Dalla scienza per la fotografia alla fotografia per la scienza
di Francesco Codice
Università IUAV di Venezia Laurea specialistica in disegno industriale A.A 2010-2011 Corso Storia dell’innovazione Prof. M.Chiapponi di Francesco Codicé matricola 270593 7 settembre 2011
Indice Abstract
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1. Il visibile
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2. Il ruolo della Scienza 2.1 Photos
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2.2 Graphia ................................10 3. Oltre
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3.1 L’invisibile ..............................14 Bibliografia ..................................... 2 0
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Abstract Il termine Scienza della fotograf ia si riferisce a tutte quelle innovazio-
ni apportate da alcune discipline scientifiche che hanno reso la fotografia una riproduzione perfetta della realtà così come la conosciamo
noi oggi. Lenti, lastre, pellicole, sensori, obiettivi, diaframmi, batterie, stampa... Tutto ciò che compone il corpo macchina ed il processo di visualizzazione dell’immagine prodotta è riconducibile a scoperte ed innovazioni con radici nella chimica, nella fisica, nell’ottica, e più recentemente nell’elettronica.
Quando nel 1839 venne presentata la dagherrotipia come una scoperta
“che avrebbe rivoluzionato la Scienza” furono molti gli accademici che
storsero il naso davanti a quello che si rivelò un processo chimico già conosciuto e consolidato. Tra questiSir John Herschel, che non esitò
nell’aiutare Daguerre e Talbot con un composto scoperto venti anni prima, e che risolse ogni loro problema di fissaggio dell’immagine dando così il via a quel processo conosciuto oggi come fotografia.
Oggi, la tecnologia digitale sta subendo repentini miglioramenti che non hanno tanto di rivoluzionario, ma che ricordano l’annuncio della dagherrotipia come aspetto rivoluzionario per la Scienza: se da una
parte le innovazioni della macchina continuano ad essere frutto della tecnologia, dall’altra, è la fotografia stessa che permette importanti ed
utili indagini alla Scienza stessa. Basta pensare alla biologia o all’astronomia per capire come il transfer tecnologico, inverso rispetto agli albori, abbia ampliato i margini d’indagine, ed al contempo abbia per-
messo alla macchina fotografica di svilupparsi in nuove forme adatte a questi nuovi scopi.
Se consideriamo la macchina o processo come il mezzo, e l’immagine
come risultato, è naturale pensare all’intenzione come motivo scatenante. Ecco: la Scienza non è più solo il mezzo per giungere al risultato, ma si è evoluta identificandosi sempre più nell’intenzione. È possibile così parlare di “fotograf ia per le scienze”, una strada nuova di
cui nemmeno la lungimiranza di Herschel potè intuire l’importanza per i suoi studi, e per i suoi colleghi.
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1. Fotografia La macchina fotografica come la conosciamo noi oggi è un apparec-
chio strutturalmente sempre più complesso, ma funzionalmente sempre più semplice. Questo perché ha goduto di tantissime innovazioni tecnologiche: alcune rivouzionarie, altre minori, ma che hanno tutte
contribuito al perfezionamento dello strumento e della tecnica. Tra i
passaggi fondamentali si possono elencare le ottiche di Petzval e Voigt-
lander del 1840, il procedimento fissativo al collodio umido nel 1850
di Gustav Le Gray, il procedimento tricromico di Maxwell nel 1861, la pellicola in nitrocellulosa di Eastman del 1889, la pellicola fotografica Kodachrome di Mannes e Godowsky commercializzata da Kodak
nel 1935, la Polaroid di Edwin Land del 1848, la prima macchina a supporto magnetico di Sony, Mavica, nel 1981. Questi appunto, sono
solo alcuni degli esempi che hanno contribuito a rendere l’apparecchio mobile, compatto e veloce, aprendo la possibilità di produzione e riproduzione d’immagini al grande pubblico.
