Narrare di te, di me, di noi

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___________________________________ Per lungo tempo abbiamo pensato che le parole rappresentassero il mondo, oggi sappiamo che esse lo costruiscono. L. Wittgenstein


RETE DI SCUOLE ITINERARI DI EDUCAZIONE CIVILE E RESPONSABILE

Nel novembre del 2017 diverse scuole delle province di Chieti e Pescara hanno deciso di riunirsi in rete per proseguire al meglio l’impegno profuso da anni nel campo dell’educazione civile. È nata così la Rete di scuole “Itinerari di Educazione Civile e Responsabile”, in partenariato con Libera formazione. Obiettivi della rete sono: Fare proprie nella pratica quotidiana le finalità proprie dell’Associazione Libera. Condividere esperienze formative di educazione civile per attuare una riflessione comune sui processi educativi di contrasto civile alle mafie, alla corruzione e all’illegalità diffuse. Costruire dispositivi pedagogici e sperimentare nuovi metodi nel campo dell’educazione civile, insieme all’Associazione Libera settore formazione. Promuovere il protagonismo dei giovani mettendo al centro del lavoro formativo le buone pratiche di educazione civile, con il ricorso preferenziale ai linguaggi creativi. Promuovere la cultura della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, valorizzando la giornata del 21 marzo, in collaborazione con il presidio Libera del territorio. Creare le basi, partendo dalla scuola, per “fare comunità”. Realizzare l’autonomia in modo solidale, allo scopo di costruire un impegno comune per la giustizia, la legalità democratica e lo sviluppo del territorio. Prevenire e contrastare la dispersione scolastica, le forme di disagio e di violenza giovanile.


Le scuole della rete si impegnano quindi a: Aderire alle finalità di Libera e curare in collaborazione con l’Associazione la formazione dei docenti delle scuole della rete e il monitoraggio dei percorsi di educazione civile. Definire le unità formative sui percorsi di educazione civile elaborati dalla rete per valorizzare la professionalità dei docenti. Condividere la progettazione dei percorsi di educazione civile e collaborare alla pratica attuazione della progettualità della rete. Diffondere e disseminare all’interno dell’istituzione scolastica le pratiche di educazione civile concordate.

Attualmente fanno parte della Rete di scuole “Itinerari di Educazione Civile e Responsabile”: Scuole annesse al Convitto Nazionale “G.B. Vico” - Chieti (scuola capofila) Istituto comprensivo 2 - Chieti Istituto comprensivo 3 - Chieti Istituto comprensivo 4 - Chieti Istituto comprensivo di San Giovanni Teatino Istituto comprensivo di Bucchianico Istituto comprensivo di Fara Filiorum Petri Istituto comprensivo “F. Masci” di Francavilla al Mare Istituto di Istruzione Superiore “U. Pomilio” - Chieti Istituto di Istruzione Superiore “L. Di Savoia” - Chieti Istituto di Istruzione Superiore “A. Volta” - Francavilla/Ortona Liceo Scientifico “F. Masci” - Chieti Istituto Omnicomprensivo “Spaventa” di Città Sant’Angelo


PREFAZIONE di Michele Gagliardo - Tito Viola Perdere il legame con il proprio passato, significa faticare nella costruzione di un’ipotesi possibile di futuro. Perché ciascuno è la memoria che riesce a mantenere prossima. I desideri, le attese, lo slancio promettente verso il futuro si alimentano primariamente del passato, delle cose che sono state e di quelle che sono oltre le nostre storie. Nella memoria vi è la nostra identità e nella narrazione, la sua espressione. Dire di sé, esprimere il proprio essere ed affermare così la propria esistenza significativa, sono tra i bisogni fondamentali di ogni essere umano. Tenere insieme memoria e narrazione, permette, di riconnetterci con la storia del nostro Paese, trovare le nostre radici ed affermare la propria identità sociale In questo orizzonte la memoria delle vittime innocenti delle mafie è narrazione del presente, invasiva, contaminante, generatrice di saperi e di impegno, si muove all’opposto di certa polverosità ipocrita e finta che ridonda sempre più spesso nel dichiarare l’affermazione di un’etica e poi negarla nei comportamenti. Se è vero che le parole costruiscono il mondo, come afferma L. Wittgenestein, Libera di queste parole vuole essere portatrice anche accompagnando i docenti e le scuole nel percorso di costruzione delle memorie. La città di Chieti ha una sostanziale tradizione educativa consolidata negli anni nell’affrontare le tematiche legate alle mafie ed insieme all’esercizio dei diritti di cittadinanza, scommettendo con noi sui giovani e sui ragazzi, sulla sedimentazione di conoscenze e valori spendibili per l’intero arco della vita ad iniziare dalle attività a scuola. Nel percorso di collaborazione con la Rete di Scuole “Itinerari di Educazione Civile e Responsabile”, sottolineato da uno specifico protocollo di intesa con Libera, questo book raccoglie le narrazioni delle vittime innocenti delle mafie da parte dei ragazzi, coinvolti dai loro insegnanti in una importante e significativa azione didattica partita dalla formazione “Narrare di te, di me, di noi” e realizzata nell’anno scolastico 2017-2018. La varietà di stili narranti, i tanti punti di vista originali e vivi che i testi e le immagini presentano, le passioni e le


riflessioni che essi esprimono, sono sicuramente il segno tangibile di un importante lavoro condiviso tra gli insegnanti ed i loro alunni, nel quale si sono messi in gioco prima di ogni altra cosa valori ed emozioni, senza i quali ogni processo di apprendimento rischia di essere monco, con particolare cura dei sentimenti civili. C’è infatti, nei lavori narranti, da un lato un attenta relazione di vicinanza con le persone vittime innocenti che le scuole hanno adottato per sperimentare la narrazione, dall’altra una portata evidente a lasciar scorrere i “sensi civili”: la giustizia, la compassione, l’indignazione, la speranza, solo per citarne alcuni. L’augurio è che le tracce che sono contenute in questo book generino in modo sempre più consapevole occhi nuovi per guardare il mondo, e che restino come enzima reattivo nella costruzione delle grandi narrazioni delle proprie vite.


NARRAZIONI In questa sezione sono raccolte le narrazioni dei ragazzi.


SANGUE INNOCENTE Conoscevo molto bene Matteo, un uomo buono, semplice, un po’ solitario. Quella sera non ero proprio in forma, ero afflitto da un gran mal di testa ma mi ricordai che il mio amico Matteo avrebbe festeggiato il suo onomastico nel bar dove lavoro, il bar Elia in via Giuseppe Fania, nella zona periferica di Foggia. Non potevo mancare! Matteo era andato in pensione da poco ed era solito frequentare tutte le mattine il bar Elia per fare colazione, così era nata una bella amicizia. Eravamo tutti e due grandi tifosi del Milan e la sera del suo onomastico eravamo lì a guardare la partita della nostra squadra del cuore e a gustare una birra allegramente con gli amici, per brindare alla salute di Matteo. La partita era iniziata da un pezzo quando si udì il rombo di una moto di grossa cilindrata. Subito dopo entrarono due persone vestite di nero con il volto coperto dal casco, imbracciavano due kalashnikov. Spararono all’impazzata, senza pietà, ad altezza d’uomo. Ero confuso, non avevo la più pallida idea di cosa stesse accadendo: gente che scappava, urlava, cercava di ripararsi come poteva. Mi girai e vidi il mio amico Mario Volpe, steso a terra, ferito ad un braccio. Cercai con gli occhi Matteo, si trovava nella traiettoria dei proiettili, lo vidi cadere a terra in un lago di sangue, lo raggiunsi, mi chinai su di lui, ebbe solo il tempo di sussurrare “aiuto”, con una voce flebile. L’atmosfera era da Far West. Subito dopo arrivò la polizia seguita dall’ambulanza. Guardai Matteo e capii con una fitta al cuore che il mio amico non si sarebbe più rialzato. Non avrei preparato più il caffè al mio amico, non avremmo più guardato insieme le partite della nostra squadra del cuore, non avrei più sentito le sue confidenze, le preoccupazioni per la salute dell’anziana madre con cui viveva. Non mi consolarono le parole dell’investigatore che mi spiegò che non era Matteo il bersaglio bensì Salvatore Prencipe, un elemento di spicco della mafia foggiana che aveva preso da poco a frequentare il nostro bar. Matteo era morto mentre lui se l’era cavata con una leggera ferita. La cosa più difficile fu dire alla madre che Matteo non sarebbe più tornato a casa. Di lui mi resta una foto appesa al bar e quando qualcuno mi chiede chi è io rispondo: era Matteo Di Candia, un uomo buono, un innocente, vittima


di un destino ingiusto. Sento di avere un compito: narrare la sua storia. Ho scritto una poesia per lui: Matteo non c’è Vorrei fare 100 cose ma non so da dove cominciare. Ti voglio ricordare Matteo. Tu volevi solo festeggiare ma la mafia ha iniziato a sparare. L’ambulanza è arrivata ma non c’è niente da fare, ti lascerò il mio amore, ti porterò nel cuore. Istituto Comprensivo n. 2 di Chieti


LA CICATRICE - Mi dia un caffè.Il cliente che stava appoggiato al bancone del bar era un tipo inquietante, con la barba incolta e uno sguardo cupo e minaccioso. Michele Fazio, il giovane barista, si accinse ad esaudire la richiesta dell’uomo. “Che brutto ceffo” pensò “speriamo che se ne vada subito.” -Ecco il suo caffè- il ragazzo lo servì e si girò a sistemare -Fai presto ragazzino, ho un affare da sbrigare.-Una cosa importante?-Fai troppe domande...- Le ultime stoviglie, Michele continuò a osservare quel tipo ambiguo, dallo specchio appeso al muro. “Certo che ce n’è di gente strana. Guarda quella cicatrice che ha sulla faccia.” Improvvisamente si sentì lo squillo di un telefono. L’uomo rispose e disse soltanto : -Sì, arrivo- poi, con un sol sorso, tracannò il caffè e, i soldi sul bancone, uscì. Michele gli lanciò un’ultima occhiata di nascosto, poi guardò l’orologio: le cinque. Il suo turno era finito, era ora di andare. Si tolse velocemente il grembiule, salutò il suo titolare e andò via. Una leggera brezza gli accarezzò il viso e accompagnò i suoi pensieri lungo la strada di casa. “Chissà se riuscirò a entrare nell’arma dei Carabinieri” pensò. “Mi sto preparando tanto per passare il concorso. Ho ancora due anni per finire la scuola e prepararmi adeguatamente. Noteranno i miei piedi piatti?” girò l’angolo. “Devo ancora cambiare l’olio dei freni al motorino: è una settimana che cerco di farlo. Purtroppo stavolta devo farlo da solo: l’officina di Tonino ha preso fuoco.” Gli tornarono in mente le parole del padre… “Ha preso fuoco o le hanno messo fuoco?” Il suo meccanico, a quanto pareva, si era rifiutato di pagare ancora il pizzo alla Sacra Corona Unita, e non era la prima volta che i mafiosi si vendicavano in quel modo. “Speriamo che mamma mi abbia fatto il calzone pugliese”.


Il vento aveva smesso di soffiare e il caldo asfissiante della mattina era ripiombato sulla città. Bagnato dal sudore, saliva le scalette di piazza San Nicola, mentre col pensiero tornava a Tonino “Tra cinque anni ci penserò io a sistemare le cose. Nessuno dovrà più temere di vivere nella legalità”. Sentì uno sparo. “Ma che succede? Chi sono quelli? Cosa vogliono? Quella cicatrice non l’ho già vista?” Liceo classico Chieti Classi 3ª C e 4ª C


IL RAPIMENTO DEL PICCOLO NICITRA 31 dì dalla tua scomparsa e la triste novella è ora apparsa. Tu, rapito dalla banda o meglio dire dalla “lupara bianca”. Eri appena uscito dalla tua dimora increduli che non saresti più tornato. Tu, che facevi compere col tuo amato zio con lui ti abbiamo dato l’ultimo addio. Tua madre con il cuore a pezzi non ritrovando i tuoi cari resti l’unica cosa che riusciva a fare è stato gridare : “Fatelo tornare”. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 I Sara Pagliarella


DOMENICO NICITRA Mi ricordo di quel giorno fatale Dove nel centro di Roma due persone dovemmo salutare. Figlio del boss della Magliana Totò ed Andreina Croce che voleva vedere il suo bel figlio tornare. Di undici anni il ragazzo Domenico, un uomo adulto suo zio Francesco. In circostanze sospette son stati rapiti, che neanche la polizia sa dove son finiti. Un motorino per strada abbandonato, nessuna persona ha guardato. Alla lupara bianca si pensa, mentre la polizia ha lavorato con sorveglianza intensa. A casa son tutti preoccupati, mentre Totò è in carcere fra gli arrestati. In questura si discute su cosa fare, che manco sanno che pesci pigliare. Andreina fece un appello l’anno successivo dicendo “Lasciatelo, è solo un bambino”. Continua instancabilmente l’indagine, e intanto che passano gli anni,


ne hanno scritte di pagine.

Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 I Matteo Boncio


LA MITICA RENATA FONTE Renata Fonte porto Selvaggio ha salvato e la cementificazione ha evitato. Tanta gioia ha portato e una bella natura ci ha lasciato. Per noi si è sacrificata ed è stata una donna molto amata. Un fiore le hanno dedicato, che a Porto Selvaggio è ancora ammirato. Anche una targa le hanno donato per il bene che ci ha regalato. Cementificazione impedita, ma sangue versato da una povera vita. Se a Porto Selvaggio volete andare Renata Fonte dovete ringraziare! Classe V Scuola Primaria di Villamagna Istituto Comprensivo di Bucchianico


CI SONO ANCORA! Ciao a tutti, io sono Porto Selvaggio e sono un parco regionale. Mi trovo a Nardò, in provincia di Lecce. Io, oltre ad essere il più bello, sono anche il più pulito d’Italia!! Le mie acque sono cristalline, così il mio mare è fra i più puliti. La mia spiaggia è fra le dieci più belle della nazione e si chiama Baia Porto Selvaggio: quasi come me! Gli scogli e i sassi vi invitano a venire a osservarmi, a conoscermi! La mia costa è incontaminata, la mia spiaggia è ricca di piccole insenature e grotte carsiche! Nel mese di agosto, soprattutto, sono pieno e quindi penserete che ci sia confusione, ma non preoccupatevi, il su no leggero del canto delle cicale, rigenererà il vostro corpo e la vostra mente, così proverete tranquillità assoluta! Alcuni turisti vengono per le mie stupende acque, altri per fare una scampagnata nel bosco, altri per la fauna e tanti altri per tuffarsi dai miei alti scogli. Ho anche dei trulli, in cui, i contadini riponevano gli attrezzi agricoli. Nella zona boschiva troverete: pini, ginepri, acacie, timo, salvia e molte altre specie mediterranee. C’è uno splendido panorama marino; a questo proposito, vorrei dirvi che ci sono meravigliose specie di flora e fauna marina. Ora non sarei vivo se Renata Fonte avesse deciso di non proteggermi dalla cementificazione, da una devastante speculazione edilizia. Lei lo ha fatto, lei mi ha protetto, lei è morta per me, perché aveva scoperto illeciti ambientali e i primi metodi mafiosi che stavano attaccando il Salento. La notte fra il 31 marzo e il primo aprile del 1984, mentre rientrava a casa dopo un consiglio comunale, fu assassinata con tre colpi di pistola da due sicari mafiosi. Una donna che ha dato la sua vita per tutelare la sua terra. È stata una donna onesta,coraggiosa, meravigliosa e di buon cuore come le sue due figlie: Viviana e Sabrina che lottano ancora oggi contro la mafia.


Per ricordarla, un’orchidea porta il suo nome e una targa dà testimonianza della sua vita esemplare. Se non fosse stato per lei, ora io sarei morto e al mio posto ci sarebbero hotel e costruzioni urbane. Grazie Renata!!

Classe v scuola primaria Villamagna istituto comprensivo di Bucchianico


AI PIEDI DI ANGELICA 20 marzo 1991. Oggi è una giornata limpida e serena, il sole splende nel cielo. Paola sta vestendo Angelica, che non smette di ridere a causa del solletico che sua madre continua a farle. Le ha infilato un bel vestitino a fiori rosa e ora sta decidendo che scarpette farle indossare. Dopo un attimo di incertezza, sorridendo sceglie noi, visto che sa che siamo le preferite di Angelica. Al termine di una passeggiata e alcune commissioni, finalmente a sera inoltrata, ci avviamo verso casa. A un tratto però, succede qualcosa di strano: Paola invece di proseguire si ferma e parcheggia l’auto, prendendo Angelica con sé e lasciando tutti i suoi oggetti in macchina. A questo punto sento la piccola che comincia ad agitarsi scalciando i piedini, rischiando di farmi cadere; così anch’io capisco ciò che sta succedendo. Da lontano si vede una macchina arrivare e procedendo lentamente accosta proprio davanti a noi. Paola stringe per un attimo la bambina e in fretta sale sull’auto all’interno della quale ci sono due uomini. Dopo un breve tragitto la macchina finalmente si ferma davanti ad una casa di campagna. Giunti qui, tutti scendono e i due uomini conducono madre e figlia nell’edificio; quasi senza che se ne accorgano, entrambe si ritrovano con un fucile puntato contro. In un attimo mi ritrovo imbrattata di sangue mentre vedo l’altra scarpetta volare lontano dal piedino di Angelica e lei scoppiare in un pianto disperato. Si sente un secondo colpo e Angelica non è più tra le braccia di sua madre ma cade sul suo corpo inerte. Gli uomini lasciano il luogo, ma stranamente Angelica non accenna minimamente a calmarsi. Dopo un’oretta passata a scalciare e a piangere disperatamente, gli uomini tornano sul posto: uno di loro afferra i piedini di Angelica e mentre viene urtata violentemente contro il muro più volte, si sentono rumori agghiaccianti. Le mani dell’uomo lasciano la presa e Angelica cade a terra e finalmente smette di piangere, tuttavia c’è qualcosa di strano: Angelica non si muove più. Passa il tempo e sento il suo piedino diventare sempre più freddo, poco dopo vedo delle gambe avvicinarsi e delle mani afferrare


il suo piccolo corpo e infilarlo in un sacco. Non sento piĂš il suolo sotto di me e in un attimo tutto diventa buio. Liceo classico Chieti Classe 2ÂŞ D


UN GIORNO COME UN ALTRO? “ Ah, che mattinata oggi!” “ Certo che quel direttore è proprio un rompiscatole! Tutti stì boss au carcere è proprie na scucciature. Dannato quel giorno in cui ho scelto giurisprudenza come percorso di studio!” “Vabbò dai, oggi pomeriggio si parte per Gardaland, quindi è meglio che mi sbrigo a riprendere Rossella, altrimenti chi la vuole sentire Tiziana! “ Oddio quant’è lenta sta cinquecento, meglio che mi sbrigo a cambiarla. Lo so, lo so, oggi sono troppo stressato.” “ In effetti lo sono ogni volta che mi sento osservato eh, ripensandoci, quella Volvo nera è un po’ che mi sta dietro. Oh, finalmente si sta decidendo ad accelerare … “ oh, ma questo è pazzo! Mi sorpassa in piena curva, abbassa il finestrino e …” “ Ehm, dove sono?” “Lì c’è Rossella! Sta arrivando la polizia, sta arrivando Tiziana, che è successo?” “ Oh, perché non mi parlano?! Che ho fatto? Mi pare che sto appo … ehi perché sono così pallido, quasi invisibile? Andiamo a controllare che fanno … tesoro perché piangi, che cosa è successo? Ma quella è la mia cinquecento gialla; guarda com’è ridotta! “ “ Ma cosa portano via? Stanno dicendo che sono io … ah adesso ricordo! Quei colpi alla testa mi hanno … ucciso, sono partiti i colpi che hanno distrutto anche la mia macchina e poi la morte, la mia morte!!! “ “ Stanno piangendo tutti! Rossella non capisce, è incredula nessuno va ad aiutarla perché sono tutti occupati a piangere sul mio corpo.” “ Sulla strada ci sono macchie di sangue, mie macchie di sangue, che hanno segnato per sempre la vita dei miei cari”.


Carlotta, Gabriele, Domenico e Omar Classe 2° Secondaria di I Grado di Vacri


HO PERSO IL GIOCO La mamma mi trascina via. Mi fa lasciare la bambola ed il cappotto rosso in macchina, forse torniamo subito. Fuori fa freddo, intorno a noi non c’è niente, solo grandi alberi e molto buio e, per di più, non ci sono bambini con cui giocare. L’unica persona che vedo è la mamma che mi stringe forte la mano. Entriamo in una grande casa e lì non siamo più sole, ma ci sono due signori, vicino ad un tavolo, che mi sembra di aver già visto. Subito la mamma mi guarda, ma non sorride e mi prende in braccio; uno dei signori prende un oggetto strano: sembra un giocattolo! Il signore lo avvicina a noi e mamma dice che non ha paura: allora stiamo giocando e mamma è sicura di vincere… Sento un rumore forte, mi cade la scarpetta e mi fa molto male il piede. La mamma ha perso il gioco, cade a terra. I signori vanno via: ma perché la mamma non si rialza? Perché la mamma non mi sorride? Perché la mamma non mi abbraccia? Perché la mamma non mi asciuga le lacrime? Perché la mamma non apre più gli occhi? Il mio piede è diventato rosso, non mi piace questo gioco! Voglio tornare a casa, voglio i miei giochi, voglio la mia bambola. Mamma, basta giocare, svegliati! E’ tutto più buio e fa sempre più freddo. Sono tornati i due signori e perché mi stanno portando via? Uno mi prende il piede che mi fa ancora male e subito non vedo più la mamma: che cosa sta succedendo?! Mi sento sollevare da terra, mi gira la testa, mi stanno facendo male: allora non mi vogliono bene! Uno… due… tre… colpi fortissimi contro il muro. Solo il buio… forse anch’io ho perso il gioco. Liceo classico Chieti Classe 2ª D


SONO PORTO SELVAGGIO (Mesostico) Sai? Conoscermi dovrai! Sono molto importante, non solo per il mio panorama mozzafiato, ma per il sacrificio di una persona che mi voleva veramente tanto bene. Ancora oggi le dico: grazie di avermi salvato dalla mafia!

