Luigi Dal Cin
Questo libro è stato realizzato in collaborazione con la Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia di Sàrmede (TV). Le illustrazioni sono tratte dalla 30a edizione di “Le immagini della fantasia”.
Per le piccole Hélène e Maria, nate assieme a queste pagine illustrate. M.M. A Sara, venuta dalla terra o dal profondo del cielo. L.D.C.
Responsabile editoriale: Antonella Vincenzi Curatrice del progetto: Monica Monachesi Redazione: Giulia Calandra Buonaura Grafica: Simona Caserta, Alessandro Micheli Proprietà letteraria e artistica riservata © 2012 Franco Cosimo Panini Editore S.p.A. Via Giardini, 474/D - Direzionale 70 41124 Modena www.francopaniniragazzi.it Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle illustrazioni senza il consenso scritto del titolare del copyright. Finito di stampare presso Grafiche Tintoretto S.r.l. Villorba, Treviso Prima ristampa: ottobre 2014
Testi: LUIGI DAL CIN Illustrazioni della copertina e dei risguardi: DAVID PINTOR Illustrazioni degli interni: L’uccello a tre teste che racconta le fiabe (fiaba Jakuti) − FABIO FACCHINETTI La Baba Jaga e le oche-cigni (tratta da Afanas’ev) − CLOTILDE PERRIN Il soldato, la betulla e i tre falchi (tratta da Afanas’ev) − ANNA CASTAGNOLI Sorellina Alënuška e fratellino Ivanuška (tratta da Afanas’ev) − PEP MONTSERRAT La macina magica (tratta da Afanas’ev) − SACHA POLIAKOVA Mosca cieca con l’orso (tratta da Afanas’ev) − VALERIO VIDALI Mamma lupa (fiaba Korjaki) − JÓZEF WILKOŃ Il pesciolino d’oro (tratta da Afanas’ev) − DAVID PINTOR La principessa ranocchia (tratta da Afanas’ev) − ARTEM KOSTYUKEVICH
L’uccello a tre teste che racconta le fiabe Sapete chi è che ci porta queste fiabe bagnate di lacrime, infuocate dal sole ardente, colpite dal vento e dalla neve? È Ëksëkju, l’uccello a tre teste: il celeste uccello con gli occhi che sembrano stelle lontane e con il verso simile al rimbombo del tuono. Questo splendido uccello ha intrecciato il suo nido nel cielo infinito. Ëksëkju non ha paura né della tempesta, né della neve, né della bufera. E viene per combattere tre grandi mali: la perdita dei ricordi, la mancanza di gratitudine e l’incapacità di commuoversi, tre tristi disgrazie di cui spesso soffrono gli uomini. Proprio quando gli uomini sono più disperati, quando nessuno vuol più vivere e lavorare, quando nessuno ha più voglia di danzare e di cantare, quando tutto quello che era bello viene dimenticato, è proprio allora che Ëksëkju scende dal cielo, e porta una magica medicina contro i tre mali che uccidono l’anima. Ëksëkju arriva volando, si posa sulla roccia arrossata dal tramonto e racconta le antiche fiabe. E così l’antica parola risuona. Così gli animi di coloro che sono pronti ad ascoltare e a ricordare tornano a vivere.
La Baba Jaga e le oche-cigni C’erano una volta un vecchino e una vecchina che avevano una bambina grande e un bimbo piccolo. «Figlia» disse la mamma, «noi andiamo a lavorare: ti porteremo del pane bianco, un bel vestitino, e un fazzoletto, ma tu bada al tuo fratellino, e non uscite di casa mentre siamo via.» La bambina si dimenticò delle raccomandazioni dei genitori: sistemò il fratello sull’erba, sotto la finestra, e se ne corse in strada a giocare. In quel momento passarono le oche-cigni, afferrarono il piccolo e lo portarono via. Quando la bambina tornò, vide che il fratellino era scomparso. Disperata, correva di qua e di là. Lo chiamava e singhiozzava. Poi, alzando lo sguardo, vide le oche-cigni che, volando, sparivano oltre il fitto bosco. Da tempo si diceva che le oche-cigni rapissero i bambini per conto della Baba Jaga, la spaventosa strega del bosco, e così la bambina si lanciò all’inseguimento.