Oggi infatti la parola fotografia è abusata, alla stregua di arte. Ormai è un termine ricorrente sulla bocca di tutti, passa fra le labbra del filosofo
come del fotografo, del giornalista come del fotoamatore. È pronun-
ciata da chi scatta col cellulare, dell’astrofisico, dal gallerista che la vende a centinai di migliaia di euro, da chi visita Flickr, nei tribunali, negli ospedali, nelle fabbriche e nelle scuole. Passando di bocca in bocca
assume mille significati e sfumature diverse, mille volti, mille identità. A volte la parola fotografia comprende una vasta categoria di concetti, di abitudini e di significati, altre volte invece è estremamente ben de-
finita. Migliaia e migliaia di fotografie vengono scattate ogni giorno, ognuna con scopi e destinazioni profondamente diverse, ognuna col
proprio stile e apparenza. Viene utilizzata per ottenere foto ricordo, per fissare un momento che si vuole sottrarre al flusso del tempo, avere un’immagine che si possa rivedere anni dopo, con un sorriso un pò
malinconico sulle labbra. Per inviare una cartolina, per documentare
giorno per giorno le facce di un figlio appena nato. La fotografia poi viene usata tanto per catalogare quanto per illustrare. Sia per riempire
le pagine di un libro di malattie veneree nella biblioteca di un medico, che per illustrare un catalogo con i chiodi prodotti da una piccola fabbrica in un paese di campagna. Per schedare i detenuti di un carcere o
gli iscritti ad un’ Università. Per mostrare i prezzi delle pietanze ven-
dute in un fast-food o le ragazze compiacenti su un sito a luci rosse.
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Viene utilizzata per testimoniare e documentare. Per determinare chi è
arrivato primo ad una corsa di cavalli, immortalare la scena di un delitto prima che le prove vengano contaminate, raccontare la vita in luoghi
lontani e inaccessibili. Documentare le guerre, l’incontro fra due leader
politici, un evento sportivo. C’è chi fa fotografia per il piacere di farlo, gli appassionati, i fotoamatori, i grandi nomi del mestiere. Al di la degli
scopi e degli usi “esterni”, nello stesso mondo della fotografia pura e
dura, la fotografia fatta per farla, esistono infinità di stili e approcci diversi: il bianco e nero e il colore, l’analogico e il digitale. L’immagine di
nudo, naturalistica, concettuale, di paesaggio, persone, animali, street, reportage, charme, erotica, astratta, etc.
Insomma, con il termine si indica oggi un grande insieme di categorie
e sottocategorie anche molto diverse fra loro che si esplicita negli stili
e nel linguaggio espressivo, nell’approccio, negli scopi e destinazioni d’uso dell’immagine fotografica. Non è quindi un entità unica e ben
definita, ma un insieme di mondi più o meno diversi fra loro. Quello di cui siamo certi però è che ogni immagine, per quanto astratta e distorta che sia, deriva sempre da elementi esistenti, ha bisogno della luce per scriversi e di un supporto per registrarsi.
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2. Il ruolo della Scienza 2.1 Photos L’uomo ha sempre avuto il bisogno di comunicare, di esprimere i propri pensieri e di registrare ciò che nell’inesorabile scorrere del tempo lo tocca nell’animo. Ha cominciato a farlo con i suoni, con i gesti, con i
disegni, poi con la costruzione di un linguaggio verbale e con la scrittura, perfezionandoli man mano che ne prendeva possesso. Le immagini
però si sono sempre distinte per la rapidità di comunicazione oltre i confini delle differenze culturali. Questo meriterebbe un approfondi-
mento viste le comunque presenti distanze interpretative di una stessa rappresentazione, ma il mio intento è quello di indagare come si è arrivati oggi ad una tale “globalizzazione” del linguaggio visivo.
Il primo passaggio di cui bisogna tenere conto è il come l’uomo sia riuscito a superare le qualità del singolo per giungere ad una rappresen-
tazione del reale accessibile ai più. E si identifica nella camera oscura, un dispositivo ottico che mima l’occhio umano tanto nella prospettiva
quanto nel funzionamento: la luce naturale entra attraverso un piccolo foro riproducendo sul versante opposto l’immagine capovolta di qualsiasi oggetto si trovi all’esterno. Nonostante questo meccanismo fosse
conosciuto già nel IV secolo a.C. a illustri filosofi e matematici greci, fu grazie all’arabo Alhazen (Bassora, 965 – Il Cairo, 1038), considerato
uno dei più importanti e geniali scienziati del mondo islamico, che venne descritto con grande anticipazione ed esattezza il meccanismo di capovolgimento dell’immagine.