Classe V Scuola Primaria di Villamagna Istituto Comprensivo di Bucchianico


N’ Affar D’Or - Sim fatt nu sacc d trris. - Tin arascion. Mo’ scttam u rmmat inda mar tant c gnefrec annu. Mic l’acq ie la nostr? - U sacc, ma sit arrunat tutt la pinet e tutt u rest? - Si, tutt appost statt tranquill. - Ma sit miss poc e nund u firr inda a l plastr? - Si. - Sit usat la sabbie o’ post u cment? - U “cment” a Porto Selvaggio stè appost. L cristian potn vinnì nvacanz inda stu “paradis” che amm fatt. Sim sciut alla grand! - Sim realizzat nu tesor. - Tin arascion e sim fatt for pur a chedd! - Chedd? Er na capa tost! Sit fatt bunn ad accdrl. - Ma quan sim acc chiat? - Nu miliard, pulit pulit. - Alla facc d Renata. - Mè, statt bun Antò! - Cià Giusè! - Mò vogg a spenn nu mues d sold ca sim fatt cu sdor. U progett ie sciut bunn. Da iosc ptim fa cud ca vilim: la Puglia ie la nostr e nsciun s la pot rpgghià!

Un Affare D’Oro


- Abbiamo intascato un mucchio di soldi. - Hai ragione. - Ora buttiamo i rifiuti in mare tanto che ci importa. Mica l’acqua è nostra? - Lo so, ma avete distrutto tutta la pineta e poi il resto? - Si, si tutto fatto. - Avete messo poco ferro nei pilastri? - Si. - Avete usato tanta sabbia al posto del cemento? - La “cementificazione” di Porto Selvaggio è fatta. La gente potrà venire a villeggiare in questo “paradiso” costruito da noi. Siamo stati bravi. - E noi abbiamo realizzato un tesoro. - Hai ragione e abbiamo fatto fuori pure quella! - Ah quella? Era proprio testarda! Avete fatto bene ad ammazzarla! - Ma quanto abbiamo realizzato? - Un miliardo pulito, pulito. - Alla faccia di Renata. - Ok, ciao Antonio. - Ciao Giuseppe. - Ora vado subito a spendere un po’ di soldi guadagnati col nostro sudore. Il nostro progetto è riuscito. Da oggi possiamo fare qualunque cosa: la Puglia è nostra e nessuno potrà portarcela via.

Classe V


Scuola Primaria di Villamagna Istituto Comprensivo di Bucchianico


BATTITI Il suo cuore batte forte. Colpi sordi e ritmici, sempre più veloci. Ne sento anche un altro, ora. Il dolore che s’intreccia col pentimento. Sento una voce che mi riporta indietro di 14 anni, la stessa che allora urlava: “Abbiamo ucciso il bravo ragazzo!”. Me lo ricordo come se fosse ieri quando uccisero Michele. A Bari vecchia, quel pomeriggio, faceva particolarmente caldo. Mentre percorrevamo la solita strada sentimmo un colpo di pistola, e quello fu l’ultimo suono che Michele udì. Caduti a terra, avvertii la ruvidezza dell’asfalto e sentii numerosi spari e grida rabbiose, cattive. I momenti successivi furono molto confusi: gli uomini fuggirono, in lontananza risuonarono le sirene, noi giacevamo sulla strada; quella strada familiare che percorrevamo sempre. Sembra incredibile come la vita possa cambiare da un momento all’altro. Questa tragedia smosse qualcosa nell’animo dei baresi: il giorno del suo funerale, infatti, venne organizzata una manifestazione nel cuore della città vecchia, e Michele Fazio divenne un simbolo della lotta contro la mafia. La mamma mi prese e mi portò sempre con sé, anche tre anni dopo in municipio quando l’inchiesta sulla sua morte venne riaperta, e quando finalmente si scoprirono i nomi dei colpevoli. Ecco di chi è quella voce. È quella dell’uomo che prima urlava e ora singhiozza, che prima imprecava e ora chiede perdono. Ecco, ora la mamma mi sta sfilando dal suo collo, passo da un petto all’altro. Ora sento un nuovo battito.


Liceo classico Chieti Classi 3ª C e 4ª C


PRONTI SI PARTE… Dai su, partiamo! Perché dobbiamo arrivare sempre in ritardo? Oh, menomale, è arrivato. Ora, rotta verso l’asilo! Ma aspetta, perché stiamo rallentando? Poco dopo una macchina di grossa cilindrata mi affianca… ! Una raffica di colpi e poi il silenzio … Perché ho tutti quei buchi? E che cos’è ora questo silenzio? Sergio, cos’è quel coso rosso? Sangue? Sergio rispondimi! Sergio!! Sergio ma dove ti stanno portando!? Subito dopo… Hey, che mi state facendo? Perché mi portate via? Il “carro attrezzi,” parte e io mi rilasso un po’ dopo tutto l’accaduto. Durante il tragitto però sento delle voci: “Sergio Cosmai è morto” “Sergio Cosmai non c’è più! È stato assassinato.” Dopo aver udito queste parole mi si ghiaccia la benzina. Non ci credevo. Dopo tutti quegli anni passati insieme, una semplice macchina ci ha fermati. E ora, chi avrebbe badato a me? Circa 15 anni prima… “Voglio questa gialla, mi piace molto! La prendo”. Questo è stato è stato il nostro primo incontro. La prima volta in cui ci siamo conosciuti io e Sergio. Le prime uscite in campagna, i primi parcheggi, che ricordi… Un giorno parcheggiamo davanti ad un grosso edificio con una grossa insegna sulla sommità. “Università di giurisprudenza”, lessi. Continuammo ad andare lì ogni singolo giorno. Una mattina notai che Sergio era vestito in maniera buffa: aveva una lunga tunica di colore scuro e in testa una specie di cespuglio, sembrava un albero. Qualche ora dopo ritornò da me vantandosi di aver ottenuto un grosso pezzo di carta con scritto “Attestato di laurea”, che io reputavo completamente inutile. “Sergio, chi è questa ragazza che porti con te? Sergio, finalmente, aveva trovato la fidanzata. Ero molto felice per lui, perché finalmente non era più solo come prima. Se non ebbi capito male, la giovane si


chiamava Tiziana. Era molto brava, e trattava il suo ragazzo come un amico stretto. Speravo che dalla loro unione nascessero dei bambini, così da avere una piccola chance di essere ancora utile per loro. Dopo un po’ iniziammo a recarci quasi sempre davanti ad un carcere. Da fuori si potevano vedere le sbarre di ferro, e già solo al pensiero di ritrovarmi in trappola tra quattro mura mi faceva irrigidire i freni. Alcune volte, dallo specchietto retrovisore vedevo Sergio che veniva circondato e minacciato da alcuni uomini arrabbiati. Volevo intervenire per difenderlo, ma non sapevo come fare. Per questo motivo riuscii a capire che quello che Sergio faceva per la legalità non era ben accettato da tutti. “Auguri! “Auguri agli sposi!” Sergio e Tiziana si erano sposati. Qualche giorno prima mi aveva tirata a lucido per prepararmi a questa cerimonia. Molte persone mi guardavano, e si complimentavano con Sergio per l’ordine e la pulizia in cui mi teneva. Una mattina, Sergio portava in braccio la moglie e correva furiosamente verso di me. Ci recammo velocemente in ospedale e dopo qualche giorno, una nuova vita entrò nella mia. Rossella, la figlia di Sergio, era molto carina e quando cominciò ad essere un po’ più grande, Sergio e Tiziana si lamentavano con me perché ero troppo piccola. Ma non era per colpa mia. Ritornando al presente… Brrrrr… che ricordi emozionanti! Non dimenticherò mai di tutto quello che abbiamo passato insieme e, anche se ora sono tutta rotta, spero di rappresentare quell’ uomo che è sempre stato umile, che non ha mai abbassato la testa verso le minacce e non si è mai arreso. Ti ricorderò per sempre Sergio, mio caro e amato Sergio. Secondaria Vacri Luca, Letizia, Sara e Nicola.


TRANI: 12 MARZO 1985 Era il 12 Marzo 1985, il cielo era grigio e cupo, si respirava nell’aria, intorno a me, una strana inquietudine, l’umidità mi avvolgeva, nessuno si sarebbe aspettata mai una simile sventura…che non era una fatalità. Quel pomeriggio, Sergio, tornato da lavoro, come sempre, andava a riprendere la sua piccola a scuola, con la sua Cinquecento gialla. Due individui, che subito mi sembrarono sospetti, si erano fermati su di me, ma non riuscivo a cogliere i loro discorsi, fumavano, camminavano ansiosamente come se aspettassero qualcuno. Nelle mani avevano delle armi. Cosa avrebbero dovuto farci? All’improvviso si arrestano e si fanno cenno, puntano le armi verso l’automobile gialla che procedeva lentamente su di me. Ecco l’inferno: ho sentito e visto quei proiettili dirigersi verso l’autista della Cinquecento, colpendolo alla testa, ne erano ben undici. Sono stata io l’unica testimone di questo fatto terribile. Il povero Sergio, colpito a morte, si è accasciato a terra e il suo corpo è stato crivellato da ulteriori colpi. I due assassini si erano, così, occupati di questo scomodo “caso” del direttore delle carceri, noto per la sua lotta alla criminalità e per la sua difesa della dignità dei detenuti. A distanza di tempo, i due mafiosi sono stati consegnati alla giustizia. A memoria di questo tragico avvenimento, oggi restano una scuola, una statua ed io, la Strada Statale 19, dedicata a Sergio Cosmai, non solo per ricordare, ma per tramandare a tutti il senso della giustizia e la lotta alla criminalità, anche a costo della propria vita, per il bene di tutti. Scuola Secondaria di I Grado di Bucchianico Shperdhea Enisma


DOMENICO NICITRA Che cos’è la mafia e cosa possiamo fare noi per diffondere la cultura della legalità. Il sistema mafioso ha origine nella Sicilia feudale, quando a capo di un feudo c’era un nobile proprietario terriero che spesso viveva in città e che affidava la sua proprietà a un uomo di fiducia, che viveva in campagna. Quest’ultimo agiva al posto del nobile con l’aiuto dei campieri, una specie di guardie armate. Quando nel 1812 una legge del parlamento siciliano pone fine al sistema feudale, si passa semplicemente dal feudo al latifondo e tutto resta come prima. Fu proprio il passaggio dal feudo al latifondo che dimostrò quanto la società siciliana si fosse guastata, perché con quella legge si voleva dare ai contadini un pezzo di terra, ma alla fine non ebbero proprio nulla. Il latifondo non è altro che un feudo senza i privilegi che il feudatario aveva. Lo scrittore siciliano Giovanni Verga in una sua novella Libertà, racconta della rivolta di Bronte. In tale occasione i contadini ammazzarono i proprietari terrieri e aspettarono l’arrivo di Garibaldi, sperando che questo dividesse le terre e le distribuisse ai contadini. Così non fu e tutto restò come prima. In tutte queste situazioni la mafia ha voluto controllare le terre perché la terra allora era l’unico valore. Possiamo quindi pensare che il sistema feudale prima e il latifondo dopo sono le disgrazie più antiche della Sicilia. Ma non solo questo, infatti la Sicilia é stata terra di conquista e di invasioni da parte di molte civiltà e questo ha portato gli abitanti dell’isola ad una insicurezza storica. Pirandello dice che tutti i siciliani hanno un’istintiva paura della vita. Questa diventa paura degli atri e chiusura verso il prossimo. Spesso la paura dell’altro si trasforma in presunzione ed arroganza, come quella espressa dal Principe Salina protagonista de Il Gattopardo, quando dice:”Noi fummo i Gattopardi, i leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti e le iene. E tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. Il carattere e l’onorabilità del mafioso si é così già formato. La mafia moderna nasce dunque dopo la spedizione dei Mille. I baroni, i potenti temono di perdere il loro patrimonio. Per questo i nobili, come il


Principe Tancredi ne Il Gattopardo, faranno di tutto affinché tutto resti com’è. Tutta la microcriminalità si schiera naturalmente con loro. Oggi la mafia è un fenomeno che ha varcato i confini della Sicilia e dell’Italia. Essa si è arricchita svolgendo attività illecite come il traffico di droga, di armi o lo smaltimento illegale dei rifiuti. Questa organizzazione riesce ad arrivare ovunque grazie alle intimidazioni e alla corruzione. Lo Stato combatte la mafia attraverso le sue leggi con i magistrati e le forze dell’ordine. Purtroppo alcuni di loro hanno sacrificato la loro vita per questa lotta. Anche noi, nel nostro piccolo, dobbiamo fare qualcosa per combatterla. Ci sono molte associazioni che si impegnano per la diffusione della cultura della legalità, come Libera, alla cui marcia abbiamo partecipato. Secondo me è fondamentale la presenza delle associazioni per la lotta alla mafia, perché loro danno un enorme contributo per la diffusione delle idee di legalità. Abbiamo ricordato le vittime innocenti della mafia, parlandone a scuola. In particolare abbiamo conosciuto la storia del piccolo Domenico Nicitra, vittima innocente dei mafiosi, a soli undici anni. Ogni giorno, rispettando anche le più semplici regole di convivenza civile onoriamo la sua memoria e la memoria di tutte le altre vittime. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3B Sofia D’Angelo, Andrea D’Elia, Rebecca D’Amicodatri, Flavia Malandra


COSÌ SBAGLIATO In un vicolo di Bari vecchia, una sigaretta fumante finita casualmente tra due sanpietrini, non sarebbe stata così rilevante quanto lo fui io, il 12 Luglio 2001. Al crepuscolo di quella calda serata, molte persone stavano rientrando a casa. Le osservavo attentamente curiosa, quando la mia attenzione fu improvvisamente distolta da due motorini che mi si fermarono davanti con il motore ancora acceso. A bordo, quattro tipi loschi sembravano aspettare qualcuno. Erano visibilmente ansiosi, lo avvertivo dall’insistente ticchettio dell’anello di uno di loro. La strada iniziava a svuotarsi, fu tutto molto veloce: un uomo girò l’angolo, i motorini accelerarono, partì un colpo di pistola, un corpo cadde a terra. Era quello sbagliato. Gridarono. “‘Amm uccis lu brav uagnne!”. Sparirono con velocità dietro l’angolo. Il corpo irrigidito era quello di un ragazzino innocente, indossava ancora il grembiule del bar nel quale probabilmente aveva lavorato fino a poco prima. Era morto. Lo avevano colpito alla nuca: dalla ferita mortale fuoriusciva una grande quantità di sangue che, insinuandosi tra i labirinti di sanpietrini, mi raggiunse fino a inondarmi totalmente. A quell’ora mi spensi, come si spense Michele Fazio, un ragazzo conosciuto per aver perso la vita con la sola colpa di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Liceo classico Chieti Classi 3ª C e 4ª C


RIVOGLIO MIO FIGLIO Era una mattina di giugno come le altre ed io ero del tutto inconsapevole che dal quel giorno anche la mia vita sarebbe finita. Domenico si era svegliato eccitatissimo per quel regalo che avrebbe ricevuto: una fiammante bicicletta, dono dello zio Francesco, per la sua promozione. Mi apprestavo a preparare il pranzo e intanto ascoltavo le voci felici dei miei figli che riecheggiavano nelle stanze. Il sole era già alto quando Domenico uscì per andare dallo zio. Aveva promesso alla sorella Rita di farle fare dei giri sotto casa con la nuova bici. Il tempo passava, trascorrevano le ore, i minuti…”Dove sarà Mimmo?” mi chiedevo. “Come mai tarda così tanto?”. Non riuscivo a smettere di guardare l’orologio che con il suo ticchettio accresceva la mia ansia. Avevo uno strano, orribile presentimento… E non c’era nemmeno Salvatore a consolarmi, chiuso ingiustamente in quella cella, per un errore sicuramente, uno scambio di persona o qualche altra ingiustizia… Nell’interminabile attesa che seguì, continuavo a pregare e sperare nel suo ritorno. Perché Francesco non rispondeva al telefono che squillava a vuoto? A quel punto, decisi di chiamare la polizia. Il mondo per me si è fermato quel giorno. Non ho ricevuto alcun aiuto da nessuno. Nessuno ha saputo o voluto alle mie domande. Nessuno ha riportato a casa da me il mio Mimmo. Che fine avrà fatto il mio bambino? Rivoglio disperatamente mio figlio. La notte mi capita spesso di sognarlo… Mimmo mi chiama, mi tende le braccia…mi guarda con i suoi occhioni grandi e spauriti…poi mi sveglio e mi accorgo che lui non è più accanto a me. Non avrò pace finchè non lo avrò ritrovato. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3L Beatrice Cerritelli, Valerio D’Isidoro


VI RACCONTO LA MIA STORIA Sono nato a Roma nel 1961 e morto a Perugia il 30 aprile 2014. Sono stato il primo poliziotto italiano che con la sua squadra ha indagato sullo sversamento illegale dei rifiuti speciali tossici nei territori della Campania. Dal 1944 ho cominciato a svolgere delicate indagini sul clan dei Casalesi, fino a produrre una preziosa informativa che nel 1996 ho consegnato alla direzione distrettuale di Napoli e che è stata presa in considerazione solo nel 2011. Tra il 1997 e il 2001 ho lavorato come consulente per la Camera dei Deputati, ed è proprio in questo periodo che mi sono ammalato di linfoma non- Hodgking e sono morto. Ho provato tanta rabbia per una giustizia che non ha fermato i colpevoli in tempo e solo adesso, dopo la mia scomparsa, mi è stato assegnato il titolo di "vittima del dovere" dal Ministero dell'Interno. Dopo mesi di carte, inchieste, articoli e decine di firme, il Ministero ha finalmente riconosciuto il fatto che ad uccidermi è stato l'impegno nel servire lo Stato e che per questo la mia famiglia ha diritto ad un sostegno ed io alla memoria di chi è morto compiendo il suo dovere. Il mio importantissimo lavoro sul traffico di rifiuti è servito a molti, ed è questa la mia consolazione. "Penso che sia giusto che chi ha dato la propria vita per il bene di tutti, venga ricordato dalle istituzioni e onorato dai cittadini." Liceo Classico Ortona Cristina Del Ciotto, Denise Di Bartolomeo


ANGELICA Quel posto era completamente diverso da tutti quelli in cui eravamo stati fino ad allora. Persino l’auto che ci aveva condotto fino lì fra un sobbalzo e una sterzata pareva ora l’unica isola calda in quella serata pungente, quella Panda rossa era un posto familiare per Angelica, anche se quella sera la macchina sembrava più silenziosa del solito, così tanto che Angelica si era dilettata a sfidarci e la mia compagna era scivolata nel tappetino usurato ed era rimasta lì fino a quando la mamma non aveva tolto le chiavi dal quadro e l’aveva presa in braccio conducendoci in questo posto. Quel pavimento era freddo e polveroso, quella stanza buia e cupa. Nera come gli animi di coloro che l’avevano lasciata poco prima; cuori di pece, che niente avrebbe potuto diluire. Già, perché al mio fianco giaceva la madre della mia padroncina, Paola, esanime e solo io ero rimasta su un piedino di Angelica che piangeva disperata e terrorizzata. Dov’era la mia compagna? Ancora una volta era caduta, ora però per colpa di qualcos’altro. Uno scoppio assordante, una folata di vento, un pianto di dolore e il sangue che si faceva strada fra l’ordito e la trama, gocciolava e macchiava i tessuti, imbeveva le mani portate sulle ferite come per protezione. Paola e Angelica erano a terra come anche la mia compagna, qualche metro più in là. Poi per un attimo, l’arma che aveva sparato e a rompere il silenzio e a rimbombare nella stanza erano soltanto i singhiozzi, i lamenti delle due povere vittime. Subito dopo i passi del sicario che si avvicinava e di nuovo che puntava l’arma su Paola. A nulla servivano le poche parole stentate, le suppliche, le urla; un’altra pallottola affondava fragorosamente sul collo della donna. Angelica tremava e ad ogni scoppio sobbalzava e si tirava indietro facendo forza sulle manine e su di me perché l’altro piedino doveva


farle troppo male anche solo sfiorando il pavimento. Dopo l’ultimo colpo la piccola si era messa a gattoni e aveva stretto a sé le spalle della donna; poi guardando in faccia l’uomo aveva gridato più forte che poteva, tentando di allontanarlo; tentativo che sembrava essere andato a buon fine, poiché il rumore delle sue scarpe era sempre più lontano, la porta si apriva e pian piano si vedeva la luce fioca che entrava e faceva intravedere la sagoma di un secondo uomo, ma quel raggio di luna aveva subito lasciato la stanza insieme ai due malfattori. E con il suono della macchina che si allontanava sul sentiero sterrato riuscii a percepire un sottile respiro di sollievo da parte della bambina. Non so quanto tempo passò ma sicuramente ad Angelica parve un’eternità. Paola restava lì stesa sul pavimento arido bagnato solo con il sangue versato, lì come un corpo senza animo immobile e con il viso pallido ma che probabilmente ad Angelica sembrava bellissimo come sempre e dunque continuava ad accarezzarlo con le sue manine provando a svegliarla. La mamma però non reagiva e dunque la piccola le aveva promesso ancora tremante che l’avrebbe aspettata sveglia per proteggerla da ogni pericolo. Il freddo incombeva sempre più sui loro corpi e il mondo sembrava allontanarsi dalla loro realtà quando tutt’a un tratto la porta si spalancò violentemente. Angelica trasalì: erano tornati. Ora cosa volevano? La spinsero per un braccino, il massacro dunque non era finito; mi aspettavo che per la bambina sarebbe stato più atroce di quello della madre. Scoppiò di nuovo a piangere e a dimenarsi. I due assassini le intimavano di tacere e stare ferma, ma lei non voleva piegarsi ai loro ordini e iniziava a muovere convulsamente le gambe così tanto da farmi percepire solo forme sfocate. Quello che vidi dopo era solo buio, poiché una mano cattiva mi aveva afferrato saldamente, ma bastarono solo le urla innocenti di Angelica per farmi capire che non dovevo aspettarmi nulla di buono. Esse all’inizio erano più forti ma andavano via via scemando, e io mi sentivo strattonata da un lato all’altro, ma il suono più inquietante


era quello di corpo che sbatteva come contro un muro. Il caos che aveva regnato sovrano fino a quel punto, cessò quando la mano dell’uomo mi liberò dalla sua stretta. La scena che vidi era straziante. Il muro era diventato rosso e dalle crepe colavano le gocce di sangue, e la povera Angelica giaceva gettata a terra come un sacco di spazzatura; lo stesso che poi ci avvolse. Liceo classico Chieti Classe 2ª B


IN RICORDO DI UNA TRAGEDIA Un giorno come tanti, Sergio si stava preparando per andare a riprendere sua figlia con una cinquecento di colore gialla, ma talmente gialla che la figlia la poteva riconoscere, da lontano. In quel 12 marzo 1985 accadde…due mafiosi….eh, sì…. Quelli che stavano in carcere avevano sentito spesso le parole di Sergio…che le carceri dei mafiosi dovevano essere uguali alle carceri dei criminali, senza nessuna preferenza, senza nessun privilegio. Ed in quel giorno…due mafiosi… vollero vendicarsi di Sergio… presero le loro pistole e… Sergio sentì un rumore, era troppo tardi. Mirarono alla sua testa e premettero il grilletto e spararono undici colpi, di cui uno lo colpì all’addome. Sua figlia lo stava aspettando con ansia, proprio in quel momento. La moglie fu avvertita che Sergio doveva essere portato in ospedale, la moglie lo aspettò. E il 13 marzo 1985 morì. Le amministrazioni vollero fare una statua in ricordo di quella tragedia, ma quel bronzo ricordava i due mafiosi piuttosto che Sergio. NOI OGGI, E ANCORA UN DOMANI, RICORDEREMO. Scuola Secondaria di I grado di Bucchianico Classe III A Simone e Fabrizio Di Federico


DOMENICO Il suo ricordo vive con me. Non lo vedo da anni. Vorrei sapere almeno cosa gli è successo, cosa gli hanno fatto. Se fosse morto lo vorrei sapere, almeno è in un posto migliore, lontano da questo mondo che lo ha condannato. Un ragazzino innocente che colpe può avere? Vorrei tornare indietro e cambiare la sorte di mio figlio. L'ultima immagine che ho di Mimmo è di lui in sella alla moto dello zio Francesco, era felice, andava a comprare una nuova bicicletta. Ma poi cosa è successo? L’unica cosa che so è che lui non è più tornato da me e da sua sorella, due persone che lo amavano. L'unica cosa che so è che lo amo. L'unica cosa che so è che vivo nella speranza che almeno non abbia sofferto. L'unica cosa che so è che vorrei fosse qui.

Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3A Elisa Di Tomasso


L’INCUBO MAFIOSO È passato molto tempo, ma ancora non riesco a dimenticare. Come ho potuto! Ogni notte, ogni maledetta notte, rivedo il suo viso innocente, i suoi grandi occhi castani, quei capelli neri come il vuoto più profondo. Spero finisca presto, non ne posso più di svegliarmi urlando in preda agli incubi. Ricordo perfettamente come fosse ieri quando mi arrivò l’ordine di uccidere Francesco Nicitra e il suo nipotino Domenico. Pregai il boss di assegnarmi un compito diverso, con la scusa che non ero ancora pronto per un incarico così importante, ma lui voleva premiarmi, aveva fiducia in me… Io però non volevo macchiarmi del sangue di un bimbo innocente. Potevo semplicemente rapirlo e portarlo lontano da lì per sottrarlo al suo destino di morte. Ma come fare? Se mi avessero scoperto, sarebbe finita la mia di vita. Da vigliacco, mi ritrovai a fare ciò che mi era stato ordinato, a sparare a un povero ragazzo che aveva ancora un futuro tutto da scoprire. Cosa poteva aver fatto di così terribile Domenico, un bambino di soli undici anni, per meritare quella atroce fine? Le mie domande non avranno mai una risposta. Oggi rimpiango la mia scelta, mi sarei dovuto ribellare, abbandonare tutto e tutti, cambiare vita. Se lo avessi fatto, avrei salvato Domenico e me stesso, forse… La verità è che la mia mano ha preso in mano l’oggetto sbagliato: una beretta da nove mm. Non avevo mai sparato prima e non voglio farlo mai più. O forse quest’arma sparerà ancora una volta, l’ultima, se ne avrò il coraggio, e le mie sofferenze finiranno per sempre… Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 L Nicolas Santoferrara, Simone Bressi


TRE COLPI DI PISTOLA Mi chiamo Renata Fonte e sono una vittima di mafia. Nacqui a Nardò, il 10 marzo 1951. Venni improvvisamente portata via dal Salento, terra che ho sempre amato e difeso. Mi impegnai sin da subito nella vita sociale e politica, candidandomi alle elezioni amministrative e diventando prima Assessore alle Finanze, poi alla Pubblica istruzione e alla Cultura. È dalla mia morte che è iniziata la vita della mia terra; sono sempre stata una donna combattiva, decisa nella lotta contro l’abusivismo edilizio salentino. Mi sentivo in dovere di salvaguardare la bellezza di Porto Selvaggio che, senza il mio intervento, sarebbe diventato una colata di cemento. Con tenacia e coraggio mi opposi alla speculazione edilizia che coinvolgeva il parco, ben sapendo di andare contro gli interessi di uomini potenti e senza scrupoli. La mia posizione diventò critica quando, vincendo le elezioni, divenni l’avversario di Antonio Spagnolo, l’uomo che voleva monetizzare su Porto Selvaggio. Nonostante le minacce di morte, continuai la mia battaglia da sola. In tutto ciò non coinvolsi mai le mie due figlie, Sabrina e Viviana: erano troppo piccole per renderle partecipi della lotta che stavo combattendo. Il mio desiderio era quello di consegnare loro una terra incontaminata in cui trovare conforto e una città in cui la mafia non era mai riuscita a imporsi. Tuttavia la Sacra Corona Unita si intromise nella mia vita rendendo reali tutte quelle minacce che avevo ricevuto. La paura e l’insicurezza non sono mai mancate in ciò che facevo ma erano vinte da un sentimento di amore per la giustizia nei confronti della mia terra e delle mie figlie. Scegliendo di intraprendere questa strada a favore della giustizia, dovevo aspettarmi che prima o poi sarebbe successo qualcosa a me o alla mia famiglia. La sera del 31 marzo 1984, appena uscita dal Consiglio comunale di Nardò, venni freddata con tre colpi di pistola.


Fu lo stesso Antonio Spagnolo il mandante del mio omicidio, il quale si rivolse a Marcello My e Giuseppe Durante, gli esecutori materiali del mio delitto. La mia vita si spense all’età di trentatré anni, ma io continuo a vivere nei cuori dei salentini, in particolar modo in quelli delle mie due figlie che oggi operano attivamente nella lotta dell’associazione Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. L’unica arma che ormai mi resta è la memoria di me e delle mie azioni, e il solo modo per portare avanti questa battaglia è quello di non dimenticare gli ideali in cui ho creduto e per cui mi hanno uccisa. Liceo classico Chieti Classi 3ª C e 4ª C


UN CUORE ORMAI FERMO Il polso della bambina è sempre stato morbido e caldo. Ricordo ancora il giorno in cui una donna dalle mani ruvide e fredde mi ha legato a lei con il compito di proteggerla. Tum tum. Da quel giorno ho sempre cercato di non deluderla. Ora non so esattamente dove mi trovo, ma è un posto lontano da casa che puzza di polvere e muffa. Dalle poche e sporche finestre filtra solo qualche raggio solare. Sto ancora analizzando l’ambiente quando sento un forte rumore sordo; non avevo mai sentito una cosa del genere. Subito dopo mi scontro violentemente con il terreno e la polvere mi avvolge. La bambina porta il polso al quale sono legato vicino al viso, forse per pulirsi, ed è allora che la situazione mi è più chiara. Ci sono due uomini e uno dei due ha in mano un oggetto scuro che mi incute timore; l’altro, invece, si gira e si avvicina ad una macchina successivamente seguito dal primo. Continuo a guardarmi intorno e noto a terra il corpo immobile di una donna; riconosco quelle mani. Mi rendo conto solo ora che la bambina sta urlando, e i suoi singhiozzi sono strazianti. Si è fatto buio e non so da quanto tempo questo è l’unico rumore che sento. Non ha smesso di piangere nemmeno un secondo e io non ho potuto fare nulla per cercare di calmarla. Eppure solitamente i miei colori vivaci la rallegrano, soprattutto quando si diverte a sfilacciarli. Poi, improvvisamente, un altro rumore. Dei passi, un piccolo cuoricino che prende a battere velocemente per la speranza o per la paura. Sono ancora nascosto dietro il corpo della bimba fino a quando non mi sento tirare su velocemente. Tu-tum tu-tum La bambina sta ancora piangendo. Tu-tum Una lacrima mi attraversa per intero e i miei pensieri si fondono


con quelli di quest ultima. Tum. La tristezza, il senso di abbandono, il dolore... è tutto come se fosse parte di me, e improvvisamente ho voglia di urlare anche io: ora capisco quei singhiozzi strazianti, vorrei poterli sentire ancora, ma ora è solo silenzio innaturale. Non dovrebbe funzionare così, mi sarei dovuto consumare con il tempo, avrei dovuto avere modo di esaudire quel vecchio desiderio. Dovrei chiedere scusa a quelle familiari mani ruvide per questo; alla fine non ho protetto chi mi era stato affidato. Ed è qui che mi accorgo di una cosa: non sento più quei regolari suoni che ho iniziato a percepire fin dalla prima volta che ho preso posto sul polso di Angelica. Non sento più nulla questa volta. C’è un silenzio assordante, una nuova sfumatura di rumore. Alla fine è stata lei ad abbandonarmi per prima. Liceo classico Chieti Classe 2ª B


CIAO FRATELLINO Ciao fratellino, dove sei? Me lo chiedo continuamente da quando sei scomparso. Sai, l'altra notte ti ho sognato. Ho sognato quel giorno, quel 21 giugno del 1993 in cui tutto è cambiato. Era un giorno come un altro, eri uscito con zio Francesco per comprare quella bicicletta che tanto desideravi, poi però non siete più tornati. Pensavo che ti fossi fermato dallo zio, ma passavano le ore e tu non tornavi e in un crescendo di preoccupazione la mamma ha denunciato la tua scomparsa. Nei giorni seguenti la casa si è riempita di poliziotti che ci bombardavano di domande e cercavano qualunque indizio che potesse spiegare il perché non eri più tornato a casa. Ero persa. É stata dura continuare senza te. Non riuscivo più a sorridere, tutta la mia felicità se ne era andata via con te. Quei giorni sono stati i peggiori della mia vita. Ero così disperata da desiderare la morte, avevo quattordici anni eppure desideravo una cosa così terribile. Tutto questo dolore l'ho dovuto affrontare da sola: papà era in carcere e la mamma era diventata strana, non era più la solita. Era sconvolta, ma nonostante tutto lottava per riavere suo figlio, protestava lamentandosi che il tuo caso era stato sottovalutato, che non ti avevano cercato abbastanza e con la determinazione necessaria. Ed era strano pensare che potesse davvero essere così, perché tu eri soltanto un bambino. Cosa importava di chi eri figlio? Come poteva, questo, cambiare la percezione dell'immenso dolore che la tua scomparsa ci aveva inflitto? Sai, penso spesso a come potresti essere oggi. La memoria mi rimanda al tuo visetto delizioso e sfacciato sempre sorridente e lo sguardo tenero e intenso sotto la frangetta. Ho spesso la sensazione che i tuoi occhi bambini mi scrutano da ogni angolo della casa e sembrano chiedere perché, perché ti sia stata negata l'infanzia, quella che ogni bambino avrebbe il diritto di vivere, e come sia stato possibile che altri esseri umani adulti abbiano potuto strappare alla vita i tuoi occhi innocenti. Sono passati venticinque anni, mi manchi fratellino, mi manca


ridere con te, scherzare con te, mi è mancato crescere con te, ma soprattutto mi manca la vita prima della tua scomparsa. Non smetterò mai di aspettare il tuo ritorno e so che un giorno ti vedrò sbucare dal fondo della strada con la tua bicicletta nuova, con quel volto felice e sorridente del bambino che sempre vive accanto a me. Grazie per essere stato il mio fratellino. Rita.

Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3A Alice D’Achille, Federica Giovannangelo, Ilaria Napolitano.


IL CASO DOMENICO NICITRA È bizzarro che la polizia abbia interrogato tutti tranne me. In effetti, sono, con ogni probabilità, l’ultimo ad averli visti. Dato che nessuno si degna di darmi ascolto, scriverò ciò che ho visto quel giorno su questo foglio, sperando che in un prossimo futuro qualcuno lo trovi e ne faccia buon uso. Era una bella giornata, calda e soleggiata, una delle tipiche giornate di fine giugno; ma, come si venne a sapere dopo, quella era tutto fuorchè una normale giornata d’estate. Era il 21 giugno 1993. Circa alle nove di mattina, Francesco aprì il garage, seguito a ruota dal piccolo Mimmo e uscimmo insieme per andare a comprare un giocattolo al bambino. Francesco tolse il cavalletto e m’inforcò, infilandosi il casco e poi mettendolo a Mimmo. Con un piccolo rombo uscimmo dal garage, per dirigerci verso la borgata Ottavia, al negozio di giocattoli. Con le ruote che procedevano spedite sull’asfalto sfrigolante, arrivammo in dieci minuti. Mi lasciarono vicino al negozio, all’ombra di un albero, ad aspettare. Uscirono qualche minuto dopo, Francesco col casco sottobraccio, Mimmo col nuovo giocattolo stretto al petto e un sorriso a trentadue denti che si rifletteva negli occhi castani. Ci rimettemmo in moto, con un leggero venticello che si alzava. Stringendo forte il manubrio (tanto da farmi anche male), Francesco svoltò in una traversa e si diresse verso la direzione opposta alla casa. <<Dove andiamo, zio?>> aveva chiesto Mimmo incuriosito. <<A trovare una persona>> aveva risposto lui, sul vago. Arrivammo sulla cima di uno dei sette colli, se non sbaglio colle Aventino, uno dei più isolati, ma mi parcheggiarono prima di una grande rotatoria. Scesero, lasciando i caschi allacciati al manubrio e si diressero verso un villino in salita verso destra. Fu l’ultima volta che li vidi. Ricordo, con una fitta al cuore, il piccolo Domenico mano nella mano con lo zio Francesco avviarsi inconsapevole verso un futuro incerto. Aveva lasciato il giocattolo nuovo, un robottino telecomandato, sul sedile posteriore.


Non Avrebbe mai giocato, non l’avrebbe mai rotto, non lo avrebbe mai nemmeno scartato. La confezione di plastica traslucida è ancora intatta, a prendere polvere, come me, nel reparto “prove”. Da qui, sento i poliziotti confabulare, formulare mille ipotesi restando al punto di partenza. Non mi hanno mai chiesto a che ora si fossero fermati lì, non mi hanno mai chiesto che strada avessero preso. E, io, non ho mai potuto dirglielo. Continuo a pensare che, se avessi cambiato strada o avessi fatto le bizze al motore, le cose sarebbero potute andare diversamente. C’è un detto che dice:<<Non si può cambiare il passato, si può solo migliorare il futuro>>. Non posso fare nemmeno questo. Posso solo aspettare che qualcuno lo faccia per me. Questo è tutto ciò che ho visto. Passo e chiudo, la mia batteria si sta scaricando. Il Motorino Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3E Elena Valentini


IL NOSTRO EROE: DON CESARE BOSCHIN Don Cesare era un vecchio parroco, ma era ancora pieno di energie e di entusiasmo come un ragazzino, sempre pronto a darsi da fare, a sporcarsi le mani, uomo tra gli uomini. Era semplice, caritatevole, amava aiutare le persone in difficoltà, trovare loro un lavoro, un tetto sotto cui vivere, un terreno su cui lavorare: era più forte di lui. Proprio per questo si era guadagnato la stima e l’affetto dei suoi parrocchiani, ma anche il rancore di qualcuno: c’era chi lo adorava per quello che era, chi lo detestava per invidia; non c’era via di mezzo. Era a Borgo Montello da quasi 50 anni nel 1995. Allora, a noi che abitavamo nei pressi della discarica, al mattino, a svegliarci non era il profumo del caffè, ma l’odore acre e pungente proveniente da una collina di rifiuti. Bastava affacciarsi alla finestra per intravvedere ad ogni ora ruspe e tir entrare e uscire dalla discarica. Penso che voi abbiate già sentito parlare della discarica di Borgo Montello. E’ una delle più grandi d’Italia, oggi è chiusa, esaurita, ma i rifiuti intombati sono ancora tutti lì. Noi compaesani cominciammo a sospettare che ci fosse un traffico di rifiuti tossici e istituimmo un comitato che si riuniva nella chiesa di don Cesare. I nostri sospetti trovarono una conferma, quando un uomo confessò di trasportare rifiuti proibiti nella discarica. Segnalammo la cosa alle autorità e continuammo a indagare, ma non era facile: ovunque silenzi colpevoli, inerzie, omertà. Sulla discarica di Borgo Montello si allungava l’ombra del clan dei Casalesi e forse vi finirono anche parte dei fusti trasportati in quegli anni dalle navi dei veleni. Don Cesare era in prima fila, come sempre, non si dava pace. Cercava informazioni e sostegno, parlava con chi sospettava e con chi era sospettato, contattava autorità e politici … e scriveva ogni cosa su due diari. E poi, un mattino, lo trovammo così, cadavere, nel suo letto: le mani e i piedi legati insieme con una corda intorno al collo, la bocca incerottata come un animale portato al macello, come si usa in terra di mafia. Il volto sfigurato, il corpo pieno di lividi. In casa non mancava nulla, tranne i due diari … Non ci rimase che seppellirlo, difenderne la memoria,


custodirne l’impegno. Ancora oggi non sappiamo chi l’ha ucciso, né cosa si cela nella discarica. Ma non dimenticheremo, né cesseremo di chiedere giustizia. Liceo Scientifico “F. Masci” Classe IIB


LETTERA A DOMENICO Ciao Domenico, dove sei? Sono passati venticinque anni da quando sei scomparso, ti hanno preso, ti hanno portato via da me e non so che fine hai fatto. Il tuo viso è sempre impresso nella mia mente e sento ancora il calore di quell’ultimo bacio che hai stampato sulla mia guancia quando felice sei uscito con la zio per andare a comperare la bicicletta che tanto desideravi. Faccio fatica senza di te, sono venticinque anni che aspetto un messaggio, che aspetto una telefonata, che aspetto che quella porta si apra, che aspetto di vedere te! Dalla tua scomparsa abbiamo continuato a cercarti, ma nulla, nessun indizio, nessuna traccia, niente di niente, tutti ti hanno cercato ma nessuno è riuscito a trovarti. Ho bisogno di te, sto male, è solo colpa nostra se ti hanno fatto del male. Perché se la sono presi con te? Perché? I bambini non hanno alcuna colpa, non devono risentirne degli errori dei propri genitori. Noi siamo stati la tua condanna, la colpa è nostra, non ti abbiamo protetto. Tutti i giorni ripenso a com'eri: un bambino allegro con la frangetta sugli occhi e un viso delizioso e sfacciato, avevi solo undici anni quando ti ho visto l'ultima volta! È difficile rassegnarsi e quando mi assale il pensiero che tu possa essere morto lo allontano all’istante e mi illudo che tu da un giorno all'altro tornerai tra le mie braccia. Ti abbraccio forte piccolo mio. Tua madre Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz”


Classe 3 A Francesco Jalloul


ANIMA SPENTA Undici anni. Aveva solo undici anni quando l’infanzia gli fu strappata. Chissà se nel buio piangeva. Chissà se nel buio tremava. Chissà se quel giorno di Giugno fosse stato come tutti gli altri, nel cortile a giocare a palla con gli amici, a ridere, a scherzare, a godersi la vita. Magari, ora le cose sarebbero diverse. Magari, avrebbe avuto una famiglia. Avrebbe conosciuto l’amore. Invece, ha lasciato un vuoto incolmabile in chi lo amava. Una ferita al cuore di chi gli voleva bene, che non guarisce, che sanguina, che soffoca la speranza. Speranza, che vacilla, che tremula, ma non si spegne, una luce lontana che lotta per


illuminare i cuori bui. Domenico Nicitra. L’ennesima vittima innocente, l’ennesima anima spenta dalla brama di guerra, sangue, potere, che non si placherà. Mai. 21 Giugno 1993

Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3E Francesca Santilli, Elena Valentini


PENSIERI... EMOZIONI... NEL SILENZIO Immaginava il calore delle mani della madre, il piccolo Domenico, poteva sentire il respiro sul proprio collo e la sensazione del tatto del palmo ruvido, segnato dall’esperienza ma ancora morbido sulla pelle, scivolare sulla sua guancia. Ora svaniva. Al suo risveglio fu spiacevolmente sopraffatto dai suoi sensi che ora sembravano tradirlo. Aspro sapore di fumo, alcool, sangue amaro e chiuso nell’aria irrespirabile, l’odore della mafia stessa. Illuminazione pressoché assente, se non per quei due o tre lampadari malconci pendenti dal basso soffitto di cui uno emanava luce a intermittenza, sollecitando una certa inquietudine e fastidio. Domenico tossì, ignaro della quantità di pulviscolo che avesse inalato durante il suo sonno, il quale cadeva a tratti dai muri come petali di pesco sfiorenti. Cercò invano il profumo di sua madre nell’aria protendendo il naso, l’appoggio di suo padre alla sua destra; ritrovò solo un pugno di cenere e qualche graffio in più. Non trovando più un senso, scoppiò in lacrime, cadendo sotto il peso della propria ingenuità. Passò vicino a lui poi, un uomo probabilmente doveva essere uno di “loro”, quelli che giostravano a piacimento con vite innocenti. Guardando il piccolo sdraiato tra la polvere provò compassione e fece l’errore di aver pietà. Scappatagli una lacrima, si avvicinò a Domenico, il quale non si mosse per timore e fece bene poiché quell’uomo, subito dopo, si ritrovò accasciato a terra. Domenico si coprì le orecchie con le mani strizzando gli occhi. Poi il suo viso pallido in contrasto con gli schizzi rossi sulle guance, gli occhi inanimati e l’espressione di un bimbo al quale sono state estirpate ingenuità e frivolezze legittime di colui, che dovrebbe essere solo un sognatore, ora giace nel più tonfo dei silenzi. Si avvicina un uomo alto, camminando a passi cadenzati che sembrano scandire il tempo; ride malinconicamente e rivolto al bambino: “Non avere pietà della vita perché lei non ne avrà di te”. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3E Noemi Pavone


LA SERA CHE HA CAMBIATO LA MIA VITA “Buonasera a tutti, apriamo il nostro notiziario con un omicidio: oggi 31 marzo 1995, è stato ucciso Francesco Marcone, direttore dell’ Ufficio del Registro di Foggia. L’omicidio è avvenuto questa sera alle ore 19:10, nell’androne del suo palazzo, con 2 colpi di pistola calibro 38 alla nuca. L’uomo è stato colpito al rientro dal lavoro, molto probabilmente perché stava indagando su alcuni affari illeciti della mafia nel suo ufficio. Per il momento è tutto! A più tardi con nuovi aggiornamenti.” RICORDO MOLTO BENE QUELLA SERA CHE HA CAMBIATO LA MIA VITA! Il 31 marzo 1995 era un giorno come tanti altri, qui a Foggia, mio padre era andato al lavoro ed io all’università. Da un po' di tempo notavo una cosa abbastanza strana: ogni volta che usciva di casa, papà si guardava intorno timoroso, come se avesse paura di essere seguito. ORA CAPISCO IL PERCHE’! Quel pomeriggio ero rimasta fuori fino a tardi a studiare e mi era sembrato molto strano che mio padre non mi avesse ancora chiamato. Arrivai a casa giusto in tempo per la cena, quando vidi una gran confusione davanti all’ingresso della mia abitazione: polizia, ambulanza, persone sconvolte! Alcuni poliziotti tentarono di fermarmi, ma io mi avvicinai e vidi un uomo… accasciato sulle scale in una pozza di sangue. Per un momento pensai che fosse un incubo ma presto capii che era la realtà: MIO PADRE!!! Lo riconobbi dai calzini, quei maledetti calzini bianchi che metteva ogni santo giorno! Lui mi diceva che gli ispiravano libertà e pulito, ma a me sembravano solo semplici calzini bianchi. Conoscete quella sensazione di vuoto che si prova quando muore qualcuno che amiamo?


