Transfigurative Photography
rivista periodica di cultura fotografica n. 12 | Ottobre 2024
Transfigurative Photography
rivista periodica di cultura fotografica n. 12 | Ottobre 2024
Fotografia Transfigurativa Magazine
rivista periodica di cultura fotografica
n. 12 | Ottobre 2024
Direttore
Michele Palma
Redazione
Agostino Maiello | Alessandro Mazzoli | Stefano Montinaro | Andrea Virdis
Hanno collaborato a questo numero
Antonella Messina | Carlo Riggi
Immagine di copertina
© Rodolfo Rubagotti, Milano Giambellino, 2023
di Michele Palma
Tempo fa mi capitò di partecipare ad una discussione ispirata dall’affermazione che “un fotografo deve essere riconoscibile”. Nonostante non avessi le idee molto chiare (anche oggi non sono proprio cristalline) la questione mi lasciò sconcertato da un lato ed incuriosito dall’altro e questo mi stimolò ad osservare gli eventi e i fotografi con uno sguardo totalmente cambiato.
Qualche tempo prima un amico fotografo mi confessò che il complimento più bello fu quando gli dissero “mi piace il tuo stile”, affermazione che mi spinse a chiedergli: “qual è il tuo stile?”. In realtà anche girandoci un po’ attorno non seppe rispondermi, lo capisco, ma ponendogli la domanda ho quasi rischiato di perdere un amico. Spessissimo capita che nel desiderio di fotografare sia insito il desiderio di affiorare, di emergere, di essere notati e apprezzati e per farlo si va a cercare una “riconoscibilità”, come se la fotografia non fosse solo strumento per esprimersi ma vero e proprio mezzo per porsi nel mondo. A volte, vedo postare fotografie sui social intitolate o commentate “autoritratto” ma stranamente i soggetti sono paesaggi, architetture od altri, dei più disparati. Sinceramente non ne capisco il nesso, un conto è interpretare, rileggere, e magari cercare qualcosa di sé attraverso la fotografia, un conto è vedere la propria faccia o il proprio corpo su una torre diroccata. Pur banalizzando ritengo anche questo agire sintomatico della dinamica precedente.
Tornando al mio quasi ex amico mi vien da pensare che fa foto molto belle, curate nei minimi dettagli con messa a fuoco perfetta, illuminazione eccellente, pose non da manichino ma che rasentano il naturale, insomma tutto da manuale, fotografie che potrebbero fare tanti altri (seguendo lo stesso manuale) quindi mi chiedo ancora, dov’è il suo stile? Anzi, ancor più mi chiedo “cos’è lo stile in fotografia?”, forse ciò che rende riconoscibile un fotografo? Ma quali particolari lo rendono riconoscibile?
In questi ultimi tempi si parla di auto-tune, strumento infernale che permette di correggere la voce e l’intonazione in tempo reale trasformando grandissime schiappe in bravissimi cantanti. Diabolico!
A pensarci bene non c’è niente di male nel correggere piccole imperfezioni saltando qualche lezione di canto… ci può stare.
Si arriva agli eccessi quando si abusa dello strumento fino ad alterare totalmente la voce, cercando una singolarità probabilmente con lo scopo di rendere piacevoli brani dai contenuti poveri. Si sfruttano in questo modo le potenzialità dello strumento per generare vere trasformazioni.
Si piega totalmente la musica, la canzone, adattandola ad un proprio volere attraverso un costrutto. Non è il cantante che mette a frutto la sua dote per esprimersi ma usa il mezzo adattandolo alle sue esigenze. Lo fa per amore della musica o di se stesso e dei propri
interessi? Perché piace al pubblico? Non so, anche il canto ha mille sfaccettature, tante possibilità per creare uno stile!
