Franco Ferrari
Virginia Marini Una primadonna alessandrina fra la Ristori e la Duse
LineLab Edizioni
Virginia Marini
Una primadonna alessandrina fra la Ristori e la Duse Promotore: ISRAL - Istituto storico per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi” Alessandria, Via dei Guasco 49 15121 Alessandria tel: 0131443861 isral@isral.it Progetto grafico e fotografie: Giorgio Annone - LineLab, Alessandria
Si ringraziano i collezionisti Toni Frisina e Gianni Tagliafico per aver messo a disposizione alcune delle loro cartoline d’epoca relative ai teatri di Alessandria. Si ringrazia il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Trieste per l’epigrafe a pag 256, l’immagine della locandina a pag. 257 e per i fotoritratti d’epoca di Virginia Marini. © 2013 - ISRAL - Alessandria © 2013 - Edizione: LineLab.edizioni Via Palestro, 24 15121 Alessandria Tel. 0131 325239 info@linelab.com ISBN: 88-89038-48-9
Sommario
Prefazione 5 Dedica 9 Ringraziamenti 10 Al colto pubblico e all’inclita guarnigione 11 I.
Virginia e la Città
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I.1 Infanzia teatrale 17 I.2 Rimpatriate in tournée 39 I.3 Onoranze concittadine 57 II. Intermezzo 81 II.1 Drammaturghi 85 II.2 Comici 89 II.3 Grandattori 97 115
III.
Virginia e la Scena
III.1 III.2 III.3 III.4 III.5
Colleghi 119 Servetta amorosa (1858-1868) 149 Primadonna (1868-1894) 161 Maestra (1894-1918) 215 Sipario 231
Indice dei nomi 243 Indicazioni bibliografiche 249 La carriera di Virginia 258
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Prefazione Era ora che qualcuno colmasse questa lacuna. Virginia Marini, la grande attrice ottocentesca, ricordata nella sua città natale da un corso cittadino e da un teatro dedicatole nel 1920 (e demolito pochi decenni dopo), per la maggioranza degli alessandrini, non era molto di più di un’arida menzione toponomastica (ma questo è un vizio alessandrino che riguarda parecchi altri personaggi di casa nostra…). Eppure Virginia Marini meritava ben altro, e solo la passione di un operatore teatrale di vaglia come Franco Ferrari, direttore dell’Azienda Teatrale Alessandrina dal 1982 al 1996 e poi della Fondazione Teatro Regionale Alessandrino dal 2008 al 2011, poteva realizzare nel giusto modo questo libro-ricerca che colloca finalmente l’illustre alessandrina nel panorama storico dell’arte drammatica del XIX secolo. Secolo in cui Virginia Marini rifulse, ottenendo uno straordinario successo di pubblico che la colloca indubbiamente fra le “divine” del teatro ottocentesco, in una posizione nient’affatto secondaria, come primadonna che, accanto ad Adelaide Tessero e Giacinta Pezzana, si inserisce a pieno titolo tra la “vecchia scuola” di stampo ancora romantico-risorgimentale impersonato dalla Ristori e il nuovo che avanza, rappresentato dalla Duse. Con una vasta indagine condotta non solo sulla bibliografia teatrale specifica ma anche sulle fonti d’archivio e sulla stampa dell’epoca, Ferrari con questo libro colma un deplorevole vuoto di documentazione e ricostruisce con maestria il profilo di un personaggio dimenticato, sullo sfondo di un secolo in cui il teatro (sia di prosa sia musicale) gioca un ruolo importante, accompagnando dapprima i fremiti patriottici del Risorgimento e celebrando, a unità compiuta, i trionfi della borghesia con la figura magnetica del Grande Attore (uomo o donna, “mattatore” o “divina”), in un percorso che trascorre dal “verismo romantico” (in cui si riconosce la Marini) al naturalismo positivista di fine secolo, sino alle profonde innovazioni primonovecentesche. Lo spettacolo teatrale italiano, nel passaggio dall’arte dei “comici” al professionismo attoriale ottocentesco (da Modena e Ristori alla Duse, da Salvini a Zacconi, per intenderci) rappresenta insomma un’esperienza storico-culturale importantissima, che fornisce un contributo non secondario all’edificazione della società civile e dello spirito della Nazione. Per tutte queste ragioni, la presente ricerca non poteva lasciare indifferenti noi dell’Isral, che per statuto e per passione operiamo per salvare la storia e ciò che resta di una memoria del territorio e della società: ovvio quindi che si sia caldeggiato il lungo lavoro d’indagine prima, come la pubblicazione dei suoi esiti adesso. Del resto, il nostro interesse per questo versante di una storia teatrale e musicale non è nuovo: ricordo infatti come in anni lontani l’Istituto abbia patrocinato la pubblicazione del volume di Cesare Beltrami, Musica e melodramma. Testimonianze di vita teatrale nell’Ottocento alessandrino (1988) e, più di recente, il Nonsolonebbia. Teatro, cinema, vita culturale ad Alessandria di Alberto Ballerino (2002), che si concentra sugli anni del secondo dopoguerra. Alessandrinità, dicevamo: è strano, sembra quasi fuori luogo per un personaggio come Virginia Marini che lascia la Città della Paglia a soli quindici anni e non vi
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rimette piede se non per poche occasionali rentrées dopo i successi riscossi sui palcoscenici nazionali e internazionali. Eppure, nel tracciare il profilo artistico e umano del personaggio, Ferrari mette in luce non pochi tratti che ne fanno una verace figlia della città dei “pochi clamori”: la sua immensa modestia, il suo rifuggire da ogni lusso ed eccentricità, il buon senso, la “controllata passione” e la fortissima disciplina etica. A margine inoltre, ma difficilmente riscontrabili, possiamo aggiungere: il suo legame con il dialetto e forse (è Amilcare Bossola che ne parla nel 1903) la sua partecipazione, da piccola, a qualche recita della “divota cumedia” del Gelindo. “Eroina in pubblico e casalinga in privato”, somma artista e donna virtuosa, Virginia Marini sembra incarnare insomma quella medietas che è parte integrante della Weltanschauung o “condizione dello spirito” mandrogna più volte rimarcata con sorridente ironia da Umberto Eco. Una donna che, nonostante i successi di mezzo mondo (nel 1870 il barone SacherMasoch1 la nomina in un suo testo come “una delle attrici più valorose d’Italia e forse d’Europa”!) non si monta mai la testa e a conclusione di una gloriosa carriera svolge con composta abnegazione il suo compito di insegnante all’Accademia romana di Santa Cecilia, allevando uno stuolo di capaci attori. Virginia è sì la primadonna ottocentesca che incarna i buoni principi borghesi, ma è anche colei che sa mettersi in gioco, che mostra un’eccezionale versatilità nel passaggio dalle parti comiche alle drammatiche, riuscendo ad ammaliare il pubblico sia come “servetta amorosa” sia come Messalina o Medea o Signora dalle camelie, passando con disinvoltura ed eleganza da Goldoni a Dumas, da Scribe a Sardou, sino ad arrivare a Ibsen. Memore delle sue umili origini (la leggenda parla di un padre semplice custode di teatro), Virginia anche all’apice della gloria sa farsi apprezzare da quanti lavorano al suo fianco per la sua affabilità e disponibilità a dare spazio agli altri, così come ci sembra rivelatrice di questo atteggiamento democratico la simpatia che dimostrò sempre, nel corso della sua vita, per gli artisti amatoriali; simpatia che si tradusse nell’appoggio dato alle compagnie filodrammatiche da un lato e nell’incoraggiamento dei giovani autori dall’altro. Tra questi troviamo, con una certa sorpresa, come autore di commedie e presidente di una Società filodrammatica alessandrina a lei intitolata e fondata nel 1885, un giovane Ernesto Pistoia, futuro Sindaco socialista della città, nel 1909 e nel 1914. Non ci è dato conoscere quali fossero le idee politiche di Virginia: certamente cattolica e buona patriota (si veda l’episodio triestino del 1882, di muta condanna del supplizio di Guglielmo Oberdan), di lei conosciamo la condotta morigerata, la venerazione per la Regina Margherita che molto la ammirava, ma sappiamo anche che recitò spesso testi di Felice Cavallotti e infine (e qui ci piacerebbe saperne di più) che a fine carriera partecipa e interviene al primo Congresso nazionale delle Donne italiane, tenutosi in Campidoglio nel 1908, fra personaggi come Matilde Serao, Antonio Fogazzaro, la 1 Leopold von Sacher-Masoch, Venus in furs (Venere in pelliccia), 1870: “Tonight he will be at the Nicolini Theater, where Virginia Marini and Salvini are acting; they are the greatest living artists in Italy, perhaps in Europe” (p. 107 dell’ed. London, Bookkake, Supervent, 2007).
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scrittrice Teresa Normanni e la femminista Giuseppina Lemaire. Ci piace sottolineare che questo libro non è solo un esempio di ricostruzione di un percorso biografico professionale, perché saggiamente il suo autore, nella sezione intitolata Intermezzo, ci fornisce un quadro estremamente vivace e puntuale di quella che era la vita e il mondo dei “capocomici”, delle primedonne e dei mattatori ottocenteschi: un mondo assai diverso da quello dell’attività teatrale odierna quale noi conosciamo, perché di vita nomade si tratta (i Teatri Stabili sono di là da venire), e di un’attività frenetica posta in essere per accontentare i gusti del pubblico e per reggere la concorrenza: ogni sera uno spettacolo diverso, un vorticoso giro di copioni da leggere e imparare a memoria, un’ estenuante gara per tenere il campo e rincorrere le mode. Eppure è questo il mondo in cui Virginia vuole ad ogni costo entrare a quindici anni e in cui Lei, che non era “figlia d’arte” ed era di umili origini, si getta appassionatamente e, con una ferrea volontà, con lo studio indefesso unito alle sue indubbie qualità artistiche e al suo ingegno, riesce a “sfondare”. Grande pregio di questo lavoro è, a mio parere, restituirci di questa grande attrice le qualità più autentiche che le valsero non solo il successo sulle scene, ma anche e soprattutto l’affetto di un vasto pubblico, borghese e popolare. Grande professionalità, alto senso etico della propria arte, unite a doti umane importanti come la modestia, la bontà d’animo, la semplicità del fare, l’eleganza del tratto. Un’ultima annotazione: girando per caso in rete, chi scrive si è imbattuto in un singolare ricordo botanico del nostro personaggio. “Virginia Marini” pare sia il nome dato ad una particolare specie di camelia japonica2 : il fatto che venga ricordata con un fiore, ci sembra un bell’omaggio al fascino e all’innata eleganza della nostra attrice dalla voce d’oro. Per concludere, noi dell’Isral vogliamo ringraziare l’Autore e dirgli che in parte ci riconosciamo nella agrodolce dedica ad un Teatro Comunale non più attivo e alla odiosamata “Città natia” che troppo spesso dimentica – non si sa se per ignavia o distrazione – certi suoi figli illustri. Ma vogliamo dirgli anche che, in un tempo di crisi (e di dissesto, ahimè!) come questo che stiamo vivendo, lavori storici importanti come il suo, ci rincuorano. Perché tornare a parlare di “glorie locali” non ai fini di vacui esercizi retorici, ma sulla base di solide ricerche documentarie che apportano un originale contributo alla conoscenza del proprio passato può essere una lezione significativa e nello stesso tempo un antidoto alla sfiducia. Una memoria riconquistata ci dà forza e rappresenta un buon auspicio per il futuro. Franco Castelli Responsabile del Comitato Scientifico dell’Isral
2 Cfr. Charles Puddle, International Camelia Register, International Camelie Society, 1992 (vol. II: 1135, 1140).
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Dedico questo libro
al Teatro Comunale di Alessandria, momentaneamente chiuso per lavori, e alla natia Alessandria, una città che il poeta definirebbe “priva di lusinga”; una città che talvolta finisce per “abbattere”; una città che mio padre e mio figlio, che non ci sono più, amavano; e allora l’amo anch’io.
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Ringrazio Carla Nespolo, Presidente dell’ISRAL, per avermi consentito di realizzare questo progetto. Gli studiosi-amici Eugenio Buonaccorsi e Roberto Livraghi per le specifiche indicazioni e gli autorevoli consigli. L’Archivio di Stato di Alessandria e il suo direttore Gianmaria Panizza con i suoi collaboratori. L’Assessorato Cultura del Comune di Alessandria, in particolare la Biblioteca Civica di Alessandria e il suo direttore Patrizia Bigi con i suoi collaboratori. La Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma, e il suo direttore Annalisa Bini. Il Civico Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, e i suoi bibliotecari Daniela Parodi e Gian Domenico Ricaldone. Il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, il suo direttore Pietro Crivellaro e la bibliotecaria Anna Peyron. Il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Trieste, il suo direttore Maria Masau Dan e la bibliotecaria Cristina Zacchigna. Scandicci Cultura – Istituzione per i servizi culturali del Comune di Scandicci (FI). La Biblioteca di Arte, Musica e Spettacolo – Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Torino, e il suo bibliotecario Stefano Baldi. La Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli. La Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. La Biblioteca e Raccolta teatrale del Burcardo, Società Italiana degli Autori ed Editori di Roma. E il Rotary Club Alessandria Distretto 2032, per aver prodotto la serata del 13 maggio 2013 dedicata a Virginia Marini presso il Conservatorio Vivaldi di Alessandria.
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Al colto pubblico e all’inclita guarnigione. Questo non è un saggio specialistico; quindi non pretendo di interessare gli studiosi di teatro; ma nemmeno voglio limitarmi agli Alessandrini, anche se mi auguro gradiscano la celebrazione di una illustre concittadina, che mi permetto di chiamare semplicemente “Virginia”. In generale mi rivolgo ad un lettore mediamente interessato alle vicende storico-artistiche del Teatro, termine qui riferito al genere “prosa”, sperando di ottenere attenzione e di provocare curiosità. Ho cercato infatti, ricostruendo una biografia professionale, di non negarmi una modesta aspirazione divulgativa.
All’interno del testo ho inserito, dentro parentesi quadra e in corsivo, delle mie note di vario tipo. Le “indicazioni bibliografiche” (in cui è riportato l’elenco degli acronimi adottati per indicare gli archivi-biblioteche) non vogliono essere un panorama tendenzialmente esaustivo sulla materia trattata; sono invece soltanto l’elenco dei testi effettivamente da me consultati ai fini del presente saggio. Quando, nel testo, faccio citazioni da un volume compreso nelle suddette indicazioni, mi limito a riportare in nota il cognome dell’unico o del primo autore/curatore e l’anno di pubblicazione. Per citazioni da testi non compresi nelle indicazioni finali, riporto invece una descrizione completa.
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Busto di Virginia Marini (autore ignoto), Alessandria
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I. Virginia e la Città
Virginia, «attrice drammatica per istinto e per studio, discendente di un soldato napoleonico svedese, Weiss, stabilitosi in Alessandria dove italianizzò il nome in Visini [sic], che a quindici anni, per uscire dall’ambiente provinciale, sposa lo sconosciuto attore G.B. Marini, nel 1877 sarà solennemente incoronata con lauri d’argento nel nostro teatro Municipale, a riconoscimento del magistero della sua arte. È questo forse l’unico caso di onori tributati da Alessandria ad un suo illustre figlio vivente e non si sa se in ciò abbia giocato, oltre il doveroso omaggio alla fama, l’attrattiva del sesso e della professione. Virginia Marini, la cui capacità era indiscussa, dopo i trionfi ottenuti per molti anni sulle scene italiane finì la sua carriera come insegnante di recitazione all’Accademia di Santa Cecilia in Roma senza mostrare un particolare attaccamento alla propria città che pur l’aveva incoronata»1. Nel 1965 Fausto Bima collocava Virginia, in questo modo frettoloso e non precisamente encomiastico, nella sua “Storia degli alessandrini”: un libro tuttora celebrato come la più esemplare illustrazione non tanto delle vicende alessandrine quanto della alessandrinità. Lo stile dell’autore e del suo testo, intelligente ed esperto quanto volutamente disincantato, fu reso immortale dalla recensione di un trentatreenne Umberto Eco. Per le rispettive carriere entrambi potevano guardare alla città natale da lontano, una angolatura ideale per chi voglia avere una visione patriottica ma corretta di Alessandria. Scrive Eco nel 1965: «A circa otto anni mi chiesi perché, malgrado 1
BIMA 1965, pgg.135/136. Su Fausto Bima (Alessandria 1912 – Genova 1981) si veda la nota biografica in ZOCCOLA 1990, pgg.35/36.
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quello che c’era scritto sui libri e mi dicevano alla scuola e alla radio, io non amassi il Duce. A sedici mi domandai perché l’idea che l’arte fosse “liricità” non mi accontentava. A venti mi sorse il dubbio che ogni qual volta qualcuno si appellava “all’uomo” (scrivere sulla misura dell’Uomo, non trascurare l’Uomo, ritornare all’Uomo, eccetera), tentasse di appiopparmi qualche patacca, vendermi un Colosseo o darmi la commenda di Santa Maria in Betlemme. A età avanzata, sfogliando le pagine di questa Storia degli alessandrini incomincio ad avere una risposta: alle basi del mio scetticismo, della mia indifferenza per i Valori astratti, della mia diffidenza per il Noumeno, non stavano ascendenze culturali o scelte ideologiche, ma solo il fatto che ero nato ad Alessandria. Che nascere ad Alessandria fosse una condizione dello spirito, già lo sapevo: sapevo che il profondo disinteresse per l’amplificazione retorica, la ripugnanza per le passioni, il sospetto verso le grandi imprese erano una caratteristica razziale della mia plaga: e che, se potevano stagnare in inattività o declinare in inefficienza, potevano anche essere “scelte” come opzioni metodiche, basi per un certo tipo -non un altro- di cultura e di vita»2. Questo elogio della diffidenza, un po’ perfido e un po’ affettuoso, divenne subito paradigmatico. L’alessandrino medio di oggi ne ha preso, doverosamente, le distanze, ma in fondo in fondo continua a compiacersene. È la “mandrognità” indelebile, che da Weltanschauung filosoficamente accettabile talvolta precipita in degenerazioni moralmente deprecabili. Virginia ne assimilò una dose lieve, traducendola in riservatezza, in moderazione; fu ottima interprete, particolarmente duttile, capace di grande naturalezza, senza eccessive concessioni alla passionalità; accettò compostamente la fama e dignitosamente l’oblio, sempre non provocando né apprezzando quei “clamori” così inconsueti per la gente che vive tra la Bormida e il Tanaro. D’altronde Bima non aveva esagerato; in una intervista rilasciata ormai sessantacinquenne, mentre dirige la scuola di recitazione dell’Accademia di Santa Cecilia, Virginia dichiara: «Adoro Roma. Qui godetti miglior favore di pubblico, di qui spiccai i primi passi. D’allora la scelsi come nido di riposo. I miei buoni conterranei d’Alessandria mi vorrebbero lassù, ma sarebbe troppo sacrificio. In questi giorni intitolano al mio nome un politeama, mi avrebbero voluto per la festa, ma non posso abbandonare la mia scuola»3. Non è un atteggiamento così colpevole in chi ad Alessandria passò 2 3
Umberto Eco, Pochi clamori tra la Bormida e il Tanaro, 1965, in ECO 2012. AGOSTINONI 1907, pgg.580/589.
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soltanto i primi quindici anni di vita, e aveva un nonno svedese e un padre di Pinerolo. Ma in molti si adopereranno per proclamare retoricamente il suo imperituro attaccamento alla piccola patria; buon ultimo questo scritto del 1942, per il centenario della nascita: «I successi incontrati, il posto che occupò nelle scene italiane, l’infinita schiera di commediografi e di attori da lei conosciuti, mai le fecero dimenticare Alessandria, mai la tennero lontana, sia pure col pensiero, dal luogo ove giovanissima era partita piena di speranze, di volontà, e di fede; Alessandrina sempre, ritornava nel giro dei suoi pellegrinaggi di compagnia a rivedere le cose di un tempo, a ritrovare i compagni di affezione, a riparlare il suo vernacolo, a dare soprattutto ai suoi concittadini la conferma della sua arte come un dono e un debito di riconoscenza»4.
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ROSSI 1942, pgg.238/239.
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Casa natale di Virginia Marini ad Alessandria (tuttora esistente)
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I.1 Infanzia teatrale
La piana della Frascheta e la battaglia di Marengo sono tra i fondamenti delle “mitologie” alessandrine, del tutto leggendarie o rigorosamente storiche che siano. Una credenza, destituita di valore scientifico, vuole che in quella zona paludosa (ideale per la diffusione di un altro topos locale: la nebbia) si fosse insediata all’alba del secondo millennio una colonia di predoni, dediti alle razzie ma anche all’allevamento e al commercio di cavalli; insomma, dei furfanti “mandriani”, che storpiato in “mandrogni” diventa il duro appellativo degli indigeni; un appellativo che da sempre rimanda ad una propensione alla superficialità e alla scaltrezza mercantili: una fama non precisamente nobile, forse non del tutto immeritata5, che probabilmente ebbe modo di coltivarsi nei lucrosi privilegi di due fiere: San Francesco in autunno e San Giorgio ad aprile, patrocinate dai Duchi di Milano, padroni del territorio dal Trecento al Cinquecento. I successivi dominatori spagnoli si diedero invece a consolidare un’altra fondamentale componente identitaria della Città: la funzione militare strategica. Un ruolo che viene potenziato quando, nel 1713, la pace di Utrecht annette la Città al regno dei Savoia, i quali radono al suolo il villaggio di Bergoglio (o Borgoglio) 5
Talvolta sono assalito dal dubbio che il celebre cartiglio sotteso allo stemma civico: Deprimit elatos levat Alexandria stratos sia da tradurre: “Alessandria sottovaluta gli intelligenti ed esalta i furbi”. Naturalmente sono troppo maligno, ma voglio citare un originale libro su Alessandria, MANTELLI 1989, alla pg.10: «Ad Alessandria il pragmatismo piemontese (che bada al concreto) e la parsimonia ligure (che pensa a non sprecare), tutte due cose di per sé lodevoli, si sposano sovente con una mediocrità che è appannaggio tutto locale. L’aveva già previsto il motto cittadino Deprimit elatos levat Alexandria stratos. Se non stiamo attenti questa massima, ottima sotto il profilo morale, rischia di essere assunta troppo rigidamente come stile di vita; a furia di tagliare le cime e colmare gli abissi si finisce appunto con il risultato della mediocrità, aurea fin che si vuole ma che in certi casi non è altro che una forma nascosta di povertà».
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per costruire una grande cittadella, a tutt’oggi pressoché intatta. La nuova fortezza incide indirettamente sul volto urbano6; costringe Alessandria ad assumere la sua tipica forma “fra” due fiumi, mai “abitati” bensì concepiti come protettivi confini, quando non invasori distruttivi a loro volta con periodiche esondazioni. Il centro si arricchisce così di palazzi nobiliari; il cuore diventa la piazza Reale (poi Vittorio Emanuele, e oggi “della Libertà”). È un paese per architetti: Ignazio Bertola, artefice della Cittadella sabauda; Giuseppe Caselli, realizzatore dei progetti della civica amministrazione nel secondo Settecento; Benedetto Alfieri (personaggio autorevole nella Torino di Filippo Juvarra) per il palazzo Ghilini, icona laica della Città accanto a quella religiosa della chiesa di Santa Maria di Castello. All’interno di questo riqualificato centro amministrativo si colloca anche l’inizio della storia degli spazi teatrali alessandrini. Quasi contemporaneamente alla demolizione di Bergoglio, Vittorio Amedeo II concede le regie “patenti” che autorizzano il marchese Guasco Gallarati ad aprire un teatro all’interno del suo palazzo. È il 1729. Forse si tratta del primo teatro piemontese; in ogni caso per la Città è un autentico evento: opere in musica e commedie si aggiungono alle fiere e ai balli, le due manifestazioni pubbliche che la Alessandria sette-ottocentesca pone al centro della sua vita economico-mondana. Il sovrano aveva consegnato al Marchese una vera esclusiva sugli spettacoli e molti privilegi: gioco d’azzardo, osteria annessa, detassazioni. Le autorità fremono perché i teatrali divertimenti e i relativi vantaggi passino alla mano pubblica e si estendano ad una platea più ampia e variegata. Nel 1766 il Guasco chiude; la famiglia cede le patenti al Comune, che a sua volta edifica un teatro su progetto del Caselli. È una sorta di versione amministrativa del teatro “di palazzo”: il Marchese si era fatto il suo in mezzo ai propri saloni, il Comune se lo fa all’interno del Municipio e dunque a buon diritto lo chiama “Municipale” (ma per la cittadinanza anche “Massimo” e talvolta “Civico”). Viene inaugurato nel 1775; ha l’ingresso sotto i portici della facciata, e si sviluppa lungo l’attuale via Verdi; con vari interventi e ristrutturazioni dura fino al fatale bombardamento del 1944. È dunque “il” teatro pubblico di Alessandria per circa 170 anni, anche se il Comune per reperire i fondi necessari alla costruzione aveva prevenduto i palchi a famiglie nobili e a vari privati. Questa comproprietà con i palchisti porrà costantemente (ad Alessandria come in tutt’Italia) gravi problemi gestionali, complicata dal terzo incomodo: gli impresari, che periodicamente si assumevano il 6
Cfr. DAMERI 2005.
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rischio di allestire e condurre le attività. Il Comune non vuole spendere per la dote stagionale7; gli impresari, senza sovvenzioni, al Municipale ci perdono; gli unici a guadagnarci sono i palchisti, che subaffittano i loro posti. È questo l’assetto gestionale, nel quale l’impresario gioca il ruolo determinante ma meno protetto; se vince la gara pubblica per la concessione, si assume ogni rischio, molti obblighi e pochi vantaggi; ce la può fare solo se riceve una dotazione finanziaria congrua. A titolo di esempio si può citare il bando che il Municipio pubblica allo scopo di affidare la gestione del suo teatro nel periodo 1857/1860. L’offerta dovrà essere corredata da una garanzia di 2.000 lire. L’assegnazione avverrà su giudizio del Consiglio Delegato appositamente nominato dal Sindaco. «La dotazione del Teatro sull’Erario Municipale è stabilita di Lire dodici mila annue8; oltre all’uso di quindici palchi dei quali otto al terzo Ordine, e sette al quarto; ed oltre al provento dei Veglioni nel Carnevale, e dei locali per il Caffè e Trattoria. Le Stagioni di obbligo per gli Spettacoli sono: 1ª – Di Autunno, cominciando non prima del 4, né più tardi delli 10 Ottobre; 2ª – Di Carnevale, dal 25 Dicembre al primo giorno di Quaresima; 3ª – Di Primavera, dal 1° di Maggio sino al terzo giorno compreso dopo l’ultima Domenica del mese stesso»9. Si sa che il passaggio dal Sette all’Ottocento per il Piemonte è sotto il segno di Napoleone. L‘esito della battaglia di Marengo ispira al Primo Console grandi progetti; vuole trasformare Alessandria in una piazzaforte a difesa dei suoi domini italiani, e per agevolare le manovre delle truppe arriva ad abbattere il Duomo medievale. Riformatore teatrale giacobino, Napoleone ridimensiona l’attività lirica e prova ad imporre la sua concezione di compagnie drammatiche stabili e sovvenzionate. Ma presto la Restaurazione si riprende tutto, e colloca uno sceriffo sabaudo, un po’ austriacante, il generale Gabriele Galateri di Gianola, a commissariare duramente la vita degli Alessandrini, considerati affetti da ribellismo inguaribile. In verità, a dispetto della mandrognità, il mito della resistenza al Barbarossa alimenta un istinto a gettarsi con impeto romantico nel miraggio del Risorgimento nazionale: gli Alessandrini vogliono la carta costituzionale e l’unità d’Italia; sono fra i Pare che una sentenza del tribunale di Alessandria avesse stabilito che la spesa per la dote teatrale fosse da ritenersi facoltativa per il Comune e comunque non dovesse “recare nocumento ai servizi obbligatori a cui il Comune è tenuto”. Come si vede, la storia del teatro come servizio sociale “non necessario” viene da lontano e non si ferma mai. 8 Questa somma può essere rivalutata, con tutte le dovute cautele, in 50.000 euro attuali. 9 Municipio di Alessandria, Impresa degli spettacoli nel Teatro Municipale (inserzione a pagamento), in “L’avvisatore Alessandrino, a.V, n°25, 26.02.1857 [BCAL]. 7
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protagonisti dei moti del 1821; pare che sui tetti della Cittadella facciano sventolare il tricolore prima dei Reggiani; sono garibaldini e anticlericali. Il patriottismo eroico si sublima con la fucilazione dell’avvocato mazziniano Andrea Vochieri nel 1833, per poi avviarsi verso la versione moderata di Urbano Rattazzi, politico di successo, fra i protagonisti del processo unitario, il quale aiuta la Città, suo feudo elettorale, a diventare capoluogo provinciale e importante nodo ferroviario. Si può quindi affermare che nel 1842 Virginia apra gli occhi in una comunità che è stata oggetto di inevitabile controriformismo, temperato però da un certo zoccolo illuminista sabaudo e da un indotto ideologico postnapoleonico non estirpato, e che è avviata ad una sorta di democratizzazione borghese. Nello stesso anno, mentre alla Scala debutta il “Nabucco” di Verdi, nasce Adelaide Tessero, e un anno prima era nata Giacinta Pezzana; il destino crea già nella culla la trinità femminile che dominerà la scena ottocentesca soprattutto nel ventennio Settanta/Ottanta. Sono loro tre la “seconda generazione” del mito della grandattrice di cui Adelaide Ristori era stata fondatrice gareggiando alla pari con Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi [cfr. Intermezzo]. Fra le “divine” Virginia fu la più inguaribilmente provinciale e la “non” figlia d’arte; furono limiti non trascurabili, che Virginia superò con ferrea volontà. Alcuni studiosi e cronisti continuarono, fino a Novecento inoltrato, a citare la sua città natia come “Alessandria della Paglia”, quasi fosse un paesello; sbagliavano. Questa definizione pare risalisse al Barbarossa, con cui l’odioso sovrano voleva indicare una città del “fango”, quel fango che probabilmente aveva contribuito a fermare il suo esercito. Nel 1862, a Italia “fatta”, l’attivissimo Pietro Civalieri chiese pubblicamente di fare chiarezza in merito; il Comune scrisse al Ministero e questo sentenziò che il nome era esclusivamente “Alessandria”10. La nascita della nostra Attrice è documentata dall’atto parrocchiale tuttora conservato negli archivi della chiesa dei SS. Alessandro e Carlo di Alessandria. L’anno del Signore milleottocento quarantadue ed alli ventisette del mese di Novembre alle ore cinque di sera nella Parrocchia dei SS. Andrea e Siro Comune di Alessandria. È stato presentato alla Chiesa un fanciullo di sesso femminino nato li diciannove del mese di Novembre alle ore sette di sera nel distretto di questa Parrocchia, figlio del vivente Visino Carlo di professione impiegato al foraggio, domiciliato in Alessandria, e della vivente Teresa Cornaglia, di professione 10 Cfr. Ascal, Serie I, 803, n°8.
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Cucitrice, domiciliata in Alessandria, e conjugi Visino, cui fu amministrato il Battesimo dal Sacerdote Gilardi Carlo Viceparroco e sono stati imposti li nomi di Rosa Maria Virginia.11 Negli stessi archivi è custodito l’atto di matrimonio dei genitori, svoltosi soltanto un anno prima; è dunque presumibile che Virginia fosse la primogenita. L’anno del Signore milleottocento quarantuno ed alli sette del mese di settembre nella Parrocchia dei SS. Andrea e Siro Comune di Alessandria… con dispensa dalle pubblicazioni… ed alla presenza di me sottoscritto Parroco. È stato celebrato matrimonio secondo il rito di Santa Madre Chiesa tra Carlo Domenico Veisi [sic] detto Visino, d’età d’anni ventiquattro, nativo di Pinerolo, domiciliato in Alessandria Parrocchia dei SS. Andrea e Siro, figlio del vivente Domenico domiciliato in Pinerolo e della vivente Anna Ribeiro domiciliata in Pinerolo… E Teresa Cornaglia d’età d’anni ventitre, nativa di Piovera, domiciliata in Alessandria Parrocchia dei SS. Andrea e Siro, figlia del fu Gioanni Cornaglia… e della vivente Gioanna Sartirana domiciliata in Lobbi… Presenti in qualità di testimonii li Gioanni Gilardi d’età d’anni cinquantuno domiciliato nel Comune di Alessandria e Chiaffredo Vejsi [sic] d’età d’anni trentasei domiciliato nel Comune di Alessandria…12 L’Attrice nasce in una casa di via Bergamo 25 (tuttora esistente con il civico 43), sulla facciata della quale il sindaco Nicola Basile farà murare un secolo dopo la seguente epigrafe, dettata da lui stesso: «Questa casa / vide nascere Virginia Marini / cui l’arte drammatica arrise / nello splendore massimo di sua gloria / imperitura nei secoli. / Il Comune di Alessandria, nel trentennio della morte / 1948»13. Sembra dunque che la madre facesse lavori di cucito, mentre al padre l’atto di nascita di Virginia attribuisce un impiego al “foragio”, un termine che rimanda a due elementi emblematici della storia di Alessandria: la paglia e l’esercito. Figlio di un ufficiale napoleonico di origine svedese (Domenico Weiss, italianizzato in Visino) e nativo di Pinerolo, Carlo Visino pare fatto apposta per qualche caserma alessandrina, magari confinato in fureria. Nonostante sia ribadita dal fondamentale libro di Scaglia, che lo definisce “un modesto impiegato”14, questa indicazione viene stravolta da alcuni bio11 Alessandria, Archivio parrocchiale SS. Alessandro e Carlo, Libro dei nati della Parrocchia
dei SS. Andrea e Siro, 1842/1849, foglio 43, n°85.
12 Alessandria, Archivio parrocchiale SS. Alessandro e Carlo, Atti di matrimonio della Par-
rocchia dei SS. Andrea e Siro, 1839/1841, foglio 5v., n°20.
13 BASILE 1982, pg.106. 14 SCAGLIA 1929, pg.4.
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grafi successivi che alimentano la leggenda di Virginia figlia di un custode di teatro, la quale fa le pulizie nei palchi e durante gli spettacoli spia, rapita, gli attori. La pur autorevole “Enciclopedia dello Spettacolo”15 scrive che il padre era portiere del Politeama Gra, ignorando che questo teatro venne aperto nel 1882. Celso Salvini16 abbina le cose, in quanto sostiene che dapprima il padre è addetto ai “foraggi militari” e poi diventa custode di un teatro. Nel 1944 Piero Angiolini17, dirigente bancario e storico, approfondisce la questione, rilevando che via Bergamo non è lontana dal punto dove le attuali via Trotti e via San Francesco sfociano nei giardini pubblici, cioè proprio nella zona che a partire da metà Ottocento diventa il secondo fulcro urbanistico, dopo la piazza reale. Lì un facoltoso cittadino, il signor Bellana, aveva acquistato lotti per farci dei bagni pubblici e un’arena. Presumibilmente quella zona apparteneva alla stessa parrocchia dei Visino; ma anche il Municipale non era lontano. Carlo Visino potrebbe aver lavorato in uno di questi teatri, oppure aver fatto il “caffettiere” per entrambi. Quale che sia il suo lavoro, Angiolini ci informa che il padre è preoccupato di migliorare le condizioni delle sue tre figlie. Vuole fare di Virginia una maestra, iscrivendola all’istituto religioso di Casa Sappa, tuttora esistente in Alessandria (altri sostengono che per crescere la prole i Visino dovettero ricorrere ad un orfanotrofio18). Un registro comunale, relativo ad una indagine sulle famiglie residenti a partire dal 1864, conservato nell’Archivio di Stato di Alessandria, fornisce notizie chiare. I Visino hanno tre femmine e un maschio. Carlo Visino, arrivato in Alessandria nel 1834, è iscritto come “caffettiere ambulante”; la sua non pare una gran vita, perché una nota informa che finì nel ricovero di mendicità di Casale per morirvi nel 1866, lo stesso anno in cui Virginia ottiene il ruolo di primattrice. In una cartella elaborata per le onoranze a Virginia del 1928 e basata sul censimento del 186119, si dice che Carlo era “illetterato”, che la moglie Teresa Cornaglia (nata a Lobbi nel 1818) si era separata da lui, andando a vivere a Torino Enciclopedia dello Spettacolo 1954-1962. SALVINI 1944. ANGIOLINI 1947. L’Istituto “Casa Sappa” fu fondato nei primi dell’Ottocento; gli orfanotrofi erano molto più antichi e collegati alle chiese; i Visino potrebbero essersi rivolti al Santa Marta [cfr. PERIN Antonella e Solarino Carla (a cura di), Chiese, conventi e luoghi pii della città di Alessandria, Alessandria: BCA – Edizioni dell’Orso, 2007]. Di quest’ultima opinione è BRUNO 2008. 19 Cfr. Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini. 15 16 17 18
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(probabilmente aiutata da Virginia, che avrà sempre un rapporto strettissimo con lei e accanto a lei vorrà essere sepolta al Verano), e che l’unico maschio, Giulio, era nato nel 1853 e nel 1872 risultava iscritto al registro di leva di Torino. La figlia Giacinta, nata nel 1846, viene data abitante a Marsiglia, mentre l’altra sorella, Anna (chiamata Annetta), sposò l’attore Angelo Gattinelli20 e rimase sempre con Virginia come attrice minore apparendo sulle locandine come Annetta Weiss. Tornando alla leggenda, si vuole che fosse stato lo stesso padre a distogliere, involontariamente, Virginia dalla scuola. Le avrebbe infatti trasmesso un grande interesse per il teatro, conducendola spesso agli spettacoli e facendole conoscere artisti. Secondo Angiolini il Visino si era costruito questi rapporti praticando la consuetudine, che le famiglie in allora avevano, di offrire ospitalità agli attori di passaggio, i quali erano sempre in bolletta e in cerca di un simulacro di focolare21. Subendo volentieri tali influenze, Virginia manifestò una vocazione teatrale ben più salda di quella spirituale, anche se una educazione religiosa potrebbe essere alla base dell’atteggiamento pio che l’Attrice mantenne sempre al di sopra della professione. Al di là dei progetti dei genitori, le attitudini della bambina non tardarono a palesarsi. Le precoci (ma già apprezzate dalla “città natale”) capacità recitative e addirittura “capocomicali” della fanciulla vennero testimoniate, a posteriori, dall’esimio professor Luigi Ferrari -direttore della Biblioteca Civica, ininterrottamente dal 1871 al 1905- il quale, ad ornamento di una beneficiata22 di Virginia, il 20 dicembre 1888 al poli20 Per queste notizie cfr. Municipio di Alessandria, Registro di popolazione, Città, vol.I, foglio
di famiglia n°159, R. Decreto e Regolamento 31 dicembre 1864 [Ascal, Serie II, 902].
21 La compagnia girovaga è nel dna storico-teatrale italiano, anzi: forse “è” il dna di ogni vero
teatrante nostrano. Sulla vita che queste compagnie conducevano fra Ottocento e Novecento esiste una testimonianza straordinaria: il libro dell’indimenticabile Sergio Tofano, il quale -ricordiamolo fin d’ora- fu l’allievo di Virginia più famoso insieme a Luigi Cimara. Cfr. TOFANO 1965. 22 Questo termine gergale si riferisce ad una consuetudine così diffusa fra gli artisti setteottocenteschi, che vale la pena di illustrarla, anche perché verrà ripetutamente citata nel presente libro. Si tratta di recite speciali a beneficio di un attore o attrice (normalmente fra i principali della compagnia), che si esibisce con uno spettacolo che gli ha portato una particolare fama e, insieme, con vari fuori programma, magari negli intervalli o al finale: monologhi, poesie, caratterizzazioni (“macchiette”). Alle origini settecentesche lo scopo, al di là dell’onore da tributare alla bravura di un artista, era prevalentemente di soccorrere un collega in ristrettezze economiche oppure vittima di un grave incidente. Progredendo verso l’Ottocento, la beneficiata (chiamata anche “serata d’onore” mentre l’artista in questione veniva detto “seratante”) si commercializzò pesantemente. Ogni primattore discuteva con il capocomico, al momento della scrittura stagionale, in quali “piazze” (cioè
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teama Gra, distribuisce agli spettatori la seguente epigrafe: VIRGINIA MARINI / quando / ancor bambina nella scuola primaria / in occasione solenne / da niuno consigliata / a tutto pensando e provvedendo / facevi esultando la cara sorpresa / di recitare nel costume voluto / con le piccole amiche / da te sola in secreto ammaestrate / il dramma metastasiano / GIUSEPPE RICONOSCIUTO / la tua città natale / dell’insolito fatto meravigliata / ammirando la giusta interpretazione / il precoce ingegno la voce d’oro / ti profetizzava / futura stella / del teatro drammatico italiano.23 Un anno dopo, luglio 1889, sulle colonne de “Il Marchese Colombi” lo stesso Ferrari dà la sua versione su quanto si racconta della bambina, dipingendo una famigliola piccolo-borghese, molto devota, nonostante la quale Virginia sceglie di sposare il Teatro, purificandone, beninteso, il clima vizioso con una incrollabile risolutezza morale. «Non custode d’un modesto teatro era il babbo della Virginia, ma fu sempre impiegato nell’amministrazione di una vasta azienda privata. Uomo mite e modesto, la sola ambizione, condivisa dalla moglie, mirava a fare della Virginia una buona maestra, affinché, diceva egli, il suo ingegno potesse sfolgorare. E sfolgorò, ma non sulla cattedra della scuola, sulle tavole invece di quel palcoscenico, che metteva i brividi ai genitori. Il signor Carlo, meno fortunato della moglie, che vive ancora nell’adorazione della figlia, non vide l’intera gloria della sua diletta, ma non morì sì tosto, dal non essere convinto, che le bellezze dell’anima le perde solo, sul teatro, chi vuole, e vi possono invece germogliare vigorose e brillarvi anzi di più vivida luce. La concessione quindi alla Virginia di assistere alle prove, di non so più quale compagnia comica, non poteva venirle dal babbo: se la pigliava da sé. Il teatro poco distava dalla sua abitazione ed ella trovava sempre il modo di ingusciarvisi. Là si trovava nel suo centro: nulla le sfuggiva: ogni cosa notava: tutto comprendeva. Eran pertanto quelle, scappate belle e buone, di cui taluna non andava impunita. Ma, benedette perché suscitarono nella bambina la febbre dell’arte, decisero della sua sorte, diedero alla scena italiana una grande attrice, alla città nostra un’illustrazione in più»24. Le intempein quali città) toccate dalla tournée avrebbe potuto presentare la sua serata, con quali percentuali il ricavato sarebbe stato diviso fra lui stesso, l’impresario e la compagnia, naturalmente riservandosi di acquisire gli eventuali doni degli ammiratori, che soprattutto nel caso delle primedonne potevano essere di grande valore. Virginia, diventata famosa, usò alla grande questo introito straordinario. 23 In “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXXVI, n°148, 22.12.1988 [BCAL]. Il testo completo del volantino è conservato in Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini. 24 FERRARI 1889.