E ci poniamo solo una domanda, semplice ma atroce: PERCHE’?! In quel momento avevo mille pensieri nella testa… mi passarono davanti agli occhi immagini felici della nostra vita insieme: quando mi portava con sé al lavoro, quando andavamo al mare, le nostre indimenticabili avventure…In un attimo era tutto finito! Non so bene il motivo per cui lo hanno ucciso, ma so soltanto che era onesto e questo poteva essere un problema per la malavita organizzata della città. Prima della sua morte, si era accorto di essere truffato da alcuni mediatori, che si facevano pagare spacciandosi per persone che lavoravano con lui. Stava cominciando a denunciare tutto questo: aveva inviato un esposto alla Procura della Repubblica e stava esaminando diverse pratiche sospette che coinvolgevano interessi miliardari. Fu per questo che uccisero non solo un meraviglioso padre di famiglia, ma anche un nobile lavoratore. Durante le indagini ho scoperto che mio padre era stato minacciato dalla “società”, la mafia di Foggia. In quel momento sono rimasta sorpresa, perché lui non aveva mai parlato di questo in famiglia, per non darci preoccupazioni. Ora voglio giustizia, anche se dopo la morte del principale sospettato le indagini si sono fermate e, purtroppo, la parte sana della città non ha collaborato abbastanza con gli investigatori. Possono pure aver ucciso lui, ma non la luce che splende dentro me e che mi spinge ogni giorno a combattere la mafia!!! Grazie papà! Daniela I.C. “G. GALILEI” - SAN GIOVANNI TEATINO Classe 2B Scuola Sec. I grado


NARRARE DI ME, DI TE, DI NOI, DI… PIETRO CARPITA Un pomeriggio di settembre del 1990 in un bar di Bresso. (Rumori di spari) Barista: “Cos’è successo? Hai sentito?” Cliente: “Sì, ho sentito! Sembravano degli spari!” B: “Vieni, nascondiamoci dietro il bancone!” C: “Chiamo la polizia!” B: “Sì, forza chiama! Chiama!” C: “Aspetta! Gli spari sembrano cessati! Oddio, senti anche tu le urla? Usciamo a vedere che succede!” La gente scappa impaurita, le strade sono tutte insanguinate e l’amico Pietro è accasciato a terra con una mano sul cuore. Barista: “Pietro! Ma che ti hanno fatto? Cosa è successo? Qualcuno mi sa spiegare?” Amico di Pietro: “Non lo so! Io e Pietro stavamo giocando a briscola, poi è uscito a comprare le sigarette, ha detto che avrebbe fatto subito, ma poi qualcuno ha cominciato a sparare e…” Barista: “Oh mio Dio! Pietro! Pietro! Era un così brav’uomo, amava tanto la moglie e le figlie, perché proprio a lui? Perché è successo?” Istituto Comprensivo 3- Chieti Classi I^A – II^A – IV^C/D – V^A Scuola primaria “Via Amiterno”


ALLA MAFIA Mafia: quante persone sono decedute per colpa tua. Mafia: tante persone, come Pietro Carpita, hanno lasciato la loro famiglia nel dolore. Mafia: tante persone hanno preso la via della Legalità per cancellare il ricordo di te!

Istituto Comprensivo 3- Chieti Classi I^A – II^A – IV^C/D – V^A Scuola primaria “Via Amiterno”


IL SILENZIO Era tutto buio. Mi sentivo bloccato, oppresso da quell'inutile frammento di metallo. In fondo a quel nero vedevo una luce accecante che mi dava conforto, sapevo che era la mia unica via d'uscita. In quell'istante qualcosa mi spinse, la prima immagine davanti ai miei occhi fu quella piccola 500 gialla. Volevo tanto fermarmi… ma non potevo, ero già in volo. Era un uomo, un uomo innocente, un uomo come tanti, ma era lui, il mio obiettivo, un direttore delle carceri. Mi avvicinavo sempre di più, ruppi qualcosa... era vetro. Non riuscivo più a fermarmi! Penetravo nella sua tempia. Su di me scivolava il suo sangue. Sentivo il suo dolore, sentivo i suoi pensieri: andare a prendere sua figlia, andare a comprare il latte... Mi guardavo attorno, non ero l'unico, ero uno degli 11 proiettili che lo colpirono. Sento le sirene dell'ambulanza, sento muovermi. Non sento più il suo battito, non sento più niente di lui, percepisco il suo ultimo respiro, i suoi ultimi pensieri…e tutto tacque. Ma che colpa ne ho io? Ho seguito una traiettoria, ma avrei di certo preferito trafiggere il centro del bersaglio che penetrare nella sua testa.

Scuola Secondaria di I grado Bucchianico Classe IIIA Scirpoli Rebecca e Troka Kevin


VITTIMA INNOCENTE È il 26 giugno 1983. Bruno Caccia si reca fuori Torino e torna in città solo in tarda serata. Alle 23:30 decide di uscire con il suo cane e poiché è domenica decide di lasciare la sua scorta a riposo. Questa scelta si rivela fatale. Bruno Caccia nasce a Cuneo il 16 novembre 1917, fin da piccolo la sua educazione è segnata dall’influenza del padre magistrato Giuseppe Caccia. Studia in un primo momento nella sua città natale, poi si trasferisce a La Spezia dove si diploma e si laurea in Scienze Politiche. Da questo momento inizia la sua carriera. Egli intraprende negli anni successivi numerose indagini contro la violenza e i pestaggi che in quegli anni erano all’ordine del giorno. Successivamente si occupa soprattutto delle infiltrazioni della ‘Ndrangheta calabrese nei Casinò e degli altri traffici che l’avevano portata addirittura a controllare il bar del Palazzo di Giustizia dove il nostro magistrato presta servizio. Una sera Bruno Caccia dopo ore passate in tribunale torna a casa e ad attenderlo c’è sua moglie Carla. “Ecco finalmente sei tornato, come è andata la giornata?”. “ Impegnativa come sempre, sto portando avanti delle indagini che mi stanno tenendo molto impegnato.” “ Proprio di questo volevo parlarti, ma non sarebbe il caso di iniziare a usare la scorta? Sai dopo le ultime vicende…” “Si, certo ma solo quando è strettamente necessaria.” Nel frattempo dall’altra parte della città Domenico Belfiore si ritrova con degli affiliati per fare il punto della situazione. Allora sei riuscito con il magistrato per quella questione? “ “Non è facile come pensavamo, sai Caccia è molto determinato e con lui proprio non ci si può parlare. Ho tentato di tutto, ma lui continua ad indagare e a mettersi contro di noi ma proprio non ne vuol sapere” “ Peggio per lui noi lo abbiamo avvisato, però gli consiglio di guardarsi bene attorno.” “Quindi abbiamo deciso?”


“Assolutamente, la decisione è presa. Chiama Schirippa e comunicagli il tutto, non possiamo perdere tempo.” “ Perfetto quando arriverà il momento giusto agirà, nel frattempo sta iniziando a seguirlo.” Qualche tempo dopo “Carla ,io scendo a prendere un po’ d’aria e porto giù con me anche il cane.” “ Che dici se andiamo insieme o se chiami qualcuno della scorta?” “ Ma tranquilla torno fra poco, poi è domenica voglio lasciarli liberi gli uomini, che stiano con le loro famiglie. Non preoccuparti, vado solo sotto casa.” “ Va bene, ma fa’ attenzione.” Rocco Schirippa e un altro uomo sono pronti nella Fiat 121 con la pistola ben nascosta, quando Bruno esce di casa con il guinzaglio in mano. Schirippa ccende la macchina e inizia ad avvicinarsi al magistrato. “Perché quei due dentro quella Fiat mi guardano con aria così sospetta, Bruno smettila di farti queste inutili paranoie e spaventarti da solo.” . I due aprono il finestrino, Schirippa estrae la pistola e spara 14 colpi, poi scende dall’auto per essere sicuro che sia morto e lo colpisce con altri 3 colpi e scappa lasciando lì il magistrato in posizione fetale, con la bocca contratta da una smorfia di dolore e con il suo cane che abbaia così forte da attirare l’attenzione della moglie. Carla si precipita sotto casa e si rende conto che ciò che da sempre aveva temuto è irrimediabilmente accaduto. Così morì Bruno Caccia, 1 delle 947 vittime innocenti della mafia. Che questo avvenimento porti alla mente quanto sia importante parlare, tenere alta la memoria di questi eroi, perché grazie a loro noi siamo un po’ più vivi! I.I.S. “L. di Savoia” - Chieti


NON EROE, MA VITTIMA PER DOVERE Sono Roberto Mancini, un poliziotto morto il 30 Aprile 2014, dopo aver indagato per anni sulla camorra e sul traffico di rifiuti, che hanno avvelenato la “Terra dei Fuochi”. Ho indagato per 12 lunghissimi anni sull’eco- mafia, prima nel 1994 sul clan dei Casalesi e poi nel 1996 con i miei collaboratori, lavorando per la Criminal Pool, abbiamo letteralmente “volato” sul Casertano individuando dei terreni contaminati...ricordo ancora quelle immagini agghiaccianti!!! Ma dopotutto non ho rancore per ciò che mi è accaduto, però mi tormenta l’idea che qualcuno possa aver insabbiato le mie indagini. A casa non ne parlavo mai, preferivo condurre una vita serena con la mia famiglia, ma la tranquillità che avevo tentato faticosamente di creare, mi è stata sottratta dal male del secolo, il cancro. Soffrivo molto, ma non volevo essere considerato un eroe, ma solo una “vittima per dovere”. Il rimpianto che mi accompagna è il non aver avuto l’opportunità di vedere mia figlia crescere. Ormai sono passati diversi anni dalla mia morte, e posso ammirare con soddisfazione la nascita di diverse associazioni che si battono contro mafie ed eco- mafie, che promuovono la memoria e il ricordo delle vittime innocenti, e che spingono i giovani e l’opinione pubblica a riflettere su questo fenomeno per ostacolarlo.

Liceo Classico Ortona Camilla Massari, Valeria Tamagnini


MA… MIMMO NON È PIÙ TORNATO Dopo anni di silenzio , ho deciso di raccontare la mia esperienza, la mia storia, ciò che è successo quel giorno e come ha cambiato la mia vita. L’ho fatto per far uscire tutta la rabbia che ho dentro, per far capire alle persone ciò che di efferato fa la malavita, anche se credo che questo sia impossibile. Sono Rita Nicitra, sono la sorella di Domenico Nicitra e la nipote di Francesco Nicitra, scomparsi entrambi il 21 giugno 1993. Quella di oggi è stata una giornata uguale a tutte quelle trascorse dopo il fatidico giorno in cui mio fratello scomparve: monotona e triste, priva di felicità. È trascorso ormai molto tempo, ma io non riesco ancora a farmene una ragione; gli volevo bene, andavamo molto d’accordo e stavamo sempre insieme, giocavamo, ridevamo e scherzavamo. Me lo ricordo bene: era un bambino di undici anni sempre sorridente, aveva i capelli neri che gli incorniciavano il viso grazioso con riccioli che spesso coprivano i suoi occhi curiosi di colore castano. Il 21 giugno 1993, Mimmo e mio zio, Francesco Nicitra, uscirono insieme in motorino per andare al nuovo negozio della Lego che aveva appena aperto in città. Mimmo desiderava da molto un giocattolo, perciò mio zio gli aveva promesso che gliene avrebbe regalato uno per il suo compleanno. Passarono ore, giorni, mesi, anni… ma Mimmo e mio zio non tornavano. La mamma piange tutti i giorni e più passa il tempo più tramontano le speranze. Iniziamo a credere che Mimmo ci abbia lasciati per sempre. Papà è in carcere perché, a causa del suo passato nel quale ha avuto dei rapporti con la Banda della Magliana, i giudici credono che sia colpevole della scomparsa di Mimmo e di zio Francesco. Però lui sta male, ha perso 15 kg, non gli vogliono concedere gli arresti domiciliari…nonostante tutto, noi crediamo che sia innocente. Anche mio zio ha avuto contatti con il mondo mafioso ed è per


questo che noi crediamo che la sua scomparsa, come anche quella di Mimmo, c’entri qualcosa con la Lupara Bianca. E poi ci sono io, che ho perso mio fratello che amavo più della mia stessa vita. A volte penso di voler morire, ma la mamma mi rimprovera con dolcezza incoraggiandomi a lottare sempre e a non perdere la speranza mai. Siamo rimaste io e lei in casa, siamo sole e senza mio padre è tutto più difficile. Ormai non usciamo più per la paura di essere rapite e le persone si sono fatte strane idee su di noi. L’ultima volta che ho visto mio fratello è stata la sera prima della sua scomparsa. Eravamo alla festa per il compleanno di nostro cugino Mauro, stavamo giocando nel giardino di casa quando abbiamo visto papà che se ne andava in macchina con uno sconosciuto che indossava una giacca nera e un paio di vistosi occhiali da sole. Passarono ore e papà non tornò, per questo mamma prese me e mio fratello e ci portò a casa. Quando papà tornò alle tre di notte, era pieno di lividi, aveva il labbro gonfio e i vestiti strappati, discusse tutta la notte con mamma e al mattino alle otto, come di consueto, uscì per andare a lavorare. Fu quella stessa mattina che dal garage di casa mia, in via Mario Ascoli, nella zona della Giustiniana, uscirono mio fratello Domenico Nicitra e mio zio Francesco Nicitra. Quella fu l’ultima volta che li vidi. Mimmo è la vittima innocente di un sistema fondato sul sopruso e sulla sopraffazione? Ma… Mimmo non è più tornato… Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe C Raffaelli Benedetta, Petricola Asia Mastrogiuseppe Andrea Clivio Emanuele; Sablone Fabio; Iannone Christian.


TRA I CAPELLI DI ANGELICA Un giorno Paola mi intravide, di sfuggita mi notò, sentii i suoi occhi su di me. Ero esposto su di un bancone, splendevo fra tanti trafitto da un raggio di sole, mostrando i miei colori, rosa e giallo, a chiunque passasse per di lì. Lei non esitò a comprarmi e mi infilò delicatamente fra i capelli nero corvino di Angelica. Ero fiero della posizione che occupavo, sempre e costantemente Paola aveva cura, ogni mattina, di sistemarmi affinché tenessi quella minuziosa ciocca che cadeva sull’occhio destro della piccola. Un giorno, come d’abitudine, Paola mi mise al solito posto, ma avevo il presentimento che quella non sarebbe stata una giornata come tutte le altre; passata la mattinata, giunse la sera. La madre condusse con sé Angelica in un posto che non avevo mai visto: buio, isolato, circondato da campagne. Paola si avvicinò a degli uomini insoliti... ah no, ricordo di averli già visti in casa: venivano spesso a trovare la madre di Angelica. Entrammo in un casolare e riconobbi subito, nelle mani di uno dei due, un fucile che in un attimo venne puntato in direzione dello stomaco di Paola. D’un tratto, un colpo. Sentii iniziare il pianto della bambina che si sfilò dalle braccia protettive della madre; immediatamente un secondo sparo. Mi parve che poco dopo quei tipi se ne andassero e io rimasi solo con Angelica, seduta sul pavimento gelido di quella stanza. Subito dopo, mentre la bambina continuava a lamentarsi, venne bruscamente presa dai suoi piccoli piedi e mi ritrovai, immediatamente, capovolto sottosopra, finché non scivolai tra le lunghezze dei capelli a causa delle forti percosse del piccolo cranio contro il muro. A un tratto non udii più i lamenti di Angelica, ma solo un forte calore avvolgerci. Una piccola parte di me divenne cenere, buttata in una busta insieme al corpicino della piccola. Per molto tempo non ascoltai nessun rumore, solo il miagolare dei gatti la notte, che si avvicinavano al nostro sacco. Dopo anni rividi la luce e delle persone tirarono fuori quello che rimaneva di me. Ritornai come all’origine su un bancone, insieme ad altri oggetti che credo fossero di Paola, circondato da volti che mi esaminavano, mi pulivano e continuavano a guardarmi. In seguito ritornai fra i capelli di Angelica, non più folti e


lisci. Ci misero in una scatola bianca e poi la richiusero. Per un momento mi sentii come se fossi di nuovo protetto e felice, come se fosse un giorno come tutti gli altri, sempre appoggiato su quel piccolo capo.

Liceo classico Chieti Classe 2ÂŞ D


RACCONTO LA MIA STORIA Io sono Roberto Mancini e oggi vi racconto la mia storia. Più di vent’anni fa ho iniziato la mia lotta, quella contro l’ecomafia. Non sapevo ancora in che cosa mi stavo imbattendo. So soltanto che ero animato da un forte senso del dovere e da un profondo sentimento di giustizia. I miei parenti non mi hanno appoggiato in questa indagine, impauriti e scettici su quello che avrei dovuto passare . Mamma diceva sempre: “Ma come si fa a indagare sulla monnezza? Quelli sono rifiuti, mica soldi!” Io in cuor mio ne ero cosciente, ma la mia testa lo ignorava, volevo andare a fondo, scoprire le verità. Anche la polizia e la magistratura non mi hanno sempre sostenuto, troppo impegnati in altri casi per pensare al mio, ma io non mi sono arreso, ho continuato a lottare, anche se questo mi è costato molto caro. Furono proprio la distrazione generale, l’assenza di leggi adeguate, il far finta di non vedere il male diffuso, che consentirono ad una cricca imprenditoriale di costruire castelli dorati, mettere in atto pratiche illegali e devastare immense aree del nostro paese. Avevo una squadra di pochi uomini, meno di una decina. Ma, come si dice, eravamo pochi ma buoni; certo avevamo paura, ma sapevamo che lo stavamo facendo per difendere molte altre persone. Mi sono ammalato di un male terribile, dal nome complicato, un certo “Linfoma non- Hodgkin”. Perché a me? Me la sono cercata, forse avevano ragione tutti, forse non avrei dovuto combattere, credevo di poter superare tutto, credevo di poter diventare un eroe e adesso non mi rimane più nulla... sto morendo. Le ore, i minuti, i secondi passano sempre più velocemente e io desidero soltanto più tempo per stare con la mia famiglia. Sono morto, il 30 aprile 2014 mi sono spento, volato chissà dove. E se avessi intrapreso un’altra strada? Forse adesso starei ancora con mia figlia, l’avrei vista crescere, adesso avrebbe un padre come tanti e non una “ vittima del dovere”, come mi hanno definito, che è


andato via da lei per lottare contro un mostro piĂš grande di lui. Una domanda, a voi che state ascoltando, perche pensate a me solo adesso? Perche non avete fatto NIENTE per evitare tutto questo?

Liceo Classico Ortona Nina Del Ciotto, Raffaella Mastrangelo


DOVE C’È MAFIA Dove c’è mafia Non c’è libertà, né pace, né amore, né amicizia. Molte persone soffrono per la mafia e vivono piene di paura. Molte persone vorrebbero cambiare vita, oppresse dal dolore per i loro familiari uccisi. Non bisogna aver paura della mafia: bisogna sconfiggerla tutti insieme! Istituto Comprensivo 3- Chieti Classi I^A – II^A – IV^C/D – V^A Scuola primaria “Via Amiterno”


CARO PAPÀ, Caro papà, Sono Sergio, il figlio che non hai mai conosciuto. L’unico modo che ho avuto, per scoprire la persona che eri, è stato attraverso i racconti dei tuoi amici, dei tuoi colleghi, ma soprattutto della mamma. So che nella città Bruzia, a partire dal settembre del 1982, ti impegnasti nella riorganizzazione delle case circondariali e mettesti fine a tutti quei piccoli e grandi privilegi concessi agli esponenti di spicco della criminalità locale in carcere, disturbando di fatto il prosieguo delle loro attività illecite. Mi ricordo quando mamma mi ha detto che non ti sei piegato dinanzi alla protesta che fecero i detenuti nell’ 83 per avere un’ora d’aria in più, e tenesti testa a Franco Perna, capo dell’omonima ‘ndrina. Sai papà, fu proprio in quel momento che la tua condanna a morte venne stabilita. “Mio marito cercava un nuovo corso da seguire, un corso che va condiviso, perché non potranno ammazzarci tutti. L’ isolamento uccide, la condivisione salva”. Questa è la frase incisa su una scultura in tuo onore, che si trova nel luogo in cui tu perdesti la vita. Sento spesso la mancanza di una figura paterna, che mi stia vicina in tutti i momenti della vita. Per me tu sei qualcuno da prendere come esempio, un uomo buono, gentile, altruista, coraggioso e leale, sei l’eroe dei miei sogni, quello che ho sempre immaginato e non ho mai conosciuto. Sono fiero del mio nome, perché è anche il tuo. Sergio. Scuola Secondaria di I grado di Bucchianico Cclassi II A e III B Di Tizio Benedetta, Cojoc Alexandra, Maccarone Marta, Di Labio Matteo, Saraullo Davide, Santoro Noemi, Santarelli Benedetta


