IL TEATRO dei topi

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IL TEATRO dei TOPI. “E ora, posa i tuoi occhi neri su di me. Quegli occhi intensi e pieni. Lascia che le braccia siano rilassate, smettila di guardarmi con quell'aria di rimprovero! "Io non sono nulla! Nulla! Nulla senza questo posto! Per questo non posso andarmene!" Ma so che i tuoi occhi rotondi e ampi, vedono fino a 100 metri sotto la mia pelle. Mi esplori come una sonda chirurgica. Mentirti è inutile, mentre raccogli le tue cose e cominci già a sognare distante, io mi stringo nel mio bacino. I tuoi occhi neri mi forano le spalle, ma devo continuare a far finta di niente. Tornerai. Un colpo secco. Hai fatto cadere il mio elefantino di ceramica mentre chiudevi la porta. Ci tenevo. I cocci sembrano gusci di uova senza tuorlo, vuote, come me. Li stringono forte sotto il peso di un pugno. Sento una goccia di sangue finire sul parquet scuro. PLICK. Tornerai. Anche se so che non è vero, tornerai. Il mio mondo ha le sue regole e le sue verità, e io sono suo cittadino e schiavo. Tu lo sai. Tornerai.” 2 ore dopo ero sdraiato a letto. Il soffitto vorticava arrogante. La mia pancia era un calvario, una via crucis di vino che vagabondava su e giù per il mio apparato digerente. Era andata così. La mia editrice mi aveva lasciato. Ero un uomo finito. FINITO. Mi alzai cercando di mettere a fuoco un punto fermo, un'alienante ricerca della mia stella polare. Siccome alla fine mi sembrava di avere davanti solo un cielo annebbiato, mi alzai a occhi chiusi. Mi ritrovai con la faccia a terra un secondo dopo. “Cazzo che male.” toccandomi il naso vidi che ero sporco di sangue. Perfetto. Rimasi sdraiato a terra, con una mano a tapparmi le narici, fino a quando mi addormentai esausto. Sognai d'essere in una palude, bloccato in tutto il corpo, tenevo il mento fuori dal fango con enorme sforzo dei muscoli cervicali. Lei emergeva nuda e prosperosa da tutta quella melma, i capelli lunghissimi castani le coprivano i seni e le cosce fino ai piedi. Io cominciai a nuotare come un cagnolino nel tentativo di non affogare. Lei mi guardò, colsi un sentimento materno dipingersi sul suo volto. “Davide, come ti sei ridotto. Io presi a ridere con isteria. E più ridevo più mi scuotevo per non affogare. “Scusa eh, ho un bel da fare.” Lei si spostò sopra di me, avevo le sue caviglie a pochi centimetri dalla mia bocca. Volevo morderle, me lo ricordo bene. “Devi cominciare a capire che il mondo non sta qui ad aspettare il tuo capolavoro.” Mi mollò un calcio in faccia con violenza brutale e mi risvegliai tra i lamenti. Avevo la mano che stringeva con forza il naso. Non sanguinava più. Mi misi seduto e sudato, a fumare una sigaretta appena girata.