Ho sempre considerato la fotografia totalmente legata alla realtà, non creo niente di ciò che non esiste e non manipolo niente di ciò che esiste. Da un lato è una forza perché ci mette in totale simbiosi con ciò che ci circonda, ma dall’altro un limite perché restando totalmente fedeli a ciò che abbiamo di fronte l’unica cosa che possiamo cambiare è il mezzo fotografico, il punto di ripresa od altre piccolissime cose. Ben poco per crearsi uno stile personale tangibile e riconoscibile da altri. Ed è qui che si sveglia la creatività umana che contraddicendo ogni regola scritta sui manuali di buon comportamento trasforma la ghiera di messa a fuoco in ghiera di messa a sfuoco, suggerisce che tener ferma la macchina mentre si scatta diventa davvero superfluo, che la corretta esposizione è inutile, meglio sopra o sotto esposto. Per non parlare della composizione…vera preistoria. Ovviamente tutto spinto alla massima potenza. Il soggetto, il contenuto? Spesso irriconoscibile ma fa niente tanto non serve per esprimersi, è sufficiente tutto il resto. Insomma una sorta di auto-tune della fotografia, non fotografo più la realtà ma in qualche modo la uso per altro. Tutto molto bello, tutto molto creativo, l’importante è farlo per amore della fotografia e per la ricerca di un proprio stile.
Oggi, ripensando a quella discussione mi accorgo di avere ancora mille domande. Nonostante le evoluzioni dei tempi credo che, ancora oggi, ciò che distingue un fotografo sia semplicemente lo sguardo, in qualsiasi campo si cimenti. Sarà questa convinzione che mi rende difficile apprezzare certe fotografie e certi stili.
Io sono preistoria.
In questo numero ci occuperemo di “stile” e cercheremo di farlo con stile.
Buona lettura.
di Agostino Maiello
Neanche c’è scritto, “Photographs”, in copertina: il titolo è solo sul dorso, per mera praticità di chi stia cercando questo libro sugli scaffali. Se invece il volume è già davanti ai nostri occhi, che si tratti di fotografie è superfluo specificarlo, perché ce lo rivelano il generoso formato di 11x13 pollici (circa 28x33cm), la raffinata sovracoperta con doppio risvolto, e la splendida immagine che la abbellisce: un’elegante donna seduta, che indossa un ampio cappello rosso a coprirle quasi tutto il viso, lasciando appena intravedere le labbra, ed una morbida gonna bianca, luminosa, che troneggia in primo piano e guida poi il nostro sguardo verso la parte superiore della foto. La zona destra dell’immagine è invece in ombra, e dall’oscurità spunta una mano maschile, che sfuma nel nero di una manica, a sua volta connessa ad una diagonale d’ombra che, all’altra estremità, si congiunge con le affusolate dita della modella, disposte in un gesto sospeso, etereo.
Quanta raffinatezza, quanta precisione, quanta ricercatezza in questo scatto; ma lo stesso potrebbe dirsi di una qualunque delle immagini contenute in questo splendido volume, una vera e propria galleria di delizie per i nostri occhi - li citiamo anche se, come diceva Wilde, “tutto avviene nel cervello. Noi sappiamo, ora, che non vediamo con gli occhi né udiamo con le orecchie. Questi non sono che veicoli, più o meno adeguati, che trasmettono le impressioni dei sensi. E’ nel cervello che il papavero è rosso, che la mela ha profumo, che l’allodola canta”. Inevitabilmente, dinanzi ad una tale galleria di prelibatezze visive affiora alla nostra mente il termine stile, in una delle sue accezioni più
tipiche, quella che la Treccani descrive così: “in particolare indica eleganza, distinzione, signorilità di modi”. E senza dubbio le immagini di Smith lo sono - eleganti, distinte, signorili. Ma sarebbe limitante fermarsi a questo, perché quelli che sono i tratti distintivi più eclatanti del suo modo di fotografare - i suoi stilemi, insomma - costituiscono una delle riprove più solide di un concetto tanto caro a chi scrive, vale a dire la forma è sostanza.