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ranze e i relativi castighi finirono, appunto, quando la bambina raccolse alcune compagne e “mise in scena” nientemeno che Metastasio. Le maestre si arresero, e il sacro fuoco di Talìa e Melpomene poté ardere liberamente. Forse il padre si sarebbe consolato se avesse saputo che Virginia era destinata, a chiusura della propria esistenza, ad affermarsi fra i primi insegnanti accademici di recitazione a livello nazionale, cioè ad essere finalmente “maestra”, come i suoi aspiranti attori erano soliti chiamarla. Amilcare Bossola25 che nel 1903, con una orazione rivolta all’Assemblea della Società di Storia di Alessandria, è il primo a evocare Virginia dal silenzio in cui si era confinata dal suo ritiro dalle scene avvenuto nel 1894, concorda su quei segni premonitori: «A sette anni la piccola Virginia era già direttrice di una compagnia drammatica… sicuro, di una compagnia lillipuziana composta di vispi ragazzetti delle scuole elementari. E bisognava vedere come i piccoli attori ubbidivano alla loro capocomica!»26. L’attore Cesarino Dondini, che lavorò a lungo con Virginia, chiamato in Alessandria a commemorarla, a due anni dalla morte, in occasione dell’apertura del Kursaal Teatro Virginia Marini (1920), dichiara: «La potete immaginare, giovinetta, obbligata in teatro dalle occupazioni della sua famiglia, seguire con ansia trepida il recitare dei comici, ripetere -attendendo alle domestiche cure- i brani che la sua memoria assidua ritiene, dar saggio di predisposizione eccezionale insegnando persino ad altre giovinette compagne»27. Nell’educazione teatrale in Alessandria potrebbe aver avuto una parte anche il mondo dei filodrammatici, che nell’Ottocento furono sempre culla di passioni e di talenti. Nella citata orazione lo stesso Bossola ipotizza che la bambina abbia partecipato a qualche recita del “Gelindo”28; e più avanti si vedrà come il nome di Virginia rimanga 25 26 27 28
Intellettuale e storico alessandrino, tra i fondatori della Rivista di Storia, Arte e archeologia. BOSSOLA 1903. DONDINI 1920. In Alessandria «presso il piccolo teatro san Francesco, annesso al convento dei Cappuccini, dal Natale all’Epifania di ogni anno si recita una sacra rappresentazione in vernacolo, che rievoca la Natività di Cristo vista con gli occhi di un personaggio caro alla tradizione popolare alessandrina: Gelindo. Il protagonista è una vera figura da presepe, un pastore schietto e ingenuo, un po’ rozzo ma ricco di umanità. Il testo del “Gelindo”, anonimo, risale al Seicento, ma col tempo ha subìto molti rimaneggiamenti prima d’essere adottato, nel 1924, da una filodrammatica locale per la prima rappresentazione, avvenuta nel Natale di quell’anno. Da allora l’opera è stata ritoccata nei dati linguistici e nella trama, conservando intatta la straordinaria incisività unita al sapore genuino della “divota commedia”» [ZARRI 1994, pgg. 170/171].
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collegato alle attività amatoriali della Città. «Secondo la credenza quindi la esimia attrice ebbe sicuramente fin dalla più tenera età dimestichezza con le tavole del teatro: si disse che, sorretta da felice memoria, amasse ripetere, piccola artista, battute e scene che più le erano rimaste impresse nella mente, e che, come spesso accade, qualche compagnia di passaggio si servisse della piccola Virginia per qualche particina dove occorreva presentare al pubblico una bambina»29. Un riepilogo attendibile lo si può fare lasciando la parola alla stessa Virginia, che in una pubblicazione del 1909 ebbe a dettare personalmente una breve dichiarazione autobiografica. «Nacqui, in Alessandria, da famiglia d’origine scandinava: Weyss. Mio nonno era svedese, ufficiale al servizio del primo Napoleone; e, tra una guerra e l’altra, prese dimora in Piemonte. Ebbi, fin da bambina, gran propensione al teatro. A sette od otto anni già recitavo e dirigevo pure le recite degli altri bambini. Feci da prima attrice, ed anche da primo attore, specialmente in drammi sacri. Mio Padre, impiegato, conduceva ogni tanto me e le sorelle al teatro: ora l’una, ora l’altra; quando toccava di andare al teatro alle sorelle, io le allettavo con qualche dono a cedermi il loro diritto ad assistere alla rappresentazione. Udii, allora, recitare e conobbi, quale amico di mio Padre, l’attore Giovanni Tessero, il famoso “tiranno”. Benché fossi innanzi negli studii, tanto da poter prendere il diploma di maestra, pur io ardeva dal desiderio di recitare in una vera compagnia d’attori. Finalmente entrai, come “servetta” nella compagnia di Alessandro Monti e del celebre meneghino Preda, nella quale rimasi per tre anni, prestandomi a far le più piccole parti»30. Virginia cita esplicitamente Giovanni Tessero, che comunque fu attore di fisicità e di vocalità robuste, ma potrebbe anche riferirsi al fratello di questi, Pasquale, attore della celebre Compagnia Reale Sarda, apprezzato anch’egli per il fisico imponente e la voce sonora che lo rendevano un “tiranno” esemplare31. Pasquale, che sposò Carolina Ristori, sorella della celeberrima Adelaide, e da allora fu nella compagnia della cognata, sembra abbia aiutato Virginia ad entrare nella compagnia Monti-Preda. Da Pasquale e Carolina nacque Adelaide (nome inevitabile!) Tessero, che -come già detto- insieme a Giacinta Pez29 ANGIOLINI 1947, pg.74. 30 ROUX 1909, pgg.137/139. 31 È di questo parere Celso Salvini, nipote del grande Tommaso: cfr. SALVINI 1944. Il
“ruolo” di tiranno nel teatro italiano riguardava «parti di sovrano autoritario oppure di dominatore assoluto nella famiglia o nella società» [Enciclopedia dello Spettacolo 19541962, vol.IX, col.930]. Furono soprattutto le tragedie di Alfieri ad alimentare la fortuna di questo ruolo poi confluito in quelli di “padre nobile” e di “generico primario”.
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zana fu la grande rivale di Virginia nel gradimento del pubblico. Questa digressione porta a due annotazioni: l’importanza delle “grandattrici” nel teatro ottocentesco, fra le quali Virginia rientra pienamente; e l’importanza, che nel teatro italiano si mantiene dalla Commedia dell’Arte ad oggi, delle “famiglie d’arte”, nelle quali i figli erano buttati in palcoscenico ancora lattanti e dalle quali Virginia ovviamente non proviene, il che rende ancor più meritevole il suo successo. Insomma, la fanciullezza teatrale di Virginia ha una doppia, intrecciata versione: la “leggenda” delle pulizie in platea come una Cenerentola sognante, e la “verità” dell’aiuto da parte di amici artisti del padre, oltre al determinante passaporto per l’arte fornito dal matrimonio. Nei quindici anni della sua permanenza, Alessandria offre a Virginia due teatri; prima c’è solo il Municipale, poi viene costruito quel teatro Bellana il cui palcoscenico la leggenda vuole galeotto per la nostra comica in erba. La storia secolare dei teatri di Alessandria è segnata da una ininterrotta, benemerita ma alquanto sfortunata intraprendenza da parte dei privati e dalla parallela, lunga ma discontinua attività di un teatro “pubblico”, ancorché spesso egemonizzato dai proprietari di palchi. È proprio il settecentesco Municipale l’unico spazio di spettacolo funzionante nell’anno in cui nasce Virginia. Vale la pena di dare uno spaccato della vita teatrale in questo stesso 1842, attraverso documenti alessandrini. Si è citato il “tiranno” e le “famiglie d’arte”. Proprio per la stagione dell’anno 1842, una tale drammatica compagnia Barracani, che vorrebbe recitare al Municipale, presenta il suo “elenco” di artisti, ciascuno collegato al suo “ruolo”, cioè al tipo di personaggio che interpreterà in tutti gli spettacoli [cfr. Intermezzo]. Da notare, a proposito di famiglie d’arte, che il gran numero di artisti necessari al teatro di prosa favoriva la cooptazione nel gruppo di coniugi e parenti32. 32 Prima Donna: Eugenia Barracani.
Amorosa: Carlotta Reozzoli. Seconda donna: Caterina Radice. Madre Nobile e Caratterista: Angela Barracani. Altra Amorosa: Teresa Ruffini Morelli. Altra Madre: Adelaide Girelli. Servetta: Giuseppina Barracani. parti in Genere: Carlotta Caldarelli. Primo Attore: Massimiliano Mozzi. Altro Primo Attore: Ettore Barracani. Padre Nobile e Tiranno: Luigi Caldarelli. Primo Amoroso: Salvatore Ruffini. Caratterista: Angelo Toeschi. Brillante: Romualdo Bosio. Parti d’Importanza: Giovanni Salani. Parti sciocche: Costantino Reozzoli. Generici: Ferdinando Cecconi, Alessandro Manelli, Carlo Radice, Battista Peri. Apparatore – Suggeritore – Trovarobe – Pittore. Elenco della Drammatica Compagnia Barracani [Ascal, Serie III, 1759].
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È indubbio che, in allora, l’effettuazione degli spettacoli fosse considerata rilevante dal punto di vista sociale. Sono anni in cui fra gli incarichi delegati dal Consiglio Municipale (gli attuali assessori) figura il “direttore del teatro”, talvolta sdoppiato in due figure amministrative33. Evidentemente si pensava che la materia meritasse una pesante regolamentazione, anche indipendentemente dai contenuti artistici. Ne sono un interessante esempio due editti che il Governatore Comandante Generale della Divisione di Alessandria, conte Giuseppe Renaud de Falicon (“Cav. Gran Croce dell’Ordine Militare de’ SS. Maurizio e Lazzaro, Decorato del Gran Cordone e della Medaglia Mauriziana, Commendatore della Corona Ferrea d’Austria, e di sant’Anna di seconda classe di Russia” etc etc), emana il 14 dicembre 1842; li trascriviamo anche per rammentare che ci troviamo nei domini sabaudi, diciannove anni prima dell’avvento del Regno d’Italia.
GOVERNO GENERALE DELLA DIVISIONE DI ALESSANDRIA SOPRINTENDENZA DI POLIZIA [Regolamento per gli Impresari, i Capo-Comici, gli Attori, ecc. del Teatro di Alessandria, e per i Direttori di qualsiasi altro Spettacolo, che abbia luogo in essa Città, Alessandria, Luigi Capriolo Tipografo, 1842, in Ascal, Serie III, 1759.] Art. 1 - Il Teatro ed altri consimili luoghi non saranno aperti al pubblico, se non quando vi saranno le Guardie stabilite. Art. 2 - Prima che vi sia la Guardia, la platea ed i corridoi dovranno essere sufficientemente illuminati. Art. 3 - Gli spettacoli cominceranno impreteribilmente alle ore fissate, se nel Teatro, dalla Direzione del Teatro previi i voluti concerti con Regio Governo secondo le stagioni e le circostanze; e se in altri luoghi alle ore fissate dal Comando di Piazza. Di massima però, dovranno gli spettacoli diurni incominciare dopo l’ora dei divini uffizii nei giorni festivi, e terminare prima dell’ora in cui sogliono principiare nel Teatro. Occorrendo cambiamenti nei giorni ed ore stabilite degli spettacoli, il Comando della Piazza dovrà esserne avvertito nella mattina prima delle ore dieci. Art. 4 - A norma dell’art. 5 del memoriale a capi approvato colle RR. PP. 21 ottobre 1828, prima che cominci qualunque genere di spettacolo dovranno gli Impresari, o CapoComici presentare al Governo della Divisione il repertorio delle opere, balli, drammi, commedie, tragedie, farse, ed altre produzioni teatrali da rappresentarsi. Art. 5 - Non verrà esposta al pubblico alcuna rappresentazione se non sarà stata preventivamente sottomessa alla revisione del Governo, né potrà l’Impresaro o Capo-Comico far pubblicare od affiggere alcun invito od avviso senza averne riportata l’approvazione in iscritto dal Comando della Piazza; allorché questi saranno stampati ed al momento della pubblicazione dovrà inviarne una copia al Governo, ed altra al Comando della Piazza. Art. 6 - Prima di dar principio alle prove delle opere, o dei balli, l’Impresaro dovrà pre-
33 Cfr. CIVALIERI 2006-2011 e anche CIVALIERI 1890.
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sentare la composizione, ed il programma al Governo per la opportuna approvazione. Art. 7 - Una nota degli individui che prendono parte alla rappresentazione, coll’indicazione del nome che portano della rappresentazione stessa, sarà rimessa ogni giorno, a diligenza dell’Impresario o Capo-Comico al Comando della Piazza. Art. 8 - Le rappresentazioni teatrali dovranno sempre essere notificate al pubblico nella sera antecedente mediante uno scritto o cartello affisso in un sito apparente all’ingresso del Teatro, e la rappresentazione in tal modo annunziata non si potrà poi sospendere, variare, né protrarre ad altro giorno. Art. 9 - Se per imprevviste circostanze, riconosciute da chi s’aspetta plausibili [Sappiamo che gli affari degli impresari, i capricci degli attori e i malanni dei cantanti facevano sospendere od annullare recite in quantità.], venisse il caso di dover fare qualunque variazione, allora se ne informerà il Regio Comando per averne il necessario permesso in iscritto e se ne diffiderà nuovamente il pubblico con apposito avviso che dovrà essere affisso in luogo visibile ed allo scalone del Teatro, ed al Camerino ove si distribuiscono i biglietti d’entrata, nel qual ultimo luogo dovranno sempre anche essere affissi gli avvisi teatrali giornalieri. Art. 10 - Lo spettacolo, sia opera che ballo, come sarà andato in scena, proseguirà a rappresentarsi ogni sera integralmente e senza interruzione sino al cambiamento dell’intiera opera, e dell’intiero ballo, salvo giusto motivo in contrario [Per esempio, nelle beneficiate degli attori il seratante era libero di presentare solo alcune parti di un dramma o di una commedia, cui aggiungere poesie, monologhi e quant’altro.], che dovrà però essere partecipato al Governo, ed al Comando della Piazza. Art. 11 - Al principio di ciascuna stagione l’Impresaro o Capo-Comico rimetterà al Governo, ed al Comando della Piazza uno stato di tutti gli Attori, Coristi, Ballerini, Figuranti, Suonatori, ed inservienti fissati nella stagione, indicando la loro abitazione. Art. 12 - Qualunque Attore od Attrice si permettesse di aggiungere nella recita, variare, od omettere maliziosamente il menomo motto che si trovasse scritto nel libro originale, e suggerito secondo le mutilazioni, correzioni, ed aggiunte fatte dall’Uffiziale di Polizia incaricato della revisione delle opere teatrali, sarà punito coll’arresto personale a seconda della gravità dei casi. La stessa punizione incorrerà colui che fra gli Attori od Attrici, che con atti indecenti renderà equivoca l’espressione della sua parlata. Art. 13 - Occorrendo qualche trasgressione al disposto del precedente articolo, il CapoComico se l’avrà preveduta, dovrà immediatamente averla denunciata al Comando della Piazza, od al Commissario di Polizia, ed essendo stata commessa a sua insaputa sarà tenuto di ricorrere alle predette Autorità subito dopo la recita per l’applicazione della pena verso il contravventore, in difetto anderà lui stesso soggetto alla punizione sovra comminata, dovendo essere responsabile per tutte le mancanze incorse dai suoi dipendenti. Art. 14 - Il Suggeritore non potrà valersi d’altro libro che di quello stato sottomesso alla revisione, e dovrà sotto la sovraenunciata pena scrupolosamente attenersi a quanto è stato approvato, e corretto. Art. 15 - Le Comparse Militari non potranno mai figurare in iscena colle divise del rispettivo corpo cui appartengono, a meno che siano trasformate con distintivi diversi. Sotto il nome di divisa dovrà intendersi di grande, e piccolo uniforme, il cappotto ed il sakò. Art. 16 - Oltre alla Guardia Militare che sarà regolata dalla Piazza, ai Carabinieri Reali, ed alle Ordinanze di Polizia, destinati a mantenere il buon ordine, e la tranquillità dei Teatri, vi sarà un numero sufficiente di Guardie da fuoco, di cui una almeno dovrà rima-
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nere di sentinella all’ingresso del Palco Scenico. Art. 17 - Finché le persone concorse allo spettacolo siano tutte uscite dal Teatro, non sarà lecito di estinguere i lumi destinati ad illuminare le scale, corridoi ed altri luoghi dove fosse riconosciuto necessario di stabilirne, e terminata la rappresentazione, la persona specialmente incaricata dell’illuminazione dovrà procedere ad una visita esattissima per assicurarsi che tutti i lumi sieno intieramente spenti, onde prevenire con tale precauzione ogni pericolo d’incendio. Art. 18 - Il Comando della Piazza, il Commissario di Polizia sono incaricati dell’esecuzione del presente Regolamento, ed ad esclusione di ignoranza per parte sia dell’Impresario e Capo-Comici, che degli Attori, ballerini, Suggeritore, ed altri ai quali incumbe l’uniformarvisi puntualmente ciascuno nella parte che lo concerne, una copia resterà affissa sul Palco Scenico a comoda visione di ognuno.
GOVERNO GENERALE DELLA DIVISIONE DI ALESSANDRIA SOPRINTENDENZA DI POLIZIA [Cfr. Ascal, Serie III, n°1759.] Nella mira di viemaggiormente [“Vie: pronunziato in una sola sillaba, avv. Significante Molto, che si prepone ai comparativi, per esempio: Vie meglio, Vie più, Vie peggio: ma di rado si userebbe parlando”. RIGUTTINI e FANFANI, Vocabolario italiano della lingua parlata, Nuova Edizione, G. Barbera Editore, Firenze, 1854.] assicurare il mantenimento del buon ordine in Teatro, utile ed opportuno avendo Noi riconosciuto di rammemorare le relative vigenti discipline con quelle aggiunte, e variazioni, che l’esperienza dimostrò necessarie, si è perciò che col presente facciamo noto,ed ordiniamo quanto segue: 1. Sarà negato l’ingresso a chiunque si presentasse alla porta del Teatro in istato di ubriachezza, o vestito in modo che possa offendere la decenza. 2. È vietato di entrare in Platea a qualunque persona con livrea. 3. È proibito a chiunque di fumare nel Teatro sia con pipe che con sigari, come pure di introdurvi fuoco, caldanini, e materie incendiarie di qualunque sorta. 4. È proibito di condur cani nel Teatro, nel caso vi entrassero ne saranno cacciati, e quando non volessero abbandonare il padrone, sarà questo tenuto di sortire egli stesso al primo invito dell’Autorità onde ricondurli via. 5. È parimenti vietato di condurre in Teatro dei ragazzi in età tale da poter in qualche modo turbare il silenzio che deve regnare durante la rappresentazione. 6. Alzato il Sipario tutti indistintamente gli Spettatori dovranno deporre il loro cappello, o berretto, e stare a capo scoperto pendente la rappresentazione d’ogni atto; ed in tal frattempo le persone che avranno preso posto nei banchi della Platea dovranno stare sedute. 7. È ad ognuno facoltativo il prendere quel posto, che più gli aggrada fra i vacanti sia nella Platea, che nel Loggione: non si può però contemporaneamente occupare più di un posto. 8. È vietato l’accesso nel Palco Scenico, nell’Orchestra, e tanto più nei Camerini degli Attori a qualsiasi persona non impiegata al servizio del Teatro, o non appositamente autorizzata da chi s’aspetta. 9. È proibito di fischiare, o disapprovare in modo offensivo gli Attori, parlar forte, battere in qualsiasi modo sul banco, o sul tavolato, far prolungati applausi, o cagionare qualunque altro rumore, che possa interrompere il corso della rappresentazione, o disturbare gli Spettatori.
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10. La replica di qualunque pezzo di musica sia vocale, che istrumentale come pure di qualunque passo di ballo, non è tollerata che in via d’eccezione, ed in ogni caso mai al di là di una sola volta per ogni pezzo. 11. Nessuno potrà distribuire nel Teatro, o gettarvi dai Palchi, o Loggione delle poesie, biglietti, e simili tanto manoscritti che stampati, o qualunque siasi altro oggetto senza l’autorizzazione della Polizia. 12. È proibito di tenere sui parapetti sia dei Palchi, che del Loggione, mantelli, od altri oggetti sporgenti in fuori. 13. Per evitare disordine e confusione nell’entrata e nella sortita dal Teatro, le carrozze dovranno essere trattenute nei siti appositamente assegnati, ed andare al passo specialmente dall’entrata nell’atrio sino alla sortita dalla corte del palazzo di Città. 14. Terminato lo spettacolo nessuno potrà trattenersi nel Teatro oltre il tempo necessario per ritirarsi; ed è proibito ad ognuno di fermarsi sia nei corridoj, e nelle scale, che nel vestibolo, acciocché sempre libero ne resti il passaggio. 15. In occasione dei balli in Teatro, quelli che commetteranno delle indecenze, o che insulteranno le Maschere sia in parole, che in altro modo, verranno obbligati a sortire dal Teatro, od anche arrestati a seconda delle circostanze. 16. Contro chi tentasse di causare confusione, e turbare la tranquillità, mancasse alla debita decenza, o contravvenisse ad alcune delle sovra espresse disposizioni, saranno prese dalla Autorità cui spetta le misure che le circostanze richiederanno. 17. Il Commissario di Polizia è specialmente incaricato, sotto gli ordini del Comandante di Piazza, o di chi ne fa le veci, di assicurare l’osservanza delle disposizioni preaccennate.
La pargoletta Virginia ha un mese. Forse anche gli ordini del conte Falicon contribuiscono a far crescere l’esigenza di un luogo dove si possa godere di lirica e di prosa in modo meno formale. L’ordine impartito dall’articolo n°6 del regolamento di polizia di “deporre il cappello” in sala fornisce un ottimo pretesto per una digressione di costume. Soprattutto alle signore risultava difficile imporre questa disposizione, che oggi appare di ovvia civiltà; non bisogna dimenticare che in allora il cappello femminile non era soltanto un completamento necessario dell’acconciatura ma una componente ineliminabile dell’abito. Ne deriveranno lamentele e polemiche pubbliche, ancor più eclatanti quando, grazie alla Borsalino, Alessandria diventerà la città “del cappello” per antonomasia. È curioso un pezzo del 1900 dello storico e critico Edoardo Boutet, che in quegli anni lavora insieme a Virginia alla Scuola di Santa Cecilia: «Il cappello delle signore a teatro rappresenta, per lo spettatore che ha pagato e non può godere per esso lo spettacolo che per la sua parte ha acquistato, la causa di una avarìa nella merce alla quale si ha diritto, e quindi un conseguente titolo a risarcimento. All’estero le cause sono state intentate, e il magistrato ha dato la palma della vittoria allo spettatore; e per molti teatri, dopo
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le sentenze, son seguiti regolamenti draconiani addirittura. Noi siamo gentil sangue latino, il paese della poesia cavalleresca; non chiediamo alle imprese risarcimenti, per carità. Solo ci prostriamo ai piedi dell’eterno femminile, e mormoriamo umili e sommessi: Grazia! Grazia! Siano almeno cappellini, e non cappelloni! Sia almeno consentito allo sciagurato che paga tale e quale, di riuscire a vedere qualche cosa di tutto quello che si avvicenda alla ribalta. Si muovano a pietà, una buona volta, gli enormi pennacchioni, i nastri immani, e le falde infinite e prepotenti»34. Gli uomini non erano da meno: per esempio, all’Arena del Sole di Bologna, famoso teatro su cui tornerò, i signori seduti in prima fila erano soliti posare il cappello direttamente sul proscenio; ne derivava una singolare “ribalta” di copricapi che entrava prepotentemente a far parte dello spettacolo. Anche Virginia ebbe indirettamente a che fare con questa indisciplina maschile. In occasione della sua serata d’onore al Gerbino di Torino del 25 settembre 1877 «la folla era così densa che produceva talvolta certe ondulazioni e certi movimenti che ammaccavano le coste [probabilmente: i braccioli delle poltrone]. In platea ad ogni intervallo si sentiva un buggerio insopportabile. Gli spettatori, per essere più liberi, avevano messo i cappelli sulla punta dei bastoni. Figuratevi se quelli che si trovavano di dietro volevano soffrire ciò! Ne nacque un lieve battibecco che finì coll’alzarsi di sipario»35. Siamo ancora nel 1842, anno natale di Virginia: il Comune approva un “progetto di riforma” (oggi diremmo: di ristrutturazione) del Municipale36 che tuttavia si attua solo a partire dal 1852, anche per la necessità di mutare il carburante da olio a gas. Il Municipale è il tempio in primo luogo della mondanità e poi della lirica, in generale dell’ortodossia; gli Alessandrini vi hanno forse gridato “Viva Verdi” ma lo concepiscono, aristocratici e altoborghesi, come il salotto della buona società. Nel grande ciclo sette-ottocentesco del teatro “all’italiana” qui siamo ancora nella fase in cui gli interessi della sala prevalgono su quelli del palcoscenico. Non per nulla, quando riapre nell’ottobre 1854, il Municipale risulta “riformato” soprattutto negli spazi di rappresentanza e di accoglimento: foyer, corridoi, ridotto (sinonimo di gioco d’azzardo); inoltre, a fianco dell’ingresso sotto i portici, si aprono i locali del Caffè del Teatro e dell’Albergo del Teatro. Ma il pubblico “vero”, composto da spettatori d’ogni ceto, ha altre 34 BOUTET 1900-1901, fasc. n°13, 25.07.1900, pgg.199/200. 35 “Gazzetta piemontese”, 26.09.1877 [ALST]. 36 Cfr. BASSI 2009 e DONDI 1987.
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predilezioni. Saltimbanchi nelle fiere, girovaghi e circensi con tende e carrozzoni, bosinade37 e sacre rappresentazioni (due forme che si intersecano nel “Gelindo”), compagnie equestri, mongolfiere; e sui palcoscenici: acrobati, marionette38, prestigiatori, bambini prodigio, accademie39 di magnetismo. E su tutto: balli sociali, innumerevoli. Questi spettacoli di arte varia erano adatti a spazi prevalentemente circolari, magari all’aperto, come le “arene”. Ma i teatri (fra cui lo stesso Municipale) li ospitavano volentieri perché consentivano loro di attingere ad un consenso variegato e sicuro, più ampio di quello ottenuto dalla lirica e dalla prosa. Accadeva, di contro, che le arene rappresentassero teatro musicale e drammatico per offrirlo ad un pubblico più popolare; più avanti si vedrà l’importanza per la carriera di Virginia del modello più famoso per le compagnie di prosa: l’Arena del Sole di Bologna. Da metà Ottocento, dal punto di vista dell’edificio teatrale questo doppio binario di programmazione si unificò nella tipologia del “politeama” che, come rivela con immediatezza il suo etimo, è uno spazio chiuso (talvolta con soffitto apribile, retaggio delle arene a cielo aperto dal cui riadattamento i politeama spesso nascono), in cui è proponibile qualsiasi forma di spettacolo dal vivo oltre a manifestazioni sportive come gli incontri di boxe e alle prime proiezioni “cinematografiche”. La sala e il palcoscenico sono entrambi di dimensioni rilevanti; al posto dei palchi ci sono una o due gallerie semicircolari, molto profonde; le poltrone si possono togliere e la platea diventa una pista da ballo o un ring o quant’altro. Oggi si dà per scontato che ogni espressione artistica debba avere una struttura specifica (ambienti raccolti per la prosa, eleganti scatole sonore per la lirica, auditorium per la concertistica, megastrutture per il musical e gli eventi, 37 Sono recite satiriche, in vernacolo, di matrice lombardo-piemontese. Il “bosin” era un can-
tastorie, anche venditore ambulante. «Dalla testimonianza di un tal Panizzone Sacco di Alessandria, che in uno scritto pubblicato il 20 febbraio 1578 elogiava la bosinà, possiamo dedurre che le bosinade fossero già diffuse in quel tempo. Significativo è quanto dice A. Barolo (Folklore monferrino, 1931): “In molti paesi dell’Alessandrino, nell’ultimo giorno di carnevale, viene recitata la cosiddetta bûsinà dinanzi a tutta la popolazione che si interessa vivamente agli svariati e piccanti avvenimenti in essa ricordati, riguardanti l’annata trascorsa”», cfr. “Bosinada” in Enciclopedia dello Spettacolo 1954-1962, vol.II, coll.871/872. Sulle bosinade, rispetto al territorio alessandrino, è fondamentale CASTELLI 1999. 38 In Alessandria è famoso per le marionette il Teatrino dell’Ospedale Vecchio, fondato da Carolina Colli nel 1835. 39 In allora il termine significava anche “trattenimento pubblico o privato”, p.es. applicato alla musica: “Stasera quel pianista darà un’accademia”. Cfr. RIGUTTINI e FANFANI, Vocabolario italiano della lingua parlata, Nuova Edizione, G. Barbera Editore, Firenze, 1854. Sul magnetismo a teatro si veda un bel libro: GALLINI Clara, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Milano: Feltrinelli, 1983, pgg.102/125.
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sale supertecnologiche per i film); ma è una concezione che si sono potuti permettere esclusivamente i centri metropolitani, e oggi nemmeno loro; gli architetti rivolgono da tempo la loro creatività a contenitori polifunzionali, che sono i nipoti dei gloriosi politeama. Nel 185440 Alessandria apre la stazione ferroviaria, il che avvia la valorizzazione della zona adiacente, che si concretizzerà nella realizzazione di un polmone verde collegato al centro-città, nella conformazione edilizia di piazza Garibaldi, nell’incentivazione di vari servizi. Allora, in un vasto programma di terziarizzazione, che aveva un indotto anche sull’hinterland, il teatro poteva trovare un ruolo importante; lo sviluppo economico e sociale chiamava il progresso culturale e civile. Come già detto, nell’area dei giardini pubblici acquista terreni demaniali un imprenditore, il sig. Bellana, che vi erige un’arena estiva con l’intento di presentare animali e fantasisti, non disdegnando spettacoli d’opera e drammatici di second’ordine. Ben presto si fa persuaso che Alessandria, una città di 25.000 abitanti, meriti di più: un secondo teatro; e perciò copre la sua arena con un grandioso soffitto e la trasforma nel Teatro Bellana, con una attività di almeno otto mesi all’anno, certamente già in funzione nei primi anni Cinquanta. «Quale stabilimento di progresso introdottosi in Alessandria non da una società ma dal coraggio di un privato cittadino [il Teatro Bellana] è un gran bene pella classe media. Qui il proprietario seppe provvedere a tutte le classi del pubblico, e col basso e medio prezzo procurare un onesto divertimento che nel Teatro Municipale alla classe operaia è quasi vietato e per difetto di sito e pel prezzo e pell’impossibilità di avere palchi a disposizione delle famiglie artigiane»41. In qualità di impresario il signor Bellana prende anche il Municipale, “riformato” da poco, nonostante costi «33 franchi per sera solo l’illuminazione a gaz» e nonostante pesi «la magnifica assenza del sesso femminino ed in conseguenza dei damerini, de’ cicisbei e di quanti fanno corona alle dame di buon gusto»42. Il piglio organizzativo del signor Bellana fa dei due teatri un “sistema”. La prevalenza è lirica al Municipale e prosa al Bellana, ma entrambi possono programmare di tutto. Al Municipale, nel 1856, c’è la Monti-Preda, che di lì a poco sarà la prima compagnia professionale di Virginia; c’è il grande Gustavo 40 Per una visione della storia alessandrina dalla Restaurazione all’Unità cfr. CASTRONOVO
2011.
41 Anonimo, Teatro Bellana, in “Avvisatore Alessandrino”, a.IX, n°67, 08.06.1861 [BCAL]. 42 Anonimo, Teatro Bellana, in “Avvisatore Alessandrino”, a.IX, n°67, 08.06.1861 [BCAL].
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Modena che legge Dante. Se ci sono impedimenti inaspettati in un teatro, gli artisti (e gli spettatori) si trasferiscono in tempo reale nell’altro. Un gruppo di bambini danzatori debutta al Municipale e poi passa al Bellana. Soprattutto di domenica si articola l’offerta: prosa al Bellana alle 17,30 e lirica al Municipale alle 21,00. Oppure le proposte si alternano; scrive il “Pontida”: «Si chiude il Teatro Municipale, si apre il Bellana, si chiude il Bellana, si apre il Municipale, e quest’alternativa può favorire tutti i gusti e tutte le borse». Il pubblico è volubile, talvolta apatico, in generale più numeroso al Bellana che al Municipale. L’affluenza femminile è ancora modesta. Ma la Città è in fermento. Nel luglio 1856 la Gazzetta del Popolo amplifica per settimane la sottoscrizione che il poeta Norberto Rosa ha chiesto per dotare di “cento cannoni” le fortificazioni cittadine43. Nel 1857 il ventitreenne Giuseppe Borsalino comincia in un cortile di via Schiavina, con il fratello Lazzaro, una avventura industriale che arriverà a conquistare il mondo. Nello stesso anno anche Virginia gioca la sua scommessa professionale, per la quale non può che “fuggire” da Alessandria. La fanciulla non lo sa, ma il teatro italiano è ad una svolta. In questi anni, mentre a Parigi debutta trionfalmente (1852) “La Dame aux camélias” di Dumas fils, il Regno di Sardegna azzera ogni sovvenzione alla gloriosa compagnia Reale Sarda e, appena trasformatosi in Stato unitario, allargherà questo azzeramento all’intero territorio nazionale, lasciando il cerino in mano ai Comuni e soprattutto alla iniziativa degli impresari. Un aspetto curioso del racconto -più sopra riportato- che Virginia fa della propria adolescenza, è il silenzio sul matrimonio, cui si decise repentinamente non perché in preda ad un folle amore per un uomo, ma perché quel marito le avrebbe consentito di intraprendere la ricerca di un palcoscenico. In una intervista precedente, del 1907, Virginia non l’aveva nascosto: «Mi sposai per poter dedicarmi all’arte. Era quella l’unica via, i pregiudizi delle famiglie d’allora non mi avrebbero mai permesso diversamente»44. Lo strumento indispensabile fu Giovanni Battista Marini (1821-1901), “attore mediocre, anche se volonteroso”45, che aveva fatto il generico nella compagnia Sadowski-Astolfi. Ma non è facile stabilire se capitò ad Alessandria con questa formazione o con 43 «Un’iniziativa che porta il nome della città piemontese nel mondo, con le sottoscrizioni
che arrivano, oltre che da varie realtà italiane, anche dalla Francia, da Boston, dal Sud America, e consentono di raccogliere in meno di un anno la considerevole somma di 130.000 lire, sufficiente per finanziare 126 bocche da fuoco», LIVRAGHI 2012, pg.127. 44 AGOSTINONI 1907, pgg.580/589. 45 LEONELLI 1940-44, vol.II, pg.63.
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la Vestri-Antinori (per la quale opta Lucio Bassi46) che tenne cartellone al Bellana nel settembre 1857, come documentato da “Il Gagliaudo”, un settimanale satirico illustrato diretto e interamente redatto da Carlo AValle47, un intellettuale importante che, firmandosi con lo pseudonimo di Fra’ Chichibio o non firmandosi per nulla, getta qualche goccia di veleno nelle cronache del teatro, che pure ama intensamente. In merito alla questione, il Gagliaudo scrive: «Diremo una parola d’encomio al signor Marini brillante, a cui non mancano, né disinvoltura, né naturalezza, né brio: ma il quale dimentica spesso queste virtù, per dar nel triviale. La qual cosa avviene a tutti quegli attori, che non hanno o non sanno avere l’abnegazione di sacrificare il plauso del pubblico alla verità della parte. Imperocché, se i plausi strappati a danno dell’arte contentar possono l’amor proprio d’artista, non possono contentarne egualmente la coscienza: e il signor Marini non ignora al par di noi, che pubblico e artisti vogliono essere fatti a vicenda: e quando a vicenda s’ingannano, ciò va a detrimento del gusto e della causa teatrale»48. Il “brillante” era un ruolo che richiedeva bravura artistica e doti naturali, il che forse esclude il Marini; tuttavia, il fatto che il soggetto in questione fosse un gigione furbastro potrebbe applicarsi al nostro, che da allora fu l’abile agente esclusivo di Virginia e il meno abile capocomico delle sue compagnie. Marini capì immediatamente di aver incontrato la gallina dalle uova d’oro della sua vita, e -senza grande merito, vista la passione inarrestabile (per il teatro) della fanciulla- la impalmò. L’Archivio di Alessandria ce ne dà certezza. L’anno del Signore mille ottocento cinquantasette ed alli ventinove del mese di settembre nella Parrocchia di S. Pietro (cattedrale) Comune di Alessandria, premessa una delle tre consuete pubblicazioni nella Parrocchia di S. Pietro (cattedrale) e in quella del Carmine e di S. Andrea, con dispensa di due pubblicazioni e dall’impedimento di […] ed alla presenza di me sottoscritto Arciprete Parroco. È stato celebrato matrimonio secondo il rito di Santa Madre Chiesa tra il Sig.Giovanni Battista Marini d’età d’anni trenta nativo di Firenze domiciliato in Alessandria Parrocchia di S. Andrea figlio del fu Gaetano domiciliato in _ e della fu Rosa Nardelli domiciliata in _ già vedovo di Giovanna Moggi [?]. E la Signora Virginia Visino d’età d’anni quindi46 BASSI 2009, pg.100. 47 Cfr. FERRARIS 2011. Altri ricercatori si sono occupati e si occupano di questo importante
personaggio alessandrino-sansalvatorese.
48 Anonimo [Carlo A-Valle], Rivista teatrale, in “Il Gagliaudo”, Anno I – II Semestre, n°7,
giovedì 24.09.1857, pg.55 [BCAL].
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ci nativa di Alessandria domiciliata in Alessandria Parrocchia di S. Pietro (cattedrale) figlia del v. [sta per “vivente”] Carlo domiciliato in Alessandria e della v. Teresa Cornaglia domiciliata in Alessandria. Presenti in qualità di testimonii li Giuseppe Testore d’età d’anni quarantacinque domiciliato nel Comune di Alessandria e Clemente Nerva d’età d’anni trenta domiciliato nel Comune di Alessandria e col consenso del padre della sposa Carlo Visino qui presente. Arciprete Lorenzo Grossi.49 Dunque, il 29 settembre 1857, all’età di quindici anni, Virginia sposa la professione di attrice dandole, in mancanza di meglio, le sembianze di Giovanni Battista Marini.
49 Ascal, Serie II, 721, Atti di matrimonio 1857, Parrocchia S. Pietro, Fol. 23, n° 45.
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Teatro Municipale di Alessandria: veduta della facciata del Municipio (al cui interno era stato collocato il teatro) e della sala
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I.2 Rimpatriate in tournée
Con un pizzico di paradosso si può dire che Urbano Rattazzi agevola la “cavourizzazione” della Città, soprattutto sul piano economico. Alessandria vive storie imprenditoriali che contribuiscono a qualificarla come la “terza città del regno”, dopo Torino e Genova. Gli Alessandrini, che hanno partecipato attivamente alla vicenda risorgimentale, si aprono fiduciosamente all’Unità. Nel gennaio 1861 “L’Avvisatore Alessandrino” scrive poeticamente: «Chi abita con noi la terra circondata dall’Alpi e dal mare, sotto la medesima cappa di cielo, è naturalmente nostro fratello»50. Certo, la svolta non può che essere epocale. «Nel grande terremoto politico che accompagna l’estensione delle forme statuali del Regno di Sardegna al nuovo Regno d’Italia, la “finis Pedemontii” provoca conseguenze rilevanti. Alessandria diventa una semplice provincia, in una realtà che a sua volta retrocede al rango regionale. Sul piano economico, invece, ferrovie e grandi commesse, unitamente all’arrivo di capitali esteri (in primo luogo belgi e francesi) stanno per segnare la nascita di una vera industria, che nel giro di pochi decenni scalzerà l’agricoltura dal ruolo di settore primario»51. Al momento dell’unificazione nazionale la Città, che sta vivendo un forte sviluppo demografico, inizia una seconda metà di secolo marcata da una concezione borghese, in cui si impone la componente liberale in quanto interprete della nuova economia. Una successione di architetti municipali: Leopoldo Valizone52, Antonio Rossetti e Ludovico Straneo, porta alla fine del secolo il centro-città all’assetto di oggi: i giardini pubblici e la grande piazza porticata, in cui confluisce il neonato corso 50 Anonimo, Siamo italiani, in “L’Avvisatore alessandrino”, a.IX, 14.01.1861 [BCAL]. 51 LIVRAGHI 2012, pgg.141/142. 52 Cfr. DAMERI 2002.
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Cento Cannoni, dove Giuseppe Borsalino colloca il suo monumento aziendale, subito affiancato da una caserma, la Valfrè, per non dimenticare l’altra colonna economica della Città. Si costruiscono istituti assistenziali e si ricostruisce il ponte Cittadella. Si fa il cavalcavia verso il quartiere Cristo. Nasce la Pinacoteca Civica sul lascito del notaio collezionista Antonio Viecha. Si inaugura la nuova sede della Biblioteca. Inizia le attività il ginnasio-liceo “Plana”. Viene fondata la “Società di Storia Arte Archeologia”, animata dal canonico Francesco Gasparolo53. La Camera di Commercio si aggiunge alla benemerita Cassa di Risparmio. In un impulso di mimesi anglosassone si apre la “Società del Casino”. Prende servizio il primo tram a vapore. E in tutto questo fervore gli Alessandrini, «certo non marginalmente, si divertono. Circhi equestri in piazza Garibaldi, bande municipali ai giardini pubblici, corse di velocipedi sul circuito che darà il nome al quartiere Pista, partite di pallone sulla piazza d’armi vecchia, regate organizzate dalla “Società dei Canottieri” sul Tanaro. La gente affolla le sfilate del Carnevale alessandrino, di cui è animatore il maestro elementare Crispino Iachino, e riempie i teatri. Sono i riflessi cittadini della belle époque»54. Il Bellana, che fu il primo teatro popolare e piccolo-borghese della Città, inaugura altresì il tragico destino che accomuna gli edifici teatrali alessandrini: viene distrutto da un incendio nel novembre 1879. Sullo stesso sedime, un parente di Bellana, il signor Gra, costruisce una sala che raccoglie l’eredità di immagine e di pubblico del predecessore e la chiama Politeama Gra, inaugurato nel settembre 1882. «Come palcoscenico possiede la stessa capienza del Bellana ma ha il pregio di un’acustica indovinata e perfetta. La platea allinea poche file di poltrone, dodici file di sedie, alcune panche con schienale e parecchi posti in piedi, mentre un’ampia galleria corre tutt’intorno a semicerchio con poltroncine e sedie numerate, disposte su gradini sopraelevati, sormontata dal loggione a file sovrapposte di sedie per la massima visibilità degli spettacoli. A differenza del teatro Municipale, il Teatro Gra non possedeva palchi in proprietà privata, il che lo rendeva gradito alla borghesia cittadina, alle classi medie e al popolo, anche se il suo stato di manutenzione lasciava assai a desiderare e continuamente venivano esposti reclami all’Autorità tutoria da parte dei Pompieri di servizio per ragioni di sicurezza, giustificati, infatti, da un furioso incendio che viene a distruggere l’intero teatro 53 Cfr. GASPAROLO 1887. 54 LIVRAGHI 1997, pg.70.
