole del gioco. 3. Seguendo la strada dell’adeguamento ex art. 10 legge cost. n. 3/2001, la Corte evita di doversi esplicitamente pronunciare sulla costituzionalità delle disposizioni statutarie. In sostanza, con la pronuncia in questione, la Corte “elimina” dall’ordinamento una serie di disposizioni costituzionali (statutarie), ma non dichiarandole incostituzionali, bensì espressamente dichiarando che esse “non trovano più applicazione”. Una considerazione su questo passaggio, che non è nuovo nella giurisprudenza della Corte (v. già, ad esempio, sentenza n. 408/2002): come bene scriveva Rolando Tarchi qualche anno fa, con la norma contenuta nell’art. 10 “gli statuti speciali permangono in vigore nella loro interezza, ma parti degli stessi risultano inefficaci e inapplicabili, in quanto il loro valore prescrittivo è sospeso (piuttosto che derogato) a beneficio di talune disposizioni del nuovo Titolo V”13. Se ciò è vero, va però rilevato che la valutazione circa la non applicabilità di un 10
In tal modo, come sostiene anche A. RUGGERI, Colpi di maglio, cit., 1, la Corte “rinnega se stessa, supera cioè agevolmente, con disinvoltura, l’ostacolo frapposto dalla sentenza n. 314 del 2003”. 11 Criticamente sulla posizione assunta dalla Corte nel 2003 v., da ultimo, A. PIRAINO – O. SPATARO, La specialità della Regione siciliana a dieci anni dalla riforma del Titolo V, in Regioni, 2011, 923-924. 12 Sottolinea ancora A. RUGGERI, Colpi di maglio, cit., 2, come “l’intervento sul processo è sempre, per tabulas, un attacco frontale alla certezza del diritto costituzionale e, per ciò stesso, alla certezza dei diritti fondamentali”. 13 R. TARCHI, Sintesi di un dibattito su Titolo V, Parte II della Costituzione e giurisprudenza costituzionale. Spunti per una riflessione, in E. BETTINELLI – F. RIGANO, La riforma del Titolo V della Costituzione e la giurisprudenza
disposto normativo dovrebbe essere compito del giudice comune e non di quello costituzionale14. Forse allora la Corte avrebbe potuto dichiarare incostituzionali le disposizioni statutarie individuate, per violazione del combinato disposto dell’art. 10 e delle norme costituzionali relative al procedimento di controllo delle legge delle regioni ordinarie (ovvero art. 127 Cost. e norme ad esso collegate) 15. Si sarebbe trattato, se così si fosse agito, dell’accertamento di un’incostituzionalità per ius superveniens (sebbene accertata a distanza di tredici anni all’entrata in vigore del nuovo parametro costituzionale). Non che tutto questo sia in grado di cambiare la sostanza delle cose (se domani il Commissario siciliano dovesse nuovamente proporre ricorso avverso una legge siciliana la Corte lo dichiarerebbe, con ogni probabilità, inammissibile, così di fatto sanzionando il venire meno delle disposizioni statutarie16): e tuttavia il ragionamento sarebbe risultato più coerente. Tralascio comunque tali profili, per analizzare l’elenco delle disposizioni statutarie ritenute “non più applicabili” contenuto nella motivazione della sentenza. La prima disposizione che, a giudizio della Corte, subisce tale sorte è quella contenuta nell’art. 27, in forza della quale “Un Commissario, nominato dal Governo dello Stato, promuove presso l’Alta Corte i giudizi di cui agli art. 25 e 26 17 e, in quest’ultimo caso, anche in mancanza di accusa da parte dell’Assemblea regionale”. Tale disposizione era stata dichiarata incostituzionale già con la sentenza n. 6/1970: sebbene tuttavia il dispositivo di quella pronuncia fosse riferito ai due articoli nella loro interezza (“dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 27 del decreto legislativo 15 maggio 1946, n 455, che approva lo Statuto della Regione siciliana”), dalla motivazione si poteva evincere che la parte caducata fosse esclusivamente quella relativa alla competenza dell’Alta Corte di giustizia siciliana, nonché alla legittimazione a ricorrere nei confronti del Presidente e degli assessori regionali. Tanto è vero che dopo di allora si è mantenuta la legittimazione del Commissario dello Stato ad impugnare le leggi regionali; mentre, in relazione a quelle statali, un tentativo operato dal Commissario è stato dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione con la sentenza n. 545/1989. In sostanza, dunque, con la presente pronuncia cade l’ultimo frammento ancora in vita dell’art. 27, ovvero la legittimazione del Commissario ad impugnare le delibere legislative regionali (come espressamente viene indicato in motivazione). Tornerò su questo punto. La seconda disposizione espressamente indicata dalla Corte è l’art. 28, in forza del quale “Le leggi dell’Assemblea regionale sono inviate entro tre giorni dall’approvazione al Commissario dello Stato, che entro i successivi cinque giorni può impugnarle davanti l’Alta Corte”. La caducazione di tale previsione è strettamente connessa alla precedente: venendo meno la legittimazione del Commissario ad impugnare le delibere legislative regionali, è evidente che viene meno anche l’obbligo dell’invio delle delibere legislative approvate allo stesso Commissario. Più problematico è il dichiarato venir meno dell’art. 29, il quale consta di due commi. Nel primo viene fissato un termine per il giudizio dell’Alta Corte (“L’Alta Corte decide sulle impugnazioni entro venti giorni dalla ricevuta delle medesime”), mediante una previsione che sin qui era stata considerata vigente, sebbene – come ricorda anche la Corte nella motivazione – il termine in questione fosse ritenuto meramente ordinatorio (e ciò a partire dalla sentenza n. 9/1958). D’accordo, sul punto, che in quanto ordinatorio il termine è costituzionale, Torino, 2004, 787. 14 Come sottolineano G. MOSCHELLA – A RUGGERI, Disapplicazione, cit., 3, che richiamo al riguardo la vicenda relativa alle antinomie tra il diritto dell’Unione europea e quello interno. 15 Ipotesi cui fa riferimento, in generale, ancora R. TARCHI, op. loc. ult. cit. 16 Come fece la Corte, in relazione al potere di impugnativa del Commissario dello Stato degli atti normativi statali, con l’ordinanza n. 545/1989, di cui subito si dirà. 17 Trattasi, rispettivamente, della disposizione che prevede il ricorso contro le leggi regionali e le leggi e i regolamenti statali (art. 25) e della disposizione relativa al giudizio di accusa nei confronti del Presidente e degli assessori regionali (art. 26).
sostanzialmente tamquam non esset: e tuttavia risulta paradossale che la previsione di un termine per la decisione della Corte sulla legge regionale sia considerata “meno autonomista” dell’assenza di qualsiasi termine. Il secondo comma, invece, prevede quanto segue: “Decorsi otto giorni, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta copia dell’impugnazione, ovvero scorsi trenta giorni dalla impugnazione, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta da parte dell’Alta Corte sentenza di annullamento, le leggi sono promulgate ed immediatamente promulgate nella Gazzetta ufficiale della Regione”. Tale formulazione riguarda, come è evidente, la procedura di promulgazione: corretta appare la dichiarazione di caducazione della possibilità di promulgare le leggi una volta esaurito il termine indicato; ma si potrebbe ritenere invece la sopravvivenza della previsione relativa alla promulgazione, così da realizzare l’obiettivo che la Corte persegue di rendere anche quello siciliano un controllo successivo. In sostanza, potrebbe rimanere la seguente previsione: “Decorsi otto giorni, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta copia dell’impugnazione, ovvero scorsi trenta giorni dalla impugnazione, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta da parte dell’Alta Corte sentenza di annullamento, le leggi sono promulgate ed immediatamente promulgate nella Gazzetta ufficiale della Regione”. E’ vero, al riguardo, che il venire meno delle previsioni precedenti rende privo di un termine a quo l’espressione “decorsi otto giorni”: ma questo potrebbe essere ricavato in via interpretativa, con riguardo alla data di ricezione della delibera legislativa da parte del Presidente regionale. Facendo al contrario cadere tutta la disposizione si producono effetti non tanto in relazione all’individuazione dell’organo competente a promulgare (come subito si dirà, a ciò sovviene l’art. 13 dello statuto; e peraltro potrebbe soccorrere anche l’art. 121, quarto comma, Cost., da ritenere applicabile anche alla Regione siciliana), quanto piuttosto circa i termini entro i quali tale promulgazione deve avvenire. Ed infine, la Corte dichiara che non trova più applicazione neppure l’art. 30 dello statuto di autonomia, in forza del quale “Il Presidente della Regione, anche su voto dell’Assemblea regionale, ed il Commissario di cui all’art. 27, possono impugnare per incostituzionalità davanti l’Alta Corte le leggi ed i regolamenti dello Stato, entro trenta giorni dalla pubblicazione”. Anche in merito a tale previsione sembra opportuno operare dei distinguo. La legittimazione del Commissario dello Stato ad impugnare atti normativi statali era già stata, come detto, di fatto eliminata mediante una pronuncia di inammissibilità (la già richiamata sentenza n. 545/1989), e pertanto la conferma di tale orientamento è da valutare positivamente (salvo quanto si è detto in generale sugli effetti di tale dichiarazione di “non applicabilità”). Qualche dubbio in più sulla restante parte della disposizione (ritenuta) caducata: e ciò non tanto circa la legittimazione ad impugnare le leggi statali ad opera della regione (il venire meno della presente disposizione fa ritenere applicabile anche alla Sicilia la competenza generale prevista per tutte le regioni dall’art. 127, secondo comma, Cost., come attuato dalla legge n. 87/1953), quanto sulla procedura precedente all’eventuale decisione di presentare ricorso. Se infatti si applica quanto previsto in via generale occorre ritenere che, anche per la Sicilia, “la questione di legittimità costituzionale, previa deliberazione della Giunta regionale, anche su proposta del Consiglio delle autonomie locali, è promossa dal Presidente della Giunta” (art. 32, comma 2, della legge n. 87/1953). Con il che si devono sottolineare tre variazioni rispetto alla previsione statutaria: la necessità della delibera di Giunta precedente al ricorso; la possibilità del Consiglio delle autonomie locali di proporre ricorso al Presidente della Regione; l’eliminazione dell’eventualità del “voto dell’Assemblea regionale”. La seconda di tali variazioni deve escludersi con riguardo alla Sicilia: in quell’ordinamento, infatti, il Consiglio delle autonomie locali non è stato istituito, malgrado la sua previsione in un disegno di legge presentato nel corso della XV legislatura presso l’Assemblea regionale (DDL n. 110)
relativo alla introduzione di alcune modifiche allo statuto regionale. Dovrebbe invece valere la previsione della necessaria delibera giuntale (mentre la previsione statutaria attribuiva il potere di ricorso direttamente al Presidente); mentre più complesso è il discorso con riguardo all’eliminazione del “voto dell’Assemblea”. Che tale eliminazione sia conseguenza della maggior autonomia che per tale via si garantirebbe alla regione sembra ipotesi senz’altro da scartare; peraltro, si potrebbe obiettare che essendo la norma meramente facoltizzante dell’intervento assembleare ed essendo il “voto” privo di efficacia vincolante, nulla impedirebbe comunque all’Assemblea di continuare ad esprimere voti. Ed in effetti, sul piano sostanziale, poco dovrebbe cambiare. Piuttosto, la dichiarata caducazione suscita qualche perplessità se rapportata alla previsione, contenuta nell’art. 98, comma 1, dello statuto del Trentino – Alto Adige 18, della necessaria preventiva delibera del Consiglio regionale (anziché della Giunta) in ordine al ricorso presidenziale, su cui la Corte ha mostrato in tempi recenti una severità fors’anche eccessiva 19: se infatti l’eliminazione del voto assembleare è considerata espressione di maggior autonomia, perché si dovrebbe mantenere la previsione del Trentino – Alto Adige? In realtà, è evidente che prevedere un intervento del Consiglio anziché della Giunta, o addirittura la mera possibilità di esprimere voti, è del tutto inconferente rispetto alle garanzie di autonomia: e che conseguentemente tutto ciò non ha nulla a che vedere con la clausola dell’art. 10 della legge cost. n. 3/2001. Un’ultima considerazione. Tra le disposizioni statutarie che “non trovano più applicazione” la Corte non menziona l’art. 13, comma 2, di cui si è già detto: il quale stabilisce che le leggi e i regolamenti regionali “sono promulgati dal Presidente della Regione decorsi in termini di cui all’art. 29 comma 2” del medesimo statuto. Il venire meno della norma cui si rinvia rende, come sopra accennato, priva di contenuto tale disposizione, almeno con riguardo ai termini di promulgazione: e se in relazione a questi ultimi il problema si potrebbe risolvere come sopra indicato, resta fermo che l’eventuale ricorso statale e il conseguente giudizio della Corte avranno sicuramente carattere successivo, come avviene – ex art. 127 Cost. – per tutte le altre regioni 20. 4. Dunque, secondo la Corte, il carattere preventivo del ricorso siciliano fa cadere tutto il procedimento previsto dallo statuto di autonomia, e ne comporta la sostituzione con il procedimento previsto dall’art. 127 Cost. e dall’art. 31 della legge n. 87/1953: con la conseguenza che, sempre a giudizio della Corte, viene meno anche la competenza del Commissario dello Stato ad impugnare le delibere legislative regionali. Quest’ultimo punto, in verità, non era così scontato 21, ed infatti in passato esso era stato a lungo dibattuto. La stessa sentenza n. 314/2003 aveva rilevato una diversità di fondo tra il ruolo del Commissario e quello del Governo nazionale, concludendo per la “maggiore autonomia” che il sistema siciliano avrebbe garantito rispetto a quello nazionale: secondo quella pronuncia, infatti, il Commissario dello Stato “è bensì nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri (…), ma (…) esercita un proprio potere di controllo e attivazione del giudizio costituzionale, avente natura essenzialmente giuridica, non 18
Per il quale “le leggi e gli atti aventi forza di legge della Repubblica possono essere impugnati dal Presidente della Regione o da quello della Provincia, previa deliberazione del rispettivo Consiglio”. 19 Il riferimento è a Corte cost. n. 142/2012, su cui, volendo, E. ROSSI, Ratifica consiliare della delibera giuntale di ricorrere contro le leggi statali in Trentino – Alto Adige: quando il rigore sembra eccessivo e ingiustificato, in Le Regioni, n. 5-6/2012, pp. 1107 ss. 20
Sulla vigenza dell’art. 13 v., da ultimo, M. MOSCATO, I giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 390. Anche secondo A. RUGGERI, Colpi di maglio, cit., 3, “la figura del Commissario non va inscindibilmente legata al meccanismo di sindacato preventivo, tant’è che quest’ultimo era, per il dettato originario della Carta costituzionale, valevole per tutte le Regioni”. 21