Ora, è indubbio che queste immagini così patinate e ricercate, queste composizioni allestite con tanta cura e precisione potrebbero sembrare lontanissime dall’approccio transfigurativo alla fotografia di cui questa rivista ambisce ad essere periodico testimone. Ma è poi davvero così? Ritorniamo alla nostra dama in copertina e, mettendo da parte per un istante il vibrante
piacere dato dal sapiente accostamento di colori, lasciamoci cullare da questa immagine progressiva, senza opporre resistenza all’invitante lettura a strati che quest’opera ci segnala, anzi abbracciandola appieno. E allora quella mano maschile, che arriva dopo un po’, ci turba, ci sorprende, ci destabilizza. Evitando di tirare in ballo l’ormai inflazionato punctum barthesiano, una specie di prezzemolo retorico che ravvisiamo un po’ ovunque, è indubbio come quel dettaglio costituisca una piccola sorpresa: la postura ci porta a pensare in prima istanza che sia l’altra mano della modella, ma l’inganno si svela in una frazione di secondo. Tanto è compatibile la forma, tanto è diversa la materia. Siamo, beninteso, nel dominio della fotografia staged, del costruito: quel dettaglio non è dunque la testimonianza di un incontro incidentale tra l’autore ed un dato reale inatteso. L’inatteso qui c’è ma è pensato e pianificato, e si risolve solo nel piano dell’osservatore, sganciandosi così dall’ortodossia dell’approccio transfigurativo. Ma, come dire, ci facciamo bastare questo.
Qui non si vuole certamente tirare per la giacchetta la fotografia di Smith per forzare una sua artificiosa classificazione nell’ambito transfigurativo; si vuole invece evidenziare come, a volte, sia possibile declinare la transfiguratività di un’immagine leggendola con il giusto approccio, prescindendo dalla evidente e dichiarata volontarietà dell’autore. Perché se è banale ricordare che la decodifica di quel segno che è un’immagine fotografica non può prescindere dall’intervento dell’osservatore (e allora pensiamo ad Eco, alla sua Opera Aperta,
al dualismo tra intentio operis e intentio lectoris, e così via), diventa logica conseguenza pensare che un conto sia la fotografia pensata e realizzata dall’autore, ed un altro sia quella recepita dall’osservatore. Che ne diviene dunque, in un certo senso, coautore, in questo caso arricchendola con quella patina di transfiguratività che deriva dalla presenza di un fattore accidentale, casuale (per lui!), sorprendente.
Quanto sia legittimo leggere un’opera in questa duplice modalità lo lasciamo decidere alla sensibilità di chi ci legge. Ma ci si consenta di chiudere queste note sulle fotografie di Smith con un cenno al termine di cui questo numero della rivista vuole occuparsi, quello stile menzionato poco sopra. Andiamo a ripescare un noto saggio di Kubler, quel “La forma del tempo” che anche a distanza di oltre mezzo secolo continua a proporre spunti interessanti. A proposito di stile, leggiamo: “Lo storico d’arte, il quale distingue tra prodotti di utilità pratica e prodotti estetici, classifica questi ultimi per tipi, scuole e stili. Scuole e stili sono i prodotti dell’assurdo inventariare operato dagli storici d’arte dell’Ottocento. Ma non si può continuare all’infinito in una tale catalogazione il cui frutto ultimo è, in teoria, una pletora di impeccabili liste e tavole sinottiche.” Giustissimo e condivisibile, come sono condivisibili le successive affermazioni sulla vaghezza della definizione di stile, una “costruzione instabile” a causa dei possibili diversi significati che quello stesso termine può assumere, “dovendosi intendere qua il denominatore comune tra un certo gruppo di oggetti e là l’impronta data da un particolare
monarca o artista”. Gli esempi forniti (“stile medio minoico, stile Francesco I”) ne danno conferma. E allora c’è una prima conclusione - non scevra di una certa rassegnazionequando Kubler scrive “Tutta l’immensa letteratura artistica esistente è radicata nei labirinti della nozione di stile: le sue ambiguità e le sue inconsistenze riflettono tutta l’attività estetica nel suo insieme. Stile descrive una figura specifica nello spazio più che un tipo di esistenza nel tempo”.
Un concetto sfuggente, dunque; o meglio, un termine che non va speso con leggerezza - il rischio prezzemolo aleggia anche qui - , e per il quale si rende necessaria una premessa prima d’ogni suo utilizzo, premessa che ne determini la portata, l’accezione, insomma i
limiti e la natura della definizione di stile adottata da chi ne sta parlando. Messa così, lo stile di Smith appare semplice e complesso allo stesso tempo, perché all’eleganza delle forme, delle composizioni, delle luci e dei colori, si accompagna sempre un ulteriore livello di lettura, fatto di allusioni, evocazioni, accenni umoristici, tra surreale ed onirico, sognante e spaventoso, a volte cupo a volte accecante. Sta a noi, come sempre, presentarci a questo incontro indossando, per restare nella metafora dell’eleganza, il giusto abito mentale. Perché, tornando a Kubler, un’opera d’arte è “come una porta attraverso la quale il visitatore può accedere allo spazio del pittore o al tempo del poeta per fare lui stesso esperienza del ricco dominio che l’artista ha modellato. Ma il visitatore deve giungere preparato: se porta con sé una mente vuota o una sensibilità scarsa, egli non vedrà niente”.