MICHELE FAZIO Michele Fazio era un giovane ragazzo di sedici anni che il 12 luglio 2001 è morto solo perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: è finito casualmente sulla traiettoria di un proiettile che era diretto altrove. Nel cuore di Bari vecchia Michele finì vittima di uno scontro a fuoco fra due clan rivali. A ucciderlo un proiettile che lo colpì alla nuca. Michele era un bravo ragazzo, figlio di brave persone. Stava tornando a casa, attraversava quel reticolo di vie e piazzette della città vecchia in cui le “brave persone” sono costrette a vivere con i delinquenti e la malavita organizzata. La sua vita fu fermata da un proiettile destinato, presumibilmente, a un pregiudicato messo in lista nera da un clan, per colpire un altro clan.I suoi assassini, disse una squadra di quattro giovanissimi, sbagliarono il bersaglio. Gli inquirenti arrivarono a sospettare che Michele fosse stato usato come scudo dal destinatario dei proiettili, probabilmente Giuseppe De Felice detto “Pinuccio ù Napoletan”, del clan Strisciuglio, nel corso di un agguato che era considerata una risposta all’uccisione, avvenuta il 29 giugno precedente, di Tonino Capriati, nipote del boss dell’omonimo gruppo criminale in lotta con gli Strisciuglio. In occasione dei funerali del ragazzino venne organizzata una manifestazione nel borgo antico. Ma su chi fossero gli assassini di Michele, nonostante i forti sospetti, non si ebbe mai la certezza, mai prove schiaccianti e fu così per Pinuccio e Lella Fazio arrivò la doccia fredda: a poco più di due anni dall’omicidio, nel gennaio 2004, il pm che conduceva le immagini chiese l’ archiviazione del caso. Da allora i genitori del ragazzo si rifugiarono in un silenzio eloquente, non parteciparono alle manifestazioni per il secondo anniversario del figlio, si chiusero nel dolore. Il 14 marzo 2004 l’ inchiesta venne riaperta dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari. E così che, per il terzo anniversario del


figlio, i genitori tornarono in Municipio. Ma quello di Michele non fu l’unico caso di omicidio “per caso”. Solo due anni dopo venne ucciso un altro ragazzo innocente, Gaetano Marchitelli, quindici anni. Ma non furono solo ragazzini a finire vittime della guerra di mafia, poche settimane dopo venne ferita una settantenne; e anche in quei casi i bersagli erano altri. Da allora Bari vecchia ricorda Michele Fazio…l’Italia intera ricorda questa vittima innocente di mafia con un momento di raccoglimento in largo Amendoni, il luogo dove Michele Fazio è stato assassinato diciassette anni fa e dove Pinuccio e Lella, i genitori, vivono ancora. "Lo facciamo per chiedere memoria e giustizia, e per dire che la criminalità ha perso", raccontano i genitori di Michele Fazio il 21 Marzo 2017, quando la Giornata della memoria e dell’impegno si è svolta proprio a Bari . Insieme con loro i genitori di Giuseppe Mizzi, la sorella di Florian Mesuti, le mamme, i papà e i figli dei pugliesi innocenti, uccisi dalla mafia: Francesco Marcone, Antonio Montinaro, Domenico Martimucci, Renata Fonte, Gaetano Marchitelli, Nicola Ruffo. In prima fila i familiari delle vittime della criminalità…poi scuole e migliaia di persone che fanno memoria di tutti coloro che abbiamo perduto in questa battaglia: i martiri della mafia . Con la loro morte “ognuno di noi ha perso qualcosa, una parte del diritto alla vita. Ognuno di noi può essere ingiustamente colpito. Solo i nostri figli possono far sì che questo mondo cambi, che si possa vivere in un mondo fatto di lavoro e non di sangue, perché domani quel sangue potrebbe essere il nostro" . queste le parole della mamma di Giuseppe Mizzi, anche lui giovane barese vittima della mafia solo qualche giorno fa. Solo la memoria può creare il cambiamento. ISTITUTO COMPRENSIVO FARA FILIORUM PETRI


SONO QUI Sono qui, immerso nel mio stesso sangue, disteso sul marciapiede proprio davanti casa mia, l’unico luogo dove, forse, mi sentivo più al sicuro. All’improvviso vedo tutta la mia vita scorrermi davanti, come fosse un treno in corsa, la guardo e ne rivivo ogni singolo attimo. Morire in questo modo non è sicuramente quello che mi aspettavo, dopo tutto ciò che ho fatto, mettendomi al servizio di questo Paese, con il mio lavoro. In cuor mio, però, ero consapevole del fatto che andando contro la mafia, il prezzo da pagare sarebbe stato questo. Mi dirigo verso la porta, dopo aver indossato la mia giacca ed esco a fare una passeggiata con il mio cane. Ho contattato la mia scorta dicendogli di rimanere a casa, visto che è domenica, per passare del tempo con la propria famiglia. Cammino sul marciapiede nel silenzio della città, silenzio interrotto dal motore di un’automobile. Neanche il tempo di voltarmi, che dei colpi di pistola mi attraversano il corpo e mi ritrovo steso sotto un cielo stellato, tipico delle notti estive di giugno. Non sento nulla. Sento solo la vita che mi abbandona ogni istante che passa, sempre di più, consapevole del fatto che l’ultima cosa che avrei visto sarebbero stati quei puntini luminosi in quel mare nero, che adesso mi sembra immenso, e sembra quasi volermi soffocare. Così, sento che è arrivata la mia ora, e metto tutta la vita che posso dentro l’ultimo respiro, mentre mi abbandono all’asfalto, che accarezza la mia pelle, insieme al mio sangue. Non sarò la prima né l’ultima persona uccisa da questo mostro che da anni divora il nostro Paese, e per questo motivo non devo e non voglio essere dimenticato, come non devono essere dimenticate tutte le vittime innocenti delle mafie. Vorrei che la morte di tutte queste persone, compresa la mia, non fosse inutile. Vorrei che tutto ciò fosse la spinta necessaria per cambiare le cose, per non arrendersi, nemmeno di fronte a tanta crudeltà. Vorrei che si capisse che la mafia si può combattere, ma solo essendo uniti e avendo coraggio, quanto basta per essere un po’ più liberi. I.I.S. “L. di Savoia” - Chieti


VIVERE ANCHE SE SEI MORTO DENTRO La mamma apre lo sportello e sale in macchina. Lei è davanti, io sono dietro. La macchina parte, andiamo veloce, veloce. La mamma ogni tanto si gira e mi guarda. La vedo, è agitata, non capisco perché. La macchina si ferma, siamo arrivate. Mi prende in braccio e scendiamo. La mamma mi stringe forte. Entriamo in questo posto: è brutto, è buio, puzza, non so di cosa sappia però non mi piace. Non voglio stare qui, non so perché la mamma mi ci abbia portata. Ad un tratto vediamo due uomini venirci incontro. Sembrano cattivi, ho paura, non so perché la mamma parli con loro. Secondo me, vogliono farci male. La mamma non sembra felice quando parla con loro. Non capisco, non capisco cosa stanno dicendo. BOOM! Un grande botto. Mi guardo il piede, è tutto rosso, fa male, fa tanto male, non vedo più niente, è tutto nero, non capisco cosa sta succedendo, la scarpetta non c’è più. La mamma ha urlato, ma continua a dire che non ha paura. Non ha paura di cosa? Non sto capendo. Sento un altro botto, le orecchie mi fanno male. Sono a terra, anche la mamma è caduta. Non mi risponde, piango, non capisco perché non mi risponde. La sua pancia è rossa come il mio piede. Cosa è successo? Gli uomini se ne sono andati. Inizio a chiamarla “mamma, mamma”, non mi risponde, ha gli occhi chiusi. “Mamma svegliati”. Niente. Provo ad avvicinarmi a lei ma il piede fa ancora male. E il rumore è sempre più forte. Mi viene sonno ma non devo addormentarmi, devo andare a svegliare la mamma. Le tocco il viso, gli occhi, la mano ma non si muove. È fredda come questo posto e ora anche le mie mani sono rosse. A un tratto vedo sul suo petto una lacrima, forse è mia, non lo so, non capisco più niente. E il rumore è ancora più forte. Appoggio il viso sul suo petto e la stringo a me. Il rumore è diventato fortissimo, mi si chiudono gli occhi e alla fine mi addormento anche io. Eccolo qui, di nuovo quel rumore assordante. Apro gli occhi e la stanza è ancora buia. Allungo il braccio e finalmente torna a regnare il silenzio. Odiosa sveglia. Salgo in macchina e accendo la radio: “vivere anche se sei morto dentro”... quanto è vero. La canzone continua “oggi non ho tempo, voglio restare spento”. Questa frase sembra calzare a


pennello con questa giornata. Arrivata, mi avvio verso quel pozzo di ricordi e tristezza e lì, davanti a quel cancello, davanti a quella distesa verde, continuano a tormentarmi quelle mille domande alle quali non sono mai riuscita a rispondere. “Perché eravamo lì?”, “perché mi ha portato con sé? Si fidava così tanto da portare anche sua figlia di due anni?”, “perché era entrata a far parte di quel giro?”. Non potrò mai saperlo, mi ha abbandonata quando non potevo ancora far nulla per cambiare le cose, per farle cambiare idea. Ma ormai è andata. Lei non c’è più e io sono qui, senza una madre alla quale raccontare chi ero, chi sono e come sono diventata quel che sono oggi. Senza la mia mamma. Di quel giorno non ricordo quasi nulla, ma una cosa la so: non meritava questa fine, nonostante tutto, nonostante i suoi errori. PAOLA RIZZELLO 20/03/1991 Adesso è qui inscritta su una pietra: fredda, grigia, anonima: non fa per lei. La lapide della donna più coraggiosa che conosco, che non si è persa, fino all’ ultimo. La lascio lì, con un fiore, un bacio e un sorriso, come ogni volta. BIAGIO TOMA UCCIDE MADRE E FIGLIA: PAOLA RIZZELLO, DONNA DI 27 ANNI, MORTA DOPO DUE SPARI DI FUCILE A CANNA MOZZA, UNO NELLO STOMACO, UNO NEL PETTO, 20 MARZO 1991 ANGELICA PIRTOLI, BAMBINA DI DUE ANNI E MEZZO, AFFERRATA DAL PIEDE FERITO DA UN PROIETTILE, POI SCARAVENTATA CONTRO UN MURO FRACASSANDOLE IL CRANIO. 20 MARZO 1991. Liceo classico Chieti Classe 2ª B


PERSO NEL BUIO Mamma mi abbraccia strappandomi un bacio sulla guancia che io ricambio con un colpetto affettuoso sulla sua schiena. Nel momento in cui mi lascia andare mi dirigo verso mio zio Francesco, che mi aspetta appoggiato all’arco della porta. Quando correndo gli passo affianco, mi scompiglia i capelli affettuosamente, per poi salutare mia madre, ancora impegnata nelle sue solite raccomandazioni, con un cenno della mano. Io e lo zio saliamo sulla moto, dirigendoci verso la borgata Ottavia, dove qualche settimana fa ho visto la splendida bici da cross che mi era stata promessa come regalo per la promozione. Lo zio sfreccia per le caotiche vie di Roma, affollate persino il lunedì mattina, mentre io mi guardo attorno, pensieroso. Sono felice di aver terminato le elementari perché ora posso essere considerato un bambino grande anche tra i grandi che non fanno parte della mia famiglia. A casa i grandi parlando di cose loro anche davanti a me, a differenza di tutti gli altri adulti che conosco, specialmente dopo l’arresto di mio padre, accusato di collaborazione mafiosa. Lo zio parcheggia la moto sotto l’ombra di un albero, in una stradina poco distante dal negozio. Scendiamo, iniziamo a camminare lentamente, per poi entrare a chiedere alla commessa la tanto sognata bici da cross. Lo zio paga e io lo abbraccio per ringraziarlo, mentre un sorriso affiora sulle sue labbra. Appena usciti ci dirigiamo verso la sua moto e io rompo il silenzio chiedendo : “ Come riportiamo la bici a casa?” Lui sta per darmi una risposta, quando cinque signori vestiti di nero ci accerchiano e due di loro mi caricano sulle spalle, facendomi staccare i piedi da terra, cadere la bici e iniziare a gridare. Non riesco a vedere gli altri signori, a sono quasi sicuro che stiano facendo lo stesso lavoro con mio zio. Qualche minuto dopo, mentre sono seduto sui sedili posteriori di una BMW nera a finestrini oscurati, qualcuno con una faccia che ho già


intravisto qualche volta, mi colpisce, nel tentativo di placare le mie urla. Il mio ultimo pensiero va a mia madre e all’agonia che proverebbe se solo sapesse cosa sta accadendo in questo momento… E poi non vedo più niente… a parte il buio. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 I Beatrice Di Labio, Francesca Romano, Samuele Berardinelli, Michel Bellia


EMANUELE RIBOLI Emanuele Riboli, un ragazzo di 17 anni, viene sequestrato mentre tornava dalla scuola serale. Viveva nella provincia di Varese insieme ai suoi genitori e ai suoi quattro fratelli. Di giorno lavorava nella carrozzeria del padre. Aveva una grande passione per il motocross e amava molto il suo cane. Il 14 ottobre 1974 Emanuele non torna a casa perchè rapito da un gruppo di ‘ndranghetisti che agli inizi degli anni ‘70 erano passati dal contrabbando al sequestro di persona. In seguito si scopre che i rapitori erano dipendenti del padre ed esponenti della famiglia mafiosa degli Zagari. Di lì a poco viene chiesto un riscatto di un miliardo di lire, ma, essendo il primo caso di sequestro di ‘ndrangheta, polizia e carabinieri non sanno come muoversi per condurre le indagini. Infine ci si accorda per il pagamento vicino Siena. Purtroppo il piano non va a buon fine e i banditi decidono di uccidere l’ostaggio. La vicenda va avanti per diversi anni, ma perché i rapitori di Emanuele vengano catturati bisognerà attendere il 1994. A quel punto è troppo tardi e il reato cade in prescrizione. Lo Stato, infine, si scusa con la famiglia Riboli ed è costretto a risarcirla. ISTIUTO OMNICOMRPENSIVO “B. SPAVENTA” CITTA’ SANT’ANGELO Classe II A SS1


PERCHÉ MI CHIAMO SERGIO 12 MARZO 1985 Sentivo un sussulto nella pancia di mamma, era il dolore. Non potendo vedere, mi chiedo cosa sia potuto succedere di così brutto a tal punto da far piangere la mia mamma, una donna sempre sorridente. 13 MARZO 1985 Oggi il dolore è ancora più forte. Dentro mia mamma sento un buio profondo, quasi infinito. QUALCHE MESE DOPO… in ospedale Non credevo che le persone avessero questo aspetto, che io avessi questo aspetto. In mezzo a tutte queste voci, non sento quella di mio padre; l’ultima volta che l’ho sentita è stata quando mi disse: “Ehi piccolo, vado a prendere la sua sorellina, a tra poco principino, smack!”. Da quella volta non so che fine abbia fatto, sarà fuori per lavoro? Mh… Non so, però non vedo l’ora di guardarlo. 10 ANNI DOPO… Oggi ho preso un dieci in storia, son molto contento e fiero di me! Questa gioia vorrei vederla anche negli occhi di mio padre. Non so ancora cosa gli sia successo, ogni volta che provo a chiederlo a mia madre, lei cambia discorso, ma capisco che questo le provoca molto dolore… Adesso però è arrivato davvero il momento, il momento di sapere perché mio padre non è qui con noi, e perché mi chiamo Sergio… UN’ORA DOPO Ho scoperto cosa è successo a mio padre… Non ho parole…Non


riesco a smettere immaginare la scena che mi è stata raccontata. Mio padre nella sua 500 gialla, mentre andava a riprendere la mia sorellina, quando ad un certo punto, due killer mafiosi, con due grandi mitragliatrici, spararono undici colpi nella tempia di papĂ : un uomo che aveva solo intenzione di abbattere il concetto di disuguaglianza nelle carceri, e non solo. Ăˆ vero, forse mio padre non era un eroe, ma di certo non era un uomo qualunque.

Scuola Secondaria di I grado di Bucchianico Classe III A Ruano Alice e Agata Vicentini


IO, VITTIMA DEL DOVERE, IO, ROBERTO MANCINI Il clan dei Casalesi; una terra, la più temuta di tutte; io, Roberto Mancini, e una storia da raccontare. Non inizierò con un “C’era una volta”, perché si sa, la mia non è una favola. Iniziando dal principio possiamo dire che avevo una famiglia. Si, una moglie e una figlia meravigliose; le amavo dal profondo dell’anima. Fin quando non fui chiamato dal pubblico ministero Alessandro Milita per svolgere delicate indagini e testimoniare il disastro ambientale e l’inquinamento nelle falde acquifere in Campania. Fu dura, lo ammetto; indagare su un’organizzazione criminale camorristica del mio paese allo scopo di produrre informazioni che sarebbero servite alla direzione distrettuale antimafia di Napoli... Fu un vero e proprio impegno, ma, io amo il mio lavoro e so di farlo bene, perciò metterò in atto questa pratica a costo della vita. Ah... cosa farei per ritornare indietro e rimangiarmi quelle quattro parole: “a costo della vita “. Quante volte ci è capitato di voler ritornare nel passato per distruggere lettera per lettera tutte le parole dette? Infinite. Ma a me capitò una volta, e quella volta fu la prima e l’ultima. Dopo qualche anno, il contatto ravvicinato con rifiuti tossici e radioattivi mi portò a contrarre il linfoma non- Hodgkin, un’infezione polmonare che si sviluppa nelle cellule del sistema immunitario, che mi venne diagnosticato nel 2002. Sono morto il 30 aprile 2014, “vittima del dovere” dicono. Ho abbandonato i miei familiari e tutti i miei amici in un mondo cinico e venale; mi sono spento nel buio, e se qualcuno avesse preso in considerazione la mia indagine, non ci sarebbe stata Gomorra. Ho ottenuto un riconoscimento per essere stato il primo poliziotto che con la sua squadra ha indagato sullo sversamento illegale di rifiuti speciali e tossici. Ma per che cosa? A me non piace essere chiamato eroe... Amo soltanto il mio lavoro, che so di fare bene, e anche Cipriano Chianese, re delle ecomafie, lo sapeva.


Liceo Classico Ortona Giulia Greco, Giulia Tenisci


IO DOVRÒ RACCONTARE QUESTA STORIA Come ogni mattina Paola mi aggancia al suo collo, subito una spruzzata di profumo, la solita coda alta e via: fuori per quella che sarebbe stata la nostra ultima giornata. Quella mattina tutto regolare: Angelica a scuola, commissioni varie in città. Lo specchio ci ritraeva bellissime, prima di varcare la porta di casa per andare a riprendere la bimba. Ma lo squillo del telefono annunciava un inaspettato appuntamento nel tardo pomeriggio con Biagio Toma. Paola si fidava di lui, tanto che decise che avrebbe portato Angelica con sé al casolare: quindi con le chiavi della Panda rossa in tasca, ci dirigemmo a scuola. Le mani di Paola sul volante, dallo specchietto scorgevo Angelica sui sedili posteriori, e l'alfa di Biagio che ci seguiva. Girata la chiave l'auto si spegne. Presa la bambina in braccio entriamo nell'Alfa. Sento il cuore di Paola accelerare: perché c'era anche Luigi con noi? Il suo respiro torna regolare, quindi capisco che si fida lo stesso. Nonostante pensasse di avere tutto sotto controllo continuava ad avere sempre Angelica in braccio stretta a sé. Per un attimo non vedo dove siamo diretti perché la testolina di Angelica addormentata mi offusca la vista. Con una brusca frenata la macchina si ferma e scendiamo: siamo al casolare. Ancora non vedo nulla, avverto solo rumori metallici. A un tratto la voce ferma di Paola: "Non mi fai paura!". Cosa sta succedendo? Un botto. Un'altro. Angelica piange, grida. All'impatto col pavimento freddo sento dei passi allontanarsi. Non sento più il respiro di Paola, solo le urla disperate di Angelica che tenta di calmare quell'atroce dolore che sentiva al piedino. Sento il sangue caldo avvolgermi. Vedo il sole tramontare e sento solo singhiozzi. Sembrava fossimo lì da un'eternità, quando percepisco dei passi avvicinarsi. Qualcuno è venuto a salvarci? No. Perché Angelica è ancora viva e piange e l'uomo la prende dal piedino ferito e la sbatte contro il muro. Forte. Ancora più forte. Il suono sordo della sua testa contro la parete invade il casolare. Poi un ultimo tonfo e Angelica giace


con Paola sul pavimento. Ed ecco una luce accendersi: il fuoco ci brucia, brucia i nostri corpi. Mi sento ardere, ma non mi sciolgo. Resisto. Io dovrò raccontare questa storia. Liceo classico Chieti Classe 2ª B


LA PENNA DI ROBERTO MANCINI La tasca destra dei pantaloni di Roberto non mi era mai parsa così silenziosa e buia, il nauseante tanfo d’ospedale l’aveva ormai riempita, percepivo il gomito di sua moglie che vi premeva contro, mentre ella tremava, il corpo stanco si contraeva nel suo pianto incessante, ed era appoggiata al busto del marito, che cercava invano di trattenere a sé. Non avevo mai potuto veramente osservare la reazione del mio proprietario alla chemioterapia, ne avevo solo udito gli effetti, descritti dalla voce ovattata di un medico, quando con tono asettico aveva dato ai coniugi l’infausta notizia della malattia del signor Mancini. Avevo potuto studiare il suo volto molte volte negli anni, quando mi usava per redigere quei rapporti interminabili, narranti di una realtà quasi distopica, nella quale rifiuti tossici venivano abbandonati nel sottosuolo, da cui sarebbero nati ridenti frutti. Mentre si dedicava a quegli scritti così straordinariamente formali, assistevo alla manifestazione della sua collera: la luce calda della vecchia lampada accentuava la sua espressione, decorando il suo viso con chiaroscuri marcati, le narici si dilatavano leggermente, lo sguardo era incupito dalle emozioni, ed io, che lo conoscevo da tanti anni, riuscivo, come pochi, a riconoscervi anche un velo di tristezza. Roberto fece di me un mezzo di giustizia, per la prima volta, nel 1996, quando a trentacinque anni concluse la sua prima indagine sui traffici illeciti di rifiuti, fiero di poter servire la sua patria: ciò cambiò, però, dopo averne consegnato il resoconto che, anche per quanto gli sentii confessare alla moglie, aveva già previsto sarebbe stato ignorato a lungo. Ricordo ancora il giorno della sua morte: avevo paura, temevo che tutto ciò che Roberto aveva faticato a costruire sarebbe finito in un oblio di negligenza … Fu quindi un sollievo sentirmi trascinare fuori dal guscio di stoffa, ormai totalmente gelido, che da sempre mi avevo celato, dalla mano liscia e minuta di sua figlia Alessia, che tutt’ora mi impugna, permettendomi di scorgere brevemente il corpo del padre, per consegnare alle sue membra senza vita un ultimo saluto. Liceo Classico Ortona


Giada Di Benedetto, Gioia Tenaglia


CARA ROSSELLA Cara Rossella, Sono il tuo papà e se stai leggendo questa mia lettera significa che non ci sono più. Ho deciso di prendere carta e penna e di scriverti per raccontarti chi è davvero tuo padre. Sin da piccolo ho avuto uno spiccato senso della giustizia, amavo rispettare le regole e farle rispettare agli altri. Ciò mi ha portato a lavorare nelle carceri di Lecce e Palermo per poi arrivare in Calabria nella veste di direttore del Penitenziario di Locri, Crotone e Cosenza. Qui ho cercato di mettere fine a tutti quei piccoli e grandi privilegi concessi agli esponenti di spicco della criminalità locale in carcere. Ma per loro sono solo un ostacolo e, come se non bastasse, in questa azione mi sento solo, è difficile trovare persone coraggiose che collaborino per il bene comune. La gente ha paura perché sa quello che la ‘ndrangheta potrebbe fare a loro e alle loro famiglie. Ma io non ho paura, vado avanti perché voglio essere per te un buon esempio. In tutto questo ricordati sempre di andare per la tua strada, non piegarti al volere di nessuno, ascolta solo il tuo cuore. Io spero che tu non dovrai mai leggere questa lettera ma che possa essere io a raccontarti chi sono davvero. Sii forte e non mollare mai. Il tuo papà Scuola Secondaria di I gradodi Bucchianico Classe IIA e IIIB Cilli Alice, Fazio Alice, Ricci Ludovico, Maccarone Camilla, Tatasciore Alessandro, Panara Alessia


MI CHIAMO ROBERTO MANCINI Mi chiamo Roberto Mancini, sono nato nel lontano 1961 nella bellissima Roma. Sin da bambino ho sempre sognato di vivere in un mondo dove la giustizia e il rispetto fossero all’ordine del giorno, infatti nel 1980 divenni poliziotto cercando di trasmettere la mia ideologia al mondo. All’inizio della mia carriera non sapevo cosa fosse realmente l’eco- mafia e come lavorasse, ma alcuni anni dopo, a me e ad alcuni uomini fu dato il compito di indagare circa il traffico abusivo della spazzatura; io inizialmente ero abbastanza scettico, ed ero influenzato anche dal giudizio dei miei familiari, in particolare da quello di mia madre Giovanna, la quale mi chiedeva spesso come si facesse ad indagare sulla spazzatura. Saranno proprio quell’indifferenza generale e l’assenza di leggi adeguate che consentiranno ad una cricca imprenditoriale di devastare immense aree del nostro paese - in particolare della Campania. Durante le indagini, scoprii che il principale esponente era Cipriano Chianese e fu lui a dare vita a questa organizzazione illegale. Le indagini si sospesero per più di dieci anni, ma io non mi arresi, continuai ad indagare. Ho fatto diversi sopralluoghi e sono stato protagonista di molti scavi. Ho contratto il linfoma non- Hodgkin, ovvero il tumore nelle cellule del sistema immunitario. Mi chiamo Roberto Mancini e non posso più indagare sullo sversamento illegale dei rifiuti tossici e speciali. Ho lasciato mia moglie e mia figlia. Mi chiamo Roberto Mancini e non posso più vedere mia figlia crescere, non posso invecchiare con mia moglie, starle accanto sino alla fine dei suoi giorni. Non posso proteggerle come mi ero promesso di fare. Mi chiamo Roberto Mancini e credo ancora che il rispetto e la giustizia possano sovrastare la criminalità. Mi chiamo Roberto Mancini, ho 53 anni e li avrò per sempre.


