Lombard street 2

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n 2

NOVEMBRE 2015

LOMBARD STR E E T appunti e opinioni


frammenti di un discorso politico

Tutto è arte, tutto è politica ha scritto, tempo fa, Ai Weiwei. L’esibizione dell’arte stessa è un atto politico. Perché nella politica c’è (dovrebbe esserci) la capacità di dialogare, di confrontarsi, mettersi in discussione. Di discutere e sintetizzare il meglio. Oi dialogoi: i dialoghi come li pensava Platone erano un gioco di rimandi e specchi, ritrovare nelle parole dell’altro i fondamenti del proprio pensare. Come ci vediamo, come vediamo gli altri, come gli altri ci vedono, come vorremmo apparire. Politica, appunto. Mettere più artisti a confronto rende omaggio all’arte e, al contempo, vuole essere un segno politico. Un richiamo alla capacità degli uomini di raffrontarsi; una capacità tropo spesso dimenticata. Alla capacità di comunicare e di ascoltare. Di contaminarsi e crescere. Di dire. Alla libertà di farlo. Nel dialogo e nella sovrapposizione i messaggi si moltiplicano, si esplicitano. E noi che ci troviamo nel mezzo, spettatori fortunati, non possiamo che assorbire e rilasciare come spugne felici e grate. È questo pensiero la base dei prossimi eventi di Modello Unico: far dialogare l’arte di artisti diversi, a volte complementari altre volte dissonanti, per origliarne i pensieri, per sentirli germoglianti. Mostrarli vicini per dare voce nelle nostre stanze e nelle nostre menti a un dialogo artistico e, di conseguenza, politico. Per dare ancor più sostanza alla percezione, al concetto che è nei rapporti che si nasconde la verità, la

libertà di pensiero, la vera democrazia. La letteratura non consiste nelle parole scritte ma in quello che le parole scritte suggeriscono e presuppongono. La letteratura è il paradigma della vita. Come la letteratura, infatti, la vita si sostanzia di un continuo confronto tra vuoto e pieno, colmando i buchi dell’esperienza. (Nicola Gardini) Nelle opere di Marina Alessi questo confronto è evidente. Nasce dall’incontro con altri artisti che vengono ritratti su fondo bianco. E proprio in quello spazio bianco, in quella volontaria lacuna dell’immagine, in quel non detto nasce l’incrocio, il gioco, l’interpretazione. Un dialogo vivo, che davvero colma i buchi dell’esperienza.

Franco Broccardi


LO MBA RD STRE E T appunti e opinioni

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‘‘L’inferno è la musica degli altri’’

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Delitto imperfetto

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Bonus / Maalox

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Le finte verità

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Non passa lo straniero

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‘‘La letteratura non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario, verso ciò che è’’

13 I’odio 14

Ohm (La resistenza, la memoria)

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Un paio di metri cubi. Anche meno.

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Parigi val bene una messa

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Guardare senza vedere (boom, bang, gulp)


‘L’inferno è la musica degli altri’ * 2 g e nnaio 2 0 1 5

Al ber to Casi raghy

America’s Most Wanted risulta, in pratica, un sereno, insulso e incongruente quadro di medie dimensioni in cui una famiglia cammina davanti a George Washington lungo la riva di un lago in cui si bagna un cervo.

Si deve davvero credere alla democrazia? Perché mai si dovrebbe pensare davvero che ognuno sappia dire la propria, credere al senso comune, alla cultura di massa? La gente, in fondo, è solo gente e le persone sono altro. La gente è carina, mai bella, legge poco e ascolta Céline Dion, Tiziano Ferro e gli Air. La gente è la maggioranza. Tempo fa due artisti russi, esuli e immigrati in America, commissionarono un sondaggio, popolare e democratico, dall’eloquente titolo La scelta della gente con cui definire le caratteristiche predilette (e quelle più detestate) in un’opera pittorica per poi realizzarla.

Niente di raccapricciante ma non esattamente una meraviglia. Probabilmente un quadro poco appagante che nessuno sceglierebbe per appenderlo in casa propria. Allo stesso modo, in seguito, Dave Soldier, compositore e neuro scienziato americano, andò alla ricerca della canzone perfetta: quello che ne ricavò fu un lento duetto cantato da una voce maschile e una femminile, con chitarra, sassofono, archi, batteria e sintetizzatore. Qualcosa di molto simile, dichiararono i critici, a una canzone di Céline Dion, appunto.

Le preferenze raccolte da Vitaly Komar e Alexandir Melamid si concentrarono sulla predominanza di blu, un’ambientazione naturale e la presenza di figure storiche, di animali, di donne e di bambini in abiti casual.

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la strada per il mondo ideale ma nell’ascolto comprensivo come quello che ha regalato Carl Wilson, critico musicale canadese a Let’s talk about love della Dion e di cui ha scritto in un libro dal titolo chiarificatore del suo punto di partenza.

