Crossroad

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SETTEMBRE 2016

CROSSROA D APPUNTI DI VIAGGIO

DOTTORI COMMERCIALISTI


in un mondo in cui l’economie du loisir, della conoscenza, della cultura, del tempo libero si è affermata su quella della produzione, un mondo in cui c’è più bisogno di esperienze che di beni. È sempre una questione d’incroci, di incontri, di coincidenze. Del caso (forse) che porta ad avvicinare persone simili,per cultura, approccio, struttura. Coincidenti, appunto, come i nostri Studi. Lombard DCA e BBS-pro partono da territori diversi (Milano e Prato) convergendo sul comune campo dell’economia della cultura, sul confine di mondi e modi di pensare diversi e reciprocamente necessari. Claude Levi-Strauss distinse le radici del pensiero tra bricoleur e ingégneur ossia tra artisti e scienziati. É nella fusione di queste classi che la nostra professione si trova, si rende attrice favorendo l’innovazione e lo sviluppo. Viviamo

Tutto questo non prescinde da implicazioni economiche che vanno dalla fiscalità al controllo di gestione, dall’accountability alla visione strategica. Implicazioni che è necessario saper governare e che richiedono l’aiuto di professionisti che, tra conoscenza e fare, sappiano essere squadra. BPS, un acronimo che mette insieme le iniziali dei nostri cognomi, un incrocio di competenze, nasce proprio con questo spirito: un viaggio tra economia e cultura, tra Milano e Prato, la condivisione delle conoscenze, la passione per lo studio, la cultura della cultura. La visione, l’etica, l’analisi al servizio di chi l’arte, la bellezza e la cultura la praticano quotidianamente. Come noi, a nostro modo.

Le opere riprodotte sono di Adriano Attus adriano.attus.it e di Alfred Drago Rens dragorens.com Courtesy Galleria l’Affiche Milano affiche.com Disegni: Angela Allegretti facebook.com/angela.allegretti.94 Impaginazione grafica: Letizia Cigliutti letiziacigliutti.com


CROSSROAD appunti di viaggio

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Il controllo di gestione aziendale

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Equazione: cultura = innovazione = futuro. Risolvo: Investo sulle imprese ‘‘pivot’’

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Mercato. Il prezzo di tutto e il valore di niente

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Gallerie e mercato. Le regole vincenti

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Quando il colore della cultura è il verde

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La classe creativa tra ascesa implosione e futuro

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I tempi del museo

12 Se la rappresentanza è una spesa: profili fiscali e perimetri d’intervento. 14

Non basta decidere, se decidere è un processo

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Guardare senza vedere (boom, bang, gulp)

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Finanziare l’arte: il crowdfunding

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L’IVA sull’arte: il regime del margine e altri misteri

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Art Bonus, società concertistiche e pubbliche utilità


Il controllo di gestione aziendale N OT IZ IE N OS T RE, Gi u g n o 2016

Il Controllo di Gestione aziendale (abbreviato di seguito con CG) è uno strumento dalle molteplici sfaccettature che può essere performato sulle necessità e le caratteristiche di ogni singola azienda. La base di partenza è senza dubbio costituita da un lavoro solido e strutturato sulla contabilità e sul bilancio che viene però modulato e trasformato per risultare maggiormente leggibile e ricco di informazioni che servono all’imprenditore per poter valutare l’andamento aziendale.

seconda delle necessità). Il CG, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, non si ferma però alla rilevazione numerica dei problemi ma questa è una delle fasi, propedeutica e complementare ad una fase maggiormente operativa e di affiancamento all’imprenditore nella gestione strategica dell’azienda. Il lavoro che si prospetta è dunque molto variegato ed esteso a tutti i settori produttivi che la compongono: si spazia ad esempio dall’analisi delle procedure dei singoli reparti fino al monitoraggio dei risultati e degli obiettivi raggiunti a supporto delle strategie commerciali dell’azienda stessa.

Partendo dall’analisi numerica dell’azienda, attraverso appositi fogli di calcolo costruiti con opportune metodologie, che andremo ad approfondire nei prossimi numeri, otteniamo uno strumento che serve da lente di ingrandimento sui singoli problemi che un’azienda può incontrare nel proprio percorso, rilevati con cadenze periodiche (mensili o trimestrali, a

Ne è testimonianza il Lanificio Bacci Spa, che quest’anno compie 100 anni di vita, all’interno del quale abbiamo da anni introdotto il Controllo di Gestione. Cerchiamo di capire

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meglio dalla voce di due protagonisti del Lanificio Bacci Spa quale sia l’importanza dell’aver adottato questo tipo di strumento e quali i principali cambiamenti nella gestione aziendale: “Il ruolo del C.G. è assolutamente indispensabile per le politiche commerciali aziendali. Basti solamente pensare al fatto che, nel nostro caso, gli indicatori più importanti del C.G. (in particolare quelli relativi all’andamento mensile) fanno parte delle variabili presenti nella SCHEDA PREZZO di ciascuno degli articoli che vendiamo. La più piccola variazione di uno di questi indicatori determina un effetto a catena avente come culmine la determinazione delle condizioni alle quali un singolo ordine può essere eseguito, senza escluderne pure la NON eseguibilità. In questo quadro, l’insieme di tutti i risultati di scheda prezzo, aggregato nelle apposite statistiche, può arrivare a determinare anche la selezione della clientela oppure la tipologia di materiale che sarà presente nel campionario” afferma Luigi Bacci, direttore commerciale dell’azienda. E prosegue aggiungendo: “giudico il C.G. come la plancia dei comandi di un aereo.

indicatore neutrale ed obiettivo dei molteplici aspetti che tale controllo evidenzia”. Della stessa idea sembra essere Filippo Bacci, Presidente del Consiglio di Amministrazione della società: “L’applicazione del CG ha significato una graduale introduzione di svariate procedure operative nei vari stadi della gestione aziendale. Inizialmente queste procedure, soprattutto da parte di alcuni collaboratori, sono state viste come un ‘appesantimento’ del normale lavoro quotidiano. Il tempo, la pratica, la consapevolezza acquisita da parte di tutto il nostro staff, hanno rilevato come il CG sia uno strumento indispensabile per tenere sotto controllo e poter valutare costi ed indicatori della gestione aziendale. Guardando indietro e considerando quanto il nostro lavoro sia così rapidamente cambiato negli ultimi anni ritengo che, anche per aziende medio piccole come la nostra ma che si trovano a gestire una notevole frammentazione ed un elevato numero di fasi, sia indispensabile avvalersi di un CG che permetta un monitoraggio puntuale ed affidabile dell’andamento aziendale e che dia all’imprenditore la possibilità di intervenire nel momento e nella direzione opportuni”. (sb)