Corri e corri, ecco un forno: «Forno, forno, presto, dimmi dove sono fuggite le oche-cigni!» «Mangia la mia galletta di segale e te lo dirò!» Ma la bambina non voleva mangiare e così il forno tacque. Corri e corri, ecco un melo: «Melo, melo, presto, dimmi dove sono fuggite le oche-cigni!» «Mangia le mie mele selvatiche e te lo dirò!» Ma la bambina non voleva mangiare e così il melo tacque. Corri e corri, ecco un fiume di latte: «Fiume di latte, fiume di latte, presto, dimmi dove sono fuggite le oche-cigni!» «Bevi il mio latte e te lo dirò!» Ma la bambina non voleva bere e così il fiume tacque.
Mentre correva, però, evitò di pestare un porcospino che, per riconoscenza, le disse: «Le oche-cigni sono fuggite di là! E per entrare nella casa della Baba Jaga devi dire così e così!» Corri e corri, ecco una casa di legno sorretta da due zampe di gallina che girava continuamente su se stessa. «Casetta su zampe di gallina» recitò la piccola, «gira il tuo viso alla bambina, punta le zampe bene al centro, e fammi scivolare dentro!» La casetta si voltò, e per un istante stette immobile: giusto il tempo perché la bambina entrasse di nascosto. Dentro vide la spaventosa Baba Jaga gamba d’osso, la centenaria nonna di tutte le streghe dei boschi. Stava china sulla stufa, il suo piede ossuto e rugoso in un angolo della stanza, l’altro piede nell’altro angolo, e aveva un naso così lungo che arrivava a toccare il soffitto. Su una panca, lì accanto, il fratellino giocava con alcune mele d’oro. «Pù! Pù! Pù!» si lamentò all’improvviso la Baba Jaga digrignando i denti. «È strano: sento odore di ossa di bambina!» Ma prima ancora che la Baba Jaga si fosse voltata, la bambina aveva già afferrato il fratellino ed era scappata fuori dalla casa.
La Baba Jaga andò su tutte le furie, gridò forte, e arrivarono subito le sue oche-cigni che si lanciarono all’inseguimento dei due bambini. Corri e corri, le oche-cigni stavano per raggiungerli, quand’ecco il fiume di latte: «Fiume caro, nascondimi!» disse la bambina. «Presto, bevi il mio latte!» Non c’era altro da fare: la bambina lo bevve, il fiume la nascose sotto i suoi argini, e le oche-cigni passarono oltre. La bambina uscì dal suo nascondiglio tenendo per mano il fratellino e ringraziò il fiume. Corri e corri, le oche-cigni stavano ormai tornando indietro e le volavano incontro, quand’ecco il melo: «Melo caro, nascondimi!» «Prima mangia la mia mela selvatica!» La bambina si affrettò a mangiarla. Il melo la abbracciò con i suoi rami e la coprì con le sue foglie, insieme al fratellino, e così le oche-cigni passarono oltre.
La bambina allora uscì dal suo nascondiglio tenendo per mano il fratellino e ringraziò il melo. Corri e corri, le oche-cigni l’avevano vista e già si buttavano giù in picchiata, quand’ecco il forno: «Signor forno, ti prego, nascondimi!» «Presto, assaggia la mia galletta di segale!» La bambina si mise subito in bocca la galletta e si lanciò, insieme al fratellino, dentro il forno. Le oche-cigni volarono in tondo sopra al forno, gridarono il loro verso spaventoso, ma alla fine se ne dovettero tornare dalla Baba Jaga a mani vuote. Quanto alla bambina, arrivò di corsa a casa con il fratellino sano e salvo, giusto un attimo prima che rientrassero i genitori.