La vera storia della Fotografia Transfigurativa
“Le vicissitudini del gruppo di Fotografia Transfigurativa e della corrente omonima. La storia ufficiale e i retroscena.” ordini su ilmiolibro.it
Selezione a cura di Antonella Messina
Fotografie tratte dalla pagina Facebook
Fotografia Transfigurativa - The Gallery
di Carlo Riggi
Il nostro apparato per vedere tende a organizzare le immagini in unità fenomeniche coerenti; il processo è regolato da precise leggi gestaltiche: alcune hanno un carattere prettamente grafico, altre impegnano la capacità di discriminazione semantica e la memoria. La nostra mente individua strutture a partire dalle più semplici e in quelle riconosce delle buone forme, rintraccia legami associativi di varia natura e ne riceve appagamento. Avviene così quando ci poniamo di fronte a un’opera d’arte. Ci rilassiamo quando identifichiamo delle configurazioni e riusciamo ad attribuirle a un certo autore. Su questa premessa, molti artisti di successo cedono alla tentazione di adagiarsi, propongono pavlovianamente sempre la stessa immagine, quell’unico pattern che ha dato loro riconoscibilità, gratificazione e successo, e dal quale non sanno, o non vogliono, distaccarsi.
Ma compito dell’arte è trovare nuove forme, spiazzare, sovvertire stilemi, scoprire inedite dinamiche visuali. Si può farlo solo mettendosi in gioco, mente e corpo, lasciandosi interrogare, senza troppe difese o sovrastrutture, senza finzioni e senza scorciatoie.
Se il conflitto etico, mosso dal Super-Io, riguarda il bene e il male nella prospettiva escatologica della salvezza, il conflitto estetico, che domina questi nostri tempi, ha origini più arcaiche, ha a che fare con la paura del vuoto e innesca la coazione a comprovare la propria esistenza in vita, con una ricerca spasmodica di visibilità e consenso.
La fotografia amatoriale si presta molto alla soddisfazione di questo profondo bisogno egotico. Siamo risucchiati in una impressionante deriva estetizzante, con una ossessiva ricerca di riscontri gratificanti, anche a costo di plateali cedimenti all’emulazione. Abbiamo un mare di foto che assomigliano ad altre foto.
La fotografia transfigurativa cerca di recuperare una dimensione estetica più autentica e meno stereotipata. La FT promuove l’esplorazione paziente e metodica della realtà, davanti ai nostri occhi e dentro di noi. Senza un’adeguata disciplina, lo scatto si rivela quasi sempre un prodotto di maniera, costruito a tavolino sbirciando sul foglio del compagno di banco, o, peggio, copiando ansiosamente il proprio stesso compitino, quello venuto bene e che ci ha procurato soddisfazioni.
Lo stile personale non può ridursi a una ripetizione pedissequa di stilemi già sperimentati. Non è una coazione, un vezzo, un tic o una furberia di marketing. Lo stile è la sintonia profonda che ci permette di meglio interpretare le nostre istanze emozionali in continua evoluzione. L’affinamento dello stile presuppone studio, fatica, sofferenza, introspezione. Se segue unicamente le leggi del compiacimento narcisistico, esso non potrà mai essere al servizio della capacità espressiva e transfigurativa dell’autore, ma si ridurrà a una sorta di brandizzazione del prodotto.