spettantegli in qualità di tramite del Governo ma affidatogli direttamente da norma di rango costituzionale; mentre il controllo sulle leggi delle altre Regioni è attivato da una delibera del Consiglio dei ministri, espressiva dell’indirizzo politico-giuridico del Governo”. Già in sede di commento a quella decisione chi scrive 22 aveva sottolineato criticamente la rivalutazione (quasi una sorta di riesumazione) del ruolo del Commissario dello Stato quale “organo indipendente dal potere centrale” 23, con conseguente evidente paradosso: e cioè che la figura del Commissario del Governo, eliminata a livello costituzionale per le regioni ad autonomia ordinaria (in forza dell’abrogazione dell’art. 124 Cost. operata dalla legge cost. n. 3/2001) con l’intento di superare livelli istituzionali cui affidare compiti di controllo-sovraordinazione dello Stato nei confronti delle regioni 24, fosse stata rivalutata in Sicilia, e ciò in forza della presupposta maggiore autonomia che il suo mantenimento avrebbe assicurato. Paradosso sostenuto - peraltro - dalla stessa Assemblea regionale siciliana, che con un proprio ordine del giorno invitò il Presidente regionale a continuare ad applicare, in attesa della revisione delle relative disposizioni statutarie, l’articolo 28 dello statuto speciale, ritenendo il sistema siciliano di controllo delle leggi regionali caratterizzato da un peculiare sistema di impugnativa diretta delle leggi regionali “affidato al Commissario dello Stato, organo concepito con carattere di imparzialità a tutela della delimitazione costituzionale della sfera di competenza rispettivamente dello Stato e della Regione siciliana” (corsivo aggiunto)25. Anche su questo punto, opportunamente, la decisione della Corte consente di superare il paradosso e fa giustizia di precedenti assai discutibili ricostruzioni. 5. Un ulteriore aspetto della decisione merita di essere sottolineato, in ordine all’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001, con particolare riguardo all’espressione “le disposizioni della presente legge” ed alla necessità di individuare l’unità minima cui tale espressione deve essere riferita. Per spiegare meglio: il problema è di capire a quale livello deve compiersi il raffronto tra normativa preesistente alla riforma del Titolo V e normativa introdotta mediante tale riforma, al fine di valutare quanto e quali parti della legge costituzionale n. 3/2001 siano applicabili alle regioni speciali e quanto invece queste ultime debbano mantenere del loro assetto statutario. Applicando tutto questo al caso del procedimento di controllo delle leggi siciliane, il quesito concerne il punto se il procedimento di controllo delle leggi regionali debba essere considerato come un’unità indivisibile, e quindi se la comparazione sia da compiere tra “tutto” l’art. 127 novellato e il “sistema” delle disposizioni statutarie in materia; o se al contrario sia possibile “scomporre” l’istituto al proprio interno, sì da operare una comparazione tra singoli aspetti delle due discipline: in particolare, tra natura preventiva e natura successiva, da un lato; e tra ricorso del Commissario e ricorso del Governo, dall’altro. Con la ipotetica possibilità, qualora fosse seguita questa seconda strada, di far cadere il carattere preventivo del ricorso, ma al contempo mantenendo la competenza ad impugnare in capo al Commissario dello Stato. Qualora si fosse seguita la strada del confronto “punto per punto”, la motivazione della Corte avrebbe dovuto argomentare non soltanto con riguardo alla natura preventiva o successiva del procedimento di controllo, ma anche sul confronto - in termini di maggiore o minore “autonomia” - tra potere di impugnativa attribuito al Commissario ovvero al Governo nazionale. Il fatto che invece la Corte non si ponga minimamente 22
E. ROSSI, La Sicilia resta un’isola (anche giuridicamente). Il procedimento di controllo delle leggi siciliane resiste alla riforma dell’art. 127 Cost., in Giurisprudenza costituzionale, 2003, 3032 ss. 23 Come lo definì E. GIZZI, Manuale di diritto regionale, Milano, 1991, 624. 24 Cfr. E. GIANFRANCESCO, L’abolizione dei controlli sugli atti amministrativi e la scomparsa della figura del commissario del governo, in T. GROPPI – M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomie, II ed., Torino, 2003, 231. 25 Ordine del giorno n. 22 approvato dall’Assemblea regionale siciliana in data 29 novembre 2001.
questo secondo problema, risolvendo tutto - come si è detto - sulla base della natura preventiva del ricorso, induce a ritenere che, secondo la Corte, il raffronto richiesto dall’art. 10 debba essere condotto sul complesso dell’istituto, e non su singole parti. Ed essendo condotto sull’insieme dei profili, la natura preventiva - secondo la Corte - deve essere considerata prevalente su ogni altro profilo, facendo pendere il bilanciamento nel senso della preferenza del modello statale su quello regionale (siciliano) e, conseguentemente, facendo venir meno anche la legittimazione del Commissario dello Stato. In sostanza, la Sicilia cessa di essere “isola” (giuridicamente), e si avvicina – almeno con riguardo al procedimento di controllo delle leggi – al continente: però, come in altre volte nella storia è avvenuto, non per una propria scelta, ma – questa volta – in forza di una decisione del giudice delle leggi. * P.O., Scuola superiore Sant’Anna di Pisa
L’inammissibilità costituzionale delle lesioni alla concorrenza da parte delle autonomie e l’ammissibilità dei limiti territoriali, conformativi e specifici, alla liberalizzazione del commercio di Flavio Guella (dicembre 2014) (in corso di pubblicazione in “le Regioni”, 2015) SOMMARIO: 1. La giurisprudenza costituzionale sui limiti regionali alla libertà del commercio e la portata ampia della tutela statale della concorrenza; 2. L’incostituzionalità dei limiti territoriali alla liberalizzazione del commercio a carattere assoluto (preclusivi) e per ragioni non specifiche (a fini generali); 3. L’illegittimità anche dei limiti territoriali alla liberalizzazione del commercio di carattere solo relativo (conformativi), ma comunque posti in essere per ragioni non specifiche; 4. Limiti di carattere relativo/conformativo ammessi se legittimati da ragioni specifiche (già qualificate dal legislatore statale). Un regionalismo «di esecuzione» in materia di commercio?
1. La giurisprudenza costituzionale sui limiti regionali alla libertà del commercio e la portata ampia della tutela statale della concorrenza L’impatto anticoncorrenziale dell’esercizio delle competenze regionali in materia di commercio è stato oggetto di numerosi casi sottoposti al controllo della Corte costituzionale, assumendo particolare attualità specie a fronte dei processi di liberalizzazione sollecitati dall’Unione europea. Il disposto dell’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011, il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti geografici o altri vincoli di qualsiasi natura, deve infatti essere ricondotto nell’ambito della tutela della concorrenza, rientrando nella competenza legislativa esclusiva dello Stato su cui le Regioni e gli enti locali non possono (indirettamente) incidere in senso limitativo. La derivazione europea del valore della concorrenza, e la dimensione statuale della funzione che ne deriva (richiedendo un elevato grado di uniformità, con conseguente trasversalità della materia), non esclude tuttavia l’esistenza di una necessità oggettiva di limitazione della liberalizzazione dell’iniziativa economica privata; la questione problematica è pertanto non l’astratta ipotizzabilità di limiti alle liberalizzazioni, ma piuttosto l’attribuzione del potere di enucleare limiti al commercio per ragioni di pubblico interesse, da allocare o a livello statale (in competenza esclusiva) o – in parte – in capo alle autonomie territoriali (con conseguente capacità di differenziazione della regolamentazione) 1. A tal fine sono allora rilevanti i criteri seguiti dalla Corte costituzionale nel definire quando e come il livello regionale (o comunale) di governo possa legittimamente intervenire a limitazione delle liberalizzazioni del commercio. Se la tendenza dominante nella giurisprudenza costituzionale è chiaramente orientata verso la centralità della competenza statale, con un ruolo ampio e assorbente del titolo competenziale «tutela della concorrenza», nondimeno dalla casistica anche recente sembrano residuare importanti spazi per l’azione dei livelli sub-statali di governo (Comuni e – sul piano anche legislativo – 1 Per un inquadramento generale della liberalizzazione del commercio dal d.lgs. 114/1998, attraverso la riforma del Titolo V e l’impatto sulle discipline regionali dei vari provvedimenti di deregolamentazione, fino alla riforma del 2011 cfr. V. MELE, “Tutela della concorrenza” vs. “commercio”: il diritto dell’economia nel tempo delle liberalizzazioni, in GiustAmm.it 2013, fasc. 3 e S. SILEONI, La liberalizzazione del commercio tra concorrenza statale e reazioni regionali, in questa Rivista 2012, fasc. 5-6, 921 ss.
Regioni, quali titolari di potestà residuale in materia di commercio 2). Livelli che, se intervengono in forme procedurali adeguate (con limiti relativi/conformativi, anziché ponendo barriere invalicabili all’accesso al mercato), e per fini meritevoli (con considerazione di valori specifici e riconosciuti dal legislatore nazionale, anziché di inetressi generici ed atipici), possono rivendicare spazi di regolazione e gestione differenziata – costituzionalmente garantiti – a limitazione della piena liberalizzazione del commercio. A contrappeso dell’ordinaria prevalenza del titolo competenziale pro-concorrenziale legittimante la normativa statale3, infatti, l’ente territoriale che voglia limitare l’attività commerciale (assoggettando le diverse iniziative a vincoli, contingenti numerici e regole conformative) deve allegare ragioni specifiche e costituzionalmente meritevoli che permettano di considerare non integrata tale prevalenza (sia perché i limiti alla liberalizzazione del mercato introdotti non sono assoluti, sia perché lo stesso legislatore statale riconosce in astratto la presenza di un interesse alternativo alla concorrenza, in concreto impiegato a livello territoriale per conformare e regolamentare il commercio). La Corte costituzionale in alcune recenti sentenze ha così confermato la generale ampia portata della materia «tutela della concorrenza» di competenza statale, negando alle Regioni spazi effettivi per la conformazione dell’attività di commercio; in tali pronunce è però possibile individuare anche le coordinate per interventi territoriali di razionalizzazione delle attività economiche private (a fini di tutela di interessi pubblici). Sia nella sentenza 104/2014 (sull’impugnazione in via principale della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013 4), sia nella sentenza 125/2014 (sulla legge regionale Umbria 10/2013 5), è stato preso in considerazione un ampio ventaglio di fattispecie di regolazione del commercio di livello regionale, limitative della concorrenza, e anche a partire da tali ipotesi è possibile tracciare alcune coordinate tanto a conferma della natura pervasiva della competenza statale sulla concorrenza, quanto alla ricerca degli spazi residui per la disciplina territoriale di razionalizzazione della liberalizzazione del mercato. A quest’ultimo riguardo, poi, sembra particolarmente rilevante anche la sentenza 220/2014, nella quale la Corte – pur rifiutando un intervento con sentenza additiva in materia di poteri comunali di restrizione del gioco d’azzardo – ha indicato sul piano interpretativo alcuni spazi di legittima azione territoriale a limitazione della libertà del commercio6. 2 Competenza che è riconosciuta anche in forma di potestà di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica dallo Statuto speciale per la Valle d’Aosta – art. 3, lett. a) – rilevante per le fattispecie di seguito analizzate; ciò fermo comunque che in forza dell’art. 10 della legge cost. 3/2001 anche le Regioni speciali devono ritenersi titolari del titolo competenziale residuale in materia di commercio.
3 Prevalenza confermata anche nei confronti delle Regioni speciali; cfr. Corte cost. 38/2013 e 299/2012.
4 Oggetto di giudizio gli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013, modificativi della legge regionale 12/1999 (principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale).
5 Oggetto di giudizio gli artt. 9, 43 e 44 della legge regionale Umbria 10/2013, di attuazione del d.l. 201/2011 e del d.l. 1/2012, e con ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale 24/1999, 6/2000 e 13/2003.
La casistica emergente da queste sentenze conferma tanto la trasversalità e (normale) prevalenza della materia «tutela della concorrenza», quanto la necessità di interventi limitativi (anche) territoriali a contenimento degli effetti socialmente dannosi delle liberalizzazioni; necessità che legittima regolamentazioni del commercio limitative, purché siano effettivamente virtuose (in quanto portatrici di interessi costituzionalmente qualificati e concretamente meritevoli di tutela) e purché siano compatibili con i livelli di apertura del mercato fissati dalla normativa europea (non ostacolando in termini assoluti e non adeguatamente fondati lo sviluppo pro-concorrenziale della disciplina statale, ma sfruttando invece gli spazi lasciati anche dal diritto UE, individuando ipotesi di relativizzazione della regola di liberalizzazione dei mercati poi tendenzialmente replicate dalla normativa statale)7. Il fondamento europeo della concezione costituzionale della concorrenza è infatti pacifico nell’interpretazione della Corte costituzionale, che riconduce quindi alla lett. e) del co. 2 dell’art. 117 tanto una concezione statica di concorrenza, con gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sull’apertura del mercato (quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati), quanto una concezione dinamica di concorrenza, fondata sulle misure legislative di promozione (che mirano a rimuovere i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche, così da aprire un mercato o consolidarne l’apertura, eliminando le barriere all’entrata e riducendo o eliminando i vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese) 8. Nell’accezione dinamica della «tutela» della concorrenza la componente promozionale assume quindi una specifica centralità 9, le misure venendo teleologicamente caratterizzate dalla necessità di ampliare l’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese 10, con connessa esigenza di forte omogeneità sul territorio nazionale (per evitare discriminazioni e diseguaglianze). Applicato al commercio, ciò porta a leggere nella materia esclusiva «tutela della concorrenza» una prerogativa statale di definizione del livello di apertura del mercato; livello fissato tra regolazione e liberalizzazione, ricercando un corretto equilibrio 6 Giudizio incidentale sugli artt. 42 e 50, co. 7, del d.lgs. 267/2000, nonché dell’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011, nella parte in cui tali disposizioni non prevedono la competenza dei Comuni ad adottare atti normativi e provvedimentali volti a limitare l’uso degli apparecchi da gioco di cui al co. 6 dell’art. 110 del r.d. 773/1931.
