PELLEMARCIA “La gente normale non si sveglia improvvisamente rischiando di soffocare nelle proprie cellule. Io ero una persona normale. Poi arrivò lei e cambiò tutto.” L'espansione dell'epidermide! Ecco quello che stava accadendo! La mia pelle si riproduceva come gomma molle, colava dai miei arti e cominciava a rifoderare la poltrona su cui stavo, e aumentava esponenzialmente e s'espandeva, mentre io cercavo con le mani di contenerla in qualche modo. Ma era come recuperare cera sciolta e anche se la riportavo verso il mio petto, lasciava strisciate oleose di grasso dietro il suo passaggio. Quella maledetta strega! Era lei, io lo sapevo. Questa cosa andava avanti da anni ormai. Ah ma ora basta, ero stufo, stufo! Era giunto il momento di fare qualcosa. Ahh, stavolta gliele avrei cantate! Dovevo solo capire come alzarmi da quella poltrona a cui mi stavo appiccicando. Per fortuna c'era del nastro adesivo sul tavolino di fronte a me, di quelli neri per i tubi idraulici. Era perfetto! Per una volta Antonia, la mia governante, ne aveva fatta una giusta. Quella donna aveva un concetto di ordine tutto suo, con cui non solo non ero d'accordo, ma non riuscivo nemmeno ad interferire; per lei, finché si lasciavano le cose dove stavano, la casa era in ordine. Questo ovviamente implicava uno stato di caos perenne in ogni stanza. Cercai di arrivare al tavolino tendendo la mano, ma appena allungai il dito indice, mi prese una fitta alla cassa toracica. Il peso della pelle, che penzolava da quello che fino a poco prima avrei chiamato mento, si appoggiava al costato bloccandomi il respiro. Nei polmoni passava un esiguo filo d'aria. Tornai seduto com'ero, schiena contro la poltrona. Cominciò a colarmi il polpastrello, rischiando di sgocciolare sul mio tappeto persiano. Tirai indietro il braccio. Il naso mi stava scendendo all'ombelico ed era parecchio fastidioso, cercai di grattarlo come potevo cercando di rimetterlo in posizione. Mi sentivo come una mozzarella nel microonde ed era veramente una pessima sensazione. Poi la vidi: la pinza per girare i tizzoni del camino. Si era incastrata fra i cuscini della mia poltrona. Con una mossa rapida la sfilai e mi buttai sul nastro adesivo come un cowboy. Sembravo un budino pronto ad inglobare una formica, ma ce l'avevo fatta! Portai il rotolo ai denti e cominciai a tirare con movimenti rapidi della mascella. Sudando come una medusa sul bagnasciuga, cominciai a passarmi il nastro tutto intorno al petto. La pelle sbrodolava fuori ovunque e ormai era arrivata più o meno a ricoprire tutto il mio costosissimo persiano; mi venne una fitta all'anima, ma cercai di controllare almeno l'emotività, dovevo mettermi il cuore in pace perché non l'avrei più salvato. Passai tutto intorno alle braccia con il nastro e ne misi un giro anche sulla fronte, cercando di non farmi cadere troppa pelle sugli occhi. “ANTONIAAAAA!” strillai con tutta la voce che avevo in corpo. “ANTONIAAA MUOVITIIII!” il mio respiro era affaticato, come quello di un grassone prossimo ad un endema polmonare. Dopo qualche secondo di assoluto silenzio, sentii il suo strisciare lento e morente lungo il corridoio. Swiish swiish, mi sono sempre chiesto perché non le ho preso dei pattini. Cercai di instillare un po' di fretta nel corpo di quello zombie casalingo che stipendiavo mensilmente. “ANTONIA PERDIO SE STESSI MORENDO FARESTI IN TEMPO AD ARRIVARE PER IL FUNERALE!!” Il ciabattare si bloccò davanti alla porta del salotto. Per un momento sperai di non averla offesa. Sentii i cardini scricchiolare ma, non potendo girarmi, aspettai. La conferma che fosse lei arrivò poco dopo. “Siiiiiiiiii?” me lo disse con la sua solita vocetta miserabile, era un sibilio velenoso per le mie orecchie, un solletico dritto al timpano. Decisi di passarci sopra, almeno per il momento. Antonia continuava a non essere nel mio campo visivo. “Antonia, che cazzo, non mi vedi? Dammi una mano.”