Il soldato, la betulla e i tre falchi C’era una volta un soldato che stava tornando a casa dopo tanto tempo. Per strada incontrò un diavolo che gli disse: «A casa non hai né moglie, né figli. Vieni a lavorare con me e ti ricompenserò.» «E in che cosa consiste il lavoro?» «È una cosa facile: devo andare al di là del mare per le nozze di mia figlia, ma qui ho tre falchi. Guardameli fino al mio ritorno.» Il soldato pensò: “Seppure da un diavolo, almeno guadagnerò qualche soldo per mangiare” e così acconsentì. Il diavolo lo condusse nel suo meraviglioso palazzo, poi partì. Il soldato, curioso, non faceva che andare avanti e indietro per tutte quelle stanze piene di ori e velluti, ma alla fine si annoiò e scese in giardino. E lì, mentre passeggiava, una betulla gli parlò: «Soldato, ti prego, vai alla chiesa del villaggio e chiedi al pope di consegnarti quello che ha sognato stanotte.» Il soldato andò; il pope prese un libro e glielo consegnò. Quando il soldato ritornò nel giardino, la betulla gli disse: «Ora leggi!» Lesse per una notte e, dalla betulla, uscì una fanciulla, fino al petto. Lesse una seconda notte e, dalla betulla, uscì una fanciulla, fino alla cintura. Lesse una terza notte e, dalla betulla, uscì una fanciulla, completamente. La ragazza lo baciò e gli disse: «Sono la figlia di uno zar, mi ha rapita il diavolo e mi ha trasformata in betulla. I tre falchi sono i miei fratelli: volevano liberarmi, ma sono caduti in trappola anche loro!» Non appena la principessa ebbe pronunciato queste parole, arrivarono in volo i tre falchi, si gettarono sulla terra umida e ritornarono subito tre bei giovani. Rientrarono così nel loro regno accompagnati dal soldato. Lo zar e la zarina non stavano più in sé dalla felicità. E così il soldato e la principessa si sposarono e da allora vissero per sempre felici e contenti.
Sorellina Alënuška e fratellino Ivanuška Due giovani orfanelli camminavano per una lunga strada di campagna. «Sorellina Alënuška, ho tanta sete.» «Porta pazienza, fratellino Ivanuška, presto arriveremo al pozzo.» Cammina cammina, giunsero a uno stagno dove, vicino, pascolavano delle mucche. «Sorellina Alënuška, posso bere l’acqua dello stagno?» «Non bere, fratellino, o ti trasformerai in un vitello!» Ivanuška ubbidì, e così proseguirono. Cammina cammina, giunsero a un fiume dove, vicino, pascolavano dei cavalli. «Sorellina Alënuška, ho tanta sete! Posso bere l’acqua del fiume?»
«Non bere, fratellino, o ti trasformerai in un cavallo!» Ivanuška ubbidì, e così proseguirono. Cammina cammina, giunsero a un lago dove, vicino, pascolavano delle capre. «Sorellina Alënuška, ho tanta sete! Posso bere l’acqua del lago?» «Non bere, fratellino, o ti trasformerai in un capretto!» Ma Ivanuška non ce la faceva più: bevve l’acqua del lago e diventò un capretto. Alënuška allora si sedette sopra un mucchio di fieno e pianse lacrime amare, mentre accanto a lei sgambettava il capretto. Poi si alzò, gli legò al collo la sua cintura di seta e riprese il cammino.
Un giorno, correndo libero, il capretto capitò nel giardino dello zar e Alënuška, nel tentativo di riacciuffarlo, lo seguì. Lo zar, che era lì a passeggio, incontrò la ragazza. Gli piacque così tanto che subito decise di sposarla: «Se diventerai mia sposa ti coprirò d’oro e d’argento, e non abbandonerò mai il capretto, tuo fratello, che potrà restare sempre con noi.» Alënuška acconsentì, e ben presto furono celebrate le nozze. Il capretto viveva con lo zar e la zarina, passeggiava nel giardino, mangiava e beveva a tavola con loro. Un giorno, però, lo zar partì per la caccia e si presentò da Alënuška una strega malvagia che con parole bugiarde la condusse sulla riva del mare, le legò una pietra al collo e la gettò nell’acqua. Poi si trasformò nella zarina, indossò le sue vesti e tornò al palazzo dello zar come se nulla fosse accaduto. Nessuno si accorse dello scambio, nemmeno lo zar che, rientrato dalla caccia, la abbracciò. I fiori del giardino, però, cominciarono ad appassire, gli alberi diventavano secchi e l’erba impallidiva. Solo il capretto aveva capito la verità, e per il dolore non beveva più, non mangiava più, andava sempre sulla riva del mare e belava forte.