7 Per il quadro europeo delle politiche di liberalizzazione (anche) del commercio, e il recepimento in Italia, cfr. N. LONGOBARDI, Liberalizzazioni e libertà di impresa, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2013, fasc. 3-4, 603 ss.
8 Cfr. Corte cost. 270/2010, 45/2010, 160/2009, 430/2007, 401/2007. Sulla giurisprudenza più recente, anche sottolineando come una compiuta concettualizzazione della portata della «concorrenza» sia ancora carente pur a fronte dell’abbondanza delle pronunce in materia, cfr. C. PINELLI, La tutela della concorrenza come principio e come materia. La giurisprudenza costituzionale 2004-2013, in Rivista AIC, fasc. 1, 2014.
9 Sulla promozione della concorrenza, intesa non soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in accezione dinamica, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali, cfr. Corte cost. 299/2012, 80/2006, 242/2005, 175/2005, 272/2004, 14/2004.
tra i due estremi (con totale regolamentazione preclusiva ovvero con completa liberalizzazione ad apertura). In ogni caso, l’individuazione di tale equilibrio sembra essere pacificamente riservata – sulla base di una portata ampia della materia ex lett. e) dell’art. 117 – al solo livello centrale di governo. In questa prospettiva, nella giurisprudenza costituzionale si è consolidata l’idea che le misure di liberalizzazione, da intendersi come «razionalizzazione della regolazione», siano idonee a produrre effetti virtuosi sul tessuto economico se si pongono come una «ri-regolazione» orientata ad incrementare il livello di concorrenzialità dei mercati, consentendo ad un maggior numero di operatori di competere; e tale opera di ri-regolazione del mercato orientata a sollecitare la concorrenza dinamica potrebbe essere svolta secondo modalità non discriminatorie e non irrazionali solamente con una rigorosa riserva della materia alla potestà esclusiva statale. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente frammentaria o intrusiva – cioè irragionevolmente differenziata o sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti11 – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli imprenditori e dei consumatori. L’eliminazione degli oneri regolamentari che risultino superflui, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è allora funzionale alla tutela della concorrenza e rientra – a questo titolo – nelle competenze del legislatore statale12. La Corte quindi riconosce che un equilibrio tra misure regolatorie e spazi di libertà per l’iniziativa economica privata deve essere fissato con interventi normativi (di deregolazione o ri-regolazione), a fini della miglior tutela (anche dinamica) della concorrenza, favorendo – con la giusta quantità di regole – lo sviluppo di un mercato tanto aperto quanto equo e sensibile alle esigenze sociali. La portata della lett. e) dell’art. 117 fa però sì che, tendenzialmente, l’individuazione di tale equilibrio sia lasciata al legislatore statale, le cui scelte di regolazione sono pertanto di norma non derogabili dal legislatore regionale, anche quando negative; ciò in quanto la de-regolazione statale del commercio non corrisponde ad un lasciare spazi giuridici vuoti a disposizione dell’iniziativa regionale, ma si sostanzia invece in una scelta positiva pro-concorrenziale di astensione a favore del libero mercato, non derogabile se non nelle (limitate) forme riconosciute come costituzionalmente conformi dalla Corte. Vi sono infatti ipotesi in cui il livello territoriale di governo è in grado di decidere in modo più appropriato di quello statale quali regole limitative della liberalizzazione del commercio siano in concreto necessarie, esercitando la competenza residuale in materia di commercio e – soprattutto – facendosi portatore di interessi e valori contrapposti alla concorrenzialità del mercato (quali promozione della salute, tutela dell’ambiente, protezione sociale, razionale governo del territorio, etc.); interessi che sono così idonei a 10 Sul carattere teleologico/finalistico (oltre che trasversale) della materia «tutela della concorrenza» cfr. ancora Corte cost. 401/2007. Cfr. anche in precedenza Corte cost. 80/2006, 175/2005, 272/2004, 14/2004.
11 Cfr. Corte cost. 247/2010, 152/2010, 167/2009.
12 Cfr. Corte cost. 299/2012 e 200/2012.
limitare la liberalizzazione del commercio quando è l’autonomia territoriale ad interviene “in concreto” sull’iniziativa economica, con scelte non di inibizione (in assoluto) ma di conformazione (relativa) della libertà dei privati, poste in essere per fini specifici (già tipizzati dal legislatore statale). Anche le più recenti sentenze citate, che hanno sindacato un’ampia casistica di misure regionali di (ri)regolazione del commercio, possono essere lette in questa prospettiva, distinguendo le numerose ipotesi in cui la Corte ha optato per l’incostituzionalità (riscontrando un equilibrio fissato dallo Stato – nell’esercizio della competenza «tutela della concorrenza» – cui la Regione ha cercato di derogare con limiti alla liberalizzazione assoluti13, o anche relativi/conformativi 14, ma comunque posti per ragioni non specifiche e riconoscibili come astrattamente meritevoli già a livello statale), dalle più rare ipotesi in cui si riconosce la legittimità di interventi dell’autonomia territoriale 15. Interventi dei livelli di governo sub-statali che non derogano all’equilibrio tra regolazione e liberalizzazione individuato dal legislatore nazionale, che procede sotto la copertura della lett. e) dell’art. 117, ma che intervengono con misure regionali (o Comunali) le quali sono tanto meramente conformative di un’attività commerciale comunque riconosciuta come ammissibile (e solo regolata territorialmente, senza scelte preclusive in assoluto dell’iniziativa economica), quanto implementate a livello territoriale per fini e sotto al copertura di ragioni specifiche e concrete (con una tipizzazione forte dei beni a fronte dei quali viene meno la normale prevalenza del titolo competenziale «tutela della concorrenza», qualificati come meritevoli già a livello statale). 2. L’incostituzionalità dei limiti territoriali alla liberalizzazione del commercio a carattere assoluto (preclusivi) e per ragioni non specifiche (a fini generali) Un primo ordine di interventi regionali, certamente non ammissibili posta l’accezione trasversale e prevalente della materia «tutela della concorrenza», è quello in cui l’autonomia territoriale pretende di introdurre limiti radicali alla liberalizzazione del commercio; limiti tanto di carattere assoluto (con vere barriere all’ingresso, eccessivamente restrittive e – quindi – anticoncorrenziali), quanto per fini generali e non specifici (lasciando eccessiva discrezionalità all’amministrazione, senza una tipizzazione astratta dei beni perseguiti già riconoscibile a livello nazionale e – quindi – senza garanzia di eguaglianza, prevedibilità e tutela dell’affidamento per gli attori economici privati). Nonostante la parziale copertura della competenza residuale in materia di commercio, e nonostante la giurisprudenza della Corte di giustizia che ha riconosciuto la legittimità di limitazioni all’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale (purché non sorrette da ragioni puramente economiche) 16, la giurisprudenza costituzionale ha nondimeno negato la legittimità – su tali sole basi – di interventi territoriali di ridefinizione dell’equilibrio concorrenziale nell’ambito del commercio (adeguando il livello di liberalizzazione/regolamentazione alle specifiche caratteristiche territoriali). 13 Cfr. infra il par. 2.
14 Cfr. infra il par. 3.
15 Cfr. infra il par. 4.
Un primo esempio di questo tipo di interventi, analizzato dalla citata sentenza 104/2014, attiene all’art. 11 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013, che stabiliva il divieto assoluto, nei centri storici, di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali17. La Corte nell’accogliere la censura ribadisce la prevalenza del titolo legittimante lo Stato (concorrenza) su quelli invocati dalla Regione (commercio e urbanistica)18. A fronte di tale prevalenza della potestà statale nel definire il punto di equilibrio tra liberalizzazione e regolamentazione, quindi, si ribadisce anche che il disposto dell’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011 – il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura – deve essere integralmente ricondotto sotto la copertura della tutela della concorrenza (titolo competenziale in presenza del quale gli spazi di regolazione regionale in materia di commercio e di governo del territorio non sono idonei ad impedire una piena e trasversale efficacia conformativa dell’intervento statale, che assume quindi carattere prevalente)19. Sulla base di un simile inquadramento generale, la Corte costituzionale non nega però che la concorrenza – come congeniata a livello di Unione europea – lasci residuare degli spazi di (ri)regolazione, a limitazione delle liberalizzazioni, ma afferma che tali spazi non sono nella (normale) disponibilità regionale, specie se occupati con barriere assolute all’ingresso nel mercato e per fini non già tipizzabili sulla base dell’ordinamento nazionale. In questo senso la Corte di giustizia, come connaturato al suo ruolo, non si è preoccupata di definire l’assetto interno dei poteri pubblici statali, ma ha focalizzato la sua interpretazione sulla tutela dei grandi esercizi commerciali avverso restrizioni alla libertà di stabilimento (nei rapporti transfrontalieri) 20; ciò ammettendo sì regolamentazioni 16 Cfr. CGUE 22 ottobre 2009, in causa C-348/08, Choque Cabrera; CGUE 11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio Group; CGUE 24 marzo 2011, in causa C-400/08, Commissione europea c. Regno di Spagna (a commento, cfr. A. CASSATELLA, Condizioni di apertura di grandi esercizi commerciali: la Corte di giustizia fissa alcuni limiti per legislatori ed amministratori statali, in Giurisprudenza italiana 2012, fasc. 1, 182 ss.).
17 Tale disposizione ha inserito nell’art. 9 della legge regionale Valle d’Aosta 12/1999 il co. 2-bis disponendo che «in attuazione dei principi previsti dall’articolo 1, comma 1-bis, nei centri storici sono vietate l’apertura e il trasferimento di sede delle grandi strutture di vendita». Per un inquadramento generale delle discipline regionali sul commercio nei centri storici, cfr. L. DEGRASSI, Attività commerciali e tutela dei centri storici. Le scelte strategiche negli ordinamenti regionali, in Il diritto dell’economia 2011, fasc. 1, 39 ss.
18 Cfr. il punto 6. del Considerato in diritto di Corte cost. 104/2014. Sugli spazi di rilevanza riconquistati dall’urbanistica proprio in un contesto di liberalizzazioni, tuttavia, cfr. S. MONZANI, Il rapporto tra disciplina urbanistica e pianificazione commerciale nel contesto di liberalizzazione e di promozione della concorrenza , in Il Foro Amministrativo C.d.S. 2012, fasc. 9, 2397 ss. e D.M. TRAINA, Disciplina del commercio, programmazione e urbanistica, in Rivista giuridica dell’edilizia 2011, fasc. 2-3, pt. 2, 119 ss. Sull’inutilizzabilità degli strumenti urbanistici per reintrodurre surrettiziamente contingenti quantitativi agli esercizi commerciali cfr. A. TRAVI, Attività commerciali e strumenti urbanistici: ovvero, “il diritto preso sul serio”, in Urbanistica e appalti 2014, fasc. 1, 101 ss.
19 Cfr. Corte cost. 299/2012, punto 6.1. del Considerato in diritto; Corte cost. 38/2013; Corte cost. 25/2009.
20 Cfr. ancora CGUE 24 marzo 2011, in causa C-400/08, Commissione europea c. Regno di Spagna.
all’accesso o all’esercizio del commercio, ma purché applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza. In ottica europea, tali restrizioni possono quindi essere legittimamente poste, purché siano giustificate da motivi imperativi d’interesse generale e a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito (e non vadano oltre quanto strettamente necessario al raggiungimento dello stesso). La meritevolezza dei motivi addotti a fondamento e il rispetto del principio di proporzionalità costituiscono pertanto requisiti fondamentali per la ri-regolazione del commercio, e fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano – in particolare – la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio, di sicuro interesse anche regionale e locale. A parere della Corte costituzionale, tuttavia, l’ammissibilità di una regolamentazione limitativa della libera iniziativa economica, conforme agli spazi d’intervento lasciati dal diritto UE, non postula automaticamente che tale possibilità di ri-regolazione possa essere assunta dalla Regione, nell’esercizio delle sue competenze (su commercio, governo del territorio e altre materie rilevanti). La Corte costituzionale ribadisce quindi che quelle analizzate dalla Corte di giustizia sono fattispecie distinte rispetto a quella in esame (o quantomeno considerate in una differente prospettiva); ciò sia per la disomogeneità del principio evocato (libertà di stabilimento e non tutela della concorrenza tout court)21, sia per le caratteristiche di fatto delle due vicende. La disomogeneità del parametro, peraltro, se semplicisticamente intesa pare solo apparente (nella misura in cui lo stabilimento, deregolando le barriere all’ingresso, è una delle forme di manifestazione delle liberalizzazioni, e quindi della concorrenza in senso dinamico). La rivendicazione della non sovrapponibilità dei due concetti fatta dalla Corte costituzionale22, tuttavia, assume significato più pregnante non solo per la citata portata transfrontaliera o interna, ma in particolare – sul piano strutturale – anche se il ragionamento viene sviluppato nel senso che la libertà di stabilimento (e quindi la concorrenza nell’accezione UE) è espressiva di un interesse di cui si occupa il livello europeo di governo e che attiene al quadro generalissimo dell’equilibrio tra liberalizzazione e regolamentazione, mentre la tutela della concorrenza – di cui all’art. 117 Cost. – assumerebbe una portata più di dettaglio, abilitando lo Stato a individuare l’equilibrio (poi solo attuato dalla Regione). Ciò in modo che, nel riparto dei compiti pro-concorrenziali, l’Unione europea sarebbe abilitata solo a indicare la direzione generale della politica di liberalizzazione per quanto incidente sulla non discriminazione per ragioni di cittadinanza (lasciando residuare eccezioni alla libertà di stabilimento in forma di ipotesi aperte), lo Stato sarebbe legittimato a fissare l’equilibrio astratto tra regolazione e liberalizzazione in generale, e anche per il piano meramente interno (stabilendo comunque le ipotesi – interne – di possibile barriera all’ingresso nel mercato, o di conformazione dell’esercizio del commercio, anche subendo il condizionamento del vincolo all’apertura – esterna – posto dall’Unione), mentre le Regioni – senza derogare all’assetto astratto degli interessi già individuato ex art. 117, lett.