Strisciò fino al limitare della mia pelle. Io la guardai impaziente. Lei non aveva intenzione di andare oltre. “Oh mannaggia Antonia, non stare lì impalata come una carcassa appesa, avanti vieni qui! Ho bisogno non vedi? Calpestami pure! Camminami sopra, basta che vieni qui!!” Antonia, fece una smorfia un po' schifata. “E' ancora quella donna signore?” disse mentre tirava fuori dal grembiule un paio di guanti di plastica per pulire il bagno; poi mise due sacchetti di carta sopra le scarpe, usando per chiuderli anche l'ultimo giro del mio preziosissimo nastro adesivo. Io mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. “Si Antonia, é proprio lei, anche stavolta.” Antonia si avvicinò a me con delle mollette da bucato. Avevamo elaborato una strategia di sopravvivenza: per cercare di muovermi nello spazio, era necessario arginare l'avanzo di pelle che proseguiva a crescere e le mollette erano perfette per questo mestiere. Poco dopo, a lavoro finito, mi guardai allo specchio del salotto, sembravo un drago, o una lumaca a seconda dei gusti. Tutta la mia pelle era pinzata effetto lifting dietro la nuca e sulla schiena, tenuta da centinaia e centinaia di mollette colorate, come fosse stata una gigantesca spina dorsale, e l'abbondante bozzo che avanzava, che ricordava il corpo molle di una lumaca, rimaneva penzoloni come uno strascico. Così, decidemmo di isolarlo e impacchettarlo nei sacchi di plastica che si usano per mettere sottovuoto i vestiti ingombranti al cambio invernale degli armadi. Per fortuna Antonia, patita di televendite, li aveva acquistati in quantità (a mio insaputa, come al solito). Mentre mi muovevo per casa addobbato in quel modo veramente ridicolo, lei mi seguiva con tutti gli strumenti utili: l'aspirapolvere per fare il sottovuoto, i sacchi di scorta, e le mollette per continuare ad arginare i miei mali. Andai in bagno per lavarmi i denti, con Antonia dietro che aumentava il numero delle prolunghe dell'aspirapolvere. L'igiene prima di tutto. Quella strega mi avrebbe sentito. Figlia di satana. Immonda creatura. Sputai il dentifricio nel lavandino, e lasciai che Antonia se la sbrigasse anche con quello. D'altra parte, la pagavo. Vi spiego. Tutto iniziò 3 anni fa. Era un freddo giorno di dicembre e stavo andando al cimitero dai miei. Non avendo trovato di meglio, avevo solo un paio di rose mosce in mano. Appena entrato mi investì una folata di neve a sbuffo, trascinata giù dal tetto di fronte. Avevo neve in ogni parte del corpo, compreso il collo della giacca, così appoggia le rose ad una tomba e mi scrollai di dosso i fiocchi. Dopo essermi pulito il viso, vidi davanti a me una bella ragazza, magra, con un sorriso dolce e gli occhi verdi, magnetici. I capelli erano neri e morbidi. Era di una bellezza disarmante. Provai una sensazione strana di calore in mezzo al petto. Mi girai in tutte le direzioni, nel cimitero eravamo solo noi due. Provavo per lei un'attrazione difficile. La vidi guardare le rose su quella tomba a me sconosciuta, le labbra rosse si aprirono in un sorriso vero. Aveva i denti bianchissimi. “Sono per me?”. Io la guardai un po' interdetto. Pensai che forse aveva preso un colpo in testa. La sua presenza aveva già cominciato ad irritarmi, così tagliai corto. “No signorina mi spiace, sono per i miei genitori” e mi chinai per recuperarle. Il suo sorriso si spense in un lampo, mi bloccai. Mi guardò e rispose con estrema lentezza. “Non toccarle. Sono mie! Me le avevi promesse!” I suoi occhi erano mutati in pochi secondi dalla felicità alla delusione e ora erano al punto del furore. Io la guardai, doveva essere davvero impazzita. Ma siccome in fondo non mi riguardava, ritornai in basso a recuperare i fiori.