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(con danni anche ad abitazioni adiacenti) il 9 maggio 1902»55. Virginia non recitò mai nel “suo” Bellana, anche se tornò per la prima volta in Alessandria nel 1877, quindi due anni prima della distruzione. La riapparizione della ragazza divenuta primadonna meritò una accoglienza in pompa magna al Municipale. Ma in tutte le successive occasioni si presentò al Gra, che in qualche modo incarnava una continuità rispetto al Bellana. Nell’aprile 1876, al culmine della fama, Virginia interpreta “Messalina” al teatro Gerbino di Torino. A complemento di questo successo accade un fatto inconsueto, che le cronache alessandrine riferiscono con particolare rilievo: «Essendosi rappresentata sulle scene del Gerbino la “Messalina” dell’immortale autore del “Claudio” e del “Nerone” [Pietro Cossa], interpretata dalla nostra Marini con quel genio istesso con cui fu scritta, la gentile Torino offriva un pranzo e al Cossa e alla Marini. E nel pranzo stesso il Bottero e i signori Gioberti e Rossi [tutti Consiglieri del Comune di Torino] venivano nel delicato pensiero di inviare un saluto alle città native del sommo poeta e della somma attrice, a Roma e ad Alessandria. Il ff. di Sindaco della nostra città avv. Oddone a nome dell’intera cittadinanza rispondeva al gentile saluto con parole inspirate a sentito affetto e a nobile orgoglio, che la pubblica onoranza di cui la Marini è fatta segno, è un vanto cittadino nostro proprio del quale dobbiamo andar lieti e fieri. Osiamo far voti perché sia possibile che pur una volta almeno provi Alessandria alla sua concittadina quanto apprezzi ed abbia cari i pregi di lei, applaudendo sulle patrie scene al suo raro merito d’esimia artista, e dimostrandole come faccia proprii il plauso e il successo di chi onora non meno che la città che le diede la vita. Siam persuasi che il nostro Municipio non intralascerebbe cosa alcuna perché questo nostro desiderio potesse avere il più felice compimento»56. Ormai il desiderio di portare sul palcoscenico alessandrino, a vent’anni dalla sua “fuga”, la famosa concittadina, si è trasformato in pubblica opinione. Le buone intenzioni dichiarate nel 1876 non sfumano; un anno dopo si concretizzano. Mentre l’impresario del Municipale tratta con Giovanni Battista Marini per assicurarsi la presenza in cartellone della Signora, il sindaco Oddone prende sul serio il compito di celebrare il rientro della diva nel borgo natio in modo adeguatamente 55 Cfr. CALORIO 1982a. 56 “L’Osservatore di Alessandria”, a.XII, n°29, 12.04.1876 [Ascal, serie I, n°806, fascicolo
n°4: Virginia Marini].
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solenne. Lo attestano le discussioni e le decisioni del Consiglio Comunale del 27 giugno 187757. L’evento anima la Città. I botteghini non sono ricchi, sia per la prosa che per la lirica; non si riempiono per il “Don Giovanni” mozartiano e nemmeno per gli spettacoli dialettali; si risollevano con i balli e con le attrazioni tipo “l’antispiritista medium Miss Lizzie Anderson”. Si potenzia la “reclame”; al Gra si lascia fumare in platea; in qualche recita si offre il biglietto in omaggio alle signore purché accompagnate da 57 Il Presidente nell’annunziare che per iniziativa di una benemerita Società verrebbe nei primi gior-
ni del prossimo Luglio a dare alcune rappresentazioni sulle scene di questo Teatro Municipale la celebre Virginia Marini, dice che Alessandria, la quale ha il vanto di aver dato i natali all’esimia Attrice, non dovrebbe rimanere dal rendere alla sua Concittadina una qualche pubblica testimonianza per dimostrarle quanto essa apprezzi ed abbia cari i suoi meriti insigni. Ricorda quindi il Presidente le onoranze fatte alla Egregia Artista nelle varie città d’Italia e specialmente in Torino nello Aprile del 1876, allorché ebbe a rappresentare sulle scene del Gerbino la Messalina del Cossa. E persuaso di interpretare il sentimento di questa intiera Cittadinanza propone di offrire alla Marini una corona in argento come simbolo di quella stima e di quell’affetto che verso di lei nutre la sua Città nativa, quale dimostrazione acquisterebbe un ben maggior pregio quando fosse sanzionata dal voto del Consiglio. Il Consigliere Dossena, pur ammettendo i meriti distinti della Marini, crede tuttavia che non sia il caso di darle una così splendida dimostrazione coll’offerta di una corona, la quale deve essere riservata in premio soltanto a quei personaggi che resero segnalati servizii alla patria. Il Consigliere Moro appoggia la proposta del Presidente, osservando che come si onora il soldato il quale combatte e cade per la patria, così si rendano tributi di onore a chi col suo ingegno contribuisce sulle scene alla educazione ed istruzione dei popoli, e che quindi nulla osta che il Consiglio, il quale rappresenta la Cittadinanza ed è l’espressione dei suoi sentimenti, acclami ad una sì eminente Artista. Come è la Marini, la quale è conosciuta per una delle primarie Attrici del giorno, e ricevette dovunque dimostrazioni di simpatia e di stima. Il Consigliere Deantonio soggiunge che presso tutti i popoli più illustri e civili i sommi Attori Drammatici furono stimati ed onorati al pari dei più grandi Genii e de’ più grandi Artisti che illustrarono le lettere, le scienze e le arti della poesia, della pittura e della scultura. Garrick, il grande Garrick, fu sepolto per decreto del Parlamento Inglese nella Abbazia di Westminster, che accoglie le tombe dei Re d’Inghilterra; e quando il suo cadavere fu accompagnato alla tomba con onori reali, la Corte, il Parlamento ed i Ministri si fecero onore di accompagnarne il feretro. Kean ebbe per amici intimi i più grandi e potenti Principi dell’Aristocrazia Britannica, ed il figlio stesso del Re viveva nella più grande dimestichezza con lui, e gli si professava amico devoto. Gli Attori come Modena e la Ristori ed altri celebri con la potenza del loro genio creano. Essi trasportano l’animo nostro nelle più alte regioni dell’ideale, ci rapiscono ai più alti concetti, destano in noi gli affetti che più onorano ed ingrandiscono la natura umana. La Marini toccò anch’essa l’apogeo dell’Arte e della gloria. Per lei la Ristori non è più sola. Alla Città sua nativa sarebbe pertanto di decoro e di dovere l’onorare una tanta donna. Il Consiglio unanime delibera di autorizzare la Giunta a fare la spesa necessaria per dare alla Celebre Attrice Alessandrina Signora Virginia Marini una dimostrazione di stima della sua Città nativa in quel miglior modo che la Giunta crederà. Firmato: il Sindaco. Municipio di Alessandria, Consiglio Comunale, Deliberazione del 27 giugno 1877 [Ascal, Serie I, 806, fasc. n°4: Virginia Marini].
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“un” consorte munito di biglietto intero. Ma la capacità di “chiamata” degli interpreti è l’unica certezza per gli organizzatori di tutti tempi. Il tenore Denegri, alessandrino, spopola ogni volta che riappare, e così deve essere per Virginia. Già nel gennaio 1877 i periodici cittadini annunciano che prossimamente la “celebre artista drammatica” Virginia Marini arriverà con l’altrettanto celebre compagnia BellottiBon. Certamente “esporrà”, cioè reciterà, “Messalina, il nuovo lavoro drammatico del Cossa che eccita un furore preventivo”. Il 15 gennaio “L’Avvisatore Alessandrino” pubblica in prima pagina, sotto il titolo “Messalina”, un audace siparietto letterario, in cui un signore, assistendo ad una recita del testo fatale, corteggia la signora seduta accanto, il marito della quale -fascino indiscreto della morbosità- ha trovato posto qualche fila indietro. Il dramma eccita i due birichini. Lei dà a lui un appuntamento per l’indomani, alle undici di sera, “in un elegante gabinetto58” per “discutere… della Messalina”! Finalmente, agli inizi di luglio il prestigioso ensemble Bellotti-Bon arriva al Municipale. «Noi speriamo che gli alessandrini accorreranno numerosi alle poche recite di questa distinta compagnia, trattandosi anche di onorare un’attrice nata fra noi, e che salì in tanta fama, da essere ormai proclamata una gloria drammatica»59. Virginia debutta con un titolo che mette d’accordo tutti: La signora dalle60 camelie. «I palchi erano gremiti di eleganti signore e la platea stipata di un scelto uditorio. Al suo primo apparire sulla scena la signora Marini venne salutata da un lungo, unanime, fragoroso scoppio d’applausi, che la commossero vivamente. Il pubblico ascoltava religiosamente ogni sua parola, ammirava estatico ogni suo gesto, ogni sua mossa e ad ogni istante come scosso da elettrico scoppiava in applausi»61. Virginia prosegue con “Andreina” e “Dora”, entrambe di Sardou, che lei interpreta in modo “appassionato e naturale”annunciando, da consumata professionista, che il 10 luglio terrà la sua “beneficiata” con “Messalina”. Non manca nemmeno la testimonianza di come la diva sia oggetto, anche in trasferta, della più alta attenzione nazionale. Lo 58 “Gabinetto: Stanza intima della casa signorile, riserbata a’ segreti colloquj”. Cfr.
RIGUTTINI e FANFANI, Vocabolario italiano della lingua parlata, Nuova Edizione, G. Barbera Editore, Firenze, 1854. 59 “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXV, n°76, 03.07.1877 [BCAL]. 60 Nell’Ottocento la traduzione italiana sarà con “dalle” e quasi mai con “delle”. 61 Anonimo, Virginia Marini al Teatro Municipale, in “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXV, n°76, 03.07.1877 [BCAL].
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attesta un telegramma da Roma: «Benché lontani ci associamo plausi vostri concittadini onorando in voi l’astro più fulgido dell’arte italiana. Cossa, Derenzi, Costetti, D’Arcais, Baratieri, Pugno, Turco, Piccardi, Mancinelli, Minervini, Napoli»62. L’attesa degli ammiratori alessandrini è dunque premiata. Nonostante le recite fino ad allora effettuate abbiano ricevuto “fragorosissimi applausi e diverse chiamate”, la serata d’onore sarà speciale. «Possiamo fin d’ora accertare che la serata di domani riescerà un’imponente dimostrazione d’affetto e di stima che gli alessandrini daranno alla loro concittadina che levò tanta fama di sé e che è gloria ed onore dell’arte drammatica italiana»63. Tutto si avvera. La beneficiata imperniata su “Messalina” è un’apoteosi. «La Marini fu regalata per parte del Municipio di una ricchissima corona d’argento e d’oro di squisita fattura artistica, lavoro dell’orefice sig. Cometta [sic] di Alessandria. Lo stemma del Municipio, pure in argento e oro, fermava un ricco nastro con frangia d’oro in seta bianca, sul quale stavano scritte le seguenti parole: “A Virginia Marini, Alessandria, 10 luglio 1877”»64. La cronaca è un susseguirsi di frasi adoranti. «Due nomi indivisi, il Cossa e la Marini Virginia. L’uno è il creatore della Messalina, l’altra è la creatrice dell’arte». «La più colta ed eletta cittadinanza -coll’ansia di chi sta per andare in cari e deliziosi lidi- stipava la platea, abbelliva i palchi di vagheggiate e splendide signore. Il popolo stava addossato nella galleria; e nel vestibolo, e sotto i portici; e nelle vie adiacenti al teatro si udiva un doloroso imprecare al teatro che gente più non capiva!». «L’attrice che ha preso il posto della Ristori,… nella Messalina si mostrò co’ suoi vizi, colle sue turpitudini, colla smisurata ambiziosa donna romana e romana è nel delitto e nella fugace aureola di vita che, come lampo, le sfiora il labbro». «Là dove dubitando di non essere amata, pronuncia la parola: e se non mi amasse… sviluppò una potenza di gesto, di posa che la sua fronte prese le rughe del dolore disperato che vuole una vendetta». «L’istante in cui col coraggio di forsennata donna che più non paventa né misura le conseguenze della sua posizione, non avvi penna che dire lo possa». «Alla fine di quest’atto venne chiamata agli onori del proscenio sette volte e tutte le volte ebbe mazzi giganteschi di fiori con attorno intrecciati ricchissimi nastri, ebbe dalle mani del sindaco il presente di una corona d’argento con bacche d’oro; i ritratti, le 62 Il telegramma di questi illustri autori e giornalisti è riportato in “Gazzetta piemontese”,
15.07.1877 [ALST].
63 “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXV, n°78, 09.07.1877 [BCAL]. 64 “Gazzetta piemontese”, 12.07.1877 [ALST].
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iscrizioni, le epigrafi, le poesie inondarono il teatro e la sublime attrice pianse, pianse commossa a tanta dimostrazione dei suoi concittadini». «Virginia Marini, quando sarai lungi dalla tua patria, buona e gentile come sei grande nell’imperare sui cuori, ricordati di noi che andiamo lieti di scrivere il tuo nome nelle pagine della storia alessandrina»65. Lasciando Alessandria Virginia vuole testimoniare la sua commozione con una lettera al Sindaco, in cui scrive: «La magnifica corona donatami dalla Città sarà il ricordo più caro della mia vita artistica»66. Nei giorni successivi diventa involontaria fautrice di un raro incontro amichevole fra le municipalità di Alessandria e di Casale Monferrato, dove si reca per poche recite. «Dopo la rappresentazione veniva offerta alla Marini, dalla Direzione di quel Teatro Municipale, una serenata ed un banchetto, che riuscì splendidissimo. Vi intervennero i primari artisti della compagnia Bellotti-Bon, i sindaci di Alessandria e di Casale, alcuni alessandrini e rappresentanti della stampa casalese. Il signor I. L. Berandi di Casale improvvisava la seguente epigrafe: “Nella sera del 21 luglio 1877 – Per Virginia Marini – Nell’arte drammatica illustre – Alessandria e Casale – Unite in lieto simposio – Rammentando le antiche lotte per la libertà – Rinnovarono il bacio della fratellanza – Suggellato il dì 26 marzo 1849 – A Virginia Marini – Autrice del lieto convegno – Affettuoso tributo di riconoscenza»67 Le apparizioni delle “divine” ottocentesche sono tutte incorniciate da omaggi in versi, che alcuni ammiratori purtroppo non si negano di comporre e di rivolgere loro pubblicamente. Una tremenda, interminabile ode a Virginia, un “battiam battiam le mani” in chiave manzonian-melodrammatica, viene distribuita fra il pubblico proprio in occasione della beneficiata del 10 luglio 187768. 65 Anonimo, La Messalina del Cossa, in “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXV, n°78, 09.07.1877
[BCAL].
66 “Gazzetta piemontese”, 19.07.1877 [ALST]. 67 “Gazzetta piemontese”, 25.07.1877 [ALST]. 69 Solenne, unanime / di lido in lido / per la Penisola / echeggia un grido.
Il patrio Tanaro / per Lei s’avviva / Gloria a Virginia! / Gloria alla Diva! È vostro, o ausoniche / Muse, il lavoro: / il crin cingetele / di verde alloro. Di rado svelano / per l’orizzonte / astri sì fulgidi / l’ascosa fronte! E noi nell’impeto / dell’applaudirti, / qual’inno scioglierti, / qual serto offrirti? Noi che dal raggio / dei tuoi splendori / sentiam sì tenera / letizia ai cuori? Noi, che il tuo merito / sì peregrino / diciamo orgoglio / Alessandrino? Noi, cui concedere / la stessa culla / i cieli vollero / di te fanciulla? Osanna all’aurea / gemma dei cori! / Osanna all’emula della Ristori! Con ansio spirito, / con chiome sparte / si feano pallide / la Scena e l’Arte. Non più le vivide / stelle che furo / a lor di nobile / faro sicuro,
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Virginia è diventata il gonfalone artistico-culturale della Città. Il 29 maggio 1880 la “Gazzetta piemontese” consegna alle proprie colonne una sentenza che può sempre tornare utile: «La città che fu culla a Virginia Marini non può non interessarsi alle nobili gare dell’arte, e così se ne interessassero quei signori che comandano in Municipio!». Le successive rimpatriate di Virginia sono, come detto, tutte al Politeama Gra, a cominciare dal 1885. Ad Alessandria continuano a furoreggiare le feste da ballo, talvolta in maschera, nelle società operaie come nei circoli borghesi come nei teatri. Permane il favore ai generi diversi: le compagnie equestri, i clown, le curiosità tipo la “donna-baritono” o le “illusioni nordiche di Miss Olga” o il Teatro Meccanico montato in piazné più miravano / sui prischi agoni / spiegati i làbari / dei lor campioni! Ma come Venere / vaga e gioconda / dai bianchi globuli / sorgea dell’onda; ma come Pallade / di capo a Giove / uscia, presagio / d’inclite prove; ruppe le tenebre / alba serena / più ricche a rendere / l’Arte e la Scena. Teco, o Virginia / quell’alba nacque, / e più l’italico / Teatro piacque. E già si specchiano / nel novo Sole / con novo giubilo / le nostre aiuole. Oh, dei miracoli / nell’età rara / perché non vivere / Silfide cara? Sul dorso al pelago / tu pur staresti, / saldo per l’aere / il piè terresti! Fin dalle lugubri / gelate calme / si desterebbero / le morte salme al dolce, al magico / al fero incanto / che in te producono / la voce e il canto! D’angel si mostrano / in te le forme; / in Te d’un angelo / il genio dorme; e sia che s’aprano / le labbra al riso, / diffondi un alito / di paradiso! E sia che t’agiti / senso gagliardo, / tremenda nemesi / traspar nel guardo! Atterra e suscita / stenua e consola /l’alto misterio / di tua parola! Per essa fermano / le lor preghiere / sorprese, e tacite / t’odon le sfere; e fin dei Serafi / nell’alma pia / s’insinua e penetra / la gelosia. Oh, quando libera / dal terreo velo / tu pur pei vertici / n’andrai del cielo, questa in quei circoli / udrai divina / melode: è reduce / la Pellegrina! Non è più favola / l’antico Orfeo, / che a Dori i vortici / frenar poteo; e pronti, e docili / dietro ai suoi passi / tradursi impavido / le selve e i sassi! Tu pure in Colchide / d’Argo i piloti / sapresti spingere / per solchi ignoti, all’atro vigile / strappando il vello, / già dei Cecropidi / desìo sì bello! Di bieche critiche / scarca la soma / ai pie’ ti transita / l’invidia doma; e, resa immemore / del suo veleno / ti dona il bacio, / ti stringe al seno; poi surta in estasi / le ciglia addestra / nelle vittorie / della Maestra! Traverso i secoli / volge la prua / sui flutti e i turbini / la cimba tua. Dei mille ostacoli / maggior tu sei: / i flutti e i turbini / piegano a Lei. La storia a scrivere / fin d’or s’avvezza /gli eccelsi titoli / di tua grandezza; e fia dei posteri / superbo il canto: / Viva Virginia, / dell’Arte il vanto! Di Gloria assidersi / seppe sul colle / sol perché fervida / salir lo volle; e se v’allettano / quelle pendici, / ecco l’esempio! / Statellie attrici! [Un mio dotto amico ritiene che “statellie” sia un refuso del volantino d’epoca da correggersi in “statielle”, termine che rimanda agli statielli tribali in cui anticamente si dividevano le nostre zone (alessandrina, acquese, etc). Dunque la traduzione prosaica della cacofonia in oggetto dovrebbe essere: o attrici “locali”!] Cfr. Ascal, Serie I, n°806, fasc. n°4: Virginia Marini.
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za Garibaldi; si affacciano le proiezioni “davvero ammirabili” (un’alba, una mandria al pascolo, un mare in burrasca, un effetto nevicata) che preludono alla futura Città cinefila. Il pubblico si emancipa. Il “bel sesso” si fa vedere di più fra le poltrone e i palchi. “L’Avvisatore Alessandrino” del 27 giugno 1885 informa che la Corte di Cassazione di Parigi ha assolto uno spettatore che aveva sonoramente fischiato: ognuno ha il diritto di esprimere la propria opinione. Nel numero del 19 ottobre si prende atto, con riluttanza ma con rilievo, dello sviluppo incontenibile della “reclame”: è una necessità, ormai bisogna saper spacciar lucciole per lanterne; ne ha bisogno uno stabilimento come un professore di qualsiasi scienza; si moltiplicano le agenzie di pubblicità; è la panacea dei furbi, un mezzo per far denari; i ministri vi fanno ricorso, pagano giornalisti mercenari. La prosa complessivamente zoppica, raramente fa una “pienona”, cioè un esaurito; anche perché accade che al Municipale e al Gra siano messi in scena gli stessi titoli da compagnie diverse, che temono di non avere pubblico per scelte più originali. Hanno puntualmente successo le opere di Victorien Sardou. Gli attori principali sono sempre apprezzati, ma “la naturalezza del gesto, la dizione corretta e, più di tutto, l’intelligenza” sono qualità preferite a “quella accentuazione declamatoria, grave, cadenzata, quel gestire largo, quel passo misurato [che] risentono del vecchio sistema”. Fra gennaio e febbraio tiene cartellone al Municipale l’attore e capocomico Luigi Biagi, che poco prima era stato in compagnia con Virginia e che più avanti sarà suo “vice” nella direzione della scuola di Santa Cecilia. Ottiene successo con “Il padrone delle ferriere” di Ohnet; fa la beneficiata con “Nerone” del Cossa, che ottiene il consenso della stampa locale; non manca di puntare su Sardou, con “Fedora”; ma in generale la sua recitazione viene percepita come datata. A luglio 1885 arriva al Gra un grandattore nazionale: Ermete Novelli, del quale si sottolinea lo “studio psicologico” del personaggio. Novelli attira l’alta borghesia: compìti cavalieri nelle poltrone, dame in abiti variopinti e bizzarri cappellini. Dopo una lunga sospensione, al Municipale torna la lirica con “Carmen”. Ma è il Gra, il poco confortevole, il maltenuto Gra, a tenere banco; “L’Avvisatore Alessandrino” dell’11 maggio proclama: “Il Politeama Gra è sempre aperto”: operette con “lusso di scenari e di vestiari”, illusionisti, marionette, ginnasti, cavallerizzi, pantomime/danze; e poi
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vi appare il vaudeville69. La prosa non è sottovalutata, grazie alla presenza di attori come il citato Ermete Novelli. E soprattutto, in settembre, questa volta sul palcoscenico del Gra, si annuncia che presto ci sarà Lei! La continuità fra il Bellana e il Gra permette agli Alessandrini di concepire la venuta di Virginia del ’77 come la giusta celebrazione mondana, ma quella dell’85 come la vera rimpatriata, dentro i luoghi del suo fanciullesco apprendistato teatrale. «Col 16 corrente [settembre 1885] avremo sulle scene del Gra la Compagnia Drammatica Nazionale, della quale fa parte la nostra concittadina, la celebre Virginia Marini. Noi ci guarderemo bene dallo spendere una parola di reclame per la Marini: essa viene fra noi carica di allori: essa viene oggi, somma attrice, a rivedere e a ricalcare quelle scene donde mosse i primi passi sul sentiero della gloria. Col chiamare la Marini al suo teatro, il signor Gra reca un vivissimo piacere alla cittadinanza, e noi crediamo d’interpretare i sentimenti di essa, tributandogliene sincere grazie»70. «La sera del 16 prossimo, al Politeama Gra, la Compagnia Drammatica Nazionale incomincerà una serie di rappresentazioni. Salutiamo fin d’ora l’eletta71 di artisti che ci farà gustare in tutte le sue fini bellezze la vera arte italiana poiché nella compagnia nazionale non si trovano solamente uno o due bravi interpreti, circondati da una turba di principianti se non di nemici dell’arte, come tante volte vedesi nelle compagnie secondarie; in essa invece sono tutti bravi per la parte che interpretano. Virginia Marini n’è la prima attrice. La celebre artista fa battere il cuore di orgoglio ad ogni alessandrino, poiché essa è figlia di Alessandria, è vanto nostro, è nostra concittadina. Brama intrattenersi parlando il nostro dialetto che essa ricorda benissimo. Virginia Marini non ha la superbia che qualche volta riscontrasi nei grandi artisti. Essa non disdegna osservazioni, giudizii e perfino consigli. Essa non fa che studiare e studiare; ho constatato io stesso da un anno all’altro un miglioramento per parte sua nella rappresentazione di una stessa produzione poiché certe sfumature, certi atti, certe intonazioni di voce erano 69 Il vaudeville è una commedia musicale comica, tendenzialmente “grassa”, che nasce in
Francia e vi tiene banco per tutto l’Ottocento, tanto che i titoli pare fossero migliaia e gli autori almeno decine; fra loro svettano Scribe e Labiche, e con la “belle époque” arriva il più celebrato: Georges Feydeau. In Italia questo genere ha successo ma diventando una farsa piena di imprevisti e di equivoci, senza musiche e senza satira, e sarà di preferenza chiamato “pochade”. 70 In “L’Avvisatore Alessandrino”, a.XXXIII, n°108, 10.09.1885 [BCAL]. 71 Sta per gruppo scelto. È termine da linguaggio nobile.
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migliori, più finiti con immenso guadagno pel lavoro rappresentato. Eppure essa è mai contenta di sé: il suo motto nell’arte è: excelsior»72. La compagnia inizia con “Fernanda” del solito Sardou. Il successo è immediato: i palchi sono “abbelliti dai più bei fiori del mondo femminino aristocratico e borghese”, e nella platea “spicca la popolana, nella elegante semplicità della festiva toletta”. Il pubblico riconosce di trovarsi davanti ad un ottimo ensemble, ad una perfetta creazione d’insieme. C’è Claudio Leigheb (il “principe dei brillanti” cui la Città regala una corona d’alloro), Vestri, Vitaliani, e anche Gattinelli (il cognato di Virginia). Vengono ammirate la ricchezza della messa in scena, l’eleganza dei costumi e la loro esattezza storica, e soprattutto la naturalezza della recitazione, senza alcun effettismo eppure appassionata. Anche gli Alessandrini sono incamminati verso il verismo di fine secolo. La compagnia presenta la famosa commedia “I mariti” di Torelli e non dimentica Goldoni; con “La serva amorosa” il pubblico si rende conto di quanto Virginia sia brava anche nei toni leggeri. E finalmente viene fissata per il 26 settembre la beneficiata in cui Virginia interpreterà La signora dalle camelie. «Splendida oltre ogni dire riescì sabato la serata della Marini: platea e galleria rigurgitavano di spettatori: i palchi73 tutti pieni: nelle sedie e nelle poltrone i posti erano tutti occupati: si calcolano a tre mila le persone accorse: il sesso femminino era largamente e brillantemente rappresentato. Più sincera, più affettuosa dimostrazione d’affetto non poteva attendersi la grande attrice dai suoi concittadini. Poesie, fiori, doni di valore se ne ebbe a bizzeffe: gli applausi furono unanimi, vivissimi»74. Il giornale, che aveva approntato una “diligente rivista”75 della serata, non manca altresì di «riprodurre due sonetti che vennero sabato sera distribuiti in teatro: l’uno, del signor Giuseppe Pittaluga, il vecchio bardo alessandrino, il poeta del ’48, uno dei pochi di quell’epoca di santi entusiasmi, che hanno serbato inalterato il carattere e intatti i sentimenti libe72 73 74 75
CORSI 1885. Presumo che il cronista si riferisca alle ampie zone di galleria. In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXIII, n°116, 28.09.1885 [BCAL]. Al di là del significato militare (passare in rassegna) e teatrale (spettacolo di varietà con musica), giornalisticamente questo termine -prima di riferirsi ai periodici illustrati- indicava l’atto del “rileggere” un libro o una serata, cioè la recensione, la critica. Così come “appendice” (e “appendicista” il suo autore) era lo scritto che sui giornali, a fondo della prima o di altre pagine, si occupava di materie letterarie o artistiche o di puro diletto.
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rali: l’altro, in vernacolo, del nostro operaio Panizza»76. Evidentemente la collocazione al Gra ha generato un clima diverso in questa seconda apparizione di Virginia, artista di successo che vive il ricordo delle proprie origini modeste consapevolmente e affettuosamente. Aveva deciso di devolvere in beneficenza una parte della sua quota di seratante ed eccola inviare, appena ripartita, al rappresentante del Comitato competente la 76 Ecco la coppia di sonetti:
SONETTO Donna sublime, sul sentier dell’arte Tu cogli tanti plausi e tanti fiori Che dagli occhi rapiti in ammirarte Mille a te chiami entusiasti ardori. Della magica scena in ogni parte Cresce l’incanto tuo gioie e splendori, Mentre più grande e più diletta afarte Fervonti intorno delle grazie i cori. Alla terra, che a te diede la cuna, Sacrasti ognor la mente ed il pensiero, L’intelletto, l’amor e la fortuna. Nel gesto sempre maestosa e bella, Educata la voce al grande e al vero, A ridir tue virtù non v’ha favella. SOUNET CON RA COVA Credmi, Virginia, al dich propri da bon, Quand che an teatr’at sent a recitè, A prov an drenta d’mei certe emoussion Che con paroli iss porou nent spieghè. Dar vôti ra me ment an confusion Am trasporta an tar nivri a meditè : Dar vôti oum vena r cor certi sciasson, Che bsò propri ch’a piansa… vua’ che affè! Ar fo’ santissim dl’arte, ra to ment L’ispira, e tei con ‘na parola soula T’agiti i cor, t’fai palpitè ra gent! Oh, Virginia Marini, tei tei coula Ch’a l’ha crisi ra gloria a tanc talent E ra to fama an tutta ar mond ra voula. E sat csè ch’oum consoula? A l’è che tei tei propri lisandreina, ou sang d’Gajoud ou scour an tra to veina. E ra to ment csì feina E out o gran genio, i disou ai fioi d’Adam Ch’ist l’è nent ar païs mac di salam! » In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXIII, n°116, 28.09.1885 [BCAL]. Il sonetto in vernacolo si trova anche in Ascal nella forma di volantino da distribuire in teatro, con l’intestazione: A Virginia Marini per la sua Beneficiata al Politeama Gra in Alessandria la sera del 26 settembre 1885. I suoi concittadini [Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini].
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somma di cento lire con un telegramma del 28 settembre: «Egregio Sig. Avvocato, Le mando il mio obolo per le Cucine Popolari d’Alessandria, deplorando di non poter fare di più»77. La Città coltiva un suo campanilismo teatrale. Il Gra mette in scena un dramma dell’avvocato locale Felice Bobbio, e ospita alcune recite dell’attore alessandrino Giuseppe Vassalli. Nella sua voglia di essere competitivo anche sul fronte lirico, il signor Gra lancia il giovane cantante alessandrino Migliara, figlio di un celebre buffo. Viene istituita una nuova Società Filodrammatica, presieduta dal già citato insegnante Crispino Iachino, “il Nestore dei filodrammatici alessandrini”; è la seconda, dopo che la prima era fallita per “intestini pettegolezzi”, e la si intitola a Virginia [si veda il capitolo delle “onoranze”]. Impettito, nel marzo 1886 “L’Avvisatore Alessandrino” dichiara: «La nostra Alessandria ha dato e dà un bel contingente alle scene. Senza badare al passato, oggi giorno abbiamo la Marini, gloria massima, nella drammatica, i tenori Gnone e Denegri, il buffo Bottero, la ballerina Zallio e la cantante Paissa»78. Nell’aprile 1886, mentre al Municipale torna Biagi, al Gra si suonano le trombe per il terzo ritorno di Virginia. Il capocomico è Giovanni Battista Marini, il direttore artistico è il grande attore Giovanni Emanuel. In compagnia ci sono anche due giovani di lusso: Virginia Reiter ed Ermete Zacconi. Arrivano da quattro mesi consecutivi di recite al Filodrammatici di Milano, di cui hanno “rialzato le sorti”. Ad Alessandria debuttano con “Odette” dell’immancabile Sardou; poi fanno “Messalina”, “Mercadet” di Balzac, alcuni testi di Felice Cavallotti. Per la sua beneficiata Emanuel fa “Il matrimonio di Figaro” di Beaumarchais; per la sua, fissata il 6 maggio, Virginia sceglie “Adriana Lecouvreur” di Scribe e Legouvé. Per celebrare in modo originale l’Artista, “L’Avvisatore Alessandrino” riporta un commento che il giornale “Arena” di Verona le aveva appena dedicato: «Nell’Adriana Lecouvreur, Virginia Marini trionfa di qualsiasi confronto e porta il suo nome all’altezza maggiore, che possa concedere l’arte. L’amore ardente, l’animo nobile, gli strazii, l’agonia e la morte dell’infelice amante dell’eroe di Fontenoy e del trattato di Aquisgrana ebbero, da parte della Marini, una così vera e potente interpretazione che Scribe e Legouvé, i quali scrissero il dramma per un’artista famosa, non avrebbero potuto desiderare di più, immaginare di meglio. 77 Generosa elargizione. In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXIII, n°117, 01.10.1885 [BCAL]. 78 In “L’Avvisatore Alessadrino”, a.XXXIV, n°26, 01.03.1886 [BCAL].
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Dalla prima all’ultima scena ebbe applausi, che non si descrivono. Una ovazione, se è possibile, anche maggiore scoppiò dopo la fine del dramma, dopo quella grande e terribile morte, che fece fremere la più gentile e la più tenera parte del pubblico. Tutti in piedi: applausi e grida interminabili, dalla platea, dagli scanni, dai palchi, dal loggione»79. Al Gra la scena si ripete. Al termine della serata del 6 maggio Virginia è “regalata di fiori, corone ed altri oggetti di valore”. Implacabilmente qualcuno ricorda come Virginia ami ancora parlare in dialetto. Altri liricamente intona che Virginia “patria e sesso / con l’ingegno e con la virtù / illustra e onora”. Le attività proseguono senza novità. La Filodrammatica diretta dal maestro Iachino dà una recita straordinaria al Municipale perché una sua attrice, Giuseppina Franco, è stata scritturata da una compagnia di Roma. Il Gra fa l’operetta, ma sempre alternando con compagnie equestri, acrobati, pantomime, persino un asino ammaestrato. Il Municipale presenta sei recite di “Sonnambula”, ma non può fare a meno di un “prestidigitatore ungherese” famoso per numeri come “la sparizione d’un cavallo” e “il tacchino misterioso”, oppure di un omaggio al M° Keller, capobanda del 73° fanteria. Gli spettatori diminuiscono, parecchi palchi sono “sempre vuoti”. Persino l’ennesimo concerto del tenore Denegri ottiene un pubblico “scelto” ed “elegantissimo” ma non numeroso. Gli spettatori sembrano stanchi di “quelle pochade dette diversamente operette”. Il Gra difende la prosa dei Dumas, dei Sardou, dei Cossa. Tutti vogliono il verismo ma il romanticismo ha ancora “pei pubblici, nessuno eccettuato, delle potenti attrattive”. “L’Avvisatore Alessandrino” del 30 gennaio 1888 decide di attaccare l’utilizzo della claque. «I claqueurs prezzolati cointeressati in un’impresa qualunque non vengono considerati bravi se non hanno eccellenti polmoni e non sanno conjugare alla perfezione il verbo “incensare”, e naturalmente a beneficio della cosa che val poco e dell’uomo che merita nulla»80. Ad agosto si annuncia che presto Virginia tornerà al Gra. “È la terza volta che la Marini viene al teatro popolare di via Trotti”. Di lei si dice somma artista e “donna virtuosa”. Ha sempre una prestigiosa compagnia di complesso: il Leigheb, il Reinach, il Vestri, Italia Vitaliani. Il marito è capocomico, Virginia è la direttrice artistica. Debutta con 79 In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXIV, n°55, 16.05.1886. V. anche n°49, 24.04.1886
[BCAL].
80 In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXVI, n°13, 30.01.1888 [BCAL].
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Fernanda di Sardou; poi una commedia “nuovissima” per Alessandria: Le donne nervose di Blum e Toché; poi un testo difficile: Lea di Cavallotti. Quest’ultimo spettacolo ha successo di pubblico ma lascia perplessità. “L’Avvisatore Alessandrino” dedica al testo, imperniato sul conflitto fra le leggi di natura e quelle sociali, un lungo articolo per concludere che Lea manca di «quella forma di verità che è la principale esigenza della scena e dell’arte stessa. Inutile il dire che l’esecuzione da parte della compagnia Marini è stata per ogni verso inappuntabile»81. Segue la serata d’onore del brillante Claudio Leigheb, che gli Alessandrini festeggiano alla grande. Il 20 dicembre 1888 è Virginia a dare la sua beneficiata, nella quale presenta un “nuovissimo scherzo comico” di Felice Cavallotti (probabilmente per riequilibrare la problematicità della Lea), il suo cavallo di battaglia goldoniano La serva amorosa e un pezzo di Paolo Ferrari. È un programma robusto, da vecchia volpe, che ottiene un esito “splendidissimo”. «Platea, gallerie, sedie stipate: non un posto vuoto. La nostra egregia concittadina s’ebbe un’accoglienza tale impossibile a descriversi. Fiori, versi, corone, epigrafi vennero a lei regalati in abbondanza. È stata una sera di vero entusiasmo per il nostro pubblico, che vanta, e con ragione, nella Virginia Marini una gloria dell’arte drammatica»82. Puntualmente anche da Torino si sottolinea l’avvenimento: «Si rappresentò prima “Lettere d’amore” del Cavallotti. Lo scherzo comico dell’illustre poeta, grazie pure all’inappuntabile esecuzione, incontrò l’approvazione del pubblico. In seguito, preceduta da un bel prologo in versi martelliani di Paolo Ferrari, si rappresentò la nota e riuscitissima commedia del Goldoni “La serva amorosa”. La parte di Corallina non poteva essere dalla Marini interpretata con maggior brio, con maggior grazia, con maggiore abilità artistica. Noto pure la decorosa messa in scena e i costumi veneti dell’epoca scrupolosamente osservati»83. Durante la serata venne distribuita una epigrafe scritta dal solerte cav. Luigi Ferrari, nella quale -come si è già ricordato più sopra- vengono rivelate le esperienze teatrali di Virginia fanciulla, “direttrice” di una compagnia fatta di compagne di scuola. L’anno dopo, Luigi Ferrari raccoglie le sue chicche sull’infanzia di Virginia nelle pagine de “Il marchese Colombi”84, ma lo fa per intro81 82 83 84
In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXVI, n°146, 17.12.1888 [BCAL]. In “L’Avvisatore alessandrino”, a.XXXVI, n°148, 22.12.1888 [BCAL]. “Gazzetta piemontese”, 24.12.1888 [ALST]. FERRARI 1889.
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durre la riproduzione di un articolo che lo scrittore piacentino Francesco Giarelli aveva da poco dedicato a Virginia sulle pagine de “La scena illustrata”. Questi, con il suo linguaggio barocco e narcisistico, conia una definizione della osannata voce di Virginia che sarà ripresa da tanti commentatori per decenni, e senza l’ironia che potrebbe meritare: “flauto in selva”. Pur con i suoi modi paludati, il Giarelli consegna un ritratto di Virginia originale e interessante sul piano critico, che si conclude con un’immagine credibile ma severa di Virginia “eroina” in pubblico e “casalinga” in privato. Per lui Virginia «rappresenta la passione nell’eptacordo85 in cui la Pezzana rappresentò la maestà, la Tessero i nervi, e la Pia Marchi il capriccio. Quanto a me -ripeto- essa è la mia favorita. Perché è la meno attrice di tutte. Perché è la più semplice. Perché è la meno artificiale. Perché è una creatura alla buona. Perché non fa i passi tragici. Perché non abbozza la più piccola contorsione. Perché le sono sconosciute le leziosaggini. Perché è aristocratica senza essere altera. È altera senza esser orgogliosa. È orgogliosa senz’essere superba. Perché si veste bene senza mettersi in parata. Perché piange colla voce e mica di testa. Perché singhiozza di petto e mica di falsetto. Perché la sua voce è un flauto in selva, una piuma di paradisea, un profumo di gelsomino. Perché alla centesima della Signora dalle camelie essa si sente distruggere come alla prima recita. Perché essa intende sempre ciò che dice, e sente sempre ciò che intende. Perché essa non geme sulla scena facendo boccucce e sberleffi alle quinte o in quinta. Perché essa non sdrucciolò mai in quello skating-ring della vera virtù senza pose, che è il palcoscenico. Quest’attrice parmi fatta di una pasta di diamante. Raffina, purifica e fa scintillare tutto quanto avvicina. Non nego che ciò possa, in qualche ruolo, parere una debolezza dal punto di vista della verità. Ma il compenso c’è nello sviluppo di una corrente simpatica vieppiù irresistibile. La Pezzana sapeva essere viragine. La Tessero aveva talvolta la flessuosità dell’ofidio. Virginia Marini ha invece il sopravvento nelle parti di virtuosa. Mica da credere che, se lo vuole, non sappia sfoderare gli unghioni della tigre e sminuzzare una schidiata di cuori86. Ma tant’è. Svanito l’impeto, l’eroina torna casalinga»87. Alcuni parlano di una quinta apparizione di Virginia sul palcoscenico della Città. Nel libro di Scaglia l’amico e fan fedelissimo Carlo 85 Strumento a sette corde – Scala musicale di sette toni. 86 Viragine: equivalente a virago. Ofidio: serpente velenoso. Schidiata: una “infilzata”. 87 FERRARI 1889.
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Moro dice che vi recitò un ultima volta nel 189288. Angiolini lo conferma: «Nel settembre 1892, poco prima di lasciare le scene, la Marini recitò nuovamente in Alessandria, sempre al vecchio Gra, ed ogni volta si ripeterno le manifestazioni di entusiasmo, i festeggiamenti, le odi e le epigrafi che stampate su foglietti volanti venivano lanciati dal loggione, in quei tempi frequentatissimo, al pubblico plaudente»89. Nel 1909 era uscito un numero unico dedicato alla riapertura del Municipale90, dopo l’ennesima ristrutturazione, in cui si citava una recita alessandrina di Virginia nel 1894, che lascia perplessi, anche perché lo scritto cita anche una recita di Bellotti Bon che sarebbe avvenuta nello stesso anno, mentre questo sfortunato artista morì suicida nel 1883. Inoltre, proprio nel 1894 Virginia si ritira definitivamente dalle scene e si isola nella “sua” Roma. Ma tutte le “Alessandrie” successive: la regia, la fascista e la democratica, non la dimenticano.
88 SCAGLIA 1929, pgg. 34 e 80. 89 ANGIOLINI 1947, pg.93. 90 Cfr. Il Teatro Municipale, numero unico, Alessandria, marzo 1909, in Ascal, Serie IV, 3758.