21 Così già in Corte cost. 38/2013, punto 2. del Considerato in diritto. A commento in generale cfr. A. CASSATELLA, La liberalizzazione del commercio e i suoi attuali limiti, in Giurisprudenza italiana 2014, fasc. 4, 933 ss.
22 Cfr. il punto 6.1. del Considerato in diritto della sentenza Corte cost. 104/2014.
e) dallo Stato – potrebbero sfruttare la disciplina generale posta a livello nazionale (e conforme alle indicazioni europee) per fissare invece “in concreto” i casi di ri-regolazione. Vi sarebbe quindi una necessaria comunanza dei valori (pro-concorrenziali) tra i diversi livelli di governo, ma con una sensibile differenza di intensità nelle possibilità di fissazione delle eccezioni all’applicazione dei valori medesimi (da clausole generali di deroga al libero stabilimento, a norme generali e astratte di apertura alla ri-regolazione del mercato, fino alla gestione – amministrativa o comunque “di esecuzione” degli indirizzi statali – delle limitazioni alla concorrenza). In coerenza con questa impostazione, da limitazioni astratte (statali) a limitazioni concrete (regionali), l’art. 31 del d.l. 201/2011 consente di introdurre limiti all’apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela dell’ambiente, «ivi incluso l’ambiente urbano», e riconosce alle Regioni la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali». Tuttavia, la disposizione statale stabilisce che ciò debba avvenire «senza discriminazioni tra gli operatori», e anche il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel richiamare tale norma statale facoltizzante le Regioni ad introdurre restrizioni con riguardo alle aree di insediamento delle attività commerciali, afferma che ciò può avvenire sotto condizione del «rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione»23. Nel caso di specie, invece, l’art. 11 censurato, nel vietare l’apertura e il trasferimento nei centri storici delle grandi strutture di vendita, preclude del tutto e a priori l’accesso al mercato, (ri)definendo una scelta astratta di regolazione del commercio, anziché una concreta opzione di gestione della liberalizzazione. Tale divieto, proprio per la sua assolutezza, costituisce così una limitazione radicale della concorrenza (da ritenere materia prevalente), e non un intervento concreto di gestione della stessa, incidendo direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, risolvendosi in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita. Ciò con una scelta interdittiva assoluta e a fini astratti che strutturalmente – per l’apporto che i diversi livelli di governo devono dare alla regolazione e gestione della concorrenza – non compete alla Regione. Anche nella sentenza 125/2014 si trova un esempio di tale forma di intervento regionale, con divieti assoluti e non motivati da ragioni specifiche (pre-qualificate dal legislatore nazionale). In particolare, tra le varie norme impugnate, l’art. 44 della legge regionale Umbria 10/201324 precludeva l’installazione di impianti self-service di distribuzione carburanti in vari casi in cui gli stessi non possano essere classificati come di «pubblica utilità», introducendo così una misura restrittiva della concorrenza astratta e generale. La regolamentazione regionale era quindi fondata sulla logica per cui la libertà di commercio non costituisce la regola, ma l’accesso al mercato – in tale settore merceologico – è invece ammesso solo se l’interesse dell’operatore economico in ingresso coincide con 23 Parere reso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in data 11 dicembre 2013, in ordine alla modifica dell’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011 ad opera dell’art. 30, co. 5-ter, del d.l. 69/2013. In tale parere l’Autorità ha chiarito che le Regioni possono legittimamente introdurre restrizioni per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive o commerciali, purché siano rispettose del principio di non discriminazione e giustificate dal perseguimento di un interesse pubblico costituzionalmente rilevante.
24 Che ha aggiunto l’art. 7-ter alla legge regionale Umbria 13/2003, sugli impianti c.d. “ghost”.
l’interesse pubblico (qualora la nuova attività commerciale dovesse essere l’unica sita nel Comune o nel raggio di dieci chilometri)25. La Corte costituzionale, nel ritenere fondata la questione 26, rileva il diretto contrasto con quanto stabilito dal legislatore statale al d.l. 1/2012 27. Intervento statale anche in questo caso coperto dalla materia trasversale e prevalente della tutela della concorrenza, con cui è stata introdotta una misura di liberalizzazione che individua in astratto il livello di regolamentazione del mercato ritenuto opportuno; livello al quale la Regione non può derogare con sue diverse scelte di ri-regolazione, operate in astratto con barriere all’ingresso tanto a carattere assoluto, quanto poste per la tutela di fini di interesse pubblico generalissimi e non tipizzati. In questo modo, vista la carenza di ragioni di pubblico interesse specifiche, la Regione eccede i confini di una “gestione” della concorrenza e delle liberalizzazioni (già disciplinate sul piano astratto dallo Stato), non operando valutazioni “in concreto” degli interessi e dei valori qualificati già dal legislatore statale come (gli unici) idonei a vanificare la prevalenza della funzione di tutela della concorrenza. 3. L’illegittimità anche dei limiti territoriali alla liberalizzazione del commercio di carattere solo relativo (conformativi), ma comunque posti in essere per ragioni non specifiche Il ruolo dell’autonomia territoriale nel definire l’assetto di regolamentazione nel commercio assume quindi un carattere fondamentalmente “di amministrazione” di scelte già predeterminate dalla prevalente competenza statale in materia di concorrenza, e tale ruolo si sostanzia così nel porre regole di gestione delle liberalizzazioni da un lato mai assolute nel limitare l’accesso, ma solo conformative dell’esercizio del commercio, e d’altro lato mai finalizzate a scopi non specifici, ma solo dirette alla tutela di interessi concreti già qualificati come meritevoli dal legislatore statale (che così rinuncia – per tali ambiti – ad espandere la prevalenza della materia «tutela della concorrenza» 28). Se nei casi già citati la legittimazione delle Regioni era carente sotto entrambi i profili (limiti assoluti e per fini non specifici), anche interventi regionali di sola conformazione del commercio (senza porre barriere assolute all’ingresso, ma con soli vincoli relativi alle modalità di esercizio) non sono tuttavia legittimi se – comunque – introdotti per fini atipici, non specificamente considerati come interessi meritevoli (e potenzialmente prevalenti) dallo stesso legislatore statale. 25 Cfr. l’art. 2, co. 1, lett. q), della legge regionale Umbria 13/2003. Per un inquadramento generale della disciplina di liberalizzazione del settore della distribuzione dei carburanti, cfr. M. SALERNO, P. SANTONE, Liberalizzazioni nella distribuzione dei carburanti e mercato unico: la Corte annulla ...le distanze, in Diritto pubblico comparato ed europeo 2010, fasc. 3, 1272 ss.
26 Cfr. il punto 4.1. del Considerato in diritto in Corte cost. 125/2014.
27 Che con il suo art. 18, rubricato «liberalizzazione degli impianti completamente automatizzati fuori dei centri abitati», ha modificato il co. 7 dell’art. 28 del d.l. 98/2011.
28 Cfr. infra il par. 4.
Così, nella casistica recente, la sentenza 104/2014 ha giudicato illegittimo l’art. 7 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013 29, che viola l’impostazione pro-concorrenziale delineata dallo Stato disciplinando le medie e grandi strutture di vendita non in modo preclusivo, in termini assoluti, ma solo subordinando il rilascio delle autorizzazioni – all’apertura, al trasferimento di sede e all’ampliamento della superficie – al parere positivo della struttura regionale competente in materia di commercio (quindi con un’ammissibile proceduralizzazione della liberalizzazione); parere che attesta la conformità dell’attività oggetto della richiesta a indirizzi però del tutto generici, non tipizzati seguendo scelte di qualificazione statali e, quindi, con un’inammissibile delega in bianco all’autorità amministrativa regionale del potere di ridefinire un equilibrio “in concreto” tra liberalizzazione e regolazione del commercio (come tale potenzialmente incompatibile con l’assetto “astratto” di apertura del mercato fissato dallo Stato nell’esercizio della tutela della concorrenza). La Corte costituzionale rileva come il potere di indirizzo che la Regione si è riservata, proprio perché così atipico e slegato dalle scelte statali di qualificazione degli interessi eventualmente prevalenti sulla concorrenza, sia suscettibile di fondare una generale e astratta (anziché solo concreta e specifica) potestà inibitoria o sanzionatoria delle iniziative economiche private, che – anche se non sostanziata in un’inibizione assoluta e a priori (come nei casi precedenti) – viene nondimeno ad incide direttamente sulla materia concorrenza proprio per la portata comunque ampia sottesa a una conformazione del commercio per fini atipici30. Sempre in quest’ottica, di non riconoscibilità della proceduralizzazione dei limiti alla liberalizzazione come garanzia da sola sufficiente per assicurare la prevalenza di interessi comunque non previamente tipizzati dal legislatore statale (a discapito dell’interesse – invece sicuramente meritevole – alla concorrenza), la sentenza 104/2014 ha giudicato incostituzionale anche l’art. 2 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013 31. Articolo che attribuisce alla Giunta regionale, sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, il compito di individuare – sulla base di criteri oggettivi e trasparenti – gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva, in rapporto alle diverse categorie e dimensioni degli esercizi, tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta. Si è infatti osservato che tale disposizione sarebbe incostituzionale 32 in quanto suscettibile di reintrodurre surrettiziamente limiti all’accesso al mercato e all’esercizio di attività economiche. Ciò dal momento che il criterio in base al quale la Giunta deve determinare 29 Che ha sostituito l’art. 5 della legge regionale Valle d’Aosta 12/1999.
30 Cfr. il punto 3. del Considerato in diritto in Corte cost. 104/2014.
31 Che ha inserito nella legge regionale Valle d’Aosta 12/1999 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), l’art. 1-bis.
32 Cfr. il punto 2. del Considerato in diritto in Corte cost. 104/2014.
gli indirizzi («obiettivi di equilibrio della rete distributiva») si pone come estremamente generico, così da lasciare all’esecutivo regionale una discrezionalità ampia che – quindi – renderebbe di fatto possibile la (re)introduzione di vincoli quantitativi all’apertura di esercizi commerciali (non giustificati da esigenze tipizzate di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali e del territorio33). Non si tratterebbe allora di una norma meramente procedurale, che non pone alcun limite sostanziale di tipo quantitativo alle attività commerciali (attribuendo un mero potere di indirizzo alla Giunta); in realtà, invece, tale potere di vaglio procedimentale delle iniziative commerciali è facilmente traducibile in una potestà di contingentamento a danno degli operatori economici, recuperando al livello territoriale di governo poteri sanzionatori o inibitori da esercitare per fini non specifici (il potere di indirizzo essendo solo apparentemente ancorato a parametri oggettivi, gli stessi venendo in realtà individuati dal legislatore regionale e non pre-qualificati come meritevoli e potenzialmente prevalenti sulla concorrenza già dal legislatore statale)34. Ancora, sempre la sentenza 104/2014 ha annullato – per ragioni strutturali in parte analoghe a quelle precedenti – l’art. 4 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013 35 relativo alla disciplina degli orari di apertura e chiusura delle attività di commercio al dettaglio 36; ciò visto il contrasto con quanto statuito dalla legislazione statale 37, in forza della quale eventuali limiti temporali possono essere posti solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale, e non per sole ragioni economiche. Nonostante infatti tale intervento regionale non abbia costituito una barriera assoluta all’ingresso, ma abbia solo integrato una conformazione delle modalità di esercizio dell’attività economica (escludendo dall’applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle svolte su area pubblica), nondimeno la qualificazione dell’interesse a contingentare i tempi di apertura per tali attività imprenditoriali è difforme dalla qualificazione statale. Sebbene il legislatore regionale intervenga in questo modo su un piano di gestione della concorrenza – mediante regolazione e non con inibizione dell’attività – nondimeno l’interesse (al contingentamento dell’uso degli spazi pubblici dati in concessione) non è stato infatti previamente qualificato 33 Esigenze tipizzate, in aderenza alle qualificazioni operate anche dalla legislazione statale, dal co. 1-bis dell’art. 1 della legge regionale Valle d’Aosta 12/1999.
34 Sul potere di indirizzo della Giunta cfr. il punto 2.2. del Considerato in diritto in Corte cost. 104/2014. Per rilevare come sia la stessa attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale, in una materia devoluta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a determinare la lesione dell’art. 117, lettera e), cfr. ancora Corte cost. 38/2013, punto 4. del Considerato in diritto.
35 Il quale introduce l’art. 3-bis nella legge regionale Valle d’Aosta 12/1999.
36 In armonia con quanto disposto dall’art. 3, co. 1, lettera d-bis), del d.l. 223/2006.
37 Cfr. in particolare l’art. 28, co. 13, del d.lgs. 114/1998 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dal d.lgs. 59/2010.
come meritevole dal legislatore statale (il quale non ha quindi preso in considerazione – in sede di definizione del punto di equilibrio tra liberalizzazione e regolazione – eccezioni specifiche per la tutela di tale bene). In questo senso, è stata respinta la difesa regionale per la quale la disposizione censurata non avrebbe disciplinato le attività commerciali su area pubblica, ma le avrebbe semplicemente escluse dal suo campo di applicazione (in tal modo omettendo di “attivare” la liberalizzazione di orario per le attività su aree pubbliche, senza però introdurre direttamente limiti all’esercizio del commercio). Il tutto, inoltre, sarebbe stato realizzato in spazi di compressione delle liberalizzazioni ammessi anche dalla legislazione statale, che consentirebbe esplicitamente alle Regioni e agli enti locali di stabilire limiti e modalità di utilizzo (contingentato, in quanto beni a disponibilità limitata) delle aree pubbliche 38. La Corte costituzionale ha però respinto tali difese 39, in quanto la norma statale da ultimo citata non è specificamente diretta a qualificare l’interesse alla gestione speciale delle aree pubbliche come potenzialmente prevalente sulle liberalizzazioni e, quindi, le Regioni non possono impiegare tale interesse generico per una regolamentazione conformativa del commercio che (ri)declini in astratto – anziché attuare in concreto – l’equilibrio tra liberalizzazione e regolamentazione già individuato dallo Stato sotto la copertura della lett. e) dell’art. 117. Il legislatore statale ha infatti specificamente disciplinano gli orari e i giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali 40, senza che tale disciplina statale specifica lasci spazi alla gestione territoriale della concorrenza per individuare eccezioni a beneficio delle aree pubbliche (che sono invece esplicitamente citate come parte del campo di applicazione della normativa liberalizzante 41), e facendo così ricadere l’intera materia degli orari per gli esercizi commerciali sotto il titolo competenziale trasversale e prevalente della tutela della concorrenza 42. Inoltre, anche la sentenza 125/2014 ha toccato due fattispecie di questo tipo, dichiarando illegittimi i limiti alla liberalizzazione che, pur non assoluti sul piano delle modalità di 38 Cfr. l’art. 28, co. 13, del d.lgs. 114/1998.
