Corpo, doppio e ombra nell'Antropologia delle immagini di Hans Belting

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‘Corpo’, ‘doppio’ e ‘ombra’ nell’Antropologia delle immagini di Hans Belting

Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia (LM-78) Cattedra di Estetica

Candidato Francesco Marchini N° matricola 1325881

Relatore Prof. Luca Marchetti

A/A 2016/2017

Correlatore Prof. Stefano Velotti


‘CORPO’, ‘DOPPIO’ E ‘OMBRA’ NELL’ANTROPOLOGIA DELLE IMMAGINI DI HANS BELTING 1. UOMO E CORPO COME TEMI DELL’ANTROPOLOGIA DELLE IMMAGINI i.

Per un’antropologia dei media visivi………………………………………………… p. 1

ii.

Antropologia storica e antropologia dell’immagine……………………………. p. 6

iii.

L’uomo come luogo di immagini……………………………………………………... p. 10

iv.

Immagini interne e immagini esterne……………………………………………… p. 13

v.

Immagine, immaginazione, immaginario…………………………………………. p. 15

vi.

Ört der Bilder?.................................................................................................................. p. 18

2. L’INTERPRETAZIONE MEDIALE DELL’IMMAGINE. IL RAPPORTO TRA CORPO E MEDIUM i.

La necessità di un nuovo concetto mediale……………………………………….. p. 20

ii.

Il bisogno dei media…………………………………………………………………............ p. 25

iii.

Immagine e morte…………………………………………………………………............... p. 27

iv.

Medium e inter-medialità…………………………………………………………………. p. 31

v.

Mimesi e simulacro………………………………………………………………………….. p. 33

3. PERCEZIONE FIGURATIVA E TECNICA MEDIALE. LA QUESTIONE DELL’ANIMAZIONE i.

La messa in scena mediale e la percezione simbolica………………………… p. 38

ii.

Sintesi, analisi e attualità della percezione………………………………………… p. 41

iii.

La differenza tra immagine e mezzo. L’anacronismo dell’immaginazione……. p. 45

iv.

Il problema del medium…………………………………………………………………..... p. 49

4. CATTURARE IL CORPO IN IMMAGINE. SUPERFICI NATURALI E IMMAGINI TECNICHE i.

La questione della tecnica…………………………………………………………………. p. 55

ii.

Doppio e picture-making………………………………………………………………….... p. 57

iii.

Per una genealogia dei mezzi figurativi……………………………………………… p. 60


iv.

Immagini tecniche………………………………………………………………….................. p. 63

v.

Immagini tecnologiche. I media contemporanei…………………………………... p. 67

5. L’IMMAGINE DELL’UOMO. IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO i.

Per una logica dell’apparenza corporea………………………………………………. p. 73

ii.

Costruzione e decostruzione dell’immagine del corpo…………………………. p. 78

iii.

La questione del ritratto borghese………………………………………………………. p. 82

iv.

Crisi dell’analogia………………………………………………………………………………. p. 86

6. LA DOTTRINA DELL’OMBRA NELL’ANTROPOLOGIA DEI MEDIA i.

Per una fenomenologia dell’ombra…………………………………………………….. p. 91

ii.

L’estraneità dell’immagine………………………………………………………………..... p. 93

iii.

La dottrina ontologica dell’ombra……………………………………………………….. p. 97

iv.

Il problema dell’eidolon……………………………………………………………………. p. 100

v.

Lo statuto dell’immagine-ombra nella commedia dantesca………………... p. 103

vi.

La Bild come simulacro…………………………………………………………………….. p. 108

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A Edoardo Ferrario e Daniele Coralli


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Primo capitolo ‘Uomo’ e ‘Corpo’ come temi dell’Antropologia delle immagini 1. Per un’antropologia dei media visivi Tra i numerosi richiami alla ‘questione dell’immagine’ sorti durante gli ultimi decenni in seguito all’iconic turn e all’emergere dei cosiddetti visual culture studies, il progetto di una Bild-Anthropologie, ossia di un’antropologia dei media visivi, si distingue per le questioni che contribuisce a sollevare1. Tale approccio è l’esito di un lungo percorso di ricerca, iniziato da Hans Belting negli anni Sessanta e Settanta e tutt’ora in corso. Lungo questa strada la problematica dell’immagine (Bildfrage) è emersa solo gradualmente, come segno evidente di un mutamento di prospettiva che ha portato lo studioso ad estendere i propri interessi dal campo degli studi storico-artistici al campo dell’immagine in senso ampio2. Nel caso di Belting, si tratta inizialmente dell’attenzione critica rivolta nei confronti della propria disciplina, che avviene già nel 1983 con la formulazione della tesi di una «fine della storia dell’arte» (Kunstgeschichte)3. Contrapponendosi alla storia dell’arte ‘tradizionale’, fortemente influenzata dal modello vasariano, Belting suggerisce di abbandonare il presupposto di un singolo processo unidirezionale, all’interno del quale 1

H. Belting, Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Wilhelm Fink Verlag, München,

2001.; ed. it. Antropologia delle immagini, a cura di Salvatore Incardona, Carocci, Roma, 2011. 2

Per un’adeguata contestualizzazione della prospettiva di Belting si veda: A. Pinotti, A. Somaini, Teorie

dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano, 2009; M. Rampley, Bildwissenschaft: Theories of the Image in German-language Scholarship, in Aa.Vv., Art History and Visual Studies in Europe. Transnational Discourses and National Frameworks, Brill, Leiden-Boston (2012), pp. 119-134; L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, in «Leitmotiv» 4/2004, pp. 29-50; L. Vargiu, Hans Belting e lo sguardo dell’etnologo, in Ricerche di storia dell’arte, N. 94 (2008), Carocci, Roma; G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, in G. Matteucci (cur.), Antropologie dell’immagine, Discipline filosofiche, XVIII, 2 (2008), Quodlibet, Macerata; C. Severi, Pour une anthropologie des images, in L’Homme, Revue Française d’Anthropologie, 165, 2003; G. Didi-Huberman, Pour une anthropologie des singularités formelles. Remarque sur l’invention warburgienne, in Genèses, Vol. 24, N. 1, 1996. 3

Belting ha dedicato a questo problema due libri, usciti a dieci anni di distanza ma con lo stesso titolo. Si

veda a tal proposito H. Belting, Das Ende der Kunstgeschichte? Überlegungen zur heutigen Kunsterfahrung und historischen Kunstforschung, Munchen, 1983; ed. it., La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, Einaudi, Torino, 1990; e H. Belting, Das Ende der Kunstgeschichte. Eine revision nach zehn Jaren, Munchen, 1995, (2002).


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inserire opere e artisti come momenti di uno sviluppo necessario4: se da una parte egli “svela” la storia dell’arte “tradizionale” come un determinato episodio storico, da integrare in una più ampia ‘Scienza dell’Immagine’ (Bildwissenschaft), dall’altra egli propone di guardare ad essa, in modo nuovo, come a un insieme di «vari processi differenziati che mutano costantemente direzione e si sostituiscono l’uno all’altro», e che pongono la necessità di adottare una «concezione, basata antropologicamente, che considera la produzione artistica quale paradigma dell’attività umana»5. Alla messa in questione dello statuto disciplinare della storiografia artistica – così come alla riflessione sul posto che ad essa è dato occupare oggi – si accompagna infatti un programma per certi versi “liberatorio”, consistente nella necessità di dover oltrepassare il territorio della storia dell’arte, indagando la produzione artistica umana insieme al posto che le immagini occupano, in un senso più ampio, nella cultura; si tratta, cioè, di indagare l’uomo come produttore e fruitore di immagini. Aprendo lo studio dell’immagine alle prospettive inaugurate dal contestualismo, dal funzionalismo e dalla teoria della ricezione Belting inizia, già a partire dagli anni ‘80, a congedarsi dalle formule tradizionali della storia dell’arte e ad incamminarsi verso un approccio multidisciplinare – compiendo così il primo passo verso eine allegemeine Bildwissenschaft, una generale scienza dell’immagine in grado di riformulare, entro certi limiti, il progetto warburghiano di una ‘scienza senza nome’6. 4

Ciò che ha in mente Belting quando si riferisce a una storia dell’arte “tradizionale” è quella linea che

collega idealmente tra loro Vasari, Winckelmann e Wolfflin. Scrive infatti: «Ciò che ora è messo seriamente in discussione è quella concezione di una “storia dell’arte” universale e unificata che in diversi modi è servita a lungo sia agli artisti sia agli storici dell’arte. Oggi, spesso gli artisti rifiutano con energia di far pare di una storia dell’arte in corso, distaccandosi cosi da una tradizione di pensiero che, in fin dei conti, fu creata da un artista – Giorgio Vasari – e per gli artisti, ai quali forni un programma comune. Gli storici dell’arte, che fecero comunque la loro comparsa solo molto più tardi, oggi devono accettare un modello storico ideato da altri, oppure sottrarsi al compito di stabilirne uno nuovo per incapacità a identificarlo»; H. Belting, La fine della storia dell’arte, cit. p. XI. 5

G. Valle, Eterotopie dello sguardo, cit., p. 168.

6

A tal proposito si veda G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in La potenza del pensiero.

Saggi e conferenze, Neri Pozza, Milano, 2010. Sta qui parte della differenza che separa la declinazione tedesca dell’iconic turn da quella, ad esempio, anglosassone: «Whereas in America advocates of the pictorial turn, in particular W. J. T. Mitchell, focus on picture, the mass media and refer to Panofsky, by contrast, in Germany, the ‘iconic turn’ focuses on the body as medium and takes Aby Warburg as its obsessive point of reference»; cfr. J. Hamburger, Art History Reviewed XI: Hans Belting’s Bild und Kult:


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È in questo senso che, ritornando a dieci anni di distanza sulle posizioni del 1983, quella che era una domanda di carattere metodologico diventa una perentoria affermazione di principio: «La storia dell’arte una e unica, che in verità non c’è mai stata, si declina oggi in diversi modi, che si contendono l’uno con l’altro il monopolio del significato di arte»7. Così facendo egli sposta l’accento dalla critica metodologica interna alla propria disciplina alle trasformazioni sempre più radicali della società culturale, le quali richiedono con urgenza un mutamento di prospettiva generale. Non solo la storia dell’arte non appare più in grado di comprendere le caratteristiche dell’arte contemporanea, ma si mostra indifferente ai «fenomeni della moltiplicazione e dell’ibridazione dei linguaggi visivi, della globalizzazione dell’iconosfera, dell’implementazione delle tecnologie dell’immagine, della trasformazione delle dinamiche percettive, che richiedono invece un più ampio approccio antropologico»8. È l’arte stessa che, nella modernità avanzata, pone la questione dell’immagine, e dunque l’esigenza di una nuova iconologia critica: Oggi le arti visive affrontano di nuovo la questione dell’immagine, per lungo tempo esclusa dalle teorie dominanti. È l’arte contemporanea che analizza nel modo più radicale la violenza o la banalità delle immagini. In una sorta di pratica visiva dell’iconologia, gli artisti aboliscono la distinzione tradizionale tra teoria dell’immagine e teoria dell’arte, riducendo quest’ultima a una nobile sottocategoria della prima. Una iconologia critica è oggi un bisogno urgente, dal momento che la nostra società è esposta al potere dei mass media in un modo che non ha precedenti9

Ciò detto, rompere con i canoni della storia tradizionale aprendo la questione dell’immagine al discorso sulla cultura e sulla tecnologia non significa rinunciare al concetto di ‘arte’: il senso di una nuova iconologia critica consiste proprio nel porre la questione dell’immagine all’interno della scienza dell’arte stessa (Kunstwissenschaft), oltrepassando quest’ultima senza abbandonarla o rigettarla poiché, agli occhi di Belting, essa «è arrivata al punto di non riuscire più a modificarsi appropriatamente»10. La storia Eine Geschichte des Bides vor dem Zeitalter der Kunst’, 1990, The Burlington Magazine, Vol. 153, No.1294 (January 2011), p. 212. 7

H. Belting, Das Ende der Kunstgeschichte. Eine Revision nach zehn Jahren, cit., p. 200.

8

G. Valle, Eterotopie dello sguardo, cit., p. 168.

9

H. Belting, Image, Medium, Body. A new Approach to Iconology, in «Critical Inquiry», 2005, 31, 2, pp.

302-19; tr. it. Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, in A. Pinotti, A. Somaini (cur.), Teorie dell’immagine, cit., p.76. 10

L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, cit., p. 37.


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dell’arte, insomma, continua ad avere una sua validità, ma limitata ad un fenomeno circoscritto storicamente, e quindi tale da non potersi ritenere come universale. L’invito di Belting, sempre più recentemente, è stato allora quello ad assumere lo sguardo dell’etnologo nei confronti della propria cultura, ossia quella europea, così da superare l’atteggiamento etnocentrico di chi interpreta e giudica le altre culture attraverso la propria. Come nota Vargiu, «è così indicato l’orientamento proposto per l’ambito tradizionalmente inteso come storico artistico, visto ora come qualcosa per il quale occorrono occhi nuovi»11. Dal momento che, per Belting, un’antropologia delle immagini è possibile solo quando si è conclusa l’idea di una storia lineare (con il concetto artistico di ‘rappresentazione’ che esso portava con sé), ecco che è aperta la via per lo studio degli artefatti figurativi della produzione simbolica umana: «La domanda “che cos’è un immagine?” nel nostro caso è diretta agli artefatti, cioè, per fare qualche esempio, alle opere figurative, alla trasmissione dell’immagine e alla diagnostica per immagini»12. A dover essere messi al centro della ricerca sono quelle immagini che prendono posto nello spazio sociale e culturale dell’esistenza umana: effigi, maschere, mummie, ritratti di antenati, statue di culto, tatuaggi e modelli anatomici, fotografie e immagini digitali sono, prima che opere d’arte, il risultato di un’interazione simbolica tra il corpo, la tecnologia e l’esperienza. Non si tratta di rinunciare al concetto di arte né, d’altronde, di rinunciare alla storicità delle immagini: dire che esse non prendono più parte entro una narrazione ‘lineare’ non significa che esse non prendono più parte ad una narrazione tout court. Come sottolinea lo stesso Belting, «il discorso antropologico non è legato a un ambito ben determinato, ma stimola il desiderio di una comprensione dell’immagine il più possibile aperta e interdisciplinare. Allo stesso tempo, fa riferimento a una temporalità diversa rispetto a quella ammessa dai modelli storici evoluzionistici»13. Come vedremo nel corso delle

11

L. Vargiu, Hans Belting e lo sguardo dell’etnologo, cit., p. 30.

12

Ibid.

13

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 20. In particolare, già a partire dagli anni Ottanta, Belting

sembra essere consapevole della crisi di tali modelli temporali: «La storia dell’arte, ovviamente, non è ancora morta come disciplina. Ma oggi, forse, alcuni dei suoi metodi consueti e alcune delle sue formule si sono logorati. Non ha più senso la separazione dei due modelli storico-artistici che trattano o l’arte storica o quella moderna, peraltro secondo paradigmi diversi. E serve altrettanto a poco una rigida struttura ermeneutica che perpetui una strategia dogmatica dell’interpretazione. Forse è più appropriato considerare


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analisi, la “liberazione” del concetto di immagine comporta infatti, da un punto di vista teorico, che questa non sia più legata ad un’unica temporalità, ma possa costituirsi come un oggetto temporalmente sovra-determinato. Come ha ben sottolineato Valle, le immagini di cui parla Belting «interrompono il tempo, configurandosi come delle finestre su ciò che è stato, ma al tempo stesso si proiettano nel presente, dove chiedono di essere mantenute in vita dalla nostra memoria collettiva: il lavoro dell’antropologo delle immagini si situa proprio in questo cortocircuito tra passato e presente»14. Riprendendo le riflessioni sullo spazio di Michel Foucault, Belting intende le immagini come luoghi della memoria che «ci dislocano ed entrano in frizione con gli spazi e i tempi nei quali viviamo abitualmente»15. Le immagini rappresentano spazi e tempi altri, cioè diversi dai nostri: «Appartengono a un’altra epoca e creano un luogo fuori dal tempo nel quale le cose si trovano ancora in un processo vitale»16. Le immagini sono come i cimiteri, le cliniche psichiatriche e le prigioni: ‘luoghi’ che si riferiscono «antiteticamente o alternativamente»17 agli spazi del mondo esistenziale e con i quali entrano in competizione. Le immagini dopo (o prima) dell’era dell’arte si caratterizzano allora come eterotopie, ossia come “cesure” temporali in grado di sovvertire l’ordine del presente: sono aperture, strappi che aprono, come un affaccio, su una temporalità ulteriore in grado di resistere al tempo e di farci rivivere la contraddizione tra un già-stato e un non-ancora. È su questo confine che si gioca il lavoro dell’antropologo delle immagini, che consiste precisamente nel far interagire tra loro immagini di provenienza diversa, sia dal punto di vista geografico che temporale, confrontando le foto con i dipinti, i quadri con le sculture o i reperti archeologici, i ritratti con gli stemmi, i film con i testi e così via. Non a caso, le ricerche che Belting conduce in Bild-Anthropologie si concentrano spesso su figure e periodi che cadono al di fuori dello schema progressivo vasariano, andando ad esplorare come un esperimento permanente l’indagine sul mezzo artistico, sull’uomo storico e le sue immagini del mondo»; cfr. H. Belting, La fine della storia dell’arte, cit., p. 51. 14

G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, cit., p.173.

15

Ibid.

16

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 86.

17

Ivi, p. 82. Si veda in particolare M. Foucault, Des Espaces Autres, in Architecture, Mouvement,

Continuité, 5 (1984), pp. 46-49. Il saggio, elaborato da Foucault per la Conférence au Cercle d'études architecturales (14 marzo 1967) e non pubblicato prima del 1984, è stato poi incluso nell’edizione critica di riferimento degli scritti del filosofo francese. Si veda M. Foucault, Dits et écrits: 1954-1988, IV (19801988), Éditions Gallimard, Paris (1994), pp. 752-762.


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immagini che – prima o dopo la moderna definizione di ‘arte’ – superano le tradizionali categorie epistemologiche e artistiche (ad esempio l’arte come opposta alla tecnica). Al contrario, quando lo sguardo dell’etnologo si esercita sugli episodi e sulle figure della storia dell’arte tradizionale, lo fa per mettere in evidenza «gli elementi di cesura paradigmatica ed epistemologica con la tradizione, e per mostrare che le opere d’arte collocate all’interno dei musei sono solo una piccola parte della totalità delle immagini esistenti»18. Bild-Anthropologie è allora senza dubbio la risposta, complessa e ambiziosa, alle domande che lo studioso si è posto nel 1983: cosa succede quando la storia dell’arte – non credendo più nella narrazione che l’ha sostenuta – giunge alla fine? E come dovrebbero ri-organizzarsi, di conseguenza, le discipline accademiche ad essa legate – in un mondo in cui le relazioni tra arte, cultura e tecnologia sono profondamente cambiate?

2. Antropologia storica e antropologia dell’immagine Il progetto di ricerca che ruota intorno a un’antropologia dei media visivi propone «una fondamentale interrelazione (e anche interazione) tra l’immagine, il mezzo e il corpo (Bild – Medium – Körper) come componenti presenti in ogni tentativo di picture-making»; uno “schema” che si ricollega a quell’antropologia storica dell’immagine che si indirizza principalmente verso «“le statut de l’image, de l’imagination et de l’imaginaire”» e di cui gli studi sull’antichità classica dello storico dell’arte francese J. P. Vernant rappresentano un esempio19. Parlando di questa triade, Belting precisa che non parla né di corpo in sé né di medium in sé: «Entrambi hanno subito continue trasformazioni […] ma nella loro sempre mutevole 18

G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, cit., p 172. Così conclude

Valle: «Viene così a crearsi uno sterminato “Museo immaginario”, che non è sottoposto ai convenzionali criteri di classificazione adottati nei musei reali, del quale fanno parte allo stesso titolo le opere d’arte che abbiamo visto direttamente o quelle che abbiamo conosciuto indirettamente nelle riproduzioni, l’insieme delle rappresentazioni cognitive e sensoriali che si frappone tra noi e quello che vediamo, le immagini che incontriamo nella vita quotidiana, quelle che traiamo dalla memoria collettiva o quelle che fabbrichiamo con dispositivi tecnici»; cfr. Ibid. Si veda a tal proposito A. Malraux, Le Musée Imaginaire, Éditions Gallimard, Paris, 1965; 19

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp.11-2. Si veda in particolare J.-P. Vernant, Figures,

idoles, masques, Éditions Julliard, Paris, 1990; ed. it. Figure, idoli, maschere. Il racconto mitico, da simbolo religioso a immagine artistica, il Saggiatore, Milano, 1990.


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presenza hanno mantenuto il loro posto nella circolazione delle immagini»20. Inserita all’interno di una circolazione mobile, ma costante, la posizionalità dell’immagine non è mai univoca o data in maniera scontata, ma emerge come ‘tensione’ tra le coordinate storiche del corpo e del medium; non c’è mai ‘immagine’ ma sempre ‘immagine+n’ – dove il simbolo matematico indica la necessità di pensare la Bild come ciò che si dà in termini ‘supplementari’, ossia nella differenza, nello scarto che essa istituisce tra il corpo e il medium. Bild-Anthropologie nasce infatti come un progetto di ricerca essenzialmente interdisciplinare, ed è esso stesso, come recita il sottotitolo, a set of drafts (Entwürfe), un bozzetto di schizzi preliminari in vista di una generale scienza dell’immagine (Bildwissenschaft) – termine con il quale Belting intende, come vedremo, una ‘teoria generale dei mezzi figurativi’ antropologicamente fondata. Come tale, questa prospettiva si inserisce all’intersezione di più vie di ricerca, di cui si proverà a rendere conto lungo le analisi: l’eredità di Belting nei confronti dell’antropologia, della filosofia e della storia dell’arte è infatti complessa e, insieme, problematica. Lo studioso stesso prova ad inquadrare la sua prospettiva richiamandosi innanzitutto a quella forma di «“antropologia storica” che ha introdotto una forma moderna di scienza culturale, la quale cerca la propria materia tanto nel passato quanto nel presente della propria cultura. Se prende in esame i mezzi e i simboli che avviano la produzione di significato, allora l’immagine diventa un tema pertinente anche per questa antropologia»21. Alla base di quella che si dichiara essere non una disciplina scientifica, ma «un modo di considerare i fenomeni umani»22, vi è innanzitutto la necessità di superare l’impostazione ‘normativa’ dell’antropologia filosofica classica alla cui base permaneva un’idea ‘universale’ di ‘Umanità’. Secondo Christoph Wulf, le antropologie di Plessner, Gehlen, Scheler, seppure nelle relative differenze, erano impostate secondo il carattere vincolante di una ‘norma’, costituita dalla rappresentazione universale dell’essere umano, sulla cui scorta si cercavano quelle caratteristiche che venivano allo stesso tempo considerate 20

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 75.

21

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 34.

22

C. Wulf, Grundzüge und Perspektiven Historischer Anthropologie. Philosophie, Geschichte, Kultur, in

C. Wulf, D. Kamper (Hrsg.), Logik und Leidenschaft. Erträge Historischer Anthropologie, Reimer, Berlin, 2002, pp. 1099-1122; trad. it. Lineamenti e prospettive dell’antropologia storica. Filosofia, storia, cultura in L’uomo, un progetto incompiuto Vol. 2. Antropologia filosofica e contemporaneità, Discipline Filosofiche, XIII, I, 2003, Quodlibet, p. 71.


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come condizioni costitutive dell’uomo. L’errore che si trova alla base di queste impostazioni, allora, riguarda il fatto che «l’uomo universale di cui tratta l’antropologia filosofica non c’è, ma che gli uomini vanno rintracciati solo in prodotti storici e culturali»23. Al contrario l’antropologia storica cerca, invece, di porre in relazione la storicità delle sue prospettive e dei suoi metodi di ricerca con la storicità del suo oggetto: l’Uomo. In questo senso «non sono più, dunque, la posizione dell’uomo nel cosmo, il confronto con l’animale e con la macchina, a stare al centro dell’antropologia. In luogo di ciò le ricerche storico-antropologiche studiano la molteplicità culturale della vita sociale […]»24. Centrale, in questo senso, è il ruolo del corpo, che viene indagato come una costruzione storica e culturale, ossia in riferimento a quelle rappresentazioni (Korpervorstellungen) la cui storia, all’interno della cultura occidentale, fa riferimento ai rapporti di potere, sapere e volontà che lo hanno determinato – influenzando così ogni volta il concetto di ‘Uomo’. Ora, anche Belting, proponendo un approccio antropologico, riconosce l’intrinseco carattere storico-culturale della ricerca e, allo stesso tempo, del suo oggetto, in termini non dissimili da quelli appena visti, assumendo un atteggiamento polemico, lungo tutta l’opera, nei confronti di coloro che sostengono una ‘norma universale’ tanto di uomo (o di corpo) quanto di immagine. E tuttavia proprio questa tensione, occorre rilevarlo sin da subito, non risulta essere pienamente risolta all’interno della sua opera: elaborando prima di tutto un discorso sull’anthropos, di cui viene mostrata l’essenziale relazione, biologica e culturale, con l’immagine, Bild-Anthropologie si propone il compito di indagare il significato simbolico del fare-immagini (picture-making) umano, prassi millenaria che coinvolge l’anthropos nella totalità della sua esperienza. Il problema è allora la Bild intesa come funzione essenziale, “ponte” tra natura e cultura all’interno del mondo dell’uomo, la quale però risulta essere indagabile solo nella storicità e nella concretezza delle sue 23

Ivi, p. 68

24

Ad essere caratterizzante, nel caso di questa impostazione, è il processo di «autocomprensione» culturale

che opera nel riconoscimento della storicità delle sue prospettive, dei suoi metodi e del suo oggetto, e che la rende essenzialmente esposta ad un continuo processo di autocritica. Come scrive Wulf «la critica dell’antropologia è pertanto un elemento importante dell’antropologia storica che conduce a una voluta sottrazione di sicurezza e alimenta il dubbio nei confronti della concordanza tra il nome dell’uomo e il nome dell’essere, della logica del concetto identificante, della portata dell’ermeneutica, della “storia come storia continua del progresso e dell’appropriazione da parte della ragione” e del “soggetto in quanto campo coscienziale costitutivo del sé e del mondo e costituito in modo monocentrico”»; cfr. ivi, pp. 71-3.


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manifestazioni ‘corporee’, ossia nell’interazione effettiva che avviene tra gli elementi della configurazione “immagine-mezzo-corpo”. Così, all’interno dell’opera, la dialettica tra ricerca empirica (cui viene rinviata la prospettiva antropologica) e la tendenza ad estrapolare da essa conseguenze di carattere “essenziale”, “universale”, non risulta pienamente risolta – lasciando di conseguenza aperti i numerosi problemi che essa contribuisce a sollevare25. Ad ogni modo, all’interno di Bild-Anthropologie le idee tra loro connesse di ‘uomo’, ‘creatura umana’, ‘corpo’ e ‘persona’ assumono un ruolo fondamentale, perché l’immagine come ‘fenomeno’ antropologico riguarda in primo luogo il fatto che sono gli uomini che hanno fabbricato e continuano a fabbricare immagini. Sia che le si intenda in senso fisico, esteriore, materiale (pictures), sia che le si intenda in senso mentale, interno (images), «è soltanto l’uomo il luogo in cui le immagini trovano una spiegazione e un significato naturale (dunque sfuggente, difficilmente controllabile etc.)»26. In questo senso, è ai concetti di corpo (Körper) e immagine (Bild) che viene dedicata particolare attenzione – se si pensa che all’interno di Bild-Anthropologie se ne riscontrano, variamente declinate, almeno undici accezioni diverse27. Proprio perché strettamente legate all’uomo, alla sua esperienza, al suo corpo, le immagini ne condividono l’instabilità, la mutevolezza e, in generale, la fenomenicità, sollevando, insieme ad esso, sempre nuovi e diversi problemi. L’analisi di questa relazione antropologica fondamentale porta Belting a formulare una riconsiderazione “filosofica” del soggetto o dell’Io; tale riconsiderazione dell’uomo si articola su più livelli e viene evidenziata, in particolare, attraverso le molteplici analogie che sussistono, come fondamento comune, tra corpo e immagine. In questo capitolo esamineremo l’idea della relazione originaria tra ‘immagine’ e ‘corpo vivente’ approfondendo l’idea dell’Io come soggetto mediale e del corpo come luogo delle immagini: in questo senso, piuttosto che come soggetto astratto, dis-incarnato, “cognitivo” o “mentale”, l’uomo si caratterizza come quel tipo di essere la cui corporeità viene caricata della capacità di operare come un «mezzo vivente, trattando, ricevendo ed emettendo immagini»28. 25

Così L. Vargiu, Antropologia storica e antropologia dell’immagine, in Itinerari, II serie, N. 3-2007.

26

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 73.

27

Relazionandoli e mettendoli a confronto con il problema dell’immagine, Belting parla infatti di: corpo

virtuale, accessorio, di scambio, fenomenico, figurativo, fittizio, funzionale, mnemonico, politico, prospettico e simbolico. 28

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 14.


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3. L’uomo come luogo di immagini Tanto per l’antropologia storica quanto per l’antropologia di Belting, la relazione essenziale tra ‘uomo’ e ‘immagine’ riguarda in primo luogo il modo in cui l’essere umano si appropria del mondo attraverso le immagini – una questione in cui il corpo gioca un ruolo chiave. Nell’enciclopedia Von Menschen da lui curata, Christoph Wulf presenta tra i compiti di ricerca dell’antropologia storica anche l’immagine e l’immaginazione, che vengono descritti in questi termini: Come il linguaggio, l’immaginazione gioca un ruolo centrale sul piano della produzione culturale e sociale. Essa realizza immagini, il cui luogo è il corpo umano. Chi vuole comprendere il corpo nelle sue forme storiche e culturali, apprende con l’esperienza molto su di esso nelle immagini collettive ed individuali dell’uomo. Per farsi visibili, le immagini dell’immaginario hanno bisogno di un medium. In tal modo, queste immagini trovano via via forme differenti di materializzazione e di concretizzazione.29

Tra le affinità che legano entrambe le prospettive vi è il riconoscimento della centralità del corpo umano, che viene visto come produttore di immagini individuali e collettive le quali, grazie alla facoltà corporea dell’immaginazione, trovano differenti forme di concretizzazione.

Tale facoltà viene messa in rapporto alle forme delle sue

determinazioni storico-culturali – ossia in riferimento all’immaginario – rivelandosi essenziale in quella produzione culturale e sociale verso cui, è importante sottolinearlo, è rinviata la ricerca sull’anthropos all’interno dell’antropologia storica30. Centrale, in questa caratterizzazione, è l’idea di immagine come ‘ciò che circola’ nello scambio tra 29

C. Wulf (Hrsg.) Vom Menschen. Handbuch Historisches Anthropologie, Weinheim, Basel-Beltz, 1997;

ed. it. C. Wulf (cur.), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, tr. it. di Aa. vv., Bruno Mondadori, Milano, 1997 (2002). Come scrive Luca Vargiu parlare di corpo come “luogo delle immagini” (Ort der Bilder) e far cenno al medium come ciò di cui le immagini hanno bisogno per rendesi visibili altro non è che circoscrivere in poche frasi le teorie di Belting; cfr. L. Vargiu, Antropologia storica e antropologia dell’immagine, cit., p.20. In particolare, la triade di Belting appare esplicitamente in C. Wulf Anthropologie. Geschichte, Kultur, Philosophie, Rowohlt, Reinbeck, 2004; ed. ingl. Anthropology. A Continental Perspective, The University of Chicago Press, 2013, pp. 251 seg. 30

Come ricorda Wulf, «al centro dell’antropologia storica viene posta non la natura dell’uomo, ma la

molteplicità storico-culturale della vita umana […] il suo ambito viene definito, più che da oggetti e temi, dalle prospettive dalle quali essi vengono animati»; cfr. C. Wulf, Lineamenti e prospettive dell’antropologia storica, cit., p. 71.


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immaginazione (individuale) ed immaginario (collettivo), poiché tale idea fa riferimento, in maniera significativa ma problematica, al concetto di medium come al risultato, sempre relativo, di «differenti forme di materializzazione e di concretizzazione». Non dissimilmente, Belting parla dell’uomo come luogo naturale delle immagini (Ört der Bilder), intendendo il corpo come loro “organo vivente”, medium trasmissivo originario: nonostante tutti i mezzi attraverso i quali l’essere umano è in grado di produrre immagini, è il suo corpo ad essere considerato, in prima istanza, un mezzo o un “luogo naturale” delle immagini – dunque fonte del loro significato sfuggente, difficilmente controllabile. Così «non dobbiamo considerare l’immagine soltanto come prodotto di un determinato mezzo (la fotografia, la pittura, o il video), ma anche come prodotto del nostro io, nel quale generiamo immagini personali (sogni, immaginazione e percezioni) che interagiscono con le altre immagini del mondo visibile»31. Indagate dal punto di vista antropologico, le immagini fanno prima di tutto riferimento al “commercio” che la sensibilità propria del corpo umano, con i suoi moti e la sua produzione interna (come sogni e ricordi), intrattiene con gli artefatti fisici, materiali, che appaiono sulla “scena” del mondo. Alla base di questa interazione – la quale fa già segno verso una concezione ‘relazionale’ e ‘corporea’ dell’immagine – vi è l’esperienza temporale e spaziale che l’Io compie nel tempo: coordinate che vincolano il bios dell’uomo alle immagini grazie alle quali e con le quali egli vive. Secondo Belting infatti «il corpo incontra sempre le medesime esperienze – il tempo, lo spazio, la morte – che noi raccogliamo a priori nelle immagini. Per l’antropologia l’uomo appare non più come signore delle proprie immagini, bensì, in maniera del tutto diversa, come “luogo delle immagini” che ne occupano il corpo»32. Nella sua esperienza biologica, che coinvolge in maniera naturale le coordinate dello spazio, del tempo, della presenza e dell’assenza, il corpo raccoglie «a priori» immagini dal mondo esterno le quali, da «offerte figurative», diventano «immagini del nostro ricordo corporeo», e vengono dunque messe in relazione «all’esperienza esistenziale che abbiamo compiuto nel tempo e nello spazio»33. Tra tutti i media il corpo, in quanto “mezzo vivente”, si distingue perché si caratterizza come “luogo delle immagini” in senso particolare. Al corpo, che è un luogo nel mondo e del mondo, viene attribuita la capacità di «trasformare e conservare i luoghi e le cose in 31

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 10.

32

Ivi, p. 20. Corsivo mio.

33

Ivi, p. 74.


