Vedere-come e vedere-in. L'esperienza della rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim
Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Filosofia (L-5) Francesco Marchini Matricola 1325881 Relatore Prof. Luca Marchetti
A.A. 2013-2014
Nel 1968 Richard Wollheim dava alle stampe L’arte e i suoi oggetti1, edito nuovamente nel 1980 con l’aggiunta di sei saggi supplementari2. In questo testo, pensato come un’introduzione all’estetica, il tentativo di ricercare una definizione di opera d’arte cedeva ben presto all’approfondimento delle modalità percettive che entrano in gioco nella fruizione estetica3. Così, nella prima edizione del 1968, Wollheim associava in maniera molto stretta la nozione di ‘rappresentazione’ a quella wittgensteiniana di ‘vedere-come’, mettendo in chiaro l’idea secondo cui l’esperienza che abbiamo di una rappresentazione è caratterizzata da una fenomenologia distintiva basata su una particolare modalità percettiva, che chiama il ‘vedere appropriato alle rappresentazioni’ e che identifica come «specie di un genere percettivo più ampio, per indicare il quale ho usato […] il termine “vedere rappresentazionale”» 4. Così facendo, Wollheim si inseriva all’interno del dibattito filosofico sulla questione della rappresentazione fiorito in seno alla tradizione filosofica anglofona in particolare in seguito alla pubblicazione di Arte e illusione di Gombrich nel 19605. In questo testo Gombrich riteneva che nel vedere rappresentazioni non vi fosse nulla di distintivo, e che dunque vedere la rappresentazione di qualcuno fosse del tutto in continuità con il vedere la stessa persona direttamente. Ponendosi agli antipodi di questa concezione e riferendosi alle Ricerche filosofiche6
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di
Wittgenstein
per
dimostrare
l’ampia
diffusione
del
‘vedere
R. Wollheim, Art and Its Objects: an Introduction to Aesthetics, Harper & Row, New York,1968. R. Wollheim, Art and Its Objects: With Six Supplementary Essays, 2d edition, Cambridge, New York, Cambridge University Press, 1980; trad. it. L’arte e i suoi oggetti, Marinotti, Milano, 2013 3 In questo senso «la riflessione di Wollheim ha sempre mostrato particolare attenzione […] al tentativo di distinguere le rappresentazioni artistiche dagli altri tipi di immagine […] A questo scopo, il momento percettivo assume un ruolo fondamentale» Cfr. L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, Mimesis, Milano, 2012, p. 11 4 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 131. All’interno del genere più ampio del ‘vedere rappresentazionale’ Wollheim identificava altre specie percettive particolari, come la percezione dei test di Rorschach e il vedere appropriato alle fotografie. In merito si veda R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p.133 5 Gombrich E.H., Art and Illusion, Princeton University Press, 1960 (2000); trad. it. Renzo Federici, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965. In merito si veda R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 12, nota 19. Per una panoramica aggiornata sulle varie posizioni all’interno del dibattito sulla rappresentazione rinvio ad A. Voltolini, Immagine, il Mulino, Bologna, 2013. 2
rappresentazionale’7 Wollheim riteneva invece che il vedere una rappresentazione consistesse in un’esperienza sui generis. Un fenomeno del genere era stato già notato in epoca rinascimentale. A tal riguardo Wollheim cita un famoso passo del Trattato8 di Leonardo da Vinci, in cui si raccomandava all’aspirante pittore di «destare l’ingegno a varie invenzioni», osservando muri macchiati d’umidità, per scorgervi paesaggi, battaglie e figure9. Partendo da quest’idea, Wollheim specifica che un insieme di segni, che viene visto “come qualcosa”, si configura come ‘rappresentazione’ solo se questo tipo di percezione viene esercitato in conformità ad un criterio di correttezza connesso con l’intenzionalità dell’autore della rappresentazione, in modo da suscitare nel fruitore la corretta esperienza della rappresentazione10. Così, per Wollheim non ha senso parlare di ‘rappresentazioni’ in riferimento, ad esempio, al vedere le nuvole ‘come cavalli’. Visto che non sono il risultato dell’opera di nessuno, nessun criterio di correttezza grava su quei “segni” e, dunque, non è nemmeno determinato univocamente il modo in cui devono essere visti. In questi casi, secondo Wollheim, non è rappresentato nulla. Al contrario, possiamo vedere un insieme di segni come un ritratto di Enrico VII (e non, per riprendere l’esempio di Wollheim, dell’attore
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L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953; edizione italiana a cura di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967 (1983) 7 Wollheim ritrovava numerosi esempi del ‘vedere rappresentazionale’ all’interno dell’esperienza umana e ricordava, ad esempio, come Hans Hoffmann «il decano della pittura newyorkese, fosse solito chiedere ai propri allievi che entravano nel suo studio di dipingere una macchia nera su una tela bianca e poi di osservare come il nero fosse sul bianco. [Questo esempio] ci dà in forma elementare l’idea di che cosa significhi vedere qualcosa come una rappresentazione, ovvero cosa significhi per qualcosa avere proprietà rappresentazionali». Cfr. R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 27 8 da Vinci L., Trattato della pittura, parte II, § 63. Opera citata in Richard Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p.28 9 E’ questo concetto che sta alla base dell’idea secondo cui un insieme di segni viene visto come qualcosa in virtù della particolare esperienza di vedere quei segni come qualcosa. In questo senso, il vedere-come è la modalità percettiva che sta alla base del vedere rappresentazioni in senso esteso (e non ristretto, ad esempio, alle sole rappresentazioni artistiche). 10 Così «lo standard di correttezza deve garantire sia che l’immagine sia configurata in modo tale da riuscire a rappresentare quello che l’artista voleva rappresentare, sia che lo spettatore riesca a cogliere nel quadro quello che l’artista ha inteso rappresentare. Cfr. Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 18
Charles Laughton) solo se rendiamo conforme la nostra percezione di quei segni all’intenzionalità dell’autore della rappresentazione 11. Se, dunque, nella prima edizione Wollheim era convinto della possibilità di spiegare il ‘vedere appropriato alle rappresentazioni’ tramite il ‘vedere-come’ di Wittgenstein tuttavia, a partire dalla seconda edizione del 1980 de L’arte e i suoi oggetti egli torna sui suoi passi e ritiene che «il vedere rappresentazionale debba essere compreso (e dunque meglio spiegato) sulla base del suo implicare non il vedere-come, ma un altro fenomeno strettamente connesso ad esso, che chiamo “vedere-in».12 In questo senso, sostiene che: «mentre in precedenza avrei detto che il vedere rappresentazionale
consiste nel vedere x (= il medium, ovvero la
rappresentazione) come y (= l’oggetto, ovvero ciò che è rappresentato), ora direi che, per gli stessi valori delle variabili, consiste nel vedere y in x»13. Così, se nella formulazione iniziale vedevamo un’insieme di segni come qualcosa, ora, invece, vediamo qualcosa in un insieme di segni. Semplificando: non “le macchie del muro come una figura”, ma “una figura nelle macchie del muro”14. Occorre allora chiedersi se queste due prospettive siano tra loro inconciliabili o se invece il vedere-in sia in continuità con il vedere-come, in base all’idea secondo cui ‘vedere un soggetto entro un oggetto’ è possibile solo perché l’oggetto entro cui si vede un soggetto viene visto come il soggetto stesso15. Le ragioni di questo cambio di prospettiva da parte di Wollheim interessano in maniera particolare questo lavoro, il cui scopo è quello di mostrare la possibilità di conciliare le due
. Cfr. Wollheim R., Vedere-come, vedere-in e rappresentazione pittorica, in R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., pp. 131-132. 12 Ivi, p. 134 13 Ibidem 14 «Secondo questa teoria, un’immagine I raffigura un soggetto S solo se suscita in un percipiente P un’esperienza di vedere S in I» così in A. Voltolini, Immagine, cit., p. 47 15 Una prospettiva del genere viene avanzata (ma non solo) da Jerrold Levinson nel saggio Wollheim on Pictorial Representation, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 56, 1998, pp. 227-233 e ristampato in Richard Wollheim on the Art of Painting, edited by Rob van Gerwen, Cambridge University Press, 2001. Tutte le traduzioni, ove non è presente l’edizione in italiano, sono mie. 11
modalità percettive, facendole funzionare all’interno di una teoria che fa dell’esperienza sui generis della rappresentazione il proprio criterio distintivo. Esistono, infatti, buone ragioni per non pensare al ‘vedere-come’ e al ‘vedere-in’ in termini di esclusione16.