Alhazen dimostrò come i raggi di luce viaggiassero in linea retta, e
svolse vari esperimenti con lenti e specchi su rifrazione e riflessione. Egli fu anche il primo a ridurre i raggi luminosi riflessi e rifratti nelle componenti orizzontali e verticali, apportando così uno sviluppo fon-
damentale per l’ottica geometrica. Lo scienziato diede la prima chiara
descrizione ed una corretta analisi della camera oscura e del foro stenopeico: mentre Aristotele, Teone di Alessandria, Al-Kindi (Alkin-
dus) ed il filosofo cinese Mozi descrissero gli effetti di una singola luce filtrante attraverso il foro stenopeico, nessuno di loro arrivò a suggerire
che tale proiezione fosse l’immagine di tutto ciò che era fuori dal dia-
framma. Alhazen fu il primo a dimostrarlo attraverso un esperimento pratico nel quale riusci a distinguere le diverse lampade che dispose su una vasta superficie.
Si può affermare quindi che fu lui per primo a riprodurre con succes-
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so un’immagine completa dall’esterno all’interno della camera oscura, aprendo così la strada a quel perfezionamento dell’apparecchio che per
secoli ha accompagnato il lavoro di disegnatori e pittori. Si può obiet-
tare sul fatto che l’apparecchio non fu di alcuna utilità fino a quando
non divenne uno strumento portatile, ma ritengo comunque questo
fatto come il primo passo compiuto verso la costruzione dell’immagine riflessa del mondo.
2.2 Graphia Nel 1727, uno scienziato tedesco di nome Johann Heinrich Schultze
scoprì durante i suoi esperimenti un composto fotosensibile (gesso, acido nitrico e soluzione d’argento) che chiamò scotophorus (portato-
re di tenebre). La proprietà reagente di questi sali d’argento offrì la possibilità di disegnare direttamente con la luce abbandonando final-
mente la matita: tra i primi personaggi folgorati da quest’intuizione
balzati agli onor di cronaca vi furono gli inglesi Thomas Wedgwood, William Henry Fox Talbot, e i francesi Joseph-Nicéphore Niépce e
Louis-Jacques Daguerre. Ad eccezione di Talbot, nessuno di questi
possedeva fondamenti scientifici su cui basarsi, quindi mossero le loro sperimentazioni empiriche per vie indipendenti nei primi decenni del
IX secolo, associando i supporti sensibilizzati all’ormai evoluta camera oscura. Daguerre e Talbot furono coloro che si avvicinarono maggiormente all’intento, tuttavia i loro procedimenti risultarono incompleti
poiché le immagini prodotte non si fissavano, continuando a subire lentamente l’effetto della luce.
Nel 1839, anno in cui si svolsero questi primi clamorosi avvenimenti fotografici, lo scienziato sir John F. W. Herschel aveva 47 anni e godeva oltre che del suo, anche del prestigio ereditato dal padre, considerato il pioniere della moderna astronomia stellare. Egli proseguì su questa
stessa strada raggiungendo traguardi propri, operando importanti ricerche nei campi della matematica, della fisica e della chimica, dove
scoprì nuove sostanze. Fra queste l’iposolfito di sodio, ancor oggi uti-
lizzato universalmente per il bagno fotografico fissativo. In quell’anno,
1839, era appena tornato da un viaggio in Capo di Buona Speranza, dove trascorse quaranta mesi di osservazione astrale nei quali disegnò una mappa del cielo.
Riporto questi fatti per capire come gli interessi di Herschel per le
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questioni fotografiche fossero confinati alla semplice distrazione. Con-
temporaneamente in Francia, lo scienziato François Arago annunciò
l’invenzione del fortunato Daguerre riportando la notizia su la “Gazet-
te de France” del 6 gennaio con toni esaltati e scientificamente bizzarri, in un articolo firmato H. Gaucheraud. Furono proprio certi termini di
questa pubblicazione ad attirare il 22 gennaio l’attenzione di Herschel: Una importante scoperta è stata fatta dal signor Daguerre, il famoso pittore dei Diorama, che sembra prodigiosa e sconvolge tutte le teorie scientifiche relative alla luce e all’ottica. Se verrà confermata provocherà altresì una rivoluzione nelle arti del disegno. Il signor Daguerre ha trovato il modo di rendere stabili le immagini che si formano sul fondo della camera oscura. Queste immagini, cioè, non saranno più la temporanea riflessione degli oggetti, ma risulteranno fissate e durevolmente impresse, e potranno venire rimosse e allontanate dagli oggetti, come se fossero disegni o incisioni [...] L’articolo aggiungeva che Arago si apprestava a darne comunicazione all’Accademia delle Scienze di Francia. Sir Herschel rimase presumi-
bilmente sconvolto da questa pubblicazione, poiché si sosteneva che l’invenzione del pittore parigino “sconvolgeva” con le arti del disegno “tutte le teorie scientifiche relative alla luce e all’ottica”. Insomma, i
fondamenti del suo mestiere, l’astronomia telescopica. Probabilmente a sconcertarlo furono anche le notizie dell’entusiasmo di illustri scienziati fra i quali diversi colleghi astronomi dell’osservatorio di Parigi.