La strega allora, nel timore che scoprissero il suo inganno, disse allo zar: «Dai ordine che il capretto venga ucciso, non sopporto più quel suo belare così fastidioso.» Lo zar si stupì: “Mia moglie ha sempre amato questo capretto, e ora all’improvviso vuole che lo uccida.” Ma non c’era niente da fare: la strega era così insistente che lo zar, alla fine, dovette dare l’ordine di uccidere il capretto. La strega allora accese un grande fuoco e vi sistemò un pentolone pieno d’acqua. Il capretto capì che non gli restava molto da vivere, scoppiò in lacrime e chiese allo zar: «Ti prego, prima lasciami andare sulla riva del mare.» Lo zar a questa sua ultima richiesta si incuriosì: lo lasciò andare, ma lo seguì come un’ombra. Il capretto cominciò a correre e, giunto sulla riva, scoppiò a piangere e, con un forte belato, invocò la sorellina.
Alënuška allora gli apparve luminosa nell’acqua del mare. Lo zar la vide, si tuffò, le slegò la pietra dal collo, la portò a riva e la abbracciò forte. Poi le chiese cosa fosse successo. Alënuška gli raccontò tutto. Lo zar non smetteva di abbracciarla da quanto era felice. Nel giardino allora i fiori sbocciarono, gli alberi diedero frutti e l’erba ritornò verde. Il capretto non si stancava più di saltare, e saltò tanto che per le gioia fece tre capriole e tornò a essere il piccolo Ivanuška. Ritornati a palazzo, la strega capì di essere stata scoperta e per la paura inciampò e cadde nel fuoco che aveva preparato per il capretto. Da allora lo zar, la zarina Alënuška e il fratellino Ivanuška vissero per sempre felici e contenti.
La macina magica C’erano una volta un vecchietto e una vecchietta così poveri da non avere nulla di cui cibarsi. Allora andarono nel bosco, raccolsero delle ghiande, tornarono all’isba, la loro povera casa di legno, e si misero a mangiarle. Le mangiarono tutte tranne una, che la vecchietta previdente conservò per l’inverno e che sistemò in un buco nel pavimento. La ghianda germogliò in fretta, e cominciò a crescere in casa. La vecchietta se ne accorse subito: «Quando la quercia sarà cresciuta» disse al marito, «non ci sarà bisogno di andare nel bosco per raccogliere le ghiande, ma le avremo qui comode!» La quercia si fece più grande, e le sue radici spaccarono il pavimento; sempre più grande, e la sua chioma squarciò il tetto dell’isba; ancora più grande, e l’albero crebbe fino al cielo. «È ora di raccogliere le ghiande» disse allora il vecchietto, e si arrampicò sulla quercia. Salì e salì, e arrivò fino al cielo. Cammina cammina, vide una macina e un galletto dalla cresta d’oro, li prese con sé e scese a casa. E quando il vecchietto e la moglie si furono cibati di tutte le ghiande raccolte, lui disse: «E adesso, che cosa mangiamo?» «Aspetta» disse la vecchietta, «provo a far girare la macina.» Così la prese, la fece girare, ed ecco all’improvviso una pioggia di frittelle e di dolci, ovunque frittelle e dolci, e comunque girasse la macina, sempre frittelle e dolci! I vecchietti non stavano più in sé dalla gioia, e si sfamarono.
Passava di lì un ricco signore che bussò alla porta. «Mi trovo in viaggio» disse, «e mi è venuta fame. Non avreste mica qualcosa da mangiare?» «Non abbiamo altro da darti, caro, che frittelle e dolci» rispose la vecchietta, «ma quel che abbiamo lo dividiamo volentieri con chi ha fame.» Prese la macina, la fece girare, ed ecco ancora una pioggia di frittelle e di dolci. L’ospite, stupito, mangiò di gusto, ma poi chiese: «Mi vendete la vostra macina?» «Non possiamo» disse il vecchietto, «altrimenti moriremo di fame.» L’ospite fece finta di andarsene, ma quella notte ritornò di nascosto e rubò la macina. Quando alla mattina i vecchietti se ne accorsero, si rattristarono molto. «Non piangete» disse il galletto dalla cresta d’oro, «ora volerò e lo raggiungerò.» Così arrivò al palazzo del ricco signore, si posò sul portone e cominciò a gridare: «Chicchirichì! Al ladro dico buondì: la nostra macina è qui!»