L’originalità dello stile non consiste nel proporre qualcosa di mai visto, stravagante o funambolico, ma nella capacità di mantenerci il più possibile in contatto franco con noi stessi e all’unisono con ciò che ci circonda. È la capacità di ricombinare gli assetti, ristrutturare il
campo, disporsi in tempo reale all’incontro col dato di realtà; è rinunciare a sovrastrutture e preconcetti, a memoria e desiderio; è fotografare quel che si sente e non quel che si sa
Troppe volte di fronte a una scena compiamo un mero atto di riconoscimento, come un’anagrafe automatizzata e impersonale, invece di lasciarci interrogare, ascoltare quello che essa evoca in termini di emozioni. Lo stesso quando selezioniamo le nostre foto. Rischiamo di cestinarle prematuramente, dopo una visione superficiale, delusi dalla non corrispondenza a canoni estetici preesistenti, senza lasciar loro il tempo di crescere dentro di noi.
Sia i fotoamatori che i professionisti, anche se per motivi diversi, rischiamo di restare invischiati dentro una compulsiva ricerca di consenso, ricorrendo a stilemi già stancamente collaudati. Dovremmo invece perseguire una precisa etica dello scatto, mantenerci dentro una cornice di regole che ci spinga ad auscultare le nostre pulsazioni, a valorizzarle e a rappresentarle visivamente dentro uno spazio di riconoscibilità e visibilità. Questo configura il nostro stile personale. Unico non perché stravagante, ma perché realmente intimo
Si fotografi per lavoro o per diletto, dobbiamo tutti maturare una precisa coscienza del nostro ruolo, e avvertire la stessa responsabilità nel mettere al mondo un’immagine.
Sta a noi scegliere se essere fotoamatori o dilettanti, professionisti o mestieranti
La differenza è una questione di stile.
di Alessandro Mazzoli
Artisticità, stile, omogeneità, riconoscibilità.
Più che dalla forma o l’aspetto di un’immagine, la qualità dello stile si definisce nel modo unico di stratificare i livelli di lettura in una complessità mai ridondante o artefatta. Una definizione azzardata, pensata al volo durante un brainstorming solitario, forse farraginosa e forse anche inopportuna. Stratificare i livelli di lettura è un’azione concettuale, una volontà di creare un costrutto, un’imposizione. Da cosa ha origine una fotografia? Perché è di fotografia che noi ci occupiamo. E cosa rende quel gesto minimo, operato attraverso la fotocamera in una frazione di secondo o in pochi secondi, un’immagine?
Inafferrabile, come tutti i concetti che ruotano intorno alla pratica artistica, lo stile è forse uno dei più dibattuti, se non altro dei più nominati. Ha uno stile inconfondibile! Avere uno stile inconfondibile è una delle prime cose che insegnano nelle scuole d’arte, di scrittura creativa, di musica. La cifra stilistica, definizione a tratti irritante che mette sempre in primo piano una forma, spesso a dispetto del contenuto, come porta di accesso privilegiata al consenso.
Ma è veramente questo che cerchiamo?
Avere un linguaggio, un proprio modo di dire o di fare, allargare il percorso a compiere un arco molto esteso, non puntare alla conquista dell’immediato ma far sedimentare nel tempo frammenti e frammenti di idee, di immagini, di sguardi e di visioni, considerazioni e conoscenze. Rifuggire qualsiasi possibilità di approdo definitivo: ora so fare questo così bene che non ho bisogno d’altro, verrò per questo ricordato, ho maturato il mio stile. Non funziona così, almeno per me e, ne sono sicuro, per tanti artisti che hanno deciso di perdersi nel mondo per farsi trovare piuttosto che fermarsi e piantare una bandiera. (I fotografi, forse c’è ancora bisogno di ricordarlo, sono artisti).
Perdersi per rifuggire dall’ovvietà di una definizione univoca, non voler essere solo quello dei controluce spettacolari o quello delle prospettive mirabolanti, quello delle visioni metafisiche, quello dei ritratti espressionisti e potrei occupare ancora righe su righe di cliché da applicare come un marchio di fabbrica a questo o quello che fa questo o quel tipo di fotografia.
Poi accade che, pur muovendosi in maniera trasversale, assimilando i grandi maestri, cercando di non imitarli, non accontentandosi di facili trovate estetiche, rimanendo sempre con un occhio aperto sulla sperimentazione e dunque mettendosi sempre in discussione, il fotografo venga riconosciuto in una moltitudine. Cosa è successo? E soprattutto da chi è riconosciuto? Probabilmente non dalla massa e forse nemmeno da certe élite che si riempiono la bocca di presunta originalità e profonde ricerche, ma rimangono invischiate nelle sabbie mobili dell’ovvietà.