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Kursaal Teatro Virginia Marini di Alessandria: veduta complessiva e particolare della sala
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I.3 Onoranze concittadine
Al passaggio di secolo le vicende degli spazi teatrali alessandrini sono assai mosse. Nel 1902 il Gra, dopo un ventennio di apprezzata attività, viene distrutto da un incendio, proprio come il gemello Bellana. Sulla base dell’esperienza di questi due teatri, già negli ultimi anni dell’Ottocento si era ipotizzata la costruzione di un nuovo grande politeama in piazza Garibaldi; un progetto, presentato dall’avvocato Carlo Astori, di taglio monumentale, che prevedeva un manufatto imponente posto sul “quarto” lato del porticato di piazza Garibaldi, con un effetto che anche oggi sarebbe di notevole pregio architettonico e urbano. Un progetto che si infrange contro la prevedibile ostilità del Gra e soprattutto dei palchisti del Municipale. Ma l’esigenza generale resiste. Hanno un’idea analoga i fratelli Attilio, Arrigo e Dante Finzi, che inoltrano istanza al Comune per la concessione di un’area al fine di edificarvi un teatro popolare. Sono sempre i palchisti, che vedono minacciato il primato del Municipale e ne vogliono ottenere una radicale ristrutturazione, a mettere i bastoni fra le ruote. La famiglia Finzi cambia strada e compra direttamente 2.600 mq nella attuale piazza Vittorio Veneto dove, su progetto del geometra Giuseppe Barzizza, costruisce «un grandioso Teatro Popolare, della capacità di 2.500 posti a sedere, caratterizzato dalle mastodontiche dimensioni della platea (900 mq in tavolato di legno a componenti smontabili per ospitare, all’occorrenza, spettacoli equestri), che fu inaugurato nella stagione autunnale del 1903 (31 ottobre)»91. La serata di apertura fu affidata a Lohengrin, e questo fa pensare che il Finzi volesse in primo luogo ereditare il tipo di pubblico che frequentava il Gra appena distrutto e insieme attirare gli 91 CALORIO 1982b, pg.99.
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affezionati del Municipale; a seguire “Boheme”, poi operetta e circo. Il Finzi ha un successo altalenante, soprattutto perché è toccato da un’altra maledizione teatrale cittadina: la cattiva acustica. In ogni caso i proprietari, ai quali il Comune non riconosce alcun aiuto, devono ben presto rinunciare. Tuttavia il loro teatro proseguirà il suo destino di campione particolare dell’iniziativa privata e sociale. Nell’asta bandita nel maggio 1907, G. B. Borsalino lo acquista per 85.500 lire, lo ribattezza “Verdi”92 e si arrabatta fino all’inizio della Grande Guerra, quando il teatro viene requisito dall’autorità militare per farne un “magazzino sanitario”. Nel 1919 la Camera del Lavoro -per iniziativa di un romagnolo trapiantato: Carlo Zanzi- chiede di acquistare l’edificio, ovviamente degradato, per farne una Casa del Popolo. Il Comune stabilisce di concorrere a tale acquisto con un contributo di 50.000 lire, a condizione che la stessa Camera vi trasferisca il proprio ufficio di collocamento. Siamo in una breve ma appassionata stagione socialista di Alessandria. “L’Idea Nuova” del 5 aprile 1919 dichiara che il Verdi è stato comprato “per la massima parte dal proletariato”. Gli “azionisti” sono le società cooperative. Nasce uno spazio polivalente denominato “Casa e Teatro del Popolo”. Si fa festa: “I ballabili verranno eseguiti da scelti professori d’orchestra, componenti della Sezione di Alessandria della Federazione Orchestre Italiane, aderenti alla Camera del Lavoro”. La stessa “Idea” pubblica i verbali delle riunioni per la conduzione della Casa-Teatro. È ancora Lohengrin ad inaugurare, l’11 marzo 1920, il nuovo corso del Finzi-Verdi-del Popolo, «per l’elevazione morale e intellettuale del proletariato»93. Nel successivo luglio c’è un evento culturale straordinario. Al Teatro del Popolo il maestro Arturo Toscanini dirige un’orchestra di 93 elementi. Il concerto costa 12.000 lire e il Comune vi concorre per 4.00094. Questa bella pagina, scritta da un’Alessandria “rivoluzionaria” a un secolo dai moti del 1821, viene stracciata dalla violenza fascista, che con i suoi fanatici semidistrugge il teatro all’inizio dell’agosto 1922. Tornando ai primi anni del Novecento, i palchisti, coerenti con l’idea che una forte “riforma” del Municipale sarebbe bastata a soddisfare le esigenze teatrali della Città, si assumono la responsabilità, da comproprietari quali sono, di presentare al Comune un progetto 92 Cfr. “L’Avvisatore della Provincia”, a.LV, n°32, 10.08.1907 [BCAL]. 93 Cfr. Il Lohengrin di Riccardo Wagner al Teatro del Popolo, numero unico a cura della Casa-
Teatro del Popolo, 10.03.1920 [BCAL, Inv.5894, Misc.B.71.13].
94 Cfr. Deliberazioni Giunta Comunale 1920, secondo semestre, Ascal, Serie IV, 160.
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dell’ingegner Vandone di Torino. Nel 1907 il Comune affida l’esame tecnico del progetto all’ingegner M. Foa, nella cui relazione, che viene pubblicata95, si afferma che la riforma ipotizzata dai palchisti è sensibilmente migliorativa rispetto a quella attuata nel 1854 e comporta un “minimo sacrifizio da parte delle finanze comunali”. La capienza passerebbe da 1.000 a circa 1.600 spettatori, in particolare con la creazione di una capace galleria che favorirebbe l’accesso delle classi meno abbienti. Si tratta di numeri congrui perché, scrive Foa, “ancora oggi l’affluenza al teatro non è eccessiva” e inoltre -pensando al terzo soggetto tenuto a rischiare: l’impresario- una media di mille “persone è più che bastante a compensare un corso di rappresentazioni non sussidiato anche di primaria compagnia”. Nei teatri di grandi dimensioni “è difficile soddisfare alle condizioni più favorevoli per acustica e per ottica; il riscaldamento e l’illuminazione sono assai più costosi ed anche vi si provvede con maggiore difficoltà. Il risultato finanziario medio dell’annata non è mai troppo soddisfacente, sì che buona parte dell’anno devono rimanere chiusi”. Secondo Foa quindi non bisogna aspirare a edifici enormi, anche perché il Comune non soltanto deve tener conto delle sue quote di costo per tasse, assicurazioni, custodia, manutenzione, etc, ma anche del fatto che dare un sussidio pubblico agli impresari è pressoché indispensabile al buon esito delle stagioni, in particolare quelle liriche. Foa riafferma il suo parere favorevole concludendo che il progetto dei palchisti porta al Municipale “i seguenti vantaggi: 1. Maggiore capienza di spettatori. 2. Aumento sensibile nel numero dei posti e nelle comodità per la classe meno abbiente. 3. Sicurezza personale secondo le norme di legge. 4. Disponibilità esclusiva di un teatro a favore dell’Amministrazione Comunale in qualsiasi evenienza (riunioni, conferenze, ecc. ecc.). 5. Conservazione di un teatro con pregi artistici notevoli in località che sarà sempre centralissima e mezzo per limitare i prezzi degli spettacoli in altri teatri”. Il Municipale, il “Massimo” caro agli Alessandrini, riapre i battenti nel marzo 190996, dopo qualche anno di chiusura, con La gioconda di Ponchielli. Due anni prima era incominciata un’altra vicenda degli edifici teatrali alessandrini, tutta sotto il nome di Virginia. Avvenuto il ritiro dalle scene e accettato cristianamente un certo inevitabile oblio da parte del “mondo”, Virginia aveva intrapreso 95 FOA M., La Questione della Riforma del Teatro Municipale, in “L’Avvisatore della Provin-
cia”, a. LV, n°7, 16.02.1907 [BCAL].
96 Cfr. Il Teatro Municipale, numero unico, Alessandria, marzo 1909, in Ascal, Serie IV, 3758.
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quell’attività di insegnamento dell’arte attorica che svolgerà fino alla morte, nella cornice di una vita privata modesta e molto appartata, assistita da poche amiche, dalla sorella Anna e dal cognato Gattinelli. Dilapidati i guadagni in imprese capocomicali un po’ sfortunate un po’ malcondotte, la docenza all’Accademia Santa Cecilia non era stata un esilio ma una nuova, gratificante missione artistica e insieme un rifugio umanamente caldo. Questo “ritiro” naturalmente vale anche per i rapporti con Alessandria, ma la Città non se ne adonta, anzi. Nel 1903 (Virginia ha sessantun anni) la Società di Storia per la Provincia di Alessandria la celebra fra le “donne illustri alessandrine” con una già citata orazione del professor Amilcare Bossola, che si compiace di pescare curiosità dal proprio baule aneddotico: «Nella sua patria la Marini venne a recitare nella prima quindicina del 1877. Il nostro Municipale non fu mai così pieno di spettatori come quando la Marini diede la sua serata d’onore. Alla fine del secondo atto, tra i doni presentati all’esimia attrice, spiccava la bellissima corona d’argento che il Municipio le aveva decretato. La Marini prese la corona, la mirò sorridendo, e poi se ne cinse la folta chioma. Il pubblico allora si levò commosso in piedi battendo fragorosamente le mani e gridando: Viva la Marini! L’ovazione durò parecchio tempo, ma quando si alzò il telone per il terz’atto, e la Marini comparve su la scena col capo cinto della corona, l’entusiasmo del pubblico raggiunse veramente il delirio»97. La fama locale è quindi immutata e propizia a che, qualche anno dopo, l’imprenditore Carlo Fava avanzi la proposta di dedicare una nuova arena a Virginia. Siamo nel 1906: il Municipale è chiuso per ristrutturazione e il Finzi, aperto da tre anni, è l’unico teatro funzionante. Abbondano le manifestazioni d’arte varia, soprattutto in piazza Garibaldi, che tuttavia è ormai destinata a zona residenziale della buona borghesia. Fava, che nella piazza aveva rilevato l’arena Verdi, si vede costretto a spostarsi verso il cavalcavia, lungo l’attuale via Savona, e per questo chiede e ottiene una concessione di utilizzo di suolo pubblico “per il teatro estivo Virginia Marini”98. La notizia corre sulle gazzette99. “L’Idea” annuncia la prossima inaugurazione di un politeama «intitolato al nome della grande attrice, concittadina nostra Virginia Marini, costruito dal signor Carlo Fava, nei Giardini in prossimità dei Bagni Pubblici». È una costruzione in legno, bruttina, ma pare che 97 BOSSOLA 1903, pg.33. 98 Cfr. Deliberazioni Giunta Municipale 1919, secondo semestre, Ascal, Serie IV, 158. 99 Anche a Torino. Cfr. “Gazzetta piemontese”, 05.09.1907 [ALST].
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«all’interno l’ambiente si presenti assai simpatico»100. Anche “L’Osservatore” annuncia l’apertura del Politeama, nei pressi di villa Pezzi101. Finalmente, l’8 maggio 1907 si debutta; poltrone: £ 5 - sedie: £ 3 - galleria: £ 1,50 – platea: £ 1 – ingresso ai box: £ 1,50. «Tenuto conto della precarietà della concessione del suolo pubblico, fatta all’Impresa dal municipio, per cui questa dovette studiarsi di ridurre al minimum possibile la spesa, tuttavia l’ambiente si presenta bene malgrado non sia assolutamente scevro di difetti. Capace di 1300 persone circa ha una platea occupata da 100 poltrone, da 100 sedie, da panche e da 4 palchi di proscenio ed una galleria con 8 box. Il palco scenico si presenta bene, quantunque deficiente per le numerose riunioni di artisti ma queste avvengono rare volte»102. Virginia non se la sente né di affrontare il viaggio da Roma né di interrompere le lezioni all’Accademia Santa Cecilia, come confessava ad un intervistatore negli stessi giorni103. Ma la serata inaugurale è ugualmente un trionfo. A dare grande prestigio artistico è la presenza di Ermete Zacconi, il quale scrive a Virginia un telegramma: “Lieto orgoglioso essere stato prescelto inaugurare nuovo Politeama dedicato vostro glorioso nome invio a voi illustre artista nobile dama riverenti omaggi affettuosi saluti”. Le cronache sono entusiaste e dettagliate. La stampa conferma che questo politeama nasce come arena lignea coperta, eleggendo la zona dei Giardini orientata verso il cavalcavia come adatta all’attività spettacolare di taglio popolare, pur ancora prevalentemente legata al periodo estivo. Tale zona, nelle adiacenze dell’attuale via Savona, diventerà la locazione teatrale tipica fino ai giorni nostri. «Il teatro si compone di una vasta platea ed una grande galleria. Semplice, senza eccessive pretese, è riuscito armonico nelle sue proporzioni: elegante, ben addobbato, molto ventilato e splendidamente illuminato diverrà indubbiamente il ritrovo estivo della città. Un pubblico enorme, elegantissimo gremiva tutti i posti. L’elemento femminile, nelle insolitamente numerose file di poltrone e sedie, in platea, in galleria, predominava in chiare e festose toilettes. Poche volte il teatro alessandrino, anche nelle sue più splendide serate di gala, ha raggruppato tanta bellezza e tanta grazia muliebre. Era una vera festa della giovinezza e dell’eleganza; e la sala, sotto la copiosa luce elettri100 In “L’Idea Nuova”, Giornale Socialista, a.XI, n°521, 27.04.1907 [BCAL]. 101 In “L’Osservatore”, Giornale Democratico Indipendente, n°17, 27.04.1907 [BCAL]. 102 In “L’Osservatore”, Giornale Democratico Indipendente, n°19, 11.05.1907 [BCAL]. 103 Cfr. nota n°3.
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ca, screziata delle più deliziose tinte aveva l’aspetto di un colossale, maraviglioso mazzo di fiori. Alle ore nove precise si alza la tela e alla ribalta si avanza il giovane avvocato Jacopo Turola, il quale esordisce con una invocazione a Virginia Marini nel cui nome il nuovo Teatro si schiude e ricorda con rapidi, vigorosi tratti il carattere della sua arte che fu traduzione schietta e sentita del vero»104. Virginia ringrazia il giovane avvocato con una letterina larmoyante del 15 maggio 1907: “Sono rimasta commossa per la bella festa che ha rallegrato gli ultimi anni della mia vita”. “L’Avvisatore della Provincia” dedica alla serata uno speciale supplemento, dove si riassumono le virtù della nostra primadonna: voce incomparabile; recitazione appassionata ma senza “leziosaggini”; migliore interprete dei testi di Pietro Cossa; “fulgido ornamento” della Compagnia Nazionale di Paolo Ferrari; ora amatissima insegnante di giovani artisti. E non si dimentichi la capocomica che entusiasmò le platee “lanciando” Ermete Zacconi, che oggi è ad Alessandria per Lei. «È unicamente per un atto di sovrana cortesia verso la Virginia Marini a cui lo legano vivi sentimenti di rispetto e di ammirazione e verso il pubblico alessandrino, che lo ha sempre bene accolto (sono sue parole) che Egli si è indotto ad accettare di inaugurare il nuovo Politeama le cui modeste proporzioni non potevano certo ambire l’onore di ospitare l’arte grande del Zacconi ormai accaparrata agli aristocratici ambienti della plutocrazia mondiale»105. La sera dell’inaugurazione il mattatore offre un inedito: Il nuovo idolo, che il programma definisce “capolavoro in tre atti di P. Courel”. Si tratta di un dramma a tesi (“un genere molto fino”), che pare piacesse a S.M. la Regina Margherita, in cui il protagonista, interpretato magistralmente da Zacconi, “affronta l’eterno conflitto tra la scienza e la fede”. La critica alessandrina la giudica un’opera “sincera”, che fa “meditare”; il pubblico, intimidito dal mattatore, acclama perplesso, ma l’indomani Zacconi soddisfa tutti con un suo cavallo di battaglia: Il cardinale Lambertini. «La sua espressione interpretativa raggiunge tali altezze che per il momento il pubblico scorda la finzione scenica e vive la vita reale del personaggio ch’egli sempre fedelmente incarna»106. A seguire, il Politeama Virginia Marini presenta la compagnia 104 In “L’Avvisatore della Provincia”, a.LV, n°19, 11.05.1907 [BCAL]. 105 In “L’Avvisatore della Provincia”, supplemento al n°18/1907, in Ascal, serie I, n°806, fa-
scicolo n°4: Virginia Marini.
106 In “L’Idea Nuova”, Giornale Socialista, a.XI, n°523, 11.05.1907 [BCAL].
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drammatica di Mario Fumagalli con Teresa Franchini, poi la primaria compagnia di operette di G. Magnani. L’operetta è sempre gradita: nel settembre 1909 il Politeama ospita la cantante-soubrette Gea della Garisenda, celebre “vedova allegra” (che più avanti conquisterà il cuore di Teresio Borsalino)107. Nel settembre 1912 si segnala il grande attore goldoniano Emilio Zago. Intanto, il gusto delle proiezioni si era radicato in Alessandria. Il Politeama Virginia Marini, già all’inizio della propria attività, ospita il «ben nomato Cinematografo Pettini, che dispone di un permanente a Milano, quello della Sala Edison, e di sei riparti viaggianti. [Ad Alessandria] Pettini riserva due grandi novità: la cinematografia dello stabilimento Giuseppe Borsalino e frat. eseguita per gentile concessione del cav. Teresio e comprendente diverse lavorazioni e l’uscita degli operai dallo stabilimento e la cinematografia autentica, unica finora eseguita dal vero, della battaglia di Casa Blanca al Marocco»108. Il cinematografo sta per diventare una lucrosa attività commerciale. Negli anni Dieci del Novecento nella Città sono già attivi vari locali, fra cui il Moderno e il Politeama Alessandrino, cinema-teatri che faranno la storia del genere filmico in Alessandria, anche grazie a “dinastie” di appassionati imprenditori come quella fondata dai fratelli Lorenzo e Carlo Passaggio. Nel 1918 persino l’impresario del Municipale, sempre in sofferenza, chiederà di fare proiezioni; su questo il Comune prende una posizione chiara, affermando che il teatro civico non deve “guadagnare” in quanto costituisce “un bene di uso pubblico”, e ammettendo che gli spettacoli necessitano di un congruo contributo pubblico (“dote”) annuale. Pertanto il Comune rifiuta la proposta perché ritiene “non conveniente destinare il teatro [Municipale] a spettacoli cinematografici, ai quali, d’altra parte, non è adatto”109. Gli amministratori dei successivi anni Settanta la penseranno diversamente. Dal 1912 riprende il tormentone della “necessità” di un nuovo, vero teatro, da affiancare al Municipale e al Verdi. Le reazioni più negative sono quelle dei commercianti che, accampando la scusa che l’edificio guasterebbe la bellezza dei Giardini, in realtà temono la creazione di altri esercizi. La Giunta rifiuta i progetti, ma non si chiude alla eventualità che in quel luogo venga aperto un teatro “stabile”, cioè in mu107 In “L’Idea Nuova”, Settimanale Socialista, a.XIII, n°645, 22.08.1909 [BCAL]. 108 In “L’Avvisatore della Provincia”, a. LV, n°37, 14.09.1907 [BCAL]. 109 Cfr. Ascal, Serie IV, Deliberazioni Giunta Municipale 1918, n°155: primo semestre e
n°156: secondo semestre.
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ratura. Nel 1914 il Comune concede ad un incaricato del Fava, Mario Pedemonte, “l’affittamento per trent’anni di parte del sedime di piazza Carlo Alberto e di parte dei Giardini Vochieri allo scopo di costruirvi un kursaal per pubblici spettacoli e trattenimenti e un [sic] Chalet ad uso Caffè”. Ma durante la guerra ciò che era già stato costruito viene requisito dall’autorità militare e quindi non sfruttato dal concessionario, il quale rivendica il danno subìto; in ragione di ciò il Comune stabilisce che il trentennio decorrerà dal 2 dicembre 1919 al 31 dicembre 1949; a tale scadenza “le erette costruzioni sarebbero cadute in libera ed assoluta proprietà del Comune”; inoltre il gestore deve provvedere a completare la costruzione comprese le cancellate esterne, a stipulare la polizza antincendio e a versare al Comune una cauzione “incamerabile” a titolo di penale110. Gli oneri sono molto pesanti. Il Politeama Marini, le cui attività si chiudono nel 1917, era stato acquistato dall’imprenditore Luigi Lavagetto per abbatterlo e rifarlo. Continua a non mancare chi considera la zona inadatta ad una attività annuale continuativa, per la sua vicinanza al canale e per la sua lontananza dal centro. Inoltre il Municipale e il Verdi (ex Finzi) paiono a molti del tutto sufficienti per Alessandria. Ma Lavagetto prosegue, affidando il lavoro al geometra Barzizza che pur non aveva brillato, almeno per l’acustica, nella edificazione del Finzi. Si aprirà il 3 aprile 1920, con uno spettacolo di operetta111, contemporaneamente alla nascita della brevissima, gloriosa esperienza del Teatro del Popolo (ex Finzi-Verdi). Il nuovo Marini è «un teatro con chalet, in stile liberty, dalla struttura gradevole ed elegante, il cui ricordo è ancora vivo nella memoria degli alessandrini. Gli sta accanto, sul lato destro, il kursaal, un grazioso fabbricato, sempre in stile liberty, con alte finestre sui quattro lati e, all’interno, un elegante e vasto salone, con bar, dove si può ballare, tenere rinfreschi, gustare ”l’aperitivo musicale”»112. Nel frattempo si era creata una triste motivazione per re-intitolare il teatro alla nostra grande attrice: Virginia era morta il 13 marzo 1918 nella sua abitazione romana. Nel ricordo della sua più celebrata dote 110 Cfr. Deliberazioni Giunta Municipale gennaio/luglio 1922, dell. n°324 e n°464, Ascal,
Serie IV, 163.
111 La notizia arriva subito a Torino: «Si è inaugurato il kursaal “Virginia Marini”. L’elegante
teatro eretto ai giardini pubblici in onore della compianta e grande artista cittadina. Ha debuttato la compagnia d’operette Emma Vecta, che è stata molto applaudita. Assistevano tutte le autorità locali», in “La Stampa”, 05.04.1920 [ALST]. 112 Per le vicende del Politeama V.M. e del Kursaal-Teatro V.M. cfr. BASSI 2009, pgg.139/148.
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artistica, la voce, Renato Simoni scrive: “Sulla tomba di Virginia Marini non si dovrebbero incidere parole fredde di lode, ma un nome, e su quel nome si dovrebbe scolpire un’arpa”. “La Stampa” commemora così: «La scomparsa della grande attrice Virginia Marini ha destato in Alessandria, ove ebbe i suoi umili natali, un senso di vivo dolore. Appena appresa la dolorosa notizia il sindaco Ernesto Pistoia, che ebbe colla defunta relazioni di amicizia, ha fatto pervenire alla famiglia dell’estinta, il seguente nobile telegramma: “Scompare la dolcissima figura della nostra concittadina più amata e rimpianta; perde l’Arte drammatica la più fulgida gloria italiana: resta a retaggio di noi italiani e cittadini di Alessandria, il conforto del suo grande nome che non si spegne. Alessandria piange l’attimo doloroso e si conforta del ricordo che sarà immortale”»113. Ringrazia il Sindaco, con una lettera114 del 16 marzo 1918, Angelo Gattinelli, cognato di Virginia e anch’egli insegnante di recitazione a Santa Cecilia. Esiste una lettera autografa dell’ingegner Lorenzo Mina del 20 maggio 1918 che propone di pubblicare sulla locale Rivista di Storia una monografia su Virginia alla luce di “intime e rarissime notizie” che Gattinelli sembrerebbe avergli fatto avere. Ma negli annali della rivista non risulta115; probabilmente questi materiali confluiscono nel libro che Riccardo Scaglia curerà dieci anni dopo. Il Kursaal-Teatro Virginia Marini è “veramente simpatico e moderno. Costruito a tribune, con pochi boxes, luminoso e sonoro, elegantissimo negli arredi, esso offre comodità e lusso a un prezzo relativamente mite”116. A pochi mesi dall’apertura, il 12 luglio 1920, si organizza una serata di commemorazione dell’illustre concittadina. «Parte dell’incasso sarà devoluto al Comune come primo fondo di una lapide da collocarsi nella casa ove nacque Virginia Marini, in Via Bergamo, 25»117. Oratore ufficiale è l’attore cav. Cesarino Dondini, per anni vice di Virginia e poi suo successore nella direzione della Scuola di recitazione di Santa Cecilia in Roma. Dondini, che in un biglietto al Sindaco di Alessandria afferma che i grandi attori dell’Ottocento sono stati dei “grandi italiani”, traccia un ritratto solenne dell’Attrice e insieme un ricordo affettuoso della Donna. 113 L’impressione nella città natale, in “La Stampa”, 16.03.1918, Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4:
Virginia Marini.
114 Conservata in originale presso Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini. 115 Cfr. De Feo Claudia – Ratti Guido, Indice centenario – La Rivista di Storia, Arte e Archeologia
dal 1892 al 1999, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2001 [BCAL].
116 In “L’Idea Nuova”, Settimanale socialista, a.XXIV, n°1202, 10.04.1920 [BCAL]. 117 In “L’Idea Nuova”, Settimanale socialista, a.XXIV, n°1214, 10.07.1920 [BCAL].
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«Qui, in questo stesso luogo, dove già sorse un teatro intitolato alla vostra illustre concittadina, ecco sorgere nuovamente un Teatro intitolato a Virginia Marini. L’insistenza, suggerita da ragioni di omaggio doveroso, è prova di quanto nella mente dei cittadini sia la convinzione che così facendo, non solo alla grande Donna va il lustro e il decoro ma, di riflesso, anche alla Città. La fama che s’ebbe fu quale all’arte sua era dovuta, e se si pensi che le erano compagne e rivali sulla scena la Ristori, la Pezzana, la Tessero, la Duse, la Giagnoni, la Marchi, la ammirazione di chi ebbe la ventura di udirla e di chi non l’ebbe, deve accrescersi nel ricordo di quella meravigliosa rifioritura di attrici italiane che per tanti anni dettero al nostro Teatro la fiamma più bella dell’Arte, quella della loro splendente femminilità. Virginia Marini, a Madrid, raccoglie dal Conte Greppi nostro ambasciatore colà, queste testuali parole: “Ella ha saputo col prestigio della sua arte tenere alto il nome italiano in terra straniera: onore a lei!”. Ricordatela, dunque, cittadini questa vostra Donna e fate che non cada troppo presto dalla memoria di questa città il nome di Lei, ed ammirando l’artista non dimenticate la gentilezza del suo animo eletto. Fu sempre amata dai colleghi che ne riverivano le virtù famigliari non meno di quelle artistiche, e quando ebbe una sua compagnia, le abitudini più amichevoli le affratellarono i suoi attori: erano doni che ad ogni onomastico ella faceva loro; erano banchetti fraterni cui convitava tutti a fine di ogni anno, e per qualche ricorrenza solenne; erano i bambini tutti dei compagni ch’Ella raccoglieva a mensa e ch’Ella stessa serviva con affettuosissima, esemplare umiltà»118. Nel 1922 scoppia una polemica sulla lapide promessa e mai arrivata. Sul periodico nazionale “L’arte drammatica” ci si chiede perché il Sindaco di Alessandria non voglia onorare la memoria di Virginia Marini apponendo una lapide. In un attimo, tutto il teatro italiano parla del caso, di cui si era reso protagonista Mario De Giorgis119, 118 DONDINI 1920. 119 «De Giorgis Mario. Alessandria 1878 – Novara 1955. Impresario teatrale. Dopo aver
frequentato la Facoltà di Giurisprudenza a Torino, senza tuttavia conseguire la laurea, si impiega come dipendente comunale. Dopo il ritiro in pensione, avvenuto in giovane età, si inserisce nel mondo dello spettacolo diventando dapprima impresario e poi direttore del Municipale di Alessandria. La sua passione, il senso degli affari e dello spettacolo, l’astuzia e le solide amicizie nel mondo della rivista, della prosa e della lirica gli permettono di portare il teatro alessandrino a fama e autorità nazionali. Negli anni Trenta crea il Teatro Lirico sperimentale, il primo in assoluto, che ebbe subito risonanza mondiale. Ogni anno venivano selezionate ad Acqui Terme voci nuove per le quali poi si allestivano gli spettacoli al teatro Municipale. Il Teatro Lirico decretò il successo di cantanti quali
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impresario del Kursaal Marini, più volte gestore del Municipale e da tempo eminenza grigia della vita teatrale alessandrina. Questi, al momento dell’inaugurazione del Kursaal, aveva donato 100 lire al Comune perché provvedesse a collocare la famosa lapide sulla casa natale di Virginia. Nell’aprile 1922 torna alla carica, dicendo che vorrebbe cogliere l’occasione della presenza di Maria Melato ad Alessandria per affidare all’illustre attrice il compito di madrina dell’inaugurazione della lapide. Secondo la versione dell’impresario il Sindaco Torre, socialista (siamo alle ultime battute della Giunta rossa), risponde che il Comune restituirà al De Giorgis il suo obolo, e non fa cenno alcuno alla lapide. È uno scontro politico. Sono passati esattamente due anni dall’assalto fascista al Teatro del Popolo e manca poco alla “marcia su Roma”. Il Sindaco Torre non vuole certo che il De Giorgis, il quale sarà tra i primi a indossare la camicia nera, si prenda il merito di essere il più attivo nel celebrare la gloria locale Virginia Marini, perdipiù mettendoci ostentatamente quattrini suoi. Il Sindaco vuole ridarglieli e gli ricorda che il Comune ha già fatto il suo dovere nei confronti dell’Artista. Infatti, su incarico del Consiglio Comunale che aveva deciso di “consacrare” importanti vie cittadine ai nomi di Virginia Marini e di Angelo Morbelli, con deliberazione n°238 del 12 febbraio 1921 la Giunta aveva stabilito che il nome di corso Regina Margherita fosse cambiato in “corso Virginia Marini”120; decisione revocata nel 1924 dalla commissione incaricata di revisionare la toponomastica, che decide di restituire al nome della Regina la parte alberata e di mantenere a quello di Virginia il tratto successivo fino a piazza Tanaro121. Per la lapide sulla casa sappiamo che occorrerà attendere il 1948 e l’iniziativa del Sindaco Nicola Basile122. Ad onor del vero, il De Giorgis non ritirò le sue 100 lire e pregò il Comune di devolverle a famiglie bisognose. L’avvento del periodo fascista non smorza il desiderio degli Alessandrini di celebrare Virginia che, anzi, si concretizza in un ampio programma con l’approssimarsi del decennale della morte (1928). Gino Bechi, Oltrabella, Tagliavini, Valdengo, Di Stefano e Stabile. De Giorgis fu anche presidente dell’Ente Provinciale Turismo e collaborò a testate quali “La Stampa” e il “Corriere della Sera”. Dopo la guerra, con l’aiuto di Antonio Ghiringhelli, sovrintendente e ricostruttore della Scala di Milano, fondò la rivista “Corriere del Teatro”», in ZOCCOLA 1990, pg.91. 120 Deliberazioni Giunta Municipale 1921, primo semestre, Ascal, Serie IV, 161. 121 Cfr. “La Stampa”, 01.02.1924 [ALST]. 122 BASILE 1982, pg.106.
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Il giovane pittore alessandrino Enrico Brondolo propone al Podestà, “sapendo che la nostra Pinacoteca non possiede alcun quadro dell’illustre concittadina”, l’acquisto di un ritratto di Virginia “ricavato da una fotografia che la raffigura negli anni del suo massimo splendore”. Il Comune accetta e il direttore del Museo Civico e Pinacoteca Viecha acquisisce il quadro, che purtroppo oggi risulta introvabile. A sua volta lo scultore cav. Ercole Reduzzi si offre, gratuitamente, di fare un ricordo marmoreo di Virginia, ma il Podestà risponde che ogni decisione deve essere rimessa al comitato che si sta costituendo per le onoranze a Virginia nel decennale della morte. Chissà che la proposta dello scultore non sia stata accettata successivamente, visto che è arrivato fino a noi un busto marmoreo di Virginia, collocato a Palazzo Cuttica, di cui non si riesce a reperire l’autore e la data di esecuzione, non si sa se collegarlo all’inizio delle attività del Teatro Marini (magari a fare mostra di sé nel foyer) o ad altra circostanza; nel 1927 i giornali avevano infatti scritto: «È sorto un comitato per promuovere degne onoranze all’artista drammatica Virginia Marini. Un ricordo marmoreo dell’indimenticabile attrice sarà eseguito da Leonardo Bistolfi, e sarà inaugurato la primavera prossima»123, ma oggi al museo Bistolfi di Casale Monferrato non si trova alcun documento che confermi l’esecuzione di quest’opera. Nel giugno 1928 il Podestà Mazzucco informa il Ministro della Pubblica Istruzione che il Comune di Alessandria ha costituito un comitato124 “allo scopo di tributare degne onoranze alla memoria di Virginia Marini, la grande attrice spentasi a Roma dieci anni or sono, dopo aver tenuto per circa un trentennio lo scettro del teatro italiano di prosa. Nativa di Alessandria, la Marini illustrò la scena italiana, specialmente dal 1870 al 1894, con interpretazioni tipiche, indimenticabili, che la fecero proclamare grande e le procurarono trionfi tra i più clamorosi che gli annali del nostro teatro ricordino: onde Sarah Bernhardt la salutò sua degna rivale. Oggi -mentre sul suo nome pare voglia troppo presto infittirsi il velo dell’oblio- la città di Alessandria vuole, con materno orgoglio, onorare in Virginia Marini una sua purissima gloria”. Sono costanti, negli scritti e negli interventi, i richiami a questo “oblio” cui Alessandria vuole porre rimedio. Anche nella tanto amata (da Virginia) Torino si dà la notizia. «Si è costituito in Alessandria, sotto la 123 La Stampa, 27.01.1927 [ALST]. 124 I documenti relativi alle attività commemorative del decennale della morte di Virginia,
cui qui si fa riferimento, si trovano in Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini.
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presidenza del podestà on. Mazzucco, un Comitato allo scopo di tributare alla memoria di Virginia Marini, la valorosa attrice, il cui nome ravviva il ricordo di uno splendido periodo del nostro teatro di prosa. La sua slanciata figura, la vivezza della sua bella testa bruna, la sua voce stupendamente musicale, l’ingegno, l’intuito naturale la resero signora delle scene, specialmente dal 1870 al 1891. Ora, a dieci anni dalla sua morte, Virginia Marini sarà ricordata e onorata degnamente nella città che le diede i natali. La nobilissima iniziativa -animata dalla signora Rina d’Antonio e da Riccardo Scaglia- ha subito raccolto largo consenso»125. Fra il dicembre 1928 e il gennaio 1929 viene formalizzata la composizione del comitato sotto la presidenza del Podestà Luigi Vaccari. Ci sono i politici di rango: dall’onorevole Vincenzo Buronzo nominato oratore ufficiale, al senatore Teresio Borsalino; i rappresentanti della comunità: dalla Cassa di Risparmio alla Società Storica al Casino Sociale all’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra; i gerarchi della locale Federazione del P.N.F., il sindacato della stampa e i giornalisti accreditati; Mario D’Antonio, impresario teatrale, e il sempre più potente Mario De Giorgis, organizzatore e direttore artistico; Vittorio Brunelli, Presidente della Filodrammatica Virginia Marini, e Giovanni Marescotti, direttore artistico della medesima. Il Podestà invita il conte di San Martino, presidente di Santa Cecilia; il cognato di Virginia, Angelo Gattinelli; illustri attori come Cesarino Dondini, Luigi Cimara, Dina Galli, Maria Melato, Gustavo Salvini; scrive anche a D’Annunzio ricordandogli che nel 1914 voleva riportare sulle scene Virginia per interpretare un suo dramma. Molti degli esterni declinano l’invito perché impossibilitati a raggiungere Alessandria, ma tutti rispondono con grandi lodi e sincera commozione per l’iniziativa di celebrare Virginia. Anche sugli organi di stampa si manifesta adesione. Lucio D’Ambra conobbe Virginia già ritirata dalle scene e “maestra” a Santa Cecilia, ed ebbe il privilegio di farle leggere la sua prima commedia, scritta a diciassette anni. L’opera cadde sotto i fischi, ma Virginia lo consolò esortandolo a continuare: «Virginia Marini fu gloria d’un tempo di ardentissimi apostoli»126. Altri «si associano ad Alessandria tutta che, auspici le più illustri personalità del teatro e dell’arte, onorerà la scom125 Virginia Marini. Le onoranze di Alessandria, in “La Stampa”, 17.06.1928 [ALST]. Si veda
anche “La Stampa” del 08.01.1929 [ib.] dove si auspica una borsa di studio, attraverso sottoscrizione, intitolata alla Marini a favore di un allievo o allieva di arte drammatica. 126 Cfr. D’AMBRA 1928.
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parsa di colei che chiuse il vecchio e glorioso ciclo che si apriva con un altro fulgido astro: Eleonora Duse»127. Gli intenti del comitato erano ambiziosi. Si voleva pubblicare un volume sulla vita dell’Attrice, allestire una mostra di “interessanti documenti epistolari ed iconografici” e organizzare “una particolare rappresentazione cui parteciperanno le più chiare illustrazioni dell’arte drammatica”. A tal fine il Comune crede di non poter “esimersi dal concorrere con un congruo sussidio, e dare così una dimostrazione tangibile del suo interessamento per l’arte che è, nei vari suoi aspetti, fattore importantissimo della educazione ed elevazione dello spirito”. Viene deliberata la somma di 4.000 lire, che tuttavia non verrà mai erogata. Soltanto grazie a 1.000 lire elargite dal conte Giuseppe Guazzone di Passalacqua e ad una anticipazione da parte dell’impresario Mario D’Antonio si riesce a portare a termine la stampa di un migliaio di copie del libro, che resterà l’unica iniziativa realizzata dal comitato. Animatore effettivo del comitato fu Riccardo Scaglia (Parma 1897 – Alessandria 1949), giornalista, figlio del direttore del liceo musicale. «Volontario nella prima guerra mondiale, aderì al Fascismo e, durante il Ventennio, fu uno dei più significativi intellettuali della nostra provincia. Fu il redattore-capo, dal 1933, dell’importante rivista mensile “Alexandria”. Direttore della biblioteca e della pinacoteca di Alessandria, ebbe al suo attivo parecchi scritti»128. È Scaglia l’incaricato di scrivere un “opuscolo commemorativo”; il suo testo, in gran parte basato su documenti forniti da Angelo Gattinelli e arricchito da numerose testimonianze inedite, rimane un contributo fondamentale per chi voglia studiare la nostra Attrice, ancora oggi rintracciabile nelle maggiori biblioteche italiane. Viene pubblicato nel maggio 1929, quindi in ritardo rispetto al decennale che celebra; il ricavo della vendita deve andare a beneficio della Casa di Riposo per gli Artisti Drammatici, “eretta nel 1917 sotto l’alto patronato di S.M. la Regina Madre”. Scaglia -che per anni continuerà a trovare occasioni per ricordare Virginia sulla stampa nazionale129- percorre l’intera carriera di Virginia, e naturalmente dedi127 Cfr. DROVETTI 1928. 128 ZOCCOLA 1990, pg.230. 129 Sono varie le pubblicazioni di Scaglia su Virginia; nella prima metà del Novecento
chiunque volesse citare Virginia, ricorreva in qualche modo a testi di Scaglia. Qui voglio ricordare che Vito Pandolfi, nella sua fondamentale Antologia del grande attore, per la figura di Virginia inserisce un pezzo di Scaglia già utilizzato nel 1926 (quindi prima della pubblicazione di SCAGLIA 1929) da Camillo Antona-Traversi: cfr. PANDOLFI 1954, pgg. 476/480.
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ca un capitolo ai suoi ritorni in Alessandria. Un ricordo tutto locale viene affidato a Giovanni Marescotti, direttore artistico della Filodrammatica Virginia Marini alla quale, nelle sue rimpatriate, la Nostra era stata prodiga di consigli. «Virginia Marini, data la Sua immensa modestia e bontà, il Suo buon senso che la faceva rifuggire da ogni eccentricità, la vita di vera Dama vissuta sempre con adamantina purezza, tanto che i suoi compagni d’arte ne menavano essi stessi vanto, fu troppo presto dimenticata. [Quando] diede il 10 luglio 1877 la sua serata d’onore colla Messalina, fu accompagnata a casa dal popolo e dalla musica. La grande attrice non alloggiava all’albergo. Modestamente, si era accasata presso la famiglia Monti che abitava nella prima casa a sinistra di via Vescovado (angolo via Guasco). La magnifica attrice, col suo robusto intelletto, nulla lasciava di inesplorato del pensiero dell’autore e tutto comunicava con meravigliosa chiarezza e semplicità, trovando infinite espressioni fisiche e infiniti toni. Scomparsa dalle scene, non fece più parlare di sé. Ella scomparve anche dalla scena della vita nel tempo in cui il mondo era sconvolto dalla grande guerra e anche ciò contribuì a scemare l’attenzione della stampa sul triste evento. E ciò induce ad un’amara riflessione: non si può logicamente concepire come mai la Scuola di Santa Cecilia non sia stata intitolata al nome della gentildonna che la creò e le diede il suo maggior lustro. La Scuola si chiama ora “Eleonora Duse” ma era doveroso e si poteva ben concedere il vanto alla venerata memoria della nostra grande Concittadina»130. L’amarezza di Marescotti è comprensibile, ma serve a confermare indirettamente che Virginia fu un’attrice molto apprezzata nel secondo Ottocento ma che si fermò lì, non ebbe una personalità artistica tale da divenire un “personaggio” della storia del teatro. Certo, Virginia fu teatrante autentica e totale. Le lodi tributate da artisti amatoriali le furono care come i riconoscimenti dei grandi critici. Al momento dell’uscita del libro di Scaglia, il Duce è favorevole alle filodrammatiche, purché non dialettali, e vuole un Carro di Tespi specificamente “filodrammatico”. La Società Filodrammatica Alessandrina “Virginia Marini” viene da lontano, perché fondata nel 1885, e arriva, anche ottenendo premi nazionali, agli anni Quaranta131. C’è quindi una continuità almeno ideale (che può essere simboleggiata da una figura importante come Enzo Bocca) fra questo longevo gruppo e, nel secondo dopoguerra, la nascita della compagnia dilettantistica “I Pochi”, 130 Cfr. SCAGLIA 1929, pgg.75/79, e anche il ricordo di un altro amico alessandrino, Carlo
Moro, ib., pgg. 79/80.