Dovendo introdurre il vedere-in, Wollheim lo descrive come Un distinto tipo di percezione, innescato dalla presenza di una superficie differenziata all’interno del campo della visione […] quando ciò
avviene, si
verifica un’esperienza dotata di una certa fenomenologia […] la duplicità (twofoldness), per cui allo stesso tempo sono consapevole visivamente della superficie e di qualcosa che si staglia su (o dietro) di essa. […] In virtù di questa esperienza posso dire di vedere un ragazzo in un muro macchiato. 17 La caratteristica fenomenologica essenziale del vedere-in consiste nella duplicità, intesa «nei termini di una singola esperienza dotata di due aspetti, configurativo e riconoscitivo» 18. Secondo Wollheim, nel fare esperienza di una rappresentazione prestiamo una duplice attenzione visiva a ciò che viene visto e agli aspetti del medium, ovvero a ciò che egli chiama aspetto riconoscitivo (il contenuto dell’opera) e aspetto configurativo (la sua forma). Per Wollheim di entrambi gli aspetti siamo visivamente coscienti ed essi sono inseparabili19. L’osservatore é dunque consapevole visivamente tanto delle caratteristiche fisiche, materiali, dell’oggetto, quanto delle caratteristiche del soggetto visto in esso, e può riferirsi alle une o 16
Posizione di cui Wollheim sembra del tutto convinto quando, ad esempio, afferma: «Se è vero che la percezione appropriata richiede che, messo di fronte alla rappresentazione di y, uno spettatore debba vedere y nella rappresentazione, egli è in grado di farlo solo perche vede anzitutto la rappresentazione come una rappresentazione […] Ma è essenziale riconoscere che, ove si supponga che questo dimostri che il vedere-in si basa sul vedere-come, ciò come cui la rappresentazione è vista non è mai la stessa cosa di ciò che è visto nella rappresentazione». Cfr. R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 146 17 R. Wollheim, Painting as an Art, Andrew M. Mellon Lectures in Fine Arts, National Gallery of Art, Washington, D.C., Harvard University Press, Cambridge, Mass.,1987, p. 46. 18 R. Wollheim, On Pictorial Representation, in «Journal of Aesthetics and Art Criticism», 56, 3, 1998, pp. 217-226 e ristampato in R. van Gerwen, Richard Wollheim on the Art of Painting, cit., p. 20 19 A questo proposito Voltolini osserva: «si tratta comunque di veri e propri aspetti, perché non sono due esperienze meramente giustapposte, bensì due momenti inseparabili di un’ unica esperienza» Cfr. A. Voltolini., Immagine, cit., p.50
alle altre in ogni momento. Così facendo, egli argomenta contro Gombrich – convinto invece dell’impossibilità di questo tipo di percezione duplice, cioè di non poter cogliere simultaneamente il ‘contenuto’ di una rappresentazione insieme alla sua ‘forma’ 20. Wollheim, al contrario, insiste sul fatto che se si guarda una rappresentazione in quanto tale dobbiamo considerare simultaneamente il soggetto della rappresentazione e il suo medium21: la nostra esperienza percettiva deve essere distribuita tra i due aspetti della rappresentazione perché, in questo caso, i segni sono stati tracciati in modo che quando vengono presentati allo spettatore «egli è indotto ad avere, o ci si prefigge che abbia, esperienze visive di un genere voluto dalla persona che ha modificato l’oggetto» 22. Proprio perchè artefattuali, cioè risultato dell’opera di qualcuno, le rappresentazioni richiedono un passaggio «dalla natura alla cultura, ovvero dall’applicazione di una capacità operativa e percettiva innata alla produzione di segni culturalmente connotati proprio perché tenuti a rispettare dei vincoli di ‘intelligibilità’ – lo standard di correttezza – determinati dal contesto storico-culturale». In questo senso le rappresentazioni arrivano «quando si impone sulla capacità naturale del vedere-in qualcosa del quale finora era stato senza: uno standard di correttezza e di scorrettezza. Questo standard è fissato – per ciascun quadro – dalle intenzioni dell’artista nella misura in cui sono realizzate»23. Wollheim ritiene che, mentre le rappresentazioni siano «culturalmente relative»24, il vedere-in sia una modalità percettiva “biologicamente fondata”, in virtù della
Cfr. Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 137. Questa negazione della duplicità, ritiene Wollheim, fu suggerita a Gombrich dall’erronea assimilazione della coppia forma-contenuto alla disgiunzione anatra-lepre. 21 «Che il vedere appropriato alle rappresentazioni permetta un’attenzione simultanea a ciò che è rappresentato e alla rappresentazione, all’oggetto e al medium […] è conseguenza di una tesi più forte che vale per le rappresentazioni. La tesi più forte è che, se si guarda una rappresentazione in quanto rappresentazione, non è solo permesso, ma richiesto di considerare simultaneamente l’oggetto e il medium […] Questo vincolo relativo al vedere appropriato alle rappresentazioni lo chiamerò la ‘tesi della duplicità’» Ivi, pp. 136-137 22 Sebbene, precisa Wollheim, la nostra attenzione «non debba per forza essere ugualmente distribuita tra loro». Ibidem. Infatti, in questo tipo di esperienza complessa, un aspetto può alternativamente essere messo in risalto a discapito dell’altro. 23 L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 17 24 R. Wollheim, Painting as an Art, cit., p. 54 20
quale possiamo «avere esperienze percettive di cose che non sono presenti ai sensi: ossia, tanto di cose che sono assenti, quanto di cose che sono non-esistenti»25. È importante segnalare qui la distanza che separa la filosofia di Wittgenstein da quella di Wollheim, nelle rispettive considerazioni sulle condizioni di possibilità della rappresentazione: mentre Wittgenstein vuole rimanere all’interno di un’analisi ‘concettuale’ volta a chiarire la “grammatica” che informa i concetti con cui ci muoviamo nell’esperienza, nella prospettiva wollheimiana le condizioni di possibilità (e, in generale, delle dinamiche della rappresentazione) vengono invece ricondotte a un fondamento “psicologico”
26.
Wollheim ritiene infatti che il vedere-in sia «un vero e proprio ‘genere’ di percezione che ci è co-originario: è qualcosa di astorico, innato e, forse, biologicamente fondato che ‘precede’ logicamente e storicamente il darsi e il consolidarsi nella storia delle pratiche rappresentative e artistiche»27. In secondo luogo, Wollheim ritiene che la possibilità di vedere cose non presenti ai sensi sia una caratteristica peculiare della rappresentazione, la quale «non deve limitarsi a ciò che può essere visto face to face: ciò a cui deve limitarsi è a tutto quello che può essere visto su una superficie segnata»28. Infatti, lo spettro di cose che possono essere viste su una superficie segnata è più ampio di quello che appartiene al genere di cose visibili direttamente:
R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 140. Basti pensare alle considerazioni che Wollheim dedica nel secondo capitolo di Painting as an art alla questione della percezione dell’espressione o all’idea che la significatività pittorica vada ricondotta a fenomeni mentali, dunque psicologici. 27 L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 8. E ancora: «Il vedere-in, per come è stato descritto, precede la rappresentazione: la precede sia logicamente, sia storicamente. Il vedere-in precede la rappresentazione logicamente dal momento che io posso vedere qualcosa in superfici che non sono né sono ritenute essere rappresentazioni […] Posso, ad esempio, vedere busti privi di testa o maestosi direttori wagneriani nelle nuvole che si stagliano contro la volta del cielo. E il vedere-in precede la rappresentazione storicamente poiché sicuramente i nostri remoti antenati si impegnavano in questo tipo di esercizi ben prima di decorare le loro caverne con gli animali cacciati». R. Wollheim, Painting as an art, cit., pp. 47-48. In merito si veda anche l’ipotetica fenomenologia del dipingere-originario (Ur-painting) che Wollheim costruisce ancora in Painting as an Art, in particolare nelle pp. 20-21. 28 R. Wollheim, On Pictorial Representation, cit., p. 23 25 26
La varietà di rappresentazioni possibili può essere mostrata con uno schema a croce. Su di un asse abbiamo la rappresentazione di oggetti di contro alla rappresentazione di eventi. Donne (oggetti) e battaglie (eventi). Sull’altro asse abbiamo le rappresentazioni di oggetti o eventi particolari di contro alla rappresentazione di oggetti o eventi solamente di tipo particolare. La rappresentazione di Madame Moitessier (oggetto particolare) e la rappresentazione di una giovane donna dietro a un bar, forse una giovane donna di qualche specificità – ma nessuna giovane donna in particolare (oggetto di tipo particolare). 29
È peculiare della nostra esperienza percettiva il fatto di non poter vedere direttamente cose o eventi che rientrano nell’ultima categoria, quella degli oggetti (o eventi) di “tipo” particolare – richiesta che una rappresentazione può invece facilmente soddisfare. Wollheim conclude che ciò che può essere visto “normalmente” è un criterio inadeguato per circoscrivere ciò che può essere rappresentato. La specificità della rappresentazione consiste, infatti, nella possibilità di aprire uno spazio “altro” rispetto a quello dato dalla superficie materiale della rappresentazione stessa; uno spazio dotato di una “grammatica” ulteriore rispetto a quella vigente nel regno della percezione diretta e caratterizzato da una fenomenologia ad essa parallela, esemplificata nella particolare esperienza percettiva del vedere-in.
Con il vedere-in Wollheim segnala dunque una modalità percettiva da sempre presente nell’essere umano (almeno a livello potenziale) la quale, precedendo logicamente e storicamente le rappresentazioni, ne è condizione di possibilità. Per dirla con Voltolini:
Tutte le volte che abbiamo vedere-in qualcosa presenta in forma figurativa un dato contenuto, o comunque si apre al percipiente, entro lo spazio che gli è 29
Ibidem
percettivamente dato di fronte, un altro spazio. Quest’ultimo spazio ‘apparente’ è caratterizzato da una dimensione di profondità: come dice lo stesso Wollheim, possiamo organizzare i rapporti tra le parti presenti in quello spazio apparente o, come a volte egli anche dice, pittorico in termini di figura-sfondo. Lo stesso non vale dello spazio che in effetti è percettivamente dato al percipiente, perché normalmente quando questi guarda un’immagine la vede in termini bidimensionali […] Quindi il vedere-in è condizione necessaria oltre che sufficiente di figuratività30.
Allo stesso modo del vedere-come teorizzato da Wittgenstein, anche il vedere-in fa piombare la percezione visiva in una situazione “paradossale”, giacché ciò che viene visto-in, in un certo senso, non esiste. Infatti, nel caso dell’aspetto riconoscitivo della teoria della duplicità31, non è propriamente corretto dire di vedere un soggetto: è piuttosto «in virtù del vedere direttamente e letteralmente l’oggetto che sta di fronte che il percipiente esperisce – vi vede, seppur indirettamente e metaforicamente – un altro soggetto»32. Tuttavia Wollheim non smette mai di segnalarci come la rappresentazione sia «qualcosa di costitutivamente percettivo, poiché il momento della percezione della superficie pittorica ‘segnata’, disegnata, configurata non può essere superato in vista del contenuto dell’opera. Per Wollheim, infatti, il significato di una rappresentazione (artistica) si può dare soltanto nella rappresentazione e attraverso la rappresentazione, e in questo senso fa tutt’uno con la tela dipinta» 33. È per questo che, in riferimento a una rappresentazione, non possiamo dire di vedere un soggetto: ciò che vediamo letteralmente e direttamente sono i suoi ‘aspetti di superficie’ – le sue forme Voltolini A., Immagine, cit., p. 50. Con ‘figuratività’ Voltolini si riferisce alla pittorialità di una rappresentazione, cioè al fatto che essa sia una rappresentazione pittorica. Infatti, senza intenzionalità, il vederein è condizione solo necessaria (ma non sufficiente) di ‘raffigurazione’. Inoltre, è in questo senso che può essere compresa l’esigenza wollheimiana di non includere, all’interno delle rappresentazioni, quelle opere pittoriche che non permettono di organizzare al loro interno relazioni spaziali. Un esempio che Wollheim cita in questo senso è il dipinto Vir Heroicus Sublimis di Barnett Newman. Cfr. Wollheim R., Painting as an art, cit., p. 62 31 Giustamente considerato come l’aspetto vero e proprio del vedere-in. Cfr. Voltolini A., Immagine, cit., p.49 32 Ivi, p.51 33 L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p.18 30
e i suoi colori. Emerge qui un tratto fondamentale della questione filosofica sulla rappresentazione, che i due autori declineranno in modo diverso. Si tratta del problema della ‘significatività’ della rappresentazione: ciò che essa esprime, il suo contenuto, pur dandosi nei segni che ne costituiscono il medium, tuttavia non si riduce ad essi. Il contenuto di una rappresentazione è infatti un’eccedenza, un ‘più’ che viene colto a partire dai segni materiali in cui è incorporato: è infatti a partire da quei segni che, seppur metaforicamente e indirettamente, vi viene visto qualcosa34. Dunque, nel caso di Wollheim, si tratta di capire e (forse) riconsiderare il problematico rapporto tra l’aspetto configurativo e quello riconoscitivo che costituiscono l’esperienza del vedere-in: se entrambi gli aspetti fanno infatti parte di un’unica esperienza percettiva, il problema è capire in che modo, «data la percezione del veicolo di un’immagine, si abbia l’esperienza di un certo soggetto di quell’immagine»35.