Liceo Classico Ortona Aurora Castorio, Sofia Rubina Giancristofaro


UN TESTIMONE A QUATTRO ZAMPE Stavo passeggiando per i quartieri della città e, come al solito, i morsi della fame si facevano sentire. All’improvviso vidi un cassonetto dell’immondizia e mi ci buttai dentro. Mentre rovistavo tra i rifiuti, sentii delle voci e mi avvicinai per ascoltare meglio. Le voci si facevano sempre più forti…Vidi due uomini alti e grossi con delle armi e occhiali scuri che discutevano con un signore. Vicino c’era un bambino, sembrava parecchio spaventato. Lo osservai con attenzione: era così piccolo e innocente, con quella carnagione chiara e quel ciuffo ribelle sugli occhi. Sembrava davvero fuori posto. La voce dei due uomini era fredda e minacciosa. Vidi il bambino irrigidirsi, scosso da brividi di paura. I suoi occhi si scurirono e il suo sguardo si perse nel vuoto. In quel momento mi dimenticai della fame e rimasi a fissare quella gracile figura pensando a cosa ci facesse lì, con quella gente. Perché non era con i suoi compagni a giocare? Perché accanto a lui non c’era nessuno ad abbracciarlo e a coccolarlo? Scosso da questi pensieri li seguii, forse potevo procurarmi anche del cibo. Mi infilai nella automobile sulla quale erano saliti a forza il signore e il bambino. Perché erano legati? E dove erano diretti? Nessuna delle mie domande poteva avere una risposta… Dopo un tempo che mi sembrò infinito, il motore si spense. Quegli uomini con gli occhiali scuri portarono via i due passeggeri. Non potei seguirli, perché quei bruti presto si accorsero di me. Gattaccio maledetto! Niente e nessuno potrà intralciare i nostri piani! La morsa si fece sempre più forte, persi i sensi e mi risvegliai nel bel mezzo della campagna. Che fine avrà fatto quel simpatico bambino dagli occhi allegri e sorridenti e dallo sbarazzino ciuffo nero sulla fronte? Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 L Micaela Bascelli, Sara Del Monaco, Maura Febbo, Desirèe Giacich


UCRONIA E se Roberto Mancini avesse fatto un lavoro diverso? E se fosse stato avvisato che laggiù non doveva indagare, perché centinaia di metri sotto terra c'erano rifiuti tossici? Purtroppo non si può tornare indietro nel tempo … Roberto sin da piccolo sognava di fare il poliziotto...risolvere tanti casi, lottare per la giustizia. Nei primi anni '90 iniziò a lavorare sul traffico illecito di rifiuti tossici in Campania, in quella dannata terra che oggi è chiamata "Terra dei Fuochi". Da una parte se Roberto Mancini non avesse svolto le sue indagini sulla Terra dei Fuochi, adesso sarebbe vivo, continuerebbe a lavorare nella Polizia, vedrebbe crescere sua figlia, ma dall'altra parte noi tutti i giorni mangeremmo frutta e verdura contaminata, e saremmo completamente all’oscuro di questo sporco fenomeno. Roberto si ammalò di una rara forma di cancro: il linfoma nonHodgkin, dovuto all'inalazione dell'aria contaminata dai veleni. E se non avesse risposto alla chiamata del Magistrato e se si fosse rifiutato di indagare su quella zona? Se non avesse avuto il desiderio di andare a fondo? Ma non accadde: Roberto volle mettere la sua stessa vita a servizio dello Stato. Quello Stato che sapeva che la terra era contaminata, che non poteva essere coltivata, ma non avvisò né i contadini e né gli agricoltori. Alcuni anni dopo l'inizio dell'indagine di Roberto, furono svolti vari controlli sulla "Terra dei Fuochi" e i risultati furono scioccanti; la terra presentava una quantità elevata di rifiuti tossici che avvelenavano le falde acquifere e i terreni. Pur sapendo questo, il geologo Giovanni Balestri "aggiustò i risultati" e con i suoi "aggiustamenti" i rifiuti tossici e radioattivi continuarono ad uccidere. I bambini nascono con malattie rare o con malformazioni; gli abitanti si ammalano e muoiono di rare forme di cancro. Roberto Mancini muore nel 2014 all'età di 53 anni, dopo mesi di agonia. Ma il suo sacrificio non è stato vano. Oggi noi non saremmo qui a ricordarlo e a dare il nostro contributo alla sua lotta.


Liceo Classico Ortona Selene Castaldo, Naxhie


CESARE BOSCHIN, UN EROE ITALIANO Don Cesare Boschin era un presbitero il quale è stato ritrovato senza vita in provincia di Latina il 29 marzo 1995, con una corda attorno al collo, braccia e gambe legate e costole e mascella spezzate. Oggi, a distanza di più di vent’anni, il caso è ancora irrisolto. Egli ha aiutato molto i più bisognosi e poche settimane prima della sua morte ha chiesto aiuto per una questione di traffico di rifiuti tossici nelle terre della sua parrocchia. Solo nel 2009, grazie a Don Ciotti che ha chiesto all’allora Presidente della Repubblica la riapertura dell’inchiesta, molti pentiti hanno confessato e si è scoperto il coinvolgimento della Camorra con il traffico illecito notato dalla vittima. Perciò, visto che nella stanza il giorno del delitto mancavano solamente i suoi due diari su cui annotava tutto, si pensa che Boschin avesse scoperto l’origine illegale di questa discarica, e che per questo sia stato ucciso. Che cos’è precisamente la mafia? Si tratta di una organizzazione criminale che controlla attività economiche illegali. Essa prospera perché incute timore e gode dell’omertà di molti. A mio parere è uno dei mali peggiori che possa colpire la società e spero che un giorno possa essere combattuta e sconfitta cosicché il nostro Paese possa essere migliore.

Liceo Scientifico ‘F. Masci’ Classe IC Laura Di Prinzio


CARO FIGLIO MIO Caro figlio mio, sono passati 25 anni da quella mattina del 21 giugno, quando sei uscito di casa con tuo zio Francesco in motorino per andare a comperare la bici: era il regalo per la tua promozione. Da quel giorno non so più nulla di te, nessun contatto, nessuna telefonata, niente! Anche tuo padre soffre per la tua scomparsa, in quei giorni lui era in carcere e stava male perché si sentiva responsabile. Io cerco di rassegnarmi ma è difficile e quando mi assale il pensiero che tu possa essere morto dura un istante, perché poi mi illudo che tu da un giorno all'altro tornerai tra le mie braccia e tutto tornerà come prima. Spesso mi chiedo: <Dove sei? Che fine hai fatto?>. Le indagini non hanno portato da nessuna parte, non si è saputo nulla di certo, hanno ipotizzato che eri stato rapito, che eri rimasto vittima della "Lupara Bianca" o che eri stato usato per fare un ricatto verso tuo padre. Ancora oggi mi ripeto:<Cosa c'entrava in tutta questa storia un bambino così piccolo e indifeso, perché non lasciarlo andare e farlo tornare a casa dalla sua mamma>. Tutti i giorni ripenso a com'eri: un bambino allegro con la frangetta sugli occhi e un viso delizioso e sfacciato, avevi solo undici anni quando ti ho visto l'ultima volta! Se stai leggendo questa lettera, l'unica cosa che voglio farti capire è che siamo tutti con te, nessuno si arrenderà mai. Ti abbraccio forte piccolo mio.

Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3 A Melissa Di Giamberardino, Salaheddine El Jaafary


AD OCCHI CHIUSI Eravamo pieni di sangue, in quel momento nessuno dei due capiva cosa fosse successo, fin quando non vidi gli 11 proiettili colpirlo...in quel momento mi vidi passare tutta la sua vita avanti...Era un uomo di 36 anni sposato con Tiziana con la quale ebbe una figlia di nome Rossella. Sergio si era laureato in giurisprudenza presso l'università di Bari. Lavorava in diversi carceri e io lo accompagnavo ogni giorno, lì erano racchiusi mafiosi che godevano di diversi privilegi. Il suo lavoro lo tratteneva dalla mattina presto fino a tarda sera, non lasciandoli tempo libero con sua figlia e sua moglie. Questo a Sergio dispiaceva molto, ma quelle poche volte che riusciva a vedere la sua famiglia lo rendeva così felice da miglioragli la giornata. Il suo lavoro lo stancava molto, ma quando tornava a casa trovava le forze di farsi vedere felice e forte, ma negli ultimi periodi le cose erano cambiate, non erano più le stesse. Ogni volta che mi afferrava durante il tragitto, sentivo le sue mani tremolanti e il suo sguardo attento che mi trasmettevano tutta la sua paura. Questo fino ad oggi, fino a quando decise di andare a riprendere sua figlia all'asilo e trascorrere del tempo con lei. Ma tutto questo non accadde. Sentivo le sue mani calde su di me e il suo tremolio aumentare. Mentre percorrevamo la strada statale 19, venimmo colpiti da 11 proiettili calibro 38, uno dopo l'altro. In quel momento non sentii più il suo tremolio ma solo lo scorrere del sangue. Mi sentii solo. Mi guardai intorno e vidi solo una macchina che accelerava, fino a scomparire nel nulla. In quell'istante lui si appoggiò su di me, sentii che mi aveva abbandonato. E' passato del tempo, io sono in un deposito abbandonato, ma sento ancora parlare di lui, il mio Sergio Cosmai e delle sue innovazioni che ora sono diventate delle prassi per tutti gli istituti penitenziari. Scuola Secondaria di I grado di Bucchianico Classe III A Di Lillo Ilaria, Di Primio Erika, Toracchio Filippo


IL RACCONTO DI UNA VITA ANTIMAFIA Questa è la storia di un uomo onesto, un uomo che aveva dedicato la sua vita ad aiutare gli altri e a combattere contro l’omertà, contro il silenzio di chi aveva troppa paura per farsi valere. Questa è la storia di Don Cesare Boschin, un parroco originario di Padova che si era fatto carico delle proteste dei cittadini, i quali si rifiutarono di accettare ciò che vedevano. Iniziava tutto nel 1950, quando per volere del vescovo, Don Cesare Boschin viene trasferito nell’Agro Pontino e nominato parroco nella comunità di Borgo Montello. Qui si prende cura degli emigranti veneti, recatisi lì dopo la fine della guerra, ed è molto attivo a livello sociale: fonda l’Azione Cattolica e promuove diverse iniziative per l’integrazione dei giovani del borgo. Inoltre cerca di alleviare la fame e la povertà, trovando lavoro agli sfollati e procurando i terreni da coltivare ai contadini. Negli anni della sua permanenza a Borgo Montello, a causa del suo attivismo subisce una serie di attacchi e minacce. In questo paese aveva sede una discarica che, nel corso degli anni ’90, aveva prodotto una serie di miasmi poco graditi alla popolazione. Per questo motivo tra il 1994 e il 1995 i cittadini residenti nei dintorni della discarica avevano deciso di unirsi e creare un comitato di protesta; il parroco aveva acconsentito ad ospitarlo nei locali della chiesa. I suoi membri, nelle numerosissime richieste di legalità e giustizia, hanno avuto le prime conferme dopo la denuncia di uno dei giovani disoccupati impiegati nella criminalità organizzata per trasportare i rifiuti nella discarica. Don Cesare Boschin era riuscito a convincere, assieme ai membri del comitato, il sindaco allora in carica a richiedere le analisi del terreno per verificare la presenza di eventuali contaminazioni. Da quel momento in poi sia il parroco che il comitato iniziano a subire numerose intimidazioni. Il 30 marzo 1995, nella sua camera da letto, viene ritrovato il cadavere di Don Cesare Boschin, incaprettato con le mani, i piedi legati e la bocca tappata. Segno inequivocabile della mafia che aveva atto l’ennesima strage. L’ennesima vita stroncata, l’ennesima voce tappata, una voce che, come tante altre, cercava la giustizia. Liceo Scientifico ‘F. Masci’


Classe I C Federica Paolucci


GLI ULTIMI ATTI DELLA MIA VITA Mi chiamo Cesare Boschin, sono nato nella provincia di Padova. Nel 1945 fui trasferito a Roma, dove chiesero a me di occuparmi della ricostruzione della chiesa Santa Maria Goretti e affidarono a me anche la vicina parrocchia della Santissima Annunziata. Fondai l’Azione Cattolica, aiutai molte persone: si fidavano di me, fino a confidarmi segreti che inquietavano il borgo da quando fu aperta qui un’importante discarica. Una discarica che la notte si animava, grossi e rombanti tir che scaricavano cose strane, odori nauseanti e le tasche dei disoccupanti locali sempre più gonfie. Il sospetto che nella discarica stava finendo qualcosa di pericoloso, mi portò alla difesa della mia terra. Iniziai a collaborare con un comitato di residenti, scrissi ai politici, presi il telefono e conttattai le istituzioni. E qualcosa cominciai a muovere e le prime indagini scoprirono “un’anomala massa metallica” sotto la maleodorante collina della discarica. Se avessi saputo da allora cosa sarebbe successo... no, lo avrei fatto lo stesso, avrei continuato le indagini, non avrei smesso di indagare e di proteggere la mia terra. Qualcuno non gradì affatto il nostro attivismo. Io e io mio comitato ricevemmo minacce, pressioni, intimidazioni. Ma io, un vecchio parroco di campagna, non mi lasciai intimorire. La sera del 29 marzo 1995, vennero a trovarmi. Cominciarono a picchiarmi: il mio corpo fu presto ricoperto da lividi, diverse ossa si frantumarono, tra cui la mascella, ed io morii per via del soffocamento provocato dalla dentiera da me ingoiata per via delle percosse. Si portarono via solamente le due agende su cui ero solito annotare tutto. La mattina del 30 marzo, trovarono il mio corpo incaprettato. Ed è così che morii: sono stato ucciso perché avevo capito qualcosa, sono stato ucciso perché volevo conoscere la verità che si


nascondeva sotto quella discarica; sono stato ucciso perché volevo difendere la mia terra. Liceo Scientifico ‘F. Masci’ Classe I C Xinning Wang


EMANUELE RIBOLI Un pomeriggio di dicembre del 1974 , in un cespuglio vicino casa di Emanuele dei mafiosi passano proprio nel punto in cui il 14 ottobre hanno rapito il giovane Emanuele Riboli e trovano nello stesso punto una bicicletta. Uno dei mafiosi, notando questa bicicletta, dice all'altro: ”Ti ricordi? E’ del ragazzo che abbiamo ucciso qualche mese fa, quello che abbiamo ucciso col veleno per topi e poi dato in pasto ai maiali” “Si si ricordo molto bene, anche la faccia del padre nel momento in cui ha appreso la notizia!” All'allontanarsi dei mafiosi la bicicletta misteriosamente prende vita ... Al sol riguardar queste due macabre figure il campanello suona di dolore. “Ricordo ancora l'ultimo sorriso di Emanuele. Era un ragazzo solare, dedito alla famiglia e allo studio. Aiutava il padre nell'azienda di famiglia. Certo era testardo e tante volte discuteva con lui, ma con la sua tenacia e adrenalina trasmetteva ogni giorno voglia di vivere. Ricordo ancora quando la mattina appena sveglio, grintoso, mi prendeva e lo portavo a scuola. Andavamo spesso in centro, si incontrava con i suoi amici, rideva, scherzava e giocava con molto entusiasmo fino a quando i malavitosi hanno spento una luce così brillante!”

ISTIUTO OMNICOMRPENSIVO “B. SPAVENTA” CITTA’ SANT’ANGELO Classe 4 H Liceo delle Scienze umane


IO, MALEDETTA “La monnezza è oro, dottò, e la politica è ‘na monnezza”. Io mi impregnavo di quelle parole, proprio come di quel pattume che io, nel mio silenzio colpevole, avevo l’obbligo di custodire. Con quelle parole Nunzio Perrella, un pentito, aveva implicitamente confessato l’orrore, ma nessuno ancora sapeva. In quei momenti avrei voluto avere la stessa voce di voi uomini, per urlare al mondo tutti i peccati che celavate agli occhi dell’umanità, ma che ben presto, ne ero certa, sarebbero venuti a galla. Facile per voi che avete il controllo di voi stessi, e nonostante ciò fate della vostra vita ‘na “monnezza”, sfruttare chi non può reagire per i vostri sporchi interessi. Nonostante questo credo ancora negli umani, precisamente da quel giorno del 1994, quando arrivò lui: in quegli occhi vedevo un’ostinazione senza pari, un senso della giustizia innato; quella divisa gli si addiceva proprio al contrario della fine a cui andò incontro. E tutto per che cosa? Perché io, nella mia impotenza, non sono riuscita a prendere posizione in quella battaglia impari, in cui il bene si faceva strada con forze esigue nel numero, ma la cui unione dava origine a una potenza immane. Eco- mafia: ben presto scoprii il nome del mostro conto cui Roberto, così si chiamava, combatteva, quello stesso mostro che anche io avrei odiato in eterno, il mostro responsabile della morte di tanti innocenti, mamme, nonni, bambini. E proprio per loro, vittime senza colpa, e per tutti gli altri che ogni giorno rischiavano la vita per l’egoismo, l’immoralità, la disonestà di pochi, Roberto lottava: un guerriero senza paura che non si stancava mai di scavare, metro dopo metro, sempre più vicino alla vittoria; un eroe semplice, che vestiva i panni di un uomo, di un padre, di un marito che al primo posto nella vita aveva messo il dovere: anche solo guardandolo si percepiva quanta determinazione, forza d’animo avesse in corpo. Ricordo ancora quando mi liberò dai primi rifiuti: lo sentii interloquire con un collega, e non potei fare a meno di catturare alcune parole, impregnate di rabbia, verso i colpevoli ma, allo stesso tempo, di soddisfazione per aver ottenuto abbastanza prove per poter ritenere concrete e fruttuose le


sue ricerche e punire i responsabili; disse: “Gesù Cristo ha sbagliato due cose: le mosche e i funzionari”. Fu allora che capii che aveva fatto centro, che esisteva ancora qualcuno che non si sarebbe lasciato mettere i piedi in testa, ma avrebbe lottato a denti stretti. Le ricerche di Roberto proseguivano fruttuose mentre piovevano nomi macchiati di corruzione, sui quali gravava la vita spezzata di tanti: Francesco Bidonetti, Gaetano Cerci – che poi mi accorsi essere uno di quelli che più mi riempiva di quegli scarti, forse più mondi della sua coscienza- , Cipriano Chianese – doppiamente colpevole in quanto speculava sul traffico dei rifiuti grazie alla sua professione di avvocato, per assicurarsi che non ci fossero interferenze da parte della legge- . Solo il narrare tutto questo mi provoca ribrezzo, ma ciò che mi raccapriccia ancor di più è il fatto che il lavoro assiduo, costante, dedito di Roberto, che era riuscito a raggiungere qualche traguardo, fu presto messo da parte. Lo sentii mentre si sfogava … parole cariche di delusione toccarono nel profondo il mio cuore di terra; anche lo Stato, che ha il dovere di tutelare tutti i cittadini e agire per il bene contrastando la disonestà, aveva fallito: il fascicolo era stato archiviato. Roberto scomparve per qualche tempo, credevo si fosse arreso dopo quell’avvenimento del tutto inaspettato; dovetti ricredermi, Roberto Mancini tornò: era lo stesso eroe, con una fiammella di speranza sempre accesa nel suo cuore, con la stessa ostinazione di sempre. Ma mi accorsi che qualcosa era cambiato: era diventato simile a tante maschere di persone che dopo poco sparivano nel nulla, senza rifarsi vive. Roberto Mancini stava combattendo contro un altro mostro, il cui nome era più complesso, così come era difficile sconfiggerlo: si chiamava “linfoma non Hodgking” e lo stava divorando lentamente. Notavo, infatti, che non aveva più i capelli, né la barba, né i baffi; neanche il trapianto era riuscito a sconfiggere il tumore, ma dentro di me ripetevo: “è possibile che tutta la forza d’animo che ha in corpo non basti?”. Con il progredire della sua malattia, la determinazione di Roberto si trasformava in rabbia, rassegnazione. “Qua non è finito niente” diceva pieno di sconforto. Non riuscivo a realizzare cosa mi stava accadendo: sprofondavo sempre di più in un baratro di scoraggiamento, mentre l’unico uomo che aveva dato tutto se stesso


per salvare me, per salvare gli altri, si avvicinava ogni minuto di più alla sua morte. Era consapevole di ciò e ne soffriva molto, ma con il passare del tempo capii che il suo sconforto era dovuto, in realtà, alla sua impossibilità di continuare la missione che aveva scelto di intraprendere. Con la sua morte mi sentii perduta: i colpevoli di quegli atti brutali avrebbero avuto la meglio ed io avrei continuato a versare in quel pattume, non potendo fare altro se non restare a guardare mentre la gente che mi abitava moriva, uno dopo l’altro. Cadevano come tessere di un domino ed io, che potevo solo sperare di trovare un altro Roberto, avrei voluto inghiottire, disintegrare tutti quegli scarti, salvare tutte quelle vite innocenti, ma non potevo. Io sono solamente la terra, dono frutti, fiori, piante a voi uomini e voi, come ringraziamento, mi riempite di rifiuti. Per quale motivo? Per non adempiere ai vostri doveri. Ma ecco, da un’abitazione sento provenire una voce che pronuncia il nome di Roberto: viene da una strana scatola di metallo, ma non mi sembra affatto il Roberto che conoscevo, quello che combatteva ardentemente per la giustizia, dopotutto è già morto da tempo. D’un tratto mi affaccio e vedo una schermata blu su cui è scritto “fiction: Io non mi arrendo”. Forse è un modo per ricordare Roberto, forse ci sono ancora, e ci saranno, persone come lui, capaci di lottare per la giustizia e per difendere me. Roberto Mancini non è morto: egli vive ancora, è più forte di prima, è più tenace perché col suo esempio insegna a tutti noi a non aver paura di lottare contro il male.