Fu così che cominciò ad interessarsi alla questione: trascorse qual-
che giorno richiamando alla mente il comportamento delle sostanze
sensibili alla luce, i sali d’argento, note da tempo ai chimici. Il passo successivo, l’arresto dell’azione della luce sui sali, era una necessità in-
dispensabile per ottenere disegni fotogenici, già affermata dal chimico inglese Humbphry Davy (1778-1829) fin dal 1800. Come gli altri in-
fatti, Davy aveva osservato che con la luce si poteva fare immagini. Nel suo Researches, Chemical and Philosophical (1800) scrisse:
Ora [...] non manca che un mezzo per impedire che le parti chiare della figura siano successivamente scurite dalla luce del giorno. Ottenuto questo risultato il procedimento potrà risultare tanto utile quanto semplice, ma per adesso è necessario custodire l’immagine al buio [...]. Va notato che fino a questo punto il chimico parla di stampa fotografica di immagini per contatto. Ma più avanti:
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[...] quanto alle immagini della camera oscura, senza dubbio sono troppo poco luminose e non sono riuscito ad ottenere una figura apprezzabile con il nitrato d’argento. Comunque è in questa direzione il vero interesse di queste ricerche [...] Queste note sono del 1800: trentanove anni prima della scoperta di Daguerre, ventisette anni prima la data ufficiale della prima fotografia
di Niépce. Il 29 gennaio Herschel annota (Esperimento n°1012) nel
suo diario di laboratorio - oggi visibile al Museo della Scienza di Londra - come dopo avere inumidito diversi fogli di carta con soluzioni di
vari sali d’argento (cloruro, nitrato, carbonato, acetato) li abbia esposti alla luce dopo averne nascosto un pezzo tra le pagine di un libro. La
parte esterna al libro scuriva a vista più o meno lentamente, e questo
era noto a tutti. Herschel, da vero scienziato, intendeva verificare quale fosse il più sensibile dei sali, fermando l’attenzione sul nitrato d’argento: quello che diventerà di uso fotografico per eccellenza. Successiva-
mente, con l’Esperimento n°1013, collaudò l’efficacia del suo fissaggio annotando testualmente:
Provato iposolfito di sodio per arrestare l’azione della luce, eliminando con lavaggio tutto il cloruro d’argento o altro sale d’argento. Riuscito perfettamente. Carta metà esposta e metà protetta dalla luce con copertina di cartone, poi tolta dalla luce e spruzzata con iposolfito di sodio e quindi lavata bene con acqua pura. Fatta asciugare e poi esposta di nuovo. La metà scurita rimane bianca dopo qualsiasi durata di esposizione, come se la carta fosse colorata in seppia. Verificato l’effetto della luce e del fissaggio sulla carta fotografica, Herschel sostituì al libro fra le cui pagine nascondeva mezzo foglio, la camera oscura fotografando il suo telescopio. Nel diario di laboratorio annotò: ‘[...] e così il segreto di Daguerre è svelato [...]’. Egli non
reinventò, ma inventò la fotografia, e dimostrò a se stesso che le teorie scientifiche sulla luce e sull’ottica non avevano niente a che fare con
gli “sconvolgimenti” annunciati da Daguerre, cfr Gilardi (1976, 22). È suo il fissaggio, il mezzo che rende possibile la conservazione delle immagini prodotte dalla luce sulla sostanza ad essa sensibile, a restare ancor oggi alla base della fotografia negativa-positiva. E fu il dagherro-
tipo stesso ad avvantaggiarsi da questa scoperta. Senza dimenticare tra
l’altro che fu Herschel ad usare per primo i termini fotografia, positivo e negativo.