Assegnando al ‘vedere appropriato alle rappresentazioni’ una fenomenologia distintiva, Wollheim intende innanzitutto sottolineare la discontinuità esistente tra il ‘vedere normale’ e il ‘vedere rappresentazioni’. Per questo egli intende il vedere-in come «un tipo speciale di esperienza visiva» 36 che «deriva da una speciale capacità percettiva, che presuppone la percezione semplice ma è qualcosa che si aggiunge ad essa»37. Abbiamo dunque a che fare con un’altra capacità percettiva che, pur lavorando all’interno di un orizzonte visivo, non funziona in maniera autonoma e indipendente dal nostro apparato cognitivo. Anzi, come rileva Wollheim, «nel dominio della percezione pittorica, la percezione mostra un grado
Per dirla in altri termini, si tratta del «rapporto di identità-differenza tra il senso dell’opera e la sua dimensione formale e materiale». Ibidem 35 A. Voltolini, Immagine, cit., p.59 36 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 144 37 Ivi, p. 140 34
piuttosto notevole di permeabilità al pensiero» 38, ed è proprio questa permeabilità della percezione al pensiero «a spiegare l’ampia gamma di cose che si possono rappresentare» 39. Ciò avviene in virtù del fatto che entrambi gli aspetti della duplicità «sono determinati in parte, ovviamente, da come è la superficie, ma in parte sono determinati dai concetti e dalle credenze che lo spettatore ha e mobilita» 40. Wollheim sa bene che ciò che vediamo è sempre permeato (e modellato) dal nostro sapere, e, in questo senso, non ha dubbi sul rapporto tra percezione e cognizione41. Di tutt’altro segno sono invece le sue considerazioni sul rapporto che la percezione instaura con la fantasia: infatti egli scrive che «la nostra percezione delle rappresentazioni non implica l’immaginazione» 42. Per Wollheim, l’esperienza di una rappresentazione si declina come un ‘vedere rappresentazioni’ e non come un ‘farsi rappresentazioni’: lo spettatore deve poter cogliere, in quei segni e rimanendo su di essi, quel distanziarsi del soggetto della rappresentazione dalla superficie in cui è incorporato. In questo senso per Wollheim ‘immaginare’ equivale a ‘farsi rappresentazioni’ – ossia, a “chiudere gli occhi”. È importante accennare qui al fatto che questa è una delle tante critiche che egli muove al vedere-come wittgensteiniano: cioè quella di essere un ‘vedere + immaginare’. In altri termini, si tratterebbe di un vedere omogeneo (e non discontinuo come è il vedere-in) alla percezione
diretta,
che
verrebbe
“aumentato”,
“esteso”
grazie
all’apporto
dell’immaginazione. E tuttavia: «la scelta di non riconoscere un ruolo all’immaginazione
38
R. Wollheim, In Defense of Seeing-In, in H. Hecht, R. Schwartz, M. Atherthon (eds.), Looking into Pictures. An Interdisciplinary approach to Pictorial Space, MIT Press, 2003, pp. 3-15; citato in L. Marchetti , Il corpo dell’immagine, cit., p. 44 39 Wollheim R., On Pictorial Representation, cit., p. 24 40 Wollheim R., Imagination and Pictorial Understanding, in «Proceedings of the Artistotelian Society», 1986, 60, p. 48 e citato in L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 45. 41 È per questo che, all’interno della sua teoria della rappresentazione, Wollheim sente la necessità di postulare uno spettatore «adeguatamente sensibile, adeguatamente informato e, se necessario, adeguatamente stimolato». Cfr. R. Wollheim, On Pictorial Representation, cit., p. 259 42 Cfr. Wollheim R., Imagination and Pictorial Understanding, cit., p. 50
all’interno della teoria del vedere-in […] non solo presenta non poche difficoltà, ma porta a una vera e propria contrapposizione tra vedere rappresentazioni e farsi rappresentazioni; una contrapposizione che Wollheim declina come una disgiunzione di percepire ed immaginare»43.
Per Wollheim il vedere-in è un caso genuino di percezione, non di
immaginazione, ed egli sostiene una teoria della rappresentazione in grado di funzionare senza un ricorso sostanziale all’immaginazione, che viene chiamata in causa solamente in certi casi44. Come vedremo, mentre in Wittgenstein la dimensione immaginativa del vederecome, lungi dall’essere un semplice apporto “cognitivo”, si trova alla base della percezione, in Wollheim l’accento sulla natura percettiva dell’esperienza delle rappresentazioni rischia di porre in seria difficoltà la sua teoria della rappresentazione.
Nel capitolo XI delle Ricerche filosofiche Wittgenstein ci segnala due modi in cui utilizziamo il termine ‘vedere’: Il primo: «Che cosa vedi là?» – «Vedo questa cosa» (segue una descrizione, un disegno, una copia). Il secondo: «Vedo una somiglianza tra questi due volti» – colui al quale dico queste cose può vedere i due volti tanto distintamente quanto li vedo io. L’importante: la categorica differenza tra i due ‘oggetti’ del vedere 45.
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Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p.9. Come notato da Marchetti, Si veda anche: «L’immaginazione non ha nessuna parte necessaria da giocare nella percezione di ciò che è rappresentato […] non deve essere un elemento costitutivo della percezione stessa. Cfr. R. Wollheim, Imagination and Pictorial Understanding, in «Proceedings of the Aristotelian Society», 1986, 60, pp. 45- 60 e citato in L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 47. Per la questione del ruolo giocato dall’immaginazione nell’esperienza delle rappresentazioni, si veda il caso dello spettatore interno, figura che Wollheim delinea nella primo capitolo del volume Painting as an art. In merito rinvio anche a L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., pp.47-48. 45 Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 255 44
Il modo in cui usiamo tale espressione non è univoco: nella pratica quotidiana lo adoperiamo indifferentemente per riferirci a due “fenomeni” eterogenei, i cui «oggetti» sono ben distinti. Nel primo caso ce ne serviamo per riferirci a una cosa nel senso stretto del termine: un oggetto, qualcosa che possiamo indicare, esibire, e sulla cui natura esiste accordo intersoggettivo. E’ il vedere sensibile, la percezione semplice e diretta. Il secondo modo in cui utilizziamo il verbo ‘vedere’ rimanda invece a qualcosa che, allo stesso tempo, viene e non viene ‘vista’: Osservo un volto, e improvvisamente noto la sua somiglianza con un altro. Vedo che non è cambiato; e tuttavia lo vedo in modo diverso. Chiamo quest’esperienza «il notare un aspetto». Le sue cause interessano lo psicologo. A noi interessa il concetto, e il posto che esso occupa tra i concetti d’esperienza 46. Secondo Wittgenstein in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa che non possiamo indicare sensibilmente, ma che cogliamo solo in virtù di un sentire intersoggettivo, i cui ‘oggetti’ non possono essere ridotti né alla sfera sensibile né a quella logica 47. Nel notare una somiglianza tra due volti ciò che viene percepito sensibilmente rimane immutato, mentre qualcos’altro cambia e, così facendo, trasforma anche ciò che viene visto direttamente. Per questo scrive che vedo che lo stesso volto «non è cambiato; e tuttavia lo vedo in modo diverso». Secondo Wittgenstein, questo secondo “modo” di vedere è caratteristico della nostra esperienza e viene messo in gioco continuamente, come quando, per citare un esempio classico, vediamo un intreccio di linee come un disegno. Improvvisamente vedo la soluzione di una figura-rebus. Dove prima c’erano rami, ora c’è una forma umana. La mia impressione visiva è mutata, e ora riconosco che
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Ibid. Come vedremo, si tratta di quel sentire estetico che, per Wittgenstein, si estende e si articola lungo l’intero spettro della sensibilità umana, in virtù del quale possiamo cogliere quelle ‘somiglianze di famiglia’ che ci permettono di individuare l’identità nella differenza (e viceversa). 47
non soltanto essa aveva colore e forma, ma anche una ‘organizzazione’ perfettamente definita48. Nel ‘mutamento d’aspetto’ a cambiare è l’impressione visiva e, quando ciò avviene, è come se, al suo interno, riuscissimo a separare l’ immagine dalla concezione. Mentre la figura (la percezione diretta, l’impressione visiva) rimane identica, la concezione (l’aspetto) si modifica, trasformando anche ciò che viene visto sensibilmente e producendo la particolare esperienza visiva di vedere quei segni come qualcos’altro. Egli specifica poi che è solo con il “fenomeno” del mutamento d’aspetto che quest’ultimo, l’aspetto, è come se si separasse dal resto della visione, permettendo di vedere lo stesso “oggetto” in modo diverso: nella quotidianità, infatti, la percezione ha una sua dimensione di ‘neutralità’ tale che a nessuno verrebbe mai in mente di dire: ‘Vedi questa forchetta come una forchetta’49. È per questo che «Il fenomeno un po’strano del vedere così o altrimenti fa la sua comparsa solo quando uno riconosce che c’è un senso in cui l’immagine visiva resta identica, mentre qualcos’altro, che si vorrebbe chiamare ‘concezione’, può modificarsi»50. Quello che Wittgenstein vuole segnalare è che grazie al vedere-come possiamo cogliere qualcosa che normalmente non può essere colto (lo scindersi dell’impressione visiva in ‘figura’ e ‘concezione’) dal momento che ciò che vediamo è sempre permeato dal nostro sapere. Al contrario, grazie al vedere-come «è come se riuscissimo a cogliere il momento in cui il materiale percettivo si separa dall’aspetto configurativo – quello che Wittgenstein ha chiamato, ma solo provvisoriamente, ‘concezione’»51. Così, il “fenomeno” del mutamento d’aspetto mette in moto un processo di