Il signore, appena udì le grida del gallo, comandò a un suo servitore di gettarlo nel pozzo. Lì, il gallo cominciò a dire: «Piccolo becco, piccolo becco, bevi l’acqua e lasciami a secco!» e così bevve tutta l’acqua e poté volare di nuovo verso il palazzo. Si posò su un balcone e gridò: «Chicchirichì! Al ladro dico buondì: la nostra macina è qui!» Il ricco signore allora comandò al cuoco di gettarlo nel forno ardente. Lì il gallo cominciò a dire: «Piccolo becco, facciamo un gioco: versa l’acqua e spegni ’sto fuoco!» e così spense il fuoco del forno e poté volare di nuovo verso il palazzo. Entrò dalla finestra nella camera da letto del ricco signore e cominciò a gridare: «Chicchirichì! Al ladro dico buondì: la nostra macina è qui!» Gli ospiti che il signore aveva invitato a palazzo lo sentirono, e cominciarono a fuggire terrorizzati. E così, mentre il signore li inseguiva per rassicurarli, il gallo prese la macina e la riportò ai due vecchietti che, da allora, vissero per sempre felici e contenti.
Mosca cieca con l’orso C’era una volta un contadino vedovo che aveva una figlia, e che si era risposato con una donna, anch’essa con una figlia. La matrigna però era odiosa con la figlia del contadino: «Porta quella scansafatiche nel bosco» comandava al povero marito «e sistemala in una grotta! Là, senza distrazioni, potrà filare più lana!» Il contadino all’inizio si oppose, ma la matrigna era così rabbiosa che alla fine le diede ascolto e condusse la figlia nella grotta del bosco. Arrivò la notte. La ragazza accese la stufa e si cucinò un po’ di polenta. Subito spuntò un topino dalla sua tana: «Bella fanciulla, ho tanta fame. Ti prego, dammi un cucchiaino di polenta.» «Topino che mi fai compagnia: ti darò tutta la polenta che vuoi, non solo un cucchiaino!», e così fece. Il topino mangiò, e se ne tornò sazio alla sua tana, felice di avere trovato un’amica. A mezzanotte, all’improvviso, nella grotta fece irruzione un orso: «Signorina, spegni il fuoco. Ora giochiamo a mosca cieca: tieni in mano questo campanellino e io ti acchiapperò nel buio.» Il topino, sentendo la voce dell’orso, saltò fuori dalla sua tana, si arrampicò sulla spalla della ragazza e le bisbigliò all’orecchio: «Non avere paura! Spegni il fuoco e poi nasconditi sotto la stufa, mentre io correrò di qua e di là suonando il campanello!» Così l’orso cominciò a correre dietro al topino seguendo il suo scampanellio, ma non riusciva mai a prenderlo. Alla fine si stancò: «Sei una campionessa a mosca cieca, signorina! Come ricompensa ti manderò una mandria di cavalli e un carro colmo di cibi gustosi!» Il mattino dopo, la matrigna disse al marito: «Vai alla grotta a vedere se tua figlia ha filato la lana!» ma intanto pensava: “L’avrà come minimo mangiata un orso! Così me ne sarò finalmente liberata.”
Ma quando vide arrivare una mandria di cavalli con la ragazza e il padre seduti su un carro colmo di ogni bene, i suoi occhi sprizzarono d’invidia: «Non è un granché» disse. «Questa notte portaci mia figlia: mia figlia saprà ritornare con due mandrie di cavalli e due carri pieni di cibo!» Così quella sera il marito condusse la figlia della donna alla grotta. La ragazza si mise subito a cucinare della polenta. Spuntò ancora il topino dalla sua tana: «Bella fanciulla, ho tanta fame. Ti prego, dammi un cucchiaino di polenta.» «Vattene!» gridò la ragazza. «Mi fai schifo!», e gli tirò dietro il cucchiaio. A mezzanotte fece irruzione l’orso: «Signorina, spegni il fuoco. Ora giochiamo a mosca cieca: tieni in mano questo campanellino e io ti acchiapperò nel buio.»
La ragazza lo prese, ma la mano le tremava per la paura e il campanellino non la smetteva di suonare. Terrorizzata fuggÏ dalla grotta e attraversò di corsa il bosco di notte. Alla mattina sua madre la vide tornare inseguita da un gigantesco orso.