Ciò la dice lunga sul tipo di considerazione che personalmente ho riguardo al C.G. Non possedere questo tipo di controllo significa, nella più rosea delle possibilità, non sfruttare appieno le opportunità (dalle economie di scala all’analisi temporale dei momenti più propizi d’acquisto dei materiali o di vendita di quanto prodotto) che l’ambiente circostante fornisce. Dalla mia esperienza, al di là del semplice e ovvio consiglio di introdurre il C.G. aziendale, suggerirei di impostare l’organigramma in modo tale che sia previsto il più ampio spazio possibile al C.G. senza escludere, come nel nostro caso, anche la collaborazione di un organo esterno che possa fungere da

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Equazione: cultura = innovazione = futuro. Risolvo: investo sulle imprese “pivot” A RT RIB U N E, Ma r zo 2015

Tradotto: quale l’economia di senso delle imprese culturali (piccole o grandi che siano)? Ci sarà un futuro soltanto ripensandole come entità capaci di produrre innovazione (per se stesse e la comunità). E poiché non tutte sono in grado di affrontare questo passaggio (leggi cambiamento), allora si dovrà investire sulle imprese pivot.

le imprese “pivot” devono essere oggetto di ricerca al fine di comprenderne le dinamiche di successo e avviare processi di isomorfismo; gli incentivi dovranno sempre più indirizzarsi sulle imprese “pivot” e non “a pioggia” se si vuole ottenere l’effetto-leva; le imprese “pivot” possono rappresentare i capofila di reti locali e globali (hub-snodi creativi) affini e/o multidisciplinari, divenendo fattori attrattivi e di sviluppo.

<Nella pallacanestro il “pivot” è il “finalizzatore” della squadra […] ad un “pivot” si richiede di saper sfruttare la sua grande massa per permettere a tutti gli altri giocatori di andare a segno. Oggi, anche nei distretti italiani stanno emergendo le imprese “pivot”: aziende di dimensione medio-grande, in grado di trainare il “gioco” dell’intero distretto. Per rendere vincente il modello distrettuale è necessario focalizzare incentivi ed interventi sulle aziende “pivot”. Tali azioni consentirebbero di ottenere un effetto leva i cui benefici ricadrebbero sull’intero indotto>

In un alfabeto culturale possiamo parafrasare “dall’edificio all’opificio”. Parlando di innovazione potremmo dire che le imprese culturali sono isole. Eco-sistemi adattabili che guardano alle mutazioni e alle ibridazioni come processi e alle diversità come relazioni: non qualcosa da temere ma da governare. Il ruolo e la missione dell’impresa culturale sono finalizzati al cambiamento, chi la guida deve preoccuparsi che avvenga in una direzione adeguata alle attese. Il futuro dipende dai “pivot”: per esserlo (o diventarlo) ci vuole una forte consapevolezza del sé culturale, senso di responsabilità, propensione al rischio. (is)

Presentata come un requisito cruciale per la competizione a livello di sistemi, l’innovazione è sempre più concettualizzata come ibridazione sul piano scientifico e disciplinare: si innova infatti non soltanto inventando qualcosa di nuovo, ma anche facendo qualcosa di abituale con modalità più efficaci ed efficienti. All’interno della filiera di produzione del valore culturale possono essere intercettati innumerevoli spazi di miglioramento: di comunicazione, di servizio, di accessibilità soprattutto informativa, di contatto, di traspirazione. Se applichiamo questo ragionamento alle imprese culturali, possiamo tirare queste conclusioni: in ciascun territorio ci sono imprese culturali “pivot”;

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Mercato. Il prezzo di tutto e il valore di niente A RT RIB U N E, D i c e m b r e 2015

Secondo il rapporto Artprice 2015 nel periodo tra luglio 2014 e giugno 2015, il 18% del valore delle vendite è appannaggio di tre soli nomi – Jean-Michel Basquiat (sua l’opera costata di più, The field next to the other door), Christopher Wool e Jeff Koons – e del totale di quasi 1,8 miliardi di dollari, i primi 100 ne valgono 1,2, e i primi dieci quasi 600 milioni.

a interessi particolari. Così come finanza ed economia, ormai, non hanno più molto a che fare e la Borsa assomiglia sempre più a un casino dove il valore reale delle società quotate non c’entra più nulla con la sua capitalizzazione, così il valore dell’arte rischia di non essere più l’arte stessa ma la solo il frutto di una programmata popolarità. Una popolarità che come conseguenza porta a una sovrapproduzione degli artisti più richiesti. Una sovrapproduzione richiesta dalle gallerie più influenti che rischia di danneggiare anche gli artisti più promettenti, sulla base di una logica in cui in cui la quantità prevale sulla qualità.

Il 91% delle vendite si sono concluse negli Usa (650 mln), Cina (543 mln) e Uk (410,5 mln), di cui quasi il 60% nelle sole New York (dove si svolge il 97% delle transazioni di tutti gli Stati Uniti) e Londra (oltre il 99% di quelle del Regno Unito). Nel resto del mondo, Italia compresa, le briciole – e tutto questo avviene mentre nel mondo sorgono sempre nuovi musei: dal 2000 al 2014 sono stati fondati più musei che in tutto il XIX e XX secolo, con una media di 700 l’anno, segnale di un interesse crescente e popolare.

È un fenomeno ciclico, questo, come le crisi e come le riprese. Già nel 1924 la richiesta di arte d’avanguardia raggiunse un picco che sembrava in grado di impoverire la vitalità dell’arte. E allora come ora, la risposta nacque dall’arte stessa. I surrealisti, in aperto contrasto con un mercato sempre più imborghesito e speculativo, tradussero la loro protesta in un Manifesto rivoluzionario e propositivo contro la mercificazione della cultura. E così, certamente, accadrà anche oggi. Fino al prossimo giro di boa. (fb)

È in atto una progressiva finanziarizzazione del mercato dell’arte contemporanea con il rischio, già sperimentato in altri settori, che le logiche corrette che dovrebbero governarlo si pieghino

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Gallerie e mercato. Le regole vincenti A RT RIB U N E, Ma r zo 2016

L’attività di galleria d’arte è sempre stata quella di commercio, talent scout e promotore. Di mentore e nume tutelare. Lo era Leo Castelli fin dai suoi esordi a New York come lo sono ancora oggi le piccole gallerie milanesi. Ma niente rimane uguale a se stesso: cambiano i tempi cambiano e i ruoli, si sa, spesso si mischiano. Il successo, però, deriva sempre dall’intuizione e dalla passione (la fortuna, poi, non guasta) e non può essere frutto di sola finzione, moda passeggera o, peggio, inganno.

al momento delle domande del pubblico. Anche dopo, in realtà ché l’autista se la cavò brillantemente rimbalzando quei curiosi dicendo qualcosa tipo: ‘Non mi aspettavo un simile basso livello delle domande. E per dimostrarvelo vi farò rispondere dal mio autista!’ Al di là dell’aspetto divertente dell’aneddoto, che come buona parte degli aneddoti si avvicinano sempre alla leggenda, e della brillantezza dell’autista il succo sta nel fatto che ci si può cambiare identità ma non si può essere ciò che non si è. Ciò che si deve fare non è fingere di essere altro ma crescere, adeguarsi, capire e sviluppare. Studiare.