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immagini che vengono poi immagazzinate», cioè iscritte, «nella memoria e attivate per mezzo del ricordo. Tramite le immagini ci difendiamo dallo scorrere del tempo e dalla perdita dello spazio cui i nostri corpi sono sottoposti»34. L’impostazione antropologica di Belting assume dunque, sin da subito e costitutivamente, un carattere ‘esistenziale’, qui evidenziato dalla disposizione biologica delle ‘immaginischemi’ nel corpo, ma anche dall’idea dell’iscrizione figurativa attraverso cui l’uomo si contrappone allo scorrere del tempo. Ad essere rilevante, in entrambi i casi, è il riferimento di Belting ai temi della perdita, dell’assenza e della morte, i quali rinviano essenzialmente ad esperienze corporee, contribuendo così ad acuire la ‘necessità’ dell’anthropos nella lettura dell’immagine: «Gli uomini isolano entro la loro attività visiva, quella che per loro rappresenta una legge esistenziale, ogni unità simbolica che noi chiamiamo “immagine”. La doppia significazione dell’immagine, interiore ed esteriore, non è separabile dal concetto di immagine, poiché attraverso questa dualità appare una fondazione strutturale antropologica»35. L’idea di una “fondazione strutturale” (Fundierung) antropologica richiama la necessità di riportare le immagini, sia quelle interne (come i sogni, i ricordi e le percezioni) sia quelle esterne (le immagini fisiche, concrete), al loro fondamento comune: l’anthropos. È in questo senso che bisogna intendere l’idea secondo cui «sostanzialmente la domanda sulla natura dell’immagine richiede una duplice risposta»36, in grado cioè di tenere insieme la stretta interazione che le immagini mentali (images) intrattengono con quelle esterne (pictures). È solo nello scambio di ‘interno’ ed ‘esterno’ – scambio che coinvolge in maniera simbolica i corpi in comunicazione tra loro – che si possono mettere a fuoco i problemi essenziali della Bild.

34

Ivi, p. 84. Dal punto di vista antropologico, lo scambio che interviene tra corpo e mondo, tra l’uomo

come dimensione corporea e simbolica e la realtà fenomenica degli enti che appaiono, si caratterizza come una “disposizione simbolica” dei «luoghi del mondo» nel nostro corpo. Belting dimostra in primo luogo che «lo scambio tra esperienza e ricordo è uno scambio tra mondo e immagine. Poiché l’impressione sensoriale viene sovrapposta alle nostre immagini del ricordo, alle quali poi volontariamente o involontariamente le paragoniamo, le immagini, d’ora in poi, si occupano anche della percezione del mondo»; cfr. Ibid. 35

Ivi, pp. 19-20. Corsivo mio.

36

Ivi, p. 10.


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4. Immagini interne e immagini esterne Belting non è il solo a sottolineare l’idea di una relazionalità essenziale, o di un continuo scambio, tra immagini ‘interne’ ed ‘esterne’. Una tale impostazione caratterizza anche la recente prospettiva “post-fenomenologica” di Bernard Stiegler, l’allievo di Jacques Derrida che ha messo al centro della sua ricerca il problema della tecnica e della tecnologia in una direzione “organologica” – ossia indagando l’interazione, a più livelli, dei processi di individuazione individuali e collettivi analizzati a suo tempo da Gilbert Simondon37. Nel saggio sull’immagine discreta (‘discreta’ nel senso scientifico di un’immagine discontinua e codificata digitalmente) egli scrive che «l’immagine in generale non esiste. Quello che si chiama immagine mentale e quello che qui chiamerò immagine-oggetto, sempre inscritta in una storia, e in una storia tecnica, sono due facce di un solo e stesso fenomeno che non possono essere separate, come il significato e il significante che definivano, in passato, le due facce del segno linguistico»38. Richiamando la critica che Derrida ha fatto in riferimento all’opposizione (da quest’ultimo contestata) tra i due concetti fondamentali della linguistica classica – per cui l’uno (il significante) sarebbe la «variazione contingente di un’invariante ideale» (il significato) –, Stiegler ritiene, con il filosofo algerino, che «la questione dell’immagine» sia «anche e indissolubilmente quella della traccia e dell’iscrizione: una questione di scrittura in senso lato»39. Come non esiste linguaggio che non si dia in effettive pratiche di scrittura, così non esistono immagini in generale, ossia non scritte; allo stesso modo, 37

Ricorro qui a un termine centrale della riflessione di Simondon sulla tecnicità che tornerà più volte nel

seguente lavoro. Si veda in particolare P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, 2007 (2014), Roma, cap. 3.3. Per quanto riguarda la riflessione sulla tecnica di Simondon, focalizzata sui ‘processi di identificazione’ propri degli artefatti tecnici, si veda G. Simondon, Du mode d’existence des objects techniques, Aubier, Paris, 1958. Per quanto riguarda un’introduzione alla riflessione di Stiegler, insiema ad una bibliografia aggiornata delle sue opere, si veda P. Vignola, S. Baranzoni (cur.), Bernard Stiegler. Per una farmacologia della tecnica, aut aut, n. 371, 9/2016. 38

B. Stiegler, L’image discrète, in J. Derrida, B. Stiegler, Échographies de la télévision. Entretiens filmés,

Éditions Galilée/INA, 1996; tr. it., L’immagine discreta, in J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, a cura di Laura Chiesa, Raffaello Cortina, Milano, 1997, p. 167. 39

Si veda in particolare J. Derrida, De la grammatologie, Éditions de Minuit, Paris, 1967; ed. it.: Della

Grammatologia, a cura di G. Dalmasso e S. Facioni, Jaca Book, Milano, 2012. In questo senso le immagini non sarebbero costituite, in analogia con il segno linguistico di De Saussure, da un significante materiale (variabile) e da un significato ideale (invariabile).


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«come non c’è significato trascendentale, così non c’è immagine mentale in generale o un “immaginario trascendentale” che precederebbe l’immagine oggetto»40. Le immagini, anche quelle apparentemente più immateriali, si trovano sempre iscritte, come se fossero “documenti”, anche quando questa visibilità è talmente ridotta da costituirsi come “ritorno”, “rimanenza” o anche “spettro”. Tra immagini interne (o mentali) ed esterne (o oggetto) sussiste allora una «differenza» che non è «opposizione»: Stiegler ne conclude «che esse hanno sempre a che fare l’una con l’altra, e che nessuna delle due può ridurre la differenza dell’altra»41. Ora, proprio evidenziando la natura problematica della relazione che lega tra loro ‘corpo’, ‘immagini’ e ‘luoghi’ – ossia la ‘disposizione’ delle immagini nel corpo (schemi conoscitivi, sogni, immagini fantastiche, ricordi etc.) – Belting mostra come «l’uomo, nei confronti di quelle immagini alle quali conferisce un significato, si presenta come un entità culturale che non può essere descritta soltanto per mezzo di un concetto biologico»42. Richiamando le analisi svolte dall’antropologia sociale francese, lo studioso sottolinea infatti l’importanza del rapporto tra «le immagini simboliche di una pratica collettiva e le immagini personali». Come scrive poco più avanti, è proprio ricercando le «condizioni di circolazione tra l’immaginario individuale (per esempio il sogno), l’immaginario collettivo (per esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no)»43, che il progetto di un’«etnologia dello spazio di vita dell’Occidente»44, fa emergere

40

B. Stiegler, L’immagine discreta, cit., p. 167. Stiegler scrive infatti che «l’immagine mentale è sempre il

ritorno di qualche immagine-oggetto, la sua rimanenza – sia come persistenza retinica sia come revenance allucinatoria del fantasma – effetto della sua persistenza. O ancora: non c’è né immagine né immaginazione senza memoria, né memoria che non sia originariamente oggettiva»; cfr. ivi, p. 168. Ma anche: «La vita (anima – lato dell’immagine mentale) è sempre già cinema (d’animazione – immagine-oggetto)»; cfr. ivi, pp. 183-184. 41

Ibid.

42

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 74. Per quanto il riguarda il rapporto tra corpi, luoghi ed

immagini si veda ivi, cap. 3. 43

Ivi, p. 77.

44

Ivi, p. 82. Belting fa qui riferimento a M. Augé, La Guerre des rêves: exercises d’ethno-fiction, Éditions

du Seuil, 1997; ed. it. La guerra dei sogni. Esercizi di ethno-fiction, elèuthera, Milano, 1998 (2016) e a M. Augé, Pour une anthropologie des mondes contemporains, Éditions Aubier, Paris, 1997; ed. it. Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, il Saggiatore, Milano, 1996. Sul problematico


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il corpo come una “dimensione critica”, mettendone in mostra il profilo sensibile e simbolico. Egli apre così la questione della ‘doppia significazione’ dell’immagine all’indagine sulla questione culturale dello scambio di immagini – ossia al problema dell’immaginario, e del suo rapporto con l’immaginazione e la finzione.

5. Immagine, immaginazione, immaginario Nel discutere tale problema, Belting si richiama espressamente all’impostazione dell’antropologia letteraria formulata dal teorico della letteratura tedesco Wolfgang Iser negli ultimi anni della sua attività, su cui torneremo nel corso del lavoro45. Occorre insistere sulla ‘disposizione antropologica’ dell’immaginazione perché essa è in grado di far capire meglio l’idea beltingiana della relazionalità originaria, “essenziale”, tra uomo (Körper) e immagine (Bild). La questione su cui si fonda l’indagine di Iser deriva dall’osservazione che tutte le culture dotate di una tradizione scritta hanno creato una letteratura d’immaginazione, che a suo parere costituisce lo ‘specchio’ delle sue caratteristiche antropologiche fondamentali. Come ricorda anche un allievo di Belting, Christopher Wood, «by this term [literary anthropology] Iser means […] something like speculative analysis of the deep psychological and social functions of storytelling and listening, writing and reading in human life»46. È una prospettiva in un certo senso simile a quella di Belting, perché cerca di rendere conto della necessità storica della «textual fiction» in riferimento alle pratiche sociali e simboliche, individuali e collettive. Alla base di ciò, vi è l’idea che le opere d’arte letterarie siano essenzialmente connesse ai processi di cambiamento e di trasformazione del sé. Come sottolinea Ben de Bruyn «their fictional restructurings of the authoritative discourses and doctrines of the “real” allow man “an ecstatic condition of rapporto tra Belting e il modello etnologico di Augé si veda L. Vargiu, Hans Belting e lo sguardo dell’etnologo, cit., p. 32. 45

W. Iser, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literarischer Anthropologie, Suhrkamp, Frankfurt

A. M., 1991; tr. ingl. The Fictive and The Imaginary. Charting Literary Anthropology, John Hopkins University Press, Baltimore – London, 1993. Sul rapporto tra antropologia dell’immagine ed antropologia letteraria si veda B. de Bruyn, Death–Image–Medium. The Antropological Criticism of Wolfgang Iser and Hans Belting, Image and Narrative, 15 (2006). 46

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, The

Art Bulletin, Vol. 86, No. 2, 2004, p. 370.


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being himself and standing outside himself” and this “doubling” cleares the way for a restructuring of his abitual world view and course of action»47. Secondo Iser, la finzione letteraria, das Fiktive, rifletterebbe una caratteristica antropologica fondamentale: l’irrefrenabile tensione dell’individuo a superare sé stesso e i confini del mondo reale, ovvero la spinta alla creazione di immagini fittizie. La letteratura rappresenterebbe, dunque, una forma d’antropologia estensiva, in quanto fornisce all’uomo, attraverso la creazione di un mondo virtuale, uno strumento utile a verificare i possibili rapporti che di volta in volta si vengono a creare tra l’uomo e il mondo. La finzione letteraria crea estensioni dell’umano, superamenti di sé, grazie alla sua libertà da limiti pragmatici48. In Das Fiktive und das Imaginäre Iser riteneva quindi di poter rendere conto della letteratura come ‘dispositivo universale’ e umano di auto-interpretazione e modellamento, strumento di quell’urgenza degli esseri umani di divenire ‘presenti a sé stessi’. La funzione antropologia della letteratura si rende allora visibile nell’intreccio che sussiste tra il reale (l’insieme dei testi e dei sistemi di pensiero storico-culturali), il fittivo (l’intenzionalità specifica dell’artista, con le sue strategie figurative) e l’immaginario (le immagini mentali che permettono di interpretare tale finzionalità in termini artistici)49. Facendo riferimento a tale impostazione, Belting specifica che se l’immaginazione rimane legata a una facoltà del soggetto […] l’immaginario è riferito alla coscienza, dunque anche alla società e alle sue immagini del mondo nelle quali continua a vivere la storia collettiva dei miti. L’immaginario, in tal modo, si distingue dai prodotti nei quali viene espresso (come il background figurativo di una tradizione culturale), dai quali richiama le immagini della finzione e attraverso i quali queste immagini possono essere allestite50

È seguendo questa indicazione che l’antropologia delle immagini approfondisce la relazione tra i poli dell’immaginazione, dell’immaginario e della finzione facendo riferimento al caso, preso in esame da Marc Augé, della guerra delle immagini. Qui il 47

Si veda B. de Bruyn, Death–Image–Medium, cit., pp. 2-3.

48

Anche per Belting le immagini (e le opere d’arte in generale) sono essenzialmente connessi a processi di

re-identificazioni del sé, essendo basate su un essenziale riferimento corporeo in cui le nozioni di trascendenza (la condizione estatica di Iser) e immanenza (doubling) del corpo occupano, come vedremo, un ruolo fondante. 49

Cfr. W. Iser, The Fictive and The Imaginary. Charting Literary Anthropology, pp. 3 seg.

50

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p.94.


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conflitto tra sogni e icone, tra immaginazione individuale e immaginario collettivo, mette in luce il corpo nella sua dimensione critica, poiché nel sogno o nel rituale esso viene dominato o posseduto da «elementi che lo abitano, lo abbandonano e vi ritornano»51 come se fossero prodotti da un doppio. Lo scambio tra le immagini “ufficiali” e quelle “native”, che per Belting non si lascia ridurre entro schemi rigidi, riguarda uno spazio, quello della corporeità, che è sensibile e simbolico allo stesso tempo. L’immagine interna per eccellenza – il sogno – viene riportata al suo fondamento corporeo, ossia la capacità biologica propria del corpo di essere iscritta e messa in relazione a una più ampia circolazione di immagini che riguarda lo scambio tra l’immaginario individuale e quello collettivo. Avvicinando l’esperienza onirica al rito di possessione, l’antropologia è così in grado di mostrare come l’uomo possa essere un luogo di immagini di cui egli è padrone solo in parte e di cui dunque dispone solo limitatamente. Per Belting, si può infatti parlare di una «isometria» – ossia di una ‘funzione’ tra due spazi che ne conserva le rispettive distanze – «fra immaginazione privata e potere normofigurativo delle immagini ufficiali che incarnavano l’immaginario collettivo» – salvo poi notare che «questa isometria era sempre una zona combattuta e a rischio»52. Il trasferimento, o meglio il gioco, tra immagini esterne e mentali, sogni (o visioni) e icone, non è adattabile ad alcuna tipologia di schema fisso o «dualistico»: venendo incorporate nel campo delle percezioni individuali corporee, le immagini fisiche sembrano non essere così distinguibili dalle loro controparti interiori se è vero che «sogni, visioni e ricordi sono soltanto sintomi esteriori di questa inestinguibile interrelazione. Una questione», sottolinea subito dopo Belting, «in cui il mezzo gioca dunque un ruolo chiave poiché ci offre un certo concetto dell’immagine fisica, la quale non va poi confusa semplicemente con un oggetto»53.

51

M. Augé, La guerra dei sogni, cit., pp. 32 seg.

52

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 93.

53

Ivi, p. 71. Il che, conclude Belting, mostra infine come «il controllo sulle immagini si sottrae sempre alle

istituzioni. Difficilmente il corpo può essere messo sotto controllo, non soltanto nel sogno e nella visione, ma anche nell’incontro con le immagini ufficiali»; cfr. ivi, p. 93.


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6. Ört der Bilder? Come si è visto Belting tende ad adottare, a livello teorico, l’impostazione di un continuo scambio tra immagini interne ed esterne, in cui la logica della traccia e dell’iscrizione è dominante, e in cui il riferimento corporeo è essenziale. Per lo studioso la differenza tra image e picture non sussiste nella realtà: essa assume un carattere esclusivamente operativo nel momento in cui dobbiamo separare, nel discorso, le immagini esteriori da quelle interiori. Ma le immagini, secondo lo studioso, ‘oltrepassano’ i media in cui sono incorporati, poiché sorgono all’incrocio di tre coordinate: la «produzione figurativa che ogni cultura ha sviluppato nel proprio contesto sociale», la «comune attività della percezione sensoriale» e «la produzione di immagini interiori»54. In questo senso, tanto per l’antropologia storica quanto per l’antropologia delle immagini lo scambio tra interno ed esterno è in grado di rendere ragione delle varie pratiche culturali, sociali e politiche che gli uomini intrattengono con esse; allo stesso tempo, tale scambio rinvia alla necessità di adottare un concetto di medium ‘aperto’, in grado di mettere in relazione l’immaginazione con l’immaginario attraverso le varie forme di materializzazione di entrambe. Per entrambe le discipline, allora, la vera strada da percorrere è quella della «costituzione storica dell’immaginario o del ruolo dell’immaginario nella storia dell’uomo»55. Tuttavia, come vedremo nel corso delle analisi, Belting non sviluppa questo motivo, ma sembra più interessato «a un aspetto abbastanza circoscritto della questione, quello relativo all’immagine dell’uomo, o meglio, all’incorporarsi dell’uomo nell’immagine»56. Effettivamente, il modo in cui Belting conduce le sue ricerche lo porta a sviluppare una serie di tematiche che sembrano ruotare intorno al modo in cui l’uomo si fa immagine: la rappresentazione del corpo in Occidente, lo stemma araldico e il ritratto tra Medioevo ed Età moderna, il rapporto tra immagine e morte, l’iconoclastia e il problema dell’immagine di Cristo – per citarne solo alcuni – sono motivi che insistono sulle immagini dell’uomo e sul ruolo culturale del corpo come medium originario di immagini. Una tale insistenza porta così Belting a sostenere un concetto di immagine modellato principalmente, se non esclusivamente, in riferimento al corpo, che ha portato alcuni critici ad evidenziare come, «despite his assertion that ‘the question of the image is anthropological in nature’, his 54

Ivi, p. 20.

55

L. Vargiu, Antropologia storica e antropologia dell’immagine, cit., p. 30

56

Ivi, p. 31. Corsivo mio.


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writings contain little mention of more recent approaches to the anthropology of art»57. In buona sostanza, come vedremo, l’approccio di Belting, «while claiming to present a meta-theoretical account of the image, it was significantly undertheorized»58. Questa critica è stata evidenziata da più parti: ciò che interessa sottolineare, in conclusione di questo primo capitolo, è che nonostante il conflitto tra sogni ed icone, tra immagini personali e collettive, faccia emergere una dimensione ‘critica’ e ‘simbolica’ del corpo attraverso cui questo può essere inteso come luogo delle immagini (Ort der Bilder), Belting sembra finire per rovesciare i termini della sua stessa formula, poiché, in BildAnthropologie, «più che il corpo come luogo delle immagini lo studioso tedesco dà l’idea di andare a considerare le immagini come “luogo del corpo”»59. In particolare: come coniugare il fatto che l’antropologia storica (come visto all’inizio del capitolo) «cerca il suo materiale tanto nel passato quanto nel presente della propria cultura» con l’idea che «la questione dell’immagine oltrepassa i confini che separano le epoche e le culture, poiché tali domande possono trovare risposta solo al di là di questi confini»60? In altri termini – ed è questo il problema – «nonostante nei mezzi e nelle tecniche storiche le immagini possiedano una forma temporale, esse vengono tuttavia generate da temi extratemporali come la morte, il corpo, e il tempo»61. Contrario ad ogni metafisica ‘essenzialista’ dell’immagine, l’antropologia di Belting non riesce a risolvere il problema della storicità, e finisce per assumere, come vedremo, una connotazione «strictly anthropocentric, one might almost say existentialist»62. Un approccio antropologico, per Belting, significa allora un’indagine sui tratti essenziali dell’umano e, allo stesso tempo, una ricerca sui fondamenti del picture-making: in breve, «an openly ahistorical and even essentialist project»63. 57

M. Rampley, Bildwissenschaft: Theories of the Image in German-language Scholarship, cit., p. 128. In

questa direzione vanno, invece, i lavori di Klaus Sachs-Hombach. Si veda in particolare K. SachsHombach, J. Schirra (eds.), Origins of Pictures. Anthropological Discourses in Image Science, Halem, Köln, 2013. 58

Ibid.

59

L. Vargiu, Antropologia storica e antropologia dell’immagine, cit., p. 31.

60

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 34.

61

Ibid.

62

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, cit.,

p. 371. Per quanto riguarda la critica al carattere a-storico dell’impostazione antropologica di Belting si veda L. Vargiu, Antropologia storica e antropologia dell’immagine, cit., pp. 22-4. 63

Ibid.


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Secondo capitolo L’interpretazione mediale dell’immagine: il rapporto tra corpo e medium 1. La necessità di un nuovo concetto mediale Nell’applicare la configurazione “immagine-mezzo-corpo” alle questioni sollevate dal circolo della produzione, percezione e trasmissione delle immagini, Belting non smette mai di sottolineare la necessità di dover formulare un adeguato concetto mediale capace di prenderne in considerazione l’originario riferimento corporeo. È stata la storia dell’arte, secondo Belting, ad aver rimosso tale riferimento. Come scrive Matthew Rampley «indeed, Belting’s concern with the image in general rather than with artworks, was linked to his view that ‘art’ had emerged as a cultural construct that hindered corporeal engagement with the image. In particular, art, with its fetish of the invisible masterpiece, has served to alienate the image from the body»64. È in questa direzione che vanno la maggior parte degli studi precedenti a Bild-Anthropologie, in cui lo studioso si concentra sulle numerose differenze che separano il fenomeno dell’immagine, come pratica umana di carattere politico, religioso, pubblico, dall’opera d’arte in senso stretto: qui la separazione del corpo dall’immagine riguarda la possibilità di perdere di vista il fatto che un’icona, ad esempio, non era solo la figura di un uomo, dal momento che veniva percepita come un essere vivente (un corpo) e non come un’immagine (un’opera d’arte). Come si è visto, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso Belting intraprende un percorso di critica metodologica e concettuale nei confronti della propria disciplina dall’interno della stessa. Nel libro sulla fine della storia dell’arte del 1983, egli mette in chiaro come quest’ultima poté restare una disciplina autonoma finché il suo oggetto di studio si isolò dal resto della realtà. Come nota anche Christopher Wood «for Belting, art is an effect generated by institutions and ideology developed in the early modern period, but obsolete already in the 19th century and subjected to lethal critique in the 20th»65. Per Belting, è la volontà intrinseca all’arte moderna di doversi emancipare dal corso storico e dal concetto estetico di opera d’arte a richiedere un approccio diverso rispetto al tradizionale metodo storico-stilistico. Tanto più, ribadisce lo studioso nella seconda versione del 1995, 64

M. Rampley, Bildwissenschaft: Theories of the Image in German-language Scholarship, cit., p. 127.

65

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, The

Art Bulletin, Vol. 86, no. 2, 2004, p. 137.


21

in un contesto (come quello globale) dove l’arte prende esplicitamente in carico il problema della cultura e della tecnica. Come scrive Bradamante, la vicinanza, se non la sovrapposizione, del linguaggio dei media al linguaggio dell’arte testimonia il cambiamento di ruolo che l’arte sta vivendo […] il fatto che la tecnica diventi arte, o che l’arte si riveli attraverso la tecnica, è fondamentale per l’impostazione metodologica della storia dell’arte […] lo studio dell’immagine nell’era dei media ha, da principio, un’impostazione che pone il concetto artistico in secondo piano, proprio perché non si è ancora definita l’arte di questo tempo

66

Oggi è l’arte mediale, la Medienkunst, a far emergere il problema della Bild, poiché la tecnica, se applicata ai media, crea una realtà apparente, “eine Welt des Scheins”: l’arte non è più legata alle figure dell’artista (che si esprimeva attraverso un’opera) e dell’osservatore (che recepiva un messaggio), né può essere più definita come una “finestra contemplativa” su un altro mondo; allo stesso tempo, la tecnica non è né un oggetto della realtà né può essere definita esclusivamente in base al suo utilizzo strumentale. La ridefinizione dei rapporti tra ‘uomo’, ‘natura’ e ‘tecnica’ pone invece il problema di capire secondo quali logiche ricezione e produzione formino nel contesto della cultura contemporanea un «orizzonte d’esperienza comune»67. In Bild-Anthropologie, quest’insieme di considerazioni vengono approfondite attraverso una serie di riflessioni volte a dimostrare come, a partire dal Rinascimento fino agli esponenti della Scuola di Vienna, «la storia dell’arte intesa come disciplina si è ritrovata nell’analisi della forma artistica. La replica a questa autocomprensione giunse dalla cerchia amburghese di Aby Warburg»68, alla cui antropologia l’impostazione di Belting si rifà in vista di una nuova iconologia critica. È in questo senso che «l’immagine, nella cornice del dibattito mediale, esige un nuovo contenuto concettuale»69, in grado di rendere ragione dello scambio di immagini tra interno ed esterno, e che non si riduca né a una riproposizione del dualismo ‘forma/materia’ (proprio delle coordinate storicoartistiche) né a un discorso esclusivamente ‘tecnologico’ (interno alla sola storia dei 66

L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, cit., pp. 45-6.

67

D. Cecchi, Intermedialità, interattività (e ritorno). Nuove prospettive estetiche in D. Cecchi (cur.),

Intermediality and Interactivty, Rivista di estetica, anno LVI, n.63 (3/2016), p. 4. 68

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 25.

69

Ivi, p. 22.


22

media). Scrive infatti Belting che «nella storia dell’arte i mezzi venivano classificati come generi e materiali nei quali l’artista si esprime, dunque come mezzi dell’arte. Io li considero invece come mezzi trasmissivi o mezzi ospitanti di cui le immagini hanno bisogno per diventare visibili, dunque come mezzi figurativi»70. In questo senso, l’esigenza di un nuovo concetto mediale per la Bildwissenschaft non si traduce né in una teoria radicale della mediazione né in una generale teoria dei mezzi comunicativi, ma si orienta piuttosto alla ricerca delle proprie originarie condizioni antropologiche – ossia corporee ed esistenziali. La medialità, per Belting, è un problema corporeo, ed è proprio l’analisi antropologica dell’homo pictor – ossia del rapporto esistenziale tra uomo e immagine – a mettere in risalto tale aspetto. Come si è visto, esiste una relazione esistenziale (biologica e culturale) tra l’uomo e l’immagine, che si specifica come un rapporto simbolico tra corpi: il corpo percipiente e il corpo figurativo, il corpo esterno (fisico, concreto) delle immagini e il corpo naturale (in cui risiedono sogni, immaginazioni, percezioni), e così via. L’invito ad intraprendere la strada in vista dell’elaborazione di un nuovo concetto mediale coincide allora con la necessità di riprendere in carico il problema della mediazione all’interno della Bildfrage a partire dalle sue dimensioni somatiche, riportando il problema del medium al corpo e all’immagine. Per Belting il medium originario delle immagini è un supporto animato, ossia il corpo vivente, con le sue facoltà di immaginazione, ricordo e percezione. Un primo passo, in questo senso, è costituito dalla necessità di dover indagare le immagini qua artefatti figurativi, riconsiderando dall’interno il ruolo della tecnica in senso antropopoietico, ossia in relazione ai processi di costituzione dell’umano. Come si è visto infatti «la domanda “che cos’è un’immagine?” nel nostro caso è diretta agli artefatti, cioè, per fare qualche esempio, alle opere figurative, alla trasmissione dell’immagine e alla diagnostica per immagini»71. Ciò significa concepire la «tecnica di formazione delle immagini» (Bildwerdung) come qualcosa che funziona «non in senso oggettivo e neutrale bensì in senso specificamente culturale», ricollegando tale tecnica alla «scienza della natura», ossia alla storia culturale del corpo72. Belting ritiene che la ‘tecnica di formazione delle immagini’ sia antropologicamente fondata; idea con la quale egli intende che i mezzi di 70

Ivi, p. 39.

71

Ivi, p.20. Sulla questione dell’antropopoiesi si veda F. Remotti, Antropopoiesi. I drammi del fare umano,

Laterza, Roma-Bari, 2013. 72

Cfr. ivi, p. 31.


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produzione e trasmissione delle immagini rimandino, nel loro essere, a dispositivi corporei di visualizzazione attraverso cui l’esperienza sensibile viene configurata. È per questo che, in Bild-Anthropologie, viene posta la massima cura nel rilevare le continuità e le fratture che legano tra loro l’esperienza corporea, la sua storia culturale, e l’esperienza figurativa: le immagini (specialmente quelle che raffigurano il corpo umano) vengono trasmesse da media che non sono né supporti ‘inerti’ o ‘inanimati’ né superfici simboliche, ma vere e proprie tecnologie del corpo, che sfociano in complessi sistemi tecnici. Esigenza di Belting è, in primo luogo, quella di superare l’impostazione di chi concede «alla medialità delle immagini un unico valore posizionale»73, riducendo così in maniera unilaterale la molteplice varietà in cui esse possono apparire e annullando, di conseguenza, il concetto stesso di medium. «Nel discorso odierno», scrive infatti, «le immagini vengono prese in considerazione in maniera astratta, quasi fossero non mediali o incorporee, oppure semplicemente confuse con le loro tecniche figurative»74. Si può cogliere qui un riferimento al fatto che le «moderne teorie del segno» eredi della linguistica saussuriana (Belting pensa ad esempio alla semiotica di Barthes, ma anche alla teoria della comunicazione di McLuhan) avrebbero operato un’astrazione dell’originario riferimento corporeo proprio della percezione dell’uomo, riducendo così il concetto di “immagine” a semplice “funzione” cognitiva, mentale, e “annullando” di conseguenza l’idea di un «soggetto mediale» – ossia l’idea dell’uomo come luogo di produzione, manipolazione e trasmissione di immagini75. Più in generale, sottolineando come «una teoria generale dei mezzi figurativi […] non esiste ancora»76, Belting riconosce che parte degli ostacoli che ancora si trovano sulla via di un’autentica Bildwissenschaft consistano nel non essere riusciti ancora a superare, all’interno della disciplina stessa, il dualismo di ‘materia’ e ‘spirito’ che riguarda tanto l’immagine quanto l’uomo. Scrive infatti che «il discorso sulla forma e la materia, tramite il quale l’annosa discussione sulla materia e lo spirito prosegue tutt’ora, non può essere adoperato a proposito del mezzo trasmissivo dell’immagine»77. Alla base di questa critica, in realtà, c’è un problema cruciale. Ciò che lo studioso ha in mente quando 73

Ivi, p. 21.

74

Ivi, p. 31.

75

Cfr. ivi, p. 27.

76

Ivi, p. 23.

77

Ivi, p. 21. Cfr. anche p. 31.


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polemizza ripetutamente tanto nei confronti del razionalismo illuminista quanto nei confronti della storia dell’arte di stampo ‘idealista’ – entrambi avrebbero, a modo loro, influenzato negativamente l’eredità del concetto di immagine – è un problema che risale già alla filosofia di Platone. L’ontologia platonica infatti, con la sua strutturazione “ideale” in generi individuali intelligibili, non sembra far riferimento al concetto di ‘corpo mediale’ delle immagini. Estraneo all’idea di incarnazione, così come alla connessa idea di animazione (idee entrambe riferibili al concetto di artefatto figurativo), Platone decide contro i “mezzi morti” della scrittura e della pittura (in favore dei “mezzi naturali”, come il ricordo corporeo) – le sue critiche si rivolgono, com’è noto, al carattere “doppiamente” mimetico dell’arte figurativa, situandosi dunque all’interno di un contesto epistemologico in cui la questione del corpo figurativo e del corpo percipiente sembra essere assente78. Belting ritiene, al fondo, che l’ipoteca platonica non abbia mai perso la propria effettività, riemergendo continuamente nella storia e nella riflessione sull’immagine proprio sotto le varie forme di ‘idealismo’ o di ‘razionalismo’: è il caso dell’interpretazione dei corpi figurativi in cera come ‘incanti figurativi’ da parte dello storico dell’arte Julius von Schlosser, o dell’immagine razionalistica del mondo elaborata dall’Illuminismo – ulteriore affondo nella sconfessione del paradigma dell’incarnazione e dell’animazione79. Lungo tutte le analisi lo studioso utilizza, così, una serie di esempi storici per dimostrare come la “rimozione filosofica” del concetto mediale abbia condizionato negativamente il concetto di immagine, il cui “corpo” viene ridotto a segno, figura formale, rappresentazione: è questa l’ipoteca che grava sulle discipline coinvolte nella questione delle immagini – discipline coinvolte nella storia dell’arte in primis. Contro ciò, egli afferma con forza l’esigenza, per le immagini, di doversi incarnare, riportando così il problema della medialità ai fondamentali enigmi dei culti funerari arcaici, ossia al rapporto tra immagine e morte. Proprio su quest’ultimo punto occorre notare, con Rampley, che Belting non è il primo ad aver riportato il problema dell’immagine alle sue origini cultuali: «The idea of the cultic origin of images became widespread during the late nineteenth and early twentieth centuries, and was supported both by specialist historians of prehistoric art and also by 78

Cfr. ivi, par. 6.8. A tal proposito si veda E. Cassirer, E. Panofsky, Eidos und Eidolon: das Problem des

Schönen und der Kunst in Platons Dialogen, Philo Fine Arts, Hamburg, 2008. 79

Per quanto riguarda l’eredità dell’idealismo nei confronti della storia dell’arte ‘tradizionale’ si veda ivi,

par. 2.2; per quanto riguarda la critica nei confronti del razionalismo illuminista, si vedano le pp. 174, 1801.


25

cultural critics from Walter Benjamin to George Bataille. Yet his was the first attempt to integrate such speculation into the historical study of the image»80.

2. Il bisogno dei media Parlando degli “artefatti figurativi”, che vengono messi al centro della ricerca antropologica, Belting dice che «è impossibile stabilire il cosa si cerca in tali immagini senza conoscere il come che risiede nell’immagine o diventa immagine […] Il come è la comunicazione genuina, la vera forma linguistica dell’immagine»81. Attraverso il ricorso alla distinzione tra il “cosa” e il “come” di un’immagine, Belting vincola in maniera essenziale il significato delle immagini, ciò che esse “esprimono” o “significano”, al “corpo mediale” che lo trasmette. È importante sottolineare come accogliendo un’accezione del termine già introdotta da Debray, Belting definisce il medium come ciò che rende possibile la veicolazione di immagini; dunque qualcosa di sensibilmente diverso da ciò che solitamente intendono i mass-mediologi: per McLuhan, ad esempio, i media sono le estensioni dei nostri organi sensoriali attraverso delle protesi tecnologiche, o più generalmente, dei canali di diffusione delle informazioni; per Belting, invece, i medium sono i supporti in cui 82

una qualunque immagine (materiale o virtuale) deve incarnarsi per apparire .