La diffusione generalizzata delle idee tende a renderle banali. ‘Il carino, l’interessante e il bizzarro sono la moneta corrente spesa nelle conversazioni, nei giudizi informali, nelle chiacchiere del dopo mostra o del dopo film, ma anche il puntello delle recensioni e della critica d’occasione, che ha sempre bisogno di un carnet di aggettivi-tappabuchi’.

Ascolto comprensivo che dovrebbe essere applicato ai gusti degli altri, alle opinioni altrui e, rigorosamente, alle regole. È facile fare opposizione obiettando senza proporre, é facile proporre senza alcun riscontro. É più facile dire che fare, essere Statler o Waldorf che Kermitt.

L’uomo è un animale sociale, feroce e insicuro, tende per propria natura a omologarsi per fare branco. Ha bisogno di aggregazione e conferma, di cantare in coro mentre il pensiero libero fa paura finché qualche like o la televisione non lo confermi.

Come dire di voler pagare le tasse ma di volerne pagare quanto é giusto, non di più. Il problema, però, è quando ognuno decide autonomamente quello che è ‘giusto’: un giusto che spesso non coincide con la legge, finché non faremo nulla per cambiare quella legge.

Preferisce il pregiudizio comune e i suoi luoghi, gli abiti scuri, i ruoli chiari, la musica semplice come certe idee e ha paura del giudizio. Vuole il consenso dei suoi pari, del proprio branco, si glorifica con il dissenso dei dissimili.

Facile giudicare difficile capire, direbbe Yoda. O qualcosa del genere.

È questione di gusto, così difficile da codificare, e di certo influenzato dallo status ma anche da etnia, istruzione, casi della vita e apertura mentale. Di certo influenzato da chi vuole influenzarlo, come ogni moda. E il gusto non vive solo nell’arte, nella musica, nella cucina ma anche in politica e in ogni naturale aspetto della nostra vita, personale e sociale.

* Il titolo è di Momus

Il conformismo degli altri ci porta a pensare di avere gusti migliori, che la nostra verità sia la verità vera al netto del dubbio, che la migliore democrazia sia la nostra illuminata dittatura mentre invece dovremmo più spesso provare a immedesimarci nell’altro senza per questo assuefarci.

foto di Marina Alessi www.marinaalessi.com courtesy of Galleria L’Affiche www.affiche.it

Non cercare di convincere né dì convincersi ma di capire, o almeno provare a farlo, capire le ragioni dei gusti degli altri. Perché non è nel cercare di rendere gli altri uguali a noi

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Delitto imperfetto 2 f e bb r aio 2 0 1 5

La finanza è il giro di denaro di un club esclusivo e mondiale, l’economia il calcio giocato dai bambini nelle piazze con passione e fiducia. La finanza è Lars Thorwald, l’economia sua moglie mentre noi, troppo spesso, ci limitiamo a guardarli dalla nostra finestra.

Ci sono coppie tormentate e legate a doppio filo, coppie la cui storia non finisce bene. Anna Fallarino e suo marito, nobile e assassino, ad esempio. O Bertrand Cantat e Marie Trintignant, famosi, idealisti e insieme tormentati.

Economia e finanza, anche. Hanno nomi che vanno di pari passo, sui giornali e sulla bocca della gente come sposi di lungo corso, come un’unica identità. Nomi dei quali non ci si chiede più se siano davvero qualcosa più di due persone, quale sia o sia stato il loro progetto condiviso e condivisibile. Nomi da citare comunque assieme perché è così che deve funzionare.

La finanza, alla fin fine, è solo un gioco. E allora, viene da chiedersi, perché scommettere contro una slot-machine, la fortuna o la probabilità debba essere diverso da una vendita allo scoperto, un future, un aleatorio guadagno di borsa spesso frutto di irrazionali speculazioni? Perché scommettere sui cambi dovrebbe essere più moralmente accettabile dell’investire i propri soldi in una partita di poker? ‘Chi vuol diventare filosofo deve imparare a non spaventarsi delle assurdità’ disse Bertrand Russell. Ma noi che filosofi non siamo rimaniamo colpiti dalle assurdità e reagiamo provocando, immaginando, chiedendo.

Ma il conte Casati Stampa ha ucciso sua moglie per gelosia e così ha fatto Cantat con la sua compagna. Lo stesso la finanza con l’economia, ma per avidità, questa volta. Perché finanza ed economia, ormai, non hanno più molto a che fare. Perché la borsa é un casinò dove il valore di una società non c’entra più nulla con la sua capitalizzazione.

Troviamo assurdo questo nostro Stato biscazziere che guadagna sui vizi (su qualcuno di più e su altri meno), che vieta la pubblicità delle sigarette ma permette quella del gioco d’azzardo, che ci chiede di bere responsabilmente ma irresponsabilmente, girando la testa e allungando la mano, lascia che le persone si rovinino con le proprie mani.

Perché chi investe lo fa sulle probabilità, probabilità che non sono un caso per tutti ma la speculazione di alcuni. Perché quello che vale non sono le idee applicate alla realtà, al futuro del fare, ma all’inganno presente di chi ‘ci sa fare’.