Max Plank vinse il Nobel per la fisica nel 1918. Tempo dopo, in giro per una serie di conferenze in compagnia di un autista, stanco lui e annoiato l’autista, propose a quest’ultimo di sostituirlo davanti al pubblico. In fondo lo aveva ascoltato molte volte raccontare sempre le stesse cose e sapeva a memoria cosa dire.

Le gallerie d’arte, quindi. E come loro le case d’asta. Il futuro del mercato passerà ancora da loro ma a condizione di un reale rinnovamento, di una crescita che sia economica tanto quanto culturale.

La conferenza, nonostante il fraudolento cambio di relatore fu come sempre un successo fino

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Di diventare operatori moderni, non supermercati come alcune ex librerie. Di essere al servizio di un mondo sempre più complesso e che non è certamente quello di 50 anni fa. Neanche di 10, a dire il vero.

ha solo l’infrastruttura e che può garantire un’impressionante presenza. Con un’attenzione: credibilità e competenza valgono anche in questo strano mondo che amplifica ogni cosa.

Trasparenza. I numeri del mercato sono sempre più grandi e la platea più ampia anche se l’accento viene ovviamente posto sulle vendite record. In realtà i numeri raccontano che il 90% delle opere cedute in asta ha un valore inferiore a $ 20.000, il 75% sotto i $ 5.000 e questi dati, in galleria, non possono che essere ancora più estremi.

Internazionalizzazione. Come per ogni azienda (o quasi) di ogni settore (o quasi) anche chi opera nel mercato dell’arte non può più prescindere dal varcare i confini nazionali. C’è un mondo là fuori. Chi ci va fisicamente partecipando a fiere da scegliere con attenzione e chi, ancor più strutturalmente aprendo una propria sede all’estero.

Il mercato, quindi, è fatto da milioni di appassionati, non da pochi ricchi collezionisti. Da gente che lavora per guadagnarsi anche la possibilità di possedere un’opera d’arte. Da gente che vorrebbe conosce il prezzo di ciò che vorrebbe/potrebbe comprare senza per questo sentirsi imbarazzata per non dire rifiutata. Le gallerie devono diventare luoghi inclusivi se non vogliono perdere fette di mercato, comunicare meglio e, come ha raccomandato Marc Spiegler, direttore di Art Basel, eliminare liste d’attesa e receptionist poco sorridenti.

Chi, come detto sopra, approfittando della visibilità della net economy. Certamente ogni singola azione da sola non può avere successo ma deve essere organizzata da una strategia di crescita complessiva. Le opportunità sono molte, la richiesta esiste, lamentarsi non serve. Serve fare. Secondo una ricerca di ArtEconomy24 nel 2015 si sono perse per strada 511 gallerie, più di un quinto di quelle esistenti all’inizio dell’anno.

Visibilità. Se da un lato l’aspetto ‘fisico’ delle gallerie è imprescindibile e deve essere curato per attirare il pubblico e non per creare una esclusività snob che non ha più ragione d’essere, d’altro canto il mercato vive anche dell’ubiquità della rete. Le case d’asta hanno già cominciato a capire l’importanza e la potenza di internet per i propri affari.

Colpa di un mercato difficile, certamente, e soprattutto in Italia. Ma colpa, anche, di una sua scarsa comprensione da parte di chi questo mercato dovrebbe cavalcarlo come un’onda e che invece spesso se ne è lasciato travolgere. (fb)

Negli ultimi 10 anni quasi tutte le case d’asta (il 95%) hanno aperto un sito e buona parte accetta offerto on line: nel 2005 non ce n’era quasi nessuna (3%). Le trattative concluse tramite siti sono cresciute in maniera esponenziale e gallerie e case d’asta dovranno fare i conti con questa realtà che di virtuale, a conti fatti,

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Quando il colore della cultura è il verde A RT RIB U N E, Ma r zo 2016

La sensibilità ma anche la consapevolezza ecologica dell’opinione pubblica non sono da sottovalutare. Un ente culturale che sposa il tema ambientale persegue obiettivi importanti: da un lato fa emergere la propria vocazione ecologica sia interna (verso lo staff) sia esterna (verso i portatori di interesse);

comunicando che gli allestimenti sono realizzati con materie riciclate) o incisive (nel caso in cui si adotti una campagna di comunicazione culturale green). La dimensione ambientale può essere una “mediazione” di valori o diventare uno degli obiettivi della missione capace di incuriosire i non-pubblici, probabilmente già educati al macro tema della sostenibilità.

dall’altro avvia una policy comunicativa distintiva. Comunicare eco-friendly significa fare una scelta “di parte” volendo intercettare un pubblico più o meno esteso in funzione delle azioni adottate. Possono essere individuate modalità leggere (nell’ambito di una mostra, per esempio,

Con la conseguenza di ridurre i “costi di attivazione” che la decisione di primo accesso spesso comporta. Per questo è interessante

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introdurre politiche e azioni di impatto ambientale nell’ambito delle istituzioni culturali e non solo come sana consuetudine.

l’accountability apprezzerebbero senz’altro. Non pensiamo che l’alfabeto del consumo consapevole e della spesa responsabile per le istituzioni culturali siano solo procedure difficili da attuare. La sostenibilità è un habitus mentale, un’abitudine quotidiana: al posto delle bottiglie di plastica. (is)

Le buone pratiche si “sprecano”: dall’adesione a iniziative di sostenibilità (come la giornata nella quale si spengono le luci un’ora prima della normale chiusura) o a standard ambientali (per esempio la certificazione 14.001) alla presenza nello staff di figure operanti in materia di tutela ambientale (con l’individuazione di un responsabile per la gestione e il monitoraggio degli aspetti e del “rischio” ambientale), dalla verifica dell’impatto degli impianti (tecnologici, informatici, ecc.a quella sui servizi (dai rifiuti ai trasporti alle forniture) e sull’acquisizione delle materie prime (dalla carta all’energia, all’acqua), fino alla progettazione di spazi come i bookshop museali con prodotti km zero. Il pubblico e