Liceo Classico Ortona Clarissa Berardi, Martina Mardocheo, Marta Seccia


IL MAGISTRATO CON CUI NON SI POTEVA PARLARE "Le frasi intercettate sono state fraintese, mi accusate perché sono il colpevole perfetto, un terrone con la fedina penale sporca." Questo dissi per negare l'accaduto ma ricordo bene come Belfiore ci comunicò l'incarico di dover eliminare Bruno Caccia. Belfiore e i suoi superiori erano persone spietate e decisero di svolgere questo 'affare', poichè il magistrato Caccia risultava incorruttibile ed era ormai a conoscenza di troppi nostri affari segreti in corso. Personalmente non avevo rancori nei confronti del magistrato ma il compenso che mi spettava era allettante, e poi quando sei nelle matasse della 'Ndrangheta non puoi realmente decidere cosa vuoi e puoi fare. Così da quando mi venne affidato l'incarico iniziai insieme al mio compare una serie di pedinamenti nel tentare di aggirare la scorta di Caccia e di trovare uno spiraglio. Dopo mesi l'occasione si presentò ghiotta: il magistrato ,nella prospettiva di una giornata festiva, decise di dare riposo alla sua scorta, segnalando il momento perfetto per noi di entrare in azione. Mancava poco alla mezzanotte di quella che sarebbe diventata una sanguinosa serata, mentre sul fondo della strada aspettammo il magistrato. Appena lui uscì per portare a spasso il cane ci mettemmo in macchina e ci affiancammo a lui; giusto il tempo di uno sguardo e sparammo una raffica di colpi di pistola che lo fecero rovinare al suolo, tuttavia non eravamo abbastanza sicuri e, scesi dalla macchina, gli assestammo tre colpi di grazia. Lui aveva dimostrato diverse volte che era un tipo che parlava spesso a sproposito, quindi era meglio assicurarsi che non tornasse dal mondo dei morti per continuare il suo lavoro. Grazie al nostro operato e ai nostri volti la 'ndrangheta era riuscita ancora una volta a far tacere coloro che tentavano di mostrare al mondo i fili della ragnatela dei tessuti della mafia. Dopo l'omicidio mi misi a fare il panettiere e quello lo continuai a fare per molti anni, attraverso il bancone vedevo quotidianamente persone comuni che non avevano idea di quali mani stessero servendo loro la pagnotta o qualche dolcetto. Le indagini sull'assassinio di Bruno Caccia , anche se dopo molto tempo, riuscirono a risalire a me. Io continuai a negare l'accaduto. Chissà , forse per un margine di


pentimento dovuto alla condanna che mi aspetta, ma c'era ben poco da fare con tutti i discorsi e prove che la polizia era riuscita a raccogliere contro di me. E così in carcere eravamo finiti sia io che Belfiore, i più affiliati, ma nonostante tutto i figli di Caccia continuavano ad affermare che ci sono ancora incognite e misteri da svelare e risolvere a riguardo di quel "magistrato con cui non si poteva parlare" I.I.S. “L. di Savoia” - Chieti


IL DOLORE Torino, 29 giugno 1983. Il prete dichiarò la fine della messa, permettendo a tutti i partecipanti di salutare per l'ultima volta l’uomo che in quel momento si trovava lì, davanti a tutti, in una bara di legno ricoperta di fiori. I primi ad andare furono i parenti, poi gli amici e infine si avvicinarono anche molte persone che non avevano mai conosciuto quell’uomo ma che avevano seguito la notizia della sua morte, avvenuta tre sere prima. Furono proprio queste persone ad avvicinarsi ai parenti dell'uomo, in particolare alla moglie e ai figli, per provare a saperne di più su quello che era successo e per dare un aiuto alla famiglia. Così la moglie iniziò a raccontare dell'omicidio del marito Bruno Caccia: “Bruno uscì di casa verso le 23.30, la sera del 26 giugno, per portare il nostro cane a fare una passeggiata. Era domenica così decise di non portare la sua scorta con lui. Chi poteva pensare che sarebbe successo ciò che è realmente capitato? Dopo mezz'ora circa non era ancora tornato così io e i miei figli iniziammo a preoccuparci. A un certo punto sentimmo il nostro cane abbaiare davanti al nostro portone. Aprimmo la porta e trovammo solo il cane. Bruno non c'era. Lo andai a cercare nella strada in cui di solito andava a passeggiare con il cane e dopo qualche minuto lo ritrovai lì per terra, immerso nel suo sangue, quasi irriconoscibile. Scoppiai a piangere e ancora adesso non riesco a togliermi quella immagine dalla testa. Corsi in casa e chiamai immediatamente la polizia e l’ambulanza. Speravo che Bruno non fosse ancora morto, che avesse ancora qualche possibilità. Dopo poco tempo arrivarono i medici insieme alla polizia e iniziarono subito le indagini. Mi dissero che Bruno aveva ricevuto una serie di colpi di fucile, precisamente diciassette, e che purtroppo non c'era nessuna possibilità che fosse ancora vivo. La polizia rimase ad indagare tutta la notte nella zona e continuerà ad indagare finché non troveranno il colpevole.” Ora la moglie si trovava completamente bagnata dalle sue lacrime, non riusciva a smettere di piangere. Nonostante questo continuò a raccontare, o meglio ad esprimere il suo parere: ”Purtroppo ci vorrà tempo per trovare l'assassino di Bruno, ci sono ancora poche prove su cui indagare, ma io penso e ne sono abbastanza sicura che la


vera colpevole è la ‘ndrangheta. Bruno era un uomo impegnato nel lavoro e negli ultimi anni aveva deciso di combattere la criminalità mafiosa presente qui in Piemonte. Con Bruno non si poteva parlare nel lavoro. Era davvero determinato. Una volta mi disse che i boss della ‘ndrangheta l’avevano cercato per avvicinarlo a loro e smettere di combattere la mafia, ma lui rifiutò. Forse questo li spinse a puntarlo come nemico e come un bersaglio da eliminare. Purtroppo non lo sappiamo e chissà se mai lo scopriranno.” Tutti i presenti al racconto della donna si unirono a lei, al suo dolore e cercarono in tutti i modi di consolarla. I componenti della mafia e di tutti gli altri gruppi sono pericolosi, determinati a compiere il loro lavoro e abili a nascondere le prove. Scelgono le loro vittime e le uccidono. Tra queste possono capitare anche persone innocenti, proprio come Bruno Caccia. Il vero colpevole del suo omicidio, Rocco Schirripa, è stato scoperto e arrestato 33 anni dopo la morte di Bruno Caccia. I.I.S. “L. di Savoia” - Chieti


FREDDA GIORNATA DI PRIMAVERA Drin! Drin! Mamma è sempre molto agitata quando sente il telefono squillare, questa volta però sembra felice. Non so perché, ma mi fa piacere, è strano vederla serena, soprattutto di questi tempi. Come fa sempre prima di uscire, mi prende in braccio e per prima cosa mi infila il giubbino e poi nelle mani la mia bambola. Sta accadendo tutto molto in fretta: mamma mi ha appena afferrato la manica spingendomi verso la macchina. Stavolta si è anche dimenticata di allacciarmi la cintura. “20 Marzo 1991, questa giornata soleggiata in Puglia preannuncia l’inizio della Primavera” mamma alza sempre il volume quando parla la radio, chissà cosa si aspetta di sentire. Solitamente chiacchieriamo sempre nella macchina, contiamo i cartelli stradali che incontriamo nel tragitto e guardiamo le colline dal finestrino, ma questa volta c’è un silenzio strano… mamma prima sembrava così felice e ora neanche parla. Che strada brutta che stiamo facendo, non l’abbiamo mai fatta, mai insieme. Ci siamo fermate vicino a una casa un pò isolata, è uno spazio molto grande ma vuoto, c’è solo qualche albero spoglio. Mamma sta aspettando qualche minuto prima di scendere. Ecco che girandosi mi manda uno dei suoi baci dolci. Finalmente si decide a scendere e a venire ad aprire lo sportello: non ce la facevo più a stare seduta qui con la mia bambola. “Mamma perché ci sono tutti questi signori con la faccia arrabbiata?”. Nessuna risposta. Un signore sembra più cattivo degli altri, si sta avvicinando a noi con una mano dietro la schiena. Ah, ecco! Sta sfilando dalla tasca uno di quei giochi per maschietti che ho visto in pubblicità. Stiamo giocando a pistole come fanno i miei amici dell’asilo? Ecco che preme il grilletto! Che rumore forte! Mamma però è caduta per terra e non si rialza. Sono caduta anche io, non mi sento più un piedino, lo guardo: esce il sangue. Qual signore ha colpito anche me… cosa sta succedendo? Sento la guancia bagnata. Sto piangendo? Mamma perché non si sveglia? Quando giocano, i miei amici si risvegliano sempre! Quei signori se ne stanno andando, mi stanno lasciano sola, e mamma dorme, dorme ancora.


Sta diventando buio non si vedono neanche le stelle. Tornerà qualcuno per me? Soprattutto ora che mamma sta ancora dormendo e nessuno può darmi da mangiare o rassicurarmi. Finalmente ne arriva uno, senza quello strano giocattolo. Mi sta prendendo. Forse in braccio? Se riuscissi a parlare gli direi di smetterla di sbattermi contro il muro. Perché non la pianta! Sento un dolore così forte! Sto cercando di farglielo capire piangendo, ma niente! Sto urlando dal dolore. Vedo il sangue uscire dalla testa e da tutto il corpo. “Basta, ti prego!”, vorrei riuscire a dire. Ma ormai non riesco più neanche a piangere. O a muovermi. Vedo tutto grigio… Ora nero. Liceo classico Chieti Classe 2ª B


QUANDO ARRIVA Un piccolo dato di fatto: voi morirete. Malgrado lo sforzo nessuno vive per sempre. Il mio consiglio è di non farsi prendere dal panico. Pare non aiuti. Mi dispiace non presentarmi in modo adeguato ma del resto prima o poi capirete chi sono. Era il 16 Novembre 1982. Giornata fredda e uggiosa, tipica dell’autunno inoltrato che è la mia stagione preferita. Le piante erano morte e l’inverno alle porte. Aggirandomi per le strade di Torino riconobbi il procuratore Bruno Caccia che rincasava pronto per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Erano gli anni di piombo quando il terrorismo sembrava invincibile e la città era sotto la cappa della paura, la paura che io potessi rubare un’altra vita. Lo Stato stava recuperando il tempo perduto e un team di magistrati si stava muovendo con tempestività ed efficienza. Tra loro c’era anche Bruno Caccia: intelligente e irreprensibile con cui “non ci si poteva parlare” come ad esempio quel giorno in cui ha respinto in malo modo i capi della ‘ndrangheta che avevano cercato di avvicinarlo entrando nel suo ufficio senza appuntamento. Era anche molto prudente tanto che aveva sempre con sé una scorta tranne la domenica sera quando portava a spasso il suo cane, un cocker. Come faccio io a sapere tutte queste cose? Beh, lo seguii per mesi in attesa del momento giusto per impossessarmi di lui e studiavo molto bene le sue mosse, ma a quanto pare non ero l’unica a giocare a questo gioco. In effetti era un omicidio ben architettato quello che avevano ideato Rocco Schirripa e Domenico Belfiore… sono stata ad ascoltarli con molto interesse mentre discutevano sul piano e mi hanno convinta a farne parte. Era una domenica perfetta quella della sera del 26 giugno 1983 che, come era solito fare, portava a spasso il suo cane senza scorta. Alle 23:35 il procuratore capo venne affiancato da una Fiat 128 rubata nella quale si trovavano i miei complici e si ritrovò colpito da quattordici di colpi di pistola non letali. Mi è sempre piaciuto far soffrire un po’ una persona prima di rubare definitivamente la sua vita, perciò decisi di intervenire all’ultimo briciolo di speranza che poteva esserci. Sono arrivata a te, Caccia. Sono io, la tua amata morte. I.I.S. “L. di Savoia” - Chieti


EGREGIO SIGNOR PUBBLICO MINISTERO Cosenza, 24 Aprile 1993 Egregio Signor Pubblico Ministero, Le scrivo la presente per confessare la mia colpa nell’omicidio Cosmai. Ho deciso di diventare un collaboratore di giustizia e per questo motivo voglio raccontare le fasi del delitto e fare luce su questo efferato omicidio perpetrato ai danni di un servitore dello Stato. Il disegno criminoso di eliminare e punire con la vita il direttore Cosmai nacque nel 1983. Nei caldi mesi estivi i detenuti scatenarono una protesta non ritornando in cella dopo l'ora stabilita con lo scopo di rimarcare una loro richiesta di una ulteriore ora di aria. Ne conseguì una dura reazione con manganellate ai detenuti, anche a chi ricopriva alti gradi di comando all'interno dell'organizzazione, compreso lo stesso Franco Perna. Bastò questo fatto per far partire tutto. Io, mio fratello Nicola e i fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo iniziammo a studiare le abitudini del direttore, che, ignaro del pericolo, si muoveva senza scorta ed era anche abituato a percorrere quotidianamente la stessa strada per andare a prendere la figlioletta all'asilo. Il direttore veniva controllato e le sue mosse spiate dall'abbaino posto sulla casa di Giuseppe Bartolomeo, a Bosco De Nicola. Con un cannocchiale si riusciva a seguirlo in tutti i suoi spostamenti. Quel fatidico martedì del 12 marzo 1985, Giuseppe Bartolomeo segnalò a mio fratello Nicola quando Cosmai uscì dal carcere. Io e Stefano Bartolomeo aspettavamo nascosti a bordo di una Mitsubishi verde. Eravamo camuffati con barbe, baffi e parrucche. Alla guida vi era Stefano Bartolomeo, di fianco al sedile del passeggero, c’ero io. Lo vedemmo e ci avviammo. Quindi l'affiancammo. Io cominciai a sparare col fucile, ma il primo colpo non andò a segno perché Stefano Bartolomeo non fermò l'auto. Però il dottore aveva capito benissimo quello che stava accadendo e frenò di colpo. Sparai ancora. Lui mise la retromarcia, cercò di fuggire, allora Stefano bloccò la macchina e dal


suo sportello sparò a Cosmai con una pistola, una calibro 38. Sparò due o tre volte. Lo colpì. Poi mi passò la pistola e sparai anche io. Non saprei dire con certezza quale proiettile lo abbia ucciso. Mi avvicinai all’automobile di Cosmai, ma la mia arma era scarica. Constatai, comunque, che ormai lui era immobile. Da quel giorno la mia vita cambiò; tutto iniziò ad andare storto. Il peso della colpa mi schiacciava ogni giorno di più. Fu il mio ultimo delitto. Decisi che da allora in poi qualsiasi tipo di vita avrei vissuto, non avrei mai più tolto la vita ad un altro essere umano. Concludo la mia lettera chiedendo perdono alla famiglia Cosmai, a sua moglie e ai suoi figli per aver portato via il loro caro. So che nessuna dichiarazione di pentimento potrà mai restituire la vita a Sergio Cosmai, ma almeno chiarendo le fasi del suo omicidio potrò loro concedere un po’ di pace. Dario Notargiacomo Scuola Secondaria di I Grado “Nicolino D’Onofrio” di Villamagna


IL VIDEOGIOCO Prendo dall’armadio una maglietta blu e infilo un paio di pantaloncini corti, scendo giù per le scale quasi volando, saluto la mamma e raggiungo lo zio Francesco che mi aspetta fuori con il motorino acceso! “Dai Mimmo andiamo a prendere il videogioco che ti ho promesso!” Non sto più nella pelle, salto sulla sella del motorino e mentre mi stringo forte a lui, penso che questo regalo me lo sono proprio meritato, mi sono impegnato tanto quest’anno a scuola e la mia pagella è bellissima! Appoggio la testa sulla schiena dello zio e sono felice al pensiero di avere finalmente la nuova versione del mio videogioco preferito… Siamo arrivati, parcheggiamo e senza rendermene conto sono già davanti alla pila di giochi, ne prendo uno e lo porgo allo zio… “È questo! Ora andiamo a casa e ci giochiamo insieme zio!” Esco dal negozio quasi saltellando e saliamo sul motorino diretti verso casa. L’aria fresca della sera ci investe ed io mi perdo nei miei pensieri… Lo zio frena bruscamente, mi strattonano e mi infilano una busta in testa… Sento che lo zio mi stringe a se, parla con loro, non capisco cosa stia succedendo! Voglio tornare a casa dalla mamma, voglio solo tornare a casa con il mio videogioco: voglio abbracciare la mamma, così forte, come se fosse l’ultima volta. Istituto Comprensivo 4 – Chieti Scuola Secondaria di I Grado “G. Mezzanotte – R. Ortiz” Classe 3B Rebecca D’Amicodatri, Andrea D’Elia, Giorgia Secondino


“IO SONO ATTILIO” “UN RAGAZZO COME TANTI, UN RAGAZZO COME VOI …” Ero un ragazzo come tanti. Avevo la mia quotidianità. La mia famiglia, il mio lavoro, le mie passioni. E poi un giorno, quel giorno, tutto cambiò. Quando vivi la tua vita non ti rendi conto che quei momenti potrebbero essere gli ultimi. Che quella mattina, quella colazione, quel solito tragitto, casa lavoro, potrebbero non tornare. Quella mattina, il 24 gennaio del 2005, non aveva niente di diverso rispetto agli altri giorni. La solita sveglia, la solita colazione, il solito tragitto. Ma, se solo avessi saputo… Sono sempre stato un ragazzo iperattivo. Non mi fermavo mai. Avevo sempre mille cose da fare, da dire. E poi c’era lei, la mia passione, la poesia. Con le parole potevo dire tutto. Nessun limite. Nessun filtro. Potevo arrivare ovunque. Eppure all’improvviso tutto è crollato. Erano le ore 13.00, il mio turno era quasi finito. Ero al posto giusto, al momento giusto. Facevo il mio lavoro. Un lavoro che mi aveva portato ad investire sul mio futuro, a credere nella mia capacità imprenditoriale che, insieme al mio socio Salvatore, stava prendendo forma con il nostro negozio di telefonia a Capodimonte. Un errore ha scaturito l’irreparabile. Un semplice errore ha cambiato la mia vita. L’aver accettato una sostituzione sul posto di lavoro ha cambiato la mia vita. Essere amico, essere collega, essere socio della persona sbagliata. Sbagliata per una malsana concezione del mondo criminale nel quale viviamo, a due passi da Scampia e Secondigliano ove era in corso una sanguinosa faida tra clan. Avevo solo 29 anni. Cinque colpi di pistola. Tutto accadde in un attimo. Nessuno sentì né vide nulla.