Ci sembra assurdo uno stato moralista che non tassa la prostituzione ma per soldi accetta molti compromessi e si diverte con il gioco. Uno Stato che fuma e beve, a giudicare da come scrive le proprie leggi. Che non tassa le stesse cose allo stesso modo: i guadagni di borsa e le vincite al gioco, ad esempio. Uno Stato che non si rende conto di quanto

Il valore dell’arte non é più l’arte ma la disumana programmazione della popolarità e fare impresa, così come fare arte, ha ormai meno valore dei like su un social network perché il valore, ormai, non si misura più dal coraggio, dalle idee, dalla cultura ma su quanta incondizionata accettazione siamo in grado di creare.

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(E, allora, delle due l’una: perché non tassare tutto allo stesso modo, e all’aliquota più alta ché se bisogna lucrarci bisogna farlo bene, o altrimenti perché non stringere il cerchio al gioco d’azzardo, che sia in una sala giochi o in una sala borsa, tutelarci da improvvise voglie di poco probabili guadagni facili e immeritati?

costi l’incertezza del diritto. Di quanto costi in tempo perso, in denaro buttato. Di quanto ciò penalizzi i contribuenti virtuosi che non riescono a pagare il dovuto senza un senso di aleatorietà e inadeguatezza che continuerà a sposarli finché prescrizione non li tranquillizzi. Uno Stato edonista che favorisce il gioco e penalizza il lavoro (quello di chiunque, perché anche chi non dipende lavora).

Oppure, meglio: perché non tutte e due le cose, perché non fare dello Stato una cosa davvero pulita, seria, pubblica e a servizio?)

Bonus/Maalox 1 6 f e bb r aio 2 0 1 5

artigianali, dei food shop, delle hamburgerie 2.0, delle boutique della carne o dell’uovo sodo. La bellezza di Babette è nella cura dei particolari, è l’attesa dei prodotti che arrivavano da lontano con una nave attesa trepidando, la ricerca e il sentimento da offrire ai commensali.

Gyptis scelse Protis come sposo porgendogli una coppa durante un banchetto che divenne di nozze. È così che nacque Marsiglia a un pranzo tra liguri e greci.

Forse per innamorarsi davvero bisogna aver mangiato assieme perché mangiare, quando non è sopravvivere, è sentire il profumo del basilico nella bocca di fronte mentre parla e ride, è ascoltare bevendo per il piacere di bere e di ascoltare. È coltivare menta e peperoncino per il ricordo che abbiamo di loro. Toccare il cibo con le mani e le mani con le mani.

È l’amore della scelta, del gusto, del cibo, dei profumi, del convivio e della creazione, l’arte faticosa della trasformazione della materia di Benvenuto Cellini che fonde il Perseo nella propria fucina. È l’economia del dono che nella generosità trova il suo ritorno.

Mangiare e bere assieme sono atti supremi. Sono passione, gusto, amore. Il cuore si mobilita per un nuovo trasloco, gli occhi vogliono la loro parte, il naso, come sempre, arriva ancora prima. È il sangue che scorre, la lingua che gusta e il gusto che scende in gola.

In ogni cinema, oggi, quello che troviamo sono bocche piene di popcorn e l’aria che odora di pantofole bagnate, l’incapacità di gustare, di scegliere qualcosa che non sia imposto dall’interesse di un altro, con la carie, i brufoli, la cellulite annessi.

Per questo bisognerebbe aver cura del cibo e dei suoi luoghi come delle persone con cui li condividiamo. Per questo fa impressione l’assalto dei nuovi ristoranti, delle cucine sedicenti

La cucina è diventata spettacolo e affari, poca passione e poco spessore come una lievitazione sbagliata per disinteresse. Più profitto che distribuzione, resistenza di un’economia che ha

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mercato che discende il nostro e non viceversa. È nella cura del cibo che mangiamo, delle persone con cui ci sediamo a tavola e delle letture che scegliamo che si riconosce la nostra curiosità. E’ nella fiducia che riponiamo in chi cucina per noi (non diversa da quella verso un medico che ci cura, un consulente imparziale, un amico generoso) la strada buona verso un sistema di flussi virtuosi e minore acidità. Di stomaco, anche.

fallito, superficiale e edonistica. Risulta difficile, così, credere alla qualità in tutta questa quantità, alla professionalità di chi si improvvisa ristoratore o qualsiasi altra cosa. Di chi vende cibo come ieri faceva con le sigarette elettroniche, di chi cucina facendo i propri conti, di chi vende un contenitore senza conoscere il contenuto, senza conosce le materie prime che sono il fondamento, come la cultura per il pensiero. È nella scelta dei prodotti che si assorbono le storie che diventeranno la nostra, è dal loro

Le finte verità 2 7 f e bb r aio 2 0 1 5

Guardarne una sola non rende giustizia, farne una media non ha mai un senso.