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3. Oltre Con le due tesi trattate è possibile capire fin da subito quanto sia
stretta la connessione tra scoperta scientifica ed applicazione pratica. Il processo che ha portato alla sofisticazione degli attuali strumenti fotografici è però solo uno dei numerosi esempi che si possono fare per dimostrare come le diverse scienze, ottica, chimica, elettronica, ecc. si applichino e si incontrino nella realtà umana quotidiana.
Basta recarsi in un negozio di apparecchi fotografici per capire come il mercato offra oggi moltitudini di strumenti, figli di questa corsa se-
colare: da una parte le macchine classiche, analogiche o digitali, più o meno professionali; dall’altra invece un universo di dispositivi più o
meno portatili come telefono cellulare, computer, tablet, ecc. che offrono la possibilità di registrare immagini in qualsiasi momento e di
condividerle con chiunque istantaneamente, senza più la necessità del-
la stampa. I computer in questa era dominata dal digitale giocano un ruolo fondamentale, poiché stanno trasformando il monitor di visione
nell’ “organo” ufficiale di percezione del mondo, un sesto senso che implementa le risposte ai molti bisogni artificiali creatisi in questa mo-
dernità. Voglio evitare qualsiasi commento sulle implicazioni sociali di questo fenomeno per risaltare piuttosto un altro aspetto.
Vi è infatti un’altra categoria di dispositivi molto specifici e profes-
sionali, e quindi non accessibili al mercato “comune”, che permette non
solo di fotografare ma altresì di indagare quelle stesse immagini con una capacità di gran lunga superiore a quella dell’occhio umano. Questi
apparecchi riescono a catturare quella luce esclusa dallo spettro visibile, allargando a dismisura le sue possibilità di percezione: la potenza visiva
umana infatti non può accorgersi se un corpo emette altre radiazioni
oltre a quelle che noi chiamiamo luce. Esistono apparecchi per le onde
radio, l’infrarosso, l’ultravioletto, i raggi X e i raggi gamma, che sfruttano la potenza fotografica per immortalare il fenomeno ed ottenere così immagini da studiare anche in momenti differenti, in condizioni migliori e più a lungo. Come per le immagini classiche, si va a sostituire la
memoria dell’uomo nell’osservazione del mondo esterno, ampliando la
portata ed il numero di input sensoriali di determinati campi di studio. Non solo: tali strumenti stanno diventando sempre più indipendenti, nel senso che molti di essi vengono svincolati dal contatto diretto con
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l’uomo. Vengono difatti installati in sistemi autonomi che permettono
di raggiungere profondità inaccessibili come anche distanze dalla Terra impensabili. I fondi oceanici come gli spazi più remoti dell’universo
cominciano a svelare ciò che finora hanno tenuto segreto alla capacità umana, allargando al contempo il “pubblico” di riferimento facendo della fotografia il mezzo di avvicinamento alla tecnica scientifica.
3.1 L’invisibile Come ho detto precedentemente, la fotografia sostituisce la memoria umana nell’ osservazione del mondo esterno proprio perché riesce a
fissare su un supporto le radiazioni luminose incidenti. Questo è fon-
damentale per la pratica di documentazione e catalogazione che la ri-
cerca scientifica comporta, ed è proprio per questo che oggi non esiste laboratorio scientifico senza apparecchio fotografico.
Partendo però da un altro punto di vista, perché un complesso di conoscenze divenga scienza è necessario che il metodo di studio si basi
su sperimentazioni osservabili e misurabili, permettendo così ad altre
persone di ripetere il procedimento o falsificarlo. Qui entra in gioco la tecnica, perché prende a prestito le conoscenze acquisite precedente-
mente per offrire nuovi strumenti atti allo scopo. È successo per esempio che alcuni oggetti abbiano impiegato secoli per diventare quelle
apparecchiature scientifiche oggi universalmente riconosciute: il microscopio, tra questi, ha un ruolo fondamentale proprio per la rilevanza delle ricerche che ha permesso di effettuare, nonostante si sia dovuto districare lungo un sentiero molto tortuoso.