131 BASSI 2009, pgg.177/178.
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per decenni bandiera teatrale di Alessandria di cui fu alfiere Ennio Dollfus, maestro di generazioni di aspiranti attori, alcuni approdati alla professione, tutti genuinamente appassionati. L’attività della Filodrammatica Marini, animata soprattutto dal futuro Sindaco Ernesto Pistoia, fu intensa: dalle recite di beneficenza, alla promozione dei dilettantismi locali alla messinscena di opere difficili, magari quelle che negli stessi anni sancivano i successi nazionali della Marini, fino alla presunzione di cimentarsi con “Spettri” di Ibsen che Virginia aveva avanguardisticamente portato per prima sul palcoscenico nel 1892. Basti citare le cronache della “Gazzetta piemontese”. 15 marzo 1892: «La Società filodrammatica alessandrina Virginia Marini ha recitato nel Teatro Municipale a beneficio degli Asili d’infanzia e dell’Ospedaletto infantile. Si ebbe la “Partita a scacchi” del Giacosa, la nuovissima commedia in un atto del signor Ernesto Pistoia, applauditissima. L’illustre generale Ricci concedette gentilmente che le due bande dell’85° ed 86° fanteria suonassero negli intermezzi. Il Municipio concedette pure gratuitamente l’uso del teatro illuminato e riscaldato a sue spese». 8 marzo 1893: «Non ebbe quella riuscita che si attendeva la recita data ieri sera al Municipale dai filodrammatici della “Virginia Marini”. È a deplorarsi che, trattandosi di beneficenza e di portare incoraggiamento a giovani colti e studiosi, sia mancato al teatro l’elemento signorile di ambi i sessi. Dopo ciò una lode è ben dovuta ai nostri bravi dilettanti; e, primo fra essi, al signor Pistoia, autore ed attore, che colla sua graziosa commediola “L’articolo 181” seppe attirarsi tutta la simpatia del pubblico. Anche “Ad oltranza”, la commedia in quattro atti di Edoardo Calandra, ebbe esito felicissimo e fu eseguita con intelligenza e sufficiente affiatamento». 30 gennaio 1894: «La brava Società filodrammatica “Virginia Marini”, della quale è presidente l’egregio dilettante e autore signor Pistoia, aprì sabato notte le sale del suo circolo ad una veglia danzante. Tutto quanto ha di eletto il ceto commerciale e industriale intervenne a questa festa. Questa Società che sa accoppiare all’amore dell’arte il pensiero dell’onesto divertimento, può, anche in questa occasione, segnare al suo attivo un trionfo. A proposito: alla “Virginia Marini” è allo studio il difficile dramma di Ibsen “Gli spettri”». Ritornando allo spirito delle onoranze per il decennale della morte di Virginia, la Federazione Provinciale delle Filodrammatiche, aderente all’O.N.D., nell’agosto 1929 ottiene il patrocinio del Podestà per indire il
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“Primo Concorso Filodrammatico Provinciale”, “intitolandolo alla grande, pur se dimenticata, Virginia Marini”. Nel febbraio 1934 il Comune si ricorda della beneficenza promessa, con il libro di Scaglia, alla Casa di Riposo. Non onora l’originale impegno ad erogare 4.000 lire, ma almeno rimborsa l’impresario del Marini, Mario D’Antonio, per l’anticipo a suo tempo corrisposto, entrando così in possesso delle copie stampate nel 1929. Si noti la relativa deliberazione municipale che rammenta, quasi con durezza, le difficoltà economiche che accomunarono l’infanzia e la vecchiaia di Virginia. «Ritenuto opportuno, da parte di quest’Amministrazione, tributare alla grande attrice alessandrina il doveroso omaggio della ammirazione e del ricordo, meglio che in cerimonie ed in celebrazioni, in duratura opera benefica a vantaggio della classe alla quale Ella appartenne, spesso, negli anni dell’oblio che seguono alla fama ed ai trionfi, bisognosa di assistenza e di aiuto», il Podestà delibera di offrire settecento copie del libro alla Casa di Riposo per Artisti Drammatici affinché possa porle in vendita e trarne un ricavo, e di «assegnare la somma di lire 2.000 alla suddetta Casa di Riposo quale sovvenzione straordinaria, una volta tanto, del Comune per l’istituzione di due camere consacrate alla memoria di Virginia Marini»132. Nello stesso 1934 incomincia una serie di articoli-saggio che rievocano, nelle riviste culturali della Città, la vita e i successi di Virginia. Sulle pagine di “Alexandria” l’impresario Adolfo Re Riccardi si sofferma sulle virtù morali e umane dell’Attrice, in verità evocate da tutti. «Non è stata solamente una grande attrice, ma una grande signora; una vera dama, che visse tutta una lunga vita di rigorosa onestà ed onorò così colla sua specchiata condotta personale, sia pure indirettamente, la nobiltà della scena italiana. Ebbe amici ed ammiratori a legioni: cordiale con tutti, affabile coi suoi compagni d’arte, soccorrevole e buona coi meno fortunati, generosa sempre. Ricorderò per tutti Sua Maestà la Regina Margherita, che volle spesso convitarla nei reali palazzi di Torino e di Roma non soltanto come attrice drammatica, ma come donna meritevole del maggiore rispetto e della più alta considerazione. Alessandria ha il dovere di custodire gelosamente l’eredità del doppio ricordo: quello dell’Artista e quello della Donna»133. Sulla stessa “Alexandria”, nel 1935 appare un pezzo di Riccardo Scaglia134 dedicato ai rapporti artistici fra Virginia e il drammaturgo Paolo Ferrari, mentre nel 1938 132 Istituzione di posti presso la Casa di Riposo per artisti drammatici ad onoranza della memoria del-
la artista alessandrina Virginia Marini, 27 febbraio 1934, dattiloscritto, in Ascal, Serie I, 806, fascicolo n°4: Virginia Marini. 133 RE RICCARDI 1934, pg.61. 134 SCAGLIA 1935.
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viene riprodotta la commemorazione che Celso Salvini135 (nipote del grande Tommaso) aveva tenuto alla Radio. L’autorevole Rivista di Storia Arte Archeologia di Alessandria non dimentica, nel 1942, il centenario della nascita di Virginia con un breve, celebrativo intervento di Gustavo Rossi136; ma è nel 1947 che la rivista rievoca ufficialmente l’Attrice con un corposo saggio (in realtà scritto nel 1944) dello studioso alessandrino Piero Angiolini137, il quale si dedica all’intera carriera di Virginia ma si sofferma anche su episodi del suo rapporto con Alessandria. Ho già citato la sua interpretazione delle vicende familiari della bambina, ma Angiolini rivela altresì aneddoti curiosi. Mantenendo la sua convinzione che Virginia abbia frequentato l’istituto alessandrino di Casa Sappa, scrive: «È proprio alla Casa Sappa che avvenne un singolare episodio, poco noto, della vita della futura grande artista, episodio raccontato nell’anno 1900 dalla stessa Marini in occasione di una visita da lei fatta alla sua Alessandria. Quattro compagne di Casa Sappa, tra cui la giovane Virginia, fecero gruppo a parte: pervase da spirito religioso, un giorno, assistite da un sacerdote e dalle suore, fecero solenne promessa di dedicarsi esclusivamente alla vita spirituale e alle opere di bene e di carità. E infatti più tardi due delle compagne si fecero religiose nello stesso ordine delle suore di Casa Sappa; la nostra Marini non giunse a tanto, tuttavia quella promessa fu cosa seria per la fanciulla, poiché, quando più tardi, proprio mentre stava per diplomarsi maestra, venne chiesta in sposa dal Marini, non mancò di ricordare il voto fatto un tempo. La fanciulla pur sentendosi attirata più che dal matrimonio, dal grande desiderio di entrare in arte, oppose il voto pronunciato. La decisione fu rimessa al vescovo monsignor Giocondo Salvay, che a lungo interrogò la giovinetta; avendo infine riconosciuto trattarsi di vincolo che non impediva il matrimonio, il buon Vescovo dava il consenso alle nozze»138. Si può attribuire una certa attendibilità a questo episodio, peraltro piuttosto dettagliato, il cui contenuto probabilmente l’Angiolini aveva tratto da un articolo apparso nel 1943 su “Stampa Sera” a firma C. Belviglieri139. Lo scrivente vi dichiara di aver fatto rinascere ad Alessandria, nell’anno 1900, una società filodrammatica intitolata a Virginia. 135 SALVINI 1938. 136 ROSSI 1942. 137 ANGIOLINI 1947. 138 ANGIOLINI 1947, pg.77. 139 BELVIGLIERI C., Il voto di due grandi attrici. Virginia Marini ne fu sciolta. Carlotta Marchion-
ni lo osservò, in “Stampa Sera”, 14.06.1943 [ALST].
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Invitata a consacrare di persona il nuovo gruppo, Virginia accetta e quindi compie un altro ritorno in città, probabilmente in forma molto riservata, durante il quale confessa ai suoi ammiratori nientemeno che di aver fatto, quindicenne, promessa di castità “vestita di bianco, infiorata di gigli”, e attorniata dalle suore dell’Istituto Casa Sappa di Alessandria. Senonché Belzebù ci mise la coda facendo approdare in città la carretta dei comici, sulla quale viaggiava l’insipido ma accorto Giovanni Battista Marini che, detto fatto, la chiese in moglie. Sembrava, la fanciulla, Maria alla quale si chiede di immolarsi al vecchio falegname Giuseppe; anche qui lo sposo era un semplice mezzo per un fine superiore. Certamente Virginia era destinata ad ascoltare più quel particolare pulpito che è il palcoscenico, che non quello religioso; ma correttamente denunciò l’impegno assunto direttamente al suo Vescovo, il quale «domandò anzitutto alla giovane quale contropartita aveva avuto in cambio del voto di verginità: non lo stato religioso regolare, non un altro vantaggio positivo e reale. Perciò il Vescovo ritenne che il voto di verginità, non essendo stato vincolato ad alcun vantaggio, sia pure di ordine semplicemente morale, poteva essere sciolto, essendo stata una volontaria espressione dell’anima, non legata ad alcun impegno che la obbligasse». Pare che in quegli inconsueti colloqui alessandrini dell’anno 1900, Virginia rivelasse che, molto prima di lei, la celebre Carlotta Marchionni si fosse imposta la castità per tutelarsi dalle gravi licenze della vita teatrale, e non fosse mai venuta meno a questa decisione. Virginia pensa che un’onesta vita coniugale possa ugualmente proteggere una donna che vuole essere attrice ma non peccatrice. Professionalmente Giovanni Battista e Virginia erano fatti l’uno per l’altra e in questo senso il matrimonio fece, per alcuni decenni, la fortuna di entrambi; non fu benedetto dalla nascita di figli (lui ne aveva dalla precedente unione); Virginia gli dedicò per tutta la vita una inappuntabile fedeltà grigio-alessandria ravvivata dai mille colori del palcoscenico. Una conferma di questo ritorno “privato” nella città natia di Virginia nell’anno 1900, sembra giungere da un articolo dell’avvocato-giornalista alessandrino Tommaso Barberis datato febbraio 1903, dove ci viene fatta una inedita rivelazione nientemeno che sul battesimo di Virginia, avallata altresì nel 1947 dal già citato Piero Angiolini. «Col richiamare, lettori, al vostro pensiero, sia pur brevemente, la geniale e nobile figura di Virginia Marini, la fulgida stella del nostro bel teatro di qualche anno fa, ho inteso soddisfare non solo al grato dovere di suo concittadino, ma di rendermi interprete di tutta la stima e la riconoscenza che le tributa-
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no coloro che l’hanno vista nel fiore dell’Arte e della giovinezza sua, e ricordano con intimo compiacimento la donna gentile che è rimasta più che mai nel cuore, amante appassionata della sua terra natale: il quale sentimento espresse ancora pochi anni orsono, allorché, venuta ad Alessandria, visitò la mia famiglia, in cui mio nonno vanta la fortuna d’essere stato padrino della Marini al fonte battesimale»140. Il racconto sul “voto di castità” ci induce a confermare una rigida ma qualificata educazione scolastica della bambina, a dispetto di una condizione familiare modesta, e soprattutto ci rimanda agli atteggiamenti pii dimostrati dalla donna in varie circostanze, e all’approccio “moralizzante” che l’attrice ebbe nelle interpretazioni di personaggi come Messalina, Medea, Margherita Gauthier. Ancora l’Angiolini, confermando la visita di Virginia ad Alessandria nel 1900, la collega alla sua consuetudine con i filodrammatici locali. Ernesto Pistoia, che da Sindaco invia alla famiglia il già citato telegramma di condoglianze, «era stato con la sorella Ersilia, un ottimo filodrammatico di una società già intitolata a Gustavo Modena poi alla Marini, che si riuniva intorno al 1885 in un modesto locale di via Treviso. Quando la Marini giungeva in Alessandria, era una festa per i nostri giovani artisti che, impazienti, accorrevano tutti ad applaudire la grande concittadina e loro amata patrona. Erano tutti alessandrini e i nomi sono ancora oggi ricordati: Pistoia, Raimondi, Magnaghi, Moro, Marescotti, Gallia e Deantoni, che fu poi ottimo artista del teatro nazionale; attori dilettanti e non di rado anche autori che sovente ricorrevano, e non invano, alla Marini, per consigli e suggerimenti. Nel 1900 la società, risorta con vecchi e nuovi elementi, riprese il caro nome di Virginia Marini; la buona Signora fu sensibile al gentile omaggio e al nuovo ricordo, tanto che promise una visita alla nuova società; e qualche mese dopo mantenne la promessa»141. Agli ammiratori che continuano ad organizzare festeggiamenti in suo onore, nel 1914 Virginia invia una mesta testimonianza della propria vecchiaia. «Carissimo Signor Avvocato, grazie mille volte del cortese pensiero, che lei ha avuto di festeggiare in Alessandria nostra, il mio povero nome; io sono riconoscente all’amico ed a tutti i gentili che aderirono alla di lui proposta: ma è troppo tardi per me. L’estate scorsa sono stata malatissima di cuore, non sono guarita e mi è proibita qualsiasi emozione: “bisogna che rinunci, se vuole vivere 140 BARBERIS Tommaso, Virginia Marini, in “La Lega”, Alessandria, 26.02.1903. È all’amico
Roberto Livraghi che devo la conoscenza di questo articolo, il cui originale è custodito nell’Archivio privato della famiglia Barberis di Alessandria, alla cortesia della quale va il mio ringraziamento. 141 ANGIOLINI 1947, pgg.96/97.
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ancora un po’ di tempo”, parole del medico. Gradisco la cosa come fatta e sono riconoscentissima a Lei e a tutti i miei cari concittadini»142. Un anno dopo l’uscita del saggio di Angiolini, cioè nel 1948, il sindaco Nicola Basile appone -come più sopra ricordato- l’agognata targa sull’esterno della casa natale di via Bergamo. Nei decenni successivi il nome di Virginia verrà ripetuto in Alessandria soprattutto per la lunga questione relativa all’abbattimento, o meno, del teatro Marini e sulla conseguente costruzione di un nuovo edificio143. Nessuno proporrà, almeno ufficialmente, che il teatro erigendo venga re-intitolato a Virginia; forse era ancora bruciante il ricordo delle tante assemblee di camicie nere tenutesi nel vecchio kursaal. Si opterà per “Comunale”, a significare che questa grande impresa dell’Amministrazione cittadina veniva a riprendere il posto dell’unico, storico teatro “pubblico”: il Municipale distrutto dai bombardamenti144. Un modesto rimedio si attuò con l’intitolazione a Virginia del bar interno del Comunale; d’altronde, i “caffè” annessi o adiacenti agli edifici-teatro sono una vera e propria tradizione dello Spettacolo. Il celeberrimo 1968 non segnò soltanto l’effimero trionfo della “immaginazione al potere”, ma anche l’ottavo centenario di Alessandria, la cui fondazione si vuole sancita il 3 maggio 1168 nel nome della rivolta contro il padrone tedesco. Il Comune coglie l’occasione delle manifestazioni indette per questo compleanno della Città, per inserirvi un ricordo del cinquantenario della morte di Virginia (avvenuta nel 1918). Viene pubblicato un opuscolo145 in cui si raccolgono i cinque articoli-saggio poco sopra elencati: Angiolini, Scaglia, Re Riccardi, Salvini, Rossi. Nella presentazione dell’opuscolo il Presidente del Comitato appositamente costituitosi, Amaele Abbiati, annuncia anche la 142 ANGIOLINI 1947, pg.98. L’originale autografo di questa lettera si trova nel già citato Ar-
chivio privato della famiglia Barberis di Alessandria.
143 Da un punto di vista cronistico si può ripercorrere questa vicenda con l’aiuto del prezio-
so archivio informatizzato de “La Stampa” [ALST]: Risolta la vertenza del teatro Marini, 27.08.1955; Inutile bando di concorso per ricostruire un teatro, 22.09.1955; Alessandria riavrà il teatro che le manca, (Stampa Sera) 17.11.1961; In lite con il Comune l’ex gestore del teatro “Marini” di Alessandria, 02.03.1963; Risolta la vertenza ad Alessandria del Teatro Marini, 30.04.1965. 144 Per chi è interessato alle vicende politico-amministrative di Alessandria nel secondo dopoguerra, c’è un interessante, recente lavoro: PESSOT Debora, Alessandria, ieri: un passato ancora presente. Mezzo secolo di vita politica cittadina (1947/1997), Alessandria: Litografia Viscardi, 2012. 145 Cfr. SALVIO 1968. Per lo stesso centenario vengono pubblicati TAFURI 1968 sulla vita teatrale-musicale di Alessandria e BURATO 1968, una storia cittadina scritta per gli studenti.
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collocazione nelle sale del Centro Comunale di Cultura (Palazzo Cuttica) del busto marmoreo di Virginia; la cosa è citata anche in un’altra pubblicazione celebrativa dell’ottavo centenario: «L’Amministrazione Comunale ha predisposto alcune manifestazioni commemorative tra cui la sistemazione, in una delle sale del Centro comunale di cultura, del busto marmoreo di Virginia Marini, già esistente nell’entrata del vecchio cineteatro in via di demolizione»146. Un’altra benemerita iniziativa editoriale per l’ottavo centenario è la pubblicazione di un saggio di Andrea Tafuri sulla vita teatrale-musicale di Alessandria, nel quale si traccia una breve biografia artistica dell’Attrice e si citano sue apparizioni al Bellana probabilmente confondendole con quelle al Gra147. Si può chiudere qui la storia dei rapporti fra Virginia e la sua città natale, anche se, avvicinandoci ai giorni nostri, voglio ricordare altri contributi alessandrini sulla carta stampata. Uno dei curatori dell’opuscolo del 1968, Roberto Salvio, nel 1983 la rievoca così148. «Anche nelle sue “glorie”, cioè nei personaggi famosi della sua storia, Alessandria sembra una città con “pochi clamori”. In questo elenco (che testimonia le caratteristiche di una gente laboriosa, schiva, paziente) può stare a buon diritto un’eccezione come quella costituita da un’attrice, una grande attrice ammirata e idolatrata tra ‘800 e ‘900: Virginia Marini. A suo merito va anche ascritta la capacità di cogliere il momento più opportuno per il ritiro dalle scene, evitandosi una compassionevole decadenza. Nel cinquantenario della morte Alessandria le dedicò un piccolo ma commosso ricordo: la collocazione di un busto marmoreo nel Centro comunale di cultura». Nel 1988 esce un ottimo saggio di Cesare Beltrami sul melodramma nell’Ottocento alessandrino, dove -come il Tafuri- l’autore inneggia alle “esibizioni della celebre Virginia Marini” al Bellana149. Nel 1992 un articolo di Margherita Rubino150 rimprovera giustamente alla Città (fra i colpevoli c’ero anch’io, come direttore del Comunale) di non aver celebrato il 150° anniversario della nascita di Virginia. È amaramente significativo che già allora la principale motivazione addotta dalla nomenclatura fosse “la scarsità di fondi”. Nel 1997, grazie all’iniziativa della Presidenza di Lucio Bassi (gran146 BURATO 1968, pg.76. Sul busto, oggi ricoverato in locali di Palazzo Cuttica, il Comune di
Alessandria non possiede indicazioni né sull’autore né sulla data di esecuzione.
147 TAFURI 1968, pg.100. 148 Cfr. SALVIO 1983. 149 BELTRAMI 1988, pg.77. 150 RUBINO Margherita, Virginia Marini, gloria dimenticata, in “La Stampa”, 18.11.1992 [ALST].
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de conoscitore della storia teatrale locale), il Lions Club Alessandria Host, in una serata che mi vide relatore, commemorò due “dive” alessandrine. Parlai del libro che Elia Di Menza151 stava pubblicando sull’indimenticabile Milly, al secolo Giuseppina Mignone, e ripercorsi i principali successi di Virginia. I partecipanti conclusero che certamente anche la Marini meritava un saggio biografico. Ed eccomi qua! Meglio tardi che mai. Nel 2008 la rivista “Nuova Alexandria” pubblica un lungo articolo di Mario Bruno, che descrive dettagliatamente i rapporti di Virginia con la Città, e ne traccia altresì un ritratto umano. «Virginia Marini, oltre ad essere stata una grande e geniale attrice, che sapeva calarsi in ruoli di differente carattere con immediatezza e talento, fu soprattutto una donna antesignana alle lotte che diventeranno prorompenti in seguito, ossia quelle rivendicazioni suscitate dalla donna per elevare la dignità femminile»152. Infine, Alberto Ballerino153 ha giustamente inserito un ricordo di Virginia negli scritti dedicati ad Alessandria in rapporto al 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Dunque non si può dire che la Città abbia trascurato la memoria di Virginia; anzi, sembra che la “normalità” della sua persona, mai mortificante ma riconoscibile anche nei momenti di vero successo popolare, non possa che essere gradita a quella “alessandrinità” cui ho dedicato l’incipit di questa parte. Sembra piuttosto che la nostra diva non abbia ricambiato e, peggio, non sia stata appagata dai doni ricevuti. In un articolo pubblicato su “La Stampa” del 2 novembre (!!!) 1991, Danilo Arona, il vate alessandrino dell’occulto, dichiarò che i fantasmi inequivocabilmente presenti in città altro non sono che i sensi di colpa degli Alessandrini, e che presto un altro fantasma “ululante” sarebbe stata Virginia, a rivendicare il suo spazio nei giardini. L’immagine ci fa ricordare che oggi in quei giardini, cioè nello storico spazio teatrale della Città, c’è una ferita materiale, isolata e dimenticata come quella di Filottete. Ma questa è un’altra storia.
151 DI MENZA Elia, Milly donna di teatro, Alessandria: Ugo Boccassi Editore, 1998. 152 Cfr. BRUNO 2008. 153 Un giornalista che svolge un gran lavoro di divulgazione su Alessandria; cfr. le indicazio-
ni bibliografiche.
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Comici
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II. Intermezzo
Se si volessero individuare le più significative eccellenze dello spettacolo teatrale italiano nella sua evoluzione storico-artistico-culturale, credo che emergerebbero tre soggetti: il Teatro (inteso come l’edificio con sala a palchetti), il Melodramma (la trionfante opera in musica, da Verdi a Puccini) e l’Attore (nel significato tecnico-professionale). Questi soggetti si formano con l’avvento dell’età moderna, con la diffusione in Europa della cultura italiana a partire dalla straordinaria fioritura umanistico-rinascimentale. Per tutti, l’Ottocento teatrale in cui si mosse Virginia fu un momento di splendore, anche sociale, in attesa delle profonde innovazioni primonovecentesche (germogliate, peraltro, soprattutto fuori dagli italici confini). Lo spazio in pietra, all’aperto, della Grecia classica era già, a tutti gli effetti, un “edificio” costruito appositamente. La sua evoluzione raggiungerà il “modello”, assunto progressivamente dall’intera cultura occidentale e tuttora funzionante, proprio grazie agli architetti e ai carpentieri italiani. Nel linguaggio comune il modello di cui sto parlando viene chiamato “teatro a palchi”: un palcoscenico come “scatola magica” svelata dall’aprirsi del sipario, uno schieramento frontale di poltrone illuminate da un enorme lampadario (a candele, a gas, a lampadine) e, ad abbracciare questa platea, alcuni ordini di palchetti uno sull’altro, in genere disposti a “ferro di cavallo” fino a congiungersi con i lati del proscenio. Gli addetti ai lavori amano definirlo “teatro all’italiana”. È dentro questo particolare edificio, compenetrandosi con il fascino e l’illusionismo unici che lo caratterizzano, che nasce e si diffonde nel mondo l’arte scenica italiana per eccellenza: il belcanto, l’opera in musica, che al tempo di Virginia toccò le vette del melodramma, genere che qui
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-sia detto con la dovuta deferenza- non sarà trattato. In questa sede ci si deve concentrare sull’altro archetipo: l’“attore di mestiere”, che in Italia si è incarnato, con un percorso che va dal Cinquecento all’Ottocento, in due periodi gergalmente chiamati l’uno: della “Commedia dell’Arte” e l’altro: del “Grande Attore”. Le maschere dell’Arte, divenute immortali, nella scrittura drammaturgica si diluirono attraverso i passaggi e i labirinti che conducono al “personaggio” contemporaneo, passando, nell’Ottocento, per quei “ruoli” cui ho accennato nella prima parte e su cui sarà importante fermarsi perché sono il contesto artistico in cui si compie la carriera di Virginia, a cominciare dal ruolo egemone: il primattore-mattatore, l’interpretepigliatutto, il centro della compagnia; colui che gli studiosi inglobano (specialmente per quanto riguarda il cuore dell’Ottocento, cioè gli anni in cui la stella di Virginia brillò) nella categoria del “Grande Attore” e del quale fanno uno degli eventi periodizzanti della storia del teatro. Nonostante il termine forzatamente maschile, un aspetto fondamentale di tale fenomeno è che si estende paritariamente alle donne. Le attrici passano da oggetto sensuale della scena (come erano state sempre, anche nella Commedia dell’Arte e fino al Settecento) a soggetto artistico, e non solo: a patriote, intellettuali, cittadine. L’attrice ottocentesca di successo ha un ruolo culturale riconosciuto, in teatro e fuori; artisticamente è ammirata, può influenzare positivamente i costumi anziché turbarli; è una “Grande Attrice”, come nel caso di Virginia. Fra il tempo della Commedia dell’Arte e il tempo del Grande Attore c’è un denominatore comune fondamentale: l’arte del recitare prevale sull’arte dello scrivere per il teatro, è considerata “più” necessaria al reificarsi dello spettacolo. Tale considerazione impone di dedicare una breve parentesi ad un coprotagonista che nell’Ottocento vive una condizione particolare: l’Autore, per maggiore precisione direi: il Drammaturgo.
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Pietro Cossa - Leopoldo Marenco. Sotto: Paolo Ferrari - Felice Cavallotti
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II.1 Drammaturghi
Dapprima il fare storia del teatro sembrò fondarsi sulla successione delle opere scritte per il teatro, ovvero fare storia della “letteratura teatrale” secondo il principio più ovvio: la recitazione e la scenografia “passano”, il testo “rimane”. Tuttavia tra fine Settecento e inizio Ottocento si scrissero tragedie che già in allora erano “irrappresentabili” (basti pensare a Foscolo e a Manzoni) se non attraverso un convenzionalismo esasperato. Si dovette dare atto che l’integrazione fra la pagina e il palcoscenico è indispensabile, secondo il principio altrettanto ovvio che non c’è teatro senza pubblico. E nell’Ottocento il garante del rapporto con il pubblico è l’Attore. Certo l’Autore era rispettato nella sua dignità letteraria e culturale in ogni salotto aristocratico o borghese; ma in scena era biecamente “usato” ai fini dell’esito sugli spettatori. Per alcuni decenni divenne un lavoratore (mal pagato) a cottimo; il poeta al servizio del Principe si mutò in drammaturgo (cioè creatore di “copioni”) al servizio dell’Attore. Nella storiografia teatrale si sono susseguite dissertazioni più o meno accademiche sul primato del Testo, e quindi dell’Autore, ai fini della realizzazione dello spettacolo teatrale. Durante tutta la sua carriera Virginia rispettò questa gerarchia, e così fecero gli attori e i capocomici suoi contemporanei, tuttavia senza uscire da una pesante contraddizione: la loro teorica consapevolezza della priorità del dramma letterario era oscurata dalla fisiologica convinzione della supremazia della sua rappresentazione da parte dell’Attore. Il Testo è letteralmente subordinato all’arbitrio dell’Attore fino agli anni Ottanta dell’Ottocento, quando anche in Italia si consolida il diritto d’autore e appare una autorevole drammaturgia straniera, fondata sulla provocazione anzi-
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ché sul consenso (Ibsen, per intenderci). «È il concetto moderno di autore», che «è fondato sull’attribuzione di un contenuto economico ad attività intellettuali. Il riconoscimento all’autore di poteri esclusivi di riproduzione e sfruttamento commerciale della propria opera determina l’ingresso di una nuova forza economica nell’arena competitiva della produzione artistica e letteraria. Ciò è particolarmente vero in ambito teatrale: scarsamente considerati, raramente pagati (o, ad ogni modo, pagati poco), costretti ad accontentarsi del solo fatto di essere rappresentati, i drammaturghi italiani trovano nel lungo e difficile [in Italia] processo di affermazione del diritto d’autore una base giuridico-economica per trasformare la propria attività in professione, organizzandosi e costituendo [nel 1882] un organismo di tutela collettiva, la Società Italiana degli Autori (SIA), destinato a esercitare nel corso della storia un ruolo cruciale»154. A livello internazionale è già in atto un cambiamento epocale. Sul finire dell’Ottocento, infatti, l’opera scritta sulla pagina, e dunque potenzialmente capace di durare nel tempo, portata alla ribalta costituisce la componente di partenza, direi la base progettuale di una più ampia, articolata “scrittura scenica” vergata da un’unica mano: quella del Regista. Da noi, come già detto, tale trasformazione sarà più lenta. Sarà impedita (ma anche preparata, in fondo) per decenni dal dominio del primattore-direttore; e prima di cedere al nuovo padrone (il Regista, appunto) vedrà anche tentativi da parte dell’Autore di “mettere in scena” da sé i propri testi, quindi di governarne l’interpretazione a dispetto delle idee dell’Attore. Uno scrittore diventa un drammaturgo quando riconosce che le sue parole “recitate” sono cosa nettamente diversa dalle stesse parole “lette”, quando ammette che il proprio testo è un “copione” che, portato alla sua naturale destinazione: la messinscena, e filtrato da interpreti di volta in volta diversi, diventa necessariamente trasformabile. È 154 CAVAGLIERI 2012, pg.38. Il vero punto di partenza è l’emanazione, nel 1867, della legge
sulla proprietà letteraria. Per i capocomici è un disastro: cessa la possibilità di sfruttare gratuitamente i testi francesi, i favoriti del pubblico, e cominciano le pretese degli italiani. Si parla di fallimenti delle compagnie dovuti al diritto d’autore (non si dimentichi la quantità di copioni, soprattutto di “novità”, di cui ogni impresa aveva bisogno durante un’annata teatrale). Già nello stesso 1867 Luigi Capuana scrive: «Tutti sono scandalizzati che questi signori autori drammatici osino pretendere sul serio una retribuzione convenevole per le opere loro, mentre fino erano rimasti contenti di poche centinaia di franchi, ed anche del semplice onore di vedersi rappresentati», FERRONE 1979, tomo II, pg. 472. «Pur entro certi limiti, dunque, fare l’autore teatrale dava la concreta possibilità di ottenere fama e denaro», CAVAGLIERI 2012, pg. 39.
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probabile che per Shakespeare le battute di “Amleto”, anche quelle oggi vissute da noi come immortali, fossero modificabili, sera per sera, in rapporto alle reazioni di una umanità scomposta e spesso irriguardosa. Una umanità che ci riporta all’altra componente fondamentale dello spettacolo di tutti i tempi: il pubblico. Il lettore è un soggetto individuale, anonimo, remoto (in questo discorso fatemi ignorare, per favore, l’interattività tecnologica che ormai si è insinuata persino nella lettura); lo spettatore è invece un soggetto collettivo, riconoscibile, presente: un testimone oculare. Ci vollero ricerche interminabili per approdare a edizioni attendibili delle opere di Shakespeare. Un secolo dopo di lui Carlo Goldoni riuscì, con una sudata preveggenza che purtroppo non gli evitò la miseria, ad avere edizioni definitive e “sicure” delle sue commedie. In pieno Ottocento, un altro vero teatrante, Giuseppe Verdi, non esitava a correggere le sue partiture sulla base degli esiti di una recita cui aveva assistito; ma pretendeva di essere l’unico a poterlo fare e altresì a poter chiudere e validare, quando lo avesse ritenuto, l’esemplare “originale” di una sua partitura. Si stava ultimando quel percorso complementare, dal Seicento all’Ottocento, delle tecniche editoriali e della proprietà intellettuale che produsse la forma inviolabile del testo a stampa, oggi in via di sostituzione da parte della forma “violabile” (almeno piratescamente) del testo informatizzato. Assumendo la forma stampata, le parole dell’autore teatrale si consacrano ulteriormente alla Letteratura (non solo come genere, ma proprio come “lettere” impresse su un supporto). Le sue parole intraprendono una esistenza da “libro” che non ha nulla a che fare con la loro esecuzione in palcoscenico, dove costituiscono invece un prezioso “materiale” comunque plasmabile. Lo scrittore non coincide assolutamente con l’autore dello spettacolo. Nell’ultimo Ottocento, in Francia in Germania in Russia, il padrone della scrittura scenica diventa il Regista, una autorità con cui Virginia non arrivò a confrontarsi. Arrestando la propria attività artistica nella imminenza del passaggio di secolo, la nostra Attrice si “protesse” dai grandi cambiamenti della messa in scena, dall’irrompere di radicali sperimentatori, dallo stupefacente avvento del cinematografo. Insegnando recitazione a un grande numero di allievi, contribuì alla sopravvivenza di una tradizione illustre, portata in tutta Italia, fino agli anni Trenta del Novecento, da quelle compagnie girovaghe che, “primarie” o “secondarie”, ottime o improponibili, furono un circo artigianale pieno di poesia felliniana.
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Isabella Andreini
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II.2 Comici
La recitazione, talvolta ricca di oro e di fama ma sempre socialmente disprezzata in periodo romano, poi vittima di un ostracismo violento da parte della Chiesa medievale, rinasce anch’essa alle soglie dell’epoca moderna, da una parte nobilitandosi nel colto dilettantismo cortigiano e dall’altra crescendo tecnicamente con l’espressione dei guitti popolari. Questi ultimi, eredi dei mimi e dei giullari, inventano -in una Italia che arriva al barocco- nientemeno che la “professione” dell’attore e la sua forma organizzativa essenziale: la compagnia, nel significato valido tuttora. Gli studiosi li battezzano “comici dell’arte” e ne fanno un momento periodizzante della storia del teatro; girano l’Europa, come fanno i nostri scenografi-architetti chiamati a costruire i principali teatri “all’italiana” del continente. In modo semplificativo ma efficace Silvio D’Amico scrive: «Intorno alla metà del Cinqucento, davanti alla inanità dello spettacolo erudito, gli attori italiani dissero: se non c’è più la poesia, ci sarà lo spettacolo. E inventarono la Commedia dell’Arte. Commedia “buffonesca”, commedia “istrionica”, commedia “a soggetto”, commedia “di maschere”, commedia “all’improvviso”, commedia “italiana”: le denominazioni del nuovo genere furono parecchie; ma quella di commedia “dell’arte” prevalse, perché definiva con precisione il suo carattere essenziale, ch’era questo: di essere recitata, per la prima volta in Europa, da compagnie di comici regolarmente costituite, con artisti che vivevano dell’arte loro; in altri termini, da comici di mestiere»155. Questi Comici emancipano il teatro dall’arbitrio delle corti, lo professionalizzano e conseguentemente lo commercializzano. Parados155 D’AMICO (1970), vol.II, pgg.61/62.
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salmente fu Goldoni che a posteriori, mentre ne attuava la riforma, chiamò questo genere “Commedia dell’Arte”, ma in realtà si tratta di una epocale “commedia degli attori”, non soltanto eseguita ma creata e governata dagli attori. Sono loro a ideare la “compagnia”, la cellula fondante del teatro moderno, e quindi la recitazione “di complesso”, e la non meno importante “tournée”, l’itineranza teatrale tipica della tradizione italiana; e altresì le “stagioni”, a cominciare dalla principale: quella di Carnevale, compresa tra le festività natalizie e il martedì grasso, con l’inderogabile pausa della Quaresima, in cui gli attori finivano l’ingaggio e dovevano procurarsene un altro (drappi viola coprivano i crocefissi in quel periodo del culto, e il viola resterà un colore scaramantico per ogni teatrante). I Comici vivono del favore degli spettatori; secondo Vito Pandolfi furono gli spettatori a volere le maschere. «Il pubblico italiano si è sempre orientato verso lo spettacolo comico, che avesse a sua base una situazione quotidiana, realista anche in senso minore. Di qui la necessità di presentargli i tipi più interessanti dal punto di vista parodistico, del mondo a lui circostante: il facchino bergamasco, il mercante veneziano, il pedante bolognese, il militare straniero, il bravo nostrano. Il pubblico ama rivedere e seguire i personaggi che gli sono cari. possibilmente interpretati dagli stessi attori. Ecco quindi la creazione dei tipi fissi, e la specializzazione nei tipi fissi di ciascun attore (che così si rendeva doppiamente grato al suo pubblico)»156. Gli studiosi azzardano persino l’anno, il 1545, in cui, a Padova, un gruppo di attori si costituisce per la prima volta in compagnia comica con regolare atto notarile. «Assumeva dunque, in Italia, dignità giuridica e struttura economica l’antichissima professione dell’attore. L’atto padovano presenta caratteri di assoluta novità: infatti gli attori che s’uniscono tra loro in questa compagnia (che oggi definiremmo “cooperativa”) non chiedono riconoscimenti da parte di autorità politiche, né si legano fra loro in corporazione, ma affermano implicitamente il diritto di esercitare liberamente la propria professione. Inoltre, fissano il tempo della loro vicendevole collaborazione, un periodo di circa undici mesi, definendo così, per la prima volta, i termini dell’”annata teatrale”, che in tutta Europa, per secoli, seguirà questo modello. [Nel Medio Evo i Comici] erano stati mescolati e confusi con la massa variopinta, cialtrona e miserabile dei saltimbanchi, dei giocolieri, dei truffaldini spacciatori di prodigiosi “medicamenti”; la convivenza con 156 PANDOLFI 1964, vol.I, pg. 316.
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costoro, con cui si trovavano ad agire davanti al pubblico, sulle piazze, durante le fiere e i mercati, continuerà fino a quando gli “attori” non troveranno accoglienza in luoghi scenici coperti e disponibili ad ospitare i loro spettacoli»157. I Comici recitano “a soggetto”, cioè non sulla base di un testo definito, ma dandosi semplicemente una trama, un canovaccio, uno “scenario”158, che sviluppano mimicamente e dialogicamente attraverso la improvvisazione individuale e la grande intesa reciproca. Lo strumento di questo metodo erano i “tipi fissi”, stilizzati, ricorrenti, capaci di farsi immediatamente riconoscere dal pubblico. Buffoni mascherati biancovestiti erano presenti nel teatro antico, e proprio dalla commedia classica (ad esempio da Plauto) i primi attori dell’Arte prendono spesso gli spunti per i loro scenari, infarcendoli del più volgare armamentario delle farse plebee, amplificando l’interpretazione con una fisicità acrobatica. Il ricomparire, di spettacolo in spettacolo, degli stessi tipi e il successo popolare di questa pratica, inducono i Comici a radicalizzarla. Libero dall’autore, che gli chiede costantemente di cambiare, l’attore si autoimpone una identità scenica immutabile. «L’accusa che gli autori fanno sempre agli attori, e più che mai ai grandi attori è appunto questa: di non adattare sé ai personaggi, ma i personaggi a sé. Di restare, malgrado i mutati abbigliamenti e truccature, immutabilmente se stessi. È da questa fatale impossibilità, è dall’aperto riconoscimento di questi limiti personali, limiti fisici e spirituali, insuperabili per tutti gli attori, e specialmente pei veri artisti, che nasce la maschera. Il comico dell’arte (salvo rarissime eccezioni), per raggiungere l’eccellenza, rinuncia all’illusione di potersi rinnovare sera per sera; e decide una volta per sempre di limitarsi, in perpetuo, a una sola parte. Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell’arte sarà un solo personaggio. Persino il suo nome si confonderà con quello della sua maschera, sicché a un certo punto non si saprà più quale sia il vero, e quale il fittizio»159. Oggi si potrebbe pensare a Ferruccio Soleri, caso unico di attore legato per tutta la vita alla maschera di Arlecchino grazie alla longevità inarrivabile del celeberrimo spettacolo di Giorgio Strehler. 157 DOGLIO 1990, vol.II, pgg.162/163. 158 Chi è interessato a questo argomento e, insieme, alle belle edizioni può consultare: RIC-
COBONI Luigi, Discorso della commedia all’improvviso e scenari inediti, Milano: Edizioni Il Polifilo, 1973 e TESTAVERDE A.M. (a cura di), I canovacci della Commedia dell’Arte, Torino: Einaudi, 2007. 159 D’AMICO 1970, vol.II, pg.66.
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E così apparvero (per resistere fino al Settecento): Pantalone, brontolone all’antica, gretto, talvolta innamorato ridicolo; l’altro senex: il dottor Balanzon, archetipo della “bestialità dottoreggiante” (si pensi ai capolavori manzoniani: Azzeccagarbugli e Don Ferrante); il Capitano, Spavento o Fracassa o Spezzaferro, discendente del miles plautino, attraverso cui i Comici esprimono a modo loro l’insofferenza verso la dominazione spagnola; e poi gli “zanni”, quelli che nella classicità erano i servi e che normalmente sono due: Arlecchino e Brighella, capostipiti di tanti altri (Franchi e Ingrassia). E ancora: le fantesche, senza maschera, che sanciscono il seducente, scandaloso ingresso delle donne nella compagnia, antesignane delle “servette” (Virginia debutta in carriera con La serva amorosa di Goldoni, che resterà sempre un suo cavallo di battaglia), che diventeranno le scatenate “soubrettes” del cafè-chantant, del teatro musicale leggero, della rivista, del musical. Non bisogna pensare alla capacità improvvisativa che caratterizzò la recitazione dei Comici come a superficialità o, peggio, a ignoranza. Uno dei motivi per cui si attribuisce loro la paternità del professionismo attorico, sta proprio nell’attenzione che dedicarono alle fasi preparatorie degli spettacoli. Il gruppo, la “compagnia”, si riuniva per concertare l’esecuzione, probabilmente sotto la guida di un capo riconosciuto e sulla base di regole che taluni comici tradussero in veri manuali, editi e divulgati. Ognuno, in rapporto alla propria maschera, curava raccolte scritte, anche stampate, di “concetti”, “tirate”, “prime uscite”, “saluti”; un ricco repertorio che imparava a memoria e che inseriva nei momenti utili della recita, integrandolo perfettamente con il dialogo dei colleghi e con il ritmo della trama, e improvvisando ulteriori parole ovviamente coerenti con quelle memorizzate. Alcune battute si ripresentavano quindi pressoché identiche di spettacolo in spettacolo, di piazza in piazza; persino Molière e Goldoni utilizzarono ancora frasi dal repertorio dei Comici. I Comici portano l’Arte in tutta Europa; un’altra loro invenzione sono le tournées all’estero; nel Seicento trovano a Parigi una seconda patria, dove sono protetti dal Re e hanno un loro teatro e dove finiranno per acquisire anche sul palcoscenico la lingua francese. Tiberio Fiorilli, creatore della maschera di “Scaramuccia” si vuole sia stato maestro di Molière. Il meraviglioso arlecchino Domenico Biancolelli, più conosciuto come Dominique, forse ispirò Marivaux. Prima ancora, l’insuperabile Isabella Andreini, stella della Compagnia dei Gelosi, idolatrata dal pubblico e dai poeti, era stata sepolta a Lione con funerali da regina.