Era storta come un carciofo. Fumavo. Lo sguardo attonito. Tornerai. Tu ancora non lo sai ma tornerai, devo solo resistere. Sopravvivere. Tornerai. Ne sono certo. Mi misi sul fuoco la caffettiera. Seduto al tavolo di casa mia, caffè alla mano, proseguivo la mia psicoanalisi. “Se lei mi ha fatto una proposta del genere non mi conosce. Non ha capito nemmeno lontanamente chi sono.” Guardai i libri che avevo sulla mensola. “Io sono un topo. Un topo da biblioteca, un ratto che vive fra i buchi delle pareti, e sta lì a brulicare e proliferare nella sporcizia. Ma nelle mie di pareti! Sto bene dove sto, con le mie cose, le mie sicurezze.” Lei è diversa. Io faccio schifo, sono un rifiuto della società, che vive vendendo i suoi pensieri. Anzi nemmeno. Quello lo fa Clara per me. Io semplicemente produco parole battendo su una tastiera. La mia vita questa. Tra lo schermo illuminato del mio computer, il bar sotto casa, i navigli, e i miei pochi e sciatti vestiti nell'armadio. Avevo perso il mio contatto con il reale, l'unica donna che mi avesse mai accettato. Tornerà. Finii il caffè in un sorso. AH SI CHE TORNERA', senza di me non ci sa stare. Per un po' rimasi senza pensieri, qualche secondo, giusto il tempo per far maturare in me, un concetto ben peggiore. Clara serviva a me. Non io a lei. Scoppiai a piangere come un bambino e mi rannicchiai sulla sedia di legno scricchiolante. Clara attingeva dal mio mondo con un secchio e vendeva tutto al mondo reale. Io ero il suo strumento, il suo materiale, la sua industria, la sua puttana. Ero io ad avere bisogno di lei. Lei mi chiamava per ricordarmi le conferenze, gli incontri con la stampa, lei mi fissava gli appuntamenti, leggeva i miei libri e me li ridava pieni di righe rosse. Io litigavo con lei, perché si permetteva di rimestare il mio mondo e dirmi che alcune cose erano inutili, che erano inderogabilmente da abortire, strappava gli arti alle mie creature e io ero sempre costretto a ricostruirle, a ridare forma ai corpi martoriati, finendo per creare mostri bellissimi dai mille tentacoli, innesti disumani in corpi che fino a poco prima non avevano nulla di speciale. Lei era l'artefice delle meravigliose brutalità che componevano le mie storie, non io. Io ero solo il suo burattino. Piangevo come un viziato e inconsolabile adolescente. Il mondo mi stava crollando addosso e io lo lasciavo fare, appoggiando silenziosamente la sua voglia di ripulire il genere umano dagli scarti come me. Darwin ci aveva visto giusto. Clara, il mio vento fresco, la mia stella polare, la mia bussola. Mi ricomposi pieno di dignità. Tornerà. Cercai di sigillare quel sentimento imperioso di sicurezza, con un sorso di caffè, ma la tazzina era vuota. Controllai il telefono, ma lei non chiamava. Si era trasferita da me un mese fa, stava cercando un appartamento a Milano per seguirmi da vicino, per spalleggiarmi, sapeva che stavo passando un periodo difficile. Ma io in fondo, larva qual'ero, mi nutrivo del bruttume del mondo, di tutti quei sentimenti di ansia, depravazione e malessere, propri della nostra società e per scriverne dovevo viverli sulla mia pelle, l'avevo così costretta a scendere i gradini dei miei inferni personali, e lei mi aveva seguito. Aveva


sopportato. La mia vita era una perenne tragedia, allestita su un palcoscenico di cui ero attore, esaminatore e spettatore unico. Mi annotavo “questo si questo no” E lei, unico barlume di sole, ogni volta, finita la rappresentazione, mi prendeva per mano e mi riportava all'aria aperta, fuori dal mio teatro personale. Ora il palco era crollato e io ci stavo sotto. Clara partiva. Partiva per l'America e voleva portarmi con sé. Tutto quello che ho sempre odiato, scartato, rifiutato, appartiene a quella terra infame. Non avrei mai potuto poggiare un piede su quel suolo, senza vomitare e prendermi a schiaffi, senza sentirmi un uomo terribile i cui principi divengono carta igienica nell'acqua del cesso. Sciolti miseramente tra i detriti umani. No. Io non potevo partire e Clara sarebbe tornata. Dopo quattro interminabili giorni di assoluto e totale silenzio, mentre io militavo nella mia roccaforte contenendo imbrigliato il mostro che avrebbe voluto chiamarla, mi squillò il telefono. Io ormai stavo in uno stato di totale degrado psicofisico. Bevevo vino tutto il giorno e mangiavo raccattando del pane a fette dalla credenza, con un paio di salumi di dubbia provenienza poggiati sopra. Non mi lavavo, dormivo quando capitava e passavo il tempo davanti alla tv. Ogni tanto avevo provato a mettermi a scrivere. I risultato fu trovarmi tre file di testo di un paio di pagine, piene di scritte oscene, insulti, pornografia e miserritudine. Se ci fosse stata Clara mi avrebbe guardato con quei suoi occhi neri. Sarebbe bastato quell'occhiata dura e io avrei subito cestinato tutti i file e le avrei chiesto scusa. Lo schermo del telefono continuava ad illuminarsi come una lampadina di natale e, vibrando, si avvicinava sempre più al bordo della scrivania. Mi ci lanciai sopra, scaraventando in giro il piatto di patatine che tenevo in mano. “PRONTO?” avevo il cuore in gola. “Ciao davide” Era lei. Mi misi composto e sorrisi. Lo sapevo che sarebbe tornata. Finsi una voce indifferente e mi aiutai a darmi un tono, fissandomi le unghie con fare superiore. “AH! Clara! Come stai? Pensa che avrei quasi voluto chiamarti...” sorridevo pacioso. Lei stette un attimo in silenzio poi mi rispose. “Si lo immagino. Ti immagino proprio guarda.” Mi aveva beccato anche stavolta. “Hai già conciato casa tua come una discarica popolata da porci?” Io feci un po' di spazio sulla scrivania, tra scatole di pizze, bottiglie vuote e ciarpame, e mi ci poggiai con i miei sporchi pantaloni della tuta. “Ahm... no bè. “ allontanai una mosca con la mano. “Ora ho preso una donna che mi fa le pulizie.” Clara rimase in silenzio, poi probabilmente decise che era meglio passare oltre. “Ho novità, Davide.” il suo tono era serio. Serissimo. “Dimmi.” “Bronson ha letto i tuoi scritti.” Mi si gelò il sangue nelle vene. “STAI SCHERZANDO SPERO! Quel porco ebreo americano avrebbe letto un mio romanzo e vorrebbe essere anche in grado di dire cosa ne pensa??” “L'ho fatto tradurre Davide.” Ci misi un attimo. “Senza il mio consenso???” “Davide non è il momento. Comunque ti vuole parlare, si parla di una grossa pubblicazione e un bel contratto. Domani hai il volo, 10.30 del mattino. Da Orio. Vedi di non perderlo. Il taxi arriva da te alle 8 in punto.”