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Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 259 Ivi, p. 257. 50 Wittgenstein L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano, 1990, I, § 27. È per questo che il problema non si pone se io prendo un’immagine per questa o quella cosa determinata. Ritornando all’esempio della forchetta «qui, l’espressione “la vedo come” sarebbe gravida di conseguenze, giacché comporterebbe la possibilità di cogliere nella sua metafisica neutralità qualcosa che ‘successivamente’ vedremmo anche come una forchetta». Cfr. Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 55 51 Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 54. Corsivo mio 49
‘risalimento’ dell’esperienza che permette di pensare l’originaria articolazione del vedere e il complesso rapporto che la percezione instaura con la cognizione. Come scrive Wittgenstein: «il ‘vedere la figura come…’ ha qualcosa di occulto, qualcosa di inafferrabile. Si vorrebbe dire: “Qualcosa si è modificato e tuttavia niente si è modificato”. – Ma non cercare di spiegarlo! Considera piuttosto come sia altrettanto occulto il resto del vedere» 52. Nel mutamento
d’aspetto qualcosa di non previsto e di non prevedibile appare
improvvisamente, riconfigurando i segni in cui è incorporato. In questo senso, non c’è alcuna garanzia che ciò che “vediamo-come” possa essere percepito da altri. Infatti «l’espressione del cambiamento d’aspetto è l’espressione di una nuova percezione, e, nel medesimo tempo, l’espressione della percezione che è rimasta immutata». Pur vedendo qualcosa di ‘nuovo’ non abbiamo il diritto di modificare il resoconto della nostra percezione, poiché i segni su cui essa riposa sono rimasti identici. E tuttavia, come segnala Wittgenstein, lo stesso resoconto non riguarda più l’oggetto percepito, così che non ha più senso confrontare le due ‘impressioni visive’, magari “sovrapponendole”: esse «suggeriscono un altro tipo di confronto» 53. Wittgenstein vuole così segnalare il paradossale rapporto di ‘identità-differenza' insito nel vedere-come, giacché quello che viene percepito, propriamente, sta e non sta in quei segni. Sotto questo profilo l’intera esperienza del ‘vedere-come’ è allo stesso tempo identica e differente a quella del ‘vedere’, e per questo esso «è come un vedere e non è come un vedere»54. Sempre per questo motivo, sin dalle prime battute, Wittgenstein ci invita ad essere consapevoli della «categorica differenza tra i due ‘oggetti’ del vedere»: ciò che “vediamocome” non rimanda infatti né a un orizzonte strettamente visivo (altrimenti tutti dovremmo poter vedere la stessa cosa), né a un atto interpretativo (che per Wittgenstein è circoscritto a
52
Wittgenstein L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., I, § 966 Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 258 54 Ivi, p. 260 53
ciò che si può verificare o falsificare), ma costituisce il punto d’incontro di vedere e pensare: «‘Un pensiero che echeggia nel vedere’ – si vorrebbe dire»55. In questo modo Wittgenstein sta stringendo sempre di più il cerchio intorno al fatto che nel vedere-come ad essere in gioco non è tanto la percezione di oggetti ma il modo in cui soggettivamente organizziamo un’immagine: è per questo che «quello che percepisco nell’improvviso balenare dell’aspetto non è una proprietà dell’oggetto, ma una relazione interna tra l’oggetto e altri oggetti» 56. Il vedere-come consiste nel ‘cogliere’ la configurazione di un determinato insieme di elementi, nell’organizzare l’impressione visiva in un modo piuttosto che in un altro, e rimanda dunque al «modo in cui mettiamo soggettivamente in relazione il materiale sensibile»57. Insomma, secondo Wittgenstein, nel ‘vedere qualcosa come…’ ad essere in gioco è una sentire estetico che ci consente di mettere in rapporto tra loro elementi differenti di uno stesso materiale sensibile, così da stabilire al suo interno quelle relazioni che ci permettono, ad esempio, di cogliere l’identità nella differenza (e viceversa). Nella configurazione (soggettiva) degli elementi interni di un materiale sensibile, quel qualcosa che cogliamo si costituisce come una ‘rappresentazione’, intesa come ‘ciò che si manifesta’, come il ‘senso’ che cogliamo a partire da ciò che si offre ai sensi. Come segnala lo stesso Wittgenstein,
«Nel vedere-come si manifesta qualcosa che non si lascia ridurre a ‘fenomeno’ e che, pertanto, non possiamo analizzare né in termini causali, né in termini schiettamente percettivi, né possiamo analizzarlo in termini puramente interpretativi o inferenziali; né,infine, possiamo affrontarlo, rimandando a una ‘facoltà intermedia’, perché non abbiamo propriamente a che fare con un fenomeno intermedio». E ancora: «Non si tratta, quindi, di ‘spiegare’ queste due modalità del vedere e di ricondurle a cause diverse o a un diverso funzionamento dell’apparato fisiologico. Da questo punto di vista, a differenza di Wollheim, Wittgenstein non parlerà mai, né sentirà l’esigenza di ricorrere a un diverso genere percettivo più o meno biologicamente fondato». Cfr. Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p.61 e p.53. È importante sottolineare qui che Wittgenstein parla di «un concetto che sta fra quello di visione e quello di pensiero»: al contrario di Wollheim non sente la necessità né di ricondurre il vedere-come a un fondamento biologico né di «ipotizzare una terza facoltà, ma vuole piuttosto segnalare il modo di rapportarsi delle facoltà» Cfr. L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 60. E’ per questo che, sin dall’inizio, specifica che «le sue cause interessano lo psicologo» Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., II, p. 255. 56 Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 278. 57 Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., pp. 63-64 55
quando ‘notiamo un aspetto’ «è come se una rappresentazione venisse a contatto con l’impressione visiva e rimanesse a contatto con essa per un certo tempo» 58. Ma allora, «attraverso il vedere-come non solo cogliamo qualcosa, ma cogliamo anche il carattere d’immagine dell’immagine. Dunque, come per il vedere-in di Wollheim, anche il vederecome mette in gioco una twofoldness che istituisce quella distanza tra ‘cosa’ e ‘immagine’ – o tra arte e realtà». 59 Nel vedere qualcosa così o altrimenti, quel ‘qualcosa’ si costituisce come una ‘rappresentazione’ in grado di istituire una distanza, un’eccedenza, rispetto alla dimensione sensibile del materiale che la incorpora 60. Un punto che invece segna la distanza tra i due autori sta nel fatto che, per Wittgenstein, la capacità di vedere-come richiede immaginazione. Non a caso «non tutti possono prendere la semplice figura di un triangolo per l’immagine di un oggetto capovolto. Per vedere quest’aspetto del triangolo ci vuole immaginazione»61. Wittgenstein, al contrario di Wollheim, ritiene che non ci sia nessun motivo di escludere l’intervento dell’immaginazione all’interno della rappresentazione: infatti «non ci vuole forse fantasia per sentire una certa cosa come variazione di un determinato tema?»62. Al di là del fatto che, per Wittgenstein, il sentire estetico si articola lungo tutta la sensibilità umana, il punto fondamentale sta nel fatto che tutto l’orizzonte del pensiero entra in gioco nel vedere-come. Dunque se ‘rappresentare’ e ‘farsi rappresentazioni’ in Wittegenstein, viaggiano insieme, allo stesso modo ‘rappresentarsi’ e ‘immaginare’ non possono essere disgiunti 63.
58
Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 272 Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 65 60 Infatti, se nel vedere-come ad essere in gioco è il modo in cui soggettivamente organizziamo il materiale sensibile allora «da questo punto di vista il vedere-come non è assimilabile al rapporto ottico figura/sfondo: nel vedere-come il tratto, la figura, si configura come ‘immagine’». Ibidem 61 Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, cit., II, p. 273. Non si può non notare qui la differenza che separa Wittgenstein da Wollheim, laddove quest’ultimo dedica all’immaginazione un ruolo molto parziale e limitato. 62 Ivi, p. 279 63 Così, ‘cogliere la variazione di un tema’ e ‘notare un aspetto’ altro non sono che casi particolari della “pratica” estetica più generale che, per Wittgenstein, consiste nel ‘cogliere le somiglianze di famiglia’. 59
Nonostante il vedere-come sia possibile, specifica Wittgenstein, solo laddove esista un mondo di pensieri, di concezioni (e dunque di aspetti), tuttavia egli traccia un ‘limite’ al concetto. Si è visto che, per poter cogliere una figura ambigua come un certo oggetto sia necessario un sapere sufficientemente articolato. Dobbiamo poter sapere che quella che troveremo nell’intreccio di linee è proprio la figura di un’anatra (o di una lepre). Ma si provi a vedere un elefante in quella figura! Ciò che possiamo vedere-come è circoscritto entro limiti che rimandano all’incontro tra il modo in cui la superficie è segnata e il modo soggettivo di organizzazione. Così, «lo schema di un cubo posso vederlo come una scatola; ma posso anche vederlo una volta come una scatola di carta, un’altra come una scatola di latta?»64 In questo caso la risposta sarebbe negativa, poiché non c’è nulla, in quei segni, che supporti percezioni di questo tipo. Dunque anche l’immaginazione, se non vuole essere del tutto arbitraria e svincolata dal materiale percettivo, deve adeguarsi a ciò che le viene offerto dal modo in cui una superficie è segnata. Dunque la deriva dell’immaginazione all’opera nel vedere-come, in Wittgenstein, è arginata dal fatto che essa «non si muove affatto in assoluta libertà, ma dialoga con ciò che è offerto dal materiale della rappresentazione e ad esso rimane in qualche modo legata» 65.