Il mio caso fu archiviato. Una disgrazia tra tante. Senza un perché. Senza una ragione. Tutti ripetevano: “era nel posto sbagliato, nel momento sbagliato”… Ma non era così. Erano loro che si sbagliavano. Solo dopo si capì che il vero obiettivo non ero io. Ed io ero solo un semplice ragazzo che viveva la sua vita con tanta carica esplosiva. Quel giorno quei colpi di pistola non furono sparati per caso. La tragedia che si era consumata non era per me. Era riservata al nipote del boss legato agli scissionisti. Loro cercavano Salvatore Luise, con me co-gestore del negozio di telefonia. Salvatore si salvò per puro caso. Pochi minuti prima dell’agguato andò dal padre, titolare di una salumeria poco distante dal nostro negozio. La mia colpa è l’essere stato in quel momento dietro il bancone, sul mio posto di lavoro. La mia colpa è stata quella di somigliare a Salvatore per statura, taglio di capelli. Due semplici elementi che hanno inesorabilmente cambiato la mia vita. In pochi istanti avvenne quello che non ci si aspetta. Neppure il tempo di pensare, di capire. Ero lì, disteso, a terra, e tutto crudelmente è cambiato. I miei familiari, mia madre, mia sorella, Natalia diventata mia moglie da soli quattro mesi appresero la notizia della sparatoria dal telegiornale locale ed iniziò per loro un grande calvario. Tutti alla ricerca di ciò che era successo, tutti in cerca di me, dividendosi tra i vari reparti dell’Ospedale Cardarelli. E poi finalmente vennero dirottati verso il luogo della sparatoria e, arrivati lì davanti compresero che la realtà aveva una sfumatura di nero. In quei minuti che li separavano da me mille i pensieri che li tormentavano. Il perché, il per come si fosse verificato tale scempio non trovavano risposte. Io, ragazzo incensurato, ragazzo dalle mille passioni, in un secondo il mio futuro stroncato. Quel giorno si spensero così per sempre gli entusiasmi della mia vita. Io, nel giro di poco, un nome dimenticato tra tanti, un caso da archiviare come tanti. Infine, la verità che arriva quando meno te lo aspetti. Quando le


speranze ormai sono esigue. Quando ormai la prescrizione è alle porte. Eppure anche nelle peggiori storie, persino il male può fare la sua parte nel bene. Fu grazie alle parole di un pentito che il mio caso fu riaperto. Dopo sette lunghi anni la mia famiglia iniziò ad avere le prime risposte a quelle tante domande. Ai mille perché. Si scoprì del “sopralluogo” di alcuni giorni prima. La stupida scusa di un acquisto. Tutto era stato fatto per osservare e predisporre quello che da lì a pochi giorni sarebbe diventato l’ennesimo sanguinoso omicidio di camorra. L’esito del processo condannò all’ergastolo uno degli esecutori del delitto Mario Buono e il figlio di un boss, latitante, presunto mandante Marco Di Lauro, assolvendo, invece, Cosimo Di Lauro. Nel 2015 venne annullata la sentenza di appello presso la Suprema Corte di Cassazione per il boss e, pertanto, il processo di secondo grado dovrà essere nuovamente ricelebrato. Nonostante siano passati anni, la rabbia c’è. Eppure questa deve essere trasformata in altro che non sia violenza, che non sia vendetta. Deve essere spunto di un percorso di crescita per chi è rimasto, per le nuove generazioni. Deve essere stimolo del senso critico, delle scelte giuste e sbagliate. Deve essere strumento di speranza e bellezza. Le strade in discesa sono le più facili ma sono quelle in salita che ti permettono di raggiungere le vette più alte. E seppur difficili ci rendono orgogliosi, perché è questa la strada per poter cambiare. E così la mia morte non può essere vana, il mio modo di essere, di ascoltare, di amare, di vivere con passione la poesia e il teatro deve continuare ad esistere, a vivere in un turbinio di emozioni che scuote le coscienze e le strappa via dalla negatività, dalla criminalità per scegliere il “Tu, da che parte stai”. La mia storia non ha ancora un epilogo. Ma non è più solo la mia storia. È la storia di ognuno. La storia di un uomo come tanti, morto per errore, morto perché innocente. Mi chiamo Attilio Romanò. Presidio “Attilio Romanò” - Libera Chieti


Angela Savini e Michela Sablone


DISEGNI In questa sezione sono raccolti alcuni disegni realizzati dai ragazzi



Liceo classico Ortona





VITTIME INNOCENTI Questa sezione contiene informazioni biografiche sulle vittime innocenti che hanno ispirato le narrazioni. Tutte le notizie sono state tratte dall’archivio del progetto “VIVI” di Libera


ANGELICA PIRTOLI

Lecce (LE) // 20 marzo 1991 // 2 anni Quello di Angelica Pirtoli, una bambina di poco più di 2 anni, è uno dei delitti più atroci e crudeli avvenuto in Italia. Sua mamma, Paola Rizzello aveva 27 anni. La bimba fu dapprima ferita e lasciata agonizzante sul cadavere della madre. Poi, dopo qualche ora, gli assassini infierirono sulla piccola, afferrandola per un piedino e sbattendola ripetutamente su un muretto. Il corpo di Angelica è stato ritrovato nel maggio del 1999, dopo otto anni dal suo assassinio, a pochi chilometri dal


terreno in cui fu rinvenuta la madre strangolata. Il duplice omicidio si è scoperto essere legato alla criminalità organizzata e alla Sacra Corona Unita: fu ordinato dalla moglie del boss con il quale la mamma di Angelica aveva una relazione e compiuto da un sicario che in passato era stato l'amante della donna.


ATTILIO ROMANÒ

Napoli (NA) // 24 gennaio 2005 // 29 anni Attilio Romanò è stato ucciso a 29 anni a Napoli, il 24 gennaio del 2005. Si trovava all'interno del negozio di telefonia a Capodimonte dove lavorava. Abitava invece a Miano, un quartiere limitrofo a quelli di Secondigliano e Scampia, dove imperversava la faida tra il clan Di Lauro e la cosca degli


scissionisti. Romanò è stato colpito perché scambiato per un'altra persona.


BRUNO CACCIA

Torino (TO) // 26 giugno 1983 // 65 anni Bruno Caccia iniziò la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese rimase sino al 1964, ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l'incarico di sostituto Procuratore della Repubblica. Nominato nel 1980 Procuratore della Repubblica di Torino, si occupò di indagare sulle violenze e i pestaggi che all'epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si recò fuori città e tornò a Torino soltanto nella sera. Essendo una domenica, decise di lasciare a riposo la propria scorta, decisione che facilitò il compito ai sicari 'ndranghetisti. Verso le 23.30, mentre portava da solo a passeggio il proprio cane, Bruno Caccia venne affiancato da


una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall'auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia. L'imbeccata giusta per capire le motivazioni della sua morte, arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all'intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze dello 'ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della'ndrangheta a Torino e anch'egli in galera. Belfiore ammise che era stata la 'ndrangheta a uccidere Bruno Caccia. Le indagini del magistrato cuneese si rivelarono troppo incisive e troppo dannose per la sopravvivenza della 'ndrangheta in Piemonte.


CESARE BOSCHIN

Borgo Montello (LT) // 29 marzo 1995 // 81 anni Il 12 luglio 1942 venne ordinato sacerdote nel Santuario della Madonna del Caravaggio a Fumo, frazione del comune di Corvino San Quirico, paese del quale sarà viceparroco negli anni della seconda guerra mondiale. Nel 1945 venne trasferito a Roma, quindi ad Anzio per assistere la popolazione duramente colpita dagli eventi bellici. Nel 1950 accettò la proposta del vescovo di Albano di occuparsi della ricostruzione della chiesa di Santa Maria Goretti a Le Ferriere, nel comune di Latina. Per via delle sue origini, decisero di affidargli anche la vicina parrocchia della Santissima Annunziata a Borgo Montello, popolata in larga parte da emigranti veneti. La mattina del 30 marzo 1995 il suo cadavere venne ritrovato incaprettato (con le


mani e i piedi legati e una corda intorno al collo) dalla perpetua nella sua camera da letto. Venne rinvenuto con il corpo ricoperto da lividi, la mascella e diverse ossa fratturate, la bocca incerottata. Gli assassini portarono via le due agende in cui don Cesare era solito annotare tutto, lasciando una preziosa croce in oro e il portafoglio del sacerdote che conteneva ottocentomila lire. La morte è legata alla sua denuncia di traffici di rifiuti tossici smaltiti illegalmente dalla camorra in una vicina discarica.


DOMENICO NICITRA

Roma (RM) // 21 giugno 1993 // 11 anni Domenico, unidici anni, era il figlio del boss di Palma di Montechiaro Salvatore Nicitra. Scomparve a Roma il 21 giugno del 1993 insieme allo zio Francesco. Al momento del rapimento, il padre del piccolo, siciliano di nascita ma da quasi sempre a Roma, era già in carcere. Era considerato il re delle bische ed era legato ad ambienti criminali. Il corpo di Domenico non è stato mai ritrovato. Due le ipotesi sulla sua morte: una vendetta trasversale o la sua eliminazione per evitare potessero sopravvivere testimoni dell'omicidio dello zio.


EMANUELE RIBOLI

Buguggiate (VA) // 14 ottobre 1974 // 17 anni Emanuele Riboli venne rapito a Buguggiate, in provincia di Varese, il 14 ottobre del 1974 mentre stava tornando da scuola con la bicicletta. Il padre non era ricchissimo, ma come carrozziere aveva aperto uno stabilimento in Centro Italia con i soldi della Cassa del Mezzogiorno. Fu sequestrato da un clan di calabresi che lo uccise dopo una durissima e inumana detenzione. Le indagini partirono in ritardo e ci furono diversi disguidi: un avvocato di Varese, Lucio Paliaga, insieme allo zio del ragazzo andò in Toscana con una valigetta piena di soldi, ma la consegna andò a monte. Un'altra consegna non riuscÏ per un errore degli agenti in borghese che non posizionarono la valigetta nel posto giusto. Alla fine il ragazzo fu ucciso e il suo


corpo fatto sparire, forse dandolo in pasto ai maiali.


FRANCESCO MARCONE

Foggia (FG) // 31 marzo 1995 // 57 anni Francesco Marcone venne assassinato intorno alle 19.10 del 31 marzo 1995 nel portone di casa di rientro dal lavoro. Era direttore dell'ufficio del Registro di Foggia, cittadino dedito al suo territorio, all'onestà, alla giustizia, alla verità. Nel rispetto del ruolo che ricopriva e per rispetto della verità, il 22 marzo aveva inviato un esposto alla Procura della Repubblica contro alcune truffe perpetrate da ignoti falsi mediatori che garantivano, dietro pagamento, il rapido disbrigo di pratiche riguardanti lo stesso ufficio. Da dieci anni di inchieste a singhiozzi l'unica cosa che emerge con chiarezza è che Francesco Marcone si era imbattuto e soffermato su pratiche miliardarie, su interessi di vari esponenti della città collegati con


interessi della mafia locale. Dalle carte processuali del caso Marcone, emerge inoltre che il magistrato Lucia Navazio scriveva, nero su bianco, che la "parte sana" della cittĂ non volle collaborare.


GAETANO MARCHITELLI

Bari (BA) // 2 ottobre 2003 // 15 anni Gaetano Marchitelli, 15 anni, stava lavorando come tutte le sere. Ăˆ stato ucciso poco dopo le 23.00 del 2 ottobre del 2003 a Carbonara, alla periferia di Bari. Un commando a bordo di un'auto ha sparato all'impazzata contro un gruppo di ragazzini fermi davanti a una pizzeria. Gaetano Marchitelli era un giovane studente che si trovava lĂŹ per caso, o meglio che in quella pizzeria andava a lavorare per pagarsi gli studi. LĂŹ ha trovato la morte.


MATTEO DI CANDIA

Foggia (FG) // 21 settembre 1999 // 62 anni Pensionato, fu assassinato con diversi colpi di arma da fuoco il 21 settembre del 1999 a Foggia. Stava festeggiando il suo onomastico quando, nel corso di un agguato contro un criminale locale, si è trovato nella traiettoria dei proiettili.


MICHELE FAZIO

Bari (BA) // 12 luglio 2001 // 16 anni A Bari Vecchia il 12 luglio del 2001, Michele Fazio passeggiava nelle vie strette del borgo antico. Non sapeva che di lì a poco i killer del clan Capriati avrebbero aperto il fuoco contro i rivali Strisciuglio. Michele aveva 16 anni e lavorava già da barista. Alla fine del turno stava tornando a casa, come tutti i giorni. Due scooter si fermarono, il commando fece fuoco, un proiettile colpì il ragazzo alla nuca. Per lui non vi fu scampo.


PIERO CARPITA

Bresso (MI) // 15 settembre 1990 // 46 anni La vittima designata dell'agguato è Francesco Coco Trovato. Nella stessa sparatoria viene ucciso il portinaio Pietro Carpita e Luigi Recalcati, un pensionato, che si trovava a passare in bicicletta in un tranquillo pomeriggio a Bresso, alle porte di Milano.


RENATA FONTE

Nardò (LE) // 31 marzo 1984 // 33 anni Renata Fonte nacque a Nardò (LE), il 10 marzo 1951. A diciassette anni incontrò Attilio Matrangola, sottufficiale dell'Aeronautica Militare di stanza ad Otranto, che diventerà suo marito nell'agosto 1968. Per diversi anni seguì il marito in giro per l'Italia, fino a quando, nel 1980, Attilio venne trasferito all'Aeroporto di Brindisi. Forte degli insegnamenti di Pantaleo Ingusci, cominciò a impegnarsi attivamente nella vita politica militando nel Partito Repubblicano Italiano, fino a diventarne Segretario cittadino. Partecipò alle battaglie civili e sociali di quegli anni anche iscrivendosi all'U.D.I. e dirigendo il Comitato per la Tutela di Porto Selvaggio, contro le paventate lottizzazioni cementizie. Decise di candidarsi alle elezioni amministrative nelle quali risultò eletta, divenendo la prima donna Assessore che il P.R.I. vanti a Nardò. Sono anni di intensissime e sofferte battaglie in una Nardò travolta dalla violenza della lotta politica. In questo periodo Renata Fonte


iniziò a scoprire illeciti ambientali e si oppose con tutte le sue forze alla speculazione edilizia di Porto Selvaggio. CombattÊ spesso sola e contro tutti. Venne assassinata a pochi passi dal portone di casa, la notte fra il 31 marzo e il primo aprile 1984, mentre rientrava da un Consiglio comunale.


ROBERTO MANCINI

Perugia (PG) // 30 aprile 2014 // 53 anni 53 anni, poliziotto, è morto dopo una battaglia lunga 12 anni. Con le sue indagini ha anticipato di 15 anni il disastro della Terra dei Fuochi. L'uomo, sposato e padre di una figlia, è morto il 30 aprile del 2014 all'ospedale di Perugia. Ad ucciderlo, un linfoma non-Hodgkin, un cancro al sangue, conseguenza dei veleni respirati in anni di lavoro tra rifiuti tossici e radioattivi. Roberto Mancini era sostituto commissario di Polizia a Roma. È morto all'ospedale di Perugia a causa di un'infezione polmonare, complicanza di un trapianto di midollo osseo, unica cura per combattere la sua leucemia. Nei primi anni '90 iniziò a lavorare sul traffico illecito di rifiuti in Campania. Nel 1996, dieci anni prima dell'uscita del libro "Gomorra" di Roberto Saviano, consegnò un'informativa alla Procura di Napoli che verrà presa in considerazione soltanto nel 2011. Le carte consegnate da Mancini svelavano nel dettaglio attraverso intercettazioni, pedinamenti, dichiarazioni di pentiti, i nomi delle aziende del


Nord coinvolte nel traffico: come l'Indesit e la Q8. Descrivevano i rapporti tra camorra, massoneria e politica. Anticipavano quel sistema che ha portato al biocidio della Terra dei fuochi. L'informativa è rimasta in un cassetto per 15 anni. Fin quando nel 2011 il pubblico ministero Alessandro Milita la mise agli atti del processo per disastro ambientale e inquinamento delle falde acquifere. Tra gli imputati anche Cipriano Chianese, broker dei rifiuti del clan dei casalesi, che gestiva tutto il sistema criminale. Negli anni successivi alle indagini, tra 1997 e il 2001, Mancini lavorò come consulente per la Commissione rifiuti della Camera dei deputati, eseguendo decine d'ispezioni e sopralluoghi in discariche di rifiuti tossici nocivi e in siti di stoccaggio di materiali radioattivi. È proprio in questo periodo che Mancini si ammalò di Linfoma non-Hodgkin.


SERGIO COSMAI

Cosenza (CS) // 13 marzo 1985 // 36 anni Laureato in giurisprudenza presso l'Università di Bari, fu vice direttore delle carceri di Trani, Lecce e Palermo e direttore di quelle di Locri, Crotone e Cosenza. A Cosenza giunge nel settembre del 1982. Si impegna nella gestione di una popolazione detenuta poco rispettosa dell'autorità dello Stato, dedicando gli ultimi tre anni della sua vita alla riorganizzazione dell'istituto di pena cosentino e alla lotta contro la criminalità organizzata, massicciamente presente nell'istituto di pena di Cosenza. Nel capoluogo bruzio, dove arrivò nel settembre del 1982, si occupò della riorganizzazione dell'istituto di pena e della lotta contro la criminalità organizzata. Alle ore 14.00 del 12 marzo 1985, Cosmai si stava recando all'asilo per prelevare la


figlia Rossella, di appena 3 anni, quando nel tratto della SS 19 che collega Cosenza a Roges (Rende) ora via Cosmai, si affiancò alla sua Fiat 500 gialla un'autovettura dalla quale partirono undici proiettili calibro 38 che lo colpirono alla testa. La moglie Tiziana Palazzo era incinta del secondo figlio Sergio, che nacque un mese dopo la morte del papà .


EDUCARE ALL'IMPEGNO CIVILE In questa sezione sono raccolti un articolo di sintesi sul percorso formativo proposto, i modelli delle schede proposte per la progettazione e la documentazione, alcuni esempi dei materiali prodotti dai docenti che hanno partecipato al corso.


MEMORIA E NARRAZIONE PER EDUCARE ALL’IMPEGNO CIVILE

di Francesco Baldassarre L’educazione alla cittadinanza attiva non può passare solo attraverso lo sviluppo di capacità critiche. È indispensabile operare anche sul piano delle emozioni. Costruire narrazioni ispirate alle storie delle vittime innocenti delle mafie può essere una delle strade percorribili. Provo a riordinare le riflessioni emerse dal percorso formativo su narrazione e memoria delle vittime innocenti delle mafie. Naturalmente i meriti sono tutti dei due formatori, Michele Gagliardo (Responsabile Nazionale Libera Formazione) e Tito Vezio Viola (Direttore della Biblioteca Comunale di Ortona), mentre ogni fraintendimento è esclusiva responsabilità del sottoscritto. Comincio dagli assunti di fondo. Il primo: la convinzione che l’agire civile può nascere solo a partire dai sentimenti. Nella prospettiva di un’educazione alla cittadinanza democratica sviluppare nei ragazzi il pensiero critico, insegnare loro a ricercare e valutare le informazioni è assolutamente imprescindibile. Ma non basta. Da sola l'informazione corretta non costruisce valori e comportamenti, per educare all’impegno civile è necessario agire anche sull'immaginario simbolico, accedere alla dimensione sentimentale. Il secondo: memoria e impegno si conferiscono senso reciprocamente. Non può esistere impegno civile senza memoria, ma la vera memoria si costruisce solo in presenza di un convinto impegno civile. Non è possibile riflettere qui in maniera compiuta su memoria individuale, memoria collettiva e storia, ma può essere utile accennare alla distinzione tra ricordo, testimonianza e memoria. Il primo resta in una dimensione puramente individuale e autoreferenziale; la seconda presuppone il rapporto con l’altro, ma rimane sempre una narrazione


di sé, capace al massimo di calarci nella dimensione della microstoria; la memoria, invece, è narrazione dell’altro da sé e, come tale, se condivisa, pone le basi della storia. Il terzo: la narrazione è uno strumento potente per costruire dispositivi educativi capaci di produrre cambiamento. Attraverso la narrazione è possibile superare la dimensione puramente informativa (tipica di tanto sapere trasmesso a scuola), accedere al livello delle emozioni e attivare in questo modo scelte consapevoli di impegno responsabile. La narrazione, da intendersi come fruizione di narrazioni altrui, ma ancor di più come costruzione di narrazioni proprie, permette di: a) superare il “nimby pedagogico”, attivando il sé del lettore-scrittore e permettendogli di capire che l’oggetto della narrazione lo riguarda; b) decostruire pregiudizi e immaginari simbolici (si pensi all’immaginario mafioso, che in alcuni contesti rischia di apparire come l’unica alternativa allettante); c) fornire informazioni e favorirne la trasformazione in conoscenza reticolare; d) evitare il vuoto della retorica delle celebrazioni ufficiali. Sono questi gli assunti dai quali scaturisce la proposta di educare all’impegno civile attraverso narrazioni sulle vittime innocenti delle mafie. Assumersi la responsabilità pubblica della memoria delle vittime delle mafie è di per sé un dovere in uno stato democratico, farlo a scuola può diventare un momento fondamentale dell’educazione alla cittadinanza attiva. Per la scelta di un impegno responsabile sono necessari sempre tre elementi: a) il muoversi di qualcosa nel nostro intimo; b) una relazione con l'altro; c) l'incontro tra passato e futuro. Le vicende delle vittime innocenti delle mafie hanno in sé un portato emozionale forte, capace di attivare tutti e tre questi elementi, e la narrazione delle stesse trasforma il ricordo in testimonianza, la testimonianza in memoria. In questo modo il dolore (dei familiari delle vittime, ma anche di chi ascolta le loro storie e si cimenta nella loro riscrittura) si può riconnettere alla speranza. Fare memoria, attraverso la narrazione delle storie delle vittime innocenti delle mafie, può trasformare il dolore


individuale in apertura collettiva verso il futuro. Quando lo si racconta il passato non è più tale, diventa presente, è così che memoria e narrazione diventano strumenti di costruzione del proprio progetto di comunità democratica, attivando un impegno responsabile per il cambiamento. La narrazione delle storie delle vittime innocenti delle mafie non è però un’operazione semplice. L’elenco delle difficoltà da superare è piuttosto articolato: la diffusione di stereotipi e pregiudizi (su tutti l’idea che tutto sommato la mafia, quella che uccide almeno, sia questione che riguardi pochi); il costante rischio di cadere nel sentimentalismo e nella retorica; la difficoltà nel trovare un denominatore comune tra le vittime (non c'è un identikit della vittima, non c'è un incipit da cui partire con sicurezza, purtroppo solo l'explicit delle loro storie è certo) e quindi la difficoltà di connettere la loro esperienza alla nostra. Proprio per cercare di superare queste difficoltà e per favorire una ri-dislocazione cognitiva ed emotiva, indispensabile in una didattica dell'impegno, all’interno del percorso formativo sono state formulate e sperimentate proposte a vario livello. Contenuti. contestualizzare la vicenda nella storia di un territorio e inserire questa nella storia generale del Paese; chiarire i meccanismi di funzionamento del sistema mafioso contrapponendoli a quelli dello stato di diritto; evidenziare sempre quali sono i diritti violati e quali principi ai


quali ispirarsi per la loro tutela; connettere sempre il dolore alla speranza; Scelte stilistiche. Evitare una strategia di scrittura “adattiva”, finalizzata ad ottenere consenso, ma che di solito genera distanza (vedi ad esempio lo stile delle celebrazioni ufficiali). Privilegiare invece una strategia “adottiva”, finalizzata alla condivisione delle emozioni, per generare vicinanza. Soluzioni narrative utili possono essere: prospettiva dell’Io narrante (narrare in prima persona simulando una testimonianza); ucronia (prospettare un corso alternativo della storia rispetto a quanto accaduto realmente); paradigma indiziario (raccontare la storia da un punto di vista eccentrico); finale aperto (non concludere la storia, anche per favorire l’apertura al futuro). Metodologia. Un laboratorio di scrittura, rivolto a gruppi di 6-8 studenti, per la produzione di narrazioni ispirate alle storie delle vittime innocenti delle mafie potrebbe essere articolato nelle seguenti fasi: brainstorming per cercare un denominatore comune tra la vicenda della vittima e l’esperienza personale degli studenti; narrazione a coppie di una vicenda personale ispirata a quanto emerso dal brainstorming. A turno si racconta la propria storia, poi ognuno scrive la storia che ha ascoltato;


condivisione nel piccolo gruppo delle storie; ricerca di notizie e materiali sulla vicenda della vittima di cui si vuole narrare (in questa fase può essere utile fornire spunti per allargare la ricerca di informazioni al contesto nel quale la storia è ambientata); definizione della struttura del racconto e delle strategie narrative; stesura collettiva del racconto; condivisione nel gruppo classe dei racconti prodotti; raccolta delle narrazioni in e-book o pubblicazioni cartacee e individuazione di possibili momenti per la lettura pubblica degli stessi.


SCHEDA DI PROGETTAZIONE



SCHEDA DI DOCUMENTAZIONE



ESEMPIO PROGETTAZIONE





ESEMPIO PROGETTAZIONE (2)




ESEMPIO DOCUMENTAZIONE





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