Quale l’idea di Incanto? la creazione di un centro di produzione e consumo di cultura, il primo spazio per la liera cult-comm (culturale e commerciale): dalle arti visive alla moda, dal design al merchandising, dai servizi alle professioni. Oggi il mercato è mutato, il consumatore si è evoluto, il sistema delle “merci” estetiche (arte, design, moda, food) e dei servizi af ni e complementari presenta pro li e percorsi nuovi. Incanto è un luogo di vendita di beni e servizi dove cultura e busi- ness convivono, ma è anche e soprattutto uno spazio dove vivere nuove esperienze, impiegare bene il proprio tempo e capitalizzare le conoscen- ze. All’interno, il gallerista, il designer, l’avvocato, il broker assicurativo, il negozio di multipli d’artista, lo sportello bancario, la caffetteria e tanti altri soggetti e servizi “culture driven” convivono, interagiscono, producendo ibridazione, partecipazione, industriosità, creatività. l’analisi condotta su altre esperienze di successo simili, nessuna made in italy, denota l’opportunità di percorrere la strada tracciata.

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La classe creativa fra ascesa implosione e futuro A RT RIB U N E, M a g g i o 2015

Era il 2003 quando Richard Florida usciva con “The rise of the creative class”, una pubblicazione passata quasi inosservata in Italia, pensando forse i più che la creatività era roba da stilisti e dunque un lusso (o una moda) che solo gli addetti ai lavori potevano permettersi. Eppure ancora non c’era la crisi… A distanza di oltre un decennio esce, non ancora tradotto in italiano, “Culture Crash. The killing of the Creative Class” di Scott Timberg, un testo che dal “rise” affronta non tanto il “declino” o l’“eclissi” della classe creativa quanto la sua stessa “implosion”. “The question is not simply that creativity survives…If we’re not careful, in fact, culture work will become a luxury”. E spiega anche perché la creatività non è il mero frutto di ispirazione genio e sregolatezza: “It depends on an infrastructure that moves creations into the larger culture and somehow provides material support for those who make, distribuite and assess them”. Non c’è dubbio che occuparsi di creatività in Italia non è solo esterofilia, visto le origini degli autori. Possiamo dire che esiste una questione italiana a proposito di creatività, classe creativa e infrastrutture per supportarle entrambe, soprattutto se si accoglie la lata definizione data da Timberg “anyone who helps to create and disseminate culture”.

E d’altronde avrebbe senso oggi, nella flexibility era, auspicare una regulation dall’alto? Non è forse desiderabile un movimento dal basso nel cui solco quei professionisti (da professo fidei, pensate!) carichi di talento, competenze, merito e reputazione possano trovare la loro rispettabile configurazione? Così, mentre (in Italia) continueremo ad aver bisogno di medici, avvocati, commercialisti, notai e la lista potrebbe continuare, dovremo accrescere la consapevolezza che “we need a robust creative class” e che la creatività non è solo ispirazione ma in larga parte traspirazione, senza la quale a poco ci servirà star seduti sopra un tesoro. (is)

Non sembra paradossale che in Italia, il paese con il più alto numero di professioni ordinistiche “protette”, non sia sorta una disciplina che regolamenti e legiferi le professioni creative? In compenso ci hanno pensato gli enti previdenziali a rimediare il vuoto normativo fra gestione separata Inps, Enpals, ecc..

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I tempi del museo A RT R IB U N E, S e t t e m b r e 2015

Tue Manno priegho provegi a quello ch’è di bisongno e noe perdere tenpo […] in però che tenpo perduto non si raquista mai e ‘l tenpo è la pùe chara chosa che noi abiamo; […] e pertanto ti chonsilglo che tue volgla essere di quelli che spende bene il tenpo e noe male. Francesco Datini a Manno di Albizzo degli Agli, 13.5.1394. Archivio di Stato di Prato, Datini, Firenze-Pisa “Lo scorrere del tempo è palese per ciascuno di noi. Possiamo immaginare un mondo senza colori, senza materia, anche senza spazio, ma non senza tempo. È Heidegger che ha espresso con forza questo nostro “abitare il tempo’”. Chissà se il dibattito sul tempo museale (ma anche culturale) possa inserirsi nella querelle filosofica secondo cui si può optare per una classificazione di tipo A) come qualcosa di oggettivo ed indipendente da noi, oppure di tipo B) come qualcosa di relativo. Il museo giunge a noi da un tempo passato che sembra lunghissimo e lentissimo, la stessa sensazione si prova pensando alle sue collezioni stratificate, ordinate, per le quali l’asse temporale è spesso anche un criterio di allestimento.

Ma il tempo della visita, come si colloca nello spazio artistico e antropico del contenitore museale? E come si misura? L’orario di apertura del museo rappresenta un importante strumento per consentire un’adeguata fruizione e una politica culturale di accesso.

spesso frettolosamente. Il tè o l’aperitivo al museo come format di edutainment che allungano l’orario pomeridiano e serale, così come le aperture notturne, soprattutto in estate, consentono di vivere il museo come luogo di incontro, informale e colloquiale. La permanenza è una variabile influenzabile da molteplici fattori: la dimensione del percorso di visita, la consistenza e numerosità della collezione, la disponibilità soggettiva del tempo, le aspettative di durata, le modalità di fruizione, sono tutti elementi (molti soggettivi) che incidono profondamente sulla permanenza nel museo. È indubbio, però, che anche nella prospettiva culturale, la permanenza indica un valore di per sé, e ciò è intuibile empiricamente in quanto da un posto poco accogliente o non gradito si tende a fuggire velocemente. Molte più informazioni qualitative giungerebbero se riuscissimo a combinare i dati della permanenza con il gradimento del tempo a disposizione: sono riuscito a vedere tutto quello che volevo? vorrei ritornare? ho trovato, nel percorso di visita, strumenti di apprendimento e di riposo? L’esperienza culturale è anche una questione di tempi. (is)

Vi sono musei, soprattutto all’estero, che ne hanno fatto un mezzo di comunicazione strategico, collegando l’estensione temporale o anche semplicemente una proposta flessibile, all’offering culturale. Visite-sneak caratterizzano per esempio l’impiego della pausa pranzo per lavoratori che “impiegano bene” uno spazio temporale usato

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Se la rappresentanza è una spesa: profili fiscali e perimetri d’intervento A RT RIB U N E, L u g l i o 2016

Le spese di rappresentanza sono disciplinate dall’art. 108, comma 2 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui redditi). In linea generale sono dirette a promuovere e consolidare il prestigio dell’impresa.