Nei quadri di Rothko non c’è forma ma dimensione. Non c’è astrattismo ma pensiero. Ci sono piani sovrapposti, profondità senza bisogno di prospettiva. Eppure c’è ordine anche dove c’è tensione. Estro nella sua precisione. La vita non ha istruzioni per l’uso, a parte quelle che ha scritto Perec, ma, come i quadri di Rothko, è fatta di dimensione e pensiero, profondità, ordine e tensione. Di prospettiva doppia, come minimo. Nel 1904 Strauss andò in America.

Non c’è sondaggio elettorale che non venga smentito dal voto, non c’è previsione economica che non possa essere letta con il senno di poi, non c’è statistica che non possa essere interpretata in ogni lingua possibile, possibilmente la più favorevole. Non c’è differenza tra gli outlook di un’agenzia di rating e i tarocchi di una maga se non nel prezzo del servizio. E trovare correlazioni è più facile di quanto possa sembrare.

Fu ricevuto come un capo di stato in senato e alla Casa Bianca. A New York si esibì nel salone di esposizione dei pianoforti dell’emporio Wanamaker, un ipermercato sulla Broadway. Ci fu chi lodò questa eleganza accessibile del nuovo mondo, chi la visse come svendita (e non a buon mercato) della cultura europea.

L’andamento delle importazioni di olio negli USA dalla Norvegia è lo stesso di quello delle morti in incidenti contro un treno, come i divorzi in Alabama seguono una curva uguale al consumo procapite di latte intero negli Stati Uniti. Ha forse un senso? Forse sì ma è improbabile e ognuno, come in tutto, ci può vedere quello che vuole.

La realtà è che ogni cosa ha almeno due facce.

Come i film di Hitchcock, fatti di pensiero

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composto, citazioni profonde e umana doppiezza, ogni numero è un viaggio nell’inconscio, è arte presa in prestito, è una certezza nelle mani di un prestigiatore.

E che bisognerebbe essere pronti a pentirsi di ogni cosa. Come quando Hitchcock, proprio lui, comprò un Picasso. Picasso che, dopo averne visto una foto, gli scrisse un telegramma: ‘Spiacente doverla informare, trattasi di falso’.

Nel 2001, a Parigi una mostra, snob e coltissima, espose oltre duecento dipinti di Rodin, Klee, De Chirico, Magritte e molti altri a cui Hitchcock si ispirò, più o meno segretamente. Rothko no, non c’era, ma in fondo era come se. Fu un buon pretesto per pensare un po’ più in profondità che non si dovrebbe mai essere sicuri di niente, men che meno di chi ci vuole raccontare il futuro, numeri alla mano.

Mari na Al essi

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Francesca Zobol i

Non passa lo straniero 2 5 ma r z o 2 0 1 5

del marito, uccise l’amante con l’unico proiettile in canna. Poi si rivolse l’arma contro il petto premendo il grilletto, ovviamente senza alcun risultato. ‘Puttana’, disse il marito sopraggiunto nella sala insanguinata. Qualcun altro, precisino, ribattè ‘cornuto’.

Erano le idi di settembre quando nel 1948 Maria Pia Caroselli di Sulmona Bellentani, contessa e madre di due bambine, impugnò una Browning calibro 9 e sparò, a villa D’Este, in direzione di Carlo Sacchi, industriale della seta e fedifrago. Lui, sposato ma con un’altra, padre quarantacinquenne, amante della sua assassina e di parecchie altre, si era trovato una nuova favorita, Mimì Guidi, più vecchia di madame, ma libera e, pare, ben disposta.

Fabrizio Corona non era nato, ma il suo mestiere sì. Sangue, sesso, corna, lusso e nobiltà sono da sempre il pane del popolino come le storie in cui ci si fa beffe del diavolo e dei potenti e così il caso da tragico diventò nazionalpopolare.

Pia Bellentani non accettò di buon grado la fine di un amore durato otto anni e, con la pistola

Rea confessa, la contessa, assassina senza

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derubato in casa se arrivano i cinesi senza pensare che per uno che compra c’è sempre qualcuno che vende passando alla cassa, terrorizzato dalla proprietà straniera ma in attesa di un emiro per avere uno stadio nuovo.

attenuanti ma con il privilegio del rango: per un delitto che ad altri sarebbe costato caro a lei fu assegnato in saldo del 70%. Dieci anni, ridotti poi a meno di otto perché di fronte alla bellezza, al lignaggio e alla fama ci si mostra più deboli e indulgenti salvo poi, alle spalle, mostrare l’altra faccia della medaglia.

Siamo patrioti senza patria ma con una nazionale, un popolo di tifosi più che di pensatori, solerti televotanti e molto meno coscienziosi elettori. Guardiamo l’erba del vicino e non ne copiamo il verde ma ci versiamo sopra la nostra spazzatura.

Strano questo nostro paese dalla doppia morale, di panni sporchi e piazze uguali, pronti a giudicare di nascosto e ad assolvere gli amici sempre che non ci fanno troppa ombra. Orgogliosi dei nostri astronauti se non si fanno vedere troppo in televisione, cacciatori di autografi e pettegoli seriali. Invidiosi e servili davanti al successo.