Mamma lupa C’era una volta, in un villaggio nel nord della Russia, una donna che si chiamava Kytna. Kytna era la sciamana del villaggio e aveva una figlia piccola di nome Ralinavut. Un giorno la bimba si perse. Vicino al villaggio stava passando un branco di ventotto lupi, che la videro, e la portarono via con loro. La bambina venne cercata per giorni e giorni, in tutti i villaggi vicini, ma nessuno l’aveva vista. «Devo sapere dov’è mia figlia» disse la mamma. Così prese il suo tamburo da sciamana, cominciò a suonarlo e a danzare, socchiuse gli occhi e le apparve un corvo nero che le disse: «Tua figlia si trova a nord con un branco di ventotto lupi, in un luogo che si chiama Talkap. Sono stati loro a rapirla. Stanno puntando a un branco di renne di alcuni allevatori che sono accampati là.» Kytna riaprì gli occhi, chiamò il marito e gli disse: «Ora so che Ralinavut è stata rapita dai lupi e si trova a nord: devo andare a riprenderla.» «Vengo anch’io» disse il marito, «potresti perderti.» «Saprò badare a me stessa» disse la donna, che preparò delle provviste, baciò il marito e si allontanò dal villaggio. Camminava veloce sulla neve, ma dopo cento passi si tramutò in un lupo e così cominciò a correre come il vento, come solo i lupi sanno fare. Corse per giorni e giorni su quelle terre sconfinate coperte di neve, senza mai fermarsi per dormire, finché avvistò il branco di lupi. Si mise allora ad aggirarlo, per non essere notata, cantando una canzone magica.
Compiuto un giro intorno al branco chiamò la figlia: «Ralinavu-ut!» Ralinavut smise di colpo di mangiare e sollevò la testa: «Chi mi chiama?» Kytna fece un altro giro intorno al branco e chiamò per la seconda volta: «Ralinavu-ut!» «Qualcuno mi chiama» disse la figlia, «sembra la voce di mia mamma!» Per la terza volta Kytna aggirò il branco cantando la sua canzone magica, e per la terza volta chiamò: «Ralinavu-ut!» Allora la figlia raggiunse Kytna e, sebbene fossero entrambe sotto l’aspetto di lupo, si riconobbero e si fecero festa: «Figlia mia, sono venuta per riportarti a casa!» Kytna fece fuggire di nascosto la figlia dal branco di lupi, e così corsero per giorni e giorni finché arrivarono in vista del proprio villaggio. Il marito della sciamana era fuori dalla porta che le aspettava. Quando vide correre due lupi gridò: «Eccole, sono tornate!» Gli altri uscirono dalle proprie case: «Ma quelle non sono donne, sono lupi!» esclamarono spaventati, «presto, dobbiamo chiuderci dentro!» «Ma no!» rispose l’uomo. «Sono mia moglie e mia figlia! Perché mai due lupi dovrebbero correre dritto dritto, senza paura, verso di noi?» Intanto i due lupi si erano fatti più vicini. E a cento passi dal villaggio tutti videro Kytna e la figlia riprendere il loro aspetto umano.
Il pesciolino d’oro C’era una volta, sulla riva dell’oceano, una casetta piccola e malandata dove vivevano in grande povertà un vecchietto e una vecchietta. Il vecchietto faceva il pescatore. Un giorno, dopo aver gettato la rete, fece una gran fatica a trascinarla a riva da quanto era pesante. Dentro, però, alla fine vi trovò solo un piccolo pesce che si dibatteva. A osservarlo meglio, vide che non era un semplice pesciolino: era tutto d’oro. «Lasciami ritornare nel mare» lo supplicò il pesciolino, «in cambio farò quello che vorrai!» «Povero pesce» disse il vecchietto commosso, «ritorna libero, non voglio niente in cambio», e lo gettò tra le onde. Ritornato a casa raccontò tutto alla vecchietta che subito si arrabbiò: «Avresti potuto almeno chiedergli del pane!», e lo rimproverò con tanta insistenza che lui ritornò in riva al mare. «Pesciolino, pesciolino, vieni qui vicino» disse a voce alta. «La mia vecchia è arrabbiata, mi manda a chiederti del pane» gli disse. «Torna a casa sereno: avrete pane a volontà» disse il pesciolino d’oro. Il vecchietto tornò a casa e trovò pane fin dentro gli armadi, ma la moglie era ancora furiosa: «Mi si è rotto il mastello e non so dove lavare il bucato! Vai dal pesciolino d’oro e chiedigli di darcene uno nuovo, sbrigati!» «Pesciolino, pesciolino, vieni a riva qui vicino» disse il pescatore, e gli chiese un mastello nuovo. «Avrete anche il mastello» rispose il pesciolino. Il vecchietto tornò a casa, ma era ancora sulla porta quando la vecchietta lo assalì: «Sei proprio un buono a nulla! Vai dal pesciolino d’oro e chiedigli una nuova casa: non vedi che questa sta cadendo a pezzi?»