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Il linguaggio aspro dei primi scenari si ingentilisce; anche le movenze da rozze diventano plastiche; persino i costumi si fanno più gradevoli. I Comici, alcuni dei quali non avevano dirette radici popolari ma erano intellettuali desiderosi di interpretare la realtà, cominciarono a scrivere, spesso prendendo spunto dalla commedia erudita. Fu così che la Commedia dell’Arte diede vita all’attore-autore, una figura tipica del teatro italiano che è fin troppo facile collegare alla successione di grandi figure: da Viviani a Petrolini, per arrivare a Eduardo e a Fo. Sono gli stessi Comici che, già nel Seicento, si servono delle Maschere ma ne incominciano la lenta trasformazione in caratteri. Si gioverà di questo lavoro Goldoni quando toglierà la maschera a Pantalone e lo sostituirà con una galleria di esponenti dell’operosa classe mercantile. Torniamo a Isabella, moglie del Capitan Spavento Francesco Andreini, per ricordare che le compagnie dei Comici portano in sé il seme delle “famiglie d’arte” che non ha mai smesso di fecondare il mondo dello spettacolo (basti pensare al circo) e del teatro italiano in particolare. Ma il mito di Isabella simboleggia soprattutto l’apparizione della donna sulla scena, cioè l’avvio della professione di attrice nel senso moderno. Naturalmente il contesto non fu fra i più adatti ad accogliere la grazia femminile. Gli esordi dell’Arte sono un crogiuolo di sconcezze, doppi sensi grossolani, linguaggio da trivio, allusioni oscene e quant’altro. Le attrici si trovarono dunque subito a fare i conti con un filone teatrale che nei secoli attraverserà le pochades, l’avanspettacolo fino alle peggiori volgarità televisive. Ma soprattutto dovettero affrontare i moralisti e le autorità religiosamente o civilmente deputate. Sulla fronte dell’attore moderno torna, senza soluzione di continuità, il marchio d’infamia che aveva perseguitato il buffone medievale. «Proprio il suo carattere estemporaneo e imprevedibile, la mancanza di un testo che si potesse controllare prima della rappresentazione (ed eventualmente censurare), la presenza sempre conturbante, spesso impudica delle attrici, l’oscenità dei rapporti fra i servi ostentata in scena, il cinismo delle trame intessute al più basso livello della convivenza civile, l’assenza totale di senso morale nelle avventure, ora crudamente realistiche ora fantasiosamente fiabesche, comunque astratte da una precisa realtà storica, facevano della “commedia degli attori” un esplosivo dirompente della moralità privata, del costume famigliare della popolazione italiana, in anni contrassegnati ormai dalle iniziative restauratrici della Controriforma Cattolica»160. 160 DOGLIO 1990, vol.II, pg.208.
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Tuonante e inequivocabile questa omelia che il cardinale Borromeo rivolge nel 1583 al popolo della diocesi di Milano: «Cristo abita nelle Chiese, negli Oratori, nei Ginnasi della Dottrina Cristiana. Il Demonio nei luoghi impudichi abita, nelle taverne, negli spettacoli, sulle scene. Il Mimo e l’Istrione, con manifesti appesi ai muri, vi invitano a quell’invenzione del Demonio che chiamano Commedia. Commedia la chiamano, ma credetemi, per voi è sempre Tragedia: vi eravate entrati vivi e sani, ne uscite spesso morti a causa della concupiscenza, feriti dalla libidine»161. Nonostante gli onori loro tributati da letterati, potenti e persino monarchi, le attrici condurranno una lunga battaglia contro il pregiudizio che nel teatro italiano potrà dirsi vinta solo con le “divine” dell’Ottocento, in mezzo alle quali Virginia portò la sua passione insieme alla sua disciplina etica. Nel 1964 Vito Pandolfi, a già avvenuta santificazione della regia teatrale finalmente emersa anche in Italia, si abbandona ad una affettuosamente spietata esaltazione dei “comici” per poi sottolinearne la particolare evoluzione ottocentesca. «Infingardi e all’improvviso dinamicissimi, avari con il prossimo ed anche con i compagni, come larghi con sé o attorno a sé per pura megalomania, ignoranti fino all’assurdo e pedanti scioccamente, adulatori con i potenti e a volte capaci di scattare rivoltosi, seguaci di ogni superstizione, impermeabili ad ogni scienza, passionali ma sempre in modo estremamente provvisorio, futili se credono di parlar serio, profondi quando non si controllano, astuti ed esageratamente espansivi, puerili eppure di un’antica saggezza, vivi e vitali sempre, impegnati con le loro recite a porre in gioco se stessi, schiavi del loro pubblico pur di poterne diventare poi padroni, rapidi, tumultuosi, regolari nella irregolarità, tempisti nel contrattempo, incisivi, beffardi, tenaci, infinitamente appassionati, ecco i “comici” italiani, che sono e furono indubbiamente un elemento della nostra civiltà, e forse tra le più chiare forme di vita del nostro popolo. Ma lo spettacolo teatrale italiano possiede un altro volto, altrettanto legittimo e degno di rappresentare l’evoluzione del nostro Paese, con la sua servitù e la sua grandezza. Il volto di un linguaggio nazionale, del tentativo ripetutosi per secoli dall’anelito dell’Alighieri in poi, verso un’unità, verso l’indipendenza e la libertà. Pubblico di questi spettacoli, la borghesia illuminata. Gli interpreti: famiglie di attori che giungono a una dignitosa coscienza della loro professione e dei loro compiti, spesso elementi di 161 DOGLIO 1990, vol.II, pg.210.
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una media borghesia portata agli studi e a dare alla propria vita un fine superiore, ad assumere compiti civili, e che trovano attraverso questa vocazione il modo di assolvere al loro impegno. In essi anzitutto -da Modena alla Duse, da Salvini a Zacconi- il senso di contribuire ad edificare una società civile, lo spirito di una Nazione»162. Pandolfi sottolinea così che esiste un traghetto fra le maschere e gli artisti del teatro ottocentesco; a bordo c’è un preciso bagaglio: il professionismo attorico, la creazione di tipi drammaturgici, il concetto di compagnia itinerante, quello di stagione teatrale, l’inserimento nell’arte di una organizzazione e di una economia. Questa eredità venne acquisita ed elaborata dai principali attori dei decenni centrali dell’Ottocento, per i quali mi permetto di coniare una crasi arbitraria: “grandattori”, per marcare più chiaramente che trattasi di una definizione tecnica, che rimanda ad una esperienza storico-teatrale individuabile, ad uno specifico periodo entro i cui confini temporali si inscrive l’intera vicenda professionale di Virginia.
162 PANDOLFI 1964, vol.II, pg.349.
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Adelaide Ristori - Eleonora Duse. Sotto: Tommaso Salvini - Ermete Zacconi
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II.3 Grandattori
È importante premettere che la definizione di grandattore è nata a posteriori. I critici dell’epoca e gli stessi artisti che scrivevano memorie di scena e commenti sulla recitazione, non hanno mai utilizzato e tantomeno formalizzato tale definizione. Gli studiosi163 ci indicano due fondamentali libri, espliciti fin dal titolo, scritti dagli autori delle due “Storie del teatro” più ricordate in Italia164: Silvio D’Amico pubblica nel 1929 Tramonto del grande attore e Vito Pandolfi nel 1954 Antologia del grande attore165. Dai primi anni del Novecento D’Amico combatte la tipologia del grandattore come un freno al rinnovamento artistico del teatro italiano, che non è allineato con le innovazioni della scena europea anche a causa -secondo lui- di questa ingombrante presenza. Non per nulla la sua attenzione è incentrata sulla necessità di riformare, anzi: di rivoluzionare le scuole di recitazione; cosa che gli riuscirà negli anni trenta quando sarà incaricato di trasformare la gloriosa scuola di Santa Cecilia in Regia Accademia d’Arte Drammatica, che oggi continua a vivere intitolata al suo fondatore. Era inevitabile che D’Amico identificasse la nostra Virginia con la “vecchia scuola”, quantunque l’attore medio continuasse -come già detto- ad alimentarsene nel nuovo secolo nonostante la Duse, il Futurismo, Pirandello, Bragaglia, etc. Nelle righe del Tramonto si trovano due accenni critici a Virginia. Parlando della Duse scrive: «Boutet aveva adorato l’arte sua; anzi era stato tra i suoi “rivelatori”, buscandosi addirittura una sfida a duello, per difender la sua “rivoluzione” contro la tradizionale classicità di Virginia Mari163 Cfr. BUONACCORSI 2001. 164 Cfr. PANDOLFI 1964 e D’AMICO 1970. 165 Cfr. D’AMICO 1929 e PANDOLFI 1954.
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ni»; guardando alla generazione attorica tipicamente “borghese” degli anni venti, non più figli “d’arte” ma rampolli di blasonate famiglie della capitale (e allude in particolare a Cimara e a Tofano), li bolla con malcelata ironia come «provenienti da quella Scuola di Recitazione di Santa Cecilia, al tempo loro diretta maternamente da Virginia Marini, che, se non poteva certo chiamarsi una scuola moderna, stava tuttavia adempiendo al suo nuovo compito, di ponte di passaggio fra certa borghesia romana e il palcoscenico». Insomma, per D’Amico il grandattore è il principale colpevole del ritardo culturale e tecnico del teatro italiano primonovecentesco, ed è ora che lasci definitivamente il posto al regista (qui ancora pronunciato alla francese; è negli anni trenta che si imporrà il termine italiano): «Il Teatro di ieri s’affidava al comico; che, quand’era il direttore, cercava i suoi mezzi di espressione nella dizione e nella mimica sua , oltre che dei suoi attori. Oggi invece l’attore può voltar le spalle al pubblico, e piangere col volto nascosto: a una sensibilità come la nostra, un singhiozzo nell’ombra, una luce spostata a dovere, possono dare quello per cui ieri si domandava un lungo e minuto gioco mimico. E tutto questo non è più opera di singoli, ma d’un accordo generale. È arrivato l’accordatore: il metteur-en-scéne. Ieri era il grande attore, il “mattatore”, che respingeva in secondo piano il poeta, per mettere in evidenza sé. Oggi il metteur-en-scéne ha respinto a sua volta in secondo piano l’attore, per mettersi in vista lui (e a che piano sia andato a finire l’autore, non si sa più bene)»166. Gli inizi dell’Ottocento erano stati segnati dalla concezione del teatro di Stato che Napoleone si portava appresso: il teatro che educa il popolo, valore su cui in Italia si innesta il patriottismo degli artisti. La formazione dev’essere permanente, oggi si direbbe: attraverso istituzioni radicate sul territorio, di cui i francesi vantavano l’archetipo: la “Comédie” di Parigi. Quindi nascono compagnie stabili sovvenzionate a Milano, a Torino, a Parma, a Napoli, al cui interno l’attore matura sul piano artistico e su quello organizzativo. Nella sua Antologia Pandolfi scrive che l’obiettivo della recitazione è «di raggiungere una naturalezza tale nel porgere dal palcoscenico, che in essa si venga presi come da un avvenimento reale, così da dimenticare ogni convenzione». Ogni manierismo settecentesco è ormai scomparso; «ha inizio lo studio lungo e metodico della parte (spesso in contrasto con le esigenze pratiche che chiedevano preparazioni affrettate), quel recarsi in camerino molto tempo prima dello spettacolo per entrare gradatamente nel nuovo 166 Per le tre citazioni v. D’AMICO 1929, pgg. 50, 141/142 e 19/20.
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personaggio, la concezione, che allora parve rivoluzionaria, di una trasformazione interiore da far subire alla propria psiche per rendere la psiche del personaggio. La ricerca realistica iniziò da Gustavo Modena, in un senso anzitutto contenutistico, morale e civile, per portarsi poi all’estremo di Zacconi, allo sperimentalismo scientifico, all’esame fisiologico»167. Ma il grandattore è un animale scenico, in grado di fiutare il pubblico; sa che il dramma serio, vissuto come religione civile, applaudito dalle platee in abito da sera, è la chiave per entrare in società. Tuttavia sa ancora meglio che gli impiegati e le lavandaie, i militari e le portinaie, i ricchi e i poveri vogliono andare a teatro per digerire felicemente la cena, perché lo spettacolo dentro un teatro è senza dubbio il più apprezzato divertimento della giornata (che ormai sono abituati a doversi pagare). Quando lo Stato unitario, ancora neonato, si affretta a chiamarsi completamente fuori dall’economia del teatro (e ci tornerà solo con il Fascismo), il grandattore -esaurita la spinta a coniugare l’eccellenza artistica all’eroismo patriottico- si incammina nella seconda metà dell’Ottocento con la piena responsabilità/potenzialità di raggiungere le vette dell’arte e, insieme, di farsi ricco: del tutto a rischio suo. Questa formidabile convergenza fra poesia interpretativa e risultato di botteghino riuscì -manco a dirlo- a pochi, ma probabilmente è il vero connotato, la più credibile delimitazione del periodo grandattorico, che va dalla Ristori, che decide di andare in tournée all’estero perché si guadagna assai, fino alla maturità della Duse, che spariglia tutto. Più sopra D’Amico diceva che il teatro si affidava al “comico”; questo termine rimane il più popolare, il più sentimentale modo di definire il duro mestiere dell’attore. Non si dimentichi che dietro il vessillo del grandattore ci sono comprimari e colleghi provvisti di una abilità artigianale talvolta notevole, gruppi di poveri appassionati, anonimi addetti di uno “spettacolo viaggiante” che è tuttora il nucleo della vera teatralità, quella “dal vivo”. Nel 1942 Renato Simoni scrive: «Goldoni cominciò la sua riforma togliendo la maschera di cuoio ai più bravi dei suoi attori; e li trovò mirabilmente preparati a intendere e a rappresentare il suo teatro vivo». «Molto spesso il vuoto tra la fine di un grande periodo della letteratura drammatica e il principio di un ciclo nuovo, fu riempito dagli attori»168. Simoni sostiene che l’originalità di fondo del comico dell’Arte sta 167 PANDOLFI 1954, pgg. 15/16. 168 SIMONI Renato, Prefazione, in LEONELLI 1942.
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nell’essersi affermato fuori dal “testo”. Per le mutate condizioni socioculturali il grandattore ha bisogno di un testo drammaturgico-letterario, ma lo vuole fatto su misura e a tal fine martirizza a suo piacimento il sarto-scrittore, e non si perita di tagliare e cucire da sé. Qualunque distinguo storico-scientifico si voglia fare, è indubbio che i Comici dell’Arte, proprio perché non aboliti ma “sublimati” da Goldoni, lasciarono un’impronta indelebile e caratterizzante nel successivo teatro italiano. Sono due i loro lasciti fondamentali; una forma organizzativa essenziale: la compagnia nomade, ancora presente negli odierni cartelloni; una impostazione tecnico-recitativa ripartita fra ruoli, che in parte si possono considerare una gemmazione delle maschere e che, decadendo progressivamente, durarono fino a Novecento inoltrato. L’attore sette-ottocentesco aggiorna la tradizione di trasformare se stesso in un carattere fisso, che viene “prima” del testo; le maschere governavano i canovacci, mentre i ruoli condizionano la drammaturgia fino alla definitiva emancipazione dell’autore a fine Ottocento, in una linea che va da Ibsen a Pirandello, quando gli stessi attori più sensibili dichiareranno superata questa impostazione. Tuttavia la compagnia nomade basata sui ruoli è una tipologia italiana che arriverà agli anni trenta del Novecento, e rimane sottesa, “in ispirito”, a ogni formazione di complesso, cioè di medio-alta qualità collettiva (modello oggi scontato nella danza ed economicamente improponibile nella prosa) impegnata a distribuire un grande numero di personaggi. Quale era il trantran della prosa e della lirica nomadi, di questa vera colonna vertebrale del teatro italiano? La stagione principale, detta di Carnevale, andava -come più sopra sanciva un bando comunale alessandrino- da Santo Stefano al primo giorno di Quaresima, quando le formazioni di prosa si disfacevano e si rifacevano. In generale nell’autunno si vendevano bene melodramma e tragedia, in primavera opera buffa e commedia. La lirica teneva lo stesso titolo per più repliche; il pubblico valutava gli interpreti e in subordine il compositore (a meno che non fosse fra i Grandi), ma si irritava per le frequenti sostituzioni e i non pochi annullamenti di recite a causa dei malanni e dei capricci dei cantanti; l’orchestra era decorosamente mediocre. Invece le compagnie drammatiche, quando arrivavano in una città, si esibivano da una settimana in provincia a qualche mese nei centri metropolitani, cambiando repertorio ogni sera; durante questa tenitura169 la critica esprimeva 169 È il nome gergale con cui in teatro si indica la quantità di recite consecutive che una
compagnia fa in una città (che a sua volta viene detta “piazza”).
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pareri -anche opposti- su ciascun titolo, mentre il pubblico tendeva a farsi un’opinione complessiva (ovviamente uno spettatore vedeva più spettacoli della stessa compagnia), era severo con i testi nuovi ma li voleva, apprezzava i bei costumi e (quando smisero di essere solo delle povere tele dipinte) gli scenari d’effetto. Ma torniamo indietro. A partire dal 1897 una singolare figura di scrittore-attore-didatta, Luigi Rasi170, pubblica a dispense un ponderoso dizionario in cui raccoglie biografie e immagini di centinaia di attori, dal Seicento ai tempi suoi. Rasi intitola la sua opera, divenuta fondamentale per i ricercatori: I comici italiani, quasi a significare che tale “qualifica” non va limitata, nella nostra tradizione teatrale, agli interpreti dell’Arte e nemmeno genericamente a quelli che “fanno ridere”, ma va estesa metastoricamente a tutti gli Attori. «Ah! Questi comici nostri, come son diversi, e come sono stati sempre uguali attraverso i secoli»171. Nei suoi volumi (l’ultimo esce nel 1905) in ordine alfabetico, Rasi mescola gli interpreti dell’Arte, descrivendo per ciascuno la maschera che indossò per tutta la sua vita scenica, agli artisti dell’Ottocento, precisando per ciascuno il ruolo o i ruoli nei cui panni svolse la sua carriera (che so: amoroso in gioventù, primattore nella maturità, padre nobile in vecchiaia). L’evoluzione dei ruoli è insita nel declino delle maschere ma soprattutto nella evoluzione della scrittura drammaturgica, nella compagnia goldoniana con i suoi tipi (fra cui primeggia quella “servetta” che dà il ritmo allo spettacolo e che sappiamo essere il ruolo della prima Virginia), e anche negli stilemi recitativi applicati alla tragedia alfieriana, così come catalogati dal Morrocchesi172. «Tra fine Settecento e primo 170 Cfr. RASI 1897. In subordine, cfr. anche LEONELLI 1942. 171 LOPEZ S., I comici italiani, in “La Stampa”, 06.11.1898 [ALST]. 172 Antonio Morrocchesi, che è fuori dal nostro oggetto perché appartiene al primo Ottocen-
to, e che è sinonimo di eccessivo manierismo, merita comunque una specifica digressione. «Evochiamo il primo Ottocento, e la scrittura precettistica ed erudita di cui è solerte portavoce il Morrocchesi: “Oh in quale errore si trovano coloro i quali ciecamente credono che per le arti di genio e massimamente per questa [la recitazione] non vi abbia un più valente precettore dell’istinto naturale”. Ecco dimostrato come dall’epoca risorgimentale ad oggi l’orientamento più spontaneo del teatrante (di volta in volta artista reduce dalla tradizione “all’improvviso”, o comico ancora detentore di canovacci, o presto o tardi commediante allo sbaraglio) sia sinonimo di artigianato che talvolta può dar luogo a nocive imitazioni di talento, a fenomeni sommari e deboli cui piuttosto si preferisce il dogma dell’interprete, la disciplina di un impeccabile esecutore di uno spartito ad uso della scena. E allora (il fenomeno investe il Sei-Settecento dello spettacolo) viene man mano affermandosi l’utilità di un tirocinio formativo, una sorta di apprendistato formale che al posto della sempre più desueta gavetta d’attore a gestione familiare si traduca in impatto con una summa didattica, con una guida alla recitazione. In quest’ottica di Riforma e di
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Ottocento si ha infatti una fase delicatissima di transizione fra il vecchio teatro stancamente erede della Commedia dell’Arte e la nascente drammaturgia illuministica e preromantica. Che significa poi, nel concreto, tutto un vasto arco di modelli testuali: dalla commedia lacrimosa al dramma (inteso in senso generale), dal dramma patetico-sentimentale al dramma storico. L’abbandono delle maschere a favore di questi nuovi moduli drammaturgici non può però fare a meno di mettere in evidenza ancora una volta una serie di personaggi riconducibili a una definizione tipologica. Al centro dei nuovi intrecci ci son pur sempre giovani innamorati, padri, eroi, tiranni, ecc. Il sistema dei ruoli ne prende atto e in qualche modo ne istituzionalizza l’esistenza. Più in generale si può dire che l’articolazione per ruoli svolge una funzione di mediazione fra il tramonto del vecchio modo di produzione, risalente alla Commedia dell’Arte, e la nuova situazione storico-culturale che si impone a cavallo fra Settecento e Ottocento»173. Nei primi decenni dell’Ottocento i ruoli sono diventati la base dell’organizzazione della compagnia. Al di là dei divi, gli altri attori sono scritturati al fine di riempire le “caselle” dei ruoli. I capocomici, nel promuovere le loro compagini presso i gestori dei teatri, dapprima esaltano la presenza di nomi famosi, e dopo elencano la quantità di ruoli coperti dalla compagnia per dimostrarne le capacità realizzative, quasi accostando ai ruoli i nomi degli interpreti anziché viceversa. È, in sedicesimo, come un’orchestra sinfonica: ci sono i solisti, le prime parti e le file; ogni partitura eseguita deve, almeno tendenzialmente, coinvolgere tutti, ciascuno con la propria qualifica. In ogni caso l’organico deve essere tale da coprire una vasta gamma di opere. Per la compagnia ottocentesca l’informazione sul repertorio che sarà messo in scena sistematizzazione dei rudimenti per una meta del Sapere e dell’Agire in prosa, si collocano con prepotente autorità le Lezioni di declamazione e d’arte teatrale che Antonio Morrocchesi congedò nel 1832, sorta di pietra miliare per tante gamme di coloriture vocali e di dettami riguardanti la compostezza, il porgersi, il dissimulare. Protagonista alfieriano fin dal 1793, nel senso proprio di battagliero interprete del repertorio dell’Alfieri, Morrocchesi coniò uno stile vigoroso ed enfatico, un atlante di robuste pronunce e movenze che si sarebbero poi stampigliate su generazioni e generazioni di addetti ai lavori, determinando un manierismo neoclassico che fonda la sua matrice, appunto, sulla Declamazione; quella stessa declamazione che un secolo dopo, in avanzato primo Novecento, figurava, ad esempio, a chiare lettere nel parigino Conservatoire de Musique et de Déclamation, inducendo Silvio d’Amico a deplorare il vocabolo, a constatarne l’onere (così preso a se stante, senza ampia palestra umanistica e ritmica) che era un onere tutto ancora vincolato ad antiquati criteri» [DI GIANMARCO Rodolfo, Voci e gesti per aspiranti persuasori all’antica italiana, in MORROCCHESI 1991]. 173 ALONGE 2012, pg. 248.
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è in subordine, a conferma del fatto che l’autore viene dopo l’attore, che l’autore scrive in funzione dell’attore. C’erano capocomici che in alcune serate non annunciavano né il titolo né l’autore rappresentati, e invitavano il pubblico a godere della “sorpresa”. Le schede di presentazione si dividono diligentemente in Donne e Uomini; il gruppo femminile può comprendere: prima donna, seconda donna, madre (o madre nobile), amorosa, servetta, caratterista, ingenua, generica. Il gruppo maschile: primo attore, brillante, tiranno, padre (o padre nobile), promiscuo (adatto a interpretare vari ruoli), amoroso, caratterista, generico dignitoso (una specie di primo degli ultimi, che pare fosse il ruolo di Giovanni Battista Marini quando incontra Virginia), ingenuo, generico. Le locandine indicano inoltre con rilievo il suggeritore (nella lirica le mansioni sono diverse e anche la denominazione: rammentatore): una vera colonna per le recite, sia durante la loro preparazione, sia durante la loro esecuzione, insomma: un superdirettore di scena che, ad eccezione della recitazione strettamente intesa, spesso è il vero responsabile dello spettacolo. Il ruolo non va confuso con la “parte”: è il criterio, o meglio: l’apriori con cui prendere decisioni, di volta in volta, in merito alla parte. Il primattore e la primattrice hanno il diritto intoccabile di interpretare le parti protagonistiche di ciascun testo e di accettare/rifiutare personaggi esclusivamente in rapporto alle loro attitudini artistiche; se uno dei due è il capocomico -come accade quasi sempre- i suoi diritti prevalgono sull’altro (pensate: la Ristori taglia il Macbeth shakespeariano fino a ridurlo ad un copione in cui c’è soltanto la parte di Lady Macbeth!). Il brillante è una sorta di primattore leggero, fondamentale nell’assetto della compagnia, spesso vero motore dell’azione scenica, molto amato dal pubblico; trasformato in macchietta nei passaggi dalla farsa alla pochade al varietà, nel dramma borghese è il commentatore ironico, talvolta il portavoce dell’autore, il raisonneur pirandelliano. Il promiscuo può diventare un superprimattore, dotato di strumenti espressivi completi, dal drammatico al comico al dialettale; si pensi alla gamma espressiva di un Eduardo, di un Romolo Valli, di un Gigi Proietti. Detentori di un ruolo certamente si diventa, con la tecnica e l’esperienza, ma anche si nasce; infatti, per possedere davvero un ruolo, è pressoché indispensabile aver ricevuto dalla natura le physique du rôle. Il primattore deve avere una certa prestanza fisica ed essere una figura inequivocabilmente virile, dai tratti singolari, meglio se magnetici. La prima donna è preferibile sia “giunonica”, il che normalmente corri-
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sponde all’effetto-decolleté: seno autorevole, spalle rotonde e braccia morbide. I canoni della bellezza del suo viso appaiono, se si scorrono le cronache e le fotografie dell’epoca, piuttosto diversi dai nostri attuali. Sulla scena ottocentesca il femminino non può che ribadire l’eterna potenza del suo fascino ma temperandola con un alto senso morale. La primadonna è attenta ai valori civili e ai problemi sociali, è rappresentante, in una prima fase, di sentimenti patriottici e, poi, di buoni principi borghesi. Naturalmente un po’ di temperamento non guasta. Adelaide Ristori, nata nel 1822, figura esemplare per tutto il secolo, condanna, scandalizzata, La dame aux camelias perché è una cortigiana (salvo poi interpretarla perché fa cassetta) e Medea perché è una figlicida, e accetta Mirra (innamorata del padre fino all’incesto) solo perché la scrittura di Alfieri l’ha totalmente “depurata”. Fanny Sadowskyi invece (con la quale pare avesse debuttato il nostro generico Marini), nata nel 1827, brava e bella attrice allieva di Gustavo Modena, non poneva soverchi limiti al suo istinto. «A proposito del suo dare l’anima viva ed accesa in ogni “parte” di passione, il Costetti racconta che avendo ella baciato veramente Paolo nella famosa scena d’amore della Francesca di Pellico a’ Fiorentini di Napoli, intervenne il fisco, il quale inflisse all’artista scandalosa la multa di dodici ducati. Ora accadde che, dati da lei allo stesso punto due baci la sera di poi, un bell’umore dalla platea si diede a sclamare: “Donna Fanny, so’ ventiquattro ducati”, con che successo di risa e di applausi ognuno può immaginare. Quando nella Signora dalle camelie il numero de’ baci non potè più contarsi, si tentò di proibirli con la minaccia di proibir la recitazione del dramma; ma fu invano: la Sadowsky continuò a baciare, e il pubblico ad applaudire»174. Però su tutto c’è la voce, che per Virginia fu la vera eccellenza. Lo spettatore ottocentesco, innamorato del canto melodrammatico, dal teatro di prosa pretende voci potenti, ammaliatrici, capaci di articolarsi in mille effetti. Ancora una volta non ha importanza il testo, ma come la voce dell’attore lo porge, lo “espone”. Le critiche drammatiche ripetono frequentemente che la mediocrità del testo (in genere di autore italiano) è stata salvata, riscattata, scongiurata dalla bravura recitativa; l’arte vocale dell’attore ha “ricreato”, per così dire “riscritto” le povere parole dell’autore. Anche a fine Ottocento, quando verranno in primo piano la ricchezza dei costumi, l’accuratezza scenografica, la novità della illuminazione elettrica, e soprattutto il dramma scritto ritroverà la sua piena dignità, la voce rimarrà il vessillo del grandattore o me174 RASI 1897-1905, vol. III, pgg. 475/476.
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glio: la principale connotazione della “vecchia scuola”. Virginia deve la sua carriera alla voce, celebrata dagli ammiratori e anche dai critici più severi; il ricordo del suo nome sarà tenuto in vita nel cuore del pubblico dal ricordo della sua voce “d’oro”. «Secondo il sentimento che la dominava, la voce della Marini era morbida, ricca di melodie soavi o vibrante di forza. Aveva accenti d’ineffabile dolcezza, e diventava vigorosa, quasi maschia: era tenerezza d’amore, era fremito d’ira, era squillante riso di gioia, strazio d’anima, grido d’angoscia o di vendetta. Correvano tempi in cui la “bella voce” esercitava sulle platee un fascino irresistibile; e si capisce come certe frasi, dette dalla Marini con mirabile efficacia, incantassero e incatenassero il pubblico»175. Si è detto che i Comici dell’Arte lasciano ai secoli successivi la forma della “compagnia”, nella sua accezione più duratura e più italiana: la compagnia “nomade”. Le maschere erano una sorta di struttura su cui costruire anche l’organizzazione e l’economia del gruppo. Ugualmente accade, in modo evoluto, per i ruoli, il primo dei quali è in verità il capocomico. Coincide prevalentemente con il primattore, qualche volta con la primattrice. È lui l’impresario, cioè il titolare della compagnia, oppure è socio nell’impresa, sempre svolgendo i compiti di scritturare gli attori e di provvedere al pagamento delle varie spese. È lui che sceglie il repertorio, tratta con gli autori, con gli agenti e gli importatori di testi (soprattutto i più ambìti: quelli francesi); che distribuisce le parti e dirige le prove con l’aiuto del suggeritore. In altri paesi, per esempio in Francia e Germania, queste attività di coordinamento artistico vengono affidate ad un “direttore”, la cui figura si trasforma a fine secolo in quella del regista moderno. In Italia il processo sarà ben più lento, ma una sorta di direttore si manifesta; alcune compagnie ebbero un assetto direttivo ripartito fra un impresario (unico o con soci) che metteva il capitale, un capocomico-organizzatore, che si occupava di tutto, e un art-director (che in genere era il primattore ma poteva essere anche non-recitante) che sceglieva il repertorio e gli attori da scritturare. Travasando tutto ciò nella vita dei nostri coniugi, si può dire che Giovanni Battista -oltre ad essere l’eterno agente di Virginia- fece soprattutto il capocomico-organizzatore (che era il suo vero mestiere), si associò talvolta nelle imprese dove impose se stesso “in cambio” della presenza di Virginia, e negli ultimi anni della carriera di lei decise purtroppo di farsi impresario per conto suo (con i capitali guadagnati dalla moglie); per alcuni di 175 SCAGLIA 1929, pg. 11.
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quegli anni Virginia fece dignitosamente la direttrice artistica. La più complessa responsabilità della compagnia capocomicale è la gestione di un’attività a dir poco frenetica. Il bacino di pubblico era quel che era, e bisognava portarlo possibilmente ogni sera a vedere uno spettacolo diverso, divertendolo per una intera serata che andava, di norma, dalle ore 19,30 alle 23,30. Per ogni stagione si dovevano avere in repertorio almeno trenta testi, oltre alle farse e ai proverbi176, badando altresì alla necessità di catturare al volo le novità soprattutto straniere e di metterle in scena nel giro di pochi giorni. «Si tenga conto che -a differenza di oggi- il singolo attore non aveva in mano l’intero copione (entro cui sta la sua parte), ma unicamente la propria parte per così dire ritagliata dal contesto generale. Ogni attore interpretava dunque il proprio personaggio -sulla base di alcune indicazioni sommarie di carattere generale fornite dal capocomico- isolatamente, astraendo dal raccordo con tutti gli altri personaggi, di cui non conosceva bene nemmeno le battute. Inutile insistere infine sulla assoluta disinvoltura con cui il capocomico interveniva sul testo: tagliando, spostando, aggiungendo»177. I contratti artistici tradizionalmente duravano un triennio coprendo ciascun anno teatrale dalla prima domenica di Quaresima fino all’ultimo giorno del Carnevale successivo. È importante sottolineare che questo sistema garantiva alla cosiddetta compagnia capocomicale una continuità oggi impensabile e in allora probabilmente sottovalutata. Già nell’Ottocento e più specificamente nel primo Novecento, alcuni artisti tentarono, periodicamente, di progettare una “stabilità” intesa, di contro al nomadismo, come permanenza in una sede per la maggior parte dell’anno e soprattutto come condizione per raggiungere miglioramenti qualitativi e culturali. Questi esperimenti furono tutti di breve durata, con maggiori o minori risultati, e per concretizzarsi davvero dovettero attendere la stagione degli Stabili del secondo dopoguerra; ma l’altro auspicio che contenevano, quello di mantenere compatto per alcuni anni il lavoro di una compagine ar176 I “proverbi” erano un genere di letteratura drammatica inventato dai francesi e molto dif-
fuso fra Sette e Ottocento. Si trattava di brevi rappresentazioni che illustravano con leggerezza un motto proverbiale o una “moralità”. Anche in Italia ci furono autori di proverbi, come Ferdinando Martini e Francesco de Renzis. Secondo alcuni l’iniziatore fu Alfred de Musset; cfr. DE MUSSET A., Comédies et Proverbes, Paris: Librairie Garnier Frères, 1942, 2 voll. 177 ALONGE 2012, pg. 249. Questa impostazione risaliva, manco a dirlo, alla Commedia dell’Arte, già nel Cinquecento, quando ciascun attore riceveva la cosiddetta parte levata o parte scannata; cfr. ibidem, pg. 86.
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tistica fissa, in realtà si poteva considerare realizzato dalle compagnie capocomicali, pur se costantemente in tournée. La chiave era proprio la forte intelaiatura dei ruoli, l’affiatamento che gli interpreti potevano raggiungere, affiatamento miracoloso se si pensa agli aspetti organizzativi fin qui descritti, dovuto all’esperienza professionale, alla lunghezza dei periodi contrattuali, e forse soprattutto ad una antica, un po’ guittesca ma straordinaria capacità di improvvisazione, una meravigliosa padronanza del “mestiere”. La compagnia capocomicale è un giacimento culturale inesauribile per il teatro italiano, che -come detto- valica il passaggio di secolo. Quindi, nel periodo in cui Virginia si apparta fra le mura dell’Accademia Santa Cecilia di Roma (dal 1895 al 1918), il modo di recitare che insegna, da una parte è culturalmente superato ma dall’altra sopravvive in tante compagnie di giro che quotidianamente visitano la provincia e i suoi sobborghi. Nel 1907 si diploma il suo allievo più famoso, Sergio Tofano, il quale nel 1965 pubblica un delizioso volumetto in cui, con il suo garbo intelligente e con dovizia di particolari, spiega perché il mondo dei capocomici, delle primedonne, dei mattatori e delle compagnie nomadi possa essere ricordato come Il teatro all’antica italiana. «Non nascondiamo la nostra ignoranza confessando di non sapere come e perché un certo repertorio eroico-storico-classicheggiante che nell’ottocento, e oltre, vantava pubblici appassionati e compagnie specializzate venisse chiamato dagli attori repertorio all’antica italiana, anche se non tutti i testi che metteva in scena fossero farina del nostro paese. Noi sappiamo però che una delle denominazioni della commedia dell’arte fu appunto quella di commedia all’italiana e non occorre molta immaginazione per supporre che questo nome, per l’invalsa abitudine, restasse a indicare il repertorio delle nostre compagnie anche quando dagli scenari della commedia improvvisa si passò gradatamente ai testi scritti. Imboccata questa via delle ipotesi, niente ci vieta di credere che, col passare del tempo, alla definizione si aggiungesse, non senza una tintarella di canzonatura, quella specificazione di antica in riferimento al genere e agli argomenti che quel teatro prediligeva. Quello che con certezza possiamo dirvi che all’epoca del nostro primo incontro col teatro, a novecento da poco iniziato, già non era difficile avvertire in questa definizione una punta di ironico disdegno per la melodrammatica convenzionalità della maggior parte di quei testi. E con altrettanta ironia verso le generazioni più anziane, gli attori delle ultime leve chiamavano all’antica italiana quella recitazione paludata e pettoruta, fatta di bella voce tonante, portamento eretto, por-
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gere dignitoso e atteggiamento statuario che quel repertorio imponeva. Poi passarono gli anni e quanti di quegli attori che ricordavamo d’aver sentito schernire i colleghi più vecchi con quella definizione insidiosa ci apparvero non meno antichi italiani delle vittime del loro dileggio»178. Secondo alcuni è il 1855 l’anno periodizzante per fissare l’inizio del fenomeno grandattorico; lo spunto lo fornisce il fatto che in quell’anno Adelaide Ristori decide di abbandonare la (peraltro ormai sciolta) Compagnia Reale Sarda e di consolidare la propria fama e il proprio portafoglio viaggiando per il mondo. Mentre è azzardato, ovviamente, determinare gli estremi artistici e culturali del periodo grandattorico, è plausibile fissarli da un punto di vista organizzativo-economico. La seconda metà dell’Ottocento è dunque, in Italia, il momento dei grandattori, protagonisti assoluti del palcoscenico e della platea, che decidono di fare della propria abilità istrionica un’azienda. E naturalmente il fenomeno comprende le grandattrici, regine e principesse: donne coraggiose e intelligenti, artiste creative, impresarie di se stesse. Ne è uno specifico esempio Adelaide Ristori che, rivelatasi come primadonna all’interno della “Reale Sarda”, ben presto ci si sente stretta e soprattutto mal retribuita. Dotata di una naturale attitudine al comando, decide lucidamente di abbinare la vocazione artistica a quella imprenditoriale, altrettanto forte in lei. Sposa il marchese Giuliano Capranica del Grillo, erede del Teatro Valle di Roma. I due sono immediatamente una “ditta”, che vuole fondare il proprio successo sulla efficacia dell’organizzazione. La loro creatura è la “Compagnia drammatica italiana di Adelaide Ristori”. Se artisticamente rifiuta di scritturare colleghi famosi, si circonda deliberatamente di collettivi mediocri, e concepisce ogni spettacolo come esclusivamente funzionale alla sua persona, organizzativamente la Ristori crede nel valore dello staff e delle relazioni. Si varrà sempre di impresari, amministratori, consulenti, fra cui molti parenti (anch’essi scritturati): tanto abili quanto devoti alla volontà della signora marchesa. È famosa per l’attenzione alle scene e ai costumi; non bada a spese per i laboratori e le sartorie. Altrettanta cura la Ristori dedica alla promozione; si occupa personalmente dei rapporti con la stampa, fa distribuire schede di sala sui testi rappresentati, diffonde autobiografie e foto con dedica. Il marchese Capranica invia osservatori fidati nei paesi oggetto di tournée, segue con severità la qualità professionale dei tecnici, è bravissimo con le banche e con i drammaturghi. «Manovra finanziaria molto abile fu quella di acquistare i diritti d’autore su tutti i testi destinati alla rappresentazio178 TOFANO 1965, pgg. 17/18.
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ne. Ciò riduceva i costi di produzione (si evitava di pagare agli autori una percentuale sugli incassi) e sbaragliava la concorrenza, rendendo unico il repertorio rispetto a compagnie ed interpreti che prima o dopo di Adelaide Ristori avessero toccato le medesime piazze. La proprietà legale dei drammi permetteva anche di adattare il cartellone alle richieste locali, senza limiti o vincoli (è noto che alcuni autori concedevano il diritto di rappresentazione limitatamente ad alcuni stati o territori o distribuivano le concessioni a più interpreti per zone determinate). Si veda come Paolo Giacometti, ad esempio, sia stato convinto a cedere il possesso legale di tutte le tragedie e commedie composte per Adelaide Ristori»179. La coppia decise che il miglior investimento erano le tournées all’estero, anche se gravate dalle enormi difficoltà dei trasporti e dalla scarsa diffusione della lingua italiana. Naturalmente ci riuscirono. I loro capolavori furono: la prima tournée, a Parigi nel 1854, che consacrò la Ristori come diva internazionale; il viaggio in Inghilterra del 1873 e l’incredibile giro del mondo nel 1874/75. «La struttura organizzativa della compagnia, nell’arco di un ventennio assunse caratteristiche di impresa industriale e l’imponente organizzazione si rifletté su alcuni aspetti dello spettacolo, in particolare sul modo di rapportarsi della grande attrice con le cose e con gli attori. Fondamenti dell’Impresa si rivelano, al tempo della conquista di Parigi, il graduale e accorto potenziamento dei mezzi tecnici, affiancato dall’abile sfruttamento del successo e del tentativo di conquista dei canali di informazione. La tournée risulta il prodotto di una struttura ben articolata e funzionale al cui vertice la coppia Capranica-Ristori regola i rapporti tra i collaboratori, distribuisce il lavoro, raccoglie i “frutti” artistici ed economici. Il mito della “donna-mondo” si fondò su una gestione tecnica non più artigianale e su una redditizia amministrazione della qualità e della quantità delle cose e degli uomini. L’Impresa Ristori portò così sui palcoscenici di quattro continenti uno spettacolo fondato su sistemi di produzione analoghi a quelli sui quali si sarebbe retta l’arte filmica ormai imminente: l’attenzione massima al visibile, l’utilizzo coreografico delle masse di contorno, la disponibilità crescente di materiali, la ricerca delle coperture finanziarie, la notevole considerazione dei fattori pubblicitari e la distribuzione ad ampio raggio del prodotto»180. Nel 1877 nasce la compagnia semistabile (definizione che tornerà nel secondo dopoguerra a identificare la convivenza fra una vocazione 179 BIGNAMI 1988, pg. 150. 180 BIGNAMI 1988, pgg. 11, 12, 219.
