Funerale a Praga

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FUNERALE A PRAGA Sono sempre stato arrogante. Lo sono diventato quando ero ancora talmente piccolo, che è come se facesse parte di me dalla nascita. La mia arroganza è la compensazione, la protezione artificiale della mia debolezza naturale. Nasco da una famiglia di povera gente, mio padre è fabbro e mia madre raccoglie bacche nei boschi e poi le vede al mercato. Nel tempo libero cuce e cucina per una signora anziana che la paga in mance. I miei due fratelli più grandi lavorano in fabbrica, un postaccio, in cui mi sono sempre rifiutato di mettere piede. I due fratelli più piccoli invece, si dedicano all’alcool, alle taverne, e a pensieri bohemien ormai estinti. Sono due piccoli dinosauri dalla pelle dura e rancida, intrisi di profumo di donne e squallidi peccati, che giustificano come esperienza di vita la discesa negli abissi della miseria umana. Loro sguazzano nel fetore della nostra società, all’interno di quel braccio della morte socialmente autorizzato e a volte anche ammirato, e percorso ogni giorno da persone spinte da una sorta di autolesionismo purificatorio. Tutti condannati a morte, se non quella del corpo, perlomeno quella dell’animo. Io preferisco la quiete, anzi, io ho bisogno di quiete. Sono un uomo che si stanca presto del caos esterno, io prediligo quello interiore. Quello che facevo nel ’79 in Italia era disgustoso. Marcire sotto la pioggia di agosto, mentre dal marciapiede si levava lieve vapore acquoso. Una fabbrica del suicidio, in fondo alla via, inghiottiva operai come un gigantesco pesce poggiato a bocca aperta sul fondale. La città era il cuore del mio disincanto. Prelevavo corpi dall’asfalto, dalle acque dei fiumi inquinati, li slacciavo dalla presa salda di corde spesse, probabilmente fabbricate dalle mani amorevoli di qualche bella donna, con cautela, portavo quei corpi gelidi, via dall’abbraccio della morte, per consegnarli al terreno caldo di qualche camposanto. Facevo il becchino e il volontario in croce rossa. Suicidio. Sempre più suicidi. Come un morbo, un raffreddore, che ti fa starnutire una volta e finisce tutto lì. Quel pomeriggio, venerdi alle 3, la natura si portò via un’anima. Le campane suonavano a morte, non per lui, ma era come se anche a molti chilometri di distanza, ci fosse un velo di lutto steso sul sole. Ciò che è giusto, non sembra mai così di fronte alla morte. La morte non sembra mai né giusta né sbagliata, strappa qualcosa senza il consenso di nessuno e riempie quel buco di rabbia e dolore. Che si può dire a chi si porta dietro quei buchi? Nulla. Poiché non ci sono ragioni, né giustificazioni, né soluzioni. C’è solo un buco, e come tale, possiamo solo rispettarlo e sederci sul ciglio, stringere la mano a chi ci sta a fianco, e guardare nella sua stessa direzione. Chi fosse non aveva importanza. La sua bara saliva per la strada della chiesa, con una lentezza triste e laconica. Butto la sigaretta per terra, sono davanti al portone, tutto intorno a me è grigio. Anche la pioggia. Bellissime donne nel fiori degli anni si impacchettano in abiti che hanno il sapore agrodolce della


morte, curve formose, seni morbidi, stretti in abiti austeri da perfette cattoliche. In fondo alla via sta arrivando il mio nuovo amico, eccolo qua, si avvicina per i piedi. Sputo sul piazzale. Un’altro che torna alla terra, probabilmente senza una ragione. La funzione si svolge senza troppe smancerie, fredda come l’aria di quel giorno, ma un freddo rispettoso, un silenzio che si riserva solo per le tombe rispettabili. Lo accompagnammo lontano, in quegli ultimi chilometri sulla terra. Cosa è giusto, non dipende da noi, non ci è dato di conoscere gli equilibri della natura. Possiamo solo non arrenderci, e quando è il momento possiamo solo alzarci dai nostri buchi e abbandonare quei crateri alla loro desolazione, ce li portiamo dietro, ma nel tempo si coprono di fiori.


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