39 Cfr. il punto 5. del Considerato in diritto in Corte cost. 104/2014.
40 Cfr. l’art. 3, co. 1, lett. d-bis) del d.l. 223/2006 come modificato dall’art. 31 del d.l. 201/2011, il quale stabilisce che «al fine di garantire la libertà di concorrenza […] le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.
41 Tra le attività commerciali disciplinate dal d.lgs. 114/1998, cui l’art. 3 del d.l. 223/2006 fa riferimento, vi sono anche quelle che si svolgono su aree pubbliche (artt. 27 ss.), divenendo quindi evidente che anche per queste aree il legislatore statale ha inteso espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari di apertura e chiusura dell’attività. Le sole limitazioni apponibili allo svolgimento dell’attività di commercio su area pubblica sono indicate dall’art. 28, co. 13, del d.lgs. 114/1998, come modificato dal d.lgs. 59/2010 (sostenibilità ambientale e sociale, a finalità di tutela delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale), e dall’art. 31 del d.l. 201/2011.
42 Così già in Corte cost. 299/2012 e 38/2013, che sottolineano gli effetti positivi della liberalizzazione negli orari di vendita.
gestione, siano nondimeno posti per fini non specifici (in quanto non tratti dalle qualificazioni astratte già operate dal legislatore statale, che li identifica come fini potenzialmente prevalenti sulla funzione di tutela della concorrenza). In particolare, la censura di incostituzionalità dell’art. 9 della legge regionale Umbria 10/2013 in materia di c.d. «poli commerciali» 43 aveva ad oggetto una regolamentazione di tipo procedurale (più che conformativo) analoga alle prime due descritte in questo paragrafo. Grazie alla categoria dei «poli commerciali», specifica della legislazione umbra, veniva di fatto introdotta la possibilità che un esercizio di vicinato si trovasse ad essere sottoposto ad autorizzazione preventiva, in quanto facente parte di un «polo» cui fossero – per la loro mera collocazione geografica – riconnesse anche altre attività commerciali. Poteva quindi verificarsi l’ipotesi in cui il singolo esercizio commerciale veniva assoggettato a regole autorizzatorie più gravose di quelle risultanti dalle liberalizzazioni, e ciò non per la sua specifica dimensione individuale, ma in relazione alla superficie di vendita complessiva eventualmente derivante dall’appartenenza, appunto, ad un unico agglomerato di attività (pur sostanzialmente distinte tra loro). In forza dell’attribuzione da parte del legislatore regionale della qualifica di «polo commerciale», conferita a date iniziative imprenditoriali per il solo fatto che queste siano realizzate in adiacenza o vicinanza, e a prescindere dalla volontà degli esercenti di unirsi tra loro, il singolo imprenditore veniva gravato di oneri regolatori più gravosi. In tali casi, infatti, il legislatore regionale sottopone anche gli esercizi di vicinato alla complessa procedura autorizzatoria prevista per le grandi o medie strutture di vendita, anziché alla segnalazione certificata di inizio attività44. Le citate norme regionali, pertanto, introdurrebbero regole restrittive e discriminatorie, in contrasto con i principi di liberalizzazione contenuti nell’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011, in combinato disposto con il d.lgs. 114/1998 45, nella cui classificazione degli esercizi commerciali non è ricompresa la categoria del «polo commerciale», nonché con l’art. 1 del d.l. 1/201246, che – sul piano procedimentale – ha stabilito la generale abrogazione dei requisiti autorizzatori quando non rispettosi del principio di proporzionalità o, comunque, non legittimati da ragioni di apprezzabile interesse e incompatibili con la normativa dell’Unione europea (completando così – con una generale semplificazione procedimentale – la liberalizzazione di cui al d.l. 201/2011, che ha invece eliminato sul piano sostanziale vincoli numerici e barriere all’ingresso). Anche in questo caso, quindi, il 43 La disposizione citata integra le previsioni dell’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 24/1999 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del d.lgs. 114/1998), e in particolare il co. 3-quater aggiunto all’art. 10-bis dalla norma impugnata qualifica la nozione di polo commerciale.
44 Grazie alle liberalizzazioni infatti sarebbero soggetti, in base all’art. 4-bis della legge regionale, alla (SCIA) da presentare, ai sensi dell’art. 19 della 241/1990, allo Sportello unico per le attività produttive e per l’edilizia (SUAPE) del Comune competente per territorio.
45 Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, co. 4, della legge 59/1997.
46 Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della legge 27/2012.
legislatore regionale – pur non vietando in assoluto l’accesso al mercato – rende nondimeno tale accesso proceduralmente più gravoso; ciò, tuttavia, senza la copertura di concreti fini di tutela, specifici e considerati già dal legislatore statale in astratto come meritevoli di protezione (prevalente sulla concorrenza), così che l’intervento regionale – mancante di tale legittimazione – risulta di conseguenza incostituzionale. Inoltre, sempre la sentenza 125/2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 della legge regionale Umbria 10/2013, nella parte in cui vincola l’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti all’erogazione non solo di gas metano o altri prodotti ecologicamente compatibili (requisito conformante l’iniziativa economica privata ma tuttavia consentito, perché integrante un’eventualità già considerata dal legislatore statale quale limite alla liberalizzazione del commercio ammissibile per i suoi positivi effetti sull’interesse generale alla salubrità dell’ambiente), ma anche – necessariamente – sia di benzina che di gasolio47. Le scelte del legislatore nazionale, unico soggetto competente ad assumere le opzioni astratte di tutela della concorrenza dinamica, sarebbero così integrate da limiti alla liberalizzazione non prospettati già in astratto a livello statale. Infatti, il co. 5 dell’art. 17 del d.l. 1/201248 prevede che, al fine di garantire il pieno rispetto delle disposizioni dell’ordinamento dell’Unione europea in materia di tutela della concorrenza (e di assicurare il corretto e uniforme funzionamento dei mercato), l’installazione e l’esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere subordinati, tra l’altro, all’obbligo della erogazione «di più tipologie di carburanti, ivi incluso il metano per autotrazione, se tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell’obbligo». In questo caso, quindi, la norma regionale introduce vincoli più restrittivi all’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti, prevedendo l’obbligo di erogare contestualmente gasolio e benzina (obbligo non giustificato da specifiche ragioni di interesse pubblico, di natura ambientale, né proporzionato). Ciò si porrebbe pertanto in contrasto con la normativa statale – fondata sull’art. 117, lett. e), Cost. – che ammette in astratto restrizioni che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti; possibilità rispetto alla quale però il limite alla liberalizzazione posto dalla legge umbra – pur non integrando una barriera assoluta all’accesso al mercato – integra un aggravio sostanziale (fornire anche altra tipologia di carburante) posto per una ragione non di pregio ai sensi della normativa nazionale (mentre si pone diversamente il conformare in concreto la libertà di commercio richiedendo anche l’erogazione di carburanti a ridotto impatto ambientale, in quanto tale requisito è specificamente strumentale alla tutela di un interesse meritevole, già qualificato dal legislatore statale come potenzialmente idoneo a superare la prevalenza della materia tutela della concorrenza). 4. Limiti di carattere relativo/conformativo ammessi se legittimati da ragioni specifiche (già qualificate dal legislatore statale). Un regionalismo «di esecuzione» in materia di commercio? 47 Cfr. il co. 1 dell’art. 7 della legge regionale Umbria 13/2003, come modificato dalla norma impugnata.
48 Modificativo dell’art. 83-bis, co. 17, del d.l. 112/2008.
La possibilità di limitare la liberalizzazione del commercio, quando già prefigurata in astratto nella legislazione statale, costituisce quindi il titolo legittimante per gli interventi regionali che regolano l’iniziativa economica privata in termini conformativi, senza divieti assoluti e assumendo in concreto a legittimazione le ragioni di limitazione già riconosciute dal legislatore statale come astrattamente idonee a far venire meno la prevalenza del titolo competenziale della tutela della concorrenza. Ragioni che però non necessariamente il legislatore statale deve avere qualificato come tali nella medesima normativa di liberalizzazione, ma che possono essere derivate anche dall’ordinamento complessivo e dai valori costituzionali, purché proporzionalmente apprezzate dalle amministrazioni territoriali nell’esercizio delle loro attribuzioni in materia di commercio o di tutela della salute, dell’ambiente e degli altri interessi potenzialmente idonei (anche in astratto) a prevalete sulla tutela della concorrenza. In questi casi, la gestione della liberalizzazione è demandata a scelte concrete, senza barriere assolute e divieti inderogabili, ma con regolamentazione comunque parzialmente conformativa della libertà di commercio; e tale conformazione è operata per perseguire interessi – come ad esempio la tutela della salute – già qualificati in astratto dal legislatore statale come potenzialmente prevalenti sulla concorrenza. Così, nella sentenza 104/2014 è stata rigettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge regionale Valle d’Aosta 5/2013, il quale sostituisce l’art. 3 della legge regionale 12/1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali. La disposizione in parola prescrive che per lo svolgimento di attività commerciale nel settore merceologico alimentare, anche laddove tale attività sia effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone, è necessario il possesso di specifici requisiti di professionalità49; e ciò sebbene la relativa disposizione statale fosse stata poi modificata50, in modo che a livello nazionale non erano più richiesti gli specifici requisiti professionali per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti alimentari e di somministrazione di alimenti e bevande, effettuate non al pubblico ma in c.d. spacci interni. La disposizione regionale continuando invece a richiederne il possesso di apposite qualifiche professionali anche per tale tipologia di attività si porrebbe, quindi, in potenziale contrasto con la tutela della concorrenza, vista la disposizione statale che prefigura un più ampio livello di liberalizzazione. Tale disposizione tuttavia non chiarisce se il livello di liberalizzazione fissato dal legislatore statale sia facoltizzante o obbligatorio per le Regioni, che a seconda delle interpretazioni – quindi – possono o devono attenersi all’equilibrio prefissato dallo Stato tra liberalizzazione e regolazione del commercio (in modo che requisiti di professionalità possano, o debbano, non essere più essere richiesti per gli spacci interni). A questo riguardo, l’abrogazione da parte del legislatore nazionale delle norme che prescrivono il possesso dei requisiti di professionalità non comporta automaticamente una ridefinizione rigida di tale equilibrio (come si era visto in precedenza, quando la scelta statale di de-regolare assurgeva a misura di diretta tutela della concorrenza 51), ma si 49 Di cui all’art. 71, co. 6, del d.lgs. 59/2010 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).
50 Dall’art. 8 del d.lgs. 147/2012 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno).
porrebbe appunto – nell’interpretazione seguita dalla Corte costituzionale 52 – come opzione facoltizzante: le norme regionali che continuino a prevedere requisiti più restrittivi anche per gli spacci interni, posto che la direttiva 2006/123/CE lascerebbe libertà ai legislatori statali e regionali di mantenere la previsione di tali requisiti per il settore merceologico alimentare, e posto che anche la legislazione statale qualifica il settore alimentare come ambito meritevole di più stretta regolamentazione (anche nel contesto delle liberalizzazioni), sarebbero pertanto ancora legittime. Ciò perché tali norme non contrastano con i livelli europei di concorrenza e perché operano fondandosi su ragioni specifiche di legittimazione, attuate in concreto ma che trovano copertura astratta nell’ordinamento statale (così da rendere la materia tutela della concorrenza non più titolo prevalente, potendosi invocare un alternativo titolo competenziale concorrente – tutela della salute – riconosciuto anche dal legislatore statale come potenzialmente più meritevole nella ponderazione dei valori). L’abrogazione dei requisiti da parte del legislatore statale avrebbe quindi solo rimesso al legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze in materia di commercio, il potere discrezionale di individuare le eventuali garanzie di professionalità da allegare per poter esercitare l’attività di spaccio di alimenti, senza fissare in modo rigido un preciso equilibrio tra liberalizzazione e regolamentazione. Nell’interpretazione della Corte costituzionale, infatti, i requisiti con cui il legislatore regionale in tale ipotesi continua a limitare la liberalizzazione del commercio di generi alimentari, considerata la loro natura, appaiono funzionali ad assicurare che coloro che svolgono attività in tale particolare settore merceologico siano dotati di una specifica preparazione ed esperienza, allo scopo di salvaguardare la salute dei consumatori. Finalità di protezione specificamente considerata anche nel d.l. 223/2006 53, così che risulta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i requisiti di professionalità – pur limitanti la liberalizzazione del commercio – non incidono in modo diretto su un interesse alla tutela dinamica della concorrenza da ritenere sempre e comunque prevalente, essendo invece necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare (esigenze la cui qualificazione come prevalenti o meno su quelle del libero commercio è lasciata in questo caso ai singoli legislatori regionali, che intervengono sotto la copertura delle loro competenze in materia di commercio e salute). Tali considerazioni portano ad escludere che la norma impugnata attenga alla materia della «tutela della concorrenza» (che non è quindi l’unica e prevalente nella fattispecie astratta descritta), pur ponendo di fatto limiti o barriere all’accesso al mercato, con effetti (anche) restrittivi della concorrenza. Essa, piuttosto, concerne in modo diretto la materia della «tutela della salute», attribuita alla competenza legislativa concorrente e, in questo caso, idonea a prevalere sul titolo competenziale trasversale di cui alla lett. e) dell’art. 117 Cost.. Questa logica, di ammissibilità di interventi dell’autonomia territoriale a compressione della liberalizzazione del commercio solo quando operati in modi conformativi, non assoluti (con 51 Cfr. supra il par. 2.