Al comma 1 dello stesso articolo troviamo le spese di pubblicità, di solito rivolte ad un pubblico indistinto, mentre i costi di rappresentanza sono indirizzati ad una cerchia ristretta di soggetti, e producono nei loro confronti un vantaggio in senso lato anche patrimoniale, più o meno apprezzabile (si pensi ad un omaggio, all’invito ad una cena, medaglie, targhe, libri celebrativi, ecc.).

culturale, destinate al consumo personale o familiare dei soci, degli amministratori, dei dipendenti e di altri terzi. Vi è anche un profilo “quantitativo” dell’inerenza quando i costi risultano sproporzionati rispetto alle dimensioni ed al profilo dell’ente, collegandosi inevitabilmente al concetto di antieconomicità; concetto quest’ultimo che non collide con l’assenza dello scopo di lucro, tipico della maggior parte delle istituzioni culturali. Il principio di congruità va inteso rispetto agli altri costi e proventi dichiarati. Le spese di rappresentanza hanno un plafond di deducibilità che dal 1 gennaio 2016 è pari:

Le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei proventi dell‘attività caratteristica, anche internazionale (quest’ultima da non sottovalutare nel caso per es. di enti con rapporti con l’estero, si pensi per i prestiti). Sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50. Per un’istituzione culturale le spese di rappresentanza sono tali se assolvono le seguenti finalità:

all’1,5% dei ricavi e altri proventi fino a 10 milioni di euro;

sostenute con scopi promozionali e di pubbliche relazioni in stretta correlazione con le finalità istituzionali;

indetraibilità IVA al 100% per le spese di rappresentanza superiori ad euro 50.

ragionevoli in funzione della qualità e quantità; coerenti con gli usi e le pratiche del settore; in grado di qualificare il soggetto/i destinatario/i della spesa L’inerenza ha anche il fine di escludere la deducibilità per le spese estranee all’impresa

allo 0,6% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente 10 milioni e fino a 50 milioni; allo 0,4% dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente 50 milioni. Ai fini IVA valgono le seguenti regole di detraibilità: detraibilità IVA al 100% per le spese di rappresentanza fino ad euro 50;

In linea generale l’ente culturale nella netta e tipica distinzione tra proventi istituzionali (non tassati, per esempio i contributi e le liberalità) e proventi commerciali (tassati; la norma fiscale del plafond sopra descritto è a questi ultimi che si riferisce) deve inquadrare nella rappresentanza le spese sostenute per varie forme di ospitalità, di manifestazione di ossequio e di considerazione che l’ente realizza a tale scopo, attraverso i propri rappresentanti, nei confronti di organi e soggetti estranei, anch’essi

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dotati di rappresentatività per mantenere o veder accrescere il prestigio. Non sempre è facile individuarle con sicurezza; vi sono situazioni di spese che in concreto possono trovarsi al confine tra due o più categorie: di rappresentanza, di pubblicità, di funzionamento e per attività culturali. Per questo sono importanti alcuni accorgimenti di metodo:

nei quali far confluire anche le spese di rappresentanza insieme a quelle di funzionamento, così da evitare l’effetto “calderone” con una sola singola voce difficilmente ricostruibile soprattutto ex post. (is)

acquisire e conservare tutta la documentazione necessaria a provare il contesto nel quale una spesa è stata sostenuta: inviti, modulistica, mail e scambi di corrispondenza, contratti, ecc.; rappresentare la gestione con appositi centri di costo/investimento –anche in via extracontabile-

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Non basta decidere, se decidere è un processo A RT R IB U N E, N o v e m b r e 2015

Uno degli aspetti considerati ancora poco rilevanti nella gestione delle imprese culturali (private ma anche pubbliche) è il processo decisionale. La policy culturale e le scelte conseguenti sono molto concentrate sull’istituzione –intesa sia come ente giuridico sia come sede- e sul prodotto culturale –le attività-. E’ diffusa l’idea che una volta pensato, un progetto, possa essere automaticamente realizzato. Ma si tratta di una falsa verità, perché senza aver chiaro il processo decisionale sotteso molto spesso non si raggiungono i risultati attesi né in termini di efficacia né di sostenibilità.

incertezza nei tempi del processo decisionale (non è chiaro chi fa cosa, non è pacifica la delega – straordinario strumento per attuare le decisioni prese-) incertezza del contesto e delle risorse (a volte per mancanza di conoscenze, altre per ignavia, altre ancora per cause di forza maggiore che però vanno messe in conto. Diventa centrale nel processo decisionale la capacità di ancoraggio cioè del “ripristino di un rapporto solidale con le circostanze” soprattutto da parte di certe figure apicali dell’organizzazione)

Questo assunto è ancora più vero in un contesto ambientale, quale quello culturale italiano, nel quale è tutt’ora forte il “divide et impera”, una concezione piramidale gerarchicamente impostata dell’organizzazione del lavoro, la divisione dello stesso lavoro in professionalità specialistiche. Un modus operandi dunque che non ha preso in seria considerazione alcuni passaggi e conseguentemente non è riuscito a comprendere il “come” operare (chiariti possibilmente il “cosa”, il “dove”, il “quando” e il “quanto”).

motivazione delle persone (una percentuale altissima di persone –purtroppo- non ama il proprio lavoro incidendo non positivamente sull’ingegnosità collettiva e la creazione di valore)

Per comprendere il processo decisionale di un progetto culturale o della gestione di un’impresa culturale in senso ampio, invece, è importante avere presenti alcune criticità dell’organizzazione fra le quali:

Avere fin da subito presenti questi aspetti rappresenta l’occasione per ri-perimetrare il senso della nostra progettualità. (is)

scarsità di tecnologie e comunicazione (e non è solo una questione di budget) ridotta propensione all’assunzione di responsabilità (non si cercano colpevoli ma la colpa è sempre di qualcun altro)

asimmetria informativa (spesso le informazioni non arrivano o arrivano al momento sbagliato. E’ necessario capire perché e migliorarne la pervasività direzionale e diffusa) difficoltà di relazioni informali (il modello gerarchico docet)

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Guardare senza vedere (boom, bang, gulp) L OM B A RD S T R EET, S e t t e m b r e 2015