Qualcuno che sa vedere oltre le griglie, le geometrie della definizione, la sensibilità e l’insieme dei segni che distinguono chi ha nel suo fare una profondità, una narrazione, una struttura. (Quanto sono vicine le forme d’arte tra di loro se non le si considerano contenitori chiusi? Fotografia, poesia, musica, pittura, scultura si possono attraversare in un’osmosi continua).
Dunque lo stile è la nostra sintassi, quel modo unico di dire le cose che dà forma al pensiero attraverso qualsiasi mezzo espressivo si voglia operare, un filo teso tra conoscenza e presente, dilatazione del tempo interiore e della considerazione del fare. Uno “stile elevato” come lo definisce il poeta Adam Zagajewski nel breve ma denso saggio “L’ ordinario e il sublime” (...) “scaturisce da un dialogo incessante tra due sfere: quella spirituale, di cui sono guardiani e artefici i morti, come Virgilio nella Divina Commedia, e quella dell’eterno praesens, la nostra strada, un unico istante, un cassetto del tempo in cui ci siamo ritrovati a vivere.”
Forse non lo definiamo, non ce lo scriviamo addosso, a meno di non essere massimamente ambiziosi, ma un nostro stile (possibilmente elevato) tutti e malgrado tutto, lo abbiamo. Risiede nella nostra capacità di non piegare il fare al consenso, di uscire da sé stessi oltre che di casa quando si va a fotografare, sognatori dagli occhi aperti, lo sguardo ampio, perennemente fuori tema ma coerenti nel percorso.
Anche se non è segnato.
di Stefano Montinaro
Un palmo pieno di stelle, le lancio come fossero dadi, ripetutamente, sul tavolo. Le scuoto come fossero dadi e le lancio sul tavolo, ripetutamente. Finché non appare la costellazione desiderata1
Ripetutamente, come dice Björk.
La metafora di una ricerca continua, insaziabile, della combinazione desiderata. Ma l’appagamento di questo desiderio deriva dalla somma dei tentativi messi in campo per raggiungerlo, o sono i tentativi stessi a modificare il desiderio, a ridefinirne la struttura?
Sembrerebbe di dover tornare alla solita, eterna (noiosa) diatriba tra percorso e meta, tra processo e risultato, con conseguente polarizzazione delle fazioni. Sarebbe interessante invece riflettere sull’altra ipotesi, appena accennata: e se fossero proprio i tentativi, i percorsi, i processi, tutto ciò che siamo capaci di mettere in gioco (quando e se) spinti da un desiderio, a costituire il vero esito?
In fotografia ne sanno qualcosa i Transfigurativi: fotografano e sognano in una continua tensione asintotica a far coincidere i due atti. Il prodotto, dunque i risultati, non rappresentano certo il centro della loro attenzione primaria.
Probabilmente è proprio in quel preciso punto, all’incrocio fra quei desideri e quelle tensioni, che nasce, a volte inconsapevolmente, uno stile. La perfetta incarnazione della sintesi: lo stile prende forma grazie all’elaborazione dei processi e va ad abitare gli esiti, permeandoli.
Sullo sfondo della periferia industriale di Ravenna, Monica Vitti si aggira tenendo per mano un bambino, avvolta da un inconfondibile cappotto verde. Sono le ultime sequenze dello straordinario Deserto Rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, pellicola che ancora prima del fotografico Viaggio in Italia (1985) di Ghirri & Co. ha contribuito a ridisegnare il paradigma visivo del paesaggio italiano contemporaneo. Le linee, i colori, le sfumature e le sfocature di quella periferia industriale ravennate, a guardarle bene, in molti momenti del film sembrano materializzarsi su quegli sfondi come se fossero state trasferite direttamente da una tela di Mark Rothko. Non è sicuramente un caso, Antonioni amava visceralmente il lavoro di Rothko, arrivando a definirlo con parole che sembrano illuminanti: I suoi quadri sono come i miei film, parlano del nulla con esattezza. Una definizione di stile in un senso più ampio e profondo di quanto si possa supporre, che aiuta a tracciare una linea netta quanto necessaria che separi l’idea di stile da quella di modello, concetti lontanissimi, ma spesso pericolosamente contigui, anche in fotografia.