In effetti, Belting non parla di immagini «come media, come spesso si fa, ma piuttosto del loro bisogno dei media e dell’uso dei media per diventare visibili a noi»83. Le immagini necessitano di quelli che Belting chiama corpi mediali per acquisire una presenza stabile nel mondo degli enti, cioè per apparire, e questa ‘apparenza’ delle immagini dipende essenzialmente sia dal mezzo che le trasmette (una tela, del marmo, uno schermo) sia dal corpo che le percepisce e, a sua volta, le produce. È proprio questa l’idea che Belting sottolinea quando dice che «le immagini non sono né su una parete (o su uno schermo) né soltanto nella mente. Esse non esistono di per sé, ma accadono; hanno 80

M. Rampley, Bildwissenschaft: Theories of the Image in German-language Scholarship, cit., p. 127; si

veda in particolare H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., par. 6.2, dove lo studioso richiama il tema ‘immagine e morte’ all’interno della cerchia degli artisti ed etnologi francesi degli anni ’20. 81

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 20-21. Corsivo mio.

82

G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, cit., pp. 173-4.

83

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 14.


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luogo sia che si tratti di immagini in movimento (nel cui caso è ovvio) sia che invece si tratti di immagini statiche. Esse accadono grazie alla trasmissione e alla percezione»84. Da una parte le immagini hanno bisogno di media per diventare visibili, ossia di “corpi trasmittenti”, animati o meno, in grado di veicolare sensibilmente le immagini che esse raffigurano; dall’altra parte è all’uomo che è attribuita la capacità corporea, sensibile, di animare simbolicamente le immagini, facendole accadere nello spazio (individuale o collettivo) della propria esistenza. Trasmissione e percezione richiedono in questo senso un concetto mediale modellato in riferimento al corpo, perché l’immagine non si dà se non nello scambio simbolico che i corpi intrattengono tra loro, e che mette in relazioni le immagini interiori con le immagini esteriori, fisiche. Secondo Belting, come Stiegler, il concetto di immagine «può solo arricchirsi qualora si parli dell’immagine e del mezzo come delle due facce di una stessa medaglia»85 – il che significa riconoscere alle immagini la necessità di doversi rendere visibili, percepibili, nel mondo delle cose, come se avessero un corpo. Il ricorso al termine forma può allora essere giustificato, secondo Belting, se lo si intende in quanto mediazione, cioè nel senso di trasmissione, considerando però quest’ultimo secondo un significato che «va oltre il senso banale di “comunicare”»86. Un’indicazione decisiva in tal senso viene fornita nell’idea secondo cui la differenza tra la ‘forma’ e la ‘materia’ di un’immagine è «radicata nella differenza tra immagine e mezzo […] Ciò che nel mondo del corpo e delle cose rappresenta la sua materia, nel mondo delle immagini è il suo mezzo. Dal momento che l’immagine non ha corpo, però, ha bisogno di un mezzo nel quale incarnarsi»87. Così facendo, Belting mette in evidenza i rischi connessi alla “riduzione” della fenomenicità delle immagini – del “come” esse appaiono nel mondo – a semplice “materia”, “forma”, o “mezzo comunicativo”. Contro l’idea che il medium sia più che semplice materia “inanimata” Belting oppone la necessità, per le immagini, di doversi incarnare nello spazio individuale e collettivo dell’esistenza. La forma, intesa in quanto mediazione, implica dunque un superamento della stessa intesa come semplice ‘materia’, ‘superficie’, e una rivalutazione della sua funzione trasmissiva – e, dunque, del suo ruolo politico. Belting intende il medium «nel senso di un vettore, di 84

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 75.

85

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 21.

86

Ivi, p. 13.

87

Ivi, p. 27.


27

un’agente, ciò che in francese si chiama dispositif. Il mezzo funziona come un supporto, un attrezzo per l’immagine»88. Lo vedremo meglio nel caso dello schermo, ma bisogna sottolineare sin da subito come, secondo lo studioso, in nessun caso la trasmissione dell’immagine avvenga in maniera “innocente”: lo dimostra l’iconoclastia, che vorrebbe distruggere le immagini (images), ma finisce per intaccarne solo il lato materiale (pictures). L’immagine è qualcosa di più di un ‘segno’, e il medium è più di una ‘superficie’, poiché entrambi fanno riferimento al corpo, allo sguardo e al desiderio – coordinate ‘non-iconiche’ che ampliano il concetto di ‘mediazione’ e di ‘trasmissione’ in senso antropologico. A maggior ragione, allora, è necessario parlare di un corpo delle immagini, proprio perché queste ultime condividono con esso il carattere multiforme, plurivoco, eppure sempre sensibile, determinato, il quale viene espresso nelle numerose analogie che fondano la nostra esperienza figurativa e che richiama il loro «significato sfuggente, dunque difficilmente controllabile» che si riflette nell’infinita varietà dei modi in cui le immagini appaiono.

3. Immagine e morte Il “punto di fuga” di questa analogia originaria tra ‘corpo’ e ‘mezzo’ è la Todesbild, l’immagine della morte di cui rendono testimonianza i culti funerari arcaici: Corpo e mezzo sono entrambi coinvolti nel significato delle immagini funerarie, così come il corpo assente del defunto, al posto del quale vengono esibite delle immagini. Ma queste immagini, per poter occupare il posto lasciato vacante dal defunto, necessitano di un corpo artificiale. Quest’ultimo può essere chiamato “mezzo” (e non soltanto materia), dal momento che le immagini necessitano dell’incarnazione per acquisire visibilità. Da questo punto di vista, un corpo perduto è scambiato con il corpo virtuale dell’immagine89

L’idea che gli uomini abbiano iniziato a creare immagini per rispondere ad una preoccupazione esistenziale – la scomparsa di un corpo dal mondo della presenza e la sua decomposizione a semplice materia – porta Belting a evidenziare ripetutamente l’importanza del corpo all’interno della sua impostazione. L’insistenza sul corpo delle 88

Ivi, p. 14.

89

Ivi, p. 11.


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immagini, sul loro essenziale carattere mediale, deriva dalla radicalità con cui i culti funerari delle società primitive o arcaiche hanno posto (e trattato) la questione del corpo. La medialità dell’immagine è radicata nell’esperienza corporea e nelle sue tracce, che risalgono a decine di millenni di anni fa e che, concretizzate nei prodotti materiali dei culti funerari, testimoniano di un paradigma su cui l’esperienza figurativa, secondo Belting, è integralmente basata. In questo senso, la prospettiva delineata in BildAnthropologie fa del ruolo e del significato culturale della morte il proprio centro cardine, e del recupero dell’analogia tra quest’ultima e l’immagine il proprio compito90. Incarnata in un doppio materiale dell’uomo, ed inserita nel ciclo di esistenza della vita, l’immagine è, quanto alla sua origine, strettamente connessa alla morte. Anche Belting, pur riconoscendo l’esistenza di immagini ‘originarie’ diverse oltre quelle funerarie, insiste decisamente sull’importanza che la morte, come pratica simbolico-culturale antropologicamente strutturata in culti funerari, riveste quanto alla spiegazione della comparsa dei primi artefatti figurativi umani91. Qui lo studioso, seppur consapevole della “vertiginosità” dell’argomento, spinge le sue ricerche verso una direzione che si potrebbe definire ‘protologica’ – ossia di individuazione dei fondamenti primi e dei caratteri archeologicamente essenziali dell’umano. «Caduta dei corpi, ascensione dei doppi», come ricorda Régis Debray, «è lecito pensare che la prima esperienza metafisica dell’animale umano, indissolubilmente estetica e religiosa, sia stato questo enigma sconvolgente: lo spettacolo di un individuo che passa allo stato di anonima gelatina. Forse è questo il vero stadio dello specchio antropico: contemplarsi in un doppio, in un alter ego e vedere nel visibile che si ha di fronte l’altro dal visibile»92. L’esperienza di perdita del corpo, nel caso della morte, è infatti un’esperienza di perdita totale dello spazio e del tempo, ossia delle coordinate antropologiche della presenza e dell’assenza, fondanti a loro volta i paradigmi della visibilità e dell’invisibilità. Essa è organicamente legata alla 90

Per dare una misura di tale importanza: «[…] se andiamo indietro ripercorrendo la storia della produzione

figurativa, allora, e soltanto allora, le immagini possono riportarci a ciò che è la morte: un’assenza radicale. Il contrasto fra presenza e assenza che osserviamo ancora oggi nelle immagini affonda le sue radici nell’esperienza della morte altrui»; cfr. ivi, p. 173. 91

Una teoria del picture-making a partire da origini differenti rispetto al culto dei morti, ma sempre tenendo

conto del rapporto tra corpo, esperienza e tecnologia, è elaborata da F. Antinucci, Parola e immagine. Storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari (2011). 92

Debray R., Vie et mort de l’image, Éditions Gallimard, Paris, 1992; ed. it. Vita e morte dell’immagine.

Una storia dello sguardo in Occidente, tr. di A. Pinotti, Il Castoro, Milano, 1999 (2001), p. 28.


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decomposizione, «trauma abbastanza stupefacente da invocare subito una contromisura: fare un’immagine dell’innominabile, un doppio del morto per mantenerlo in vita e, per contraccolpo, non vedere questo non so che in sé, non vedere sé stessi come quasi niente. Iscrizione significante, ritualizzazione dell’abisso per raddoppiamento speculare»93. Per quanto riguarda Belting, l’immagine, ogni immagine, tende a ripristinare un equilibrio, aspirando così alla condizione di un’autentica sostituibilità: quella tra il rappresentante (il medium) e il rappresentato (l’immagine raffigurata). Nei culti funerari, al posto del defunto, a volte addirittura attraverso il suo stesso corpo, si realizzavano immagini unicamente al fine di intrattenere con questo corpo ibrido uno ‘scambio simbolico’ di sguardi (secondo la celebre definizione di Jean Baudrillard) attraverso cui restaurare l’ordine garante dell’equilibrio sociale94. Come scrive Belting: fin dai tempi più remoti, l’umanità è stata tentata dal comunicare con le immagini come se fossero corpi viventi, e persino dall’accettarle come sostituti dei corpi stessi […] la costellazione formata dai tre termini collegati tra loro di corpo, medium e immagine appare qui massimamente evidente. L’immagine dei morti, al posto del corpo scomparso, il corpo artificiale dell’immagine (il medium) e il corpo vivo di chi guarda interagiscono nel creare una presenza iconica opposta a una presenza corporea95

Il riferimento comunicativo di ogni immagine – la possibilità che quest’ultima possa significare realmente, ciò che Belting chiama ‘presenza iconica’ – è radicato nell’esperienza mediale della morte: reinserire l’essere perduto nella comunità o, se si vuole, rendere presente ciò che è assente, è tra i compiti antichissimi dell’immagine, che le società arcaiche attuano attraverso l’invocazione rituale o l’animazione magica e che le

“società del disincanto” raggiungono attraverso il ricordo – cioè attraverso

l’incarnazione del defunto nelle immagini mentali dei viventi. Il fare-immagini (picturemaking) gravitava, allora, intorno a una «trasformazione ontologica» che il corpo subiva, diventando esso stesso un’immagine: l’immagine del defunto diviene così, per Belting, l’emblema e il prototipo di ogni immagine. La particolarità del concetto mediale modellato su tale paradigma sta nel fatto che «ogni tipo di immagine, per definizione, 93

Ibid.

94

Belting fa qui riferimento a J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort, Éditions Gallimard, Paris,

1976; ed. it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007 95

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., pp. 80-1. Corsivo mio.


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mette in scena l’esperienza della morte, svolge cioè lo stesso ruolo di un “cadavere” che – con la sua presenza – rinvia a ciò che era vivente»96. Lo studioso non esita a rilevare, in questa discesa verso le origini, una possibile ‘ontologia’ dell’immagine, poiché essa non nasceva solamente per compensare una perdita ma, «nell’atto della sostituzione, otteneva un “essere” che essa rappresentava in nome di un corpo, senza che per questo venisse confutata dall’apparire dal quale è costituita»97. Per Belting, è questa dinamica a presiedere ad ogni modello di esperienza figurativa: la morte garantisce l’immagine, nella misura in cui quest’ultima implica il riferimento a un corpo irreversibilmente perso e tuttavia desiderato – che si desidera cioè riportare in vita. Di qui, l’interesse dello studioso nei confronti dei concetti di animazione, sostituzione, scambio di sguardi che aprono la questione dell’immagine alle preoccupazioni esistenziali rappresentate dai «temi extra-temporali» del corpo, dello spazio e del tempo. Occorre notare che tale paradigma riveste, per Belting, un significato “intemporale”. Ne è prova il fatto che, secondo lo studioso, oggi tra corpo vita e morte non sussiste più una relazione feconda, ma i termini sono caduti in un vortice autoreferenziale in cui ad essere coinvolto è proprio il problema della rappresentazione. Se oggi, per Belting siamo abituati (ossia “assuefatti”) alle immagini è perché non siamo più sensibili alla (immagine della) morte. Scrive infatti: «Non solo non disponiamo più di immagini della morte che ci richiamino fortemente ad essa, ma ci abituiamo alla morte di quelle immagini che un tempo esercitavano su di noi una fascinazione per tutto ciò che era simbolico»98. Egli arriva così a legare l’odierna crisi della rappresentazione alla perdita del suo originario riferimento corporeo: corpo, immagine e medium oggi sono cioè attraversati da una ‘crisi’ che è un tentativo di superamento delle loro originarie condizioni esistenziali, in cui tale riferimento alla morte viene rimosso. È per questo motivo che Belting segue il “diluirsi” del concetto mediale negli effetti storici e post-storici dell’ipoteca platonica, che rimuove il carattere ‘carnale’ dell’esperienza figurativa nel ricordo (in)corporeo – il quale, sottolinea Belting, non è altro che una diversa forma di animazione. Ad ogni modo, se egli registra un parallelo tra il modo in cui le culture trattano i defunti e il modo in cui le stesse si prendono cura delle proprie immagini è perché la profonda analogia che lega 96

G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, cit., p. 176.

97

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 177.

98

Ivi, p. 173.


31

l’immagine alla morte, anche se rimossa dalle odierne culture mediali, non ha comunque mai smesso di darsi99.

4. Medium e inter-medialità Inserito tra i poli dell’immagine e del corpo, il concetto di ‘medium’ vive grazie alla possibilità di stabilire inter-mediazioni, alla cui base si trovano le esperienze corporee della presenza e dell’assenza, della visibilità e dell’invisibilità. Il medium ‘fa presenza’, trasmette: il suo referente originario è il corpo vivente stesso, che dispiega un’esperienza figurativa basata sulla performatività e sull’interazione. È in questo senso che Belting approfondisce il problema della medialità in base all’idea secondo cui l’immaginazione trova via via «differenti forme» di materializzazione e di concretizzazione – come si è visto nel capitolo precedente. Alla luce dell’esigenza, per le immagini, di doversi incarnare rendendosi disponibili ad essere trasmesse e percepite, Belting riconosce il vero assetto mediale delle immagini nel loro (tra-)passare da un mezzo all’altro all’interno della storia della trasmissione simbolica umana. È il fenomeno dell’intermedialità, figura concettuale cui lo studioso ricorre per approfondire l’idea che le immagini siano come «nomadi che nelle culture storiche hanno cambiato il proprio modus e utilizzato i mezzi attuali come stazioni nel corso del tempo»100. Posto che le immagini non possono essere più racchiuse entro una cornice storica unitaria e che esse vanno piuttosto riferite allo scambio culturale tra immaginazione ed immaginario, ecco che viene aperta la strada per pensare alle immagini come ‘finestre’, che appaiono nel tempo sfruttando ogni volta, dal punto di vista mediale, una ‘cornice’ diversa: stesse immagini perdurano nel tempo semplicemente grazie al fatto di essere passate da un allestimento mediale ad un altro, ossia attraverso più incarnazioni. Scrive infatti che oggi i dispositivi di memorizzazione controllano una memoria elettronica di immagini inattive che provengono da lontano. Spesso i nuovi media non sono altro che specchi della memoria nei 99

Sul rapporto tra ‘immagine e morte’ secondo questa prospettiva si veda anche R. P. Harrison, The

dominion of the dead, The University of Chicago Press, Chicago – London, 2003; ed. it. Il dominio dei morti, a cura di P. Meneghelli, Fazi, Roma, 2004. 100

Ivi, p. 45. Per un’introduzione alla questione, insieme ad un’ampia bibliografia, si veda D. Cecchi (cur.),

Intermediality and Interactivty, cit.


32 quali le vecchie immagini sopravvivono, in modo diverso, come nei musei, le chiese e i libri. Sia i nuovi sia i vecchi mezzi figurativi sorgono così in un territorio ampliato attraverso una nuova dinamica che, inoltre, riporta immagini che oggi non esistono più

101

.

Poste le basi per un ripensamento antropologico del soggetto come luogo di produzione, trasmissione, manipolazione di immagini, ecco che l’interazione tra immagini “interiori” ed “esteriori” non può che fondarsi su un concetto di “nomadismo mediale”. Il fenomeno dell’intermedialità è la controparte oggettiva che sorregge, come fondamento mobile, la produzione, la trasmissione e la circolazione delle immagini tra “interno” ed “esterno”. Come scrive Belting «l’intermedialità, campione fondamentale di ogni storia dei media, genera da sé la questione dell’immagine e, richiamando le immagini che noi conosciamo e ricordiamo grazie a un altro mezzo trasmissivo, presuppone la coesistenza o la rivalità di mezzi diversi»102. I media interagiscono continuamente tra di loro, in un continuo processo di confronto ed integrazione, così che ogni medium in realtà non è altro che un ibrido di diversi elementi, frutto di ulteriori ri-mediazioni103. Di figure (o configurazioni) intermediali, effettivamente, sono composte la maggior parte delle ricerche di BildAnthropologie, che considera tali gli scudi e gli stemmi medievali, i ritratti rinascimentali, le fotografie e il video – inteso quest’ultimo nella doppia possibilità di ‘cinematografia’ e ‘video-arte’. Se necessità di Belting era quella di superare i modelli temporali evoluzionistici delle discipline tradizionalmente legate alla storia dell’arte, ecco che parte della soluzione consiste nello spostare l’attenzione verso l’indagine sui media storici, i quali tramandano le immagini nel tempo così come avviene nelle tradizioni orali, dove le culture sopravvivono attraverso lo scambio di immagini tra corpi: il lavoro dell’antropologo si situa proprio in quel ‘cortocircuito’ temporale dove l’immagine sopravvive nella presenza dell’osservatore. Come ricorda Bradamante: «Ciò che è veramente intertemporale per Belting è l’immagine, non l’opera, non il mezzo, non il supporto [… ] Superare i confini tra i mezzi di rappresentazione significa restituire l’immagine alla sua dimensione atemporale […] Il medium in sé, cioè il supporto, non basta a rispondere ai quesiti posti da un’immagine, si limita a trasmetterla, a simbolizzarla. Interrogare il medium è una via all’immagine, ma la via all’immagine non 101

Ivi, p. 62.

102

Ivi, pp. 64-5. Corsivo mio

103

Su questo punto si veda J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation: Understanding new media, MIT Press,

Cambridge (2000).


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esiste. È nella nostra immaginazione, ma non là dove appare l’immagine»104. Questo porta ad un primo, problematico aspetto di tale impostazione, ossia la difficoltà di coniugare una ricerca storico-empirica sugli artefatti figurativi (che sorgono all’incrocio della «produzione figurativa che ogni cultura ha sviluppato nel proprio contesto sociale», della «comune attività della percezione sensoriale» e della «produzione di immagini interiori») con l’idea che l’immagine, in sé, oltrepassi i media in cui è incorporata per sorgere nello sguardo dell’osservatore. Non a caso Wood commenta così la nozione di medium appena raggiunta: The source of this rather exotic notion of a disembodied image wandering in search of its medium must be either television broadcasting or the digital image coursing the Internet – unless it is just Plato after all. Belting goes on to point out that image cannot be perceived by other bodies until it is embodied, even that the image does not really become an image until it is animated by a beholder105.

Proprio stabilendo una relazione essenziale tra ‘medium’ e ‘corpo’ – tenuta ferma lungo tutte le analisi, si tratti di immagini digitali o di ritratti funerari – egli finisce per far “collassare” entrambe le nozioni – poiché le nozioni di embodyment e di animazione finiscono per essere le uniche misure di riferimento che lo studioso ritiene necessarie per giustificare il nuovo concetto mediale proposto. Se questo impianto sembra funzionare nel caso della descrizione delle pratiche sociali sviluppate dalle culture figurative, lo stesso non si può dire nella descrizione beltingiana del modo in cui lo sguardo dialoga con l’immagine, animandola.

5. Mimesi e simulacro È possibile trarre due conseguenze da questo discorso sul corpo e sul medium. La prima è che con ‘immagine’ (Bild) lo studioso intende prima di tutto «simulacra of the human body; a pictorial representation or formal construct other than the doubled body does not

104

L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, cit., p. 39.

105

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., p. 371.


34

quite constitute an image»106. Ciò che Wood intende con simulacra, è che per Belting le immagini sono prima di tutto dei doppi: cioè ‘tracce’ ed ‘apparizioni’ che fanno entrambe riferimento al corpo. Non a un corpo determinato, ma semplicemente al corpo, come dimostrano le reliquie dei santi, gli scudi stemmati da competizione, le effigi votive in cera, le mummie e altri artefatti simili. Ma è anche il caso di fotografie, dipinti, e immagini in movimento: anche queste tipologie figurative fanno riferimento al corpo in questo senso. Ciò, come evidenzia Valle, è perché «lo straordinario potere che Roland Barthes riconosce alla fotografia, prendendo spunto dalle foto della madre morta, viene da Belting esteso all’immagine in generale»107: ogni immagine, per Belting, è garantita dalla morte. La seconda conclusione, strettamente connessa, è che «without that strong link to the irreversibly absent yet sharply desired object, the image would be a mere work of art»108. È questo il punto: Belting adotta, per la sua concezione di immagine, un modello strettamente antropocentrico, «one might say almost existentialist»109, che lo porta a vedere in quest’ottica tutti gli artefatti figurativi, escludendo così le stesse opere d’arte “tradizionalmente” intese, per il quale un tale paradigma non può essere unilateralmente valido. Così facendo, infatti, la morte diviene l’unico significato alla base del picturemaking, e ciò porta Belting ad operare una selezione quantomeno arbitraria degli artefatti figurativi che mette in gioco: «Death becomes the all-encompassing horizon that organizes the experience of time and generates all the efforts to overcome time. This horizon produces the effect that images have “power”»110. È questo orizzonte a far sì che le immagini possano avere una vera e propria effettualità (Wirkung), che Belting identifica non a caso con la ‘presenza iconica’. È ciò che egli vi ritrova negli artefatti che vengono messi al centro delle ricerche storiche di Bild-Anthropologie: se non si tratta di immagini che rappresentano il corpo sono immagini che lo mediano, nel senso che ne prendono il posto e che dunque ne rendono la traccia, lo fanno apparire. Ma si può ridurre 106

Ibid.

107

G. Valle, Eterotopie dello sguardo. Il “museo immaginario” di Hans Belting, cit., p. 169. Il riferimento

è a R. Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du Cinéma, Gallimard, Seuil, 1980. ed. it., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980 (2003); cfr. anche H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 255-6. 108

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., p. 371. 109

Ibid.

110

Ibid.


35

l’immagine all’effetto lasciato da un’impronta o a un’apparizione costitutivamente paradossale? Da una parte le sue analisi sono corrette nel sottolineare che ogni medium, in fondo, non è che il risultato di una rimediazione, così che «stesse immagini» perdurano nel tempo cambiando forma nei diversi mezzi trasmissivi storici. Dall’altra, come vedremo, questo richiamo all’intermedialità dell’immagine è problematico per lo stesso Belting: si può vedere sin da subito come, legando l’immagine alla morte, lo studioso finisce per considerare la rappresentazione come un ‘simulacro’ (eidolon), nel suo originario etimo greco di ‘segno sensibile’, ‘parvenza’ e ‘ombra’ – in ultima analisi rimuovendo la necessità stessa per un medium. Lo vedremo, ma per il momento occorre rilevare come la critica di undertheoretization cui Bild-Antropologie è stata sottoposta riguarda, qui, la rimozione del carattere di immagine dell’immagine in favore di un paradigma mimetico-analogico ormai anacronistico. Come ha sottolineato Rampley, il recupero dell’originario mimetismo insito in ogni atto di picture-making (ossia del simulacro), per cui ogni immagine fisica non sarebbe che un doppio antropologico, porta Belting a fare affidamento su «an essentialist logic that runs counter to the predominant contemporary concern with the cultural and historical specificity of images. Belting was thereby revisiting motifs more common in art-historical writing of the late nineteenth and early twentieth century»111. Così facendo, la prospettiva di Belting ricadrebbe nello stesso platonismo che tenta di evitare, il quale conferisce vero carattere d’immagine all’unica forma di mediazione possibile: il corpo e il ricordo che, su di un corpo, può essere esercitato in forma di animazione ‘privata’. In questo senso, da discorso meta-teoretico sulle immagini, l’approccio di Belting finisce per non sembrare troppo distante da una riproposizione, ormai anacronistica, di quei motivi sulle origini cultuali dell’immagine su cui riflettevano artisti ed etnologi negli anni ’20 (Bataille, Benjamin, Carl Einstein)112. Ciò può essere chiarito anche facendo riferimento alla seconda conclusione evidenziata, ovvero al fatto che, senza il riferimento ontologico della morte, l’immagine per Belting non sarebbe che ‘opera d’arte’. Come è stato giustamente notato, in Bild-Anthropologie lo studioso è ben favorevole al ritorno di un’immagine mimetica all’interno di una scena culturale, come quella artistica, paralizzata dall’astrazione, dal concettualismo, dal 111

M. Rampley, Bildwissenschaft: Theories of the Image in German-language Scholarship, cit., p. 128.

112

Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., par. 6.2.


36

minimalismo. Nonostante egli riconosca a queste ‘correnti’ il fatto di aver approfondito il problema dell’immagine (Bild), egli non vi ritrova nessun riferimento al corpo in quanto tale: «conceptual art was often ugly and alienating»113. Lo studioso stesso, quasi di sfuggita, accenna alla nuova forma di “iconoclastia” inaugurata dal critico formalista Clement Greenberg, secondo cui la pittura doveva assumere come tema il suo stesso medium, cioè tela e colori. Scrive infatti che «durante l’esplosione figurativa dei mass media del suo tempo, Greenberg ha fondato un nuovo tipo di iconoclastia, mentre nello stesso periodo McLuhan ne faceva il tema della sua ricerca. Egli voleva affidare le immagini ai mass media con i quali l’arte aveva il compito di produrre la sua specifica “immagine”»114. In questo senso, gli artisti chiamati in Bild-Anthropologie a rappresentare la contemporaneità – personaggi come Cindy Sherman, Bill Viola, Gary Hill, Jeff Wall, Hiroshi Sugimoto, ma anche Jean-Luc Godard – insistono fortemente sul gioco intermediale tra ‘corpo’ e ‘immagine’ in termini di ‘traccia’ e ‘apparizione’ – ossia a partire da un modello di rappresentazione analogico-mimetico (più che strettamente figurativo). Proprio facendo riferimento al lavoro di Bill Viola, Belting sottolinea come «sin dagli anni sessanta, tuttavia, per raffigurare il corpo gli artisti fanno perno su una nuova estetica. L’arte mediale fa appello a un’esperienza corporea integrale che non limita l’osservatore alla visione oculare della distanza»115. È vero, e come sottolinea Wood «work by these artists, in this view, connects back to a premodern world where the image had not yet been fed into the self-propelling, dialectical machinery of aestheticism, critique, and more aestheticism […] Such works frame the nostalgia for a more powerful image. They are sophisticated diagrams of an imagined postart condition»116. È in questo senso che Belting invita ad intendere il lavoro di questi artisti come se, sotto un certo punto di vista, esso non fosse più arte, quanto piuttosto la possibilità di immaginare una ‘condizione’ per l’immagine dopo l’arte. Ed è questo quello che lo studioso cerca di ritrovare in tutti gli artefatti figurativi che analizza in BildAnthropologie: uno stato in cui l’immagine è ancora matrice (e non solo rappresentazione), traccia sensibile del corpo con cui rimane in dubbio il grado di 113

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., p. 372. 114

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 46-7.

115

Ivi, p. 61.

116

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., pp. 371-2.


37

somiglianza, e che, non a caso, fa affidamento, quanto alla sua percezione, sull’esperienza corporea integrale. Rimane, tuttavia, il problema di capire perché, se la fine dell’era dell’arte libera il concetto di immagine (Bild), Belting propone come esempio di questa ‘condizione’ proprio una serie di artisti fortemente radicati nella storia dell’arte stessa, e il cui lavoro difficilmente può non essere considerato tale. Se così fosse, l’immagine (Bild) di cui parla Belting non sarebbe altro che «a dialectical myth of art»117, ossia la condizione stessa di cui tutte le opere d’arte, in realtà, hanno sempre parlato.

117

Ivi, p. 372.


38

Terzo capitolo Percezione figurativa e tecnica mediale. La questione dell’animazione 1. La messa in scena mediale e la percezione simbolica In Bild-Anthropologie, l’incontro tra corpo e immagine viene così descritto: «Allorché ci imbattiamo nei loro corpi mediali, noi animiamo le immagini come se vivessero o potessero parlarci. La percezione dell’immagine, come atto dell’animazione, è un’azione simbolica che nelle diverse culture o nelle odierne tecniche figurative viene appresa in maniera totalmente differente»118. Nel discutere del rapporto tra percezione figurativa e tecnica mediale bisogna partire dal fatto che, secondo lo studioso, è prima di tutto la ‘messa in scena’ mediale ciò che fa sì che l’immagine appaia. Le immagini, «che in qualità di artefatti occupano il proprio posto in ogni spazio sociale, vengono al mondo come immagini mediali. Il mezzo trasmissivo dà loro un’esteriorità con un significato attuale e una forma percettiva»119. Sottolineando l’assoluta centralità del mezzo, o del “come”, di cui viene evidenziata la coincidenza “originaria” con l’immagine, Belting mette in rilievo il fatto che l’immagine assume già, sin da subito, una forma temporale che le è propria, rendendosi così disponibile allo sguardo dell’uomo nello «spazio sociale». È in virtù del suo apparire sempre in un determinato “corpo” concreto che l’immagine può essere considerata in primo luogo un artefatto dotato di «un’esteriorità con un significato attuale ed una forma percettiva». Tale ‘apparenza’ riguarda allora il fatto che le immagini appaiono sulla “scena” del mondo dove vengono “installate” all’interno di uno spazio pubblico. Il discorso su come le varie culture animano le immagini nei loro corpi trasmissivi si intreccia qui, in maniera essenziale, con l’idea che tali corpi mediali operino nello spazio dell’apparenza; quello spazio “purificato” da quel dualismo di immagini interiori ed immagini esteriori contro cui Belting si oppone. Si può cogliere qui un riferimento al pensiero di Hannah Arendt, che al problema dell’apparenza ha dedicato il suo ultimo libro, e cui lo studioso stesso si riferisce per superare il dualismo che “corrode” la

118

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 22.

119

Ivi, p. 30.


39

questione dell’anthropos, opponendo una logica dell’apparenza delle immagini basata sull’esperienza corporea120. Così facendo, egli riconosce parte della medialità delle immagini nella presenza fisica che esse posseggono nel mondo: in questo senso ogni picture è un ‘artefatto’ – idea con cui egli intende più l’immagine come ‘fatto sociale’ e ‘oggetto di pratiche’ (come lo scambio e la trasmissione) che come semplice ‘prodotto figurativo’. L’ineliminabile presenza del mezzo costituisce per Belting un’evidenza antropologica ed un punto fermo nei confronti delle dinamiche che si articolano intorno all’operatività (Wirkung) delle immagini: è sempre in riferimento al loro corpo mediale che la percezione figurativa, a livello individuale e collettivo, raggiunge i suoi effetti121. In questo senso (come già aveva evidenziato Walter Benjamin)122, l’apparenza delle immagini rimanda al fatto che ogni “allestimento mediale” è caratterizzato dal fatto di possedere tanto caratteristiche fisico-tecniche quanto un tempo storico – così che «dai più 120

Ivi, p. 38. Cfr. anche ivi, par. 4.1. Nell’incompiuto La Vita della Mente, H. Arendt riconsidera infatti la

tradizionale gerarchia metafisica che sussiste tra l’essere e il fenomeno, scardinando l’antico dualismo, che separa lo spazio della verità da quello delle sembianze, attraverso il ricorso alle nozioni di apparenza e vitalità. Mostrando come la contraddizione tra l’essere e l’apparire abiti come dilemma il corpo stesso, Hannah Arendt ristabilisce il «valore della superficie», cioè il «primato» dell’apparenza, e l’«incrollabile convinzione» del senso comune che l’accompagna, contro la svalutazione portata avanti dal pensiero metafisico. In questo senso «avviene davvero come se ogni cosa che vive […] avesse un impulso ad apparire, cioè ad intonarsi al mondo delle apparenze esibendo e mostrando non il proprio “sé interno”, ma sé stessa come individualità». Cfr. H. Arendt, The Life of the Mind, New York – London, Harcourt Brace Janovich, 1978; ed. it. H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987 (2009), par. I; la citazione è tratta da p. 110 dell’edizione italiana. 121

Scrive infatti che «rappresentare un’immagine, un tempo significava solo produrla fisicamente. Le

immagini non venivano al mondo per partenogenesi, ma nascevano piuttosto in corpi figurativi concreti che attraverso il loro materiale e la loro forma palesavano già la propria Wirkung. Non dimentichiamo, quindi, che le immagini avevano già bisogno di un’incarnazione visibile, poiché nello spazio pubblico, erano soggette a quei rituali che le società praticavano su di esse»; cfr. ivi, p. 38. 122

Benjamin parla della storicità della percezione dei dispositivi che la orientano in passi famosi del saggio

sull’Opera d’arte: «Il modo in cui si organizza la percezione umana – il medium, in cui essa ha luogo –, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico»; oppure: «Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione»; si veda W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt Am Main, 1955; ed. it Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino (2012), p. 21.