Guardare non è solo un atto percettivo ma si intreccia con il vissuto, la storia e la memoria dando luogo a una esperienza complessa dove non esistono regole e dove vedere significa essere costantemente sorpresi da qualcosa. Viviamo in un mondo in cui tutto è fotografato, ridotto a figura, diminuito di una dimensione e di molto senso. E così, quando un’immagine ci ricorda che fotografare è anche testimonianza, racconto e, perché no, dolore, ci si sorprende o, peggio, ci si indigna. Come ogni eccesso, il troppo guardare non ci insegna a leggere mentre le informazioni che le fotografie portano con sé non ci raggiungono più. La consuetudine all’atrocità rende l’orrore normale e distante e come ogni consuetudine annulla il significato, secca i cuori. Abbiamo visto troppi Vietnam, troppa violenza, troppe guerre per riuscire ancora a immaginarne una. Dopo aver visto molte fotografie tragiche e tristi ci si sconvolge meno, disse Susan Sontag. Le immagini stanno consumando lo spazio pubblico di pensiero. Dovremmo tutti metterci a dieta, limitarne il consumo. La gente non ricorda tramite le fotografie ma ricorda solo le fotografie. Guardiamo senza aver voglia di capire, con il corpo affogato in un mare gelatinoso di dati e la testa rigorosamente in superficie a fingere di respirare mentre per difesa o emulazione parliamo spesso senza più cognizione. Leggiamo piegando il senso, interpretando forzosamente,

senza diritto per una replica perché una replica, in fondo, non ci interessa. Ogni tema ridotto a titolo, riassunto, sfiorato. È allo stesso modo che abbiamo visto troppi lupi per capire Wall Street, per prevedere una Cina. Abbiamo a disposizione listini e commenti, la Borsa in casa, servizi televisivi e fotografie della situazione: investire non è mai stato così facile e spensierato. Ma ancora ci sorprendiamo della speculazione, ancora non sappiamo starne alla larga. Ancora balliamo il ballo della sedia e giochiamo il gioco del cerino. Ogni fotografia è la somma di tutto ciò che è successo, un’immagine che, quando è letta con attenzione, tutto questo ce lo racconta e che, invece, abbiamo disimparato a guardare per troppa esposizione. L’economia non è una scienza esatta, men che meno la sua parte aggressiva e arrogante che chiamiamo finanza. Non è esatta da noi in occidente né può esserlo dall’altra parte del mondo. Ma questo dovremmo saperlo, dovremmo conoscere la precisione di questa inesattezza. Dovremmo ancora saper leggere. Investire in Cina credendo che un’economia cresca all’infinito, che a un boom non corrisponda un bang, che tutto questo non sia comandato, forzato e finto, è ingenuo o scriteriato. Affidare i propri soldi a società di cui non conosciamo la propensione al profitto, il cui valore di Borsa è frutto di operazioni esterne all’azienda

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più che alle capacità interne, di cui a volte non sappiamo neanche il nome, non ha più senso dell’affidarli a un cognato che, statisticamente, prima o poi potrebbe giocarseli al casinò. Lo abbiamo fatto ai tempi della new economy, lo abbiamo fatto con gli immobili a Dubai ma le mode negli affari dovremmo lasciarle ai sarti.

La bolla cinese è come una macchia su una fotografia che abbiamo guardato senza vedere. *John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano, 2003. (fb)

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Finanziare l’arte: il crowdfunding A RT RIB U N E, D i c e m b r e 2015

Dal finanziamento pubblico a quello privato Il finanziamento pubblico della cultura, in Italia, gode di disponibilità sempre più ridotte secondo una politica attenta a certi conti ma di certo miope sulla naturale predisposizione del nostro paese. La scarsità dell’investimento pubblico ha così contribuito a rendere maggiormente rilevante il finanziamento privato in ogni sua forma, tradizionale o innovativa. Rimane certamente importante, come forma di finanziamento privato, la spesa delle famiglie che in questi ultimi anni di crisi seppur cresciuta in termini percentuali è però diminuita in termini assoluti e che rimane inferiore alla media europea. Altrettanto importante (e altrettanto in diminuzione), poi, è il ruolo delle fondazioni bancarie che erogano al settore arte, attività e beni culturali, quasi un terzo del totale delle erogazioni.

Mecenatismo 2.0 In questo periodo caratterizzato dalla stretta creditizia, dalla scarsità di risorse pubbliche (soprattutto per l’arte contemporanea), dalla difficoltà di accesso al credito e dalla scarsa circolazione del denaro l’arte deve necessariamente imparare i nuovi linguaggi economici. Una possibile nuova sponda per il finanziamento di progetti artistici (e alla cultura in generale), ad esempio, è data dal crowdfunding nelle sue diverse declinazioni. L’innovazione tecnologica con le sue infrastrutture così come permette la rapida connessione delle persone e delle idee consente anche un più agevole movimento delle risorse. Con il termine crowdfunding, come noto, si intende la raccolta di somme di denaro volte a finanziare idee secondo un nuovo e diverso paradigma della finanza che diventa trasparente e accessibile. Una finanza condivisa.

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Il crowdfunding è nato negli USA negli anni ’90 ma è solo negli ultimi anni che ha avuto la sua diffusione popolare dovuta all’incremento delle possibilità di connessione e anche grazie alla scelta di Barak Obama di utilizzarlo per finanziare la sua campagna presidenziale del 2008. I modelli di crowdfunding più diffusi possono sostanzialmente racchiudersi in 3 grandi formule. Il donation based crowdfunding è un atto filantropico con cui un soggetto dona una somma di denaro finalizzata a un obiettivo e senza alcun ritorno economico (valgono per tutti la citata campagna di Obama o quella con cui il Festival del Giornalismo di Perugia si è garantito la propria sopravvivenza altrimenti a rischio) Qualora, invece, in cambio della donazione si riceva un premio o una ricompensa si parla di reward based crowdfunding (ad esempio se si finanzia la pubblicazione di un disco e, una volta raggiunto l’obbiettivo, l’autore si è impegnato a donarne una copia ai propri sostenitori). In sostanza il crowdfunding, donation o reward based che sia, ha a che fare con la generosità, la partecipazione, l’inclusione e il sostegno. Con la sovvenzione e l’economia sociale. L’equity crowdfunding, così come il social lending, che sono gli altri due modelli, sono una deriva del venture capital, la sua versione 2.0. Hanno a che fare con l’economia di mercato ai tempi di internet e della crisi del credito: con l’equity crowdfunding l’investitore acquista un diritto patrimoniale ed entra a tutti gli effetti nel capitale della società proponente, che sia srl o spa mentre mediante il social lending somme di denato possono essere prestate senza l’intervento di intermediari finanziari tradizionali. L’Arte partecipata Il crowdfunding e la sua potenzialità di coinvolgere un pubblico attraverso la capillarità mondiale della Rete può permettere il sostegno a manifestazioni e progetti artistici così come al restauro di opere e, perché no, alle acquisizioni