E siamo angosciati dalla fuga dei nostri cervelli senza credere che chi rimane, spesso, non ha meno valore ma, forse, solo più coraggio. E bisogno di un paese che sappia riconoscerlo.

Stano questo paese pronto alle barricate per difendersi dagli acquisti dei barbari, a sentirsi

Lena Sal vatori

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G u i do Scarabottol o


‘La letteratura non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario, verso ciò che è’ 2 f e bb r aio 2 0 1 5

È la realtà che porta da un punto a un altro ma sono l’immaginazione, la teoria, le interpretazioni a permetterci ogni strada. Ogni libro ci mostra una possibilità, una propria verità, una contraffazione talvolta. E ogni idea, in fondo, fa lo stesso.

Se continueremo a rimanere l’anello debole della catena, saremo teatro di scontri ferocissimi fra grandi gruppi, terra di conquista delle multinazionali straniere più forti, un cimitero delle piccole-mediegrandi imprese spazzate via dalla concorrenza più agguerrita del mondo, una vera colonia dell’epoca attuale. Gli anelli forti scaricheranno qui le contraddizioni più devastanti, le lavorazioni a maggior valore aggiunto saranno concentrate in USA, Germania e Giappone; a noi resterà solo lo spazio di fare concorrenza nel costo del lavoro ai paesi emergenti…’operazione Europa è un progetto di ingegneria istituzionale che risponde agli interessi esclusivi del suo segmento più forte, quello tedesco. Queste parole, che lette oggi hanno un sapore conosciuto come un pranzo a casa, hanno 35 anni ma non le ha pronunciate un premio Nobel, un politico illuminato, un incredibile veggente, un’arrogante agenzia di rating. C’è sempre un po’ di fortuna in ciascuna teoria e, spesso, molta poca scienza soprattutto se si parla di economia o di calcio. Ognuno dice quello che pensa e va bene così se c’è un senso e non si spara a nessuno. La verità, però, non esiste mai prima ma solo nella storia e nella fortuna. D’altro canto quelle previsioni là sopra, così

azzeccate e precise si trovano in mezzo a duecento pagine anacronistiche e, spesso, folli. In mezzo a frasi spesso incomprensibili e altre fin troppo chiare che si alternano in un mare piuttosto agitato e tra frasi che a volte sembrano scritte a caso apposta. Si trovano verso la fine de L’ape e il comunista, la raccolta di scritti di critica politica a economica prodotti dal carcere dai brigatisti rossi tra il 1979 e il 1980. Ognuno, come sempre ha la propria verità e nessuno, in fondo, ha mai davvero ragione. Ognuno ha il proprio racconto dove tutto può iniziare per caso o determinazione, non importa. Per scelta o improvvisazione o tutte e due le cose. Ma è sempre il finale è sempre la parte più complicata come azzeccare le previsioni. Nessuno sa dire come si termina un racconto, un film, una canzone, un amore, una partita, una carriera, un viaggio. Nessuno, per quanto razionale e colto può sapere cosa troveremo nel domani. Se serva una morale comune o che ognuno lo immagini come più gli è simile. O se il finale debba essere definitivo come negli scontri diretti o incompiuto, un rinvio per troppa pioggia. Nessuno sa mai abbastanza e per questo dovremmo regalarci il dubbio. Solo chi legge può girare l’ultima pagina mentre chi scrive non ha mai idea di quel che succederà dopo. Perché la ripresa è sempre dietro l’angolo ma spesso lo sono anche gli assassini. * (Le parole del titolo sono di Maurice Blanchot).

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Chi ara Bel l l oni


I’odio

2 f e bb r aio 2 0 1 5 Io odio i ciclisti, sudati e invadenti. Falsi ecologisti mentre danno aria allo stomaco, gettano carte e sputano sputi e veleno. Non li reggo mentre parlano in mezzo alla strada, quando occupano troppo spazio, rallentano in salita e rallentano in discesa, quando sono veloci e imprudenti, e ti affidano la loro vita e la tua se ne va d’infarto.

Odio i motociclisti, rumorosi e zigzaganti, gli scooter che passano a destra e la tachicardia da harley. Il rumore e non vedere in faccia, le partenze al semaforo come se il gran premio partisse da via Torino. E chi impenna, chi va contromano, chi deve passare ad ogni costo e chi si scusa dopo aver portato via uno specchietto. Senza fermarsi mai. E gli automobilisti. Tromboni con i loro clacson, arroganti con la loro arroganza. Abbaglianti e mai splendidi, ingombranti sempre di più. Mi da fastidio il parcheggio proporzionalmente al numero ordinale di fila, chi non capisce che le file non si dissolvono suonando, le discoteche ambulanti, gli adesivi ‘bebè a bordo’, le carrozzerie sporche. Pure i pedoni, spesso.