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antichi manufatti sino ai procedimenti digitali le immagini sono subordinate a delle condizioni tecniche che sono le principali produttrici di quelle caratteristiche mediali con le quali noi d’altronde le percepiamo. La messa in scena attraverso un mezzo della rappresentazione crea già l’atto percettivo»123. Secondo Belting infatti, l’esperienza del mondo viene condotta sull’esperienza figurativa, e quest’ultima, a sua volta, «è legata all’esperienza mediale. I mezzi portano in sé una forma temporale dinamica che acquistano nei cicli della storia mediale […] Le questioni legate ai mezzi fanno parte anche delle questioni storico-mediali»124. Nel caso delle immagini, come vedremo, il rapporto tra condizioni tecniche e caratteristiche mediali è altamente problematico, poiché mette in gioco il problema della storia: Belting stesso fornisce l’indicazione generale secondo cui «i mezzi portano in sé una forma temporale dinamica che acquistano nei cicli della storia mediale»125. Al di là del richiamo al rapporto storico tra percezione, tecnica figurativa e medialità, è importante osservare che se la “messa in scena mediale” crea già l’atto percettivo, ecco che quest’ultimo è allora già distinto dalla «percezione quotidiana», allineandosi piuttosto «alla stessa simbolicità della produzione figurativa»126. Solamente osservandola sotto la prospettiva delle azioni simboliche, secondo Belting, «è possibile comprendere l’interazione fra immagine e tecnologia»127. Sempre più recentemente, lo studioso è venuto infatti approfondendo l’idea che l’immagine sorga nell’osservatore, arrivando a delineare il progetto di una «iconologia critica dello sguardo», consapevole delle problematicità sollevate e lasciate in eredità da Benjamin: «Il conflitto metodologico tra storia dei media e storia della percezione non si potrà mai risolvere, così come non si potrà mai districare la relazione tra sguardo e immagine»128. È in questo senso che egli distingue una «prassi dello sguardo corporeo autonoma o primaria» e una «prassi dello sguardo eteronoma o secondaria». Quest’ultima, specifica, è secondaria unicamente perché proietta sugli artefatti «un primario dominio dello sguardo legato al corpo»129. 123

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 30.

124

Ivi, p. 39

125

Ibid.

126

Ivi, p. 30.

127

Ibid.

128

H. Belting, Per un’iconologia dello sguardo, in R. Coglitore, Cultura visuale. Paradigmi a confronto,

Duepunti, Palermo, 2008, p. 8. 129

Ivi, p. 6.


41

2. Sintesi, analisi e attualità della percezione La doppia questione della storicità dei media e della percezione viene approfondita da Belting, facendo riferimento alla questione della sintesi e dell’analisi operanti entro la percezione umana. È ancora Stiegler, nel saggio citato, ad argomentare la presenza di una “duplice sintesi” operante entro il rapporto tra percezione e tecnica: «una corrispondente all’artefatto tecnico in generale, l’altra all’attività del soggetto che produce “spontaneamente” le sue “immagini mentali”»130. La sintesi propria dell’artefatto tecnico riguarda, ad esempio, la “nuova” modalità di rappresentazione delle immagini inaugurata dalla fotografia analogica nel XIX sec. – basata sulla logica della ‘traccia’, della ‘scrittura’, del ‘contatto’131. In quanto medium capace di imprimere sensibilmente l’ombra del corpo, di cui può tracciare (e in questo senso “verificare”) le varie posizionalità (i vari modi di apparire) senza perderne il riferimento indessicale (l’unicità del corpo stesso), la fotografia inaugura sicuramente, come nuova tecnologia, «l’epoca di una nuova percezione figurativa analitica»132. Riferendosi allo scritto di Roland Barthes sulla fotografia, Stiegler mostra come sia stata «la sintesi tecnologica operata dalla macchina (l’apparecchio) a rendere possibile la sintesi intenzionale, cioè la credenza nello è stato. E ciò vuol dire ugualmente che in questo caso guardare un’immagine, sintetizzarla anche come immagine mentale, è sapere qualcosa delle condizioni tecniche, sintetiche e artefattuali della sua produzione»133. La sintesi operata, a livello percettivo, dall’osservatore (il quale incorpora determinati segni sensibili all’interno della sua memoria figurativa), porta sempre con sé, come correlato, un’analisi delle condizioni tecniche attraverso cui essa viene vincolata. «Di conseguenza», ne conclude Stiegler, «la sintesi del “soggetto” dipende dal sapere che egli ha delle condizioni tecniche della produzione dell’immagine-oggetto, poiché questo oggetto è anche una traccia, un ricordooggetto che sovradetermina un rapporto col tempo»134. Belting commenta così le formulazioni di Stiegler: 130

B. Stiegler, L’immagine discreta, cit., p. 179.

131

Cfr. ivi, pp. 171-173. Cfr. inoltre J. Derrida, Copy, Archive, Signature. A conversation on Photography,

edited by G. Richter, Stanford University Press, Stanford, 2010. 132

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 55.

133

B. Stiegler, L’immagine discreta, cit., p. 179.

134

Ivi, p. 180.


42

Nel sistema degli apparati figurativi c’è anche una sintesi di tipo tecnologico di cui l’osservatore viene a conoscenza e che interiorizza per la propria scoperta (sintesi) delle immagini. Dalla parte dell’osservatore, inoltre, non c’è solamente la “fede nel reale” dell’immagine (sintesi), la percezione passiva, ma anche una versione analitica dei mezzi e delle loro tecnologie, una conoscenza intuitiva della tecnica che influenza nuovamente il concetto di immagine135.

Le caratteristiche tecniche del medium, a loro volta comprese entro i più ampi cicli storico-mediali dell’uomo, guidano allora l’esperienza dell’osservatore strutturandola secondo un rapporto in cui la sintesi dell’immagine nell’osservatore (la costruzione della rappresentazione) viene affiancata da un’ulteriore “sintesi” che è in realtà un’analisi delle condizioni storico-mediali dell’immagine stessa. In questo senso l’immagine, come ‘costruzione’ dell’osservatore, incorpora in sé dei segni che la rendono permeabile all’apertura dello sguardo nel tempo. Come dice Belting, «conosciamo la trasformazione che le immagini acquistano attraverso i mezzi meglio delle immagini stesse. La questione dell’immagine porta a simboliche unità di contorno in cui percepiamo le immagini e le riconosciamo come tali»136. È nella «memoria figurativa interiore» e nella fantasia che, per Belting, l’immagine viene effettivamente riconosciuta in quanto tale. Per adesso occorre sottolineare che, se dalla parte dell’immagine non esiste solamente un’unica temporalità – risultando invece, in virtù dello scambio tra interno ed esterno, un oggetto temporalmente complesso, stratificato –, ecco che, dalla parte dell’osservatore, Belting riconosce l’esigenza di dover corrispondere a tale temporalità “esuberante”. È in questo senso che, parlando dello sguardo rivolto alle immagini, si riferisce alla questione dell’animazione nei termini di un «anacronismo […] che è inerente all’immaginazione umana e che agisce contro il mero progresso dell’evoluzione tecnica mostrato dai mezzi visuali» – così come aveva fatto Georges Didi-Huberman137. Scrive infatti: 135

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit. p. 55.

136

Ivi, p. 44.

137

Ivi, p. 15. Belting condivide con Georges Didi-Huberman l’idea che l’immagine possieda una

temporalità anacronistica, ossia non lineare, bensì frammentata. Nel tratteggiare «un’archeologia critica dei modelli di tempo, dei valori d’uso del tempo nella storia dell’arte» Didi-Huberman formula l’idea secondo cui ogni immagine, in quanto composta da una stratificazione di più tempi, sia «altamente sovradeterminata: essa gioca su molti tavoli allo stesso tempo». In questo senso la storia delle immagini – distinta dalla tradizionale storia dell’arte e dalla sua temporalità “evoluzionistica” – si caratterizza come una storia di «oggetti temporalmente impuri, complessi, sovradeterminati, dunque policronici, eterocronici,


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Noi comprendiamo le immagini soltanto nel loro allestimento mediale e nonostante ciò non le confondiamo con il mezzo attraverso il quale le riceviamo […] Crediamo testardamente che attraverso il mezzo ci giungano delle immagini la cui origine si trova al di là del mezzo stesso. Altrimenti non potremmo mai immedesimarci nell’arte antica, i cui mezzi non erano assolutamente predisposti per noi […] Quando si riferisce alla nascita di una nuova immagine, il desiderio figurativo viene così nuovamente riempito da quei mezzi che di volta in volta divengono attuali e che devono la loro esistenza a questo desiderio permanente138.

Il problema della corporeità, introdotto attraverso l’idea che il corpo operi come un mezzo vivente, «trattando, ricevendo ed emettendo immagini», riguarda ora la determinazione antropologica del suo profilo percettivo-cognitivo-riflessivo. È, come accennato, il problema dello “sguardo” (Blick), il quale, «piuttosto che essere un mero strumento, implica nell’insieme il corpo vivente» (se è vero che esso, almeno nel suo etimo francese, implica nel suo insieme l’idea del «prendre garde»)139. Attraverso il ricorso al concetto di intermedialità, Belting assicura alle immagini, come si è visto, la loro trasmissibilità attraverso le epoche. È all’anacronismo della nostra immaginazione che Belting ora si rivolge, consapevole del fatto che esso è in grado di attraversare consapevolmente le immagini, che in quanto ‘eterotopie’ si dispongono nello spazio come dis-locazioni, “affacci” su una temporalità ulteriore. Se le immagini sopravvivono nel tempo, all’animazione attraverso cui lo sguardo rende presente l’immagine deve essere data la possibilità di agire «contro il mero progresso dell’evoluzione tecnica», giustificando così la nostra familiarità con le immagini del passato: è lo sguardo che, di volta in volta, sceglie cosa considerare, se è vero che «l’ambivalenza fra immagine e mezzo risiede in ciò che, per ogni singolo caso, stabilisce nuovamente il suo rapporto in una molteplicità quasi illimitata»140. Una guida per orientarsi in questa molteplicità illimitata dei rapporti che strutturano l’ambivalenza tra corpo e mezzo, tra percezione figurativa e tecnica mediale, viene e anacronisitici». Cfr. Georges Didi-Huberman, Devant le temps. Histoire de l’art et anachronism des images, Editions de Minuit, Paris, 2000. Ed. it., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007 (2016), pp. 16-25. 138

Ivi, p. 43.

139

Ivi, p. 13.

140

Ivi, p. 33.


44

fornita da Belting stesso: se dal punto di vista mediale «ogni mezzo mostra la tendenza a richiamare l’attenzione sull’immagine o al contrario a celarsi in essa», dal punto di vista del corpo, allora, la «nostra esperienza figurativa si basa su una costruzione che noi stessi organizziamo e che di certo viene guidata da una condizione attuale nella quale sono modellate le immagini mediali»141. Nonostante non si possa ridurre totalmente (come vorrebbe Deleuze) il significato delle immagini al loro significato attuale – pena la perdita del loro originario riferimento atemporale connesso ai temi antropologici del corpo, del tempo e dello spazio – Belting sostiene l’idea secondo cui sia sempre una condizione attuale a guidare, a livello percettivo, lo sguardo142. Anche se atemporali, le immagini, in ogni odierna percezione, si trasformano qualitativamente, poiché il movimento di incorporazione che preside allo scambio di immagini “interne” ed “esterne” le trasforma, dotandole della «capacità espressiva di un significato personale» e facendole durare sotto la forma di un «ricordo personale»143. I vari livelli in cui l’immagine, a livello percettivo, viene incorporata, mostrano dunque come «medialità dell’immagine e tecnica mediale sono legate da un rapporto complesso che non può essere risolto tramite una semplice formula»144. Piuttosto, la strategia di Belting consiste nel mettere in gioco un ulteriore elemento all’interno del suo discorso sulla doppia questione della storicità della percezione e dei media: è il desiderio figurativo a rendere attuali le immagini: Quando si riferisce alla nascita di una nuova immagine, il desiderio figurativo viene riempito da quei mezzi che diventano di volta in volta attuali e che devono la loro esistenza a questo desiderio permanente. La questione antropologica relativa all’immagine non può trovare risposta soltanto nel tema mediale e nemmeno essere disposta entro una storia solidamente documentata com’è quella dei mezzi e della tecnica: si sottrae cioè a un’effettiva inequivocabilità145.

141

Ivi, p. 32.

142

Cfr. ivi. p. 44.

143

Ivi, p. 32. Le immagini in questo senso oltrepassano i media, tant’è che Belting stesso riconosce che «le

immagini di cui ci stiamo occupando sembrano possedere una certa resistenza al mutamento storico dei mezzi, adattandovisi con la trasformazione»; cfr. ivi, p. 44. 144

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 63.

145

Ivi, pp. 43-44. Alla fine del capitolo Belting precisa che «la “storia dell’immagine” trova […] nei mezzi

e nella tecnica dell’immagine la sua forma verosimile. Per questo l’antropologia non incorrerà nello sbaglio di voler cercare le immagini solo nella storia della loro produzione. La discussione mediale sta quindi


45

Il desiderio permanente sotteso a ogni (nuovo) impulso figurativo, oltre a rimarcare nuovamente il vincolo biologico che le immagini hanno con l’uomo, fa emergere un ulteriore lato della questione figurativa: il fatto che, per venir soddisfatto, tale desiderio richiede sempre nuovi e diversi allestimenti mediali, i quali diverranno di volta in volta attuali, cioè in linea con la relativa esperienza visiva. Inoltre, è tale desiderio a fondare l’impulso (e l’esigenza) per la scoperta di nuove tecniche di rappresentazione, le quali stabiliranno il grado di simulazione ed animazione che esse rendono di volta in volta disponibile. L’attualità del mezzo, per Belting, è una questione antropologica, e in questo senso riguarda direttamente il rapporto tra corpo percipiente e corpo figurativo. Così, introducendo lo sguardo come quarto elemento della configurazione, Belting mostra il complesso rapporto che lega tra loro immagine, percezioni simboliche e tecnologia. In particolare: lo sguardo, cioè la percezione animante con la sua capacità analitico-sintetica in grado di allinearsi a quelle ‘cesure’ temporali che sono le immagini; il desiderio figurativo, ossia i conflitti che gravitano intorno alla dinamica tra “vecchie” e “nuove” immagini; e infine la tecnica mediale, vale a dire l’intermedialità come «campione fondamentale di ogni storia dei media», «gioco» all’interno della circolazione delle immagini tra “interno” ed “esterno”, in grado di «generare da sé la questione dell’immagine».

3. La differenza tra immagine e mezzo. L’anacronismo dell’immaginazione Questo anacronismo non riguarda solo, dal punto di vista mediale, l’allinearsi della percezione alla storicità delle tecniche figurative, secondo le coordinate della sintesi e dell’analisi qui proposte. Lo sguardo che si esercita sulle immagini – e che Belting considera esemplare della percezione figurativa – è anacronistico anche (e soprattutto) secondo un senso propriamente antropologico, di cui ora bisognerà parlare. Il problema della simbolicità della percezione figurativa riguarda infatti la possibilità di stabilire con l’artefatto figurativo uno scambio visivo che rimanda ancora una volta al provando a sviluppare un concetto di immagine che non si esaurisca nei nessi con la tecnica». Cfr. ivi, p. 72.


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paradigma della Todesbild, l’immagine della morte dei culti funerari. È qui che Belting ritrova l’origine della nostra capacità di distinguere tra immagine e mezzo, cui l’anacronismo dell’immaginazione viene rinviato quanto alla sua possibilità. Se l’ambivalenza tra immagine e mezzo, essendo una questione aperta, è fonte di molteplici «anacronismi» – che lo sguardo sa cogliere grazie all’immaginazione, in grado di stabilire la giusta distanza “prospettica” – ecco che l’autorità simbolica delle immagini va ritrovata, secondo Belting, nell’analogia che esse sono in grado di produrre nei confronti dello sguardo che ne anima il corpo, e tale rapporto non può essere ridotto a formule fisse, dandosi piuttosto in una «molteplicità quasi illimitata». Scrive Belting che «il concetto mediale rafforza il suo vero significato quando il discorso entra nel contesto del corpo e dell’immagine. Questo produce, per così dire, il missing link, poiché il mezzo ci mette già in grado di percepire così le immagini che non confondiamo né con i corpi reali né con le cose inanimate»146. La necessità dell’allestimento mediale non riguarda solamente il fatto che essa rende visibile, in un corpo tecnico e storico, l’immagine. Dal punto di vista corporeo, ogni allestimento mediale rende (o restituisce) l’immagine allo sguardo secondo un particolare “modo della disponibilità”, che consiste nello stabilire relazioni di identità e differenza che vengono misurate, più che a livello cognitivo, secondo il profilo corporeo: La medialità delle immagini è un’espressione dell’esperienza corporea. Trasportiamo l’evidenza che possiedono i corpi sull’evidenza che le immagini acquistano attraverso il loro mezzo e le giudichiamo espressione della presenza, così come colleghiamo l’invisibilità all’assenza […] Noi leggiamo il qui e ora dell’immagine nel mezzo con il quale giunge davanti ai nostri occhi»

147

.

L’esperienza figurativa, a livello antropologico, è basata su una capacità corporea che consiste nel distinguere tra ciò che è e ciò che non è: ciò che è immagine e non mezzo, ciò che essa rappresenta (e il modo in cui lo rappresenta) e ciò attraverso cui essa rappresenta e così via. Ad essere fondante, bisogna ripeterlo, è ancora una volta il paradigma della Todesbild, cui Belting ricorre per legare la visibilità delle immagini alla presenza del loro

146

Ivi, p. 22.

147

Ivi, p. 42.


47

corpo mediale: è qui che essere ed apparire sorgono come enigma che non ha mai smesso di stimolare la produzione figurativa umana148. La configurazione “immagine-mezzo-corpo” trova non a caso qui il suo momento esemplare: presenza e assenza, visibilità ed invisibilità, sono indissolubilmente legate all’enigma dell’immagine. Sussiste cioè una ‘duplice relazione’ tra corpo e immagine, che Belting specifica come una doppia ‘relazione di analogia’: le immagini sono visibili in un corpo, acquisendo visibilità grazie alla presenza del medium stesso; ma l’analogia corporea si raddoppia nel momento in cui, separata dal medium, l’immagine appare non in un corpo ma come un corpo, stabilendo un’ambigua relazione di apparizione attraverso lo scambio di sguardi che intrattiene con l’osservatore. Come insiste Belting, essa è presente in un modo diverso dal suo mezzo. La presenza dell’immagine, il suo qui e ora, dipende dal medium visivo fino a un certo punto, perché animare, in realtà, non significa semplicemente allinearsi temporalmente al corpo trasmissivo dell’immagine, ma significa «sfruttare l’opacità di un medium per la trasmissione delle immagini»149. Le immagini sono presenti nei media, ma mettono in scena un’assenza che viene resa visibile: ciò che la trasmissione sfrutta, come dimostra ad esempio lo schermo cinematografico, è l’opacità del supporto, che viene resa trasparente grazie all’atto di animazione. Per Belting questo doppio livello di presenza e assenza, costitutivo di ogni immagine, va assunto nei termini di una duplice analogia corporea, la quale finisce per estendersi, nell’atto dell’animazione, sul medium stesso: «Nel momento in cui la osserviamo l’immagine traspare in certo qual modo attraverso il mezzo. Questa trasparenza scioglie il suo legame dal mezzo nel quale l’osservatore l’ha scoperta. Il suo doppio significato di presenza/assenza si estende così perfino sul mezzo nel quale viene prodotta, e in verità produce in sé stessa l’osservatore»150. Secondo lo studioso, sfruttare l’opacità del medium trasmissivo significa animare l’immagine nel nostro corpo, ricorrendo alla capacità corporea di distinguere tra ‘essere’, ‘non essere’ ed ‘apparenza’. In virtù di ciò, animare significa stabilire corrette relazioni (corporee, prima che cognitive) di identità e differenza, in virtù del quale riconosciamo che l’immagine non è soltanto prodotta (in un mezzo “materiale”), ma trasmessa (in un 148

Cfr. ivi, p. 176.

149

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 88.

150

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 42.


48

“medium”), cioè fatta per essere percepita, animata dallo sguardo dell’osservatore che la mette in dialogo con la propria memoria figurativa interiore. Scrive infatti che «l’immagine naturale e quella tecnica – a vicenda più che in coppia – sono più vicine all’immagine che è passata attraverso un osservatore umano»151. Ciò significa, inoltre, che il vero fine dell’animazione non consiste nel fatto che, liberata dal mezzo, l’immagine possa finalmente liberare la “questione figurativa” (il cosa essa rappresenta); significa piuttosto che essa libera l’analogia corporea che ‘disloca’ l’esperienza sensibile verso il polo dell’immanenza o della trascendenza. Nessuna immagine, secondo lo studioso, sfugge a questa dinamica, che è un’estensione della dialettica di ‘presenza’ e ‘assenza’. Misurare le immagini prendendo in considerazione il loro originario riferimento corporeo significa, infatti, riconoscere in primo luogo che esse rendono possibile quell’esperienza di immanenza (nel corpo) e di trascendenza (dal corpo) attraverso cui l’uomo sperimenta un “allontanamento” o un “avvicinamento” da sé stesso – come se solamente attraverso di esse potesse “staccarsi” da sé o, al contrario, aderire in maniera quasi “organica” alla propria corporeità. Scrive Belting che «le immagini, per così dire, separano lo sguardo dal corpo e trascinano la coscienza in un luogo immaginario dove il corpo non può più seguirla»152 – un motivo che ha ragion d’essere solo nelle immagini e per il quale gli uomini hanno sempre fabbricato immagini. Secondo questa prospettiva, per fare un esempio, l’incorporeità “smaterializzata” dell’odierna immagine digitale rappresenta l’esito di una lunga tradizione, iniziata con gli «ideali transcorporei» del culto figurativo giudaico che, facendo riferimento a un Dio unico e incorporeo, esortava contemporaneamente alla «fuga del corpo»153. L’immagine digitale (o elettronica), che sembra illusoriamente liberarci dal peso del riferimento corporeo “indessicale”, solleva invece, oggi, il dubbio sulla «referenza che noi non dobbiamo più attribuire alle immagini»: esse «falliscono lì dove noi non vi scorgiamo più nessuna analogia che, scaturendo da esse, le metta in relazione con il Mondo»154. Questa analogia con il mondo, secondo Belting, è massima in quelle immagini dove il corpo è direttamente coinvolto come ‘produttore figurativo’ o come ‘trasmittente’ (il sudario della Veronica, le maschere, la statuaria funebre, le effigi mortuarie, ma anche gli scudi, gli stemmi e i 151

Ivi, p. 252.

152

Ivi, p. 106.

153

Ivi, p. 118.

154

Ivi, p. 28.


49

pannelli medioevali) e minima nelle immagini contemporanee – con le quali bisogna intendere non già (o solo) l’immagine digitale, ma la pittura astrattista della seconda metà del Novecento. In entrambi i casi – sia che si tratti del culto aniconico figurativo cristiano o dell’odierna esperienza dello schermo – sono i media che «regolano la nostra esperienza corporea attraverso l’atto dell’osservazione nella misura in cui esercitiamo sulla sua falsariga l’autopercezione come pure l’alienazione del nostro corpo. Tanto più di buon grado accogliamo poi le immagini nelle quali abbiamo riscontrato un’analogia»155. Ecco allora dove Belting ritrova uno degli elementi che contribuiscono a formare il carattere d’immagine dell’immagine: tanto più viene riscontrata un’analogia con l’esperienza corporea, tanto più la rappresentazione raggiunge il proprio effetto, sfruttando l’opacità del medium per instaurare la dialettica di presenza e assenza attraverso cui «ci liberiamo al posto dei nostri corpi, verso i quali dirigiamo uno sguardo a distanza»156.

4. Il problema del medium Come si è visto l’immagine, per Belting, è prima di tutto traccia e apparizione. Le immagini appaiono sempre iscritte in corpi: che si tratti della memoria figurativa interiore, della fantasia o di un quadro, la ‘logica’ dell’iscrizione e della traccia è sempre presente. In questo senso le immagini si trovano all’incrocio di più coordinate temporali, poiché nel ‘commercio simbolico’ dei corpi l’immaginazione personale interagisce con quella collettiva in uno scambio che le rende temporalmente sovradeterminate. L’intermedialità, che genera da sé la questione dell’immagine, sfrutta infine, ai fini della percezione simbolica, l’anacronismo dell’immaginazione, ossia la capacità di distinguere tra immagine e mezzo. In questo senso, Belting modella la nozione di ‘medium’ su quella di ‘corpo’, poiché ciò che fa sì che l’immagine, ogni immagine, sia tale, è la relazione analogica che la rende prima di tutto una traccia, ossia un sostituto del corpo; allo stesso tempo, però, le immagini accadono, ossia appaiono per via di trasmissione e percezione, nello spazio 155

Ivi, p. 22. Cfr. anche p. 42.

156

Ivi, p. 35. Il confronto tra immagine digitale “smaterializzata” e immagine cristiana incorporea avviene

in più luoghi dell’opera di Belting, il quale ne fa emergere le rispettive somiglianze e differenze in riferimento alla questione del corpo e del medium. Si veda ivi, parr. 2.8, 3.6, 4.3, 4.7.


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pubblico collettivo o in quello privato dell’individuo. Nel senso di Belting, ‘animare’ significa allora recuperare la vita all’immagine: «un’antica rappresentazione della Madonna rimaneva sempre nel presente in qualità di immagine perché possedeva ancora, tramite il proprio corpo scultoreo, un luogo nel tempo del suo futuro osservatore»157. Legate antropologicamente all’esperienza compiuta dal corpo nel tempo e nello spazio, le immagini, sorgendo nello sguardo dell’osservatore, divengono presenti disponendo di un luogo in cui apparire: è quello che Belting chiama il «luogo» nella presenza dell’osservatore – quel luogo in cui l’uomo costruisce una difesa nei confronti dello scorrere del tempo e attraverso cui la disposizione antropologica delle immagini fa emergere il concetto di anthropos in senso pieno158. La presenza iconica è per Belting un luogo della presenza: un paradigma ‘inter-temporale’, nel senso che attraversa la Bildfrage, arrivando fino ad oggi, dove lo ‘scambio’ simbolico tra corpi continua attraverso media elettronici che rimandano immagini prive della loro originaria medialità fisica. L’anacronismo della nostra immaginazione è infatti una vera e propria ‘disposizione’ che è in grado di corrispondere alla temporalità esuberante dell’immagine, intesa come traccia ed apparizione, proprio in virtù di quella che è una differenza biologica, e che Belting considera, in un certo senso, come una ‘certezza’ nei confronti degli inganni del mondo sensibile. In questo senso, il luogo della presenza delle immagini, per Belting, si caratterizza come un luogo nella presenza dell’osservatore – luogo che sarebbe impossibile determinare se non si riconoscesse contemporaneamente alle immagini (a una stessa immagine, ad esempio) la capacità di migrare da un mezzo all’altro, e all’osservatore una percezione anacronistica – ossia in linea con la temporalità esuberante, complessa, sovradeterminata delle immagini e del loro essenziale carattere intermediale. È in questo senso, allora, che lo studioso riformula il concetto di “qui e ora” teorizzato da Walter Benjamin: Questo “qui e ora” dell’opera d’arte e della sua aura è stato dimostrato soprattutto da Walter Benjamin, il quale lo distingue dalla moderna mobilità del vedere. Nel caso delle immagini, come spero di poter dimostrare, la situazione è prossima al dialogo tra mezzo e osservatore nel quale primariamente sorge questo “qui e ora”159.

157

Ivi, p. 42.

158

Cfr. ivi, par. 3.1.

159

Ivi, p. 291.


51

È Belting stesso a sottolineare il fatto che la percezione non è un processo unidirezionale, essendo invece permeabile agli influssi interni (la censura personale, la memoria figurativa) ed esterni (gli effetti culturali dei “regimi scopici” sull’immaginazione). Nonostante la storicità della percezione evidenzi il «principio secondo il quale i mezzi figurativi non sono esterni all’immagine»160, Belting sembra manifestare un’ambiguità tra il modo in cui intende la necessità, per un’immagine, di doversi incarnare, e la presenza che questa incarnazione assume nell’osservatore, ossia nello scambio di sguardi. Come è stato giustamente scritto: «Whereas his view of the function of images, in other words, requires the visual presence of a material relic, his view of communication through images ultimately discards the material object conveying the mental images»161. Ciò che viene sottolineato, qui, è il modo in cui Belting utilizza il concetto di medium, il quale sembra ben funzionare lì dove l’immagine viene intesa come oggetto di pratiche sociali e culturali (ad esempio i fenomeni iconoclastici), ma che non sembra essere teoricamente sufficiente laddove lo studioso parla invece della ‘comunicazione’ tra corpi e immagini. Scrive infatti che «così come l’immagine ha sempre una caratteristica mentale, il mezzo ne ha una materiale, anche se, per noi, unisce entrambe le cose nell’impressione sensoriale dell’unità»162. Come si può vedere, qui la rappresentazione, intesa in senso stretto, è una questione di animazione, di scambio di sguardi, di presenza iconica. Essa sorge nello sguardo dell’osservatore senza alcun tipo di problema e quest’ultimo provvede, a sua volta, ad una sua rimediazione ulteriore: lo sguardo filtra, censura, opera cioè ‘cognitivamente’ così che «le immagini alle quali nella nostra memoria corporea applichiamo un significato simbolico sono altre da quelle che consumiamo e dimentichiamo»163. In questo senso, sottolinea giustamente de Bruyn, «by suggesting that physical images merely serve a mediatory function […] he ultimately eliminates the need for a specific category of visual images; in the final analysis, there are only images – mental images – on the one hand and media – the material embodiments of images – on the other»164. È per questo che, secondo Belting, «l’immagine cinematografica è la miglior prova per una «Fundierung antropologica della questione figurativa», poiché non sorge né sulla tela né tanto meno nello “spazio cinematografico” del fuori-campo, bensì, 160

Ivi, p. 32.

161

B. de Bruyn, Death–Image–Medium, cit., p. 7.

162

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 42.

163

Ivi, p. 45.

164

B. de Bruyn, Death–Image–Medium, cit., p. 7.


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«attraverso l’associazione e il ricordo, nell’osservatore»165. Così facendo egli però avvicina pericolosamente l’immagine e l’immaginazione: «notoriamente le nostre immagini mentali si dispiegano tanto più senza impedimenti quanto meno vengono limitate dalle immagini fisiche o visibili. Si potrebbe addirittura trovare qui una legge generale sull’interazione tra immagini interne ed esterne»166. Il proposito di interrogare gli artefatti figurativi che regolano il commercio simbolico tra corpi sembra qui cedere al passo ad un’esigenza (di stampo quantomeno platonico), per le immagini, di doversi incorporare nello sguardo dell’osservatore, che sintetizza la «caratteristica mentale» dell’immagine e la «caratteristica materiale» del mezzo nell’«impressione sensoriale dell’unità». Quale ruolo rimane, dunque, alle immagini esteriori, «offerte figurative» che il mondo ci presenta? L’impostazione di Belting, cioè, sembra risolversi in un dualismo di immagini mentali, incarnate nella memoria figurativa dell’osservatore, alle quali egli conferisce un significato autentico, e di corpi sensibili, animati o meno, che sembra dissolvere l’idea stessa di intermedialità. È per questo che, nell’evidenziare le criticità sottese a tale impostazione, Miller scrive: «Though Belting would like us to consider images as “inherently intermedial” – transcending the various historical media in which they are supported – and not “to confuse the image with these media”, it is difficult to conceive of a method that could perform this separation and still generate a viable object of study»167. Un ulteriore criticità riguarda il fatto che, come sottolinea de Bruyn, l’immagine di cui parla Belting «self-consciously discloses its own illusory or fictional qualities»168. È, in un certo senso, la qualità genuina di ogni simulacro: seppur nella debolezza di un’intensità “fantasmatica”, l’eidolon risulta sempre riconoscibile – tanto da venir associato al corpo dei defunti. È per questo che Belting, in Bild-Anthropologie, preferisce esplicitamente opere (al di là delle immagini-video) che “cancellano” il loro lato “materiale” per liberare l’immagine mentale che esse contengono. Parlando di una fotografia di André Kertesz raffigurante un quadro con una natura morta, e rimarcando la natura intermediale dell’immagine, Belting scrive infatti che «ciò che nell’osservatore nasce come un’immagine oltrepassa i confini mediali e si compone di una sintesi di 165

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 44.

166

Ivi, pp. 106-7.

167

J. Miller, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, in

Anthropological Quarterly, vol. 85, no. 2, 2012, p. 630. 168

B. de Bruyn, Death–Image–Medium, cit., p. 4.


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immagine percettiva e mnemonica. Il mezzo primario e quello secondario (la foto effettiva e il dipinto citato) svincolano l’immagine dalla sua condizione mediale»169. In ultima analisi le vere immagini (tra cui anche le opere d’arte), ponendosi fra il mondo e l’uomo (di cui rappresentano le possibili estensioni), rivelano direttamente, esplicitamente, il loro carattere fittizio, illusorio. Occorre tornare nuovamente a Wolfgang Iser per insistere sul carattere “as-if”, ossia di “finzionalità rivelata”, delle opere d’arte: In the self disclosure of its fictionality, an important feature of the fictional text comes to the fore: it turns the whole of the world organized in the text into an ‘as-if’ construction. In light of this qualification (implicitly accepted the moment we embark on our reading), it is clear that we must and do suspend all natural attitudes adopted toward the ‘real’ world once we are confronted with the represented world. This is not present in the text for its own sake, nor is its function exhausted merely by its denoting a reality. Just as the incorporated ‘real’ world is bracketed off, so too are our natural attitudes.170

Belting procede a tal punto su questa linea da sostenere che «l’estraneità dell’immagine può essere annullata soltanto nell’illusione dell’osservatore»171: la percezione umana e le vere immagini, per Belting, trascendono i confini dei media su cui si esercitano. Insomma, nonostante l’insistenza sul corpo delle immagini e sulla necessità di dover riportare la medialità alle proprie originarie condizioni somatiche, il concetto di medium elaborato dallo studioso non sembra essere teoricamente sufficiente, perché in ultima analisi rimuove proprio la necessità stessa di una specifica categoria mediale. Nonostante lo studioso ritenga che la percezione figurativa, come costruzione, non possa non essere guidata dal mezzo tecnico, ecco che, alla fine, l’immagine sembra “sdoppiarsi” in una caratteristica mentale e in una materiale la cui sintesi nell’osservatore non risulta mai problematica, proprio perché la percezione figurativa è già consapevole dell’inganno cui è sottoposta. Come risolvere il problema dell’adeguazione tra il ‘materiale’ ed il ‘mentale’ 169

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 265; Ma è anche il caso, esemplare, dell’interpretazione

di una fotografia di Robert Frank: «Lo scopo di questa immagine nell’immagine è la liberazione dell’immagine dalla sua primaria materialità e tecnica. La riflessione sull’immagine, anche se condotta soltanto con mezzi fotografici, apre i confini del mezzo. E se animiamo questo mezzo, probabilmente, è per avere indietro le nostre proprie immagini»; cfr. ivi, p. 285. 170

W. Iser, The Fictive and The Imaginary. Charting Literary Anthropology, cit., p. 13.

171

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 235.