«Pesciolino, pesciolino, vieni a riva qui vicino» disse il pescatore, e gli chiese una casa nuova. «Non ti angustiare, avrete una nuova casa» disse il pesciolino d’oro. Il vecchietto tornò indietro e nel cortile trovò una casa, in legno di quercia, tutta ornata da preziosi intagli. E la vecchietta che gli correva incontro: «Vecchio incapace: questo è quanto di meglio potevi ottenere? Va’ dal pesciolino d’oro e digli che voglio essere una gran dama, perché la gente che mi incontra si inchini fino a terra quando mi vede.» «Pesciolino, pesciolino, vieni a riva qui vicino» disse il pescatore, e presentò la richiesta della moglie. «Non ti angosciare. Tutto sarà fatto come chiedi» disse il pesciolino d’oro. Il vecchietto tornò indietro e trovò una casa di mattoni a tre piani. Nel cortile vide correre la servitù e la vecchietta, vestita di broccato, sedeva su un’alta poltrona impartendo ordini. «Salve, moglie» disse il vecchietto. «Razza di zoticone» rispose la vecchietta, «come osi chiamare me, una gran dama, tua moglie? Prendi la scopa e pulisci il cortile. E se troverò anche solo un po’ di polvere in un angolo riceverai le frustate che ti meriti!» Passò il tempo, la vecchietta si stancò di essere una gran dama e chiamò suo marito: «Vai dal pesciolino d’oro e digli che voglio essere zarina.» «Pesciolino, pesciolino, vieni a riva qui vicino» disse il pescatore, e presentò la richiesta della moglie. «Non ti crucciare. Tutto sarà fatto come chiedi» disse il pesciolino d’oro.
Il vecchietto tornò indietro e vide che al posto della casa c’era un alto palazzo dal tetto dorato; dietro uno splendido giardino, davanti un prato verde dove le truppe stavano ritte sull’attenti. La vecchietta, vestita da zarina, uscì sul balcone: la fanfara suonò e tutti i soldati gridarono: «Urrà!» Passò del tempo, la vecchietta si stancò di essere zarina e ordinò di trovare il vecchietto. «Chi sarà questo vecchio?» si chiesero i generali. Lo trovarono in un angolo, che moriva di fame. «Vecchio pezzente» gli disse la vecchietta, «vai dal pesciolino d’oro e digli che voglio essere l’imperatrice di tutte le terre e di tutti i mari, in modo che tutti gli uomini, tutte le bestie e perfino i pesci rispondano ai miei ordini!»
«Figuriamoci!» disse il vecchietto. «Se non vai, ti faccio tagliare la testa!» «Pesciolino, pesciolino, vieni a riva qui vicino» disse il pescatore, e presentò la richiesta della moglie. Il pesciolino d’oro non disse nulla, si voltò e tornò nelle profondità del mare. Il vecchietto ritornò sui suoi passi, e non poteva credere ai propri occhi: al posto del palazzo c’era di nuovo la loro casetta piccola e malandata. E nella casetta trovò la vecchietta vestita di stracci che piangeva disperata.
La principessa ranocchia C’era una volta uno zar che aveva tre figli, tutti in età da matrimonio. «Costruitevi ciascuno una balestra» disse, «e tirate: le donne che vi riporteranno le frecce saranno le vostre mogli.» Il fratello maggiore tirò: a riportare la freccia fu la figlia di un duca; il secondo fratello tirò: a riportare la freccia fu la figlia di un generale; il fratello minore, il principe Ivan, tirò: a riportare la freccia tra i denti fu una rana uscita dal fango. I due fratelli cominciarono a deridere il principe Ivan che pensava: “Come potrò vivere con una moglie così?” Ma non si può disobbedire all’ordine di uno zar, e così sposò la rana che, alla cerimonia, fu portata su un piatto d’argento. Un giorno lo zar volle mettere alla prova l’abilità delle nuore e ordinò loro di confezionare una camicia. Il principe Ivan pensò: “Cosa riuscirà a fare la mia rana? Tutti rideranno!” Ma non appena si fu addormentato, la rana uscì dal palazzo, si tolse la pelle e divenne una bella fanciulla: «Balie, aiutatemi!» gridò. Comparvero delle rane che le consegnarono una camicia meravigliosa. Così ritornò in camera e si trasformò di nuovo in rana. Quando il principe Ivan si svegliò, prese la camicia e la portò allo zar. «Questa è una camicia per i giorni di festa!» esclamò lo zar. «Con la camicia del secondo mio figlio invece ci si può andare giusto al bagno, mentre quella del mio figlio maggiore è adatta solo per una topaia!»