Poste queste premesse, è possibile ora analizzare la critica che Wollheim muove al ‘vedere-come’ nella seconda edizione de L’arte e i suoi oggetti66. Una critica che, come è stato giustamente notato, è infondata, poiché muove da un’incomprensione di fondo di alcuni aspetti del pensiero wittgensteiniano 67.
64
Ivi, p. 273 Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., pp. 64-65. 66 Wollheim R., Vedere-come, vedere-in e rappresentazione pittorica, in Wollheim R., «L’arte e i suoi oggetti», cit., pp. 131-146 67 Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p.46 65
Dovendo giustificare il cambio di prospettiva in favore del vedere-in, Wollheim ritiene più sensato confrontarli “fenomenologicamente” sotto il profilo della percezione diretta, evidenziando, tramite continui scarti, «i due progetti percettivi fondamentalmente differenti a cui si allineano questi due fenomeni» 68. Wollheim muove innanzitutto tre critiche al vederecome: in primo luogo, egli ritiene che il vedere-in permetta di vedere uno «spettro di cose» più ampio rispetto al vedere-come, e cioè «non solo particolari, ma anche stati di cose»; in secondo luogo «il vedere-come deve soddisfare il requisito della localizzazione» ˗˗ esso deve indicare, cioè, quale parte dell’immagine x vedo come y (mentre ciò che viene visto-in, per Wollheim, lo è nella sua interezza); infine, secondo Wollheim, il vedere-come non permette la ‘duplicità’, ossia l’attenzione simultanea agli aspetti di superficie e al contenuto della rappresentazione, ma solo un’ «attenzione alternata»69. La prima critica che Wollheim muove al vedere-come riposa sull’idea che esso sia strettamente legato alla percezione diretta di oggetti o cose, e che pertanto il relativo «spettro di cose» ‘visibili’ sia limitato in questo senso70. Già con questa prima indicazione non si può non segnalare un travisamento dell’originale idea wittgensteiniana secondo cui, invece, un tale limite non esiste affatto. In primo luogo, nel percepire una somiglianza tra due volti, ciò che vediamo, propriamente, non è una cosa o un oggetto nel senso fisico del termine. Wittgenstein ha ben presente ciò quando, in primissima battuta, invita ad essere consapevoli della «categorica differenza tra i due oggetti del vedere», ossia della percezione diretta e del vedere-come. In virtù del particolare rapporto che quest’ultimo intrattiene con la sfera cognitiva e immaginativa, possiamo, per utilizzare una locuzione wollheimiana, «avere Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., p.134 Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., pp. 134-136. 70 In altri termini: «se guardo x, e x è un particolare, posso vedere una donna in x , e posso anche vedere in x che una donna sta leggendo una lettera d’amore; ma, mentre posso vedere x come una donna, non posso vedere x come il fatto che una donna sta leggendo una lettera d’amore». Cfr. R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 134. 68 69
esperienze percettive di cose che non sono presenti ai sensi» tanto che «vedo qualcosa che non c’è affatto, che non si trova nella figura, al punto che mi sorprende che io possa vederlo»71. In secondo luogo Wittgenstein ritiene che il vedere-come permetta di vedere le rappresentazioni come raffiguranti intere situazioni o stati, e non solo dei particolari: infatti, se noi sappiamo che tipo di movimenti vengono raffigurati in un quadro, possiamo vederlo, ad esempio, come un attacco di cavalleria (o come una Deposizione, piuttosto che come una Crocifissione)72. Nemmeno per quanto riguarda la seconda caratteristica che Wollheim ascrive al vedere-come, ossia la ‘localizzazione’, le sue osservazioni sembrano essere condivisibili 73: infatti, per Wittgenstein, quando qualcosa viene ‘visto-come’ «la cosa incomprensibile è proprio il fatto che niente è cambiato, e che, tuttavia, tutto è cambiato»74. Nel vedere-come si ha una completa riconfigurazione dei segni nella loro interezza, e pertanto non ha senso parlare di localizzazione75. Anche se Wittgenstein non usa il termine nello stesso senso di Wollheim, egli ritiene che la possibilità di “localizzare”, cioè di indicare dov’è che nella figura avviene il ‘cambiamento percettivo’, possa essere ascritta a certi casi del vedere, come quello della figura della «doppia croce», ossia l’immagine di una croce nera su sfondo bianco che può anche essere vista come una croce bianca su sfondo nero – ciò che Wittgenstein chiama l’aspetto C. Se non ci facciamo ingannare dal fatto che, per mera praticità, mettiamo in gioco il nostro sapere e chiamiamo ‘doppia croce’ quella figura, possiamo indicare dov’è
71
Wittgenstein L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., II, § 1028 Cfr. Wittgenstein L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., II, § 382 73 Wollheim introduce la questione in questi termini: «Se vedo x come y, allora c’è sempre una qualche parte (fino all’intero) di x che vedo come y. Inoltre, se affermo di vedere x come y […] devo essere in grado di specificare esattamente quale parte di x, o se non è l’intero di x, che presumo di vedere come y». Cfr. Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 135 74 Wittgenstein L., Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., II, § 474 75 «Nel mutamento d’aspetto avviene una completa riconfigurazione di qualcosa che ‘incomprensibilmente’ vedo che non è affatto cambiato. Qui paradossalmente, è l’intera figura che vedo in modo differente e tuttavia vedo anche che è rimasta identica». Cfr. Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 62: 72
che vediamo una croce nera su sfondo bianco (o viceversa) 76. Dunque possiamo localizzare la nostra percezione, e indicare dov’è che avviene il cambiamento percettivo. Secondo Wittgenstein, ciò non avviene nei casi di vedere-come: qui, infatti, la riconfigurazione avviene in maniera integrale. Nemmeno per quanto riguarda il terzo requisito che viene negato al vedere-come, cioè la ‘duplicità’, Wollheim sembra rispettare integralmente il dettato wittgensteiniano. Wollheim, infatti, prova ad escludere la duplicità del vedere-come, ricorrendo a quelli che chiama ‘aspetti di sostegno’. In altri termini, «se vedo x come y, ci saranno certi aspetti di x che mi permettono di vederlo, o di spiegare il mio vederlo, come y» e dunque «non posso simultaneamente vedere x come y ed essere visivamente consapevole degli aspetti di x che sono a sostegno di questa percezione. Per diventare visivamente consapevole di questi aspetti devo commutare l’attenzione» 77. Così facendo, Wollheim collega l’assenza di duplicità all’interno del vedere-come con il secondo requisito, la localizzazione. Ma, se ogni volta dobbiamo poter indicare dov’è che, nell’immagine, è avvenuto il cambiamento, allora non potremo essere, allo stesso tempo, anche ‘visivamente coscienti’ del contenuto della rappresentazione, ma dovremmo cambiare la “direzione” della nostra attenzione. Quindi, nella lettura wollheimiana di Wittgenstein, il requisito della localizzazione che egli ascrive al vedere-come si trasforma “automaticamente” nel divieto di poter sostenere, allo stesso tempo, i due aspetti (configurativo e riconoscitivo) di un’unica esperienza percettiva (la twofoldness). Ma il vedere-come sfugge al necessità di dover mostrare, ogni volta, in quale parte dell’immagine è avvenuto il cambiamento, perché la riconfigurazione di un’immagine avviene nella sua interezza. Dunque anche la mancanza di una twofoldness viene a cadere. E infatti: «(Per comunicare l’aspetto C indicheremo dunque una parte della figura della doppia croce. – Non sarebbe possibile descrivere in maniera analoga l’aspetto L e l’aspetto A.)» Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, pp. 272-273 77 Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 136 76
Inoltre, non si vede perché il vedere-come non possa condividere con il vedere-in la twofoldness intesa come rapporto tra momento configurativo e momento riconoscitivo: «è nell’immagine, infatti, che abbiamo un incrociarsi di occhio e sguardo, una twofoldness come rapporto tra la dimensione sensibile dell’immagine e ciò che ne emerge, facendola essere l’immagine che è»78. Per Wollheim il vedere-come sembra essere «una forma di interesse visivo, o di curiosità, per un oggetto presente ai sensi. Questa curiosità può assumere la forma di un interesse per il modo in cui l’oggetto è, o potrebbe essere, o potrebbe essere stato»79. Per giustificare quest’idea egli fa riferimento a una considerazione originariamente kantiana, secondo cui «ogni volta che percepisco semplicemente qualcosa che ex hypothesi è presente ai sensi, la mia percezione di esso è mediata da un concetto, ovvero nel percepirlo lo sussumo sotto un concetto. Per qualsiasi x, ogni volta che percepisco x c’è sempre qualche f tale per cui percepisco x come f»80. Così facendo, però, Wollheim ha ben presente che si finirebbe per sostenere l’idea di
una «percezione come ipotesi» 81, mentre – e qui concorda con
Wittgenstein – «quando vedo x come f, f permea o si mescola nella percezione: il concetto non resta all’esterno della percezione esprimendo un’opinione o una congettura da parte mia su x che la percezione per così dire supporterebbe fino a questo o a quel grado» 82. Tuttavia, al di là di questo punto condiviso da entrambi, Wollheim ritiene che il vedere-come sia un vedere omogeneo alla percezione, “aumentato” da un apporto immaginativo che lo distinguerebbe, così, dalla semplice percezione diretta 83. Dunque, se il vedere-come è
Marchetti L., Il corpo dell’immagine, cit., p. 72 Wollheim R., L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 143 80 Ivi, p. 141 81 Ibidem. Un’idea, specifica Wollheim, «diffusa tra gli psicologi della percezione» secondo cui il vedere x come f sarebbe la semplice congiunzione del vedere x e del giudicare che esso è f. 82 Ivi, p. 142. 83 Tra l’altro Wollheim segnala che «un’ulteriore complessità» è fornita dal modo in cui, nel vedere-come, «il concetto si addensa o è assunto nella percezione». Così per Wollheim, in certi casi, il ‘-come’ del vedere-come 78 79
«direttamente correlato» alla capacità di percepire cose presenti ai sensi, «ed è di fatto una parte essenziale di essa», necessariamente mancherà di quello ‘scarto’ rispetto al vedere diretto
che, per Wollheim, deve contraddistinguere il ‘vedere appropriato alle
rappresentazioni’. Al contrario, il vedere-in «deriva da una speciale capacità percettiva, che presuppone la percezione semplice ma è qualcosa che si aggiunge ad essa». E continua: è la «coltivazione di un tipo speciale di esperienza visiva che si tiene ben salda a certi oggetti nell’ambiente circostante che fungono da suo supporto»84. L’esigenza propria di Wollheim di sottolineare la differenza tra ‘vedere-in’ e ‘percezione diretta’ lo porta non solo alla ricerca di un differente genere percettivo, ma, anche e soprattutto, al tentativo di ridurre le condizioni di possibilità della rappresentazione a condizioni biologicamente fondate. Quest’esigenza porta Wollheim a sostenere un’idea di vedere-come appiattito e reso omogeneo alla percezione diretta, e dunque a non comprendere l’istanza wittgensteiniana di mostrare il rapporto paradossale che il ‘vedere-come’ intrattiene con la ‘percezione diretta’. È plausibile allora pensare che la sua linea argomentativa «si regga su un’incomprensione di fondo della natura del vedere-come di Wittgenstein. Pensare infatti che l’intervento dell’immaginazione serva a giustificare un ampliamento – e una discontinuità – delle capacità percettive, significa confermare ancora una volta la tesi di un vedere-come ‘del tutto’ continuo alla percezione diretta» 85.