54

in un mondo dove l’immaginazione, come facoltà corporea, è sempre più “colonizzata” da dispositivi che ne istruiscono le prestazioni: ecco una questione che Belting, pur non toccando, consegna tanto all’antropologia delle immagini quanto all’antropologia storica.


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Quarto capitolo Catturare il corpo in immagine. Superfici naturali e immagini tecniche 1. La questione della tecnica La percezione che abbiamo del nostro corpo (la sensazione che noi viviamo in un corpo) è un requisito indispensabile per l’invenzione dei media, che potrebbero essere definiti corpi tecnici o artificiali, elaborati per sostituire i corpi viventi attraverso un processo simbolico. Le immagini, come siamo portati a credere, vivono nei loro media nello stesso modo in cui noi viviamo nei nostri corpi172.

Belting sostiene l’idea secondo cui la tecnica, in senso generale, sia strettamente legata all’auto-percezione (così come all’auto-riflessione) del corpo, ossia alla capacità umana di sentir-si, di percepire l’espansione della propria corporeità nell’estroflessione, nel ‘gesto’ tecnico attraverso cui l’uomo si “libera” dalla natura controllandola e “sottomettendola” ad un ordine culturale, simbolico173. Più in generale, come si è visto, Belting inscrive la questione della tecnica entro i più ampi cicli mediali della storia in cui questa è inserita, proponendone un’interpretazione in cui essa risulta centrale nei processi di antropopoiesi, ossia di costituzione dell’umano. Attraverso la nozione di «dichiarazione mediale», ripresa dalle analisi dell’antropologo André Leori-Gourhan, Belting intende infatti la concezione del ‘gesto tecnico’ come ciò che è in grado di “rimuovere” la natura dell’uomo nel momento stesso in cui la “rileva” in una forma culturale, secondo un movimento che è caratterizzato allo stesso tempo da un’autoriflessione corporea che è un vero e proprio feedback; in questo senso la «dichiarazione mediale» è inscritta tra le possibilità essenziali dell’essere umano tecnico attraverso cui Belting specifica l’idea antropologica del picture-making e del suo “riferimento comunicativo” fondante174. 172

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 80.

173

Per quanto riguarda il rapporto tra antropogenesi e tecnogenesi, ossia la questione della tecnica sotto il

profilo heideggeriano della rimozione dell’“elemento terrestre”, si veda P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma (2007), pp. 63-80. 174

Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 48-9. Belting fa riferimento a A. Leroi-Gourhan,

Le geste et la parole, 2 voll., Albin Michel, Paris, 1964; ed. it. Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino, 1977 (1997)


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Per Belting l’uomo ha storicamente iniziato a realizzare media, ossia a produrre immagini, nel momento in cui ha iniziato il proprio percorso evolutivo di esosomatizzazione, ossia di esteriorizzazione tecnico-corporea: «il corpo della natura viene così ritirato e inserito in un ordine simbolico»175 in cui esso, come trasmittente, è essenzialmente coinvolto, poiché in grado di trasformarsi in produttore figurativo; Belting ha qui in mente l’interpretazione levi-straussiana dell’ornamento come tecnica mediale al servizio della genesi figurativa del corpo – e, più in generale, tutte quelle forme di raddoppiamento corporeo di cui la maschera funeraria è esemplare insuperato176. Ciò che interessa qui sottolineare è che, attraverso questa rilettura dell’antropologo francese, lo studioso propone una concezione non-strumentale della tecnica, che gli permette di interpretare la storia dei mezzi figurativi in esplicito riferimento al corpo – lì dove le tecnologie che si trovano all’opera nella produzione, fabbricazione e trasmissione delle immagini vengono interpretate come dispositivi di animazione del corpo, come tecniche di riproduzione della vita. Secondo Belting la tecnica di formazione di immagini (Bildwerdung), proprio perché legata al modo in cui l’uomo cattura la realtà, va messa in relazione ai processi di antropomorfizzazione attraverso cui l’uomo costituisce dei doppi di sé stesso, alienandosi dal

proprio

corpo:

«Metamorfosi,

Bildwerdung

e

incarnazione

sono

atti

complementari»177. Ogni ‘messa in immagine’, in quanto ‘dichiarazione mediale’, rinvia ad un atto di incarnazione in cui ad apparire è innanzitutto un ‘doppio’ del corpo – doppio nella misura in cui ne ripete essenzialmente il movimento, caratterizzato dall’aspirazione ad una vita propria (di cui l’essere animato e la presenza simbolica sono due aspetti). Lo studioso ‘rileva’ così una storia delle tecniche figurative che viene allineata alla storia di quei mezzi trasmissivi attraverso cui la vita del corpo viene analizzata e sintetizzata 175

Ivi, p. 48.

176

Belting ricorda come «nella sua analisi strutturale su ornamenti che si presentano identici all’interno di

culture totalmente diverse, l’antropologo Claude Lévi-Strauss riconduce al volto il rapporto tra corpo e segno. Il dipinto “è fatto per il volto ma il volto si forma ancora attraverso di lui”. Soltanto con il mascheramento esso diviene il trasmittente sociale del segno che incarna. Il raddoppiamento di numerosi motivi che si ritrovano ad esempio su vasi e tessuti si chiarisce quindi nella sua funzione originaria di “pittura del volto”. In questo raddoppiamento da entrambi i lati di un asse verticale (quello del volto) e di un asse orizzontale (quello degli occhi) una tale rappresentazione esprime l’esistenza del corpo sociale nel corpo biologico»; cfr. ibid. Le citazioni di Lévi-Strauss sono tratte da C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, il Saggiatore, Milano, 1960 (2008). 177

Ivi, p. 113.


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(imaging science). Secondo la prospettiva di Belting è necessario ampliare il concetto di tecnicità in senso storico-culturale, approfondendo la nozione teorica di ‘gesto’ o ‘dichiarazione’ mediale in modo da riuscire a scorgere la continuità che lega la finestra, lo specchio, il quadro e lo schermo come mezzi archetipici della cultura figurativa occidentale.

2. Doppio e picture-making

La questione del doppio, per Belting, anima l’esperienza figurativa come un “fiume sotterraneo”, strutturando i concetti che di volta in volta ne prendono parte e che, a loro volta, la caratterizzano; essa si trova alla base della relazione tra corpi simbolici e corpi figurativi, ed è solo seguendone la “corrente” (con i suoi numerosi “vortici” anacronistici) che è possibile rendere conto delle questioni fondamentali poste allo studio antropologico delle immagini. Dai ‘culti funerari’ primitivi alla ‘diagnostica per immagini’ il problema del ‘doppio’ riguarda infatti, allo stesso tempo, il problema antropologico della figurazione (ossia della creazione di artefatti figurativi come corpi trasmissivi indipendenti) e della rappresentabilità umana (la messa in immagine del corpo come fondamento della rappresentazione della persona). Lo studioso articola la questione chiedendosi in che modo gli uomini “catturino” i corpi in immagini producendo così, letteralmente, dei ‘raddoppiamenti speculari’. Secondo la sua prospettiva, infatti, fabbricare un’immagine, nel senso proprio del termine, significa sempre catturare un corpo, anche quando questa analogia sembra “smaterializzarsi” e diventare metafora (come sembrerebbe dimostrare oggi l’immagine digitale “incorporea”). Scrive infatti che «i mezzi digitali odierni cambiano la nostra percezione – così come tutti gli altri mezzi tecnici prima di loro – eppure questa percezione rimane ancora legata al corpo»178. Ogni immagine si rivela così un’«astuzia indiretta, questo vetro in cui l’ombra cattura la preda»179. A livello fenomenico (che è già un livello fenomenologico) «i corpi si rivelano nella luce anche attraverso ciò che si forma sulla loro stessa ombra. Luce e ombra, a livello incorporeo, rappresentano il loro fenomeno, così che, con questo aiuto, percepiamo i corpi

178

Ivi, p. 35.

179

R. Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., p. 28.


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nella loro espansione. Si tratta di mezzi naturali dello sguardo»180. Lo diceva già Leonardo da Vinci: «le ombre e i lumi sono certissima causa a far conoscere le figure di qualunque corpo»181, così che l’immagine naturale risulta in primo luogo dall’apparenza che i corpi suscitano al nostro sguardo espandendosi nello spazio. È qui che Belting recupera le antiche leggende sulla nascita della pittura: Secondo un’antica leggenda greca la pittura ha avuto origine dal tentativo di trattenere un corpo nell’immagine della sua ombra. Sia Plinio sia Quintiliano concordano nell’affermare che l’immagine umana sia stata tracciata per la prima volta sul contorno di un’ombra di riporto. A Corinto, come testimonia Atenagora, ancora nel II sec d.C era possibile visitare l’originale. Egli riferisce anche la storia della donna di Corinto, che tracciò i contorni dell’ombra del suo amato mentre questi dormiva. Il padre della ragazza, che era vasaio, intagliò il contorno dell’immagine e lo riempì di creta182.

Le leggende sull’origine della pittura (così come su altri miti relativi al mondo delle immagini) non costituiscono materiale nuovo per il pensiero, che si è sempre interrogato sugli enigmi in esse contenuti. Secondo Belting, il valore della leggenda, in questo caso, risiede non tanto nella sua corrispondenza con l’esperienza pittorica effettiva, concreta, storica (cioè, in questo caso, con l’introduzione della skiagraphia, ossia della pittura delle ombre, nella pratica raffigurativa avvenuta in Grecia all’incirca «all’altezza della generazione di Socrate»183). Esso risiede piuttosto nel fatto che tale pratica tecnica aspirava alla finzione (mimesis) della vita: «infatti questa produzione pittorica dell’apparenza fa adirare Platone che l’attribuisce ancora alla mentalità dei sofisti. Anziché separare le ombre dai corpi, quest’arte simulava le ombre sui corpi, tanto che questi potevano essere confuse con i corpi naturali»184. È proprio dei Sofisti – dice Platone – confondere l’essere con il nonessere, producendo immagini di discorsi, e non discorsi185. Il raddoppiamento corporeo effettuato dall’ombreggiatura non per separare il corpo, ma per meglio definirlo, cioè per 180

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p.36.

181

Ivi, p. 37. Il riferimento di Belting è a L. da Vinci, Trattato della pittura, V, 704.

182

Ivi, p. 217.

183

Ivi, p. 218.

184

Ivi, p. 219.

185

Si veda Platone, Sofista, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR, Milano, 2007.


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far sì che il suo volume apparisse come reale, viene considerato da parte di Platone come una forma di mimesis nociva, secondo motivazioni dipendenti da un contesto epistemologico che è anche, come Belting sostiene, una discussione mediale – ossia un discorso sulle capacità trasmissive del corpo vivente. Come vedremo nel capitolo dedicato al rapporto tra ombra e immagine, Platone rovescia infatti la relazione tra eidolon e skia in base a un paradigma mimetico speculare cui l’arte pittorica viene legata, favorendo così la rimozione storica del ruolo della proiezione dell’ombra. Da un punto di vista mediale, le superfici naturali in grado di catturare il corpo in immagine possono aver dato vita, più che alla pittura (o all’arte) tout court, all’impulso antropologico “mimetico” consistente nell’esplorare il rapporto tra corpo e mezzo: la relazione, cioè, tra il proprio corpo vivente – in grado, grazie alla fenomenicità donatale da luce e ombra, di apparire in immagine – e il corpo mediale (qui, davvero, il medium mostra il suo lato organico in quanto ‘vitale’, più che ‘materiale’) che ne trattiene l’immagine, restituendola secondo le proprie specifiche caratteristiche. È proprio su quest’ultimo punto che i mezzi naturali “cedono il passo” ai mezzi tecnici, mettendo in mostra i limiti di cui soffre ogni immagine: l’impossibilità di trattenere la sua ombra, facendola durare nel mondo delle cose sensibili186. Riprendendo la critica elaborata da Platone nei confronti dell’arte di simulare le ombre sui corpi così da confonderle con quelli naturali, Belting fornisce allora un’indicazione essenziale dal punto di vista tecnico-mediale: Il procedimento [della skiagraphia] è parte di un progetto più ampio. Le ombre corporee avevano senso soltanto quando la figura veniva separata dalla superficie e catturata in uno specchio posto nello spazio nel quale viveva il corpo autentico. L’invenzione del dipinto su tavola (pinax) fu forse l’ultima conseguenza dell’abbandono della superficie e, in misura più accentuata della pittura murale, il primo passo di una pittura come specchio187.

186

Come scrive Belting «Lo specchio era stato inventato già con l’intenzione di vedere il corpo lì dove non

c’è nessun corpo. Cattura la nostra immagine nel vetro o nel metallo così come essa appare al nostro sguardo. In qualità di mezzo lo specchio è una lucida antitesi al nostro corpo, eppure ci rimanda un’immagine che è quella che ognuno di noi si fa del proprio. Lo specchio trattiene sulla sua superficie riflettente un’immagine incorporea che noi percepiamo tuttavia come un corpo»; cfr. ivi, p. 35. 187

Ivi, p. 219.


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Si delinea qui una genealogia dell’immagine dipinta (e in particolar modo del ritratto moderno) antropologicamente fondata, che Belting svilupperà in un capitolo a parte. Il procedimento descritto dalla leggenda della donna di Corinto culmina infatti in una figura di creta intagliata, nel muro ombreggiato, dal padre della ragazza. È presente qui un differente accento, su cui Belting si sofferma, che riguarda la necessità di intrattenersi con le immagini come si fa con i viventi, più che il semplice proposito mimetico di “produrre una figura simile a un'altra”. È questo il senso originario del doppio: il suo reinserimento all’interno della comunità dei vivi. L’immagine viene così associata, secondo un riferimento già evidenziato, alla vita (e alla connessa sensazione di vitalità) attraverso cui l’uomo ristabilisce l’ordine nella comunità dei vivi, di coloro che “sono rimasti”. L’«abbandono della superficie», come lo chiama Belting, riguarderebbe allora il progressivo distacco dell’immagine dal suo corpo vivente verso una sempre maggiore “astrazione” rappresentata, in questo caso, dal ‘dipinto su tavola’.

3. Per una genealogia dei mezzi figurativi È importante sottolineare che, dal punto di vista metodologico, con questa ‘genealogia’ Belting sta evidenziando un movimento: quello che, partendo dalle superfici (o media) naturali che esprimono un raddoppiamento del corpo – traducendone il senso nel mondo dell’apparenza – arriva alle superfici (media) tecniche che ne hanno assunto il ruolo, sostituendole. In questo senso, occorre rilevare che per Belting il carattere protetico della sensibilità – la capacità che essa ha di esteriorizzarsi in tecnica – ha un essenziale carattere ‘riflessivo’: I media visivi non agiscono solo come protesi del corpo, ma servono anche da riflessi del corpo stesso, grazie ai quali esso può osservarsi. Le tecnologie più avanzate oggi simulano i corpi sotto forma di ombre fugaci o di immagini speculari incorporee, da cui ci si aspetta che ci liberino dalla legge di gravità cui siamo soggetti nello spazio empirico188

La storia dei mezzi figurativi non è un succedersi di problemi e risposte all’interno di una storia lineare, ma una storia di dispositivi, da intendere non semplicemente come sistemi tecnici più o meno complessi, ma come tecnologie della vita, che intrattengono un 188

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 84.


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particolare rapporto con i processi di costituzione dell’umano. Essenziale è il fatto che tale ‘proteticità’ liberi allo stesso tempo la ‘riflessività’ del corpo – secondo quell’operazione di feedback aisthetico cui sopra ci si riferiva: come ricorda Agamben, «i dispositivi devono sempre implicare un processo di soggettivazione, devono, cioè, produrre il loro soggetto»189. Da parte sua, Belting sostiene che «il mutamento dell’esperienza figurativa, dal momento che la scienza culturale dell’immagine si riflette su un’analoga storia culturale del corpo, esprime anche un mutamento dell’esperienza corporea»190 - idea con la quale egli sottolinea il ruolo chiave del corpo, ossia della sua costituzione ed individuazione, all’interno della genealogia dei mezzi figurativi. Quest’ultima dev’essere ricompresa all’interno di una trama più ampia, antropologicamente costituita da più fattori: il desiderio figurativo sotteso alla nascita di nuovi impulsi raffigurativi, gli stessi cicli mediali che inglobano la tecnica e la storia culturale del corpo. Lo specchio, il quadro e la finestra in particolar modo, si caratterizzano come mezzi archetipici della cultura figurativa occidentale a partire dalla loro capacità di tradurre i corpi tridimensionali in un medium che, per la sua propria natura, «si oppone radicalmente al corpo inteso come superficie»191. Qui, il caso della finestra albertiana è particolarmente interessante, dal momento che esso sembra durare ancora oggi negli odierni sistemi informatici. Come invenzione tecnica, essa viene inquadrata da Belting entro un’archeologia del monitor odierno – ossia entro una storia delle superfici tecnicosimboliche di proiezione192. Nata nel contesto della pittura rinascimentale, la finestra prospettica, «in quanto costruzione di un campo visivo esattamente calcolato, costituisce un immediato precedente delle immagini tecniche»: è da essa, infatti, che lo studioso fa discendere la genealogia del quadro dipinto – da non confondere con il pannello dell’icona – all’interno della traduzione figurativa occidentale. In quanto «unità visiva simbolica» la finestra-cornice produceva nell’osservatore «l’illusione di dominare la percezione del mondo»: essa rappresenta una finestra virtuale, ossia simbolica, sul reale, caricata delle stesse impressioni visive connesse all’esperienza (reale) dell’affaccio (in particolare visione prospettica e distanza regolata). Essa riguarda allo stesso tempo una 189

G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Edizioni Nottetempo, Roma (2006), p. 19.

190

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 34.

191

Ivi, p. 36.

192

Il riferimento di Belting è a L. Manovich, Eine Archaologie des Computerbildschirms, in Kunstforum

International, No. 132 (1995/1996), pp. 124-135.


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forma di animazione corporea (la possibilità di esercitare uno sguardo caratterizzato da «regolata distanza» e prospettiva lineare), una forma di vita (quella dell’uomo occidentale moderno, che disponeva dei suoi luoghi separando antiteticamente gli spazi in «ambienti interni ristrutturati» e «affacci» esterni), e la concezione “filosofica” del soggetto (che «si sentiva in antitesi con il mondo»)193. Significativo è che, per Belting, la virtualità di questo dispositivo della visione – o ‘mezzo dello sguardo’ – consiste nel negare la propria superficie per simulare «“là dietro” un campo visivo che si collocasse nella proiezione dell’osservatore al posto dell’esperienza»194. È a partire da questo primo ‘schermo virtuale’ che la cultura figurativa europea sviluppa la propria ‘immagine della visione’ – la quale dura, secondo la convenzione, fino al XIX sec. Da essa, come è stato giustamente notato, non può essere separata «l’immagine dominante del pensiero moderno», ossia quella elaborata da Cartesio, che separa l’ob-iectum (lo spettacolo) dal sub-jectum (lo spettatore). Ciò che interessa mettere in luce qui sono proprio le caratteristiche che fanno sì che tale immagine della visione arrivi fino ad oggi. Come ricorda Mauro Carbone, assumere la finestra a modello del nostro modo di vedere il mondo significa dunque concepire la visione come un’operazione caratterizzata dalla separazione fra lo spettatore e lo spettacolo, dall’apertura o dalla trasparenza di quanto li separa, dalla loro reciproca frontalità e dalla contrapposizione dei loro caratteri. Quest’ultimo aspetto, opponendo il vedente e il visto, disloca inoltre un «qui» e un «laggiù», rispettivamente intesi come «privato» e «pubblico», e implica che il vedente sia, per definizione, non visto, suggerendo […] che egli si trovi in ombra mentre quanto è visto sia esposto alla luce195

Gli spunti contenuti in questa citazione offrono numerosi motivi di riflessione, che riemergeranno lungo la discussione. Bisogna sottolineare, in questo contesto, l’idea che tale ‘dispositivo ottico’ rimandi ad un paradigma in cui fondamentale è l’idea di una superficie che ‘nega’, o ‘vieta’, il visibile attraverso la sua sovra-significazione – proprio come il templum romano o la tenda dietro cui si nascondeva Pitagora196. Genealogie a 193

Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 57-9.

194

Ivi, p. 58.

195

M. Carbone, Lo schermo, la tela, la finestra (e altre superfici quadrangolari normalmente verticali), in

M. Carbone, A. C. Dalmasso (cur.), schermi/screens, Rivista di estetica, Anno LIV, N. 55 (1/2014), p. 25. 196

Cfr. ivi., pp. 23-5.


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parte, è facile vedere, dunque, come tale mezzo dello sguardo sia potuto giungere fino ad oggi, rimodulando o ri-mediando le proprie caratteristiche nei più ampli cicli mediali della storia. Nonostante l’idea della costruzione della visione entro una superficie quadrangolare oggi non sia scomparsa, e nonostante tale paradigma abbia dominato lungo tutto il periodo della modernità europea, occorre notare come essa non sia stato l’unico dispositivo ottico della visione. Per Belting esso è un mezzo dello sguardo, non del corpo. Al contrario, come si è visto, la storia dell’esperienza figurativa rende testimonianza di altre tecniche di raddoppiamento corporeo, che sfruttano, ai fini dell’incarnazione, non i meccanismi della visione, ma quelli della traccia e del contatto (come la proiezione umbratile e il riflesso speculare).

4. Immagini tecniche Il problema riguarda qui, come già accennato, il fatto che «le immagini tecniche, se solo ampliamo il concetto di tecnica, rappresentano una tradizione antica»197. È a partire da questa prospettiva che Belting può integrare nella sua teoria dei mezzi figurativi tipologie come la diagnostica per immagini: le immagini tecnologiche (termine con cui Belting intende le immagini prodotte, ad esempio, dai raggi-X) riformulano integralmente la questione del corpo, della sua fenomenicità e della visibilità delle immagini stesse. E se ciò è possibile, dice Belting, è grazie all’analogia corporea che fonda (il corpo di) ogni immagine e che, a sua volta, ne determina le caratteristiche ‘figurative’: ciò significa, nuovamente, che l’essenza di una tipologia raffigurativa si definisce in base allo ‘scarto’ che essa intrattiene nei confronti del riferimento corporeo che originariamente la fonda. Si può vedere, allora, come anche nel riformulare il problema delle tecniche figurative attraverso la questione del doppio, Belting insista sull’analogia come ‘misura essenziale’ in grado di dar forma alle caratteristiche ‘estetiche’ che caratterizzano una particolare ‘configurazione figurativa’: L’analogia è una grandezza variabile nella quale viene prodotto il potenziale di similitudine e rappresentazione. La similitudine, da parte sua, è un’idea che nella propria storia è stata 197

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 57.


64 continuamente ridefinita. La natura si espande per mezzo dell’analogia. Ciò che era analogizzabile, cioè riproducibile, e ciò che vi era connesso sottostanno a una dinamica storica198.

È l’analogia ad essere la vera unità di misura di ogni immagine, in grado di esprimere il riferimento corporeo proprio di ogni artefatto figurativo, ossia la sua regolata vicinanza (o distanza) nei confronti del corpo – disponendo, ogni volta, un diverso ‘spazio’, una nuova ‘apertura di senso’ attraverso cui l’immagine è in grado di raggiungere il piano dell’effettualità, della Wirkung individuale e collettiva. Il grado di mimesi (o di somiglianza), nonché il potenziale di similitudine e di rappresentazione che un’immagine rende disponibile va misurato sempre a partire da quest’apertura “originaria” – se è vero che «la natura si espande per mezzo dell’analogia». La riformulazione del problema della tecnica attraverso la questione del doppio e dell’analogia si riscontra nelle immagini cosiddette acheropite, ossia in quelle immagini non dipendenti, quanto alla loro produzione, dalla mano umana. Rientrano in quest’ambito tutte le immagini che producono un doppio del corpo per via di automatismo, ossia in virtù di un processo essenzialmente meccanico (e non, come nel caso dell’uomo, in virtù di un processo poietico). Interpretate sotto questo punto di vista – come accennato all’inizio del paragrafo – le immagini tecniche rappresentano «una tradizione antica». Come sottolinea Belting il desiderio di «figure autentiche» - ossia il desiderio figurativo sotteso all’esigenza antropologica di ottenere immagini vere, convincenti (come doveva essere quella divina) - veniva soddisfatto già da anonime procedure tecniche sottratte a ogni imitazione umana e che escludono l’intervento umano, connotato dalle imprecisioni di uno sguardo che poteva rassomigliare soltanto allo sguardo dell’osservatore. Invece della consueta mimesi veniva richiesta una garanzia tecnica di somiglianza. Il dubbio sull’affidabilità delle immagini, la quale risiedeva nella fedeltà della loro resa, era l’impulso antropologico per l’invenzione di tecniche figurative in grado di evitare ogni possibile errore poiché fondate su degli automatismi199

La «garanzia tecnica di somiglianza», che lo studioso distingue dalla «consueta mimesi», differenzia essenzialmente – sotto il profilo raffigurativo – questo tipo di immagini (quelle tecniche) da tutte le altre (ossia quelle “generalmente rappresentative”). È qui che 198

Ivi, p. 54. Corsivi miei.

199

Ivi, p. 56.


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il corpo umano chiama in causa, in senso essenziale, delle tecniche che sono in grado di garantirne la ‘traccia’ diversamente da come fanno (o da come vorrebbero fare) le ultime. Belting ricorda come Georges Didi-Huberman abbia dedicato un’esposizione ad impronte, calchi, maschere, orme e ombre: tecniche corporee che riguardano ciò che viene fissato come immagine e ricordano la presenza di un corpo la cui realtà esprimono; secondo lo studioso tedesco «questo autoraddoppiamento del corpo, lì dove si trova a operare, ha il compito di trasmettere la sua forza a una figura che la esercitava al posto suo»200. Oltre la garanzia della tracciabilità del corpo, cui ogni gesto mediale inevitabilmente rinvia, si trova allora una problematica strettamente connesso al modello mimetico di Belting: la trasmissione della sostanza corporea. Secondo lo studioso, è proprio la problematicità della trasmissione della sostanza organica umana a fondare l’impulso antropologico per la scoperta e l’invenzione di tecniche in grado di ottenere convincenti immagini del corpo umano, la cui sostanza organica, per definizione, appunto «non è trasmissibile». È attraverso questa chiave di lettura che egli interpreta la storia delle tecnologie dell’immagine. Si ritorna così alla questione della distinzione tra immagine e mezzo, perché non solo in ambito artistico siamo portati a voler distinguere una riproduzione dell’immagine originaria che ci è stata trasmessa: non si sarebbero mai potute avere, altrimenti, convincenti immagini del corpo umano, la cui sostanza non è trasmissibile sulle immagini artistiche. Per questo risultano inquietanti le bambole realistiche che, nella forma delle sculture in pietra o in bronzo, si sottraggono all’indubbia distinzione tra corpo e immagine201

Il fatto che l’immagine di un corpo possa risultare convincente (a livello, per cosi dire, “sovrastorico”), così come il fatto che le bambole che provano a riprodurne le fattezze siano inquietanti (unheimlich, per usare un’espressione freudiana), viene spiegata – non sorprendentemente – da Belting ricorrendo all’originaria distinzione tra immagine e mezzo di cui è capace il nostro corpo («le nostre menti come parti dei nostri corpi»), tale

200

Ibid. Per quanto riguarda il problema delle tecniche figurative “calcografiche” si veda anche G. Didi-

Huberman, La Ressemblance par contact, Minuit, Paris, 2008; ed. it La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell'impronta, Bollati Boringhieri, Torino (2009). 201

Ivi, p. 26.


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per cui non confondiamo sostanze (corpi) e attributi (vitalità) con ciò nei cui confronti li riferiamo202. Il modello analogico-mimetico su cui lo studioso misura il potenziale espressivo di un’immagine si basa dunque su un’interpretazione del picture-making come atto di raddoppiamento speculare, esigenza di iscrizione simbolica di un corpo tridimensionale in un mezzo che si «oppone radicalmente» ad esso. Occorre qui sottolineare, allora, come l’interpretazione non-strumentale della tecnica sostenuta da Belting, riguardi, dal punto di vista figurativo, la possibilità di condurre “heideggerianamente” l’Essere alla presenza: un movimento che è essenzialmente ambiguo, perché oscilla tra ‘esteriorizzazione’ e ‘riflessività corporea’. Come dice Pietro Montani: La tecnica è bensì un produrre, ma lo è nel senso specifico di un “condurre alla presenza”. È così che la pensarono i greci. La pensarono, cioè, come una poiesis in rapporto di intimità (un produrre che è anche un “attingere”, un fare che è anche un saper ricevere) con quell’altro modo fondamentale del condurre l’ente nella presenza che essi denominarono physis, la sorgenza, il portarsi spontaneo nella presenza dell’ente capace di sorgere in modo autonomo203.

Insistere sul retroterra filosofico che si trova dietro l’interpretazione beltingiana della tecnica ha dunque il senso di far vedere in che modo la scienza dell’immagine debba integrarsi all’interno della scienza della natura, collegando così i media figurativi alla storia delle tecnologie trasmissive – cioè all’imaging science. Le immagini tecnologiche come la diagnostica per immagini non sopprimo, anzi ampliano, l’espandersi della Natura attraverso l’analogia: esse estendono il senso della presenza iconica, cioè di quel portare 202

Proprio Freud riporta come esempio di ciò che intende per Unheimlichkeit, ossia di ‘perturbante’

(Uncanny), le bambole e le figure di cera. Egli infatti scrive: «Se ora passiamo in rassegna le persone e le cose, le impressioni, gli eventi e le situazioni capaci di ridestare in noi con particolare forza e chiarezza il senso del perturbante, la prima esigenza è la scelta di un esempio pertinente. Jentsch ha rilevato come caso particolarmente adatto “il dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato”, e si è richiamato all'impressione provocata da figure di cera, da bambole ingegnose e da automi. Egli fa rientrare in questa categoria l'elemento perturbante costituito dagli attacchi epilettici e dalle manifestazioni di pazzia, perché suscitano nello spettatore il sospetto che processi automatici, meccanici, possano celarsi dietro l'immagine consueta dell’animazione». Cfr. S. Freud, Il Perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura, il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 277. 203

P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, cit., p. 66.


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alla presenza proprio di ogni tentativo di picture-making. Ogni ridefinizione del rapporto tra Uomo e Natura, in questo senso, sfocia nella produzione di immagini che non hanno mai carattere definitivo, proprio perché tale rapporto non può esaurirsi – salvo che nella contemporaneità, come vedremo. Ad ogni modo, a partire dalle immagini che schematizzano, esplorandolo, il corpo in maniera sempre nuova, siamo abituati ad un altro tipo di assenza, in grado di riformulare il concetto stesso di ‘visibilità’ e di ‘apparenza’. Secondo lo studioso, i «mondi» che si sono resi visibili grazie alle immagini tecnologiche «non sono mai stati visibili nel modo in cui lo sono i corpi umani»204. Il microcosmo, così come lo spazio cosmico, sono presenti, eppure invisibili: lo scarto che queste tecnologie introducono consiste, allora, nel funzionare allo stesso tempo come protesi, in grado di restituire i micro o macro corpi secondo immagini che, quanto al loro essere, sono interamente dipendenti dalla tecnologia stessa205. Questa autoriflessitivà riguarda dunque il carattere d’immagine che queste rappresentazioni espongono visibilmente dal loro interno: le immagini scientifiche illudono sul fatto di essere immagini, poiché rinviano a corpi non altrimenti visibili che possono solo venir rappresentati in corpi artificiali ibridi. Esse «simulano soltanto l’immediatezza della percezione» ma in realtà dimostrano come, nella storia della tecnologia, i media siano apparsi sempre «meno come un sistema di intermediazione che non come un sistema autoreferenziale, che sembra relegarci alla sola ricezione finale», cioè li dove «la trasmissione è più spettacolare di ciò che trasmette»206.

5. Immagini tecnologiche. I media contemporanei L’archeologia del monitor odierno culmina così nell’analisi dei media contemporanei, di cui lo schermo rappresenta oggi il paradigma indiscusso207. Come ricorda Carbone «è stato proprio il cinema a insegnarci a considerare lo schermo come una superficie la cui 204

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 88.

205

Ibid.

206

Ivi, p. 89.

207

A tal proposito si veda M. Carbone, A. C. Dalmasso (cur.), schermi/screens, Rivista di estetica, Anno

LIV, N. 55 (1/2014); E. Huhtamo, Elements of Screenology: Toward an Archaeology of the Screen, in ICONICS: International Studies of Modern Image, Tokyo, The Japan Society of Image Arts and Sciences, vol. VII, pp. 31-82.


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opacità, anziché nascondere, ci permette di vedere»208. Recuperando l’antico senso del termine, ossia quello di ‘superficie di protezione’, Carbone sottolinea l’ambiguità originaria che avvicina lo schermo al templum quadrangolare romano o alla tenda di Pitagora – cioè ad una superficie che, celando la visione, viene investita di un sovrappiù di significato – e come tale ambiguità sia andata persa con la screen-pratice inaugurata nel XIX sec. dal mezzo cinematografico, il quale apre uno spazio «che non istituisce alcun metafisico “al di là”»209, ma che coinvolge il corpo nell’avvolgimento della visione: Se insomma la finestra disponeva alla frontalità della rappresentazione, lo schermo cinematografico e postcinematografico sempre più dispone all’avvolgimento della visione, da intendersi ovviamente in senso pienamente audiovisivo. In questa prospettiva, se in un certo senso si può dire che lo schermo è specchio, ciò accade perché, più profondamente, esso è parte costitutiva di quel ripiegamento del visibile su sé stesso che è la visione210.

Anche Belting, da parte sua, considera l’avvento dello schermo-video come il preludio per l’istituzione di nuovi rapporti tra l’immagine, il medium e il corpo. Centrale, in questa lettura dello studioso, è l’avvento della televisione, poiché il suo monitor rimodula, oggi, l’antico luogo dell’immagine, e viene definito dallo studioso proprio come un «altare casalingo», nel senso che «accoglie quelle immagini immateriali inviate dallo spazio pubblico». Si tratta di una profonda rimodulazione del rapporto tra corpo, luogo e immagine: i luoghi, tuttavia, non spariscono nel nulla, ma lasciano tracce in un palinsesto pluristratificato nel quale si annidano e si depositano vecchie e nuove immaginazioni. Secondo la loro concezione più antica i luoghi erano luoghi della memoria […] ma oggi diventano prima di tutto luoghi nella memoria. Anche le immagini perdono quel luogo nel quale le si poteva trovare percependone la presenza211.