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residenziale e un indispensabile nomadismo) chiamata “Città di Torino” e diretta da Cesare Rossi, cui viene dato gratuitamente il Carignano per sei mesi. Nella stagione 1880/81 entra in questa formazione una Eleonora Duse giovanissima ma già insofferente della subordinazione degli attori alle scelte del capocomico. Dopo pochi anni, grazie al suo successo artistico, affianca il proprio nome in ditta a quello del Rossi, divenendo non soltanto l’assoluta protagonista della compagnia ma anche assumendone il ruolo di “concertatrice”. Alla fine dell’anno comico 1886/87 fonda, coadiuvata dall’attore Flavio Andò, la Compagnia Drammatica della Città di Roma, che a dispetto del nome non aveva nulla di stabile. «Con consapevole determinazione la capocomica seppe prendere per mano l’attrice, guidarla ed esaltarla, prepararle pazientemente il terreno per ascese e trionfi. A lei spettarono infatti la pianificazione delle numerose tournée estere, la gestione dei rapporti con agenti e impresari, la costruzione di uno studiato repertorio, la formazione di affiatate compagnie teatrali, la selezione degli attori, la ferma direzione delle prove, l’impostazione di una consapevole drammaturgia d’attrice. Tutti compiti che svolse in completa autonomia, economica e di pensiero, e che condusse con il piglio risoluto di una manager e con l’attenta cura culturale di una intellettuale»181. Ma la sua contraddizione irrisolta rimarrà il tentativo di «coniugare l’attenzione critica verso gli spunti artistici e creativi dell’attrice con la conoscenza delle necessità materiali e commerciali insite nel mestiere della capocomica»182. La vita dell’attore-capocomico è complessa; la principale fonte di guadagno sono le tournées internazionali, che tuttavia comportano problemi logistici, rapporti con impresari e agenti, preparazioni di viaggi e trasporti, indagini sui gusti del pubblico locale, etc. L’assenza di finanziamenti pubblici, la inevitabilità del nomadismo nazionale e internazionale, le scadenze di pagamento della compagnia, impedivano di fare esclusivamente “arte”, che pure era la profonda intenzione della Duse. L’equilibrio fra poesia e botteghino non faceva per lei. La Duse non ha la razionalità gestionale della Ristori, considera gli attori spaventosamente incolti, ma persegue la qualità tecnica del collettivo. Nel 1899 scrittura l’intera compagnia della Regia Scuola di 181 SIMONCINI 2011, pg.7. Cfr. anche Il poeta e la capocomica in MOLINARI Cesare, L’attrice
divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli, Roma: Bulzoni, 1987, seconda edizione, pgg.126/166. 182 SIMONCINI 2011, pg. 135.
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Recitazione di Firenze diretta da Luigi Rasi. Il suo capocomicato era in primo luogo una “direzione artistica” (la scelta del repertorio e la sua pianificazione, l’armonia fra gli attori, la credibilità dell’allestimento), per la quale era disposta anche all’azzardo di tasca sua, come fece con D’Annunzio arrivando alla rovina finanziaria. La sua alta sensibilità, la sua esigenza di perfezionare continuamente le proprie doti di interprete, le fecero intuire l’avvento della regia. Si era già rivolta a Virgilio Talli183 (attore, direttore, capocomico) per “dirigere” gli spettacoli dannunziani; tornata a fare impresa, si confrontò con fondatori della ricerca europea come Lugné Poe e Gordon Craig. Non era pronta a reggere le accuse contro la “sovranità” del grandattore che, con l’affacciarsi del Novecento, si alzavano da critici come Edoardo Boutet e troveranno compimento in Silvio D’Amico, ma è evidente che i connotati grandattorici che si è cercato di definire si stavano esaurendo nelle sue tensioni interpretative e nella sua ansia di rinnovamento radicale del teatro184. «Per “grande attore” non si intende tanto (o solo) un attore grande ma un determinato modo di concepire il teatro in cui l’attore risulta il signore assoluto e unico della scena che sottomette a sé, da una parte, tutti i codici spettacolari e, dall’altra, gli spettatori stessi, chiamati a partecipare a un rito di auto proiezione e di identificazione con il personaggio incarnato dall’attore. Perché il teatro del grande attore fu anche il teatro del personaggio che il grande attore creava “incarnandolo” al di là e al di sopra del testo, operando con le sue forze e rapportando a sé il personaggio al punto tale da farne una creazione autonoma togliendo “legittimità alla fedeltà accademica al testo”»185. Il grandattore nasce quando il focus dello spettacolo di prosa diventa una sintonia divistica fra l’individuo-artista e la collettività-pubblico. A fine Ottocento, in progressiva affermazione del naturalismo, il grandattore verrà definito “mattatore”, dallo spagnolo “matador”, come a marcare ulteriormente il suo dominio. Ma egli non “mata” tanto i suoi colleghi di scena, quanto il pubblico; ne governa magneticamente le emozioni; gli offre un “sublime” tecnico-artistico con cui confrontarsi. In Italia il grandattore-mattatore assume un ruolo sociale, anche rispetto alla vita economica; nell’età del liberalismo è assimilato all’imprenditore perché è lui ad assumersi il mitico “rischio d’impresa” insito nel fare compagnia (non sovvenziona183 Si veda TALLI 1927, interessante per il passaggio dall’Otto al Novecento. 184 Per le grandattrici impresarie cfr. FERRARI Franco, Intorno al palcoscenico. Storie e cronache
dell’organizzatore teatrale, Milano: FrancoAngeli, 2012, pgg. 18/58.
185 LIVIO Gigi, Il teatro del grande attore e del mattatore, in ALONGE 2000-2003, vol. II, pg. 612.
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ta!). Gli altri membri della formazione sono suoi “scritturati”, cioè suoi dipendenti a tempo determinato. Subentra un clima da “industrializzazione del teatro”, di provenienza francese, che nel concreto mi pare più corretto definire di “commercializzazione”. Si parla disinvoltamente di “mercato” teatrale. Con le loro percentuali di ricavo, con le serate d’onore, con le tournées all’estero, alcuni grandattori (i più fortunati e i meno prodighi) accumulano guadagni di tutto rispetto. È indubbio dunque che il fenomeno grandattorico si regge su un concorso di fattori organizzativo-economici, ma non dobbiamo dimenticare che alla base ci sono eccezionali personalità artistiche. È fra queste che Virginia riuscì a ritagliarsi un suo posto.
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Virginia Marini nei panni di “Messalina” di Pietro Cossa
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III. Virginia e la Scena
Si è detto che, non essendo figlia d’arte186, Virginia inizia la sua carriera “tardi”, quindicenne, con il matrimonio. Lo sposo è Giovanni Battista Marini, che recita nel ruolo secondario di “generico dignitoso”; “attore mediocre, anche se volenteroso”, più vecchio della sposa di ventuno anni, morirà ottantenne a Bagno di Ripoli, Firenze, il 27 settembre 1901. Vedovo con figli, “bruttino”, un po’ gobbo, diventa il tutore-agente di Virginia; la dice lunga il fatto, inusuale, che le imponga (non ho prove, ma sono sicuro che è stata una decisione sua) di portare il cognome matrimoniale anche come nome d’arte. Il rapporto sentimental-professionale fra professionisti del teatro è vecchio di secoli ed è sopravvissuto fino ai giorni nostri, essendo il motore di quell’aspetto fondante del teatro italiano che sono le “famiglie d’arte”. Difficile dire se questo rapporto sia stato, mediamente, più produttivo o più limitante. Nel 1879 Giuseppe Costetti scrive cose deliziose sulla “impresa coniugale” in teatro: «Il marito (questa melanconica istituzione) della prima attrice è la vera e propria infermità della medesima. Per la parte corrotta del pubblico la intattezza virginea che si deve legalmente presumere nella attrice fanciulla, vellica perfidamente l’immaginazione di certi dissoluti trincati187 che, ogni sera, si recano al teatro col mero disegno di fare una vittima della 186 «È controverso se più giovi all’artista drammatico esser cresciuto fra le scene o presentarvisi
adulto. V’hanno argomenti per l’una e per l’altra parte. Certo, l’abitudine di recitare sino dalla infanzia, essere stato sin dai primi anni al vivo contatto con attori provetti, quella grande energia incosciente che è l’abitudine, tutto ciò dà più sollecito sviluppo alle naturali attitudini, e può sino a un certo punto sostituirle. Ad esempio, un figlio dell’arte che per l’arte non abbia disposizione, potrà riuscire, non già un grande attore, ma un discreto comico; mentre il giovane che lascia l’impiego, la professione, e la famiglia per salir le scene, v’è, nel più de’ casi, chiamato da seria vocazione e da singolari attitudini» COSTETTI 1901, pg.218. 187 Ubriaconi.
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propria sconfinata scostumatezza. Il marito della prima attrice è un uomo incolore, di poca significazione. Se la prima attrice ha delle belle braccia, la loro nudità sarà la base di quasi tutte le toilettes, ma il marito geloso della prima donna ha torto marcio. Per colei che ha l’infermità di un marito, l’adulterio è il frutto proibito; c’è tutta l’attrazione magnetica dell’abisso. Oggi inebriata, domani forse… perduta. Tutto questo non esiste per la prima attrice. Essa bazzica giorno e notte coll’adulterio, grazie al repertorio dei venerati drammaturghi di Francia, e a quello dei nostri, fatto a immagine del repertorio straniero. Il mistico triangolo marito, moglie, amante, che serve alla misurazione del teatro moderno, non ha più lato che le sia sconosciuto. La prima donna è la forza, è il sorriso, è l’orgoglio della nomade associazione che si chiama compagnia drammatica. La prima donna, se vuole, fa passare le intollerabili, applaudire le mediocri, trionfare le buone cose»188. I cronisti furono unanimi nel marcare una cesura fra gli aspetti professionali e quelli familiari dei Marini. Antonio Salsilli, con uno scritto del 1880, mentre la Virginia attrice è al culmine della fama, traccia un profilo della Virginia donna in cui è l’unico a dare informazioni intime, a cominciare dai primi anni di matrimonio, durante i quali -sostiene Salsilli- l’ascesa al successo fu folgorante ma la vita personale fu duramente messa alla prova. Pare che Virginia, poco più che ventenne, si ammali gravemente, forse di vaiolo, e inoltre che cerchi di essere madre per due volte, ma «il cielo le rapì dalla culla le sue adorate creaturine: da quel momento… ha consacrato tutti gli affetti del suo cuore allo studio dell’arte prediletta. Di costumi irreprensibili, gode l’amicizia delle più rispettabili Dame italiane e straniere, e il dente della calunnia tenterebbe invano di intaccarne la riputazione illibata. Di gusti semplici, di abitudini casalinghe, modesta quanto brava, sfugge il lusso, le feste, le ovazioni. Buona e compassionevole verso gl’infelici, il suo nome fu spesso benedetto da private e pubbliche sventure. Diremo finalmente che, quantunque l’invidia tenti sempre, inutilmente, di offenderla, ella perdona volentieri e rende piena giustizia al merito delle rivali. Certo la scuola dei sommi che la circondarono le giovò molto; ma ella non fu mai continuatrice o imitatrice d’alcuno: solo studiando indefessamente il vero seppe crearsi quella maniera naturale, tutta propria, che la rende l’attrice più originale del giorno»189. Sia i commentatori suoi contemporanei sia i successivi furono unanimemente concordi nell’esaltare le “grandi virtù domestiche” di Vir188 COSTETTI 1879, pgg. 89/111. 189 PARON TONI (Antonio Salsilli), Virginia Marini: cenni biografici, Verona: Stab. lit.-tip.
Giuseppe Vianini, 1880 [BTBU].
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ginia, nel definire la sua pur intensa attività di palcoscenico come una sorta di quotidiana parentesi nella sua genuina dimensione di “buona” donna. È evidente che ciò nascondeva, da parte degli addetti ai lavori, una valutazione limitativa delle sue doti artistiche, tanto amate dal pubblico. Ma la generale stima sul piano umano fece sempre premio sui giudizi critici su Virginia attrice. Anche sugli aspetti organizzativi la sua bontà d’animo ebbe un’incidenza. Quando maturò la sua autorevolezza di primadonna, e soprattutto quando assunse funzioni di tipo capocomicale, Virginia seppe tenere una serenità di rapporti con colleghi, autori e impresari che non era consueta nelle compagnie dell’epoca. A fronte dell’estrema riservatezza nei confronti degli impegni mondani, praticò una totale familiarità con il microcosmo dei compagni di lavoro, che per tre decenni furono la sua “casa”. Alfredo Testoni, l’autore del celebre Il cardinale Lambertini, ci apre un siparietto sul giornaliero, spensierato “fuori scena” di Virginia in tournée. «Il segretario della Compagnia Nazionale [in cui Virginia milita fra l’83 e l’85] era Giuseppe Viero Doro. Un bel giorno ricevo una sua lettera raccomandata in cui mi scrive di andare a Venezia ad assistere alla rappresentazione del mio Ordinanza “a spese della compagnia” e mi invia a nome della direzione cento lire in acconto. A Venezia! E cento lire! Non mi feci ripetere l’invito, e arrivai sul palcoscenico del Goldoni con la valigia in mano e un impermeabile che tenevo ripiegato con molta cura sul braccio, nero, lucido, ancora vergine, lire quarantacinque, cappuccio compreso. I coniugi Leigheb abitavano un appartamento al primo piano in una strettissima calle; di facciata, allo stesso piano, alloggiava la Marini con suo marito, gobbetto e cavaliere. La stessa sera del mio arrivo fu stabilito, dopo la recita, di provare la resistenza del mio impermeabile. Tutto serviva per passarcela allegramente. Tutti quanti, la Marini, la Leigheb, la Giagnoni, Leigheb, Novelli, dalle rispettive finestre, dovevano versare brocche piene d’acqua su di me che attendevo fermo in mezzo alla strada, chiuso nel mio tanto discusso indumento. Al dato segnale la pioggia mi piombò furiosamente addosso, ma io levatomi l’impermeabile, mi mostrai asciutto come un baccalà al sole. Avevo vinto la scommessa. Ci si divertiva con poco. Ed erano burle ogni giorno, in teatro e fuori, alle prove e alle recite»190. Ma torniamo sul palcoscenico e, prima di intraprendere il percorso cronologico della sua carriera, visitiamo una galleria di quei modelli da cui Virginia prese senza mai rubare, con cui si confrontò professionalmente senza mai perdere i suoi segni identitari. 190 TESTONI 1925, pgg. 62/64.
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Adelaide Tessero - Giacinta Pezzana. Sotto: Alamanno Morelli - Giovanni Emanuel
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III.1 Colleghi
La coppia Ristori-Capranica probabilmente rappresentò il sogno impossibile per i coniugi Marini, la “ditta” perfetta. Giovanni Battista non aveva né il nome né i mezzi del signor marchese, Virginia non aveva né la fama né la personalità della signora marchesa, con la quale non recitò mai; ebbe l’onore di affiancarla, per anni, nella commissione della scuola di recitazione di Santa Cecilia (la Ristori era un’illustre socia dell’Accademia dal 1847, anno del suo blasonato matrimonio). Virginia manifestò per lei la più reverente devozione sia in arte che in società. Nel 1902, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Adelaide Ristori (1822-1906) viene pubblicato un opuscolo in cui Virginia, che partecipa attivamente ai festeggiamenti, scrive: «Quando entrai giovinetta nell’Arte, il nome di Adelaide Ristori faceva battere tutti i cuori di entusiasmo, di orgoglio per la grande artista, che percorreva trionfalmente tutte le capitali d’Europa e che aveva portato, anche nelle lontane Americhe, tutto il potente fascino del suo genio. Io non ebbi mai la fortuna di recitare al suo fianco, ma quando, verso il 1870, una cara amica comune mi procurò l’onore di conoscerla personalmente, trovai che l’illustre Artista era pure una donna affabilissima e perfetta. Chiesi ed ottenni dei consigli sui vari lavori, che furono per me dei tesori. Ho sempre avuto un culto per la grande Maestra»191. La storia del grandattore è in genere semplificata attraverso le figure più celebri, ma ovviamente è complessa. Per esempio, anche la Ristori, indiscussa capostipite di una dinastia, ebbe degli ascendenti, fra cui primeggia Carlotta Marchionni (1796-1861), celeberrima 191 Adelaide Ristori. Ricordo nazionale, Roma: Casa Editrice Enrico Voghera, 1902, pg. 15
[ASCAL].
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primadonna della Compagnia Reale Sarda fino al ritiro dalle scene nel 1839192. Virginia non ebbe contatti e forse nemmeno notizie della Marchionni, la quale tuttavia ha una biografia ideale per la nostra attrice; fu infatti educata dalle orsoline e pronunciò (rispettandolo, lei, fino alla morte [v. I.]) voto di castità. Non stupisce quindi che un certo “perbenismo recitativo” sia stato introdotto da Carlotta, che nel 1815 è la prima interprete di Francesca da Rimini di Silvio Pellico. La sua Francesca è del tutto “innocente”, la colpa è solo del maschietto, altro che libro galeotto! Un’attrice deve trovare la migliore “decenza” con cui presentare il personaggio scabroso e guadagnarsi così il gradimento del pubblico, la sua “approvazione”. Persino in Mirra, posseduta da una incestuosa passione per il padre, la Marchionni riesce a spegnere ogni aspetto provocatorio. In generale, l’impegno è di rendere gradevoli le parti antipatiche o peggio: scandalose. Inoltre, nonostante la perdurante influenza della censura, si sta affacciando il patriottismo primottocentesco, anche attraverso una nuova presenza della donna, l’inizio di un “emancipazionismo”. L’immagine di licenziosità pesa ancora sull’attrice di primo Ottocento, lo stesso palcoscenico è visto dai benpensanti come un luogo di perdizione. Abbracciare i valori civili che preparano l’unità nazionale, credere che il teatro possa farsene tramite nei confronti del pubblico: sono momenti di riscatto per le attrici. A metà Ottocento la drammaturgia abbandona la supremazia dei personaggi maschili e avvia una frequenza delle protagoniste femminili che incentiverà anche l’acquisizione del capocomicato da parte delle primedonne193. Marchionni contribuisce, dall’efficace pulpito dell’arte (il palcoscenico come pulpito!), alla costruzione del “perfetto ideale di femmina italiana”, aggiungendovi, di suo, l’aura della verginità: in verità un sacrificio eccessivo, ma emblematico come nessun altro della lotta contro il marchio dell’attricecocotte, incancellabile dai tempi di Roma fino al Settecento. Con Diderot194 le annose discussioni accademiche sulla essenza della recitazione195 conoscono una svolta epocale. Il grande francese 192 Cfr. SANGUINETTI 1963. 193 Cfr. GEDDA 2003, pg. 25. 194 Denis Diderot (1713-1784), noto rappresentante dell’Illuminismo, ha un posto d’onore nella
storia del teatro per aver espresso, nel breve saggio Paradoxe sur le comédien (che finisce per essere pubblicato postumo, nel 1830), idee fondamentali sulla recitazione che hanno continuato ad attraversare le teorizzazioni sulla messinscena fino ai giorni nostri. Ci sono molte traduzioni in italiano; nella mia biblioteca possiedo: DIDEROT, Paradosso sull’attore, a cura di Paolo Alatri, Roma: Editori Riuniti, 1972. 195 Cfr. VICENTINI Claudio, La teoria della recitazione. Dall’antichità al Settecento, Venezia: Marsilio, 2012.
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voleva che l’arte dell’attore provenisse interamente dal cervello e fosse “semplicemente” elaborata dalla tecnica. Il romanticismo non poteva non chiedere al cuore dell’attore di vibrare intensamente nei momenti supremi del sentimento. Il naturalismo impose una esattezza interpretativa che l’attore abbracciò ricorrendo alla scienza, ma senza azzerare il proprio stile individuale (anche per un attore di fine Ottocento la recitazione non può ridursi a fotografia; rimane “scultura”; diventerà “fotografia d’arte”, grazie al filtro del metodo Stanislavskij, con le celebrate interpretazioni realistiche della scuola cineteatrale statunitense). Nell’Ottocento italiano l’attore è il “secondo” autore del testo; sulla carta il personaggio appartiene ad un unico autore, ma sulla scena avrà tanti autori diversi quanti saranno i suoi interpreti (come nel Novecento avrà tante versioni quanti saranno i registi). Questo approccio va a maturazione con la Ristori. Dumas fils, ad esempio, ha avuto l’ardire di portare in pubblico una donna “immorale”? non c’è problema: ci penserà l’attrice a renderla presentabile in società. Medea e Lady Macbeth, come Mirra, si possono “scagionare” trasformandole in creature borderline, anzi: diaboliche, quindi non concepite in un senso rigorosamente clinico come accadrà con il naturalismo di fine secolo, bensì in una chiave psico-morale che attenua lo “scandalo” con la compassione ipocrita. La Ristori elabora una recitazione “drammatica”, quasi una sintesi fra tragedia e commedia. Cerca una sorta di “spontaneità artificiale”. Il “normale” deve essere miracolato dal “sublime”; il “vero” deve conciliarsi, quasi riscattarsi, con il “bello”. Si parte da uno studio profondo, dall’educata abilità della voce, dalla padronanza dei gesti e delle posture; si aggiunge il proprio personale filtro d’arte, indispensabile al raggiungimento dell’eccellenza, e si crea una persona scenica che il pubblico non si limiti a riconoscere ma nella quale si “immedesimi”. La Ristori vuole entrare in comunicazione con le emozioni degli spettatori, vuole trovare un metalinguaggio universale, pur avendo a che fare con la parola. Recita “perfettamente” in inglese e in francese senza avere la padronanza di quelle lingue; recita in italiano davanti a platee straniere; la critica la rimprovera ma il pubblico la segue. «Sotto i climi più diversi mi fu dato rappresentare la parte di protagonista in capolavori immortali, e riconobbi che gl’impeti delle umane passioni suscitavano sensazioni intense fra i popoli d’ogni razza. Posso dire altresì che nel proposito da me assunto, e spesso greve per le mie forze, ho spiegata tutta la mia coscienza d’artista, cercando sempre
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d’immedesimarmi coi personaggi che io rappresentava, studiando a tale scopo i costumi dei loro tempi, ricorrendo alle fonti storiche per ricostruire la loro personalità fisica e morale nelle loro manifestazioni, ora mansuete, ora terribili, ma sempre grandiose. Gli applausi di cui i più eletti uditori mi onorarono, furono certo adeguata ricompensa ai miei sinceri sforzi; ma debbo aggiungere che le più vive soddisfazioni d’animo mi provennero appunto dall’essere riuscita ad identificarmi coi personaggi che rappresentava»196. In realtà, nei casi estremi (come le suddette Mirra, Medea, Margherita etc), la Ristori si estrania in qualche modo dal personaggio, cioè lo “indica” al pubblico come dicendo: “ve lo propongo artisticamente ma badate che non c’entro nulla con lui”. O forse meglio: c’è una tacita convenzione fra il grandattore e la parte “borghese” del pubblico (quella che regge la sopravvivenza economica del teatro “industriale”), una ortodossia che si basa sull’assecondare la classe dominante e che Virginia sottoscrive senza servilismi ma anche senza dubbi. Semplificando: intorno all’Unità si assiste ad un passaggio dall’attore patriota (anticipato dall’attore giacobino) all’attore professionista197, e questo processo si estende alle attrici. Se nel primo Ottocento gli ideali risorgimentali, compresi gli estremi mazziniani, avevano conferito credibilità morale e sociale all’arte del recitare, la borghesia vincente della seconda metà del secolo riconosce al palcoscenico la condizione raggiunta ma gli chiede di “moderare gli impeti” e inoltre di acquisire un’ottica che oggi verrebbe definita “manageriale”. Gli scrittori, che a inizio Ottocento ancora guardavano con diffidenza ai comici di mestiere, si rendono conto che gli spettatori stanno diventando più numerosi e più remunerativi dei lettori. Si prepara il trionfo della commedia e insieme delle compagnie di giro, nonostante le ricorrenti tentazioni di fondare formazioni stabili. Paolo Ferrari dimostra che fare il drammaturgo, pur ancora privo di tutela normativa, non è malaccio sul piano economico; egli è il campione della commedia sociale, “a tesi”; un filone che porta alla ribalta quesiti drammatici sul suicidio, sui duelli, sul diritto di divorziare. Sale a tema drammaturgico la stessa vita quotidiana, domestica; la scenografia allestisce salotti e tinelli. Il grande successo degli anni sessanta è I mariti di Achille Torelli, successivamente toccherà ai drammi storici “all’italiana” di Pietro Cossa198. Così la nostra drammaturgia letterata si difen196 LIVIO Gigi, Il teatro del grande attore e del mattatore, in ALONGE 2000-2003, vol. II, pg. 617. 197 Devo questa successione a BIGATTO 2012. 198 COSTETTI 1901 sostiene che il decennio 50/60 fu del Ferrari, il 60/70 del Torelli e il 70/80 del
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de dal rinnovato gradimento riscosso dal teatro dialettale nelle platee popolari e dal privilegio che l’alta società accordava ai testi e persino agli attori francesi (la compagnia in lingua francese Meynadier fu stabile in Italia per decenni). Questa lotta culturale contro la “gallica alluvione” fu sostenuta da valenti capocomici, come Alamanno Morelli e Luigi Bellotti-Bon (entrambi fondamentali per la carriera di Virginia), che dedicarono la massima attenzione alle novità italiane. Bellotti-Bon tentò addirittura di conseguire un monopolio sull’intero repertorio nazionale, tanto temerario che gli fu fatale. Naturalmente alcuni sostengono che la prevalenza dei francesi è dovuta alla pochezza della produzione nazionale; Giuseppe Costetti, analizzando il periodo 1848-1870, li bacchetta con patriottico furore. «È una strana pretesa che la commedia sociale italiana, che deve fedelmente ritrarre la società italiana, non abbia a risentire nulla della società francese, quando appo noi la vita pubblica e privata incominciò sin dal Regno Italico, e ripigliò vivissimamente col secondo Impero, ad essere foggiata sulla francese! E non muove al riso la pretesa di avere una commedia italiana, da parte di coloro che non scambiano quattro parole senza infiorarle di una francese? quando usi, gusti, letture, vestiti, si mutuano alla nostra vicina? quando le amministrazioni sono impiantate a foggia delle amministrazioni francesi? quando, vergognoso a dirsi, scrittori anco valenti non lasciano d’inquinare di francesismi la loro prosa? e, per non uscire dal campo del teatro, quando si va in visibilio per ogni e più sfacciata pochade199, e si comprano a peso d’oro le commedie cadute a Parigi, con lieta sorpresa degli stessi autori delle medesime? Prima di lanciare agli autori italiani l’accusa di scriver commedie alla francese, bisognerebbe ricordarci noi di essere, un po’ meno francesi, e italiani un po’ più»200. Come dire: dal Bonaparte alla Belle Epoque una piccola o grande francodipendenza nel costume italiano fu innegabile. Si potrebbe disegnare una parabola artistica Marchionni-RistoriMarini, di cui Virginia, dopo il culmine ristoriano, rappresenta la fulgida continuità ma anche il manifesto esaurimento. Giovanna CiottiCossa.
199 Lo stesso Costetti scrive che «le pochades son tutte a uno stampo; un marito libertino,
una moglie gelosa, una suocera spaventevole; una cocotte desiderata dal marito, un vecchio libertino che desidera la cocotte esso pure; un giovinastro che desidera la cocotte e la moglie, questa che è scambiata con la cocotte e viceversa, il vecchio che prende la suocera per la cocotte; …», COSTETTI 1901, pg. 104. 200 COSTETTI 1901, pg. 239.
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Cavalletto è illuminante in proposito: «Da un lato abbiamo le attrici molto femminili, anche se non necessariamente bellissime, docili ad un certo conformismo di vita pubblica e privata, rispettabilissime, legittimamente coniugate, fedeli al trinomio famiglia-patria-religione; esse studiano al millesimo i loro personaggi, che rendono sempre in base a criteri riduttivi, ma graditissimi a pubblico e a critica, di cui sono le beniamine. Dall’altro abbiamo le attrici “nuove”, quelle che rifiutano ogni tipo di connivenza col pubblico borghese, che ostentano sentimenti anti-monarchici e repubblicani, che rispecchiano nelle scelte di repertorio il loro impegno ideologico. Partendo dal presupposto che il pubblico “ufficiale” è corrotto, lungi dal blandirlo, presentandogli ciò che gli piace, vogliono scuoterlo, provocarlo, costringerlo a pensare. La più celebre rappresentante della prima schiera è Virginia Marini, la cui lezione verrà continuata (esaurendosi definitivamente) da Virginia Reiter». Inutile dire che, dopo le confuse anticipazioni di Giacinta Pezzana, la seconda schiera è guidata da Eleonora Duse, la quale, continuando la predetta successione definitoria, nel primo Novecento personificherà l’attore “vate”. «Il legame che unisce Virginia Marini al passato più che al futuro si rileva, in primo luogo, dalla persistenza, nei suoi riguardi, di una facciata di perbenismo pubblico e privato. Virginia, non smentendo il suo nome, è sempre devota al marito e a lui “generosamente sottomessa”, inoltre, durante tutta la sua carriera artistica “è e gode fama di donna onestissima”, tanto che nel momento in cui si congeda dalle scene per diventare insegnante di recitazione nel romano Liceo Musicale di S. Cecilia (nel 1894), la si può, a buon diritto, “commemorare” con queste parole: “La ragazzina diventata sposa e attrice nello stesso giorno, divenne anche madre, sorella, tutto, dei figli di suo marito. Quando un giorno la fortuna le arrise, si ricordò di tutta la sua famiglia; provvide largamente alla madre e alle sorelle, dando sempre del suo agli altri”. Ancora una volta, insomma, prima di porsi il problema della perizia professionale della Marini, si sottolineano con compiacimento i pregi morali, la generosità d’animo, lo spirito di sacrificio, di cui pare ella sia abbondantemente dotata»201. Il grandattore non si sogna nemmeno di restituire al pubblico l’oggettività del personaggio, che è depositata in un testo di cui egli rifiuta la presunta inviolabilità. Il grandattore desidera che la propria soggettività creativa (di cui il testo è né più né meno che il fornitore) diventi una realtà assoluta cui il pubblico aderisca pienamente. Quando, a fine 201 CIOTTI 1978, pgg. 90/92.
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secolo, apparirà una nuova drammaturgia, meno manipolabile da parte dell’attore, questi dovrà specializzare ulteriormente le tecniche di immedesimazione (se ne occuperà il suddetto metodo stanislavskiano), oppure astrarsi nelle invenzioni della messinscena avanguardistica del primo Novecento, oppure trovare una modalità eccezionale (che la Ristori definisce sprezzantemente “nevrotica”) per contenuti poetici o psicoanalitici; e per questa modalità c’è un’insuperata maestra: Eleonora Duse. In pieno Novecento toccherà all’attore epico brechtiano, con tecniche recitative antiche ma non tradizionali (e, sia chiaro, guidato da una specifica drammaturgia), entrare e uscire dal personaggio per trasmettere lucidamente, antiemozionalisticamente, l’oggettività del testo. Il grandattore più strettamente inteso (quello collocabile fra gli anni cinquanta e i novanta dell’Ottocento) non può non fare i conti con un fortissimo concorrente: il cantante lirico, e lo fa anche attraverso il perseguimento di una fama internazionale. «La Ristori compie nel ’74-’76 il suo sensazionale “giro del mondo”, ma è essenzialmente un giro del mondo di lavoro: 312 recite in venti mesi e dodici giorni, cioè una rappresentazione ogni due giorni! È solo il trionfo di un capitalismo sovranazionale che poteva assicurarle questa serie ininterrotta di piazze teatrali». «Per potersi “far capire” all’estero, è necessaria una identificazione stretta col personaggio e una recitazione che non preveda sfumature ma che si proponga come immediatamente comprensibile: una recitazione che metta in scena i sentimenti -che sono non solo “eterni” ma anche “internazionali”- e non tanto la ragione in dialettico rapporto col sentimento, com’è proprio del grottesco modeniano. E inoltre, quanto più i personaggi sono veri, e cioè quanto più tendono a imitare la vita e a celare la finzione, secondo la poetica naturalistica, tanto più saranno partecipabili e comunicabili. Perché l’aspetto industriale del grande attore-mattatore è proprio rappresentato da una preminenza del suo voler comunicare sulla sua necessità di esprimersi. È questa l’epoca in cui l’attore si rende conto che chi più comunica più ottiene in termini di successo»202. La Ristori è un modello potente ma lontano; più determinanti sono i “direttori artistici” con i quali Virginia lavorò spalla a spalla. Dopo un decennio in cui affronta caparbiamente la gavetta professionale, toccando con mano la propria empatia con il pubblico e ottenendo un generale apprezzamento da parte degli addetti ai lavori, colui che in un certo senso la “scopre” (1864-65) e -pur rilevandone le doti comiche202 LIVIO Gigi, Il teatro del grande attore e del mattatore, in ALONGE 2000-2003, vol. II, pg. 620.
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le pronostica un luminoso futuro “drammatico”, è Tommaso Salvini (1829-1915). Quando lui la scrittura per il periodo 1868-70, per Virginia è la consacrazione, il prestigioso inizio di una fortunata carriera nel ruolo di primadonna. Virginia è una ragazza seria, educata alla modestia; è probabile che, nonostante l’incompatibilità fra il marito e il grandattore [v. più avanti], abbia imparato molto da Salvini, e comunque l’essere stata la sua primattrice, succedendo alla brava ma sfortunata Clementina Cazzola (1832-1868), le valse l’acquisizione di una sorta di brand qualitativo spendibile ovunque. Tommaso Salvini si può considerare il patriarca ad honorem della razza grandattorica, oltre che vero patriarca di una tipica famiglia d’arte203. Nato da attori, ebbe infatti sette figli da tre mogli; qui si ricordi il nipote Celso Salvini, autore di un pregevole libro sul nonno e di scritti su Virginia204. Nella sua lunga vita, da giovane artista-patriota Tommaso divenne un noto benestante dell’Italia borghese, pur non rinunciando agli ideali repubblicani abbracciati negli inizi di carriera, quando aveva debuttato nel gruppo degli allievi di Gustavo Modena. Ventenne, entra nella compagnia Domeniconi in cui trova Adelaide Ristori. Recita e combatte sulle barricate, come gli ha insegnato il suo maestro. Incontra la Cazzola, con cui fa coppia nell’arte e nella vita e che morirà prematuramente nel 1868. Le tournées internazionali di Salvini non si contano: Spagna, Portogallo, Francia, America del Nord e del Sud, Inghilterra, Russia (dove lo vede Stanislavskij), Egitto, Romania. Nel 1877 compra il teatro delle Logge di Firenze e lo dirige fino al 1910. Chiude ufficialmente la sua attività di attore nel 1891. Tommaso Salvini si impone come “tragico” (Zaira di Voltaire, Saul di Alfieri) e non tarda ad essere attratto, come tutti i grandattori, da Shakespeare. Si è detto di come la Ristori avesse adattato a sé “Lady Macbeth”e non si fosse peritata di proporre una tale operazione a Londra, in inglese, ottenendone un clamoroso successo. Salvini ha un approccio al testo più riflessivo; lo scrupolo di studiarlo approfonditamente in lui è prioritario, consapevole com’è della valenza culturale del suo lavoro di attore. Fece Amleto, per cui ricevette entusiastici complimenti da Gustavo Modena; si dedicò per anni all’analisi di Coriolano; 203 Cfr. l’albero genealogico dei Salvini in Tommaso Salvini. Un attore patriota nel teatro italiano
dell’Ottocento, Catalogo della Mostra del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, a cura di Teresa Megale, Firenze, Teatro della Pergola-Sala Oro, 17 marzo / 30 aprile 2012, pg. 38. Cfr. anche BUONACCORSI Eugenio, Tommaso Salvini e il Risorgimento, ibidem, pgg. 5/34. 204 Cfr. SALVINI 1938, 1944 e 1955.
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ma fu specialmente ammirato per Otello, che iniziò a interpretare nel 1856 con Clementina Cazzola nei panni di Desdemona (come fu in quelli di Ofelia, di Cordelia, di Giulietta). Si pensi che di Otello Salvini dovette dare, nel 1876, trentadue repliche al Drury Lane di Londra, oltre ad una recita riservata a centinaia di attori inglesi riuniti in platea per ammirarlo205. Inaugurò altresì la tradizione, che non smette di tentare le tempre da mattatore (negli anni cinquanta Vittorio Gassman ne fece un evento insieme a Salvo Randone), di misurarsi con il personaggio di Jago; Salvini lo fece trionfalmente nel 1890 a Firenze, con Andrea Maggi nel ruolo del titolo. Eugenio Buonaccorsi ha tracciato un profilo dettagliato dello stile salviniano. Insieme con la prestanza fisica e «con la giusta inflessione della voce, l’appropriato portamento sulla scena è uno degli attrezzi principali dell’officina tecnica di Salvini. Controscena e mimica hanno nelle sue personificazioni un rilievo a volte determinante: e del resto, in questo senso Salvini non fa che allinearsi ad una tendenza generale degli attori dell’Ottocento, i quali dovevano completare la propria intepretazione con una sosta davanti allo specchio, alla ricerca di una maschera espressiva, di un eloquente alterarsi dei lineamenti, di un significativo movimento dei muscoli facciali, di un roteare degli occhi che le luci della ribalta avrebbero messo in risalto». «Frenato ogni eccesso e schivato ogni artificio, Salvini rende ben presto la propria voce pieghevole ad ogni intonazione, e riesce perfino a compiere un capolavoro di umorismo, quando interpreta Lord Bonfil nella Pamela nubile di Goldoni, un personaggio di commedia apparentemente così lontano dalle sue corde tragiche. Indubbiamente Salvini si rivela impareggiabile nell’usare una gamma variatissima di toni e di trapassi, dalla tenerezza al furore, dal timore alla gioia, dalla malinconia alla mediazione: e nella sua recitazione anche il silenzio diventa eloquente». «La preoccupazione di essere fedele al vero si può dire percorra come un filo rosso tutta l’attività di Salvini: i suoi ammonimenti a documentarsi sulle abitudini, sui costumi, sull’ ambiente storico, dei vari personaggi del dramma lo confermano. Ed è significativa, fra molti episodi del genere, la sua visita ad un manicomio di Genova, per osservare l’espressione e il comportamento dei pazzi, al tempo della sua interpretazione di Amleto. Ma la verità per Salvini, come per Adelaide Ristori ed Ernesto Rossi, come per Gustavo Modena, non può 205 Cfr. AA.VV., Shakespeare degli italiani, seconda edizione, Torino: Società Editrice Torinese,
1951.
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oscurare nell’arte rappresentativa la bellezza: il vero e il bello, il reale e l’ideale sono congiunti sulla scena nella interpretazione dell’attore»206. All’inizio dell’Ottocento si era sconfitto il manierismo settecentesco, verso la fine dello stesso secolo si comincia ad accusare di manierismo la “vecchia scuola” impersonata da Salvini. Il patriarca ne è così consapevole che sulla sua tomba vuole sia scritto: “Tommaso Salvini, attore del secolo diciannovesimo”. Di questa “scuola” rimane fondamentale la coincidenza fra primattore e capocomico. L’elenco dei compiti capocomicali che Salvini scrive nel 1895, merita di essere citato per esteso, almeno come spiegazione paradigmatica di questa qualifica: capocomico, che ha improntato di sé il teatro di prosa italiano dal primo Ottocento al primo Novecento, e a conferma di quanto sul ruolo capocomicale ho più sopra già detto [cfr. II.3.]207 ma soprattutto perché sono convinto che Tommaso Salvini fu il vademecum cui Virginia conformò la sua attività e il suo pensiero professionali. Anche Virginia, al momento del suo ritiro dalle scene nel 1894, è considerata esponente della vecchia scuola, che tuttavia continuerà a trasmettere ai suoi allievi per altri vent’anni. Anche Virginia appartiene alla più tipica epoca grandattorica, anche se di seconda generazione, quella impegnata a trovare una confluenza fra romanticismo e naturalismo, “cioè” fra istinto artistico e spirito di intrapresa. «Con Virginia Marini si chiude la scuola a cui essa appartenne; scuola che, pur rinunziando al barocchismo che ricevette il colpo di grazia da Gustavo Modena, credette non doversi la naturalezza della recitazione scompagnare da quel sottile quasi impercettibile artifizio, di cui la scena drammatica, così dicevano, non può fare a meno. Oggi [1929] la tradi206 BUONACCORSI 2001, pgg. 110, 108, 102. 207 «Il capocomico-direttore deve far tutto e di tutto ha la responsabilità. Ei deve stipulare i
contratti coi proprietari dei teatri, o con i municipi, o con le accademie; ei deve regolare ogni imposizione governativa; ei deve scegliere le produzioni da rappresentarsi, distribuire ad ogni singolo artista le parti, che a norma del contratto gli spettano; ei deve dirigere le prove, istruire e consigliare l’attore sul modo di rappresentare i diversi personaggi; deve comporre le vertenze che bene spesso sorgono fra gli altri artisti; ei deve leggere le produzioni che gli vengono presentate, darne un giudizio, proporre le varianti e bene spesso consigliar l’autore a cambiar vocazione; ei deve ragguagliare i giornalisti di quanto concerne, più o meno, l’andamento della sua compagnia; provvedere alle scene, al vestiario per le comparse, agli attrezzi, agli accessori; dare i figurini per i costumi agli attori: quindi, se è artista egli pure (come nel mio caso), deve studiare, deve osservare gli obblighi sociali,mantenere in ordine la corrispondenza; ed infine deve accontentare le autorità, il pubblico, gli artisti, gli autori, i giornalisti, gli inservienti, e persuadere se stesso che la condizione del capocomico direttore ed artista è delle più invidiabili e soddisfacenti!», FERRONE 1979, tomo III, pg. 434.
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zione, che fu gloriosa per merito de’ suoi più illustri rappresentanti, è tramontata, forse per sempre: gli ultimi ricordi li porta con sé nella tomba Virginia Marini»208. Dopo l’esperienza con Salvini, Virginia sta per un lungo periodo, dal 1870 al 1875, con Alamanno Morelli (1812-1893). Non è un attore geniale, ha persino una voce sgraziata; ma è un ottimo organizzatore e un colto teorico del teatro. Per la sua longevità riesce a contribuire alla riforma della recitazione nel primo Ottocento e a guidare i grandattori di seconda generazione209. Dopo l’investitura salviniana, per Virginia il Morelli è il maestro ideale per raggiungere la maturità. Diventa amico dei coniugi Marini, con i quali ama anche andare in vacanza, in quel di Scandicci, dove promuove insieme a Virginia la nascita della Società Filodrammatica “Alessandro Manzoni”. Ha il curriculum esemplare del grandattore di prima generazione: nato da attori, a diciotto anni entra nella compagnia del padre di Gustavo Modena; vive il ’48 da patriota combattente; nel 1850 debutta con un originale Amleto, prima di Salvini e degli altri. È il primo interprete del Kean di Dumas père. Si scopre la vena capocomical-direttoriale e dirige la Compagnia Lombarda, poi l’Accademia Filodrammatica di Milano. Comincia a scrivere trattati fra cui un Manuale dell’artista drammatico piuttosto conosciuto. Costituisce un’agenzia teatrale con annesso foglio periodico commerciale (abbinamento in allora immancabile) e così sviluppa rapporti con impresari e attori a livello nazionale. Nel 1860-61 assume il capocomicato della Compagnia Drammatica Lombarda e la dirige fino al 1875; è in questa formazione che scrittura Virginia. Non si occupa solo di rinnovamento degli interpreti ma anche di nuova drammaturgia nazionale, sostenendola contro l’egemonia dei testi francesi. Crea un “giurì drammatico” e poi un “congresso drammatico” per sostenere gli autori nazionali (fra cui Giacosa e Torelli); presenta al ministero il “progetto per un teatro stabile in Roma”, ma è troppo avveniristico per i tempi210. Sessantottenne, intraprende la sua prima tournée all’estero (in America del Sud) formando compagnia con Adelaide Tessero. Si ritira dalle scene nel 1891, come Salvini; i due anziani direttori di Virginia lasciano la ribalta nello stesso anno; lei, non anziana, lo farà di lì a poco. Gigi Livio riassume «le costanti che percorrono i testi e la carriera artistica di Morelli: un alto senso etico della propria arte, riscattata 208 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 271. 209 Si veda un suo profilo tracciato da COSTETTI 1901, pgg. 197/199. 210 Per questo progetto v. FERRONE 1979, Tomo II, pgg. 478/479.