di nuovi pezzi da parte di istituzioni e musei. Un esempio è la campagna Tous mécènes! con cui il Louvre ha, ad esempio, finanziato il restauro della Nike di Samotracia o, per meglio dire, 6.700 donatori hanno versato il milione di euro mancante per raggiungere la somma necessaria, mentre altri 4.700 hanno permesso l’acquisizione del Tavolo di Teschen versando anche in questo caso uno dei 12,5 milioni pagati al venditore. Ma il crowdfunding è servito anche a finanziare la mostra Vice Versa al Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2013 e a Gasworks, il più celebre operatore non profit londinese che sostiene la crescita di nuovi artisti (con l’aiuto di Art Basel e utilizzando la piattaforma di crowdfunding più famosa al mondo, Kickstarter) per ristrutturare due degli undici studios presenti nei loro spazi. Innumerevoli sono le applicazioni possibili e la fantasia quando parliamo di arte non dovrebbe mancare. In Italia sono operative 55 piattaforme di crowdfunding di cui quattro espressamente finalizzate al mondo dell’arte. Da solo il crowdfunding non potrà certamente essere un fenomeno risolutivo, ma potrà essere un importante elemento di co-finanziamento dei progetti artistici. Strategie di fundraising, pertanto, che ad esempio passino dalla partecipazione a bandi di fondazioni bancarie e che a esse abbinino una mirata azione di crowdfunding potranno ottenere successo soprattutto in un settore come quello culturale, ancora sottostimato nel nostro Paese. Quello che sarà importante, nei prossimi anni, sarà la capacità di lettura dei nuovi strumenti dell’economia e la potenzialità di Internet articolata in un giusto compromesso tra vecchia e nuova economia. (fb)

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L’IVA sull’arte: il regime del margine e altri misteri A RT R IB U N E, N ov e m b r e 2015

Fase prima: la vendita La vendita di un’opera da parte di una galleria avviene solitamente in forza di un mandato (senza rappresentanza) che l’artista sottoscrive in favore del mediatore il quale, quando vende l’opera a un collezionista per conto del suo autore, incassa il prezzo finale e retrocede a quest’ultimo lo stesso al netto della commissione. La cessione avviene quindi direttamente dall’artista al collezionista in quanto la galleria non diventa mai proprietaria dell’opera. Ai fini degli adempimenti IVA, però, le cose si complicano. Entrano in scena, infatti, numerose variabili che rendono opaca la formazione del prezzo, favorendo la propensione all’evasione in un mercato che, man mano che vede accrescere la propria importanza anche economica, è invece sempre più interessato alla corretta fatturazione per la definizione della provenienza e la certificazione del valore d’acquisto. La giungla del regime del margine Le cessioni di opere d’arte, per cominciare, scontano aliquote differenti (22%, l’aliquota normale che viene ridotta al 10% se a vendere è l’artista stesso).

È prevista, poi, l’applicazione di un regime alternativo (il cosiddetto margine) introdotto nel nostro ordinamento per evitare la doppia tassazione sui beni per i quali il rivenditore ha corrisposto un prezzo per il quale non abbia potuto portare in detrazione l’IVA. Tale regime si applica agli oggetti d’arte (e ai beni usati)

acquistati da privati (ma anche direttamente dall’autore o dai suoi eredi che non siano soggetti IVA) e rivenduti da chi ne esercita il commercio per professione abituale. Il regime del margine, inoltre, ha tre possibili diverse metodologie di calcolo applicabili secondo convenienza. Il regime analitico rappresenta la normale applicazione del margine: la base imponibile per il calcolo dell’IVA, per ogni singola operazione, viene individuata dalla differenza (il margine, appunto) tra il prezzo di vendita comprensivo dell’IVA e quello di acquisto, certificato da un documento contabile, inclusivo delle eventuali spese accessorie. In ogni caso, è sempre consentita la possibilità di optare, anche per singole cessioni, per l’applicazione del regime ordinario dell’IVA. Il regime forfetario rappresenta il regime naturale per coloro che effettuano commercio di beni usati in forma esclusivamente ambulante: il margine su cui viene individuata l’imposta è calcolato mediante l’applicazione di una percentuale predeterminata sul prezzo di vendita e che per le cessioni di oggetti d’arte il cui prezzo di acquisto manca, non è determinabile (come nel caso di un prezzo unico per un insieme di beni) oppure è irrilevante (un prezzo simbolico rispetto al valore) è pari al 60%. Il regime globale (applicabile solo ad alcune specifiche attività di commercio non esercitate da ambulanti tra cui francobolli, monete o altri oggetti da collezione e qualsiasi bene

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con costo inferiore a € 516,46) prevede che il margine venga determinato con riferimento alle cessioni e agli acquisti considerati globalmente nel periodo mensile o trimestrale e non sulla base delle singole operazioni effettuate. Come se non bastasse, il regime del margine trova applicazioni differenti a seconda che la vendita avvenga con l’intermediazione di una galleria o di una casa d’aste. Una legislazione scoraggiante

Tutte le opzioni sopra descritte formano un quadro confuso e con effetti distorsivi per un mercato come quello italiano, già di per sé soggetto a incertezze e più orientato alla staticità piuttosto che alla vivacità degli scambi. Un mercato in cui è la filiera di provenienza dell’opera oggetto di vendita a determinarne il prezzo finale.

se non introdotta in un più ampio programma di semplificazioni che favoriscano e snelliscano le transazioni, trasformando l’attuale incoerente sistema in uno semplice da conoscere e applicare (e, di conseguenza, da controllare). Valga su tutti un paragone. L’imposizione applicata nel Regno Unito non è particolarmente differente a quella vigente nel nostro Paese (e in taluni casi è addirittura superiore). È la semplicità del sistema a essere differente. La facilità d‘importazione, il supporto finanziario. Quello che davvero manca all’economia culturale italiana affinché possa essere accattivante e finalmente consapevole del proprio potenziale economico. (fb)

Il contesto nazionale, nel suo complesso, risulta scoraggiante. Sconta, certamente, una tassazione superiore a quella dei mercati concorrenti, dando un’immagine poco attrattiva per i possibili investitori e perdente in termini di concorrenza (la Francia, proprio per questo motivo, ha da quest’anno quasi dimezzato l’imposta sul mercato primario). Ma ancor più dell’effettiva maggior tassazione degli scambi è un altro l’aspetto che dovrà cambiare. Una defiscalizzazione della materia, di certo auspicabile e oltremodo necessaria, non potrà da sola portare sostanziali benefici

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Art Bonus, società concertistiche e pubbliche utilità I L G I OR N A L E D EL L E F ON D A Z ION I, G iugn o 2016

Si è tenuta a Mantova, nei giorni scorsi nell’ambito del TRAME SONORE Mantova Chamber Music Festival, una tavola rotonda organizzata dall’Istituto Bruno Leoni di Milano e dall’Orchestra da Camera di Mantova dal titolo “Oltre il decreto: quale futuro per le società concertistiche in Italia?”, per discutere sulle prospettive delle società concertistiche e sul loro finanziamento a partire dalla possibilità di godere, in un prossimo futuro, dei vantaggi dell’Art bonus.