Oggi il palinsesto stratificato dei luoghi della memoria (ossia il corpo) e il palinsesto stratificato dei luoghi nella memoria (ossia l’immagine televisiva) non sembrano essere 208

M. Carbone, Lo schermo, la tela, la finestra, cit., p. 26

209

Ivi, p. 27.

210

Ibid.

211

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 80 (da cui provengono anche le citazioni immeditamente

precedenti).


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più così disgiungibili, perché il luogo delle immagini risulta da una forma di mediazione che è essa stessa eterotipa: le immagini televisive appaiono in un luogo che non è tale, con cui cioè non possiamo effettuare nessuno genuino scambio simbolico perché, oltre a non istituire nessun metafisico al di là, perverte l’esperienza del luogo incarnato dal benjaminiano ‘qui e ora’. Se l’immagine televisiva non fa che riproporre la fondamentale essenza eterotipa di ogni immagine – il suo essere un qui e ora verso l’altro – ciò avviene in maniera “perversa”, quasi contro-natura, ossia amplificando surrettiziamente la presenza iconica attraverso una messa in scena in cui l’illusione del “qui e ora” diviene illusione di un “lì e ora”. Queste immagini, conclude Belting, risiedono in un archivio mnemonico che viene tecnicamente manipolato secondo interessi specifici: «in nessun caso la loro trasmissione sullo schermo è una semplice circostanza tecnica»212. Al di là del problema della trasmissione, per Belting l’avvento dell’immagine digitale (o elettronica) non costituisce una cesura epocale, e non inaugura quell’era della crisi della rappresentazione con cui molti fanno coincidere la fine dell’immagine e/o della realtà. Il cambiamento che è avvenuto in seno alle civiltà dell’immagine con l’avvento del digitale, secondo Belting, ha provocato piuttosto una «crisi dell’analogia»213, ossia una crisi della nostra referenza nei confronti delle immagini del mondo. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, per Belting il punto non riguarda né la certezza ontologica che il reale “dovrebbe” avere a difesa del “potere estraniante” delle immagini, né la perdita dell’uomo da parte di sé stesso, quanto piuttosto la rimodulazione del rapporto tra Uomo e Natura, che nella contemporaneità ha assunto forme ben precise. È una crisi che coinvolge il nostro senso di realtà: come tale investe il corpo e l’immagine, che vengono entrambi dichiarate ‘norme superate’. È quello che Belting potrebbe chiamare il paradosso dell’analogico, «dal quale ci si congeda solennemente come se fosse stato l’unico significato della produzione di immagini»214 mentre (ed è questo il paradosso) non c’è mai stata così tanta analogia tra immagine e mondo. Vediamo allora dov’è il problema: Attraverso le immagini comunichiamo con un mondo che non è accessibile ai nostri organi sensoriali. L’ambito di competenza dei nuovi mezzi supera per altro quella dei nostri organi corporei […] Questa dipendenza dai mezzi tecnici, tuttavia, innesca una crisi nella coscienza

212

Ivi, p. 43.

213

Cfr. ivi, p. 28.

214

Ivi, p. 54.


70 corporea così come nel rapporto con le immagini. Ci armiamo di protesi visive lasciando a un apparecchio la guida della nostra percezione215

Attraverso il culto dei morti, come si è visto, Belting suggerisce una particolare sfumatura del senso ontologico dell’immagine: lo stesso che oggi verrebbe a mancare, facendoci perdere il fondamento della possibilità di metterci in comunicazione con il mondo. Se la trasmissione acquista più senso di ciò che viene trasmesso, ecco che, più che la perdita o la fine del concetto di immagine, si tratta della completa trans-valutazione (in senso nietzschiano) del suo riferimento comunicativo originario, testimoniato dalla progressiva perdita di significato cui le culture della morte sono state soggette nell’ambito della società occidentale. Lo studioso è chiaro su questo punto: «senza la referenza del culto dei defunti sorgono malintesi sul senso della produzione figurativa umana»216. Oggi le immagini che appaiono sugli schermi fanno riferimento a un tipo di esposizione corporea e simbolica che per Belting rappresenta una ‘perversione’ esiziale del genuino senso della trasmissione. Con la contemporaneità il medium – la mediazione stessa, si potrebbe dire – si è pervertito fino a diventare altro: iper-mediazione, pre-mediazione o addirittura ipo-mediazione – come hanno mostrato le ricerche più recenti217. In questo tipo di immagini noi non scorgiamo più nessuna analogia in grado di metterle in relazione con il mondo: sono ombre digitali prive della loro originale medialità fisica, le quali «negano le analogie col mondo empirico regolando l’immaginazione con impressioni trans-corporeee, sebbene queste siano ancora in contrapposizione con le nostre forme percettive endogene»218. È l’uomo, secondo Belting, a pensare oggi di aver perso il concetto di sé stesso a causa di un’esperienza della trascendenza che, in realtà, ha già un suo parallelo storico (ossia l’icona incorporea del proto-cristianesimo): queste immagini, alla fine, «non aprono nessun varco in un “al di là” delle immagini in cui i nostri concetti dovrebbero venir meno, ma ampliano solamente l’universo delle immagini, il quale, comunque, si dilata oltre la nostra specifica esperienza corporea»219. In questo senso Belting non identifica la 215

Ivi, p. 40.

216

Ivi, p. 180.

217

Si veda P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello

Cortina, Milano, 2014. 218

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 53.

219

Ivi, p. 102.


71

svolta digitale con la fine dell’immagine, né con la fine dell’uomo, ma con l’inizio di una nuova era della trasmissione, ossia della trascendenza, dove a dominare sono gli interessi di chi controlla politicamente l’immaginario collettivo attraverso la detenzione dei mezzi di produzione di immagini. Sono la «tecno-finzione» e la «cyber-utopia»220 a regolare le nostre impressioni corporee facendoci provare l’illusione di una trascendenza che, in realtà, è (ed è sempre stata) la vera cifra distintiva dell’immagine. Oggi le tecniche di formazione dell’immagine hanno ampliato i propri confini e sono diventati veri e propri ‘processi di individuazione’, secondo la giusta intuizione di Simondon. Ci troviamo in una situazione in cui siamo costretti a «ripensare profondamente il concetto di interattività. Siamo ormai liberati dall’idea che interagire con un dispositivo tecnico significhi implementare un programma prestabilito: l’interattività presenta margini di libertà creativa per l’utente»221. La tecnica di formazione di immagini, oggi, è inserita in un ciclo mediale senza precedenti, in cui cioè il rapporto tra Uomo-Tecnica-Natura si è modificato in un senso che, per alcuni, è ‘epocale’222. Belting, come vedremo più avanti, pur avvertendo gli effetti di questo nuovo ciclo mediale, in Bild-Anthropologie non arriva a cogliere il vero importo critico delle ‘tecnologie della sensibilità’ se non nel doppio sintomo della ‘colonizzazione’ dell’immaginario da parte della ‘tecno-finzione’ cinematografica e della costituzione di ambienti virtuali a partire dalle tecnologie della cosidetta «VR», la virtual reality. Oggi, al contrario, le sempre più capillari tecnologie connesse all’immagine pongono dei problemi che l’impostazione di Belting difficilmente riuscirebbe a fronteggiare: gli ambienti virtuali sono infatti diventati social network, e le immagini che qui vi circolano difficilmente potrebbero essere spiegate facendo riferimento unicamente allo spazio virtuale, poiché stabiliscono connessioni con il reale totalmente nuove. In questo senso, 220 221 222

Cfr. ivi, par. 3.6. D. Cecchi, Intermedialità, interattività (e ritorno). Nuove prospettive estetiche, cit., p. 6. Faccio qui riferimento, in particolare, alla critica all’antropologia filosofica portata avanti da Stiegler

attraverso il ripensamento del problema dell’antropogenesi, le cui ricerche sono volte a pensare la società ‘automatica’ e ‘reticolare’ contemporanea attraverso le recenti prospettive delle teorie relative all’entropia tratte dalla termodinamica, dalla biologia, dalla cibernetica e dalla teoria dell’informazione. Si veda in particolare T. Cohen, C. Colebrook, J. Hillis Miller, Twilight of the Anthropocene Idols, Oper Humanities Press, London (2016); A. Rouvroy, T. Berns, Gouvernementalité algorithmique et perspectives d'émancipation: le disparate comme condition d’individuation par la relation?, Réseaux 2013/1 (No 177), p. 163-196; J. Crary, 24/7. Late Capitalism and the End of Sleep, Verso, New York, 2013.


72

Miller rileva un’ulteriore criticità nei confronti dell’impostazione di Belting, e nota giustamente come in the period since Belting wrote this book, we have witnessed a proliferation of images of the self in social media. We increasingly deal with other bodies primarily as images, in conditions that challenge the anthropology of the image that Belting proposes, since these interactions are so often ephemeral, and forgettable. These images have also exhibited a certain capacity to return from oblivion223.

223

J. Miller, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, in

Anthropological Quarterly, vol. 85, no. 2, 2012, p. 631.


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Quinto capitolo L’immagine dell’uomo. Il problema della rappresentazione del corpo

1. Per una logica dell’apparenza corporea Per la ricerca antropologica la “messa in immagine” del corpo è un tema fondamentale, se è vero che «l’immagine umana e quella del corpo stanno in una relazione più stretta di quanto vogliano ammettere le attuali teorie»224. Si è già visto come immagine (Bild) significhi per Belting prima di tutto un ‘simulacro’ del corpo umano, un artefatto materiale simbolico che ne raddoppia la fenomenicità. Come scrive Wood «by “images”, as we have seen, Belting mostly means images of bodies. Other images are both of bodies and stand in for bodies, such as portraits or effigies […] The point of all this conceptual combinatorics – and, at least for Belting, the point of media studies – is to restore to mediation its material, somatic, “human” dimensions»225. Il doppio, in questo senso, non riguarda solo la possibilità di catturare un corpo, ma anche la possibilità di concepire la rappresentabilità stessa del corpo umano come fondamento per ogni tipo di ‘messa in immagine’ dell’uomo. In sostanza, ecco la domanda che occuperà il presente capitolo, formulata da Belting stesso: Ma si può ridurre il corpo a un’immagine? Lo facciamo non appena iniziamo a parlare del corpo ricorrendo alle immagini. Tuttavia, tanto più il corpo viene esplorato dalla biologia, dalla genetica e dalle scienze neurali e tanto meno si trova a nostra disposizione in un’immagine a forte carica simbolica. La tentazione sarebbe quella di sperare in una persona nuova, e cioè non soltanto l’educazione di un nuovo tipo di persona ma la scoperta di un nuovo corpo. Questa tentazione, dal canto suo, è espressione del fatto che il corpo è stato separato dalla tradizionale immagine umana226

Questa lunga citazione può essere utile a dare l’idea di come Belting affronti la questione dell’immagine dell’uomo a partire da una serie di temi strettamente connessi tra loro: la riduzione del corpo in immagine, la sua esplorazione da parte delle scienze culturali e 224

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 109.

225

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., p. 371. 226

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 109.


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biologiche, la carica simbolica che esso possiede e l’odierno tentativo di superarlo nella sua immagine. L’ultima questione sollevata da Belting, ossia il fatto che la situazione odierna sia il risultato della separazione tra corpo e «tradizionale immagine umana», è particolarmente interessante, proprio perché, come si è visto, per lo studioso non esiste un senso naturale né di corpo né di immagine: entrambi risultano dai cambiamenti culturali attraverso cui l’uomo esprime, di volta in volta, il suo rapporto con la Natura. Oltre la possibilità di catturare un corpo in immagine, vi è allora il fatto che «quando gli uomini appaiono in immagini, lì vengono rappresentati dei corpi. Questo tipo di immagini ha quindi anche un senso metaforico: delinea il corpo ma sta a significare la persona […] Le immagini della persona ci mostrano il corpo fenomenico nel quale l’uomo si incarna ed esercita il proprio gioco delle parti»227. Cosa si intende esattamente per immagine dell’uomo? Il problema della rappresentazione corporea è articolato su più livelli, perché riguarda allo stesso tempo (I) il modo in cui l’uomo trasmette il proprio corpo, (II) il modo in cui la persona umana, sociale, può essere rappresentabile, ma anche (III) l’autorappresentazione intrinseca al corpo naturale fenomenico. Lo studioso parte precisamente da quest’ultimo punto, ossia dal fatto che l’autorappresentazione appartiene essenzialmente a quello che – usando un termine del filosofo Arthur Danto – potremmo chiamare l’embodied self, il sé incarnato: il corpo è già una «invenzione culturale»228, e mai una norma ‘naturale’ o ‘data’. Il nostro corpo naturale, anatomico, è già sempre un corpo ‘medializzato’ in gesti, espressioni, tecniche e così via, così che non può essere separato dal corpo mimetico che appare nello spazio sociale. Così facendo, Belting avvicina nuovamente la propria antropologia a tematiche ‘esistenziali’ riscontrabili anche alla base dell’antropologia letteraria di Iser. Come è stato giustamente notato entrambi gli studiosi fanno infatti riferimento, nelle rispettive formulazioni, alle idee elaborate da Helmut Plessner nelle sue ricerche sull’antropologia dell’attore teatrale229. In entrambi i casi ciò che viene ritrovato e messo in comune è l’idea che l’uomo non sia una categoria rigida, ma un fenomeno ‘camaleontico’ dalla sfumatura cangiante: una maschera230. Piuttosto che rimandare ad un astratto sé stesso, l’uomo è 227

Ivi, p. 110.

228

Ivi, p. 111.

229

Si veda H. Plessner, Zur Anthropologie des Schauspielers, in Gesammelte Schriften VII. Ausdruck und

menschliche Natur, Suhrkamp, Frankfurt A. M. (1982) 230

Si veda H. Belting, Faces. Eine Geschichte des Gesichts, C. Beck, Munchen (2013); ed. it. Facce. Una

storia del volto, Carocci, Roma (2014).


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sempre il suo doppio, partecipando in qualità di attore sulla scena del mondo. In questo modo, Belting riporta il problema dell’auto-rappresentazione alle sue originarie coordinate esistenziali: C’è poi anche la contraddizione dell’essere e dell’apparire, che sta non solo tra il corpo e il suo ruolo ma persino nel corpo stesso. Con un’analisi penetrante Hannah Arendt ha fornito una genuina diagnosi corporea: “To be alive means to be possessed by an urge toward self-display. Living thing make their appearance like actors on a stage set for them”. L’indagine volta a ricercare il corpo reale sotto la superficie è soltanto una nuova variante di quell’antico impulso a voler afferrare l’essere dietro il fenomeno231.

Belting insiste sul problema dell’apparenza e sull’esigenza di autorappresentazione umana richiamandosi, come già sottolineato, anche alle analisi che Hannah Arendt ha dedicato a riguardo nel suo ultimo libro, La Vita della Mente. L’idea dell’essere umano come ens representans viene specificata qui all’interno di un contesto filosofico (o propriamente metafisico) vòlto a scardinare l’antico dualismo che la tradizione filosofica occidentale ha storicamente istituito – secondo Arendt – tra l’Essere (il fondamento nonpresente da ricercare) e il Fenomeno (identificato con “ciò che appare sulla superficie”). Nella prospettiva della filosofa, invece, «Essere e Apparire coincidono […] Tutte le creature munite di sensi hanno in comune l’apparenza»232, così che nulla potrebbe ‘essere’ se non apparisse a una pluralità di esseri che hanno in comune – in primo luogo – il fatto che appaiono (sulla) e scompaiono (dalla) “scena del mondo”. Richiamando le analisi di Arendt sulla “rivalutazione”, in ambito biologico, del «valore della superficie», Belting fa vedere in che senso una ‘logica dell’apparenza’ riferita all’esperienza corporea (come quella che egli ritrova nelle argomentazioni della studiosa) sia in grado di fondare filosoficamente il paradigma antropologico dell’esperienza figurativa: «dentro, in senso fenomenologico, sembriamo tutti uguali»233 – il che non significa altro che solo esteriormente possiamo apparire autenticamente234. La diagnosi 231

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 111.

232

Cfr. H. Arendt, La Vita della Mente, cit, p. 101.

233

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 111.

234

Ecco come H. Arendt descrive, ne La Vita della Mente, il rapporto tra ‘apparenza’ ed ‘autoesibizione’:

«[…] ogni cosa che può vedere vuole essere vista, ogni cosa che può udire richiede di essere udita, ogni cosa che può toccare si offre di essere toccata. Avviene davvero come se ogni cosa che vive – oltre alla


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che la Arendt ha correttamente formulato riguarda, al fondo, l’erronea impostazione alla base della metafisica occidentale, ossia l’impulso a voler risolvere il mondo in costruzioni (o in rappresentazioni) a partire da un fondamento ogni volta diverso, stabilendo così ogni volta una diversa asimmetria tra quest’ultimo e l’apparenza. Belting non esita, come vedremo, a formulare a sua volta una diagnosi sull’uomo contemporaneo a partire da questa impostazione – lì dove la costruzione del corpo viene riflessa nelle immagini che lo rappresentano sempre a partire da una sua pre-interpretazione storica e culturale. La storia culturale del corpo, in particolare, mostra come l’immagine dell’uomo presupponga sempre una determinata immagine del corpo che viene elaborata in seno ad ogni cultura, e che riguarda le concezioni filosofiche del “sé incarnato”. È in questo senso che Belting prende in eredità il problema della rappresentazione del corpo in Occidente, ossia facendo riferimento al fatto che la storia della sua costruzione procede parallela a quell’«indagine volta a ricercare il corpo reale sotto la superficie» con cui la Arendt identifica il dualismo della tradizione metafisica occidentale. Al contrario, sostenere una logica dell’apparenza corporea significa che, se l’apparenza autentica è rimandata a quell’esteriorità attraverso la quale gli organismi esibiscono l’impulso a manifestare sé stessi, all’immagine dell’apparenza per eccellenza – ossia all’immagine del corpo umano – viene conferito uno statuto peculiare: Ogni rappresentazione umana, come rappresentazione del corpo, è strappata al fenomeno. Si riferisce a un essere che può rappresentare solamente nell’apparenza. Mostra ciò che l’uomo è attraverso l’immagine in cui lo fa apparire, cosa che l’immagine fa di nuovo mediante un sostituto del corpo che così lo mette in scena e ne fornisce l’evidenza desiderata. L’uomo è così come appare nel corpo. Il corpo è un’immagine ancor prima di essere riprodotto in un’immagine. La figura non è ciò che afferma di essere, cioè la riproduzione del corpo. In verità è la produzione di un’immagine corporea che è compresa già nell’autorappresentazione del corpo235.

Dal momento che i confini tra ‘apparenza’ e ‘corporeità’ non sembrano essere nettamente distinguibili – tanto che l’espansione dell’una corrisponde all’espansione dell’altro – ecco che l’uomo, inteso come una costruzione culturale, risulta indagabile attraverso le circostanza che la sua superficie è fatta per l’apparenza, atta a essere vista e destinata ad apparire agli altri – avesse un impulso ad apparire, ad intonarsi al mondo delle apparenze esibendo e mostrando non il proprio “sé interno”, ma sé stessa come individualità». Cfr. H. Arendt, La Vita della Mente, cit., p. 110. 235

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 111-2.


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immagini del corpo. Queste ne restituiscono il doppio, ossia l’evidenza desiderata, nella costruzione di una figura che non è una semplice replica, ma una produzione (poiesis) effettuata a partire dal corpo stesso. Dal momento che il corpo viene ridotto a un’immagine, ogni rappresentazione umana, come rappresentazione del corpo, è «strappata al fenomeno» e si riferisce a qualcosa che può rappresentare così solamente nell’apparenza. È grazie alla sua ‘messa in immagine’ – vera e propria trasposizione entro l’ordine simbolico dell’apparenza –, che la naturale fenomenicità del corpo può essere interpretata anche in senso culturale, così che la storia della produzione figurativa riflette un’analoga storia culturale del corpo, ossia della persona ‘storica’, ‘sociale’236. È così, in sostanza, che l’uomo diventa ‘immagine’. Ora, il fatto che l’immagine del corpo si riferisca ad un essere «che può rappresentare così solamente nell’apparenza» è in realtà il senso proprio, la caratteristica essenziale che Belting riconosce all’immagine. Egli riscontra cioè una convergenza che avvicina ogni forma di rappresentazione umana alla dialettica di presenza e assenza cui l’immagine come sostituto del corpo rinvia: Un’immagine trova il suo vero senso – e cioè qualcosa da riprodurre – in ciò che è assente e dunque può essere lì soltanto sotto forma di immagine. Viene portato a manifestarsi non ciò che è nell’immagine, ma ciò che può apparire solamente nell’immagine. L’immagine di un defunto, dunque, non è un’anomalia ma addirittura il senso originario di ciò che comunque è un’immagine237.

Il fondamento della rappresentazione è ancora una volta la Todesbild: fondamento “sfondato”, perché l’immagine della morte assicura la rappresentazione a una paradossale dialettica di presenza e assenza che ristruttura il concetto stesso di visibilità. Tale fondamento agisce, per così dire, in negativo: esso instaura quel cortocircuito visivo rappresentato dal defunto – un corpo che è paradossalmente presente e assente – che è il senso originario di ogni immagine, e che risulta costitutivo nel caso dell’immagine del corpo poiché quest’ultima dipende, quanto alla sua motivazione, proprio da tale paradosso. L’immagine del corpo non può prescindere da questo riferimento: ogni 236

Ivi, p. 34.

237

Ivi, p. 174 (corsivi miei). Il riferimento di Belting è a M. Blanchot, L’espace littéraire, Gallimard, Paris,

1955 (1993), pp. 340 ss. (Les deux versions de l’imaginaire); ed. it. Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1975.


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rappresentazione del corpo “mette in scena” un cadavere e rappresenta così una soglia tra la vita e la morte. Prova ne è il fatto che quando l’immagine del corpo prova ad oltrepassare questa soglia essa si trasforma in anti-immagine, come evidenzia la mostrascandalo BodyWorlds, rifiutata da molti paesi; oppure (ed è il caso più eclatante perché è quello rappresentato dall’immagine digitale), quando ciò succede, l’immagine perde il proprio riferimento comunicativo, e le rappresentazioni del corpo si perdono in un circolo in cui fanno riferimento ad un soggetto di cui non si possa più dire chi è. Come ogni immagine, anche quella del corpo è garantita dalla morte.

2. Costruzione e decostruzione dell’immagine del corpo Poste queste basi teoriche, Belting prova ad articolare una storia della rappresentazione umana modellandola sulla storia culturale del corpo. Qui emerge subito un problema, perché se la costruzione dei concetti storici di ‘uomo’ e di ‘corpo’ procede parallela alla costruzione delle “sue” immagini (le immagini del corpo, ma anche le immagini attraverso cui l’uomo si appropria del mondo), ecco che questo “montaggio” è “minato” alla base dal fatto di essere già decostruito: Il corpo è sempre rimasto lo stesso e, proprio per questa ragione, è stato soggetto a un costante cambiamento sia nel modo in cui lo si pensa sia nel modo in cui esso si percepisce. La distanza tra la certezza della sua presenza fisica e l’incertezza riguardo all’idea che si ha del corpo non si è mai colmata. I corpi sono profondamente modellati dalla loro storia culturale e perciò non hanno mai smesso di essere esposti alla mediazione per mezzo del loro ambiente visivo238

Riconoscere e mantenere, a livello metodologico, una differenza specifica tra il corpo e la sua rappresentazione è una prerogativa della prospettiva antropologica: tra la ‘certezza’ della sua presenza e la ‘vaghezza’ delle figure che lo rappresentano si apre, infatti, lo spazio dell’immagine. La necessità di mantenere aperto tale spazio porta allora Belting ad opporsi all’idea di un ‘senso tradizionale’ che alcuni vorrebbero proprio tanto dell’immagine quanto dell’uomo e ad evidenziare la necessità di considerare l’immagine umana come ciò che è capace di registrarne la complessa morfologia, sottraendola così ad un’ottica univoca, unilaterale. Scrive infatti che «la storia dell’immagine che l’umanità 238

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., p. 86.


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ci ha lasciato attraverso le sue testimonianze figurative offre una straordinaria raccolta di esempi della dinamica storica dell’immagine umana, che ne dimostra l’instabilità»239. A chi lamenta la perdita del concetto di ‘corpo’, Belting risponde che il concetto ‘tradizionale’ di corpo non è mai esistito. La storia europea dell’immagine del corpo è attraversata da momenti che mostrano come la costruzione dell’immagine dell’uomo (e del suo ruolo sociale espresso nella ‘persona’ o maschera) proceda parallela alla sua decostruzione. Già decostruita prima di ogni sua (futura) costruzione, l’immagine umana è destinata a simboleggiare il “fallimento” di ogni rappresentazione del corpo (ossia l’impossibilità di un’immagine definitiva). La continua e multiforme esposizione dei corpi alla mediazione richiede invece di adottare una prospettiva che veda in ogni rappresentazione del corpo una sua riduzione mediale240. Ed è proprio «l’instabilità» dell’immagine corporea a rinviare alla necessità di ricorrere al motivo dell’incarnazione – posto nella maniera più radicale dalle culture ‘primitive’. Il tema dell’incarnazione non riguarda allora solo una specifica problematica relativa all’arte cristiana occidentale (con i suoi dogmi), ma si riferisce direttamente all’analogia fondamentale tra corpo e immagine – ciò che, in ultima analisi, riguarda in maniera essenziale il rapporto tra la vita e la morte: scrive Belting che «dal punto di vista antropologico l’incarnazione nell’immagine rappresenta un topos perché vi si ravvisa il tentativo di superare nell’immagine i limiti dello spazio e del tempo cui il corpo naturale è vincolato»241. Secondo lo studioso bisogna rinunciare alla costruzione lineare, “unidirezionale”, di una storia dell’immagine della persona. Essa va in crisi già con l’avvento del Cristianesimo, che farebbe venire meno, in senso ontologico, il fondamento di ogni rappresentazione umana: «abbracciando con lo sguardo la storia europea dell’immagine del corpo, vediamo che questa prende avvio con la crisi dell’immagine corporea» innescata dalla persona di

239

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., pp. 117-8.

240

Belting non intende dire, con ciò, che il corpo viene ridotto figurativamente, ossia quanto alle sue

capacità espressive e mimetiche, ma che esso viene allestito in un ambiente mediale che, in quanto tale, ha una forma tecnica ed una forma storica. La riduzione del corpo in immagine non è quindi da intendersi in senso negativo: piuttosto, è un concetto aperto, in virtù del quale lo studioso può separare, nell’analisi, le immagini del corpo (come ad esempio le sue rappresentazioni scientifiche) dalle immagini della persona (la rappresentazione in effigie) come due temi che si richiamano l’un l’altro. 241

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 108.


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Gesù, «un corpo teomorfo che solo nella referenza divina possiede una sua unicità»242. Facendo valere la sua configurazione “immagine-corpo-mezzo”, Belting pensa alla storia della dell’immagine umana come ad un insieme di pratiche legate all’esplorazione del corpo, attraverso cui cioè esso viene ridotto, amplificato, sostituito, idealizzato e così via. Dire che il corpo è stato modellato dalla storia culturale significa infatti che esso ha sostenuto un ruolo attivo ai fini della rappresentazione stessa. L’insistenza ossessiva di Belting sulle immagini del corpo, vista dal rilievo assunto nella teoria figurativa dalle tecniche calcografiche, riguarda qui una possibile storia dell’immagine umana dove è il corpo stesso, per via dei suoi doppi, ad essere immagine: è il caso delle reliquie cristiane, del sudario della Veronica o della sindone di Torino; ma è il caso anche della funzione politica delle immagini (Belting pensa agli stemmi e ai ritratti esposti simbolicamente). Come non esiste un concetto di immagine in generale, così non esiste un concetto di corpo in generale, ma determinati corpi storici: corpi ‘sostitutivi’, corpi ‘politici’, corpi ‘rappresentativi’, corpi ‘ridotti’ o ‘amplificati’ e così via, ognuno calato all’interno delle forme storiche del proprio tempo243. Seguendo questo percorso, allora, il problema dell’artefatto figurativo in quanto ‘rappresentazione’ risulta intimamente collegato al problema del ‘corpo trasmissivo’: in ultima analisi, è il problema di come l’uomo tramanda il proprio corpo nel tempo. Dall’immagine parlante dell’antico Oriente, passando per i busti degli antenati romani, fino ad arrivare ai ritratti funebri, la rappresentazione del ‘corpo vivente’ riguarda allora il tema del raddoppiamento corporeo secondo un profilo anche essenzialmente sociale (se non proprio politico) inscritto nell’esigenza di sopravvivere nel tempo, trasmettendosi. Emerge così, in maniera forte, la dimensione critica del corpo inteso come medium originario delle immagini, luogo intemporale della trasmissione, fonte di continue mediazioni244. Vale la pena citare l’inizio della nozione ‘Corpo’ dell’Enciclopedia Von Meschen di Wulf, curata da Dietmar Kamper: Il corpo, latino corpus, inteso nel senso di corpo defunto dei capi e, più tardi, nel senso di salma, non può essere affatto preso come naturale o originario. Piuttosto, come “risultato” vitale e attivo dell’evoluzione, va attribuito alla preistoria e alla storia. Ciò dovrebbe dare alle scienze umane e

242

Ivi, p. 120.

243

Sulla questione del potere politico-rappresentativo del corpo delle immagini cfr. ivi, capp. 4 e 5.

244

Cfr. ivi, p. 76.


81 sociali, e in particolare all’antropologia storica, una priorità rispetto alle scienze della natura e alle varianti dell’antropologia che prendono queste a modello245.

Belting sfrutta senza dubbio questa «priorità» e nella sua ricostruzione privilegia quelle immagini che rappresentano una mediazione diretta, evidente del corpo. Dopo il Cristianesimo è infatti il caso del Medioevo, dove ad essere messi al centro sono quegli artefatti figurativi come le effigi funerarie, gli stemmi, gli scudi araldici e le figure votive in cera che fanno segno ad un uso del corpo integralmente politico. Si tratta perlopiù di artefatti che sembrano situarsi in una zona di penombra rispetto alla storia dell’arte ‘tradizionale’ perché il potere politico-rappresentativo di queste immagini – sempre legato al loro corpo mediale o medializzato –, fa integralmente riferimento al corpo simbolico dell’uomo, cioè a quel corpo artificiale attraverso cui questi esprime, determina e mantiene i rapporti di esistenza e di reciprocità, nonché le relazioni culturali, con il proprio mondo. Belting recupera qui il senso originario del termine rappresentazione, al cui interno, come nota Carlo Ginzburg, è già presente l’oscillazione tra la sostituzione e l’evocazione mimetica. Nel suo saggio Rappresentazione. La parola, l’idea, la cosa, Ginzburg scrive infatti: L’oscillazione tra sostituzione ed evocazione mimetica è già registrata, come ha osservato Roger Chartier, nella voce répresentation del Dictionnaire universel di Furetière (1690). In essa si citano sia i manichini di cera, di legno o di cuoio che venivano deposti sopra il catafalco reale durante i funerali dei sovrani francesi o inglesi, sia il letto funebre vuoto e ricoperto da un lenzuolo mortuario che più anticamente “rappresentava” il sovrano defunto. La volontà mimetica presente nel primo caso era assente nel secondo: ma in entrambi si parlava di “rappresentazioni” 246.

È sul primo aspetto dei due termini (la sostituzione) che egli mette l’accento, insistendo, nel passaggio dal Medioevo all’età Moderna, sulle funzioni del ritratto: tanto sulla 245

D. Kamper, Corpo, in C. Wulf (cur.), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, cit., p. 409.

246

C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 82. Come

indica lo stesso Belting, «Il concetto di repraesentatio, che meglio conosciamo dal culto mortuario dinastico dello pseudo-corpo o del doppio-corpo, contraddistingue il diritto di rappresentazione e non l’efficacia di questa rappresentazione che, in una concezione moderna, viene identificata da noi come somiglianza» H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 150


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funzione di oggetto di regalo o di scambio, quanto sulla funzione testimoniale e dinastica. Secondo Belting il ‘ritratto’ – inteso come genere figurativo storico – ha subito una trasformazione tale per cui esso è stato identificato, a partire da un certo momento della modernità, con un’opera d’arte dal carattere autonomo e non più come un oggetto trasmissivo dotato di una ‘carica’ simbolica legale – ossia come un oggetto portatile in grado di svolgere diverse funzioni sociali.

3. La questione del ritratto borghese Essenziale, nel caso della novità inaugurata dal ritratto, è il fatto che «il corpo, in qualità di mezzo esistenziale, viene scambiato con un mezzo artistico e artisticamente realizzabile, attraverso il quale viene ricordato un soggetto che di tale ricordo è degno»247. È quest’idea che si trova alla base della ‘riappropriazione figurativa’ operata dalla società borghese europea, che con il ritratto si contrapponeva all’araldica medievale innanzitutto da un punto di vista corporeo. Belting nota come con il ritratto il «lato aggressivo» della rappresentazione – che nel Medioevo era simbolizzato dall’uso dello scudo stemmato – viene dislocato nella ‘frontalità’ attraverso cui, ora, esso si pone verso i confronti del proprio osservatore, da cui richiede uno ‘scambio’ di sguardi. All’interno delle ‘economie’ della rappresentazione, lì dove viene meno la frontalità dell’araldica – la quale esigeva uno sguardo in grado di riconoscere diritti – ecco che subentra quella visione dello sguardo diretto che, a sua volta, “cerca” il nostro sguardo di osservatori – così come farebbero due interlocutori248. A ben vedere, sostiene Belting, anche il ritratto non è solamente un documento che attesta la presenza (più o meno legale) di qualcuno, ma, cercando un dialogo con il proprio osservatore, è un vero e proprio mezzo del corpo attraverso cui viene indicata l’esigenza di appropriarsi di un’identità: come tale esso non rappresenta solamente una persona, ma esige a suo modo la rivendicazione di diritti; esso «non vuole solamente osservare, bensì

247

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 165.

248

In questo senso lo sguardo è un concetto chiave all’interno della genealogia di Belting, dal momento

che esso pone uno ‘spazio’ attraverso il quale il ritratto acquista una ‘distanza’ dal volto naturale – distanza che non era possibile nel caso del concetto figurativo-mediale proprio dell’araldica, che nella frontalità dello stemma opponeva, senza cercare alcun dialogo, la semplice rivendicazione di diritti.