Lei continuò: “Henri Percival mcClarck, non toccare quelle rose!” Improvvisamente smise di nevicare e il cielo cominciò a rabbuiarsi, il vento le muoveva i capelli come i serpenti in testa alla Medusa. Mi stavo cagando sotto. “C-c-come... Ehm.” mi schiarii la voce.” Come sai il mio nome?” Lei non rispondeva. Quell'atmosfera era irreale, mi strinsi nel collo della giacca. Ci fissammo per un po' negli occhi, poi lei si addolcì. “Amore mio!” Mi corse incontro e mi abbracciò con tutto quel suo esile corpicino. Le diedi un paio di pacche sulla spalla, di medio conforto, e l'allontanai. “Cosa stai facendo?”. Me lo disse come se fosse stata la cosa più normale del mondo passare due minuti abbracciato ad una sconosciuta. Doveva avere dei seri problemi. Comunque, ero deciso a non farmi intimorire, soprattutto in vista del temporale che il cielo prometteva, così, rapido, presi in mano le rose e feci per andarmene. Ma il seguito non fu piacevole. Prima mi punsi con le spine. “AHIA!” Gettai istintivamente i fiori lontano. Si trasformarono in due serpenti neri e strisciarono sotto ad un cespuglio. Il mio cuore era schiacciato contro le tonsille. Guardai impaurito quella strega mentre arretravo, scivolai e caddi a terra sbattendo la testa. Prima di perdere completamente i sensi, sentii la voce di lei sussurrare: “Ti stavo cercando. Oh, caro il mio Henri, ti ricorderai di me. Finirai per ricordarti cosa mi hai fatto.” Bianco. Fine della proiezione, fine della pellicola. Una volta sveglio, intontito, mi accorsi che ero caduto sulla tomba di marmo nero su cui avevo poggiato le rose. Mi vennero in mente le ultime vicende sotto forma di flash. La testa mi faceva un male cane così portai una mano alla fronte e vidi che c'era del sangue, dovevo essermi tagliato. Mi girai verso la tomba, le rose stavano ancora lì. Alzando lo sguardo trovai il punto in cui dovevo aver sbattuto perché c'era del sangue. L'epitaffio portava questa scritta: “Elisabetta Foschi 1898-1972 morta aspettando il suo amore, e ancor non si arrende che possa la morte unirli in pace.” Il mio cervello fece collegamenti strani tra quel nome e il volto della ragazza dai capelli neri. Poi mi dissi che, probabilmente, dovevo essere scivolato e aver sognato tutto mentre ero svenuto. Niente di più sbagliato. Due mesi dopo ero in lavanderia, fissavo l'oblò coi panni, girare di un moto nauseante e ripetitivo. Lo scroscio d'acqua delle lavatrici era una nenia alienante, io ero stanco per la mole di lavoro che avevo addosso e la tensione mi portava spesso all'insonnia. Ce l'avevo la lavatrice a casa, ma quel piccolo angolo dove entravi sporco e uscivi pulito, mi permetteva di riposare almeno per una ventina di minuti, e una volta finito mi sentivo quasi un uomo nuovo. Comunque, stavo iniziando a chiudere gli occhi, quando sentii il campanellino della porta d'ingresso seguito dall'inconfondibile passo di donna armata di tacchi. Aprendo gli occhi vidi una bella ragazza con un basco rosso, avvolta in una larga sciarpa. Passando mi diede un'occhiata con quegli occhi da incantatrice. ERA LEI. Non potevo fare a meno di fissarla, tenerla d'occhio mentre lavava i suoi vestiti. Ero un serpente ipnotizzato. Sfoggiò un sorriso dolce e mi disse: “Ci conosciamo?” Io aprii la bocca ma non sapevo che dire. Forse, pensai, era stato solo un incubo.