I due figli maggiori non ridevano più: «Non è una rana: è una fata!» dicevano tra loro. Il giorno dopo lo zar ordinò alle nuore di cuocere del pane. Le mogli dei due figli maggiori subito scoppiarono a ridere pensando alla rana, ma poi inviarono una cameriera a spiarla per scoprire come cucinava. La rana se ne accorse, ma fece finta di niente: prese la pasta, la lavorò, poi la buttò giù per il camino del forno. La cameriera vide e riferì alle padrone, che allora fecero lo stesso. Ma la rana furba le aveva ingannate: uscì dal palazzo, si tolse la pelle e divenne una bella fanciulla: «Balie, aiutatemi!» gridò. «Cuocetemi del pane come quello che mio padre mangiava solo nei giorni di festa!» Le rane le consegnarono il pane, la fanciulla lo prese e lo sistemò accanto al principe, che dormiva, poi si trasformò di nuovo in rana. Quando si svegliò, il principe Ivan portò subito il pane a suo padre. Lo zar, intanto, aveva già ricevuto quello dei figli maggiori: «È una porcheria!» gridava. «Tornate in cucina e imparate!» Poi prese il pane del principe Ivan, lo guardò ed esclamò: «Questo sì che è un pane da mangiare solo nei giorni di festa!»
Lo zar allora ebbe l’idea di organizzare un ballo. Il principe Ivan si disperò: «Come farò a ballare con te che sei una rana?» Ma la rana gli disse: «Non preoccuparti! Vai al ballo e fidati di me: tra un’ora arriverò anch’io!» Appena il principe fu uscito, la rana si tolse la pelle e si vestì con abiti meravigliosi. Quando la principessa ranocchia arrivò nella sala da ballo tutti applaudirono alla sua bellezza, e il principe Ivan, felice, non finiva più di ammirarla. Si misero a tavola. La principessa rosicchiava un osso e giù, lo infilava nell’ampia manica del suo vestito; beveva un sorso d’acqua da un bicchiere e giù, il resto lo versava nell’altra manica. Le altre due mogli allora la imitarono: infilarono le ossa in una manica e versarono l’acqua nell’altra.
Arrivò così il momento di ballare: la principessa ranocchia afferrò il principe Ivan e cominciò a danzare: ballava e ballava, piroettava e piroettava, e tutti erano strabiliati dalla sua eleganza. Agitò il braccio destro e apparvero fonti d’acqua limpida e boschi, agitò il sinistro e apparvero uccelli di ogni razza e colore. Tutti ne rimasero stupiti. Quando le altre nuore cominciarono a ballare vollero fare lo stesso: agitarono il braccio destro e spruzzarono d’acqua tutti gli invitati, agitarono il sinistro e volarono da ogni parte ossetti smangiucchiati addosso agli invitati. «Basta!» gridò allora lo zar. «Voi due, con i vostri mariti, non siete degne di questo palazzo! Da oggi i miei unici eredi saranno il principe Ivan e la sua principessa ranocchia!»
Ma quella stessa notte il principe Ivan trovò la pelle di rana della moglie e la bruciò. «Cos’hai fatto!» pianse lei. «Ora devo ritornare nel mio regno!», e sparì in un lampo. «Non dormirò finché non l’avrò ritrovata!» disse il principe Ivan e partì alla sua ricerca. Arrivò alla casa della Baba Jaga che gli donò un tappeto intessuto d’oro. Poi camminò e camminò, attraversò boschi, superò montagne, solcò oceani, finché ritrovò sua moglie, Elena la Bella, in un regno lontano e le chiese perdono. Salì con lei sul tappeto d’oro e insieme, felici, volarono in cielo come uccelli.