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essere riconosciuto attraverso il ricordo e l’intercessione per la salvezza dell’anima di chi è rappresentato in absentia»249. Il dualismo intrinseco alle possibilità del ritratto (l’oscillazione tra carattere documentale e carattere dialogico) si ripercuote anche sulla sua originaria funzione storica (e figurativa), scissa tra il luogo del cerimoniale di corte e l’ambito borghese, dove «un suo uso per possibile soltanto nella disciplina delle fondazioni religiose o, all’interno della liturgia funebre, nel culto degli antenati»250. In questo secondo caso, laddove esso era tollerato, «il ritratto borghese dei primi realisti fiamminghi del Quattrocento svincola il corpo dalla gerarchia sociale rendendolo così, nei limiti della concezione borghese, il trasmittente di una persona»251. In questo senso, esso poneva una questione fondamentale, ossia la possibilità di conoscere l’essere umano attraverso la sua immagine: Il ritratto fisiognomico radicale, che rompeva definitivamente con la serie genealogica dei ritratti, utilizza il corpo individuale come una funzione figurativa che dovrebbe conseguentemente portare alla descrizione del soggetto. Descrizione del corpo e descrizione del soggetto non sono in nessun caso sinonimi, ma sono legati adesso ad un avvincente doppio compito per il futuro. Dove il corpo naturale diventa l’agente e il luogotenente del soggetto, il corpo sociale, nella sua rivendicazione di staticità, si trova improvvisamente a disposizione252.

Da un lato, la raggiunta possibilità di rappresentare il corpo come trasmittente di una ‘persona’ significò tenere insieme la ‘descrizione del corpo’ e la ‘descrizione del soggetto’, prospettando così un nuovo compito per l’arte pittorica – la cui vitalità è interamente dipendente, per Belting, dalla tensione tra norma e natura, ossia dalla possibilità di rinnovare ogni volta la domanda sull’autentico sé; dall’altro lato però, come tema del sé, il volto fu subito in grado di porsi oltre il limite della visibilità e della somiglianza fisionomica, poiché «all’inizio dell’era moderna quella del sé era questione che riguardava tanto la filosofia quanto la rappresentazione iconica: il volto era un’immagine che poteva mutare facilmente in una maschera»253.

249

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 153.

250

Ivi, p. 150.

251

Ivi, p. 152.

252

Ivi, p. 155.

253

H. Belting, Facce, cit., p. 163


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Ad essere in gioco qui, come si può vedere, è il rapporto tra il carattere documentale, o testimoniale, del volto e la sua perifrasi, ossia le possibilità di descrizione del soggetto. La tensione tra natura e cultura, nel caso del ritratto, si traduceva infatti nella domanda sull’«effettiva possibilità di raffigurare il sé invisibile. Il ritratto non poteva limitarsi all’aspetto esteriore, ma sollevava un problema: come ci si voleva rappresentare, oppure far rappresentare? Più che del disegno di un volto c’era bisogno di una messa in scena e l’atto linguistico diventava più importante della somiglianza»254. Invece di limitarsi alla sola somiglianza fisionomica, i ritratti rinascimentali hanno espresso il conflitto tra «maschera sociale e identità mortale», attraverso una ‘messa in scena’ che, in quanto descrizione del soggetto, veniva allestita ricorrendo a tutto il linguaggio retorico-figurativo disponibile: «il semplice aspetto corporeo veniva così trasformato attraverso una retorica dell’io»255 in cui la mimica, la gestualità, lo sguardo e la postura svolgevano un ruolo essenziale. In questo senso, ogni volta che tentava di riprodurre un volto, il ritratto si addentrava nella descrizione del soggetto: si poteva rappresentare il sé tramite il ruolo ma, in virtù di una concezione ‘esistenziale’ dell’apparenza, si finiva per svelarlo inevitabilmente coma maschera, finzione. In questo senso, conclude Belting, l’Io non veniva mai definitivamente raggiunto. Nel ritratto, allora, il volto non è una datità naturale, fisionomica, ma è piuttosto una maschera, che viene ricondotta dalla società a forme sempre nuove. In questo senso «la somiglianza si dimostra sempre una grandezza variabile: la si deduceva a partire dalla maschera del sé»256. La genealogia del ritratto europeo moderno culmina, secondo Belting, nell’esperienza borghese del ritratto: se nel caso del culto funebre la questione del corpo era stata posta in termini esiziali, nel caso del ritratto moderno lo stesso si può dire per la questione del sé, dell’identità personale. Qui il problema della persona, dell’individuo, viene declinato attraverso conflitti legati al diritto di rappresentazione, il cui esito consiste nella possibilità di raffigurare il corpo in un’immagine che lo rappresenti in senso “interiore”, “ideale”. In questo senso, esso non era legittimato dal contatto con il corpo e dipendeva interamente da interessi sociali. È per questo che, nei confronti del ritratto di corte, il ritratto borghese costituì un “affronto”: esso avocò a sé quella temporalità, possibile solo 254

Ibid.

255

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 169.

256

H. Belting, Facce, cit., p. 159.


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nell’immagine, consistente nella “pretesa di eternità” che prima era stata reclamata solamente dalle configurazioni di scudi e stemmi. Ed è per lo stesso motivo che la somiglianza, intesa come semplice “mimesi”, in questo caso non ha “presa”. Il realismo dei ritrattisti fiamminghi fa infatti ancora riferimento a una ‘garanzia’ di veridicità dell’immagine per cui il pittore si rende ‘garante’ dell’immagine stipulando un contratto con il suo committente. In questo senso, la fisionomia viene sottomessa a una messa in scena dell’io in cui gli elementi corporei della postura, della gestualità, dello sguardo e della mimica assumono un ruolo essenziale nel descrivere la persona. A questo fine, anche le analogie corporee mutuate dall’esperienza della finestra e dello specchio divengono altrettanto necessarie. Il tentativo di catturare il sé nell’immagine, oltre ad essere fonte di quell’ambiguità che fu “linfa vitale” per il ritratto, sfruttò ai fini della descrizione del soggetto tutto il linguaggio retorico e figurativo disponibile. In questo senso, l’“antropologia pittorica” del volto dispiegata dai ritratti umanistici e rinascimentali mostra un paradigma della somiglianza che fa essenzialmente riferimento al corpo mediale del ritratto: la tavola o pannello, contro cui gli artisti operano per liberare la presenza dal volto dalle restrizioni materiali. Così facendo, lo studioso invita ad intendere la presenza del ritratto in un altro senso, dove lo spazio di azione del soggetto pittorico aspira realmente ad una sua autonomia, «una propria presenza, una presenza in imagine talmente suggestiva da far credere che si trattasse di una presenza in corpore. La presenza è qualcosa di più della somiglianza: non è infatti solo un ricordo del volto ma afferma, nell’immagine, il suo presente»257. In questo senso, la vera differenza che Belting riconosce al ritratto moderno consiste nel riuscire a rendere effettiva una presenza soggettiva che la tavola, come semplice supporto inanimato, non avrà mai. Occorre allora concludere, con Miller, che While it is intriguing to see the heraldic images as “likeness”, we are more likely to accept the portrait as the depiction of a person because of a historical shift from an emblematic to an iconic reference to the body. Renaissance artists who produced representations of singular individuals present us with the living “image” of the incarnate, historical entities, by which Belting intends more than just a body, but a “Self”

258

257 258

Ivi, p. 153. J. Miller, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, in

Anthropological Quarterly, vol. 85, no. 2, 2012, p. 628.


86

4. Crisi dell’analogia A partire dal XIX sec. il fondamento umanistico della rappresentazione, ossia l’immagine del pensiero elaborata da Cartesio e l’immagine della visione teorizzata da Alberti, entra definitivamente in crisi. A ciò, come si è già avuto modo di vedere, contribuiscono le immagini tecnologiche, che a partire dagli anni ’30 del secolo risolvono l’immagine in riproduzione: inutile dire che quest’ultima coinvolge anche il corpo, che nella fotografia si trova replicato – ossia verificato – più volte pur rimanendo lo stesso (e, soprattutto, pur apparendo sempre come tale, ossia come un corpo). Riformulando secondo le loro specifiche coordinate l’immagine del corpo, e presentandola in una nuova percezione analitico-sintetica, le immagini tecnologiche (tra cui quelle scientifiche) soddisfano dunque l’antica esigenza antropologica di ottenere nuove, sempre diverse, convincenti immagini del corpo umano. Ma l’analisi del corpo umano che sfocia nella sintesi di nuove immagini della persona porta con sé, secondo Belting, il suo lato “decostruttivo”, se è vero che «tanto più esso viene esplorato dalla biologia, dalla genetica e dalle scienze neurali e tanto meno esso si trova ancora a nostra disposizione in un’immagine a forte carica simbolica»259. Esiste allora una relazione inversamente proporzionale tra la possibilità di ‘mettere il corpo in immagine’ e il suo grado di ‘esposizione simbolica’ attraverso immagini in grado di richiamarci fortemente ad esso. In questo senso, come si è visto, la genealogia della raffigurazione umana dispiega il suo movimento offrendo allo stesso tempo il fianco per la sua “decostruzione” – centrata sulla perdita di carica simbolica cui il ‘fondamento corporeo’ è soggetto nella sua riduzione a ‘immagine’. Per limitarci all’ambito della moderna rappresentazione scientifica, ecco come Belting descrive gli effetti della moderna rappresentazione cartografica del corpo: «la diagnostica per immagini sfugge alla rappresentazione della persona: rappresenta cartograficamente un corpo del quale non esiste più il pronome possessivo, vale a dire “il mio corpo”»260. Nel portare alla visibilità, attraverso corpi artificiali, elementi corporei altrimenti non visibili (di cui forniscono, appunto, l’immagine), le immagini diagnostiche fanno riferimento a un ‘doppio’ corporeo privo di identità, di cui mostrano quell’interno che costituisce il fondamento per il paradigma antropologico della ‘non-visibilità’. Nel 259

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 109.

260

Ivi, p. 110.


87

mostrare ciò che rimane ‘altrimenti’ in qualità di ‘sconosciuto’ (cioè non-visto) esse fanno riferimento a un corpo di cui non si può dire di chi è, riflettendo così un’esperienza ‘moderna’ di perdita del concetto di ‘uomo’. Secondo Belting, allora, è proprio la contemporaneità a porci sotto gli occhi il fatto che «è

possibile

giustificare

antropologicamente

l’odierna

esperienza

figurativa,

riconducendola a una storia dell’immagine della persona»261. Oggi, infatti, l’impresa dell’homo pictor – conquistare il mondo attraverso le immagini-rappresentazioni – sembra essere definitivamente compiuta. L’uomo, cioè, si è risolto in immagine: ha esaurito le risorse, o le fondamenta, a partire da cui istituire lo spazio della rappresentazione stessa. Tra la certezza della sua presenza e le figure che lo incarnavano, la storia dell’immagine dell’uomo si è sempre basata su uno scarto, una differenza: quella tra l’immagine e ciò che essa raffigurava. Scrive Belting che «la libertà dell’uomo dalla natura è consistita nel suo potersi affrancare da essa attraverso le immagini che lui stesso ha fatto e le ha contrapposto. Egli perde questa libertà in un corpo vincolato a una norma dalla quale non c’è più alcuna separazione»262. Richiamando le critiche alla metafisica occidentale di Hannah Arendt, possiamo vedere qui come oggi venga a mancare quel fondamento a partire da cui istituire lo spazio della rappresentazione, ossia la distanza tra il corpo e la sua immagine. Come è stato giustamente sottolineato, Belting sostiene che nella società contemporanea l’uomo, più che liberarsi della natura, deve liberarsi dall’immagine, è come se fosse prigioniero della propria immagine. Il corpo stesso, ciò che lega inesorabilmente l’uomo alla natura, è oggi un’immagine modificabile e costruibile dall’ingegneria genetica, è l’espressione di quella volontà che ambisce a un corpo meccanicamente perfetto. La costruzione ideologica dell’uomo, cardine della mentalità del ventesimo secolo, è stata sostituita dall’ambizione di una costruzione biologica263

È Belting stesso a richiamarsi alle tesi heideggeriana della Eröberung der Welt als Bild, con la quale il filosofo intendeva evidenziare la complessa relazione di ‘uso reciproco’

261

Ivi, p. 55.

262

Ivi, p. 135.

263

L. Bradamante, Hans Belting. Oltre la storia dell’arte verso la Bildwissenschaft, cit., p. 48. Si veda

anche P. Montani, Bioestetica, cit., par 3.4.


88

che si era venuta a creare tra il mondo reale (Welt) e il mondo dell’immagine (Bild)264. Il fatto è che oggi il pensiero della tecnica dovrebbe portare a parlare non di una crisi dell’immagine, quanto piuttosto di una crisi della referenza. Oggi, secondo Belting, l’analogia tra corpo e immagine viene messa in questione dal fatto che il semplice riferimento indessicale di cui parlava Peirce non basta più. Capiamo allora, attraverso l’immagine digitale, che questa analogia non si basa solo sulla fiducia nella realtà del corpo, ma anche sulla convinzione che il corpo reale possa rappresentare la persona che incarna. Oggi la questione ruota intorno al dubbio se il corpo sottragga ogni analogia all’immagine oppure se venga scambiato con quelle immagini nelle quali si può rinnegare. In entrambi i casi è chiaro che tra il corpo e l’immagine esiste una crisi: quella della referenza265.

La crisi della referenza corporea è massimamente evidente nel caso del luogo dell’immagine – che naturalmente è il corpo stesso – il quale si dilata quantitativamente e qualitativamente nell’esperienza virtuale del cyber-spazio266. Ecco in che senso, per Belting, il corpo è stato separato dalla tradizionale immagine umana. Esso non rappresenta più un fondamento a partire dal quale elaborare rappresentazioni, ma diventa esso stesso immagine, ossia spazio di immanenza senza limiti. Come si diceva alla fine del capitolo precedente, per Belting il vero importo delle ‘tecnologie della sensibilità’ consiste in quest’esperienza di s-coporamento, ossia di dilatazione dei nostri confini: un motivo d’essere che, insiste Belting, ha ragione solo nell’immagine e per il quale gli uomini hanno sempre fabbricato immagini. È per questo che egli vede nella tentazione di superare l’uomo attraverso una «coscienza extracorporea» il vero problema della crisi dell’analogia, poiché qui abbiamo l’impressione di essere presenti (o meglio: immersi) attraverso un nuovo corpo (e un nuovo Io) in un mondo le cui metamorfosi sono illimitate, e che si contrappone al “vecchio corpo” che rimane ancoràto ad un mondo materiale, «indolente». Occorre insistere qui sul cambiamento del concetto di luogo e di spazio inaugurato dall’immagine 264

Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 135.

265

Ivi, p. 134.

266

«La questione sul luogo dell’immagine, con il quale identifichiamo qui il corpo naturale, non si risolve

nell’arte. Si inasprisce lì dove la realtà virtuale dei suoi spazi si dilata quantitativamente e qualitativamente in seguito all’esplosione di Internet e alla valutazione del cyber-spazio». Cfr. ivi, p. 105.


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“estesa”: «in una rappresentazione del mondo nella quale è possibile cartografare il cosmo come uno spazio fisico privo di buchi […] la tecnologia delle immagini virtuali […] è un luogo per gli antichi bisogni spirituali che avrebbero perduto le loro basi religiose»267. La vera differenza rispetto, ad esempio, all’esperienza di virtualità propria dell’iconaprotocristiana, consiste nel fatto che qui l’interattività non è più fonte e motivo di condivisione, ma diviene occasione per il sorgere di un «nessun-luogo comune», ossia una nuova «seduzione» nella fede dell’immagine268. Per concludere, secondo Belting la storia culturale del corpo è una storia di rotture, la quale si rende storicamente visibile attraverso la progressiva riduzione del senso e della pratica della morte nelle culture storiche occidentali. Se il significato dell’immagine è legato alla morte, nel senso che la morte garantisce l’immagine, ecco che nelle varie culture del corpo Belting riscontra anche, parallelamente, una serie di culture della morte, la cui progressiva perdita di significato nelle società occidentali testimonia della presunta perdita di valore del significato delle immagini269. L’immagine umana, più di ogni altra immagine, è il termometro che misura il grado di sanità di una società. E quando questa appare destituire lo stesso riferimento corporeo dell’esperienza figurativa, lì dove alcuni vedono la morte dell’immagine, Belting preferisce invece diagnosticare un cambiamento di regime all’interno della produzione di significato della società, in cui il digitale non supera l’analogico, ma che costringe piuttosto a ripensare le nostre categorie. Scrive infatti: «Ma che cos’è un’immagine tradizionale? È tradizionale solo perché interagisce ancora con i nostri corpi? O troppo sbrigativamente tutti noi abbiamo accusato le immagini pre-digitali di essere soltanto degli strumenti di un’ingenua imitazione, accusata di duplicare il mondo visibile?»270 La diagnosi che Belting formula riguarda allora una generale situazione di indigenza simbolica – che porta la «tecnofinzione» a caricare di pulsioni religiose l’immaginario collettivo – e di immanenza immaginaria, lì dove non si è più nessuno, eppure si è tutti insieme. La conclusione, un po’ lunga, di questa discussione sulla crisi dell’analogia, è

267 268

Ivi, p. 253. Ivi, pp. 106-7. Sul problema della rete si veda A. Ardovino, Raccogliere il mondo. Per una

fenomenologia della rete, Carocci, Roma (2011) e D. Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano, Quodlibet, Macerata (2013). 269

Cfr. ivi, parr. 6.1, 6.2, 6.4.

270

H. Belting, Immagine, Medium, Corpo. Un nuovo approccio all’iconologia, cit., pp. 92-3.


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tratta dalla voce ‘Immagine’ dell’Enciclopedia Von Menschen di Wulf, e non può che sorprendere per le affinità con le posizioni di Belting: Gli uomini oggi non vivono nel mondo. Non vivono neppure nel linguaggio. Vivono piuttosto nelle immagini del mondo, di sé stessi e degli altri uomini che si sono fatti, nelle immagini del mondo, di sé stessi e degli altri uomini che sono state fatte per loro. E vivono più male che bene in questa immanenza immaginaria. Muoiono per questo. Nel culmine della produzione di immagine ci sono massicci disturbi. Ci sono disturbi dell’immagine che fanno diventare immensamente ambigua la vita nelle immagini e la morte per le immagini. Si diffonde una condizione come quella di “morto vivente”, come “vita morta”. Questa impossibilità di decidere se si sia ancora vivi oppure morti aderisce alle immagini, per lo meno dall’istante della loro pura simulazione senza referenza. All’invito a utilizzarle come stazioni intensive dell’esperienza si può accondiscendere solo provvisoriamente. Un’oscillazione a lungo andare è difficile da sopportare271

271

D. Kamper, Immagine, in C. Wulf (cur.), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, cit., p.

597.


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Sesto capitolo La dottrina dell’ombra nell’antropologia dei media

1. Per una fenomenologia dell’ombra Secondo Belting la fenomenicità del corpo naturale ha sempre stimolato, tramite la propria espansione nello spazio, il problema dell’ambivalenza del raddoppiamento corporeo, di cui l’ombra rappresenta l’esemplare insuperato. L’ombra può essere cioè considerata come ‘estensione’ del corpo che proietta, raddoppiandola, l’immagine del corpo – la quale, occorre ricordarlo, è compresa già nella sua auto-rappresentazione. L’ombra indica la presenza inequivocabile di un corpo e, in questo senso, ne dà l’immagine: «ombra e immagine, nella comune e al contempo così varia mimesi del corpo, hanno un rapporto di segreta analogia»272. È Belting stesso a mettere in relazione dialettica l’immagine di un infante che si abbandona al proprio carico corporeo a partire dalla proiezione della propria ombra e l’immagine dell’astronauta che ne è invece libero: immanenza e trascendenza, esperienze costitutive dell’immagine, trovano nell’ombra una feconda rimodulazione. Secondo Belting l’ombra possiede in sé un riferimento corporeo paradossale, poiché essa è legata al corpo tanto quanto ne è slegata. È parte del corpo ma, allo stesso tempo, ne è indipendente. In questo senso l’ombra è un ‘indice’ della realtà, ossia una ‘traccia’ del corpo e, allo stesso tempo, una modalità di ‘apparizione’: la legittima figura della ‘presenza di un’assenza’. L’ombra, se considerata come Bild, porta in sé l’assenza che è costitutiva di tutte le immagini: è in grado di disegnare gli oggetti, definendone la forma, restituendola; ma essa è allo stesso tempo una presenza incorporea, che sorge solo nel nostro specifico ‘sguardo figurativo’ in cui stabilisce la sua durata: è veramente una ‘presenza incorporea’. Come tale essa è abitata da un movimento paradossale: rende l’immagine ma è immagine allo stesso tempo. Inversamente, ciò significa che «l’immagine è come un’ombra e quindi è diversa rispetto a un corpo. Si distingue dal corpo così come dall’ombra di un corpo, ma, contemporaneamente, assomiglia a un corpo tanto quanto un’ombra»273.

272

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 227.

273

Ivi, p. 233.


92

La relazione che sussiste tra immagine – corpo – ombra dovrebbe essere fonte di questioni vitali per quanto riguarda la ricerca sulle immagini. Se analizzata adeguatamente, infatti, l’ombra rinvia ad un paradigma originario tanto quanto il ‘doppio’. Invece, Belting riscontra come l’ombra non possieda un proprio statuto specifico all’interno della storia dell’arte se non in quanto skiagraphia, ossia come pratica figurativa storica, specifica prassi artistica. La silhouette, intesa come figura del raddoppiamento corporeo, manca cioè di uno specifico concetto storico: «nell’antica letteratura il riferimento funebre alla silhouette non trova alcuna testimonianza, e infatti non era pensabile l’idea di uno sguardo che prendesse in considerazione l’ombra senza il corpo»274. Se presa come tale, però, l’ombra rimanda essenzialmente al primo atto di picture-making, ossia alla proiezione di un corpo. È su questa linea che, come abbiamo visto, si sono innestate le tecnologie dell’immagine nella cultura occidentale, da considerare come ‘dispositivi di visualizzazione’ che proseguono, rimodulandolo, il tentativo di cattura di un corpo animato attraverso il mezzo della proiezione (il cinema) o della riflessione (gli «specchi elettronici», ossia i sistemi di acquisizione digitale). Al contrario, Belting non manca di notare come, prima della rottura operata dalla skiagraphia all’altezza della generazione di Socrate, la pratica figurativa dei greci esibisca un rapporto «paradossale» con la tecnica dell’ombreggiatura275. Quando essa viene infine riferita all’arte mimetica, attira su di sé le ire di Platone in virtù del rovesciamento ontologico, da lui operato, che pone gli eidola (le immagini speculari della vita) gerarchicamente superiori alle skia (le ombre della simulazione pittorica). In questo senso, Belting nota correttamente che, a partire da Platone, il ruolo della proiezione dell’ombra perde progressivamente di significato in virtù di altri sistemi di rappresentazione (favoriti, ad esempio, dalla metafora mimetica speculare tratta dalla figura metafisica del sole)276. Eppure, secondo Belting, «non appena i Greci considerarono l’ombra da sola, si ritrovarono soggiogati da una metafora che metteva in gioco i morti»277. È il caso dei poemi omerici, i quali mettono in scena un mondo di defunti come ombre o immagini 274

Ivi, p. 217.

275

Cfr. ivi, p. 218.

276

Su questo punto si veda V. Stoichita, A Short History of the Shadow, Reaktion Books, London, 1997

(1999); ed. it. Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, il Saggiatore, Milano (2000), pp. 22-9. 277

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 217.


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materiali, che ricordavano i loro corpi perduti. Ma è anche il caso di Dante – il quale viene considerato da Belting come un vero e proprio ‘pittore di ombre’ –, e dell’arte di Giotto e Masaccio, che riformulano la questione dell’immagine a partire dalla presa in carico, consapevole, della tecnica dell’ombreggiatura come strategia ontologico-mimetica. Insomma, compito di Belting è quello di recuperare l’originaria natura della skia all’interno della Bildfrage, mostrando come ad essa spetti legittimamente un posto all’interno della teoria figurativa. L’ombra esiste da quando esiste l’arte, e da strumento concepito per costruire (o visualizzare) essa è diventata uno specifico tema dell’arte, portatore di valori: L’ombra intesa come immagine naturale del corpo ha sempre stimolato e attivato la produzione figurativa dell’uomo. Essa rappresenta tanto la garanzia quanto la rapina del corpo, tanto l’indice quanto la manifestazione fugace e variabile, la negazione del corpo al quale sottrae i contorni e la sostanza278

2. L’estraneità dell’immagine Belting non è il solo a ripercorre i motivi dell’ombra all’interno delle arti letterarie e visive per far vedere come essa costituisca uno specifico topos della questione figurativa. Su questo tema bisogna registrare la convergenza di più studiosi. È il caso di Gombrich, secondo cui «non esistono tracce di modellato o di ombreggiature né nell’arte egiziana né nella pittura vascolare greca dell’inizio del V sec. ma da quando venne inventata questa tecnica l’arte occidentale la tenne sempre presente, anche se in misura variabile – diversa fu la fortuna dell’ombra portata che sembrò andare e venire»279. Sottolineando la necessità di dover separare, all’interno della tradizione figurativa, la resa del modellato e l’ombra portata (la prima diffusa universalmente nell’arte occidentale, mentre la seconda solo con “fortune alterne”) Gombrich anticipa un problema che affronteremo nel corso del capitolo, e che rimanda all’origine del picture-making. Ma è anche il caso di Victor Stoichita, che al motivo dell’ombra ha dedicato un’importante volume di taglio 278 279

Ivi, p. 233. E. H. Gombrich, Shadows. The Depiction of Cast Shadows in Western Art, National Gallery

Publications, London (1995); ed. it. Ombre. La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale, Einaudi, Torino (1996), p. 16


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essenzialmente storico. Secondo Stoichita, che articola una narrazione dell’ombra come ‘figura’ che attraversa per intero la questione dell’arte, «la storia dell’ombra non è la storia del nulla. È una delle vie attraverso le quali accedere dalla porta, indicata dagli stessi miti delle origini, alla storia della rappresentazione occidentale»280. Anche Stoichita riparte da Pinio e da Ovidio, lì dove l’ombra viene ancora considerata come una matrice di immagini. Si darebbe a vedere, in questi miti, una nascita ‘in negativo’ della rappresentazione occidentale, che fa la propria comparsa sotto il segno della dialettica tra presenza e assenza – proprio come vuole Belting: «la pittura fa la propria comparsa sotto il segno di un’assenza/presenza (assenza del corpo/presenza della sua proiezione. La dialettica di questo rapporto è un tema ricorrente nella storia dell’arte»281. Secondo Stoichita il racconto di Plinio altro non è che una fabula che riprende in forma problematica il mito egizio sull’origine della scultura, secondo il quale quest’ultima compare per prendere il posto sia di un dio che di un morto: in quanto sostituto della persona, la statua era necessariamente vista come animata. Il culto funerario egizio sviluppa cioè un dualismo del concetto del ‘corpo defunto’ dove l’anima di quest’ultimo si caratterizza come un doppio: «mentre l’uomo vive, egli si esteriorizza nella sua ombra nera. Quando quest’ultimo svanisce nell’attimo stesso della morte, la sua funzione di doppio è ripresa dal ka [l’anima-ombra egizia], dalla statua e dalla mummia»282. Così, la leggenda corinzia sull’origine della pittura non si riferirebbe tanto alla nascita della rappresentazione pittorica in quanto tale, quanto piuttosto alla nascita del picture-making - in cui il riferimento alla morte, al doppio, e al corpo del defunto sono centrali. Secondo Stoichita, il gesto di contornare con una linea l’ombra di un essere umano fa infatti riferimento ad un tipo di proiezione legata ad una relazione erotica interrotta, un’esperienza dell’assenza costitutiva dell’immagine che nel racconto pliniano si articola in due fasi complementari. L’ombra tracciata dalla giovane di Corinto fa in primo luogo riferimento ad un ‘simulacro’ costituito dalla rappresentazione dell’ombra stessa sulla parete: tale immagine viene inscritta su un supporto mnemonico, ossia viene tracciata sulla parete attraverso un dispositivo di verticalizzazione in cui sono la rassomiglianza (similitudo) e il contatto ad avere un ruolo fondamentale. In questa prima fase, l’ombra 280

V. Stoichita, Breve storia dell’ombra, cit., p. 11.

281

Ivi, p. 9.

282

Ivi, p. 21.


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opera sulla superficie una riduzione di volume, che in quanto atto di trasposizione e riduzione è affidato alla Natura. C’è qui all’opera, secondo Stoichita, una «metafisica primitiva concernente l’ombra (soprattutto l’ombra distesa, a diretto contatto con la terra)»283 di cui Plinio era al corrente e che rinvia al fatto che l’ombra, come atto di proiezione, è essenzialmente legata all’Altro, al desiderio, alla perdita. È proprio ciò che viene confermato dal fatto che l’intervento del padre, il vasaio Butades, conferisce un «sovrappiù di realtà» all’immagine. Si tratta di un approccio simbolico che sfocia nella produzione di un artefatto figurativo: «il padre dà consistenza allo spettro: mette dell’argilla dove non c’era altro se non il contorno di un’ombra, dà rilievo a questa forma (typum fecit)» secondo un famoso topos poetico già individuato da Cicerone, e in cui vien detto che «il corpo è come un vaso o come un ricettacolo dell’anima»284. Ciò che interessa, qui, è che ad essere celato, nel brano di Plinio, è l’evento della morte dell’amato: esso unicamente conferisce senso alla storia, che non a caso finisce con il trasferimento del ‘simulacro’ di argilla nel tempio di Corinto. Le due fasi del picturemaking, allora, fanno essenzialmente riferimento al corpo del giovane: questi porta con sé la sua ombra nel viaggio, la lascia come mnema nell’ombra (ossia come un segno mnemnonico, ‘ricordo’ del suo viso ed ‘esorcizzazione’ dei pericoli cui sarà esposto nel viaggio) e, infine, quest’ultima viene nuovamente raddoppiata come stele (o sema) nell’artefatto “monumentale” eretto nel tempio (similitudo ex argilla). Come dice Stoichita «bisognerà pertanto vedere nel doppio messo insieme da Butades sulla base dell’ombra un colossos nell’accezione originaria del termine (…) qualcosa di eretto, di innalzato, di duraturo e di animato, mentre la sagoma disegnata da sua figlia altro non era se non un eidolon, un’immagine priva di sostanza, un doppio impalpabile e immateriale di colui che partiva»285. Interpretata in quest’ottica, la narrazione sulle origini del picture-making fa essenzialmente riferimento al corpo del defunto, cioè all’estraneità della sua immagine. La stessa che si presenta, intensificata, nel mito di Narciso. Scrive infatti Belting che 283

Ivi, p. 18.

284

Ivi, p. 19 (da cui provengono anche le citazioni immediatamente precedenti).

285

Ivi, p. 21. La conclusione di Stoichita, dunque, è che la «fabula di Plinio è una leggenda sulle origini

nella misura in cui offre un prolungamento e un’alternativa alla metafisica egizia dell’immagine sostitutiva grazie alla trasformazione in racconto di una storia essenzialmente greco-arcaica, che l’autore della Naturalis Historia non era più in grado di comprendere nella sua interezza giacché si trattava dell’incorporazione nel colossos dell’eidolon»; cfr. ivi, p. 22.


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anche «Ovidio descrive l’estraneità dell’immagine nel mito di Narciso. L’altro per il quale Narciso si conserva – per usare una formula di Lacan che, tuttavia, è già una formula di Ovidio – esiste soltanto nel doppio incorporeo dell’autoproiezione». Rapito dal riflesso della propria immagine, Narciso «“ama una speranza incorporea (spem sine corpore) e scambia per un corpo ciò che è invece acqua”»: è la tentazione insita in ogni forma di ‘raddoppiamento corporeo’ attraverso cui all’uomo è data la possibilità di contemplare l’altro da sé stesso. Ovidio si rivolge allora a Narciso: «“ciò che vedi è solo l’ombra di un’immagine (imaginis umbra) / non ha nulla di suo, insieme a te resta o sparisce”»286. Qui, il rapporto tra immagine-mezzo-corpo non potrebbe essere più visibile. Nell’incisione realizzata da Antonio Tempesta nel 1606, Narciso viene rappresentato come un giovane che, chino su una fonte, proietta la propria ombra: essa si interrompe esattamente nel punto in cui dovrebbe trasformarsi in immagine (nel momento cioè in cui l’Altro da sé sembra catturato). Le due narrazioni, quella pliniana e quella di Ovidio, secondo Stoichita possono convergere se interpretate attraverso Lacan, il quale teorizza uno stadio dello specchio (relativo all’identificazione dell’Io) e uno stadio dell’ombra (relativo all’identificazione dell’Altro) che sembrano andare proprio in questa direzione: «ciò sapendo, si può capire perché Narciso si sia innamorato della propria immagine e allo specchio e non della propria ombra. E si capisce altresì perché in Plinio l’oggetto della proiezione amorosa della fanciulla sia l’ombra dell’altro (dell’amante)»287. Essenziale, nel caso di Ovidio, è che Narciso non si sia innamorato della propria ombra, ma che questa invece «viene a chiudere un vero e proprio elenco di termini designanti l’immagine incerta, e precede di poco “il nulla” (nil) per esprimere proprio ciò che, nella visione in fondo all’acqua c’è di poco chiaro, di oscuro, di irreale»288. La confusione tra ombra e riflesso sfocia infine in un dramma, in cui il protagonista realizza lo “stadio dello specchio”: «l’immagine (imago) non lo inganna più, essa non è più un’ombra, non è più l’altro bensì lui stesso: “questo son io” (iste ego sum)»289. Ciò che è importante è che entrambe le leggende rimandano ad un’esperienza del raddoppiamento corporeo in cui l’accento viene posto sull’alterità: l’ombra libera 286

Cfr. H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 236 (da cui provengono anche le citazioni

precedenti). Il mito di Narciso è narrato in Ovidio, Metamorfosi, III. 287

V. Stoichita, Breve storia dell’ombra, cit., p. 31.

288

Ivi, p. 32.

289

Ivi, p. 34.


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l’apparenza dei corpi allo sguardo e, così facendo, libera l’estraneità dell’immagine. Se l’ombra fa legittimamente parte della questione figurativa è perché essa, proprio a partire dalla propria fenomenicità paradossale, apre quello spazio dove i confini tra ‘realtà’ e ‘apparenza’, tra corpo e immagine, si sbiadiscono, e dove lo scambio non è che «confusione» tra la percezione dell’altro e quella dell’io, «tentazione al di qua della morte»290. Una tentazione, questa, che nella prospettiva di Belting richiama la tendenza dell’uomo a rovesciar-si nei doppi speculari di sé stesso, alienandosi dal proprio corpo, così come a risolvere sé stessi e il mondo in immagine – aspetto, quest’ultimo, richiamato dalla critica heideggeriana. Ma l’estraneità dell’immagine cui il paradigma dell’ombra rimanda non si limita a questo richiamo, seppur fondamentale, alla figura della morte (esplicita in entrambe le leggende): esso si estende invece fino ad individuare il vero senso dell’immagine-ombra nell’esperienza della virtualità (ossia dei corpi virtuali) che essa rende disponibile.