Quando infatti si realizzarono i primi modelli nel XV-XVI secolo, non suscitarono tanto interesse poiché si limitavano a mostrare il solito mondo di tutti i giorni appena un pò più ingrandito, ed impiegò anni
prima che lenti e messa a fuoco venissero perfezionate. Il lavoro che
sancì la fama di questo strumento è lo scritto Micrographia di Robert Hooke (1635-1703), uno dei più grandi scienziati del Seicento, pubblicato nel 1665. La precisione nelle osservazioni, unita all’uso di bel-
lissime e dettagliate tavole illustrate decretò il successo del libro tanto
quanto l’interesse della comunità scientifica, ma fu la potenza delle immagini in particolare a mostrare alla comunità le possibilità dello
strumento. Solo nel 1802, nel pieno del periodo di ricerca fotografica,
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si ebbe l’intuizione di utilizzare la luce solare per registrare le pic-
cole immagini del microscopio. Thomas Wedgwood (1771-1805), nel suo famoso scritto “An Account of a method of copying Paintings upon Glass, and of making Prof iles, by the agency of Light upon Nitrate of Silver” (1802) affermò
In seguito a questi processi, ho constatato che le immagini di piccolo oggetti prodotte a microscopio solare, possono essere copiate su carta preparata senza grosse difficoltà. Potrà essere probabilmente un’applicazione molto utile del metodo, che potrà essere usata con successo; tuttavia, è necessario posizionare la carta a poca distanza dalla lente. In pratica, l’immagine di un oggetto illuminato da luce solare e osservato dalle lenti del microscopio, doveva essere proiettata su uno schermo bianco e fotografata con un dispositivo. Non sappiamo se Wedgwood riuscì nei suoi sperimenti, ma è certo che William Henry Fox Talbot (1800-1877) riuscì a creare nel 1834 le prime fotomi-
crografie 20x tramite microscopio solare ed un piccolo apparecchio fotografico.
Mentre gli esperimenti proseguivano arrangiati alla meglio, fu nel
1852 che il farmacista F. Meyer sviluppò un apparecchio dedicato alla microfotografia (fig.1): su una struttura verticale, egli posizionò una piccola camera oscura con coperchio, regolabile in altezza Fig.1: Fotomicroscopio di Meyer
tramite morsetto. Il tubo contenente le ottiche discendeva fino ad
un supporto inferiore sul quale, poco distante, veniva alloggiato il
piccolo ripiano forato sul quale posizionare l’oggetto di studio, anch’ esso regolabile in altezza. In ultima analisi, venne inserito lungo l’asse longitudinale uno specchio mobile, in modo da riflettere la
luce solare e direzionarla all’interno del condotto ottico. Con questo brillante apparecchio si potevano realizzare dagherrotipi con sufficiente stabilità, senza incorrere in fastidiose vibrazioni.
Un ulteriore contributo all’apparecchio per micrografia venne in-
torno al 1880 dall’anatomista tedesco Gustav Theodor Fritsch (1838-1927): egli separò tutti i componenti, camera, lenti, suppor-
to e specchio, allineandoli orizzontalmente (fig.2). In questo modo
riuscì ad ottenere maggior stabilità, la possibilità di sostituire ciascun elemento con estrema semplicità e lavorando con una maggior
quantità di luce. Questo fu il primo strumento del settore a venir commercializzato (azienda tedesca Seibert and Kraft, in Wetzlar).
Pochi anni più tardi, nel 1893, il tedesco August KÖhler (1866-
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Fig.2: Apparecchio per micrografie orizzontale di Gustav T. Fritsch.
1948) pubblicò un’importante articolo su una tecnica d’illuminazione per micrografia passata alla storia come “KÖhler illumination”: con questa tecnica era possibile illuminare il campione di
riferimento uniformemente, e senza mostrare la sorgente luminosa; egli inoltre riuscì ad osservare la fluorescenza mediante l’utilizzo di luce ad onde corte. Fu cinque anni più tardi queste innovazioni vennere apportate all’apparecchio: ne naque il microscopio a fluore-
scenza, che aprì la strada alle micrografie a segnale fluorescente. Nel 1912-1913 venne la volta delle micrografie a radiazioni ultraviolet-
te mediante l’utilizzo di onde lunghe: KÖhler si servì del processo pancromatico dell’inglese Frederick Wratten (1840-1926), facendo della micrografia il mezzo di studio dei segnali luminosi nello spettro infrarosso (IR).