La teoria del vedere-in di Wollheim vuole innanzitutto render ragione della figuratività di una rappresentazione: ogni volta che abbiamo un’esperienza di vedere-in qualcosa di “figurativo” viene visto apparire entro qualcos’altro. Infatti, per Wollheim, il vedere-in è si approssima a un “come se fosse”, come quando sperimentiamo su un oggetto una parvenza che esso non possiede (come una barba su un volto). Cfr. Ivi, p. 143 84 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 144 85 L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit., p. 46
condizione non solo necessaria ma anche sufficiente di raffigurazione, laddove invece esso è solo condizione necessaria (ma non sufficiente) di rappresentazione. Il fatto che noi vediamo un animale nelle nuvole, non significa che esse siano una rappresentazione di quell’animale. Affinchè si dia rappresentazione è essenziale il ricorso ad uno ‘standard di correttezza’ che rinvia all’intenzionalità dell’autore e che vincola l’esperienza percettiva dello spettatore in modo tale da farla essere l’esperienza di vedere-in corretta. Si è visto anche che Wollheim sostiene una teoria della rappresentazione in grado di funzionare senza un ricorso sostanziale all’immaginazione e, soprattutto, in grado di spiegare la figuratività della rappresentazione senza ricorrere ad alcun tipo di somiglianza oggettiva. Così, secondo Wollheim «il fatto che di fronte a certi oggetti noi sviluppiamo un’esperienza di vedere-in non va ulteriormente giustificato. In particolare, va dismessa l’idea che tali oggetti suscitino quell’esperienza perché in qualche modo somigliano (nel senso di una qualche somiglianza oggettiva) ai soggetti visti in essi»86. Sotto quest’aspetto, la sua teoria è stata accusata di aver fallito nello spiegare, di conseguenza, in che cosa l’esperienza del vedere-in effettivamente consista87. In particolare, Wollheim non avrebbe specificato come sia possibile che due aspetti diversi nel loro contenuto – l’aspetto configurativo e quello riconoscitivo - possano far parte di un’unica esperienza fenomenologicamente unitaria. Come si è visto, entrambi gli aspetti fanno parte di un’ unica esperienza visiva, e ciò è vero in particolar modo se consideriamo l’esperienza della twofoldness come percezione dello spazio materiale, del medium, e dello spazio pittorico, del soggetto visto in esso. In quest’ultimo, come ci segnala Wollheim, possiamo organizzare relazioni di ‘figura-sfondo’ e fare attribuzioni rappresentazionali, riferendoci
86
A. Voltolini, Immagine, cit., p. 58 Per una panoramica aggiornata delle critiche alla teoria di Wollheim, rimando sempre ad A. Voltolini, Immagine, cit., pp. 50-60 87
tanto alle caratteristiche del medium quanto a quelle del soggetto. Tuttavia, senza spiegare il rapporto tra questi due aspetti del vedere-in, non si capisce come, data la percezione del medium di un’immagine (aspetto configurativo), si abbia l’esperienza visiva di un certo soggetto in essa (aspetto riconoscitivo). Per dirla con Voltolini, «il rischio è quello di esser costretti a dire che, se quest’ultimo momento ha un carattere percettivo, tale carattere è quello di un’allucinazione percettiva, cioè di quelle esperienze che si hanno in totale assenza del loro soggetto»88. Questo problema sorge soprattutto all’interno di una teoria della rappresentazione che, come quella wollheimiana, vuole essere allo stesso tempo percettiva e priva dell’apporto immaginativo. Infatti, se non si giustifica il modo in cui i due aspetti della twofoldness si trovano in relazione tra di loro, non si capisce come l’esperienza di vedere-in possa essere un’esperienza percettiva, piuttosto che un’esperienza solamente sui generis. Un indicazione in tal senso è fornita dallo stesso Wollheim quando, nelle ultime pagine del saggio Vedere-come, vedere-in e rappresentazione pittorica, ribadisce ancora una volta la natura ottica, visiva, del vedere-in. Egli scrive che esso è «la coltivazione di un tipo speciale di esperienza visiva, che si tiene ben salda a certi oggetti nell’ambiente circostante che fungono da suo supporto». Questa particolare esperienza visiva ha la caratteristica di essere «dissociata» relativamente alla «consapevolezza visiva di ciò che la supporta», così che, quando ciò avviene, possiamo percepire cose che, letteralmente, non ci sono (stati d’animo, ma anche cose che propriamente non esistono). Wollheim ci tiene a precisare che questa ‘dissociazione’ è relativa, ed è proprio per questo che l’autore della rappresentazione «sfrutta la duplicità per istituire analogie e corrispondenze tra il medium e l’oggetto della rappresentazione». Se la dissociazione dell’esperienza di vedere-in fosse “assoluta”, noi potremmo arbitrariamente e senza alcun limite vedere cose che non saremmo – a livello
88
Ivi, p. 60
percettivo – autorizzati a vedere: in questo caso infatti le due esperienze visive (l’aspetto configurativo e quello riconoscitivo) fluttuerebbero «meramente l’una sull’altra». Al contrario, la dissociazione relativa all’esperienza del vedere-in fa sì che l’autore della rappresentazione possa sfruttare la twofoldness per ricercare «costantemente un rapporto sempre più intimo tra le due esperienze». Così, egli «deve fare in modo che un’esperienza abbia rispondenza nell’altra» 89. E tuttavia Wollheim conclude dicendo: «In che modo descrivere ciò costituisce una sfida all’acume fenomenologico che non so affrontare» 90. In realtà, la possibilità di spiegare in che modo «un’esperienza abbia rispondenza nell’altra» esiste ed è stata suggerita in vario modo da diversi commentatori di Wollheim 91. Ad esempio Robert Hopkins, nel suo saggio Inflected Pictorial Experience, ci segnala che Secondo alcuni, la nostra esperienza di rappresentazioni a volte viene ‘inflessa’ dalla consapevolezza delle proprietà di superficie della rappresentazione stessa. Come risultato, ciò che vediamo in queste rappresentazioni sono cose che non possono essere viste direttamente. Più specificamente, la nostra esperienza di queste rappresentazioni mostra una fenomenologia che si distingue da quella relativa a una qualsiasi esperienza dello stesso soggetto visto in carne e ossa92.