1 With a palm full of stars / I throw them like dice (repeatedly) / On the table (repeat, repeatedly) I shake them like dice / And throw them on the table / Repeatedly (repeatedly) Until the desired constellation appears Björk, Desired Constellation, Medúlla, 2004
Attribuire la riconoscibilità dei lavori di un autore semplicemente a fattori superficiali quali le tecniche che utilizza (seppur geniali o innovative) oppure al tipo di estetica che riesce a costruire (seppur inconfondibile), significa confondere la parte con il tutto.
Lo stile è il modo in cui un individuo crea un nuovo senso della realtà, un nuovo approccio al caos dell’esistenza2
Gilles Deleuze
L’oggetto misterioso che proviamo a definire stile è, invece, il risultato di una somma di fattori provenienti dall’universo di esperienze esistenziali, culturali, sensoriali che abbracciano una vita intera e che quindi, per definizione, rendono questa somma sempre diversa, mutevole. Un autore che fotografa, scrive, suona, canta, danza, dipinge, scolpisce nel modo in cui lo faceva dieci anni prima (forse anche dieci minuti), sta applicando un modello funzionale alla sua attività, non sta certo definendo uno stile. Possedere uno stile significa esprimere un mondo, il proprio, mantenendone e cambiandone allo stesso momento e di continuo la visione, la definizione e l’espressione. Significa dare ex novo, ogni volta, una forma contingente, onesta e coerente alle necessità e alle urgenze che spingono all’espressione.
Forse non è del tutto azzardato affermare che la vera riconoscibilità, quella che sottende ad ogni vero stile, possa realizzarsi ed essere percepita solo nel caso in cui emerga prepotentemente proprio da quell’onestà e da quella coerenza.
2 Le style est la manière dont un individu crée un nouveau sens de la réalité, une nouvelle approche du chaos de l’existence
Gilles Deleuze, Différence et Répétition, 1968
di Andrea Virdis
La fotografia ha davvero bisogno di ridursi alla mercé di strutture estetiche programmate che consentano di riconoscere in essa uno specifico stile?
Quando si parla di riconoscibilità in ambito fotografico spesso si tende a confondere la coerenza comunicativa, legata all’aspetto identitario dell’espressività autoriale, con la continuità superficiale della forma, manifestata dal fotografo attraverso idee e preconcetti solitamente dettati da esigenze esterne.
In virtù di ciò, credo sia necessario saper fare una distinzione tra stile e personalità. Mentre il primo si arrende al desiderio di approvazione, seguendo da vicino le orme del conformismo, la seconda risplende di luce propria, presentandosi al mondo in modo del tutto spontaneo e naturale.
E’ palese, quindi, che all’occorrenza, chiunque possa edificare un determinato stile senza che questo sia necessariamente in sintonia con la propria individualità. Il ché andrebbe in netto contrasto con i principi etici che orbitano intorno alla definizione di Fotografia
Transfigurativa
In certi casi, il sedicente stile fotografico appare come uno sgradevole ossimoro dal sapore kitsch, un cortocircuito tra il glamour estetico e l’aurorale bellezza dell’essere.
Ma non tutto è perduto. La storia ci insegna che è possibile fotografare mantenendo uno stile anche senza sacrificare la propria identità in nome del consenso.
Dovremmo imparare a muoverci in libertà, dedicando maggiore attenzione al nostro sentire interiore, così da creare un unicum narrativo che sappia conciliare introspezione e realtà materiale.
Azionare l’otturatore, con l’intento di ottenere un risultato finale che mantenga uno stile prestabilito, costituisce a parer mio il fallimento della fotografia d’autore.
Sono altresì convinto che lasciarsi guidare unicamente dal naturale fluire dell’essere, evitando le ridondanti forzature dell’adeguamento, rappresenti la più autentica forma di stile
Tutte le fotografie, nel rispetto del diritto d’autore, vengono qui riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.
L’essenziale è per lo più nascosto agli occhi.
(Martin Heidegger)