52 Cfr. il punto 4.2. del Considerato in diritto in Corte cost. 104/2014.
53 Cfr. l’art. 3, co. 1, lett. a).
proceduralizzazione o regolazione dell’attività economica privata), e solo se coperti e legittimati da interessi pre-qualificati dal legislatore statale come in astratto meritevoli di tutela (e usati in concreto a livello territoriale per ridefinire l’equilibrio tra regolazione e liberalizzazione), è stata impiegata dalla Corte costituzionale anche per ipotizzare – per i Comuni – alcuni spazi di regolazione delle attività commerciali che facciano uso di c.d. apparecchi da gioco. La Corte nella sentenza 220/2014 ha infatti ritenuto che l’interesse pubblico al contrasto della ludopatia, qualificato come meritevole dal legislatore statale, può apparire – se opportunamente valorizzato sul piano interpretativo – come titolo legittimante idoneo a consentire interventi comunali di normazione del commercio (con regolamento o con ordinanza sindacale), anche disponendo limitazioni orarie normalmente contrastanti con la disciplina nazionale di liberalizzazione di cui all’art. 31, co. 2, del d.l. 201/2011 54. In sede di giudizio in via incidentale era in particolare stato chiesto alla Corte costituzionale di intervenire mediante sentenza additiva, con una declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni generali sui poteri regolamentari e di ordinanza comunali, riconoscendo agli enti locali una specifica funzione di contrasto del fenomeno patologico citato, in applicazione dei principi di prossimità con la collettività locale e di sussidiarietà tra amministrazioni pubbliche; ciò dotando gli enti locali – per mezzo di un’integrazione del testo unico – di strumenti idonei per un’azione amministrativa volta ad arginare la disponibilità illimitata dell’offerta di gioco, limitando così gli ingenti costi sociali connessi all’abuso di tali attività (seppur lecite) anche mediante la delimitazione dei periodi della giornata in cui gli esercizi commerciali possono offrire servizi di gioco nei quali si manifestano con maggior evidenza fenomeni di devianza ed emarginazione sociale. A riguardo va rilevato come la legge 220/2010 qualifichi la protezione della salute avverso tali situazioni di rischio come interesse in astratto meritevole, prevedendo modalità di prevenzione55, e – allo stesso modo – come il d.l. 158/2012, che ha qualificato come ludopatie i fenomeni patologici connessi all’uso di apparecchiature per il gioco, attribuisca alla relativa normativa di contrasto la valenza di disciplina della salute pubblica, ai sensi dell’art. 32 Cost.56. Posto tale interesse giuridicamente qualificato, il giudice a quo avrebbe tuttavia in parte omesso di indicare il verso dell’adizione richiesta (rispetto al potere regolamentare) 57, e in parte omesso di considerare che l’evoluzione della giurisprudenza amministrativa ha 54 L’art. 31 del d.l. 201/2011, al co. 2 ammette la derogabilità del generale principio di libertà di commercio attraverso l’introduzione di limiti territoriali, purché «connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali»; la sentenza 220/2014 ha dichiarato l’inammissibilità della censura di costituzionalità specificamente rivolta a tale disposizione in quanto tale articolo tratta unicamente di barriere all’ingresso, richiedendo quindi un requisito di novità dell’esercizio commerciale a cui non ha corrisposto un’adeguata motivazione della rilevanza nell’ordinanza di rimessione.
55 Cfr. in particolare l’art. 1, co. 70, della legge 220/2010.
56 Anche la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto la qualificazione ex art. 32 Cost. degli interessi sottesi, più ancora che la riconduzione al tema dell’ordine pubblico e sicurezza; cfr. Corte cost. 300/2011 e 35/2011.
57 Cfr. l’art. 42 del d.lgs. 267/2000.
elaborato un’interpretazione potenzialmente compatibile con i principi costituzionali evocati (rispetto al potere di ordinanza)58. Così, la dichiarazione di inammissibilità della questione si è fondata sulla prospettazione di una forza della generale previsione dell’art. 50, co. 7, del d.lgs. 267/2000 per la quale il sindaco potrebbe disciplinare gli orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano installate apparecchiature per il gioco per esigenze di tutela della salute (o della quiete pubblica, o della circolazione stradale), certamente riconosciute come meritevoli anche dal legislatore statale59. Sebbene il diritto vivente non sia consolidato in questo senso, infatti, il tema della legittimità di ordinanze sindacali limitative degli orari di apertura delle sale giochi60, o di distribuzione geografica sul territorio delle stesse (con imposizione di distanze minime da luoghi sensibili) 61, è già stato affrontato e risolto in senso positivo dalla giurisprudenza amministrativa. Il TAR rimettente omette pertanto di considerare una possibile interpretazione costituzionalmente orientata del potere di ordinanza, impiegabile per la conformazione della libertà di commercio; interpretazione dalla quale emergerebbe la legittimità costituzionale di interventi posti in essere dal Sindaco e limitativi della piena liberalizzazione degli esercizi che facciano uso di c.d. apparecchi da gioco. Ciò purché tali interventi si pongano – ancora una volta – come meramente conformativi (e non interdittivi) dell’iniziativa economica privata, e come fondati su ragioni di pregio costituzionale qualificate «in astratto» già dal legislatore nazionale (in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e ponendo le basi per un giudizio di prevalenza che non veda come inevitabilmente da preferirsi il valore della concorrenza); ragioni che poi quindi l’autonomia territoriale impiega «in concreto», dando attuazione agli indirizzi di tutela, intervenendo così a comprimere gli spazi di liberalizzazione proprio gestendo l’assetto concorrenziale (e le sue eccezioni) come prefissato dal legislatore statale. Dalle fattispecie trattate nelle sentenze più recenti in materia di autonomia territoriale e limitazioni alle liberalizzazioni nel commercio emerge quindi una conferma dell’impostazione per cui il titolo competenziale «tutela della concorrenza» ha oramai svuotato gli spazi di regolazione prospettabili in capo agli enti territoriali; ciò posto che il punto di equilibrio tra liberalizzazione e regolamentazione è prefissato dal legislatore statale, al quale la giurisprudenza costituzionale riserva tale prerogativa. Tuttavia, sebbene le possibilità di intervento sul piano più generale e astratto, di definizione dei giudizi di prevalenza, siano state svuotate di effettività dall’interpretazione espansiva della lett. e) dell’art. 117, nondimeno va registrato – anche nella giurisprudenza della Corte 58 Cfr. l’art. 50, co. 7, del d.lgs. 267/2000.
59 Cfr. I. BRADAMANTE, Ludopatia tra diritto alla concorrenza e diritto alla salute, in GiustAmm.it 2013, fasc. 7.
60 Cfr. Consiglio di Stato 3271/2014; 2133/2014; 996/2014; 2712/2013; TAR Lombardia, Brescia, 1484/2012; TAR Campania 2976/2011; TAR Lazio 5619/2010. Cfr. anche per un commento ai poteri di conformazione comunali A. PALMIERI, In tema di giochi scommesse ed apparecchi per il gioco lecito, in Il Foro italiano 2013, fasc. 9, pt. 3, 498 ss.
61 In materia, sulla portata del potere di pianificazione cfr. Consiglio di Stato 2710/2012. Cfr. anche M. MADONNA, Contrasto alla ludopatia e distanze dagli istituti scolastici delle strutture adibite ad attività di scommesse, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica 2013, fasc. 3, 1036 ss.
costituzionale – il riconoscimento di un ruolo rilevante per l’autonomia territoriale in materia di regolamentazione del commercio, posto che per come è congeniata la disciplina statale proprio le Regioni e i Comuni sono i principali terminali per la gestione «in concreto» del contesto concorrenziale. Dando attuazione alle possibilità di tutela offerte sul piano generale e astratto dalla legislazione statale (anche sfruttando gli spazi di prevalenza sulla materia concorrenza riconosciuti ad alcune ragioni specifiche di limitazione, quali in tema di promozione della salute), le autonomie territoriali – sebbene a fronte della pervasività della competenza esclusiva statale sulla tutela della concorrenza – conservano comunque un ruolo importante nella regolamentazione (e liberalizzazione) del commercio, ma svolto in una prospettiva di regionalismo «di esecuzione»; prospettiva nella quale l’autonomia – anche quando esercitata normativamente con legge regionale per specificare gli spazi di regolamentazione lasciati dallo Stato (conformativi e per ragioni specifiche) – assume un ruolo «gestorio» di un sistema pro-concorrenziale prefissato, nei suoi tratti generali e astratti (e per quel che riguarda il quadro delle eccezioni ammissibili), dai livelli europeo e nazionale.
ALESSANDRO MORELLI-LARA TRUCCO∗ (a cura di), Diritti e autonomie territoriali, Torino, Giappichelli, 2014, pp. XVIII-694. Il volume, incentrato sul rapporto tra diritti ed autonomie territoriali, è ospitato nella Collana di Diritto costituzionale regionale diretta dai proff. Costanzo e Ruggeri e costituisce l’esito di una ricerca svolta da un nutrito gruppo di studiosi di varie università italiane. L’intento è quello di verificare la fondatezza dell’idea, oggi largamente diffusa, secondo cui gli enti autonomi costituirebbero soltanto centri di spesa da ridimensionare il più possibile, funzionalmente alle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Si è così tentato di appurare il grado d’idoneità della dimensione autonomistica a costituire “sede” per la fruizione e la protezione dei diritti, anche a vantaggio dell’ottimale funzionamento della “democrazia di prossimità” e, più in generale, della promozione del valore democratico-pluralista consacrato dalla Carta repubblicana. I vari contributi si sono, dunque, focalizzati sulle iniziative progettate, elaborate o anche attuate a livello territoriale a favore del più ampio esercizio di talune situazioni soggettive di vantaggio costituzionalmente o legislativamente previste. I sei capitoli che compongono l’opera sono dedicati alle varie declinazioni dei diritti trattati. I primi contributi sottopongono ad analisi i meccanismi implicati dai diritti politici (Trucco e Bailo) e da quelli attraverso cui si manifestano determinate dinamiche autonomistiche in rapporto agli altri livelli di governo (Longo e Adamo). Centrale, in tale ambito della ricerca, appare il tema della partecipazione politica (Gliatta, Catalano, Aru e Deffenu e, ancora, Catalano e Platania); mentre, quasi senza soluzione di continuità, si profila il versante della partecipazione amministrativa, essendo il livello locale quello dove i diversi approcci partecipativi paiono raggiungere il massimo di intersezione reciproca (Cerruti e Caridà). Nonostante talune realtà effettuali, non ne risulta smentita, leggendo i vari contributi, la perdurante ricchezza assiologica dell’elemento autonomistico nell’assecondare un corretto rapporto tra amministratori ed amministrati, così come viene sottolineata la funzione preziosa del “policentrismo” istituzionale per sostenere la tenuta del tessuto ordinamentale nel suo complesso. Eguaglianza, dunque, nella diversità, come uno dei referenti che può ancora marcare il capitolo dedicato ai diritti civili, sia che il discorso investa piani di carattere generale (Bertolino), sia che l’attenzione si concentri su ambiti più settoriali (Quattrocchi, D’Amico e Di Maria), reputati, in precedenza, spesso incommensurabili con i livelli di governo locali (Camerlengo e Annicchino). Anche in questi casi, il ruolo delle autonomie – e qui il discorso resta quanto mai aperto al confronto istituzionale e al dibattito scientifico – si colora in modo peculiare del contatto diretto della strutturazione istituzionale con gli stessi soggetti amministrati (Annoni, Tanzarella, Albanesi e Canepa). Questa “contiguità” tra apparati e società civile risulta, quindi, la cifra che maggiormente connota la parte dello studio dedicata ai diritti sociali, nella dialettica, che ha ormai attinto punte di drammaticità, tra bisogni e risorse, essendo, com’è noto, soprattutto il livello locale ad essere vocato a rappresentare il baluardo maggiore del mantenimento del sistema di organizzazione delle misure assistenziali e di sostegno (Michelotti, A. Morelli e, ancora, A. Morelli e Pupo), nonché di erogazione di prestazioni e servizi (Arconzo e Perlo). Ma, come parimenti sembra emergere dai lavori, si impone oggi una riflessione circa le più adeguate modalità di svolgimento di tale “mission” (Vivaldi, Pitino, Randazzo), non senza perderne di vista le implicazioni sistemiche sulla ripresa economica del territorio e sulla qualità della vita dei soggetti riguardati (Geti, Lollo e Candido). ∗
Rispettivamente professore associato di Diritto costituzionale nell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro (alessandro.morelli@unicz.it) e ricercatore di Diritto costituzionale nell’Università di Genova (lara.trucco@unige.it). 1
Quanto, poi, ai diritti economici, l’interrogativo principale riguarda la possibile latitudine dell’intervento in ambiti governati, in via di principio, dalla legislazione nazionale, o che si spalmano, pur entro confini mobili, tra le competenze dello Stato e delle Regioni (Buzzacchi, Benedetti, Scagliarini, Grondona e Lanza). Al livello locale si manifestano, inoltre, problematiche di non poco momento per quanto riguarda i diritti culturali (Famiglietti e Agosta). Anche se, poi, è nell’ambito di una tale condizione di incertezza che prendono visibilità “nuovi diritti”, verosimilmente dai contorni ancora da segnare con nettezza, ma certamente rispondenti al principio pluralistico e multiculturale che connota il settore (Conte, Ruggiu, Panzeri, Cardone e Mobilio, Mastromarino), derivandone senz’altro intensi stimoli per l’approfondimento critico. L’analisi del ruolo delle autonomie nella protezione dei diritti non può che condurre, infine, ad indagare natura e funzioni degli organismi “territoriali” di garanzia operanti sia in funzione, per così dire, suppletiva (Belvedere, Pupo e Bucalo), sia in via integrativa delle tutele di derivazione statale, istituendo un ambiente di protezione le cui potenzialità attendono forse di essere ulteriormente esplorate (Grasso, Foglia, Ragone, Leotta, Milazzo, Dolores e D. Morelli). Degna di interesse, in tale prospettiva, appare anche la tutela che viene implementandosi a livello sovranazionale per effetto della promozione “soggettiva” degli enti decentrati dotati di autonomia davanti alle corti internazionali (Boggero e Fusco). Il quadro complessivo delle esperienze regionaliste ed autonomiste che emerge dai tanti contributi pubblicati nel volume è molto più variegato di quello che spesso viene presentato nel dibattito pubblico: ad esperienze certamente fallimentari si accompagnano, infatti, realtà apprezzabili, il cui superamento comporterebbe un probabile abbassamento del livello di protezione dei diritti. Gli autori di Diritti e autonomie territoriali aspirano a fornire un contributo aggiornato al dibattito pubblico, nella consapevolezza che il necessario ripensamento del sistema delle autonomie dovrebbe muovere da un’attenta osservazione del dato reale, allo scopo di definire soluzioni istituzionali volte ad eliminare sprechi ed inefficienze senza però compromettere l’insostituibile ruolo che le stesse autonomie, secondo il modello costituzionale, sono chiamate a svolgere nella dimensione dell’ordinamento repubblicano.