Negli stessi anni Ernst Leitz (1843-1920), imprenditore ed ottico tedesco, sviluppò i suoi apparecchi Leica: già nel 1886 fece suo lo standard di apparecchio, che col suo sistema (fig.3) consentiva di
lavorare sia in orizzontale che in verticale prevedendo numerosi differenti sistemi di illuminazione. Si servì principalmente di lampada a gas, la cui luce veniva focalizzata su di uno specchio attraverso una
lente condensatrice regolabile. A coronamento dei suoi successi arrivò nel 1933 il microscopio Panphot (fig.4), considerato l’apparecchio micrografico per eccellenza: con esso infatti si poteva passare
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dall’osservazione microscopica alla micrografia con semplici movimenti, unendo l’esperienza del microscopio a quella della macchina reflex. Poteva usufruire di diversi tipi di illuminazione, dalla luce
trasmessa, a quella riflessa, da luce darkfield (a sfondo scuro) a quella
polarizzata. La macchina fotografica poteva alloggiare lastre da 3 1/4” x 4 1/4” o pellicole adattate per lavori in bianco e nero o a colori.
Si raggiunse una base tecnica quindi dalla quale, negli anni succes-
sivi, partirono caratteristiche sempre più migliorate: nuove tecniche, come il contrasto di fase ed i metodi interferenziali, hanno oggi aperto nuovi campi di applicazione. Ne sono state migliorate altre, come la fluorescenza e la radiazione polarizzata già applicate ai
microscopi da Henri Fox Talbot come accennato precedentemente; nuove formule di calcolo hanno permesso di eliminare del tutto gli
svantaggi della curvatura di campo degli obbiettivi (1937, ad opera Fig.3: Apparecchio verticale di Leitz.
di H. Böghehold, presso la C. Zeiss). E tutt’oggi il processo non
Fig.4: Fotomicroscopio Panphot di Leitz, 1953.
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accenna ad arrestarsi. Parti meccaniche ed ottiche vanno sempre per-
fezionandosi, avvalendosi degli ultimi ritrovati tecnologici ed adattan-
dosi alle mutate esigenze dei ricercatori e dei tecnici che fanno uso di microscopi. Basta citare i trattamenti antiriflettenti, i filtri interferenziali con tutte le loro varietà, la fluorite sintetica, le lampade ad arco
compatto, le tecniche “confocali”, ecc. , tutte novità degli ultimi decenni. E nonostante l’introduzione della cinematografia applicata al microscopio, la manipolazione elettronica dell’immagine, l’elaborazione
numerica e statistica dei dati mediante la digitalizzazione dei processi, è fondamentale capire come sia stata necessaria l’applicazione della fotografia al realizzarsi di tutto questo.
Tornando quindi al motivo per cui ho riportato questi passaggi storici
dell’innovazione tecnologica, voglio sottolineare come l’unione della
fotografia al microscopio abbia permesso di abbattere i limiti visivi, qui, della biologia: l’aver scoperto un “universo” prima invisibile gettò nuovi interrogativi ai quali si potè rispondere solo con accurate ricer-
che. Se il microscopio quindi ha aperto alla microbiologia, è stata la fotografia applicata a renderla scienza.
Se la scienza, con i suoi apporti tecnologici, è sempre stata e continuerà
ad essere il mezzo per raggiungere certi risultati nella fotografia, credo sia dunque possibile parlare anche di scienza come intenzione. Ovvero, la ragione trainante l’innovazione, la motivazione che si ha nello schiacciare un bottone: usare la scienza per avanzare nella scienza.
Mi piace pensare che, nonostante questo processo sia iniziato da su-
bito ed abbia accompagnato la nascita della fotografia stessa, l’attuale
velocità di sviluppo degli apparecchi data soprattutto dal digitale possa leggersi come un distacco definitivo dalla fotografia intesa in senso
“classico”. Un bivio sempre più marcato quindi tra la fotografia come siamo comunemente abituati a pensarla, ormai entrata in un tunnel vorticoso di ripetizioni, e la fotografia per la scienza dove l’uomo può
e deve concentrare tutti i suoi più nobili sforzi, alla ricerca di quelle letture del mondo reale che da sempre ne tormentano l’esistenza.
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