invece si tratta di vive parole tra persone? Ogni altro è diverso da noi e la diversità ci spaventa e ci allontana. E più ci allontaniamo meno capiamo e più siamo diversi. Mentre il vero vantaggio sta nel dialogo comune, nel cercare di capirsi, comunicare bene e ascoltare. E questo è paradossale in un’epoca basata sulla comunicazione. Come paradossali sono le installazioni visionarie e drammatiche di Josè Munoz in cui si percepisce fisicamente il distacco, la diversità, la teoria del doppio legame di Bateson. Dove chi non ascolta si sente inascoltato e deriso. Dove chi passa si sente in imbarazzo tra statue che ci stanno prendendo in giro, o così pare. Dove dovremmo, finalmente, capire come sta chi sta dall’altra parte di noi. Comunicare per mettere in comune. E smettere di ‘odiare’. A partire dalle nostre strade. Proseguendo nel nostro mestiere.

L’odio non è il sale delle nostre strade ma è il riflesso della nostra società, l’applicazione schizofrenica di una sempre maggiore incapacità di comunicare, dell’alba incongruente che ogni giorno sorge su un mare di rapporti. Dei giochi di ruolo, delle posizioni da difendere, del’io sono io. Parlare meno, essere più efficienti, ridurre gli sprechi. Essere costantemente in gara. Ma siamo davvero convinti di dover accelerare e ridurre i consumi, di voler ridurre al minimo i contatti con gli altri in nome dell’utilità? Che il nostro mestiere, qualsiasi mestiere sia, sia solo professione e non umanità, che si debba limitare alla tecnica, noi al di qua e gli altri al di là, che l’efficienza stia nel ridurre i tempi morti quando

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Ohm (la resistenza, la memoria) 2 5 ap r il e 2 0 1 5

Chi ara P assi gl i

Io non ho buona memoria. Non ricordo i sogni, solo qualche incubo. Leggo e dimentico, trattenendo solo le emozioni. Perdo i nomi per strada e di un viso si annebbiano i contorni. Non sempre, se lei era bella. Non ricordo tanto della scuola. Poche cose mai studiate a memoria; qualche lezione di fisica e gli esperimenti con cui abbiamo dato fuoco all’aula e ai pensieri. Ricordo l’opposizione di un conduttore, di due, di dieci. Di migliaia. L’opposizione, strenua e necessaria, al passaggio di una corrente. Ricordo che maggiore è la tensione, la sua l’intensità, maggiore è la resistenza. Ricordo che c’entra la temperatura. Che più c’è resistenza e più l’aria si riscalda. E arriva l’estate, quando resistere sembra più difficile. Resistere. Ci provano i fiori al lato delle autostrade, come le intenzioni si ribellano al dolore. Ci provano come labbra capaci a

sorridere infischiandosene dei denti. Come ogni uomo, peccatore di buona volontà alla sua morte certa. Resistere. Come un amore umanissimo e controtempo, una vita al suo contabile. La libertà a ogni vento contrario. Come il profumo del vino buono resiste all’odore delle città. Resistere. Ogni giorno. Perché la resistenza non è un libro di storia ma fisica educazione. Un sentimento quotidiano e popolare, un’illuminazione della mente. Incandescente, libertaria, fulminante. Resistere. Come esistere ancora.

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Un paio di metri cubi. Anche meno. 1 4 maggio 2 0 1 5

Se scriviamo e riconosciamo questi segni sulla tastiera, su ogni pagina, o su un muro lo dobbiamo tanto a chi ci ha fatto con un cervello coerente agli standard quanto a chi un giorno, forse per colpa del sole che gli scaldava troppo il deserto che aveva sotto i piedi o chissà perché, ha deciso che era ora di smetterla con i geroglifici e ha disegnato la testa di un toro, l‘ha rovesciata e poi chiamata A, la prima lettera di Alef ossia il toro nella sua lingua. Un mediorientale, probabilmente con gli occhi neri, se belli e impossibili nessuno lo sa.

È spesso un evento minore a scatenare una rivoluzione. Non la immaginava certamente Lutero, nel 1517. Non credo che gli uomini che si ritrovarono a Versailles nel 1789 sapessero esattamente a cosa sarebbero andati incontro e neanche i russi nel 1917. Sono bastati quattro musicisti a cambiare una generazione intera come fa ogni bambino che impara a esprimere le proprie idee. Ogni storia è racchiusa in una qualsiasi tastiera come la musica è tutta in sette note. Sono le combinazioni, gli accenti, gli accordi e gli umori a fare la differenza. Sono le idee che con perseveranza e sfacciataggine qualcuno insegue, quelle che talvolta nascono dalle eventualità e dagli eventi. Spesso minori.

ha saputo guardare un po’ più in là. È fatto di conoscenze, moderne e anacronistiche allo stesso tempo come atmosfere steampunk dal cui vapore si intravede il futuro. È fatto di caso e a questo, prima o poi, dovremmo abituarci. Apparteniamo a una specie che non durerà a lungo, che ci mette del suo a essere causa della propria estinzione. Dovremmo studiare di più la fisica e il cielo che non le teorie economiche, quasi sempre sbagliate e mai imparziali per capire quanto siamo piccoli. Carlo Rovelli, in quel piccolo capolavoro intitolato ‘Sette piccole lezioni di fisica’, ci ricorda che ‘è puerile pensare che in quest’angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale’. Tenerlo a mente, ricordarci della nostra provvisorietà, del caso, degli eventi dovrebbe portarci a ridurre gli affanni. Ad avere maggior cura dell’esistenza e meno, molto meno delle cose. Un po’ quello che in fondo diceva Tolstoj nel racconto che Joice definì la più grande storia che la letteratura abbia conosciuto: Se di molta terra abbia bisogno un uomo.