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LA CORTE DI GIUSTIZIA PROIBISCE I COSIDDETTI TEST DI OMOSESSUALITA’ E PRECISA ALCUNI DIRITTI DEI RICHIEDENTI ASILO PERSEGUITATI A CAUSA DELL’ORIENTAMENTO SESSUALE * di Daniele Mercadante ** (18 dicembre 2014) Con le decisioni congiunte C-148/13, C-149/13 e C-150/13, del 2 dicembre 2014, la Grand Chamber della CGUE affronta gli specifici problemi sollevati dall’esame di domande di asilo motivate dal timore di persecuzioni basate sull’omofobia, ed emette una pronuncia che, con notevole chiarezza, attribuisce alla categoria di richiedenti asilo in parola pari dignità rispetto ad altri rifugiati, in fuga da persecuzioni originate da discriminazioni il senso del cui disvalore è maggiormente sedimentato nell’UE. Tra il luglio e l’ottobre del 2012, A, B e C, tre cittadini di paesi non appartenenti all’UE, si videro respingere, da parte del Segretariato di Stato per la Sicurezza e la Giustizia dei Paesi Bassi, altrettante domande di asilo, motivate dal timore di subire persecuzioni nei rispettivi paesi di origine a causa della propria omosessualità. In particolare, A, il quale aveva già presentato una precedente istanza, respinta per mancanza di credibilità, si dichiarò, nell’occasione in esame, disposto a sottoporsi a non meglio specificati ‘test’ per la valutazione della propria omosessualità, e persino ad eseguire atti omosessuali, al fine di ristabilire la propria attendibilità, ma senza esito. La domanda di B fu respinta perché ritenuta vaga, lacunosa e non plausibile, e, in particolare, perché, secondo l’autorità amministrativa, l’istante non era riuscito a fornire “maggiori dettagli sulle sue emozioni e sull’auto-percezione del proprio orientamento sessuale”. C, che, come A, aveva già avanzato, senza successo, una precedente richiesta d’asilo, nella quale, però, non si faceva cenno al timore di persecuzioni legate all’orientamento sessuale, specificò, nella successiva domanda, oggetto della decisione in esame, come egli non si fosse sentito pronto, in un primo momento, a menzionare la propria omosessualità a causa di perduranti inibizioni dovute ai condizionamenti culturali subiti nel paese d’origine. Questa seconda domanda fu corredata da C, sempre ai fini di stabilire una maggiore credibilità presso le autorità dei Paesi Bassi, da un filmato nel quale veniva ripreso durante il compimento di atti omosessuali. Anche questa istanza di asilo fu, come anticipato, respinta dall’autorità amministrativa competente, la quale fece notare, piuttosto apoditticamente, che la mancanza di attendibilità del richiedente poteva essere dedotta, tra le altre cose, dalla circostanza che egli non fosse a conoscenza delle attività svolte dalle principali organizzazioni olandesi per la promozione dei diritti degli omosessuali. Si noti che, stando alla decisione in commento, nessun provvedimento amministrativo, tra quelli richiamati, si pronunciò esplicitamente sull’ammissibilità o meno dei ‘test’, dei ‘filmati’ e delle ‘performance’ summenzionate ai fini del vaglio delle richieste di asilo. L’autorità giudiziaria olandese di primo grado, adita dai richiedenti, confermò la mancata concessione ai tre dello status di rifugiato, motivando la decisione sulla base della carenza di credibilità delle rispettive allegazioni. Il caso giunse, dunque, in appello, al Raad Van State (presso il quale intervenne, così come è poi avvenuto anche di fronte alla Corte di Lussemburgo, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). In quella sede, gli appellanti sostennero, in primo luogo, che le affermazioni di un richiedente asilo circa il proprio orientamento sessuale non possono essere oggetto di verifiche da parte delle autorità, e che, in subordine, ove soggette a verifiche, queste debbano comunque rispettare la dignità e la riservatezza dell’istante, tenendo nel dovuto conto l’eventuale senso di ‘vergogna’ del * Scritto sottoposto a referee.
rifugiato, verosimilmente indotto da ambienti di provenienza sovente marcatamente omofobi. Il governo olandese replicò che la normativa europea applicabile (sulla quale, vedi immediatamente infra) non è chiara circa la sufficienza della sola parola del richiedente asilo in merito all’acclaramento del relativo orientamento sessuale, e che le indagini in materia sono comunque da intendersi come esclusivamente dirette ad appurare se il richiedente appartenga o meno ad un ‘particolare gruppo sociale’, perseguitato, in quanto tale, nel relativo paese di provenienza, come avviene ordinariamente per qualunque altro rifugiato. Il Raad Van State si espresse, in via interinale, nel senso dell’insufficienza delle sole dichiarazioni degli interessati al fine di ritenerne stabilito l’orientamento sessuale. Quanto alla natura ed all’invasività delle indagini dirette a fornire riscontro a tali dichiarazioni, invece, alla luce della ‘comunitarizzazione’ del diritto d’asilo, e considerati i principi di cui alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (Carta dei Diritti), l’organo giudicante ritenne di chiedere un pronunciamento preliminare della CGUE sul seguente quesito: esistono, ai sensi del diritto dell’UE, dei limiti ai metodi di verifica della genuinità delle dichiarazioni dei richiedenti asilo in merito al relativo orientamento sessuale? e, se tali limiti esistono, sono essi da considerarsi diversi rispetto a quelli relativi ad altre condizioni personali, sociali o di altro genere, le quali, fondando il timore di persecuzione del richiedente asilo, divengono oggetto di valutazione da parte dello stato membro dell’UE presso cui viene ricercata la protezione internazionale? La risposta della CGUE muove, come d’uso, da una rassegna delle disposizioni normative maggiormente rilevanti ai fini dell’elaborazione delle indicazioni che verranno fornite alla corte interrogante, disposizioni le quali, per il modo in cui vengono presentate ed illustrate, indicano l’orientamento ed il senso del ragionamento giuridico complessivo dei giudici di Lussemburgo, prefigurandone l’esito. Vengono evocati, dunque, in primo luogo, gli articoli 4(1), 4(5) e 10 della Direttiva 2004/83/CE, del 29 aprile 2004 (“Sugli standard minimi di qualificazione e sullo status dei cittadini di paesi terzi quali rifugiati o persone altrimenti bisognose di protezione internazionale, e sul contenuto della protezione accordata”). L’art. 4(1) della Direttiva 2004/83/CE consente (sebbene non imponga) agli stati membri di prevedere che il richiedente asilo sia obbligato a fornire alle autorità responsabili tutti gli elementi a sua disposizione, utili per l’esame dell’istanza, alla prima occasione possibile, sotto pena del rigetto della domanda. L’art. 4(5) specifica in quali casi le circostanze che indicano il bisogno di protezione internazionale non abbisognano di dimostrazione da parte del richiedente asilo (si tratta di casi in cui, essendo impossibile o eccessivamente oneroso procurarsi una prova, il richiedente ha comunque prestato la massima collaborazione, ha fornito tutti gli altri elementi rilevanti a sua disposizione e si è rivelato, in senso generale, attendibile). L’art. 10, specificando con chiarezza un elemento attualmente in fase di contrastata emersione nella giurisprudenza comparata concernente la definizione di rifugiato (fissata, in termini generali, dall’art. 1.A della Convenzione di Ginevra “Sullo status dei rifugiati”, del 22 aprile 1954), indica come, tra i “particolari gruppi sociali”, l’appartenenza ai quali può dare diritto, alle condizioni fissate dalla Convenzione e ribadite dalla Direttiva 2004/83/CE, alla qualifica di rifugiato, rientrino quegli insiemi di individui che condividono un determinato orientamento sessuale. La CGUE richiama inoltre l’art. 13 della Direttiva 2005/85/CE (“Standard minimi relativi alle procedure per la concessione e la revoca dello status di rifugiato da parte degli Stati Membri”), il quale prevede che i colloqui con i richiedenti asilo debbano essere condotti, ogni volta che ciò sia possibile, da soggetti in grado di comprendere le circostanze di natura sia personale che ambientale in cui è
maturata la domanda, ivi incluse la cultura d’origine e gli specifici fattori di vulnerabilità degli istanti. Posto che la legislazione olandese è tra quelle che effettivamente prevedono l’obbligo, a carico dei richiedenti asilo, di esibire, alla prima occasione possibile, tutti gli elementi utili alla valutazione della rispettiva posizione (art. 31 della Legge sugli Stranieri del 2000 e art. 3.111 del Decreto sugli Stranieri, sempre del 2000), la CGUE inaugura la parte finale del proprio sillogismo giuridico con alcune considerazioni di carattere generale, concernenti tale dovere di allegazione. In primo luogo, se è vero che, ai sensi del diritto dell’UE, l’orientamento sessuale rileva quale fattore di individuazione di un ‘particolare gruppo sociale’ passibile di persecuzione e, dunque, meritevole di protezione tramite la concessione dell’asilo, esso è comunque da intendersi quale un motivo di persecuzione assimilabile, nei limiti della ragionevolezza, a tutti gli altri e, per questo, chi lo invoca è tenuto a fornire le prove della propria situazione di pericolo, alla stregua di qualunque altro richiedente asilo, a meno che non sia applicabile l’esenzione dall’onere di allegazione previsto, come accennato in precedenza, dall’art. 4(5) della Direttiva 2004/83/CE (la decisione interinale del Raad Van State viene, dunque, confermata). D’altra parte, afferma la CGUE, così come accade con riguardo a tutte le procedure di esame di richieste di asilo, il vaglio di un’istanza motivata dal timore di persecuzioni legate all’orientamento sessuale deve svolgersi nel rispetto dei principi generali rinvenibili agli artt. 1 (inviolabilità della dignità umana) e 7 (rispetto della vita privata e familiare) della Carta dei Diritti. Tali principi devono essere applicati alle situazioni oggetto di giudizio in modo da assicurare, come previsto dalla citata Direttiva 2005/85/CE, che l’esame delle posizioni individuali si svolga in maniera ‘collaborativa’ e ‘individualizzata’, tenendo, quindi, nel debito conto le circostanze personali, sociali e culturali del caso, nonché le specifiche vulnerabilità del singolo richiedente asilo. Particolarmente rilevanti, e tali da costituire la parte più significativa della pronuncia, sono, poi, le indicazioni di carattere maggiormente specifico che la CGUE ricava dall’applicazione di tali principi generali ai casi concreti che hanno fornito l’occasione per il rinvio pregiudiziale. A questo riguardo, la Corte di Lussemburgo enuclea quattro ulteriori criteri di interpretazione della normativa europea sul diritto di asilo, da applicarsi ove siano invocate persecuzioni legate all’orientamento sessuale. i) L’indagine sull’accoglibilità della richiesta di asilo non può essere condotta esclusivamente sulla base di domande radicate in stereotipi omosessuali. In questo senso, è stato ritenuto, a mo’ di esempio, che il rigetto di una domanda di asilo fondato esclusivamente sull’incapacità, da parte dell’istante, di illustrare le attività svolte dalle principali organizzazioni olandesi per la promozione dei diritti degli omosessuali (elemento contestato all’appellante C; non è del tutto chiaro, invece, se la CGUE si riferisca anche ai motivi che hanno portato al rigetto dell’istanza dell’appellante B, cosa che appare probabile) sarebbe contrario al diritto europeo, in quanto rivelerebbe una riduzione a caricatura della molteplicità delle esperienze e dei vissuti delle varie persone omosessuali (la CGUE, peraltro, ammette che una parte delle domande rivolte ai richiedenti asilo possano risultare influenzate da stereotipi, purché la decisione finale sull’istanza di protezione internazionale non si basi esclusivamente sulle risposte fornite a tali quesiti: a questo proposito, può notarsi come la ratio del discrimine enunciato non appaia del tutto intelligibile, conducendo essa a ritenere, piuttosto incongruamente rispetto al senso apparente del ragionamento della corte, che anche un singolo cenno ad elementi che non vengano tratti da domande riflettenti stereotipi omosessuali renderebbe l’indagine legittima).