3. La dottrina ontologica dell’ombra Bisogna quindi ri-articolare il problema della dottrina dell’ombra a partire dalla pratica della skiagraphia, che all’interno di tale dottrina possiede, secondo Belting, «un riscontro quasi sofistico»291. Essa, come si è visto, ‘simulava’ le immagini dei viventi attraverso i fenomeni dell’arte. Già all’altezza della generazione di Socrate – che rompeva definitivamente con il tabù dell’ombreggiatura – la pratica della skiagraphia era dunque uno specifico motivo dell’arte. Era già, quindi, una pratica figurativa, la quale aveva però dietro di sé una lunga serie di conflitti legati alla rappresentazione e al corpo del defunto. La scommessa di Belting consiste quindi nel ripercorrere l’originario motivo antropologico della dottrina dell’ombra che, nella sua forma ontologica, trattava innanzitutto dei corpi-ombra dei defunti. La dimensione ‘ontologica’ dell’ombra che Belting intende ripristinare all’interno della Bildfrage riguarda anche qui il fatto che la mimesi va essenzialmente messa in riferimento al corpo del defunto. L’ombra, cioè, ottiene una «dimensione ontologica» solamente nel riferimento, costitutivo, all’esperienza mediale della morte292. Come si è visto, il senso 290

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 236.

291

Ivi, p. 234.

292

Cfr. ivi, p. 228.


98

proprio di ogni immagine sta nel fatto che essa mostra in sé l’essere perduto e sostanziale per il quale non c’è più alcun luogo nel mondo, così che l’immagine del defunto assurge a ‘modello’ di ogni immagine. Sviluppare una dottrina dell’ombra, in questo senso, significa allora recuperare il senso ontologico dell’immagine del defunto – proprio come, secondo Belting, sembra fare Dante nella sua Commedia. Egli «incontra nell’oltretomba le immagini dei defunti di cui si racconta nel suo libro. Vi sono ombre vive, per così dire, che egli anima e con le quali può intrattenersi in conversazione»293. Queste immagini, secondo Belting, richiamano esplicitamente le immagini virtuali che oggi ci circondano, se è vero che oggi «noi percepiamo le ombre di Dante nell’aldiqua»294. Prima di prendere in considerazione il posto che Belting riconosce al poeta fiorentino, quale specifico pittore di ombre, all’interno della sua teoria figurativa, bisogna insistere sul rapporto tra ‘ombra’, ‘immagine’ e ‘morte’. Il problema, qui, riguarda la possibilità di intendere la figura dell’ombra come immagine della morte, ossia come immagine del defunto, mostrando come tale analogia sia costitutiva dell’esperienza figurativa occidentale. In particolare si tratta di capire come, a partire dalla cultura arcaica greca, venga elaborato il concetto di immagine virtuale, che da Omero arriva fino ad oggi. Come ricorda Kas Saghafi nel suo saggio ‘The Ghost of Jacques Derrida’ what we in English refer to as a “ghost” is one rendering or translations of a number of related archaic and Attik Greek terms such as eidolon, phantasma, and psyche found in texts from Homer onward. These terms, whether referring to the shades of the dead or the exact duplicate of a Homeric hero fashioned by a god, designate a category of doubles hovering between life and death, the real and the unreal295

Ciò che viene suggerito da questi termini ‘interni’ alla cultura arcaica greca è precisamente una sfera dell’apparenza in cui il visibile – ciò che appare – non è altro che un spettro, un’apparenza fantasmatica che intrattiene un particolare rapporto con il reale. Quest’ultimo non va inteso solamente nel senso di révenant, ma va invece considerato coma una ‘forma’ di apparenza la cui sembianza risulta ‘sfocata’, ‘offuscata’. Spesso questi termini si trovano associati ai sogni (oneiros), alle ombre (skia) o ai riflessi nell’acqua e nello specchio: si tratta di immagini il cui grado ontologico è 293

Ibid.

294

Ivi, p. 252.

295

K. Saghafi, The Ghost of Jacques Derrida, in Epoché, Vol. 10, Issue 2 (Spring 2006), p. 265.


99

costitutivamente ambiguo. Come sottolinea Saghafi facendo riferimento alla riflessione di Jacques Derrida: «what is worth of serious study is show how these terms, which are not exact equivalents, have been translated in the philosophical languages of the West – as figura, forma, simulacrum, effigy, and imago, hence “image”»296. È per questo che Belting analizza la questione del doppio nella cultura funeraria greca, ripercorrendo la genesi del concetto ‘classico’ di immagine come a suo tempo aveva fatto lo storico dell’arte Jean-Pierre Vernant. Come vedremo, infatti, lo scarto della cultura figurativa greca consiste nell’essersi fondata su una «riserva metafisica»297, in base alla quale le immagini non vengono più considerate come incarnazioni (embodyment) della vita divenendo, invece, metafora della morte. Lo studioso parte dal cambiamento strutturale apportato, nel caso del culto dei defunti, dalla società greca arcaica. È un cambiamento prima di tutto topologico, riscontrabile nel diverso spazio fisico che viene ora assegnato al defunto. Se nel Neolitico era comune seppellire i propri morti «sotto la propria casa, al fine di tenerli accanto a sé», anche lo spazio della necropoli, da cui si sviluppa quello del cimitero, rimane comunque legato al territorio della comunità. Come scrive lo studioso «in casa dei vivi o nella dislocazione della necropoli, i morti rimangono sempre sotto la tutela della comunità che cerca con loro uno scambio in termini di protezione»298. Nel caso dei greci si trattò, però, di superare la presenza immediata del defunto (cui il culto Neolitico rimanda), con la sua presenza ricordata attraverso l’immagine della tomba. La ricerca di un luogo, vero enigma del defunto e dell’immagine, riguarda qui il fatto che entrambi non si danno più in una presenza immediata di sguardi ma, grazie all’assenza mediata della tomba, nell’immaginazione e nel ricordo dell’osservatore. In questo senso, la tomba non è altro che «l’immagine di un luogo stabile. La sua presenza, intesa come luogo, veniva più immaginata che percepita»299. È uno scarto che coinvolge allo stesso tempo la storia dell’esperienza figurativa: secondo Belting il carattere di immediatezza dell’immagine vivente ‘originaria’ – lo scambio simbolico di sguardi nella presenza effettiva – viene sostituito in favore del ricordo, che è legato al fatto che la percezione dell’immagine (intesa non a caso come ‘luogo’), viene interiorizzata, «più immaginata che percepita». 296

Ibid.

297

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 207.

298

Ivi, p. 188.

299

Ivi, p. 189.


100

Se la tomba diviene l’immagine del luogo, la presenza dell’immagine non può più basarsi su un’interazione diretta, vivifica, tra corpi, ma deve passare attraverso l’intermediazione di quelli che sono veri e propri segni300. Bisogna sottolineare, qui, la differenza in un certo senso ‘epocale’ che separa l’immagine dalla vita: come ‘metafora della morte’, essa stessa ‘muore’ nel momento in cui viene creata quella distanza tra l’osservatore e l’immagine fisica che strutturerà, per Belting, tutta l’esperienza figurativa. Come sottolinea Wood «Images undergo a radical change: no longer able to present, they now are constrained to the task of representing; no longer capable to act as “bodies of exchange” between life and death, their function changes “from the making present of the invisible to the imitation of appearance”»301. E lì dove cambia il concetto di luogo, ecco che diventa legittimo sospettare anche un cambiamento del concetto di immagine: «l’immagine agevolava chi andava cercando la tomba. Attraverso l’immagine il defunto esortava i viventi a dargli un luogo nel loro ricordo, laddove il concetto di luogo si era già completamente sublimato»302. È questa ‘sublimazione’ del concetto di luogo, ossia del concetto di immagine, che viene riflessa dalla cultura funeraria greca: scrive infatti lo studioso che «nulla potrebbe testimoniare che la tomba sia l’immagine di un luogo tanto chiaramente quanto la sepoltura simbolica che i Greci mettevano in atto attraverso il cenotafio quando la salma non era più reperibile»303.

4. Il problema dell’eidolon Belting fa qui riferimento alle ricerche di Vernant, che si era interrogato sul «volto anonimo della cultura funeraria greca» e che aveva trovato le risposte in quei testi che «riferiscono di immagini che prestavano un corpo accessorio ai defunti che per mezzo di esse si incarnavano»304. Vernant fa riferimento a quelle statue di kouroi, come le sculture 300

Come ricorda anche Debray «Segno viene da sema, pietra tombale. Sema cheein, in Omero, significa

erigere sepolcro. Il segno con cui si riconosce una sepolutra precede e fonda il segno di somiglianza. La morte come semaforo originale sembra ben lontana dalla nostra moderna semiologia e semantica»; cfr. R. Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., pp. 23-4. 301

J. Miller, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting, in

Anthropological Quarterly, vol. 85, no. 2, 2012, pp. 628-9. 302

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 189.

303

Ibid.

304

Ivi, p. 204.


101

di Cleobi e Bitone conservate a Delfi, attraverso cui i corpi dei defunti venivano idealizzati dando loro, nella dimensione pubblica della città, una immortalità terrena (la morte bella). A tal proposito, Vernant parla di un double, un doppio, «che egli distingue dall’immagine in senso stretto»305. Secondo lo studio francese, in particolare, la statuaria funebre greca evidenzierebbe, nella sua storia, un passaggio dall’idolo all’immagine che viene letto come una transizione dal non iconico (il kolossos) all’iconico (il kouros): dall’«eidolon doppio fantomatico, presenza terrestre di una realtà soprannaturale, si è passati all’eidolon artificio imitativo, falsa apparenza nel senso inteso da Platone»306. Approfondendo tali ricerche (di cui mette in evidenza il ‘platonismo’ latente) Belting giunge invece ad individuare un più articolato dualismo del corpo sviluppato in seno alla cultura greca. Il double, secondo lo studioso tedesco, è un concetto antropologicamente ampio, tant’è che «considerando qui l’immagine come corpo simbolico andiamo oltre la cultura figurativa storica, per cui non è certo che il discorso possa riguardare in primis le immagini»307. Secondo Belting la vera cifra distintiva della cultura greca arcaica sta nell’aver sviluppato un dualismo del corpo che supera, e allo stesso tempo approfondisce, la svolta mimetica greca incarnata dal double. Essa non consiste in un passaggio da una fase non-iconica ad una fase iconica: piuttosto, da essa prende avvio la possibilità di considerare l’immagine-ombra come metafora della morte. La chiave alla risoluzione del problema è il concetto di eidolon, che Vernant stesso riconosce essere «una cosa morta da riempire con la vita»308, e che secondo Belting va messo in opposizione al concetto di kolossos, il quale indicava soltanto un semplice artefatto, un doppio. Al contrario, avvicinando quest’ultimo all’eidolon e alla psyche, e mettendoli successivamente in opposizione ad un mutato senso di ‘eidolon’, Vernant prende per «oro colato la definizione platonica di immagine», abbracciando così «un concetto figurativo troppo limitato»309. 305

Ibid.

306

J-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, cit., p. 12.

307

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit, p. 204.

308

Ibid.

309

Ibid. Ecco infatti cosa scrive Vernant: «Kolossos e psyche traducono in due modi complementari il

nuovo statuto sociale del morto, la sua esistenza in un aldilà che si manifesta all’universo umano sotto la modalità dell’assenza. Per quanto riguarda la psyche, l’evidenza dell’apparire, nell’esattezza dei dettagli più concreti, e la totale somiglianza con la figura del vivente sono una sorta di rivestimento di un vuoto, il velo illusorio gettato su un non-essere: la psyche non è il corpo che si vede in essa, ma la sua immagine


102

Belting considera fondamentale la distinzione tra eidolon e kolossos in direzione non di un passaggio da una forma di ‘espressione simbolica’ del divino all’immagine propriamente detta, ma in vista del futuro sviluppo del concetto di immagine. Secondo lo studioso tedesco «l’eidolon rappresenta dunque sia un corpo figurativo in attesa di un’anima sia un’anima in cerca di un corpo figurativo. Si potrebbe quindi affermare che si tratta solo di un corpo fenomenico»310. È questo avvicinamento del concetto storico di eidolon al concetto di corpo fenomenico ad essere centrale nella ri-lettura beltingiana di Vernant. Il double può essere sì inteso come eidolon e come kolossos, ma i due concetti figurativi non vanno riferiti, temporalmente, ad una fase aniconica (o simbolica) precedente un compiuto stadio mimetico. Secondo Vernant, affinché l’idolo divenga immagine, c’è bisogno che esso introduca «nel mondo visibile la presenza dell’invisibile divino, si proponga, grazie all’imitazione esperta delle forme esteriori del corpo, di riprodurne l’apparenza di fronte agli occhi degli spettatori. Cambiamento decisivo, che trova la sua espressione nella teoria platonica della mimesis»311. Al contrario, l’avvicinamento del concetto storico di eidolon a quello di corpo fenomenico porta Belting a vedere in Omero il «paradigma dell’immagine e della morte»312. Centrale, nella poesia di Omero, è la sepoltura degli dei in virtù del quale il lutto (pothos) viene trasformato in gloria (kleos), secondo una strategia in cui il defunto diviene modello idealizzato, e in cui il suo corpo rimane come immagine nel ricordo. È per questo che Omero, con eidolon, intende comunemente «l’anima del defunto che, separandosi dal corpo perduto, rimaneva come una figura. Si era staccata dal corpo come un’ombra per portare nell’Ade una vita autonoma»313. Sono i poemi omerici a fondare il paradigma dell’immagine-ombra: l’eidolon indica il ricordo di un corpo assente con il quale rimane in dubbio il grado di somiglianza. Sono presenti qui tutte le caratteristiche fantasmatica, il suo doppio, è un eidolon al pari del sogno, della chimera, dell’illusione e del phasma. Per quanto riguarda il kolossos, la sua materialità è esattamente il contrario dell’ombra inconsistente, del sogno alato, della chimera inafferrabile; ma l’essere che il kolossos evoca come un sostituto che viene dato nella forma della pietra […] è come l’assenza di ciò che è fuggito lontano, volato altrove alla maniera di un sogno, di un’apparizione, di una psyche morta: un eidolon, un doppio»; cfr. J.-P.Vernant, Figure, idoli, maschere, cit., pp. 27-8. 310

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 205.

311

J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, cit., p. 11.

312

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 220.

313

Ivi, p. 205.


103

che Belting riconosce alla svolta metafisica della figuratività greca: l’immagine mnemonica smaterializzata, il corpo assente del defunto, la vaghezza della rappresentazione intesa come ‘traccia’ e ‘apparizione’. A partire da Omero, l’immagineeidolon indica allora l’anima del defunto che “rimane indietro” come una figura: un’ombra. La controprova, secondo Belting, è costituita proprio dal fatto che Platone, in virtù del suo rovesciamento ontologico, definisce eidola i cadaveri. Idealizzati attraverso le strategie monumentali delle statue, delle stele e degli epitaffi, ai defunti viene sottratto lo specifico ‘privilegio’ figurativo che dovrebbe incarnare il loro status: l’ombra o l’immagine non indicano più il doppio di una persona vivente, ma il sostituto del defunto. La vita, nel caso della cultura greca, venne protetta, e allo stesso tempo separata, dalla materializzazione della morte, con cui venne invece identificata l’immagine: essa non fu più in grado di colmare alcuna lacuna, poiché «assomiglia troppo alla morte per poterla ancora trasformare e poter incarnare la vita di una persona»314. In questo senso, la frattura avvenuta in seno alla cultura greca riguarda una frattura del reale: il mondo empirico – nel quale un’ombra senza corpo può essere intesa solamente come fissazione di un’ombra nella silhouette – venne separato dal mondo degli inferi, lì dove non si proietta più nessuna ombra ma si è ombra. Da questo momento le immagini della morte, ossia le immagini del defunto, diventano un tema dell’arte, ossia della fantasia artistica e dell’immaginazione poetica.

5. Lo statuto dell’immagine-ombra nella commedia dantesca Secondo Belting «l’antichità ha sviluppato tra Omero e Virgilio una dottrina dell’ombra che nella prassi artistica della skiagraphia trova un riscontro per così dire sofistico»315. Si è visto come la dottrina dell’ombra, nella sua forma ontologica, trattasse dei corpiombra dei defunti mentre, al contrario, il riscontro sofistico della skiagraphia consisteva nel fatto che quest’ultima simulava soltanto le immagini dei viventi, ricorrendo così ai fenomeni dell’arte. Come tecnica figurativa, la skiagraphia consisteva nel tratteggiare un’ombreggiatura che rendeva vivente l’immagine, ossia simile al corpo. Al contrario, per come viene sviluppata a partire da Omero e Virgilio, l’ombra sembra essere costitutivamente legata alla rappresentazione del defunto, ossia alle immagini della morte. 314

Ivi, p. 207.

315

Ivi, p. 234.


104

Essa non è nemmeno una proiezione, ma una vera e propria anima, su cui esercitare il ricordo. È in questo senso che la dottrina dell’ombra viene sviluppata da Dante nella sua Divina Commedia e approfondita dai pittori della sua generazione (Giotto) e di quella successiva (Masaccio), che recupereranno la pratica dell’ombreggiatura in un senso ‘ontologico’. Lo studioso si chiede, dunque, se Dante non possa essere considerato un pittore di ombre, e se tale pittura non possa essere messa in relazione a quella, reale, praticata dagli artisti del suo tempo. La commedia dantesca prosegue a tal punto la dottrina dell’ombra che, secondo lo studioso tedesco, è possibile ritrovarvi una particolare rimodulazione del concetto cristiano di virtualità. Le anime che incontra Dante, infatti, sono più che ombre, ma vere e proprie animazioni. Egli incontra immagini animate con cui si intrattiene in un commercio che ricorda molto quello intrattenuto, oggi, tra corpi reali e corpi virtuali. Così facendo, però, Dante entra immediatamente in contraddizione con la dottrina cristiana: il poeta, infatti, interpreta la creazione dei «corpi umbratili» in modo divino, ma per l’ombra non c’è più spazio nell’universo teologico: «in verità si tratta soltanto di una figura poetica che Dante prende in prestito da Virgilio»316. Ad essere in gioco, allora, è innanzitutto il problema dello statuto dell’immagine-ombra, che porta Dante a rimanere “invischiato” all’interno del conflitto teologico: già l’introduzione al poema dantesco fa riferimento a due concetti estremamente legati alla rappresentazione dei defunti, ossia l’ombra degli antichi e l’anima della cultura cristiana. Nonostante egli troverà «limitato sostegno»317 al suo progetto di intendere l’anima come la forma di un’ombra corporea, Belting rileva come egli possa essere considerato a pieno titolo come un pittore di corpi virtuali. Riprendendo le considerazioni svolte da Margareth Wetheim nella sua history of space, Belting interpreta lo ‘spazio delle ombre’ della commedia dantesca come uno spazio virtuale – poiché esiste solamente nella finzione delle immagini mentali del poeta, sotto forma di animazioni corporee318. La strategia di Dante, secondo Belting, consiste nel definire l’immagine ora in analogia con l’ombra, ora in contrasto con il corpo, seguendo cioè la biforcazione dell’originario riferimento corporeo dell’ombra. L’effetto virtuale delle immagini dantesche è allora garantito da due elementi: il primo riguarda il fatto che 316

Ivi, p. 239.

317

Ivi, p. 231.

318

Cfr. M. Wertheim, The pearly gates of cyberspace. A history of space from Dante to the internet, W. W.

Norton, New York (1999).


105

il poeta non intende l’ombra in continuità con il corpo naturale. Seguendo l’interpretazione di S. Tommaso – secondo cui la ‘persona’ è qualcuno che vive ancora nel proprio corpo, lasciando dietro di sé l’anima come un’ombra – Dante non intende il corpo in senso biologico, ma come un «corpo fenomenico naturale, e, in quanto tale, incarnazione della persona»: è per questo che il poeta, durante il viaggio, «appartiene alla sua persona»319 e non si confonde con coloro che, invece, sono ombre, cioè immagini. Dante mostra così, con sorprendente spirito antropologico, la differenza tra corpo e immagine: l’ombra non produce di sé alcuna immagine perché è già «immagine di un corpo dal quale essa è distante nello spazio e nel tempo. Considerando il proprio corpo come un “altro” che viene accolto nel regno delle ombre soltanto in qualità di viaggiatore proveniente dal mondo dei viventi, Dante dimostra la differenza irriducibile tra corpo e immagine»320. Ciò porta al secondo elemento che garantisce l’effetto di virtualità delle immagini dantesche: l’incontro con i defunti di cui parla Dante (ma anche Omero) avviene in base a una particolare modalità di ‘tocco’, «l’infruttuoso abbraccio e la delusione di fronte al confondersi del corpo con l’immagine»321, e che riconduce nuovamente all’estraneità dell’immagine, ossia al mito di Ovidio. Come nota Belting, questo ‘toccare’ – questa facoltà che riporta il picture-making all’esperienza di perdita dell’altro e al desiderio – è parimenti presente in Ulisse, in Enea ed in Dante stesso e, in seguito, verrà denominata effetto thanatos della fotografia, risultando massimamente evidente nella tradizione della memorial photography nata negli Stati Uniti nel XIX sec.322

319

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 233.

320

Ivi, p. 238.

321

Ivi, p. 235.

322

Cfr. ivi, p. 224. Per quanto riguarda l’effetto thanatos e il toccare si veda anche ivi, pp. 234-5. Facendo

riferimento alla Nota sulla fotografia di Barthes, Stiegler scrive: «Barthes chiama spectrum l’immagineoggetto impressa sulla carta foto-sensibile come è stato. Questo spettro è prodotto dal tatto – ma un tipo di tatto molto singolare […] Una vera materia fotonica ha dovuto trasmettersi replicandosi fino a me e venendomi a toccare. Se questa materialità molto “reale” del processo genera un effetto fantomale, è perché Baudelaire mi tocca mentre io non posso toccarlo […] l’effetto fantomale è in questo caso la sensazione di un’assoluta irreversibilità. Ecco ciò che ha di singolare questo tatto: ciò mi tocca, sono toccato, ma non poso toccare. Non posso essere “toccato-toccante”. Cfr. B. Stiegler, L’immagine discreta, cit., pp. 171-173. Cfr. inoltre J. Derrida, Copy, Archive, Signature. A conversation on Photography, edited by G. Richter, Stanford University Press, Stanford, 2010


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A ben vedere, la teoria del picture-making dantesca può legittimamente essere giustificata all’interno della teoria figurativa solamente grazie alle coordinate antropologiche. La sua skiagraphia si trova «soltanto in una teoria che vive nella differenza categoriale tra immagine e corpo. Dante ha fornito il presupposto decisivo, mentre, radicale come i suoi antichi predecessori, ha misurato l’un l’altro il corpo e l’immagine. Ha fatto ciò seguendo una doppia nozione: i corpi non sono mai delle immagini e le immagini non hanno mai un corpo»323. È in questo senso che egli ha potuto approfondire la differenza tra corpo autentico e corpo virtuale ed essere stato legittimamente visto come «poeta del soul-space di un altro mondo»324. Proprio il carattere ‘virtuale’ della pittura dantesca fa emergere un grosso problema in seno alla questione figurativa, poiché nelle sue ‘ombreggiature’ Dante non confonde mai i corpi autentici con i corpi virtuali; in questo senso il problema dell’ombreggiatura, per come verrà assunto successivamente, non potrà non assumere una connotazione ontologica, che verrà presa in carico dalla tradizione figurativa contemporanea (come Giotto) e successiva (come Masaccio). Come ricorda Filippo Baldinucci nel Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1681) con ‘ombra’ si intende «l’oscurità che fanno i corpi opachi, alla parte opposta a quella, che è illuminata». Come tale, l’ombra non è unica, ma triplice: di contatto, di riporto, di proiezione (sbattimento, mezzombra, ombra vera e propria). Applicata al disegno, essa dunque serve per dare «rilievo alla cosa rappresentata»325. Al tempo di Dante e di Giotto, rappresentare l’ombra proiettata significava mettere in atto una finzione corporea che distingueva il grado ontologico dei corpi stessi. Belting nota come quest’ultimo, nella sua costruzione dello spazio corporeo, sia consapevole di tale necessità, che si rende evidente nel modo in cui il pittore si trova a dover distinguere, nelle sue rappresentazioni della storia biblica, i diversi tipi di corpo326. Scrive Belting, a tal proposito, che «nonostante questo contrasto e nonostante la diversità del compito»327, è possibile riscontrare una certa ambivalenza metodologica tra i due artisti (Dante e Giotto), dalla quale scaturisce

323

Ivi, p. 240.

324

Ivi, p. 241.

325

Citazione riportata da E. H. Gombrich in esergo a Ombre, cit.

326

Belting fa qui riferimento all’opera di Giotto Noli me tangere (1306 ca.) realizzata nella Cappella degli

Scrovegni di Padova. 327

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 241.


107

un’analogia fondamentale – ossia il divieto di trasmettere sull’immagine l’indice del corpo autentico: l’ombra di riporto. Su questo problema si sofferma anche Gombrich, che sottolinea più volte come, all’interno della tradizione figurativa, occorra distinguere tra ‘modellato’ ed ‘ombra portata’: il primo diffuso universalmente nell’arte occidentale, mentre la seconda con fortune alterne. Più in generale, Gombrich sottolinea come «alcuni dei maggiori osservatori della natura […] abbiano accuratamente evitato di inserire le ombre nei loro dipinti, come se le considerassero elementi di disturbo e di distrazione all’interno di una composizione altrimenti coerente e armoniosa»328. Leonardo, ad esempio, non sembra mettere in pratica nei propri dipinti quella varietà di ombre che studia, invece, nei suoi scritti. Le ombre che quest’ultimo non dipinse furono invece prese in carico da Masaccio, che, un secolo dopo Giotto, si trovò a dover affrontare lo stesso dilemma, ossia la necessità di dover usare l’ombra come una strategia figurativa ‘ontologica’. Qui occorre registrare una cesura: Masaccio inaugura una nuova era della figurazione che mostra come «l’ontologia dell’immagine, in senso filosofico, era qualcosa di diverso rispetto alla tecnologia e all’arte che ricostruiva nell’immagine prospettica la contingenza del mondo»329. Facendo riferimento alla Cacciata dal Paradiso dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci, lo studioso tedesco nota come, nella sua riedizione della skiagraphia, le ombre vengano usate in senso esplicitamente fittizio, ossia in relazione a una luce e ad un corpo fittizi. Nell’utilizzare la luce reale proveniente dalla finestra della cappella, la quale illumina direttamente le figure della scena narrata, Masaccio trasforma la prima in «una luce fittizia, così, viceversa, il corpo fittizio si trasforma in un corpo autentico che può quindi proiettare la propria ombra. La doppia finzione è necessaria per giustificare questa trasgressione»330. Belting vede in ciò una svolta epocale, perché tale ricorso alla doppia finzione libera un nuovo senso dell’apparenza dell’immagine, con cui tutta la 328

E. H. Gombrich, Ombre, cit., p. 17.

329

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 243.

330

Ivi, pp. 243-4. Occorre registrare la convergenza, su questo punto, anche di Stoichita: «è stupefacente

come il ciclo che inaugura la nuova pittura del Rinascimento, gli affreschi della cappella Brancacci, contenga, a livello tematico, una scena che quanto nessun’altra consente la concretizzazione di una nuova estetica fondata sul rapporto tra corpi, spazio, ombra e luce. Masaccio ha senza dubbio sfruttato al massimo il tema di San Pietro che risana gli infermi, pervenendo a una soluzione che va ad iscriversi nella nuova concezione dell’arte»; cfr. V. Stoichita, Breve storia dell’ombra, cit., p.56.


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futura tradizione figurativa successiva dovrà confrontarsi. Nella pittura di Masaccio, secondo lo studioso, vengono nuovamente meno i ‘limiti’ tra immagine e corpo perché, usando ombre e luci in senso esplicitamente fittizio, l’immagine finisce per “rubare” l’apparenza alla vita. Così d’ora in avanti un’immagine avrebbe dovuto attivare sempre una finzione del corpo anziché possedere il corpo nella rappresentazione consueta […] Ciò che veniva descritto nel suo viaggio nell’aldilà diveniva adesso il discorso di un aldiquà dell’immagine il cui trompe-l’oeil verrà poi preteso sempre sino alle moderne tecnologie dell’immagine. Ciò che in Dante era stata una visione poetica diventava adesso una finzione dipinta, legata tuttavia al privilegio assegnatole dalla nuova interpretazione dell’arte331

6. La Bild come simulacro La discussione beltingiana della dottrina dell’ombra, sulle sue varie articolazioni all’interno della tradizione figurativa occidentale, offre lo spunto per ritornare sul concetto di Bild che viene elaborato da Belting. A partire da una radice analogicomimetica inscritta in ogni atto di picture-making, lo studioso sviluppa un concetto di immagine come doppio, traccia, e, infine, ombra. Il referente legittimo di tale concezione è precisamente il ‘simulacro’, un’apparizione tutta incentrata sul problema del come, sulla ‘concretizzazione’ della sua traccia, che pone la questione del cosa in termini di somiglianza e riconoscimento. Nella figura del simulacro si ritrovano tutte le caratteristiche della Bild: «l’eidolon arcaico indica l’anima del morto che si invola dal cadavere sotto forma di ombra inafferrabile; il suo doppio, la cui natura tenue ma ancora corporea facilita la figurazione plastica. L’immagine è ombra, e ombra è il nome comune del doppio»332. È proprio sul modo di intendere il ‘cosa’ dell’immagine, allora, che bisogna ritornare in conclusione al capitolo, per far emergere le criticità sottese a questo tentativo di elaborare una «teoria generale dei mezzi figurativi» antropologicamente fondata. In particolare, come ha scritto Wood: «Belting’s image is never repressed, condensed, projected, or spectacularized. It simply makes its object appear, with no margin for doubt, as instantly 331

Ivi, p. 247.

332

R. Debray, Vita e morte dell’immagine, cit., p. 23.


109

recognizable as the sinners and poets whose shades Dante met in the underworld and in Purgatory»333.

Accentuando

la

critica

portata

avanti

nei

confronti

della

“depotenziazione”, da parte dell’impostazione di Belting, delle capacità originariamente ‘figurative’ della rappresentazione, Wood mostra come il concetto di immagine elaborato dallo studioso tedesco sembra trovarsi in una relazione di continuità con la tradizione dell’immagine-spettro. L’estensione unilaterale dei paradigmi dell’incarnazione, dell’animazione, dello scambio di sguardi – che secondo Belting non cessano di strutturare, oggi, la nostra esperienza figurativa – finisce così per ripercuotersi sullo stesso concetto di immagine, reprimendo le caratteristiche figurative della rappresentazione stessa. Infatti, si chiede Wood, «what sort of image does Belting claim to have extricated from the art idea? Above all is not an image that raises problems of interpretation for its recipient. His conceptual triad of image-body-medium collapses figural or pictorial representation back into a basic analogical or mimetical relationship»334. È per questo che lo stesso Wood invita ad intendere la Bild di cui parla lo studioso come ‘likeness’, somiglianza, insistendo così sulla riduzione unilaterale delle qualità fenomeniche della rappresentazione. L’immagine, per come la intende Belting, non sembra mai problematizzare il suo cosa senza prima far riferimento al suo come: «his Bild, like the Greek terms eidolon (simulacrum) and eikon (copy) puts its stress on similitude or resemblance. The word reconfigures all of picture making as a set of plays on the psychology of the perception of resemblance»335. È una critica che, in effetti, può essere allineata a quella già evidenziata da Rampley, e che riguarda il fondamentale anacronismo che vizia l’impostazione di Belting: se in un caso si trattava di mettere in luce la ripresa di motivi (come quello dell’origine cultuale dell’immagine) già esplorati dalla critica culturale tra XIX e XX sec, qui si tratta di sottolineare la riduzione della questione figurativa al problema del riconoscimento. La rappresentazione non può essere inquadrata unicamente in base ad un modello analogicomimetico, perché così facendo si perde di vista il suo lato ‘figurativo’: proprio la storia dell’arte dovrebbe mostrare come, spesso e volentieri, non siamo nemmeno in grado di 333

C. S. Wood, Reviewed Work: An Anthropology of Images: Picture, Medium, Body by Hans Belting,

cit., p. 372. 334

Ibid.

335

Ibid.


110

dire se “lì, in quei segni, vi sia o meno una figura”. In effetti è difficile non riconoscere come l’intera tradizione artistica occientale sia basata sul problema della figurazione: «His concept of Bild, close to the words eikon and eidolon, is also Greek in the sense that it never connects with the Latin term figura, “shape” or “figure”, surrounded by its cognates “figment” and “fiction”. Whereas eikon and eidolon put the stress on the viewer’s ability to recognize the referent behind the image, figura puts the stress on the shaped artefact itself and the viewer’s effort to interpret it»336. Insomma, la questione dell’immagine, così intesa, non può che risolversi (o acuirsi) nella questione della somiglianza e del riconoscimento, invertendo la tendenza che negli ultimi decenni aveva preferito «either to disintegrate iconicity into just another semiotic, convention-bound signing operation or to expose it as the dangerous naturalizing strategy of repressive, spectacularizing forces, whether psychic or societal»337. Il paradigma dell’immagine-ombra, non a caso, insiste sulla preferenza di Belting per le immagini mentali – quelle che sorgono nel nostro sguardo e nella nostra memoria figurativa interiore, e che per l’uomo hanno davvero significato poiché si staccano dal flusso della quotidianità visuale. Belting arriva addirittura a chiedersi, di sfuggita, «(ma cos’è in realtà un’immagine virtuale?)»338; segno che, alla fine, non si tratta più rappresentazioni «come quelle prodotte nei media ma di una nostra intangibile e specifica immagine»339. Se oggi «noi percepiamo le ombre di Dante nell’aldiqua» è allora perché, forse, l’estraneità dell’immagine – l’ombra – sorge già nel nostro sguardo: la sembianza nella quale ci raffiguriamo il mondo non può essere liberata dall’apparenza che vive già nel nostro sguardo. Anche l’ombra si libera dai corpi a cui essa appartiene non appena si mostra al nostro sguardo. Persino i corpi non ci sembrano così come sono ma così come li vediamo, dunque in uno sguardo estraneo che spieghiamo ingenuamente con la realtà. La distanza

336

Così conclude Wood: «The entire modern conception of art, whether textual or pictorial, derives, I would

argue, from the Latin Christian model of figuration as a trans-figuration whose truth value is found precisely in its dislocation from the real – art as a kind of allegorical revelation, in other words. Whereas for Belting art remains, in true Platonic fashion, contaminated by its willingness to traffic in figuration and virtuality»; cfr. Ibid. 337

Ibid.

338

H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p.53

339

Ivi, p. 102.


111 con l’immagine non ha luogo soltanto nell’osservazione ma già nella produzione dell’immagine340.

340

Ivi, p. 252.


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