“No, non ci conosciamo, piacere, Henri.” Mi sembrò di percepire qualcosa, come un lampo maligno, un bagliore, che finì subito mangiato da quel sorrisetto da pubblicità mentadent. “Oh piacere, Elisabetta” disse lei “Di dove sei?” Strinse la sua mano fredda e delicata alla mia. “Galles, ormai è sette anni che lavoro in Italia.” La vipera sorrideva. Elisabetta! Pensava davvero che fossi così stupido? Dovevo saperne di più, avevo bisogno di capire le intenzioni del suo malsano gioco. La mia lavatrice finì la centrifuga e fece un rumore simile ad una nave che getta l'ancora. Colsi quel suono come una scusa per prendere una decisione alla svelta. Le chiesi se aveva voglia di andare a mangiare qualcosa, una volta finito anche il suo bucato. Accettò. Stavamo seduti uno di fronte all'altro. Passai la sera a riempirla di domande, alternando diverse battute per stuzzicarla, nel tentativo di carpirle informazioni. Lei sembrava sinceramente a suo agio, nessun lampo malvagio passò dietro al verde dei suoi occhi. Io di anni ne avevo 42. Non ero proprio un bell'uomo. Pensai che non poteva avere alcun interesse nei miei confronti, e che quindi, l'unico motivo per cui stava seduta davanti a me, era che ci avevo preso. Lei doveva essere la ragazza del cimitero. Ipotizzai una doppia personalità. Una sorella gemella. Cercai indizi. Mi sentivo quasi ossessionato. Quella sera non ottenni nulla, se non un ipotetico appuntamento perfetto. Ci scambiammo i numeri di telefono ma non la chiamai mai. La rividi al supermercato un giorno. Mi guardò con odio, svoltando nella corsia senza nemmeno salutarmi. Un giorno mi si presentò a casa. Entrò come se l'appartamento fosse stato suo e si sedette sulla mia poltrona preferita. Si accese perfino una sigaretta. Mi guardò di nuovo con quegli occhi che ricordavano due trapani. “Lo sai che sei mio, vero?” Io le feci la cortesia di non rispondere. “Prima che tu nascessi di nuovo, eri il mio futuro sposo. Mi avevi promesso delle rose dopo la guerra” abbassò lo sguardo e colsi un istante di amarezza. “Ma non sei mai tornato.” concluse. Si alzò in piedi e mi carezzò il mento avvicinando le sue labbra alle mie. Sentivo un'insostenibile attrazione portarmi verso il suo viso. Desideravo baciarla. La sua presenza in casa mia non mi sconvolgeva, ed era un fatto strano, conoscendomi. Parlava lentamente, godendosi a fondo quel momento. “Mi sei sfuggito con la morte.” e prese a camminarmi alle spalle. “Per fortuna il Male è giunto in mio soccorso.” me lo sussurrò all'orecchio sinistro, scivolando subito via come vento fresco. Io non ero in grado di parlare, né pensare. “Tu sei roba mia, e questo non cambierà mai. Anche se non lo ricordi, nel tuo fegato lo sai.” La sentii giocare con i miei soprammobili. Spostarli. Mi girai verso di lei. Si stava guardando allo specchio con orgoglio. “Le tenebre mi hanno dato la possibilità di proseguire la vita dopo la morte. E ora posso piegare le stupide regole di questo mondo, al mio volere.” Si girò di nuovo verso di me. I suoi occhi erano un distillato di energia maligna. Spense la sigaretta in un piattino d'ottone del 1800 e si avvicinò con una falcata marziale. Si fermò sotto al mio naso, senza staccarmi gli occhi di dosso e il suo tono era duro: “Ho venduto la mia anima per te. Non pensare che mi fermerò adesso. Sarai tu a venire da me.” Io ero impaurito. Percepivo che, in parte, aveva ragione: sarebbe andata così. Si girò e uscì sbattendo la porta, forse per urlarmi che per il momento era finita, ma solo per il momento. Da lì, una volta al mese me ne combina una, da tre anni, giusto per ricordarmi la scadenza, il conto alla rovescia. Ma questa volta era troppo, dovevamo finirla. Aprii la porta di casa e strisciai lentamente fuori. E io... oh cazzo!