Hopkins riprende la nozione di disegno (design) così come viene formulata da Lopes 93 e ci invita a riconsiderare il vedere-in come un’esperienza percettiva che include la ‘consapevolezza del disegno’ di una rappresentazione. Così, mentre osserviamo una rappresentazione, possiamo essere visivamente consapevoli del disegno delle cose rappresentate in essa – ovvero, possiamo vedere che certe caratteristiche della superficie sono 89
È significativo il fatto che, per Wollheim, sono proprio questi i «piaceri della rappresentazione». In merito si veda R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 141 90 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., pp. 144-145 91 Tra i tanti, mi limito a citare D. Lopes, Sight and Sensibility, Oxford, Clarendon Press, 2005 e M. Podro, Depiction, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1998. 92 R. Hopkins, Inflected Pictorial Experience. Its Treatment and Significance in C. Abell e K. Bantinaki (eds.), Philosophical Perspectives on Depiction, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp.151-180 93 In merito si veda D. Lopes, Sight and Sensibility, Oxford, Clarendon University Press, 2005
responsabili del nostro vedervi, in essa, un contenuto. Secondo Hopkins, questa consapevolezza gioca un ruolo chiave nel trasformare l’altro lato dell’esperienza della rappresentazione, ossia ciò che Wollheim chiama l’aspetto riconoscitivo. In realtà, che il contenuto di una rappresentazione dipenda dalla configurazione della superficie (e, dunque, in un certo senso, dal suo disegno) è vero in un senso molto banale: proprietà di disegno e proprietà di contenuto, infatti, spesso coincidono, come avviene quando – per citare lo stesso Hopkins – «una vestaglia di colore scarlatto viene vista in una parte della tela dipinta che è anch’essa scarlatta»94. Che ci sia una qualche influenza causale esercitata dalla ‘consapevolezza del disegno’ nei confronti dell’esperienza della rappresentazione è necessariamente richiesto, altrimenti non sapremmo come distinguere l’esperienza di vedere-in dalle allucinazioni. Tuttavia, secondo i sostenitori del vedere-in inflesso, a volte ciò che viene visto nella superficie della rappresentazione è qualcosa che possiede proprietà che non possono essere viste direttamente, all’interno cioè
di
un’esperienza percettiva diretta. Queste proprietà – le proprietà inflesse – possono essere pienamente caratterizzate, secondo Hopkins, solamente facendo riferimento al ‘disegno’ della superficie. Così, quando il vedere-in è inflesso, vediamo nella superficie materiale delle proprietà (le proprietà visibili) che possono essere caratterizzate riferendosi alle proprietà di superficie (o proprietà inflesse) che sostengono l’esperienza di vedere-in95. Se siamo disposti a chiamare proprietà di disegno quella particolare sottoclasse delle proprietà di superficie relativa alle sole configurazioni cromatiche ecco che, quando il vedere-in è inflesso, «queste
94
R. Hopkins, Inflected Pictorial Experience, cit., p. 155 Secondo Hopkins, quando ciò avviene «la consapevolezza del disegno non solo ci porta a vedere qualcosa in esso; è proprio questa consapevolezza delle caratteristiche che, parzialmente, costituisce il mondo che vi viene visto. Questo mondo finisce con il possedere quelle proprietà che, in qualche modo, riguardano il disegno stesso». Cfr. R. Hopkins, Inflected Pictorial Experience, cit., p. 158 95
proprietà di disegno sono quelle che influenzano le proprietà con cui il soggetto del quadro è visto nel quadro stesso»96. Così, per seguire Voltolini Il vedere-in inflesso riavvicina gli aspetti esperienziali dell’esperienza duplice
di
vedere-in
in
modo
che
questa
risulti
un’esperienza
fenomenologicamente unitaria. Perché nel caso dell’inflessione è evidente che il contenuto dell’esperienza percettiva indiretta e non letterale, l’esperienza del soggetto, dipende, quanto alle proprietà che costituiscono tale soggetto, dal contenuto della percezione diretta e letterale, la percezione dell’oggetto che fronteggia il percipiente, almeno per quanto riguarda le proprietà di disegno di quest’ultimo oggetto97. In questo senso, un ulteriore passo verso la chiarificazione dei modi della twofoldness viene compiuta da Jerrold Levinson 98. Anch’egli infatti è un sostenitore dell’idea secondo cui si può dare un’esperienza di vedere-in fenomenologicamente unitaria che consista di due aspetti solo se si concepisce il contenuto dell’aspetto configurativo come in qualche modo determinante il contenuto dell’aspetto riconoscitivo 99. Secondo Levinson, quando guardiamo un disegno di una donna, ad esempio La chemise noire di Kees van Dongen, non si percepisce necessariamente un isomorfismo tra l’esperienza del dipinto e l’esperienza di una donna (come voleva Malcolm Budd) né ci si immagina per forza di starla vedendo (come sosteneva invece Kendall Walton) né di averla effettivamente di fronte (secondo l’opzione di Gombrich). Piuttosto «mi sentirei di suggerire che sembra come se stessi guardando una
96
A. Voltolini, Immagine, cit., p. 52. Come esempio, Voltolini cita il quadro di Luigi Carlo La ragazza con l’abbronzatura dorata e dice che «La ragazza nel quadro viene vista come se avesse una pelle lucida e oleosa, e questo dipende dalla distribuzione dei colori a olio visibili nel quadro». Ibidem 97 Ibidem 98 Jerrold Levinson, Wollheim on Pictorial Representation, in R. van Gerwen (ed.), Richard Wollheim on the art of painting, cit., pp. 28-38 99 Levinson è convinto del fatto che il vedere-in venga prima del percepire somiglianze, essendo quest’ultimo qualcosa di «intrinsecamente relazionale e comparativo» E tuttavia aggiunge: «Ciò che c’è di vero è che un certo grado di isomorfismo strutturale tra una rappresentazione e il suo soggetto è richiesto per attivare il vedere-in. Ma anche se fosse, una tale percezione rimane strettamente non necessaria all’occorrere del vederein». Cfr. Jerrold Levinson, Wollheim on Pictorial Representation, cit., pp.28-29
donna (o, alternativamente, come se avessi l’impressione di vederla), e questo in virtù del nostro dedicarci a porzioni della tela. Il nucleo del vedere-in risiede dunque in questo vedere come se, occasionato sia dalla registrazione visiva di una superficie differenziata, sia dalla stretta connessione che essa presenta con questa registrazione»100. Levinson riconsidera l’aspetto riconoscitivo del vedere-in intendendolo nei termini di avere esperienza come di un determinato soggetto. Più precisamente, «si tratta di vedere un determinato oggetto (in tutti i casi di raffigurazione, il veicolo dell’immagine) come il soggetto ‘visto-in’. E tuttavia Wollheim rifiuterebbe questa soluzione perché per lui vedere-in e vedere-come sono due esperienze diverse ed irriducibili. Il vedere-in consiste infatti nell’esperienza di vedere un certo soggetto y in un’immagine x, mentre il vedere-come consiste nell’esperienza di vedere x, lo stesso x, come un altro y. Per dirla con Wollheim: «Vedere x come f è una particolare esperienza visiva di x […] è egualmente una particolare, benché molto differente, esperienza di x»101. E tuttavia non si può notare come sulla questione rimanga un certo grado di ambiguità da parte dello stesso Wollheim, quando dice che «Vedere y in x può basarsi sul vedere x come y, ma non per gli stessi valori della variabile y»102. L’ultima parte della frase è chiara: il soggetto, il contenuto di ciò che viene visto, ha un diverso valore a seconda che faccia parte dell’una o dell’altra modalità percettiva. In quanto «forma di interesse visivo, o di curiosità per un oggetto presente ai sensi» il vedere-come, nell’interpretazione (erronea) di Wollheim, permette una percezione il cui ‘spettro’ di oggetti è assai limitato. È sempre la stessa figura che vediamo ora come qualcosa, ora come qualcos’altro – ma sempre in un modo che è limitato e che «può assumere la forma di un interesse per il modo in cui l’oggetto
100
Ivi, p. 32 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 144 102 R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 146 101
è, o potrebbe essere, o potrebbe essere stato» 103. Al contrario, l’esperienza del vedere-in, grazie alla sua ‘dissociazione relativa’, permette di vedere, senza allontanarsi dalla realtà, tutta l’ampia gamma di ‘oggetti’ che, per Wollheim, costituiscono il ‘repertorio’ significativo della rappresentazione, ciò che essa può esprimere 104. E tuttavia è lo stesso Wollheim, nella prima parte della proposizione citata, a prospettare la possibilità di ‘basare’ il vedere-in sul vedere-come: è opportuno chiedersi, allora, in che modo questa eventualità sia effettivamente percorribile.
In questo senso, un tentativo è stato proposto da Alberto Voltolini, che nel saggio How to reconcile Seeing-as with Seeing-in (with Mimetic Purposes in Mind) offre una soluzione ‘sincretistica’ volta a conciliare le due modalità percettive 105. Secondo Voltolini, il vederecome, se inteso in un certo modo, fornisce una doppia giustificazione al vedere-in, e dunque ne è (doppiamente) alla base. In primo luogo, egli propone di considerare, con Levinson, l’aspetto riconoscitivo del vedere-in nei termini di un vedere-come illusorio106. Quando ciò avviene, si ha l’esperienza di vedere, sulla base di un’illusione consapevole, la ‘figura’ della rappresentazione come il suo soggetto107. Come specifica lo stesso Voltolini, in questo caso vedere x come f non significa che ciò che viene visto-come sia quel soggetto (ciò che egli
Ivi, p. 143. Come si è visto, è proprio questa considerazione che sorregge l’idea wollheimiana secondo cui la gamma degli oggetti che possono essere ‘visti-come’ sia limitata. 104 Può essere utile ricordare qui che Wollheim concorda con il tradizionale requisito che «ciò che è espresso sia invariabilmente un fenomeno mentale o psicologico» R. Wollheim, Painting as an art, cit., p.80 105 A. Voltolini, How to Reconcile Seeing- as with Seeing-In (with Mimetic Purposes in Mind) in G. Currie, P. Kot’atko, M. Pokorny (eds.), Mimesis: Metaphysics, Cognition, Pragmatics, London, College Publications, 2012 106 «Il mio proposito consiste nel caratterizzare l’aspetto vero e proprio del vedere-in nei termini di un’esperienza di vedere-come, un’esperienza in cui, cioè, si vede l’immagine come il suo soggetto. Ad esempio, quando un soggetto percipiente si trova di fronte ad un’immagine di un uomo, più che vedere letteralmente l’immagine, egli propriamente vede l’uomo in quell’immagine, se vede quest’ultima come il suddetto uomo» Cfr. A Voltolini, How to Reconcile Seeing- as with Seeing-In (with Mimetic Purposes in Mind), cit., p. 385 107 Anche Wittgenstein era convinto di una cosa simile quando diceva: «Migliore sarebbe forse stata quest’espressione: Consideriamo la fotografia, il quadro, appesi al muro, come l’oggetto stesso (uomo, paesaggio) che è rappresentato [dargestellt] per mezzo loro». Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., II, p. 270 103
chiama ‘vedere fattivo’): è piuttosto un’esperienza analoga a quella che abbiamo, ad esempio, con la famosa illusione di Muller-Lyer - ossia l’immagine di due segmenti che, pur essendo della stessa lunghezza, non possono essere visti che come aventi due lunghezze diverse. Così, vediamo in maniera illusoria i due segmenti come se fossero di due lunghezze diverse, pur sapendo che, in realtà, essi sono uguali. Allo stesso modo quando l’osservatore si rende conto che, nel guardare una rappresentazione, ne sta percependo la figura, egli realizza anche che, in maniera illusoria (ma consapevole), sta vedendo quella figura come il soggetto della rappresentazione. Per Voltolini, quando diveniamo consapevoli del ‘carattere d’immagine dell’immagine’, ecco che la nostra esperienza delle rappresentazioni subisce un ‘cambio fenomenologico’ e si trova a giocare una partita a metà strada tra consapevolezza e illusione: la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una rappresentazione si “amalgama” con l’illusione (consapevole) che ciò che vediamo è proprio il suo soggetto. Così, quando ciò avviene, succedono tre cose: sulla base di un illusione consapevole riconosciamo (erroneamente) la rappresentazione come il suo soggetto; vediamo (illusoriamente) la rappresentazione come il suo soggetto, mentre, allo stesso tempo, non crediamo più di star vedendo l’oggetto stesso. Alla fine, ciò che vediamo è un soggetto nella figura108.