Insieme allo scrivente Broccardi, presidente della commissione Economia della Cultura dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e Esperti Contabili di Milano, coordinati da Angelo Foletto, giornalista e critico musicale, hanno partecipato ai lavori: Loris Azzaroni, presidente Regia Accademia Filarmonica di Bologna, Lorenza Bonaccorsi, deputato e responsabile nazionale Cultura e Turismo del Partito Democratico, Virna Gioiellieri, responsabile comunicazione commerciale Hera Comm (Gruppo Hera), Antonio Magnocavallo, presidente Società del Quartetto di Milano, Stefano Passigli, presidente Amici della Musica di Firenze, Francesco Pollice, presidente AIAMAssociazione Italiana Attività Musicali, Filippo Cavazzoni, direttore editoriale dell’Istituto Bruno Leoni. Come noto, ai fini dell’Art bonus le erogazioni liberali possono essere elargite esclusivamente in favore del patrimonio di proprietà pubblica, al sostegno della lirica e dei teatri di tradizione. Sono quindi esclusi dal credito d’imposta agevolato le erogazioni liberali effettuate

in favore di un ente o di un bene culturale se questo è di proprietà privata anche in assenza di un fine di lucro. L’unico intervento “privato” compreso nell’art bonus è quello a concessionari e affidatari anche privati (profit e non profit) di beni pubblici. Rimangono quindi esclusi, al momento, quei soggetti che pur non pubblici sono comunque da considerarsi di pubblico servizio e pubblica utilità. Le società concertistiche, alcune con una vita ultracentenaria, sono depositarie di tradizione e dispensatrici di cultura ma non rientrano nell’oggetto della norma così come non sono inclusi tutti i soggetti privati, a partire dalle associazioni e dagli operatori culturali. La limitazione è stata imposta non per motivi discriminatori naturalmente ma per questioni di copertura finanziaria: il credito d’imposta è, in questo caso, solo l’anticipo di un investimento che lo Stato avrebbe comunque dovuto finanziare. Nella tavola rotonda è emerso come siano presenti al MIBACT diverse istanze che sollecitano un ampliamento della base dell’Art bonus. L’auspicio è che già con la prossima Legge di Stabilità, possano trovare applicazione i desiderata di molti operatori culturali privati desiderosi di rientrare nella platea dei beneficiari. Se andasse in porto la riorganizzazione degli incentivi statali (che ammontano a circa 3 miliardi di euro) da parte del Ministero dello sviluppo economico, potrebbero liberarsi risorse da utilizzate anche

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per allargare la base dell’Art Bonus al settore privato. L’attenzione delle imprese culturali private e delle società concertistiche in particolare all’Art bonus dimostra come questo credito d’imposta stia funzionando da “motore di riaccensione” del mecenatismo con un grande ritorno allo strumento delle erogazioni liberali, dopo un periodo in cui sembravano le sponsorizzazioni essere diventate “di moda”. Con un vantaggio verso le persone fisiche che si sono viste aumentare la percentuale di detrazione e/o deduzione dall’Irpef. Siamo tutti consapevoli che questo è l’inizio di un percorso e che quindi il cammino è ancora

lungo: sugli oltre 70 milioni di euro raccolti, solo 4 milioni arrivano da persone fisiche che però -come è facile immaginare- rappresentano il numero più alto in termini numerici coprendo il 65% delle liberalità effettuate. L’Art bonus peraltro può essere letto non solo come start-up di un nuovo mecenatismo, come evidenziavamo poc’anzi, quanto anche come stimolo per le istituzioni culturali, a rispondere alle imprese e ai cittadini donatori in termini di accountability: rendere conto con trasparenza, come risulta dal sito Art bonus, è un altro primo passo avanti verso una crescita manageriale degli operatori ed una istanza di vera trasparenza. (fb+is a quattro mani)

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Filippo Baldini dottore commercialista - revisore legale Fiscalista, esperto di contabilità, bilanci, normativa IVA e contenzioso tributario. E’ consulente per le procedure pre-concorsuali e concorsuali.Si occupa per conto dei clienti di trattative in campo immobiliare

Stefano Ballerini dottore commercialista - revisore legale Fiscalista, esperto in diritto e bilanci societari. Si occupa di strategia e internazionalizzazione. Diplomato all’Istituto T.Buzzi – specializzazione tessile – è consulente aziendale con particolare attenzione per le aziende del settore tessile e abbigliamento Franco Broccardi dottore commercialista - revisore legale Si occupa di consulenza societaria e assistenza a enti no-profit con particolare attenzione al settore della cultura. E’ presidente della commissione Economia della Cultura e membro della commissione Startup, Microimprese e Settori Innovativi dell’ODCEC di Milano Elena Pascolini dottore commercialista - revisore legale Ha ricoperto l’incarico di senior manager in alcune delle maggiori società di revisione internazionale. Svolge attività di consulenza e formazione in campo amministrativo. E’ membro della commissione Controllo Societario e della commissione Pari Opportunita’ dell’ODCEC di Milano Pierluca Princigalli dottore commercialista - revisore legale Ha esperienza nel settore della consulenza fiscale e tributaria ed è specializzato in procedure concorsuali e di contenzioso tributario. Collabora con la SDA Bocconi

Irene Sanesi dottore commercialista - revisore legale Esperta in Economia, Gestione e Fiscalità della cultura. Autrice di pubblicazioni di management culturale, ricopre incarichi in fondazioni ed enti e presiede la Commissione Economia della Cultura dell’UNGDCEC.


Viale Premuda 46 • Milano Via del Carmine 11 • Prato lombarddca.com • bbs-pro.it


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