Io stavo andando da lei. Mi bloccai sulla tromba delle scale, Antonia mi cadde addosso con tanto di aspirapolvere. Non potevo andare da lei. Mi guardai. Non potevo nemmeno rimanere così. La sua profezia si stava avverando. Strega maledetta! Cosa avrei fatto ora? Come sarei potuto uscirne? Poi mi fu tutto improvvisamente chiaro. Lei non avrebbe mai ceduto e questa cosa sarebbe solo peggiorata col tempo. Mi avrebbe comprato con la forza, pezzo dopo pezzo, fino a quando anche il mio cuore non sarebbe stato suo. Sarebbe comunque finita così. Io avrei ceduto. Mi aveva fregato. O forse mi ero lasciato fregare. Non sapevo più distinguere le cose. Improvvisamente mi lasciai andare come schiuma da barba che cade nel lavandino. Stavo lì, un triste agglomerato umano, un corpo fatiscente, la pelle sbrodolata ovunque e mollette e sacchetti di plastica. Antonia rientrò in casa lasciandomi solo. Ero in una condizione veramente patetica. Mi portai le mani a quello che doveva essere il mio volto ma non sapevo più che fosse. “Forse a volte si vince anche con la resa” pensai. Napoleone un giorno aveva detto “Non dobbiamo ostinarci nel voler padroneggiare le circostanze, ma piuttosto piegarci ad esse. Nella vita abbiamo molti progetti e poche determinazioni. Bisogna accettare le cose per quello che sono, non quali si vorrebbero che fossero.” Una minuscola parte di me, sussurrava dal profondo che io avevo bisogno di lei, solo che non lo volevo accettare. Io lo sapevo che esisteva quella sensazione, covavo questo pensiero in segreto. Non mi ero mai dimenticato dei suoi occhi. Ero già suo. Ma io la odiavo. AH SE LA ODIAVO! Mi aveva distrutto, come uomo, come persona. Lei era il MALE, il vento della sventura, eppure... Riaprii gli occhi. Lei stava sul pianerottolo e mi guardava. I suoi occhi gridavano una vittoria che già conosceva, che già aveva assaporato negli anni, lentamente, con le viscere. Si avvicinò e mi tese la mano. Dio se era bella. Io le diedi la mia. Mi aiutò ad alzarmi e, una volta in piedi, ero tornato uomo, con un corpo integro. Ci fissammo per un po' in silenzio e lei mi sorrise. Sentii il profumo dei suoi capelli e pensai che forse l'amavo, forse l'avevo sempre amata. Vite vissute prima, rose, promesse, che ci fossimo già amati o meno, erano tutte cose secondarie. Pensai che forse la odiavo proprio perché avevo capito subito di amarla. Non era cominciata in un modo comprensibile, forse nemmeno nel migliore dei modi.Mi girai a guardare la porta d'ingresso. Mi sembrava già distante, come appartenente ad un'altra vita. Quella mano, la mia mano stretta alla sua, era la firma alla fine di un contratto, il timbro della resa. E così, nel totale silenzio, mi portò via. Aveva vinto. Forse avevo vinto anche io, in fondo. Credo, alla fine, che l'amore abbia strane forme e modi assurdi di manifestarsi, e non é così perfetto come ci raccontano. Dopotutto, non ha forse il sole, anch'esso le sue macchie? Due giorni dopo, sulle scale di casa sua, venne trovato il corpo privo di vita di un uomo di 45 anni. Il colpo alla testa l'aveva ucciso. Forse un malore, é scivolato, dissero. Sul volto, gli occhi ben aperti, aveva stampato ormai indelebile, un sorriso di vittoria.