Tutto ciò che ci circonda è la combinazione di meno di una decina di elementi. Elettroni, fotoni, quark e poca altra roba compreso il bosone di cui non si sa un granché. E ogni cosa è immaginabile anche se, a volte, è davvero difficile.

Ad un povero contadino, che aveva appena il necessario per vivere, accadde un giorno di imbattersi in una grande fortuna. Un contadino, che aveva un grande campo, promise che gli avrebbe regalato un pezzo di terra la cui misura sarebbe stata quella equivalente al tratto che il povero contadino fosse riuscito a percorrere tra l’alba e il tramonto.

Ma il mondo, in fondo, non è fatto di cose. È fatto di avvenimenti. Tentare di prevederli è quello che l’uomo ha sempre fatto, sbagliando e migliorando grazie alle visioni e al coraggio di qualcuno che

L’unica condizione era che, al tramonto, si sarebbe dovuto trovare al punto di partenza. All’inizio il povero contadino era molto felice: “certo non avrebbe avuto bisogno di tutto il giorno

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Lau ra Federi ci

per avere un campicello che gli avesse consentito di vivere in abbondanza”. Cosi egli parti di buon umore, senza fretta e con passo tranquillo; ma, cammin facendo, si affaccio in lui il pensiero che avrebbe potuto sfruttare ancor meglio quest’unica opportunità, guadagnando terreno più possibile: e già si immaginava tutte le cose che avrebbe potuto fare con quella nuova ricchezza. Il suo passo diventava sempre più veloce ed egli si orientava sempre verso il sole poiché non voleva in nessun caso mancare, quando fosse giunto il tramonto, al punto di partenza. Continuava a descrivere un cerchio sempre più grande, per allargare ancora e ancora il pezzo

di terra. Lì vedeva un laghetto, qui un pascolo particolarmente fertile, lì ancora un boschetto. Il suo passo diveniva sempre più frettoloso, il suo respiro ansante e il sudore, causato dal continuo camminare e dalla paura, gli bagnava la fronte. Finalmente, con un ultimo sforzo, raggiunse il traguardo. Con l’ultimo raggio del tramonto, si era trovato al punto di partenza, cosi come era stabilito nei patti: ed ora che un immenso pezza di terra gli apparteneva, sfinito cadde a terra morto. Il suo cuore non era stato in grado di sopportare lo sforzo. E fu così che al contadino rimase solo un piccolo fazzoletto di terra per la sepoltura: ed era quello di cui ormai aveva bisogno.

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Parigi val bene una messa 1 4 maggio 2 0 1 5

Qualche anno fa, alla Fabbrica del Vapore, a Milano, venne esposta un’opera di Anish Kapoor: Dirty Corner. Un tubo lungo 60 metri in cui il visitatore poteva/doveva entrare. Un tubo dove la luce diventava penombra e la penombra diventava buio. Un buio completo dove procedere senza saperne la fine.

Quel buio dove ti volti, ogni tanto, a vedere la luce che c’era e poi prosegui verso un futuro che non sai. Un tubo che era donna e diventava uomo, che era materia e diventava pensiero, un utero profondo in cui, immergendosi, si possedeva l’opera e se ne usciva con una voglia accresciuta e precisa, con gli occhi pronti al bello, con la mente curiosa e più attenta. Un passaggio che evocava il passaggio, un’idea di rinascita con ogni senso in allerta. Era il 2011 e Milano non stava tanto bene. Livida e sprofondata per sua stessa mano, arrivava dalla luce e si era infilata in un tunnel, relegata in un angolo sporco e con una strada buia di fronte. Una città stanca ma, lo scopriamo oggi, non esausta. ‘Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può realizzare ma l’esausto non può neanche possibilizzare’ scrisse Gilles Deleuze. Tra allora e oggi i cantieri, la corruzione, le polemiche, gli errori e l’opposizione. Tutto prevedibile come 60 metri da affidare con appalto pubblico. Tra allora e oggi mille idee e non tutte prevedibili.