Oh Clara, io lo sapevo che saresti tornata. Possibilmente strisciando. “Tu dove sei?” “Io ti aspetto qui Davide, a Philadeplhia.” Mi misi a piangere, ma non glielo feci notare. “Comportati come si deve in viaggio” Annuii scuotendo la testa, come potrebbe fare un bambino dopo le raccomandazioni della madre. Lei mi attaccò in faccia. Mi alzai sgambettando. Era tornata! Sorridevo felice. Andai in bagno. Avevo dell'insalata tra i denti così li lavai e mi feci la doccia. Era tornata, era tornata da me! Clara mi voleva ancora. Preparai la valigia tutto entusiasta. Oh Clara, quale essere magnifico che sei. Per te posso anche venire in America, in quella terra indegna, impregnata di moralismi e schifezze. Per te posso fare anche questo, uno, due giorni, non di più, e poi torniamo a casa insieme. Oh Clara! Sei la mia madonna, la mia vergine santissima. Misi un paio di mutande in borsa, ero su di giri. Mi citofonò il postino, aveva una busta. La aprii. Dentro c'era un biglietto aereo. ORIO-LAS VEGAS, LAS VEGAS-PHILADELPHIA, datati per il giorno successivo. Clara era sempre dalla mia parte. Ero sull'aereo, sorriso stampato in volto. Oh Clara. Mi squillò il telefono poco prima della partenza. Era lei. “PRONTO?” “Ciao tesoro. Sei sull'aereo?” “Si certo.” “Bene. Ti ho prenotato una stanza in un ostello per i primi tre giorni.” Mi si gelò il sangue. “Che vuol dire per i primi tre giorni?” “Vuol dire che per gli altri 9 mesi starai in una villa a San Diego.” Mi venne un groppo in gola. Presi un sacchetto per il vomito dal sedile di fronte e mi preparai. “Clara, per i prossimi 9 mesi?” “Hai capito bene. Devi darmi un libro e starai qui, dove posso tenerti d'occhio.” M'aveva preso per il culo. Me l'aveva fatta. Non ci potevo credere. Raggirato come un bambino. “Le tue cose le sta preparando una signora fidata, i bagagli partono con il prossimo aereo. Ci vediamo qui tra qualche ora. Buon viaggio”. E appese. Non mi capacitavo. Fermai un'hostess e mi feci portare del vino. Guardai fuori dal finestrino. L'ultimo pezzo di terra italiana si allontanava dalle ruote dell'aereo. Che mostro. Che mostro meraviglioso che era Clara. Io ero il suo pupazzetto, avrebbe potuto, fare in qualsiasi momento, della mia mente e del mio corpo, ciò che preferiva. Aveva la capacità di rimestarmi tutto e smontarmi, per poi abbandonare i miei pezzi di poco conto, alla mia capacità di rimontaggio. Che essere demoniaco che avevo al mio fianco! E portava le mie catene.


Quella terribile terra americana mi aspettava, e io avrei combattuto fino all'ultimo, con i piedi nel fango, per tornare a casa, mentre la mia padrona vestita di pelle nera, avrebbe frustato a sangue qualsiasi ostacolo, portandomi ancora una volta, allo stremo delle forze, verso il prossimo obiettivo. Ero pronto. Il libro, l'avrebbe avuto al massimo in un mese. Ero la sua mucca da allevamento. Se lei mi avesse detto produci 100 litri di latte al giorno, io glieli avrei dati. Lei era la mia fortuna. Già avevo pronta una nuova storia e sarebbe cominciata così: “Sento una goccia di sangue cadere sul parquet scuro. PLICK. Tornerai. Anche se so che non è vero, tornerai. E alla fine, fui io a partire.”


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