A questo punto Voltolini si chiede: «Che cosa – nella nostra consapevolezza visiva della figura – ci spinge a riconoscerla, in maniera conscia ma illusoria, come il soggetto in essa rappresentato?»109. Cos’è che “sollecita” la consapevolezza di trovarsi, alla fine, di
108
È importante notare qui che la stessa argomentazione viene usata da Voltolini per risolvere le difficoltà che i trompe-l’oeil e i dipinti iper-realisti costituiscono per la teoria della rappresentazione di Wollheim. In merito si veda A. Voltolini, How to Reconcile Seeing- as with Seeing-In, cit., pp. 391-392. È opportuno anche far notare che, grazie a questa argomentazione, Voltolini può assottigliare la differenza tra i due modi della twofoldness, riducendo anche il valore dell’aspetto riconoscitivo: infatti, se guardiamo la figura di una rappresentazione come dotata di un certo valore rappresentazionale (aspetto configurativo), non possiamo non vederla come il suo soggetto (aspetto riconoscitivo). È in questo senso che la rappresentazione richiede i due modi della twofoldness, ma, come ci fa notare Voltolini «le due esperienze, in verità, coincidono». Ivi, p. 388 109 Ivi, p. 394
fronte a una rappresentazione, dunque di fronte a qualcosa di “illusorio”? Nel caso dell’illusione dei due segmenti ciò che stimolava una tale consapevolezza era un fattore cognitivo: sappiamo che quei due segmenti sono diversi eppure non possiamo fare a meno di vederli come uguali. Secondo Voltolini invece nel caso delle rappresentazioni un tale stimolo non può che essere un fattore visivo, ossia la consapevolezza (visiva) di trovarsi di fronte a una rappresentazione. Si tratta allora di capire il vero rapporto tra i due modi della twofoldness, ossia di spiegare come sia possibile che, a fronte della percezione dell’oggetto materiale, della superficie di rappresentazione, si abbia la percezione di un certo soggetto, di un contenuto. Come sappiamo, i due aspetti della twofoldness si trovano già in una qualche relazione tra loro: come Wollheim sottolinea più volte, è in virtù del nostro vedere letteralmente
il
mezzo
della
rappresentazione
che
è
possibile
vedere,
seppur
metaforicamente, un soggetto in essa. Voltolini suggerisce che «nel suo vedere letteralmente [il mezzo della rappresentazione] l’osservatore afferra quelle proprietà percettive oggettive che la figura condivide, in maniera approssimativa, con il suo soggetto. Attraverso queste proprietà, colte nella percezione diretta e letterale della rappresentazione, è possibile vedere indirettamente il suo soggetto, dal momento che quest’ultimo possiede, grosso modo, le sue stesse proprietà»110. Secondo Voltolini, queste sono proprietà gestaltiche o, come le chiama, proprietà di raggruppamento. Così, un’immagine può avere diverse proprietà di raggruppamento e, dunque, diversi modi in cui può essere organizzata. È per questo che, tornando al famoso esempio dell’anatra-lepre usato da Wittgenstein, la stessa figura può essere la rappresentazione ora di un’anatra ora di una lepre. Le proprietà di raggruppamento rimandano al diverso modo in cui gli elementi di una figura possono essere organizzati. Così «molte immagini, in realtà, possiedono unicamente un solo tipo rilevante
110
Ivi, p. 396
di queste
proprietà»111, come quelle figure-rebus di cui parla Wittgenstein in cui «dove prima c’erano rami ora c’è una forma umana». Altre volte invece le immagini sono ambigue, così che si possono dare diversi modi di configurazione di uno stesso materiale sensibile. E tuttavia «le immagini non permettono tutti i raggruppamenti possibili in linea di principio, il che spiega perché nella figura anatra-lepre possiamo vedere tanto un’anatra quanto una lepre, ma non un elefante»112. Voltolini specifica poi che queste proprietà di raggruppamento sono percettive (cioè, dipendenti dall’orientamento) e oggettive (o, come meglio specifica, indipendenti dall’osservatore). In questo senso, se esistono diversi orientamenti possibili per gli elementi di una figura sistemati secondo una certa disposizione, tale ‘assetto’ avrà differenti proprietà di raggruppamento e, dunque, diversi modi di organizzazione. Allo stesso modo, Voltolini argomenta a favore dell’oggettività di tali proprietà escludendo che esse siano proprietà prospettiche e suggerendo che esse siano proprie di uno spazio oggettivo, piuttosto che di uno spazio egocentrico. Così, egli può concludere che tale ‘raggruppamento’ «è anch’esso una forma di vedere-come. Un osservatore vede gli elementi di un certo assetto come raggruppati in un certo modo; ma può anche, a volte, (sempre?) vedere gli stessi elementi come raggruppati in un altro, o in un altro modo ancora. Chiamo questa forma […] vedere-come organizzativo»113.
Così, secondo Voltolini, il vedere-come illusorio si basa sul vedere-come organizzativo, ed entrambi si trovano a duplice fondamento dell’esperienza di vedere-in. Vediamo (in maniera illusoria ma consapevole) una figura come il suo soggetto (vedere-come illusorio)
111
Ivi, p. 397 Ivi, p. 398 113 Ivi, p. 400. È importante notare che, come segnala Voltolini, è lo stesso Wittgenstein, in un certo senso, a legittimare questa ‘rimodulazione’ del vedere-come: esso fu infatti il primo a notare che «il vedere-come è disponibile in molte varietà che, in un certo senso, sono simili, ma che possono anche finire per essere considerate come nozioni distinte, sebbene reciprocamente collegate» Cfr. Ibidem 112
solo se vediamo gli elementi di tale figura come raggruppati in un modo, piuttosto che in un altro (vedere-come organizzativo). E conclude dicendo che, se siamo disposti a riconsiderare il vedere-in nei termini appena esposti, allora «ne segue un ulteriore risultato interessante: [un certo grado di] somiglianza oggettiva, o mimesi, all’interno delle proprietà di raggruppamento tra la figura e il suo soggetto è condizione necessaria di pittoricità, di ciò che rende pittorica una rappresentazione, e quindi, alla fine, è una condizione necessaria di rappresentazione». Sembrerebbe quindi che «la più vecchia nonché la più intuitiva delle teorie della rappresentazione […] venga in qualche modo vendicata» 114. Come Wollheim ben sapeva, la teoria della somiglianza oggettiva presentava tratti problematici e, sicuramente, non era adeguata a spiegare la natura e il funzionamento di una rappresentazione 115. Già Nelson Goodman aveva notato come «l’appello alla somiglianza, in materia di rappresentazioni, fosse privo di sostanza: sotto qualche aspetto, infatti, tutto può rassomigliarsi»116. In questo senso, lo stesso Goodman era scettico riguardo alla possibilità di trovare quel preciso ‘aspetto’ sotto cui intendere, in maniera universale e applicabile per tutte le rappresentazioni, tale relazione di somiglianza 117. Voltolini, al contrario di Hopkins, ritiene che tale aspetto esista e debba venir trovato in quelle proprietà di raggruppamento sopramenzionate. Infatti, nel momento in cui intendiamo questa relazione «come una somiglianza oggettiva tra la figura e il suo soggetto all’interno delle proprietà di raggruppamento», ecco che la mimesi «è vendicata». Così, può concludere che un certo grado di somiglianza oggettiva tra la figura e il suo soggetto è richiesto affinchè si dia rappresentazione. L’idea di Voltolini è suggestiva ed efficace, e, con ottime probabilità, 114
Per una panoramica sui vari modi di declinarsi della teoria della mimesis, insieme alle obiezioni e risposte sollevate dai vari critici, rinvio sempre ad A. Voltolini, Immagine, cit. 115 A tal proposito si veda R. Wollheim and R. Hopkins, What makes representational painting truly visual?, in «British Journal of Aesthetics» Vol.44, N°3, July 2004 e R. Wollheim, On Pictorial Representation, cit. 116 A. Voltolini, How to Reconcile Seeing-as with Seeing-in, cit., p. 402. Corsivo mio. 117 Hopkins era spinto a tale concezione anche a fronte dei vari sforzi che erano stati fatti nel tentativo di trovare un tale criterio. Cfr. A Voltolini, Immagine, pp. 26-38.
anche giusta. Al di là delle varie costruzioni teoriche, il suo tentativo di conciliare le due modalità percettive riposa su una considerazione di ordine ‘naturale’ relativamente evidente: possiamo vedere un soggetto entro una figura (Vedere-in) solamente se siamo disposti a prendere quella figura, quella stessa figura, come (la rappresentazione de) il suo soggetto (Vedere-come)118. Tuttavia, è probabile ritenere che Wollheim non avrebbe seguito Voltolini fino a questo punto: egli era davvero convinto che ‘vedere-in’ e ‘vedere-come’ fossero due generi percettivi diversi e irriducibili, capaci di dare adito a progetti percettivi differenti. È proprio per questo che, pochi anni dopo aver seguito Wittgenstein, egli se ne distacca per elaborare la teoria del vedere-in. E tuttavia, per le ragioni che abbiamo altresì indicato, non è possibile condividere la sua lettura di Wittgenstein: per dirla con Marchetti, sembra infatti che «la sua linea argomentativa si regga su un’incomprensione di fondo della natura del vedere-come»119. Posto questo fraintendimento da parte di Wollheim, rimane allora il dubbio sul modo in cui egli avrebbe potuto pensare quella possibilità propria del vedere-in di basarsi sul vedere-come a cui egli stesso accennava. Alla fine è lo stesso Wollheim, nelle ultime battute del saggio Vedere-come, vedere-in e rappresentazione pittorica, ad essere cosciente di quest’ambiguità di fondo: «Questo saggio lascia in sospeso alcune questioni che indicherò […] Come si dividono il campo, nella percezione in generale e nella percezione delle arti visive in particolare, vedere-come e vedere-in? La risposta non sembra certo essere che si
118
Una questione che non viene sollevata in questo lavoro è quella che riguarda il modo in cui intendere la relazione di somiglianza oggettiva all’interno di proprietà di raggruppamento tra la figura e il suo soggetto in quelli che Wollheim chiama ‘dipinti astratti rappresentazionali’. Andrebbe dunque verificato se tale modo di intendere la mimesi può funzionare anche per certa arte astratta, o se invece quest’ultima non debba essere considerata piuttosto come non-rappresentazionale. 119 L. Marchetti, Il corpo dell’immagine, cit.,p. 46
dividono il campo secondo i generi di oggetti percepiti […] Più difficile è la questione se ci siano percezioni che prendono parte sia al vedere-in sia al vedere-come»120.
R. Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, cit., p. 145. In questo senso, credo che un’indicazione sostanziale provenga da Levinson, quando egli invita a riconsiderare l’assunto wollheimiano secondo cui il vedere-in «sia di natura uniforme». Cfr. J. Levinson, Wollheim on Pictorial Representation, cit., p. 35 120