Kapoor, gli stessi effetti, la stessa idea di rinascita. Milano è cambiata. Ha soprattutto cambiato idea di sé. Si è risvegliata liberata come la sua Darsena, nuova come la Fondazione Prada. Bella come la Pietà Rondanini e la Sala delle Asse, Imprevista come il Teatro Continuo, discussa e scintillante come Porta Nuova. Grande come il Mudec e il silos Armani. Una città, orgogliosa e finalmente viva. In ogni città, per quanto brutta, qualcosa di bello è presente. Questo o qualche cosa di simile diceva Calvino nelle Città invisibili. Ed è a questo piccolo spazio vivo che Milano si è saputa aggrappare, come a un cornicione per non volare giù da un terrazzo. Non più statica e fine a se stessa, non un sasso buttato nel mare e che nel mare affoga. Ma germoglio, radice, progetto e prospettiva, traccia. Una piccola falce che può immaginarsi luna piena. Il seme e il frutto perché il bello porta al bello. Expo è una madre incongruente? Può essere ma incongruente e meravigliosa è , ad esempio, la Centrale Montemartini a Roma, bellezza su bellezza senza bisogno del tempo. La perfezione ha senso, forse? No, non ne ha mai. Ne ha il fare, il provare, il credere, il cercare. Sbagliare, anche, ma fare. E così ha fatto. E se tutta questa vita, questa voglia, questi frutti sono il risultato ben venga anche il padiglione McDonald’s.

Finché Expo, alla fine è arrivato come un carrozzone senza ruote, un parco divertimenti soprattutto per chi ci si è già divertito, una fiera di paese diventata campionaria, un riassunto sommario, patinato e unto. Ma al di là di ogni possibile opinione Expo, per Milano, è stata una scintilla, la fine del tubo di

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Tommaso Santu cci


Guardare senza vedere (boom, bang, gulp) 2 f e bb r aio 2 0 1 5

Guardare non è solo un atto percettivo ma si intreccia con il vissuto, la storia e la memoria dando luogo a una esperienza complessa dove non esistono regole e dove vedere significa essere costantemente sorpresi da qualcosa. * Viviamo in un mondo in cui tutto è fotografato, ridotto a figura, diminuito di una dimensione e di molto senso. E così, quando un’immagine ci ricorda che fotografare è anche testimonianza, racconto e, perché no, dolore, ci si sorprende o, peggio, ci si indigna. Come ogni eccesso, il troppo guardare non ci insegna a leggere mentre le informazioni che le fotografie portano con sé non ci raggiungono più. La consuetudine all’atrocità rende l’orrore normale e distante e come ogni consuetudine annulla il significato, secca i cuori. Abbiamo visto troppi Vietnam, troppa violenza, troppe guerre per riuscire ancora a immaginarne una. Dopo aver visto molte fotografie tragiche e tristi ci si sconvolge meno, disse Susan Sontag. Le immagini stanno consumando lo spazio pubblico di pensiero. Dovremmo tutti metterci a dieta, limitarne il consumo. La gente non ricorda tramite le fotografie ma ricorda solo le fotografie. Guardiamo senza aver voglia di capire, con il corpo affogato in un mare gelatinoso di dati e la testa rigorosamente in superficie a fingere di respirare mentre per difesa o emulazione parliamo spesso senza più cognizione. Leggiamo piegando il senso, interpretando forzosamente,

senza diritto per una replica perché una replica, in fondo, non ci interessa. Ogni tema ridotto a titolo, riassunto, sfiorato. È allo stesso modo che abbiamo visto troppi lupi per capire Wall Street, per prevedere una Cina. Abbiamo a disposizione listini e commenti, la Borsa in casa, servizi televisivi e fotografie della situazione: investire non è mai stato così facile e spensierato. Ma ancora ci sorprendiamo della speculazione, ancora non sappiamo starne alla larga. Ancora balliamo il ballo della sedia e giochiamo il gioco del cerino. Ogni fotografia è la somma di tutto ciò che è successo, un’immagine che, quando è letta con attenzione, tutto questo ce lo racconta e che, invece, abbiamo disimparato a guardare per troppa esposizione. L’economia non è una scienza esatta, men che meno la sua parte aggressiva e arrogante che chiamiamo finanza. Non è esatta da noi in occidente né può esserlo dall’altra parte del mondo. Ma questo dovremmo saperlo, dovremmo conoscere la precisione di questa inesattezza. Dovremmo ancora saper leggere. Investire in Cina credendo che un’economia cresca all’infinito, che a un boom non corrisponda un bang, che tutto questo non sia comandato, forzato e finto, è ingenuo o scriteriato. Affidare i propri soldi a società di cui non conosciamo la propensione al profitto, il cui valore di Borsa è frutto di operazioni esterne all’azienda

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più che alle capacità interne, di cui a volte non sappiamo neanche il nome, non ha più senso dell’affidarli a un cognato che, statisticamente, prima o poi potrebbe giocarseli al casinò. Lo abbiamo fatto ai tempi della new economy, lo abbiamo fatto con gli immobili a Dubai ma le mode negli affari dovremmo lasciarle ai sarti.

La bolla cinese è come una macchia su una fotografia che abbiamo guardato senza vedere. *John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

Zel da Sar tori

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Viale Premuda 46 • Milano lombarddca.com • studiolombarddca.wordpress.com


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