ii) Seppure l’orientamento sessuale - rappresentando, nei casi presi in esame, il motivo alla base del timore di persecuzioni - costituisca un lecito oggetto delle indagini delle autorità nazionali, così come avviene con riguardo ad ogni altro motivo di persecuzione, è comunque da ritenersi inammissibile che tali domande tocchino dettagli intimi delle pratiche sessuali del richiedente asilo, in quanto ciò violerebbe l’art. 7 della Carta dei Diritti (rispetto della vita privata e familiare). iii) Quanto all’aspetto forse più inquietante del caso sottoposto alla CGUE, i giudici chiariscono con assoluta nettezza, e senza possibilità di equivoci, che non soltanto esigere, ma anche soltanto permettere che sia ‘spontaneamente’ offerta, quale soi disant ‘prova’ dell’orientamento sessuale, la disponibilità del richiedente asilo a sottoporsi a ‘test’ finalizzati all’accertamento di tale orientamento o, peggio, a fornire filmati intimi o ad eseguire atti omosessuali, costituisce una violazione della dignità umana del richiedente stesso (art. 1 della Carta dei Diritti). Opportunamente, la CGUE rimarca che, anche qualora il ricorso a tali inqualificabili ‘mezzi di prova’ fosse rimesso ad una ‘libera scelta’ del richiedente asilo, essi finirebbero, di fatto, per divenire, in breve tempo, obbligatori. iv) infine, viene chiarito che, ferma la vigenza della normativa UE che concede ai singoli stati membri la facoltà di negare asilo a chi non ottemperi all’obbligo, che può essere istituito liberamente a livello nazionale, di porre a disposizione dell’autorità, fino dalla prima occasione disponibile, tutti quanti gli elementi utili alla valutazione della domanda di protezione internazionale, con specifico riguardo alle persecuzioni fondate sull’orientamento sessuale, il principio di ‘individualizzazione’ e di attenzione alle specifiche vulnerabilità del singolo, che deve orientare i colloqui con i richiedenti, renderebbe contrario al diritto dell’UE il rigetto di una domanda d’asilo basato esclusivamente sulla circostanza che, in occasione del primo contatto con l’autorità responsabile, l’istante abbia omesso di specificare che la sua domanda si radica in timori di persecuzione correlati all’orientamento sessuale. La decisione illustrata è, a parere di chi scrive, da salutare con favore. Innanzitutto, la CGUE, confrontandosi con domande di asilo la cui ‘specialità’ (termine dietro al quale può celarsi, specie in questa materia, un animus discriminatorio) avrebbe potuto prestarsi a differenziazioni sfavorevoli, rispetto a richieste legate a persecuzioni la cui esecrabilità, nello spazio giuridico europeo, è maggiormente ‘consolidata’ e meno ‘dibattuta’ (si pensi a quelle di natura politica, etnica, linguistica e religiosa), ha affermato con limpidezza l’assoluta parità di dignità di tutti i richiedenti asilo, includendo esplicitamente quelli spinti da timori relativi al proprio orientamento sessuale. Laddove essa ha operato delle differenziazioni, lo ha fatto richiamandosi a principi generali (che potranno, pertanto, essere applicati a qualunque caso presenti, in relazione all’intimità delle sfere coinvolte ed all’introiettamento della vittimizzazione ambientale da parte dell’individuo perseguitato, analogie con quelli in esame – si pensi alla ormai purtroppo nutrita giurisprudenza sulle richieste di asilo presentate al fine di sottrarsi alle abominevoli pratiche di mutilazione genitale femminile -), e a tutto vantaggio di chi, aggredito sul piano dell’identità sessuale, abbia ragionevoli motivi per mostrarsi ritroso ad ‘esibire’ con troppa apertura, sia pure nel paese di sperato rifugio, certi intimi dettagli del proprio vissuto, sia pure strettamente legati ai motivi della propria persecuzione. E’ utile rammentare, a questo proposito, che la tendenza a considerare la discriminazione in base all’orientamento sessuale come un figlio cadetto tra le categorie di persecuzione riguardate dal diritto dei rifugiati, passibile dunque di ingenerare differenziazioni di trattamento non migliorative, vanta ancora, a proprio favore, pronunce molto recenti, provenienti da organi giurisdizionali europei piuttosto influenti, seppure queste pronunce siano state ampiamente e autorevolmente contestate (in questo senso, con particolare riguardo alla giurisprudenza del Regno Unito, vedi particolarmente Hathaway, James C.
"Queer Cases Make Bad Law." J. Pobjoy, co-author. N. Y. U. J. Int'l L. & Pol. 44, no. 2, 2011, pp. 315-88, nonché, in generale, tutti gli articoli presenti nel fascicolo richiamato, interamente dedicato all’argomento). Il significato inequivocabile della decisione in commento, dunque, non può che essere, in questo senso, apprezzato, per le potenzialità innovative che, al di là delle ingannevoli apparenze dell’atto dovuto, rivela piuttosto chiaramente. In questo senso, si segnala, per chiudere, come la CGUE, affrontando il delicatissimo tema degli esecrabili ‘test’ e delle parimenti disturbanti ‘prove fisiche’ ovvero ‘cinematografiche’ di orientamento sessuale, abbia fatto appello, al fine di dichiararne la più ferma delle proscrizioni, all’art. 1 della Carta dei Diritti, ossia al principio dell’intangibilità della dignità umana, invece che, come suggerito dal Raad Van State, agli artt. 3 (diritto all’integrità fisica e psichica della persona) e 7 (rispetto della vita privata e familiare). I giudici di Lussemburgo hanno mostrato, in questa occasione, di agire con sicurezza quale ‘corte dei diritti fondamentali’, seppure prestando ancora un qualche ossequio alle proprie tradizionali forme argomentative, forse non proprio perfettamente calzanti rispetto a questo ruolo. Proprio per questo, è il caso di concludere sottolineando come la coraggiosa evocazione del supremo principio della dignità umana, sebbene in questo caso (ma ciò non vale forse per tutte le eventualità in cui esso è invocato a ragion veduta?) si giustifichi, in un qualche modo, ‘da sé’, avrebbe potuto spingere la CGUE a fornire una motivazione, sullo specifico punto, maggiormente elaborata, non fosse altro che per contribuire ulteriormente a delineare la natura dell’architrave dei diritti umani europei, e per prendere ancora meglio la ‘mano’ del mestiere di corte suprema del continente, che essa sembra, in ogni caso, destinata, prima o poi, ad intraprendere (v. la recentissima CGUE, Opion 2/13 – Full Court - del 18 dicembre 2014, sull’adesione dell’UE alla CEDU). ** Dottore di Ricerca in giustizia costituzionale, Università di Pisa; LLM, University of Cambridge; LLM Columbia University Law School
La nuova operazione congiunta FRONTEX Triton, dalla natura “gattopardesca”* di Giuseppe Licastro ** (16 novembre 2014) A fronte dell’insostenibile pressione migratoria, il nostro Paese ha “ottenuto” la predisposizione di una nuova operazione congiunta FRONTEX denominata (definitivamente) Triton sostanzialmente tesa – secondo la proposta del 28 agosto 2014 dell’Agenzia FRONTEX – non solo a fronteggiare i flussi migratori irregolari nonché contrastare la criminalità transfrontaliera (rectius le sue diverse forme), ma anche assorbire-estendere le operazioni Hermes ed Aeneas (in merito, il doc. Concept of reinforced joint operation tackling the migratory flows towards Italy: JO EPN-Triton). Tale nuova operazione congiunta FRONTEX (sulle precedenti operazioni v. F. Cherubini e D. Vitiello nel SIDIBlog, nonché da ultimo S. Trevisanut, Which Borders for the EU Immigration Policy? Yardsticks of International Protection for EU Joint Borders Management, in L. Azoulai, K. de Vries (eds.), EU Migration Law, Legal Complexities and Political Rationales, Oxford, 2014, p. 122 ss.) ha suscitato sin da subito (ovviamente) un grande interesse, ma ha anche “offerto” l’occasione per esprimere opportune critiche relativamente al delicato profilo delle situazioni di ricerca e soccorso (in argomento, v., tra gli altri, il tempestivo comunicato dell’ASGI predisposto ovviamente sulla scorta delle informazioni disponibili), poiché il campo d’azione limitato ideato risulta purtroppo [sic!] confermato da ultimo proprio dal nostro Ministro dell’interno che nel corso della recente conferenza stampa (tenuta unitamente al Ministro della difesa) volta a comunicare anche la progressiva chiusura dell’«operazione Mare Nostrum», ha appunto dichiarato che l’operazione Triton «non si spingerà oltre le 30 miglia marittime dalle coste italiane (…). Oltre quella linea, ha detto Alfano, vigeranno le leggi del mare e l’obbligo di soccorrere in caso di incidenti o affondamenti. La nostra strategia rimane quella europea: accogliamo i profughi e rimpatriamo gli immigrati irregolari. (…)» (cfr. il comunicato stampa del Ministero dell’interno del 31 ottobre 2014). Occorre succintamente rammentare che la terribile tragedia consumatasi a largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013 aveva “spinto” il nostro Paese a prendere opportune decisioni per fronteggiare tempestivamente l’incessante flusso di migranti e di potenziali richiedenti protezione internazionale, vale a dire adottare una misura “individuale” operativa proprio per fronteggiare situazioni di particolare emergenza, nonché per contrastare le rilevanti attività delle organizzazioni criminali, allo scopo di rafforzare la sorveglianza della frontiera marittima e il soccorso in alto mare (riguardo la significativa estensione dell’«Area Mare Nostrum», v. la mappa che figura nel doc. del Ministero dell’interno, del 14 agosto 2014, p. 6). L’affermazione del Ministro dell’interno, tesa ovviamente ad assicurare il rispetto degli obblighi contemplati in materia di soccorso in mare, appare – prima facie – una semplice affermazione di principio, dettata dalle circostanze: pertanto, sembra “ragionevole” continuare a mantenere una posizione critica sull’operazione. Tale posizione, potrebbe essere superata attraverso la divulgazione quantomeno dei “dettagli” concernenti non solo *
Scritto sottoposto a referee.
questo aspetto, ma anche quello strettamente connesso relativo allo sbarco delle persone soccorse, entrambi (aspetti) necessariamente contemplati nel piano operativo (dell’operazione marittima), posto che si tratta della prima operazione congiunta di sorveglianza che prevede l’“osservanza” della disciplina contenuta nel Regolamento (UE) n. 656/2014 relativo (appunto) alla «sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea»: il testo del regolamento, che sostituisce nonché statuisce la cessazione degli effetti della decisione 2010/252/UE annullata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 5 settembre 2012, contiene infatti diverse disposizioni che regolano i molteplici aspetti concernenti la sicurezza in mare (art. 3), la protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento (art. 4), la localizzazione (art. 5), l’intercettazione nelle acque territoriali, in alto mare, nella zona contigua (rispettivamente: artt. 6-7-8), le situazioni di ricerca e soccorso (art. 9), lo sbarco (art. 10), le modifiche apportate al regolamento (CE) n. 2007/2004 (art. 11), i meccanismi di solidarietà (art. 12). Conviene quindi concentrare la nostra attenzione, in modo particolare, alle disposizioni che riguardano i profili dedicati alle situazioni di ricerca e soccorso e allo sbarco (naturalmente) delle persone soccorse (riguardo questi delicati e complessi aspetti v. S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare: diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012, p. 53 ss.; M. Di Filippo, Irregular Migration across the Mediterranean Sea: Problematic Issues Concerning the International Rules on Safeguard of Life at Sea, in Revue Paix et Sécurité Internationales, 2013, p. 55 ss., consultabile anche qui), ossia l’art. 9 e l’art. 10. L’art. 9 richiama, preliminarmente, al par. 1, gli Stati membri al rispetto dell’«obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare» nonché a garantire nel corso dell’operazione marittima «che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova» (appare opportuno in questo specifico contesto “mettere in luce” il considerando n. 8 che richiama, tra gli altri, la Convenzione delle N.U. sul diritto del mare, la Convenzione int. per la salvaguardia della vita umana in mare, la Convenzione int. sulla ricerca e il salvataggio marittimo, la Convenzione eur. per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951: si tratta però di una serie, appunto, di strumenti internazionali pertinenti indicati da ritenere altresì aperta all’opportunità di considerarne ulteriori, ovviamente pertinenti). I paragrafi successivi contemplano un dettagliato elenco di disposizioni che il piano operativo deve almeno prevedere, relative all’osservanza di peculiari modalità operative riguardanti informazioni e osservazioni comunque importanti e pertinenti ai fini del soccorso, specialmente in determinate situazioni di pericolo, che consentono di adottare misure tese a «salvaguardare l’incolumità delle persone interessate». L’art. 10 adotta, preliminarmente, al par. 1, lo stesso schema dell’articolo precedente “vincolando” quindi il contenuto del piano operativo che deve almeno prevedere, «conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali», puntuali
modalità di sbarco (anche) delle persone soccorse. Più in particolare, il par. 1, lettera c) concerne proprio le situazioni di ricerca e soccorso regolate ovviamente dall’art. 9, prevedendo una sorta di “procedura” da osservare che determina il luogo sicuro dello sbarco delle suddette persone, ossia un luogo «in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento» (art. 2, n. 12), che lo Stato membro ospitante (dell’operazione marittima) e gli Stati membri partecipanti sostanzialmente si impegnano a portare a compimento: prontamente, adeguatamente. Il par. 1 contempla anche ulteriori “procedure” che autorizzano: l’unità partecipante a sbarcare dette persone nello Stato membro ospitante; l’adozione di misure nelle acque territoriali o nella zona contigua di Stati membri non partecipanti all’operazione marittima previa, appunto, autorizzazione degli stessi (salvo quanto previsto dalla disciplina del secondo periodo dell’art. 8 par. 2). Il successivo par. 2 prevede invece l’“impegno” di comunicare la presenza a bordo di sensibili “categorie” di persone elencate all’art. 4 (specificamente al par. 4: ricordiamo, particolarmente, i minori non accompagnati, le vittime di tratta di esseri umani, i richiedenti protezione internazionale) al fine di consentire alle autorità nazionali competenti dello Stato “di sbarco” di poter predisporre le misure più adeguate. La rapida “rassegna” effettuata rileva (rectius conferma) proprio la necessità di poter/dover conoscere quantomeno i dettagli contemplati nel piano operativo relativi proprio alla ricerca e soccorso ed allo sbarco, nonché eventuali (?) ulteriori «dettagli adattati alle circostanze dell’operazione marittima interessata» che l’art. 9 e l’art. 10 consentono, altresì, di prevedere: si tratta dunque di componenti fondamentali dell’“insieme” del contenuto del suddetto piano che necessitano appunto di poter/dover essere valutati al fine di verificare la piena concordanza con la disciplina racchiusa nel Regolamento (UE) n. 656/2014 che, comunque, presenta peculiari criticità da tenere (ben) presente, concernenti, ad esempio, lo sbarco presso un luogo “considerato” sicuro, che la dottrina ha già opportunamente evidenziato (in merito, v. il contributo di S. Peers). La nuova operazione congiunta Triton richiama dunque alla mente una nota frase di un celebre romanzo – pronunciata però da Tancredi, nipote del principe Fabrizio Salina – ossia: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» … (cfr. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, sessantaquattresima ed., Milano, 1995, p. 41).
** Dottore in Giurisprudenza; cultore della materia