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sempre più dal guittismo; una pervicace volontà di riforma del teatro e dal punto di vista recitativo e da quello drammaturgico; il rispetto dei testi e una difesa della drammaturgia italiana contemporanea; un’idea armonica e di complesso della rappresentazione; l’ideale di un verisimile artistico. A proposito di quest’ultimo, fondamentale aspetto, legato al problema dell’illusione, ecco come si esprime Morelli [nel suo Manuale]: “L’arte che cerca l’illusione, che cos’è? È l’arte che vuol parere natura. Orbene l’arte che vuol parere natura non riesce che a mostrare l’abisso che sta fra la natura e l’arte; al modo stesso non riuscirete mai a fare che la natura paia arte. Svolgasi questa teoria e si vedrà che l’arte deve sempre mostrare di essersi foggiata al vero, ma restando arte e non pretendendo di essere presa pel vero”»211. Quando Virginia compie la sua prima trionfale rimpatriata nella natia Alessandria, nel 1877, è nella compagnia di Luigi Bellotti-Bon, con cui recita dal 1876 all’81 e con cui i coniugi Marini a un certo punto si associano; il che fa sì che nel secondo triennio Giovanni Battista assuma il capocomicato, nel senso dell’organizzazione interna. Infatti Bellotti-Bon (1820-1883) è l’impresario-direttore, ed è questa la sua vera vocazione, ben più di quella di attore che pure praticò a buon livello. L’Unità d’Italia porta l’azzeramento delle compagnie “privilegiate”, quelle che alcuni Stati sovvenzionavano, e butta i teatranti in pasto alle oscillazioni della domanda e dell’offerta. Tutti affrontano questa condizione; i più capaci la compensano con le tournées internazionali; Bellotti-Bon è fra i pochi a credere che il problema rappresenti una straordinaria opportunità. Già nel 1859 costituisce una compagnia caratterizzata da un ottimo livello di tutti gli attori, dalla inedita ricchezza “spettacolare” delle messinscene (anche i capocomici Marini daranno sempre attenzione alla qualità dell’allestimento scenico) e dalla costante presentazione di novità in repertorio. Il successo ottenuto lo induce a esagerare; si mette ad inseguire un miraggio monopolistico. A partire dal 1873 decide di formare tre compagnie contemporaneamente, in cui non può mantenere la stessa qualità recitativa generale e deve diminuire i rischi sul repertorio. «Oltre a controllare buona parte delle scritture più importanti, degli affitti dei teatri e delle nuove produzioni letterarie, Bellotti-Bon ottiene anche l’esclusiva sulle rappresentazioni dei testi francesi che riesce a imporre, almeno in un primo momento, al pubblico italiano, assecondando e amplificando così il bisogno del mercato di “novità”. L’operazione però non regge a lungo: la con211 LIVIO Gigi, Il teatro del grande attore e del mattatore, in ALONGE 2000-2003, vol. II, pg. 633.
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correnza interna fra le tre compagnie, quella esterna delle altre formazioni, la spasmodica ricerca della “novità”, la progressiva stanchezza degli spettatori per il repertorio francese portano lentamente ma inesorabilmente Bellotti-Bon verso la rovina economica. Costretto a ridurre le tre compagnie a una sola, gravemente indebitato, egli muore suicida nel gennaio del 1883»212. Nella storia degli impresari teatrali (soprattutto nella lirica setteottocentesca) i suicidi sono ricorrenti come gli incendi dei teatri; la vicenda di Bellotti-Bon ci conferma che quando il teatro è davvero privatizzato e perciò si immerge nelle leggi di mercato, può avere risultati importanti sul piano della qualità artistica, per i più abili si può tradurre in lauti guadagni, ma in genere conduce al disastro economico. Rispetto alle contingenze ottocentesche Bellotti-Bon scrive, nel 1875, la seguente testimonianza ironico-amara sulla vita economica (e sulla quotidianità lavorativa) di una attrice affermata, che potrebbe essere applicata a Virginia. «Vorrei che nell’imporre la tassa sugli artisti si tenesse conto delle condizioni speciali in cui si trovano. Vi sono delle attrici, per esempio (poche, ma ci sono), che hanno una paga di lire 18.000 annue. Tu esclami, o focoso lettore: “Con una tal paga possono ben pagare una grossa imposta!”. Aspetta, mio bollente amico. Metà dello stipendio lo spendono in toilettes, e non troverai esagerata questa somma quando assistendo alle rappresentazioni vedrai due o tre privilegiate che prendono una tal paga sfoggiare toilettes elegantissime. Mi dirai forse: “Spendano meno”. Il pubblico non fa il tuo ragionamento, o mio economo lettore. Rimangono L. 9.000 colle quali devono mantenere sé e la famiglia… perché hanno una famiglia… viaggiare, nutrirsi, pagare delle enormi pigioni. Quando uno rimane stabile in una città prende un appartamento smobiliato e con 6 o 700 lire ha un quartiere decente che a poco a poco ammobilia. Viaggiando continuamente si deve andare in quartieri ammobiliati, e prendendoli soltanto per un mese o due si pagano carissimi. Per cui non credo di esagerare dicendo che l’alloggio non costa loro meno di L. 2.400 all’anno. Ecco dunque che di L. 18.000 siamo ridotti a L. 6.600, poco più di 500 lire al mese per viaggiare e nutrirsi. E mettere da parte per la vecchiaia? Nulla, nulla… e nulla!»213. Dunque, sul finire degli anni settanta i capocomici si agitano fra problemi vecchi e nuovi. Lo spirito impresariale, abbandonato a se stesso 212 Ib., pg. 641. 213 BELLOTTI-BON Luigi, Condizioni dell’arte drammatica italiana, in PANDOLFI 1954, pg. 108.
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dallo Stato unitario, è comprensibilmente provato; per le tasse, in primo luogo, ma anche per gli ostacoli gestionali che incontra nei teatri: i privilegi dei palchisti e di varie categorie di spettatori, che finiscono per dimezzare la potenzialità d’incasso. Per far fronte a questo stato di cose, alcuni ripensano alla compagnia “permanente”, questa volta concepita come una convenzione fra il capocomico e il governo locale. Ci prova -si è visto- il grandattore Cesare Rossi che ottiene dal Municipio di Torino l’esercizio gratuito del Carignano per sei mesi continuativi all’anno. Il tentativo più solido -si veda più avanti- sarà rappresentato dalla Compagnia Nazionale di Roma, ma anche quello cade, come accadrà a fine secolo ad un secondo tentativo torinese, questa volta sotto la guida di Domenico Lanza, e alla romana “Casa di Goldoni” inventata da Ermete Novelli. Alle finanze degli impresari assesta un altro duro colpo la progressiva emancipazione degli autori drammatici che di lì a poco costituiranno (nel 1882) la loro società di rappresentanza, destinata a diventare potente. Tuttavia i capocomici non sono tutti contrari. Si è detto infatti che Alamanno Morelli, nel suo sforzo di promuovere i drammaturghi italiani, si era fatto banditore di un “congresso drammatico”, la cui prima edizione si tenne a Firenze nel 1876, in quella Firenze che diventata temporanea capitale del Regno rimane capitale del Teatro fino agli anni settanta, quando deve cedere il ruolo a Milano. L’intento è di insediare un giurì ministeriale -composto di sei capocomici e dodici letterati- che, esaminando nuovi testi di autori italiani, selezioni i meritevoli di messinscena e di premi. Va detto che gli autori drammatici furono aiutati dalla mano pubblica per tutta la seconda metà dell’Ottocento. Nel 1853 il Regno di Sardegna istituì annuali Concorsi, che distribuivano premi in denaro ai drammaturghi vincitori; con l’unità i concorsi furono confermati e attribuiti al Ministero Pubblica Istruzione; arrivarono a fine secolo, prima passando a Firenze, poi a Roma214. Il critico più seguito del momento, Yorick215, un toscanaccio bastiancontrario per principio, attacca l’iniziativa. Yorick è forse il più celebre esponente di quella critica teatrale tipicamente ottocentesca che, esprimendosi nell’ampia misura della “appendice”, poteva permettersi disquisizioni colte e giudizi articolati, anche “a puntate”; mentre a 214 Si veda il dettagliato resoconto in COSTETTI 1901, pgg. 457/518. 215 Yorick è lo pseudonimo di Pietro Coccoluto-Ferrigni (1836-1895), padre dello scrittore
Mario. Critico battagliero, arguto più che profondo, fu con Garibaldi in Sicilia. Sostenne sempre la priorità del giudizio del pubblico. Fra gli autori predilesse Paolo Ferrari, amò i grandattori ma non la Duse; trattò Virginia sempre bene.
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fine secolo la recensione diviene cronachistica, deve andare in stampa a sipario appena calato. Yorick ritiene che nessuna lettura possa dare l’idea dell’effettivo risultato scenico, afferma che il dominio degli scrittori francesi si sta esaurendo e che di italiani ce ne sono fin troppi, e soprattutto sentenzia che il giudice unico e inappellabile è il pubblico. «Il pubblico applaude la tragedia e l’operetta, il dramma e la farsa, il medio-evo e l’evo moderno, il verso e la prosa, il classicismo e il romanticismo, il verismo, il falsismo e tutto quel che diavolismo volete per giunta». «A giudicare le commedie ed i drammi il pubblico ci pensa da sé; se qualcosa si può fare è il procurare che cotesti lavori vengano sottoposti al suo libero giudizio nel modo più perfetto, più completo, più decoroso che sia possibile». Non basta! Yorick se la prende anche con chi reclama sovvenzioni pubbliche all’arte teatrale. «Contentiamoci della nostra miseria orgogliosetta vagabonda, spensierata, ridanciana, senza diritti e senza doveri, senza uniforme e senza livrea, che ha fatto quasi sempre del teatro lo strumento di propalazione delle idee nuove, che ha armato la tragedia e la commedia di mille freccie appuntate contro gli abusi del potere, e che a conti fatti ci ha dato Gustavo Modena, Vestri, De Marini, Taddei, Ghirlanda, Gattinelli, la Marchionni, la Robotti, la Internari, la Ristori e Salvini, e Rossi, e la Tessero, e la Marini, per citarne pochi!»216. Il nostro polemista scrive queste cose in una serie di lettere accademiche indirizzate al suo grande amico Paolo Ferrari (1822-1889), forse il maggiore autore di commedie del secolo, che nel 1878 assume la presidenza della seconda edizione del “congresso”. Dopo aver aderito in gioventù alla causa italiana, dal 1861 Ferrari è docente di storia in una accademia milanese, ma la sua vocazione letteraria si era già manifestata, unitamente alla sua passione per il palcoscenico (prova ne sia che fu attore dilettante). Da quando, nel 1852, presenta Goldoni e le sue sedici commedie nuove, è fra i drammaturghi della commedia borghese più famosi. Arriva a gareggiare con i migliori francesi nel gradimento del pubblico. È maestro della commedia cosiddetta “a tesi”, cioè incentrata su problemi sociali: Le due dame, Il suicidio, Cause ed effetti, etc. Gli autori si fanno prudentemente audaci; insinuano nel perbenismo borghese la proposta che gli argomenti scottanti, persino scandalosi, possano affacciarsi alla ribalta, proprio per essere più compiutamente deplorati. «Si serve meglio alle leggi della moralità, scansando sulla scena la viva dipintura degli eccessi onde è offesa la morale stessa, o 216 YORICK 1922, pgg. 345, 384 e 386/87.
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non piuttosto dipingendo quegli eccessi al vero, e denunziandoli, così, alla pubblica riprovazione? È una questione che solo l’arte può risolvere col suo magistero. Essa, temperando la crudezza delle rappresentazioni, e presentandole al tempo stesso sotto l’aspetto più repugnante, può dare sulla scena, anche con una favola arrischiatissima, un’alta lezione di moralità»217. Fra il 1882 e il 1885 Ferrari vive un’esperienza particolare; diventa poeta e direttore della Compagnia del Teatro Drammatico Nazionale in Roma, un altro tentativo di dare “permanenza” all’attività teatrale. A proposito di questa compagine Yorick, che naturalmente è del tutto scettico sulle “stabili”, scrive: «In essa tengono il primo posto artisti, per unanime consenso celebrati e lodati ottimi fra i migliori, una Virginia Marini, una Adelaide Falconi, un Reinach, un Leigheb, un Biagi, un Vestri, un Novelli, tutti noti, tutti da lungo tempo acclamati sopra ogni scena. E vicino a loro una schiera di giovani fra i più largamente dotati di eccellenti qualità, fra i meglio promettenti»218. È un caso raro, per l’Ottocento, di scrittore che assume la conduzione artistica di una compagnia, anche se nell’ultimo quarto di secolo l’autore costruisce la sua rivalsa e, soprattutto per quando riguarda i testi suoi, non pensa certo di essere meno in grado del grandattore di guidarne la messinscena. Nell’assenza, tutta italiana, del regista questa linea proseguirà fino agli esperimenti di Pirandello. Tuttavia una delle svolte avviate dalla cultura teatrale di metà secolo, è la consapevolezza, da parte di alcuni, della necessità di un direttore artistico. Nel 1875 Luigi Capuana, in veste di critico, chiede una figura che sia più importante dei primattori. Sappiamo che in realtà sono alcuni primattori a farsi “direttori”, governando tutti gli aspetti artistici dello spettacolo. Questi attori-direttori sono il contributo italiano (meno modesto di quanto sembri) alla incubazione europea del regista moderno. Lo scrittore Ferrari si inserisce in questo fenomeno eccezionalmente, ma dimostrando come i drammaturghi ne facciano, almeno indirettamente, parte. Già nel 1854 Ferrari scrive al capocomico Achille Majeroni: «Veggo indispensabile, per il numero di personaggi che talora si affollano in iscena, ch’io sia presente sin dalla prima prova, per poter spiegare i diversi e molteplici piazzamenti: i quali suppongo inintelligibili a tutti, tranne all’autore. Stimo impossibile che le solite tre o quattro prove possano bastare a metter in scena questa commedia 217 COSTETTI 1901, pg. 372. 218 YORICK 1922, pg. 486.
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comme il faut»219. Quando Ferrari assume la guida della Nazionale, il grande Antonio Salsilli, suggeritore e saggista, scrive: «I comici fino dal primo concerto hanno capito che il direttore ha studiato il modo di farli figurare e applaudire. Ferrari crea la messa in scena contemporaneamente alla commedia: quando si presenta alla prima prova, tutte le situazioni e i movimenti di scena sono disposti e combinati nel suo cervello; l’intonazione generale non solo, ma anche i piccoli dettagli d’assieme, tutto è immaginato: colorito di voci, espressioni di fisionomia, disegno di persona, tutto! E finché gli attori non riescono a intuire e riprodurre esattamente in azione questo grande quadro ideale, Ferrari non respira»220. Paolo Ferrari è dunque un proto-regista, gode di autorità fra gli attori, ma purtroppo non riesce a sopportarne i capricci. L’esperienza della Nazionale dura poco. Virginia vi partecipò dal 1883 al 1885 soprattutto per rispetto del commediografo, di molte opere del quale era stata e sarà memorabile interprete [v. III.3.], per il prestigio nazionale di cui questa iniziativa godeva, e per l’enormità di quattrini che le vennero versati. Ferrari, infatti, poteva avere chiunque, ma volle proprio lei e la pagò a peso d’oro. Nel 1887 Virginia lavora sotto la direzione artistica di Giovanni Emanuel (1848-1902), un rapporto che dura soltanto una stagione ma di grande importanza. Camillo Antona-Traversi sottolinea: «Quando passò al fianco di Emanuel, che allora accennava già a reagire contro le esagerazioni e il romanticismo vieto che minacciavano d’invadere le scene, anche [Virginia] si studiò di seguire, in certo modo, la corrente realistica e naturalistica che faceva intravedere un metodo più razionale, cercando di modellarsi sulla verità osservata e di riprodurla senza preconcetti»221. Emanuel, nella successione fin qui tracciata, è il primo ad appartenere alla nuova generazione; il primo a non vivere, per ragioni anagrafiche, l’esperienza del patriottismo. È proiettato verso l’utopia positivista in merito alla “verità” scenica, ma il suo obiettivo non sta nella riproduzione scientifica. È a metà strada fra Salvini e Zacconi: ha pieno rispetto dell’autore, dal quale devono provenire le indicazioni che l’attore concretizzerà con la sua tecnica. Dice con chiarezza: «O proprio sarebbe tempo, che critici ed attori non invadessero il campo altrui, e noi attori specialmente lasciassimo a chi ne ha il compito di fare e creare i personaggi. Colla mania, che hanno avuto e che hanno certuni, di “crea219 FERRONE 1979, tomo II, pg. 422. 220 FERRONE 1979, tomo II, pg. 425. 221 ANTONA-TRAVERSI 1929, PG. 273.
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re” hanno travisato e resa incomprensibile l’opera dell’autore. Lasciamo all’autore la grande responsabilità di creare i suoi personaggi; noi limitiamoci a farli parlare, camminare e gestire secondo la “gretta, e sciocca, e putrida natura!”»222. Quando studia una “parte” Emanuel comincia con il ricopiarla varie volte, poi la impara perfettamente a memoria quindi comincia a “plasmare” il personaggio. Questo metodo lo pretende anche dai suoi attori; per ottenerlo giunge ad abolire il suggeritore, una rivoluzione di cui anche altri cominciano a sentire l’opportunità. Emanuel si infuria per una battuta ritardata o per una intonazione sbagliata; non smette di perfezionare l’affiatamento artistico fra i suoi attori. La naturalezza espressiva deve essere il denominatore comune: Emanuel sostiene che un personaggio alfieriano va affrontato dall’attore allo stesso modo di uno di Dumas; la recitazione “classica” cioè “barocca” è ormai un reperto del passato per qualsiasi testo. Emanuel è innanzitutto un maestro di recitazione, e tutti glielo riconoscono; tiene ai suoi attori delle vere “conferenze”, anticipando i grandi spiegoni dei registi novecenteschi all’inizio delle prove a tavolino. Il suo obiettivo è «di dare vita ad una nuova figura di “direttore”, attento soprattutto al “concerto” degli attori in scena e a uniformare la compagnia sotto il segno di una lettura omogenea del testo drammatico stilisticamente improntata a una cifra espressiva naturalistica. Da questo punto di vista l’ostacolo maggiore che si presentava a Emanuel era determinato dalla consuetudine dei ruoli [cfr. II], che costituivano -e costituiranno ancora a lungo- la struttura portante, tanto sotto il profilo artistico quanto sotto il profilo organizzativo, della compagnia teatrale all’italiana. Il sistema dei ruoli apparteneva ad una concezione del teatro e dell’arte dell’attore evidentemente molto più vicina all’elaborazione del “tipo” che al modo di guardare la scena proprio della sensibilità naturalistica e che perciò tendeva ad ostacolare il processo di identificazione fra attore e personaggio, determinando una specie di sfasatura fra il testo drammatico e l’attore, che costituiva un impedimento per la costruzione di una compagnia effettivamente “di complesso”. Il problema era dunque superare il sistema dei ruoli. Emanuel ci prova a più riprese: dando istruzioni, nel 1887, al suo agente, Icilio Polese, in merito alle condizioni per la formazione di una nuova compagnia si mostra piuttosto deciso su questo punto: “A nessuno devi concedere l’esclusività di ruolo: tutti generici senza esclusione di parti”»223. 222 RASI 1897-1905, voll.I-II, pg. 835. 223 PETRINI 2012, pg. 94. Icilio Polese, e dopo di lui il figlio Enrico, dirigono la potente agen-
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Propositi al momento impraticabili. Virginia non si sogna nemmeno di aderire alla perdita del suo sudato titolo di primattrice. Ma quando, un anno dopo, i coniugi Marini intraprendono la realizzazione della prima e unica compagnia di loro totale proprietà, mi piace pensare che Virginia “sappia” il clima nel cui contesto avvia quell’ultima avventura. Sono i sei anni conclusivi della sua carriera di primadonna; anni di profonda messa in discussione di sé e insieme di imprevisto fallimento economico, di fine del benessere familiare; anni di progressivo avvicinamento ad un ritiro sofferto ma pacato, senza “clamori”, vissuto con una sorta di rassegnazione professionale. Agli inizi della nuova impresa è investita della responsabilità di “direttrice artistica”. È inevitabile che in ciò sia stata influenzata dai grandattori citati e in particolare dai princìpi di Emanuel. Virginia non poteva superare, per motivi generazionali divenuti fisiologici, l’impostazione per ruoli. Nella sua consapevole modestia, nutriva un indiscutibile rispetto per l’autore; aveva, da grandattrice, esigenze di adattabilità del testo a se stessa, ma non avrebbe mai effettuato operazioni chirurgiche, alla Ristori, sulla parola dell’autore; non ne aveva la capacità ma neanche la predisposizione mentale. Nella sua compagnia gli autori, anche i debuttanti, potevano liberamente intervenire durante le prove, consigliare gli attori. Ama definirsi una collaboratrice degli autori e ha fama di esserlo veramente. Agli autori assicura, come direttrice, che la commedia andrà in scena solo se “matura e allestita senza risparmio”. In realtà Virginia -come altri grandattori- pratica continuamente una promozione degli autori, nel senso di invitarli a scrivere. Virginia non ha una particolare confidenza con i “classici”, se si eccettua Goldoni; il suo lavoro ha un costante bisogno di novità; è la produzione di un gran numero di testi la base dell’organizzazione delle compagnie. Gli autori viventi sono di gran lunga la maggioranza fra quelli rappresentati sui palcoscenici, eppure spesso l’offerta risulta inadeguata alla domanda. I coniugi Marini imparano a loro spese che «l’affannosa caccia alle novità non costituisce più una imposizione di principi committenti, ma un fatto economico essenziale alla sopravvivenza dell’arte comica, l’unica vera risorsa delle compagnie. E, per appropriarsi di tale risorsa, non c’è capocomico che non paghi somme anche elevate pur di battere la concorrenza e potersi presentare nelle zia, con annessa rivista, “L’arte drammatica”; forse più dei critici, gli agenti-giornalisti hanno un peso nella vita teatrale di cui si sta narrando; gli artisti e gli impresari ne devono tener conto attentamente.
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principali piazze d’Italia con opere nuove. In questo modo si sviluppa il mercato dei copioni [che] diventa il motore che muove il teatro italiano nella seconda metà dell’Ottocento»224. Credo che Virginia condividesse il concetto di Emanuel, naturalmente ben declinato, secondo cui lo scrittore “crea” e l’attore “esegue” da par suo, da provetto solista. Così come certamente sentiva il valore della recitazione “di complesso”, in cui il grandattore non doveva stare su un piedistallo su cui non far salire nessun altro, circondandosi di mediocrità. Nella propria compagnia Virginia lavorerà per dare spazio agli altri, per trovare giovani meritevoli (cosa che peraltro aveva sempre fatto), per curare maniacalmente i costumi, per migliorare le scenografie. Quando, nel secondo triennio della compagnia Marini: 1891-1893, arriva nientemeno che Ermete Zacconi (1857-1948), assumendone di fatto la direzione artistica, Virginia si aprirà coraggiosamente a questo cambiamento ma non riuscirà a farlo suo. Zacconi è la fase finale del naturalismo recitativo, la sua estremizzazione. È il contraltare realista della Duse simbolista. Quando lascerà i Marini, farà compagnia per conto suo con Libero Pilotto, dichiarando ai quattro venti di voler abolire i ruoli. Probabilmente, per Virginia, Zacconi incarna il passaggio epocale di cui avverte il compimento; è il grandattore già proiettato verso il Novecento (anche se Silvio D’Amico e Piero Gobetti criticheranno i suoi eccessi di verismo), il mattatore moderno portatore di un nuovo repertorio. Accetta di fare con lui un testo difficile, acclamato più dalla critica che dal pubblico: Spettri di Ibsen, calandosi generosamente nei panni della vedova Alving: un ruolo da “mater dolorosa”225, che giunge a praticare l’eutanasia nei confronti del figlio Osvald irrimediabilmente malato; una scelta che la Virginia perbenista dura una enorme fatica a interpretare (anche questa resistenza denunciava la sua appartenenza alla “vecchia scuola”). Zacconi rende con mirabile esattezza clinica la decadenza mentale e l’atroce morte di Osvald. Ovazioni incontenibili per lui, apprezzamenti sinceri per lei. Virginia, poco più che cinquantenne, forse ha già deciso che la soluzione per i suoi dubbi artistici stia nel farsi da parte. Nel 1902 Zacconi ingaggia una polemica epistolare con Salvini, provocata dalle loro opposte interpretazioni de La morte civile di Giacometti. 224 GEDDA 2003, pg. 9. 225 Il 28 novembre 1914 Gabriele d’Annunzio scrive a Virginia da Parigi pregandola, su indi-
cazione di Boutet, di interpretare la sua “Madre dolorosa”. Virginia non è nelle condizioni nemmeno di pensarci. L’autografo della lettera è riprodotto in SCAGLIA 1929.
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Dalle considerazioni di Zacconi emerge come Virginia (ritiratasi dalle scene otto anni prima) a fine carriera si considerasse, immersa com’era in una scomoda transizione generazionale, più collegata allo stile di Salvini, a quel “verismo artistico” che Zacconi considera superato e che gli fa scrivere -con qualche sopportabile eccesso- questa sorta di breve saggio sulla “moderna” riforma della recitazione. «Dai tempi gloriosi in cui Tommaso Salvini affermò tutta la sua potenza artistica, quasi mezzo secolo è trascorso. Le scuole e il giornalismo diffondendo la coltura hanno educato le moltitudini di un tempo, facili all’entusiasmo, rendendole pubblico consapevole e accorto, e ogni spettatore è divenuto un critico, ogni critico un sapiente, tanto che le nostre interpretazioni non sono più misurate alla stregua di commozioni ottenute con determinati “effetti” ma passate al vaglio di cognizioni larghe e fondate. A noi attori moderni non è concesso strappo alla logica, alla verità, alla scienza. Quelle figure romantiche, che offrivano così largo campo all’intuito fantasioso e geniale, che l’illustre tragico [Salvini] chiama verismo artistico, noi dobbiamo rendere puramente umano, in obbedienza ai dettami della fisiologia e della psicologia. E non possiamo nemmeno tentare l’interpretazione dei lavori classici, se non a patto di rivelare nella loro essenza umana i personaggi ideali, storici e leggendari, dei quali, per antiche tradizioni di un’arte puramente intuitiva, il pubblico non conobbe finora che i contorni grandiosi, ma esteriori. L’attore moderno accingendosi a studiare un lavoro, deve anzitutto cercare e intendere il pensiero primo che generò il dramma nella mente dell’autore. Deve osservare quanta parte di quel pensiero s’informi nel personaggio che egli incarna, rendersi ragione della giusta parte di luce che lo illumina nel complesso quadro; poi, con l’analisi paziente penetrare, far sua e rivelare intera, con chiarezza perfetta, l’anima del suo personaggio, tenendo conto sia di tutte quelle ragioni di nazionalità, di educazione, di ambiente, di condizione che possono averla plasmata, sia dei caratteri fisici esteriori che la rivestono. E nello studio della frase, deve rilevare con scrupolosa cura il significato più riposto di tutte quelle parole, che hanno importanza per la chiarezza della tesi generale e pei singoli concetti, attraverso il quale essa si esplica; ed affidarsi poi, nell’esecuzione, a quel tempo di intuito, di genialità, di sentimento, che possono bastare a dar vita reale all’essere così preventivamente meditato e compreso, sfuggendo quegli “effetti scenici” che potessero annebbiare il pensiero dell’autore e lo studio dell’interprete. Queste le norme dell’arte nostra. Se al grande Salvini la nostra dizione sembra slavata è perché egli non la confronta al suono della parola
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umana, ma all’armonia suggestiva della sua recitazione melodiosa. Se le nostre interpretazioni egli trova esagerate e barocche è perché non le discute con quel rigore logico, che a noi è imposto dai tempi mutati e dalla naturale evoluzione degli spiriti, ma solo le confronta a quel “verismo artistico” da lui invocato che aveva per sola origine l’intuito, per mezzi la plastica scultoria e la varietà dei suoni, per unico scopo l’effetto teatralmente immediato»226. Torniamo indietro. Virginia si era sposata nel 1857, quindicenne; in quell’anno, a Londra, Adelaide Ristori stava impersonando, per la prima volta, Lady Macbeth; in compagnia aveva portato la figlia di sua sorella Carolina, Adelaide Tessero, che insieme a Giacinta Pezzana sarà per trent’anni la grande rivale di Virginia, e che, appartenendo ad una “famiglia d’arte” fra le più illustri (a differenza di Virginia e di Giacinta, entrambe non nate da teatranti), non ebbe bisogno di cercar marito o di altri sacrifici per incominciare a calcare le scene. Adelaide Tessero (1842-1892) nasce nello stesso anno di Virginia e muore prematuramente per malattia incurabile; la Pezzana (1841-1919) è di appena un anno più vecchia e muore in ristrettezze ancora maggiori di quelle in cui Virginia chiude la sua vita un anno prima di lei, nel 1918. Tutte e tre hanno un forte legame con Torino. Durante le loro parallele carriere la critica e il pubblico le accomunano, nominandole a furor di popolo “eredi” della Ristori, regine figlie di quella imperatrice227. Naturalmente scrittori e spettatori si dividono subito in tifoserie fanatiche, e impongono fra le tre donne una “rivalità” che in realtà non aveva niente di personale ma era alimentata dalle leggi del mercato artistico del momento (anzi: di sempre). Nonostante l’amara constatazione con cui Antona-Traversi apre nel 1929 il suo pluricitato libro su “le Grandi Attrici del tempo andato”: «della Tessero la nuova generazione conosce appena il nome; degli entusiasmi che, durante venti anni non interrotti, accompagnarono Virginia Marini, l’eco si è spenta interamente; e Giacinta Pezzana non ha ancora un sepolcro degno di lei»228, ciò nonostante in pieno Novecento si continua a scrivere di loro. Nel 226 Cfr. PANDOLFI 1954, pgg. 359/369. 227 Va da sé che negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento le nostre tre non fossero le uni-
che brave attrici sulla scena italiana; basti pensare ad una “maestra” di Virginia come Clementina Cazzola, oppure a Pia Marchi; ma fu il trio a portare, in quegli anni, l’aureola grandattorica femminile. 228 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 5. Si noti che la Duse si era adoperata, prima di morire nel 1924, per l’erezione di un monumento alla Pezzana, ma invano.
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1944 Celso Salvini celebra questa trinità in un saggio229 in cui traccia fra le tre primedonne un filo rosso “romantico” naturalmente intrecciato di naturalismo. Nel 1946 Alfredo de Sanctis rimpiange il loro “regno”, fondato innanzitutto sull’uso magistrale della voce; ricorda che non per nulla furono definite la “terna canora”; e da questo punto di vista mette un accento su Virginia, la quale «sembrava creata per le parti nelle quali prevalesse specialmente la dolcezza; portava sul palcoscenico la stessa dignità, semplice, sebbene austera che la caratterizzava nella sua vita privata. La sua voce si distingueva; capacissima d’inasprirla quando l’azione lo chiedeva, maestra nell’uso di certi trapassi immediati di tonalità descriventi i più vari stati d’animo; sicché ella poteva imprimere in una sola brevissima battuta i rilievi più contrastanti dai quali il pubblico rimaneva come soggiogato»230. Sono, ciascuna con modi suoi, tre “divine” di transizione fra la Ristori e la Duse. È opportuno dire con chiarezza che dalla storiografia odierna la Pezzana è ritenuta la più significativa e Virginia la meno interessante. Dopo un’infanzia passata accanto alla zia, a fare il piccolo paggio oppure uno dei figli di Medea, a tredici anni Adelaide Tessero entra come amorosa nella compagnia dialettale piemontese di Toselli231, e subito si distingue in due parodie: Cichina d’Muncalè (da Francesca da Rimini del Pellico) e Margritin dle violette (da La Signora dalle camelie). Diventa primadonna con Alamanno Morelli e lavora anche con Bellotti-Bon. Era naturale che, nella girandola di testi che ogni compagnia doveva -sera dopo sera- proporre al pubblico, i titoli si ripetessero e le stesse “novità” conquistate da ciascuno si ritrovassero ben presto nel 229 Cfr. SALVINI 1944. 230 DE SANCTIS 1946, pgg. 14/15. 231 «Proprio nel momento in cui, raggiunta l’unità politica e territoriale, l’Italia incominciava
a darsi un’identità culturale e linguistica nazionale, prese forma un teatro che si caratterizzò non solo per l’uso del dialetto locale nella produzione dei testi, (dalle traduzioni di commedie e vaudevilles francesi, alle parodie e ai riadattamenti di opere italiane -specialmente di Goldoni- ai copioni-canovaccio), ma anche e soprattutto per il profondo radicamento di tutti suoi codici spettacolari -sintetizzati nell’arte dell’attore- nel contesto culturale, oltre che strettamente linguistico, delle realtà regionali. Pur nelle profonde diversità delle singole esperienze, fu quello, ovunque, innanzitutto un teatro di attori: Giovanni Toselli a Torino, Ferruccio Benini a Venezia, Edoardo Ferravilla e Gaetano Sbodio a Milano, Antonio Petito e poi Eduardo Scarpetta a Napoli. Teatro di attori, dunque, che furono molto spesso anche gli autori dei copioni da loro recitati» [LIVIO Gigi, Il teatro del grande attore e del mattatore, in ALONGE 2000-2003, vol. II, pg. 652]. Su Giovanni Toselli si veda CAUDA 1920, pgg. 66/74, e anche il volumetto del regista torinese SCAGLIONE Massimo, Storia del teatro piemontese da Giovanni Toselli ai giorni nostri, Torino: Editrice Il Punto, 1998.
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repertorio degli altri. Anzi: il pubblico gradiva moltissimo che i divi si cimentassero in “gare” a distanza, di cui le varie platee erano supremi giudici. Come Virginia, la Tessero recitò Sardou, Dumas, Ferrari, Giacosa, Torelli; si cimentò con Goldoni e con Maria Stuarda (grande successo della zia Ristori). Come Virginia, fu attrice amata da Pietro Cossa, il campione dei drammi storici; se Virginia fu la prima a presentare Messalina, la Tessero lo fu con Nerone (nella parte di Atte), con Cleopatra (offerta dal Cossa alla Marini che non “osò” affrontarla) e con Cecilia, che debuttò al Valle di Roma nel 1879, dove il poeta -ahilui!- s’indusse a dichiarare che la Tessero era la più brava di tutte232; lo stesso Cossa che regalando un proprio ritratto a Virginia vi aveva apposto la seguente dedica: “alla più grande e più vera interprete de’ miei lavori drammatici”. Per essere sicuro di aver rimediato, il povero autore esagera nei confronti della Tessero e cerca di tenersi buoni gli altri due/ terzi della triade, scrivendo a Virginia: «Vi ringrazio quanto più so di aver scelto la mia Messalina per vostra beneficiata in Firenze; è per me un segnalato beneficio, perché la vostra abilità, ne sono certo, farà disperdere le fredde impressioni che lasciò in codesta città la ostinatezza presuntuosa ed impotente della sig.ra Tessero, la quale, ad onta degli elogi che “si fa” stampare ne’ giornali, siate certa, non reciterà mai più alcuna mia produzione drammatica. Ho parlato con [la Pezzana] di voi lungamente, ed è grandissima la stima che nutre pel vostro talento artistico: nella Messalina, in alcuni punti, mi sembrava di riudir voi, e fu davvero un poema. La Pezzana è degna vostra rivale, e mi confessò che le venne desiderio di recitare la Messalina dopo averla intesa recitar da voi. D’ora innanzi, voi e lei sole, artiste che tanto v’assomigliate per potenza di voce, per sentimento ed intelligenza, interpreterete i miei lavori»233. E pensare che Adelaide Tessero era davvero meno dotata di Virginia, almeno nella voce, ed era nota per studiare poco, per una sostanziale indisciplina. La sua forza stava nella passione, nell’abbandono ai sentimenti; la sua recitazione era impulsiva, la sua “immedesimazione” nel personaggio era basata solo sull’istinto, quasi animalesca (celebri i suoi “gridi” drammatici). Girò il Sud America e volle farsi capocomica, ma si dimostrò incapace di amministrare l’impresa e di scegliere gli attori. La malattia la devastò, cominciò a perdere i favori del pubblico, ma continuò a recitare fino all’ultimo. 232 Cfr. Gazzetta piemontese, 08.12.1879 [ALST]. 233 LIBERATI 1930, pgg. 184/185.
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A voler fare un gioco di coppie artistiche per delineare l’evoluzione del grandattore dal primo Ottocento al primo Novecento, si comincerebbe da Adelaide Ristori e Tommaso Salvini, ponendo nel mezzo Giacinta Pezzana e Giovanni Emanuel, già in qualche modo rivolti verso Eleonora Duse ed Ermete Zacconi. «Se Virginia Marini e Adelaide Tessero, pur tanto dissimili per natura, ebbero una storia in comune, e furono in poche parole le due rivali che si divisero gli applausi e le simpatie del pubblico, Giacinta Pezzana, sia per i caratteri della sua arte che per i riconoscimenti popolari, sta completamente a sé. Fu una sdegnosa, un’intransigente, una ribelle»234. Giacinta si sente del tutto autonoma dal testo; sostiene: «come vi sono licenze poetiche pei poeti, io dico che ve ne possono essere delle artistiche per gli artisti, se, con esse, si possa raggiungere una maggiore efficacia di espressione»235. La “licenza artistica” certo più clamorosa, Giacinta se la prese decidendo di interpretare (molto prima di Sarah Bernhardt) la parte di Amleto, che in varie tournées nelle Americhe le valse acclamazioni e in Italia, puntualmente, venne censurata, tanto da indurla ad annullare recite già in cartellone. Era una interessante intuizione “registica” forse troppo ante litteram; il travestitismo attorico da femmina a maschio è sempre stato di più difficile effetto del suo opposto, e non solo per ragioni antropologico-morali: l’uomo in abiti femminili ha comunque un esito buffo scontato, la donna in abiti maschili sconcerta. Giacinta era stata probabilmente stimolata a questa scelta dalla versione amletica “riformata” di Giovanni Emanuel, il quale considerava Shakespeare il più bravo di tutti a coniugare il “bello” con il “vero” (dategli torto!). Nel 1876 accade un fatto esemplare per la vita teatrale di quegli anni. Virginia, per prima, e subito dopo Adelaide Tessero portano sulle scene Messalina di Pietro Cossa. Immediatamente si creano le fazioni di critica e di pubblico; Yorick, per esempio, si schiera a favore della Tessero. La Messalina di Virginia verrà comunque amata dal pubblico per tutta la sua carriera, perché perfettamente congrua agli intenti del poeta, che aveva voluto creare una Messalina presentabile in società, in qualche modo non scandalosa. In un primo tempo la Pezzana non ha il permesso di recitare il dramma (perché le altre due godevano di una priorità concessa loro dal Cossa per le piazze più importanti), ma non può permettersi di far credere al suo pubblico di non voler partecipare alla “gara”. Allora utilizza «un altro testo avente per protagoni234 SALVINI 1944, pgg. 9/10. 235 PETRINI 2012, pgg. 65/66.
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sta Messalina e cioè Arrìa e Messalina di Adolf Wilbrandt che, tagliato e modificato in alcune sue parti, intitola semplicemente Messalina»236. L’episodio è un esempio plateale della sfacciataggine grandattorica nei confronti dell’autore (anche se va ricordato che questi “copioni” sfornati per i grandattori raramente raggiungevano le vette della poesia immortale); tuttavia la cosa finisce in Questura per tutelare non il Cossa, beninteso, ma il diritto vantato da Virginia e dalla Tessero. Atteso il tempo dovuto, la Pezzana può finalmente gettarsi nell’agone con il testo del drammaturgo italiano, e lo fa da par suo. «La Messalina di Giacinta Pezzana è, distanziandosi significativamente dagli intendimenti di Cossa, “l’immagine del chiassoso delirio di una Baccante”. D’Arcais, all’indomani della prima romana, scrive di una Messalina eccessiva, inquietante: “Com’essa l’intende è un personaggio violento, impetuoso, terribile, perfino nei momenti di colpevole voluttà, perfino nell’espressione dell’amor materno”. Una creazione scenica la cui potenza espressiva risalta chiaramente al paragone con Virginia Marini; mentre infatti la Marini appare nel lavoro di Cossa come “un’artista di grazia”, dalla “voce melodiosa” e dal “gesto timido anche nell’ardimento”, la Pezzana viene indicata al contrario come “un’artista di forza”, dalla “robustezza della voce” e “dall’energia del gesto”. Giacinta Pezzana recita insomma una Messalina ossessivamente sensuale e voluttuosa, soprattutto al confronto con il tipo “capriccioso e innamorato” della Tessero, e allo stesso tempo riboccante di crudeltà e di “imperiosa alterezza”, soprattutto se paragonata al personaggio dal “gesto timido anche nell’ardimento” portato in scena dalla Marini»237. La Pezzana vuole che il pubblico senta “lei” al di là del personaggio; sulla scena cerca una sorta di protostraniamento fra la pronuncia delle battute e la sua opinione sui contenuti. È un Mazzini al femminile, una radicale, d’una cultura disordinata ma ricca. Non vuole portare sul palcoscenico semplicemente un’arte, ma una concezione del mondo. «Ecco per esempio quanto scrive un cronista a proposito delle differenze fra Virginia Marini e Giacinta Pezzana nel recitare Adriana Lecouvreur di Scribe e Legouvé: “l’ultimo atto viene e dall’una e dall’altra diversamente eseguito. La Marini muore come una donna; la Pezzana muore come una donna che, essendo stata una grande artista, non riesce a dimenti236 PETRINI 2012, pg. 18. 237 PETRINI 2012, pgg.20/21.
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carsi intieramente neppure all’estremo momento”»238. La Pezzana non è mai paga. Abbandona il teatro e poi vi ritorna; scrive saggi e drammi; partecipa a esperimenti di compagnia stabile; ne fonda una che, memore dei suoi esordi vernacolari con Toselli, vuole specializzata in testi romaneschi, ma fallisce. Ha soddisfazioni come insegnante di recitazione in Sud America. Medita di portare Dante in tournée, non leggendolo ma dicendolo, facendone una vera messinscena, tuttavia nessuno gliene dà l’opportunità. Nel 1915 si cimenta in un film tratto da Teresa Raquin di Zola, suo cavallo di battaglia teatrale. L’aveva creato nel 1879, al Fiorentini di Napoli, rinunciando alla parte del titolo e prendendo quella della madre, della vecchia Raquin, affrontando volutamente (lei, primadonna trentottenne) un personaggio di anziana, affetta da paralisi e -perdipiù- con poche battute; lasciando di proposito che Teresa fosse interpretata da una giovane Eleonora Duse. Da quel momento comincia una sorta di decadenza negata, con spettatori e critici che la stimano ma non ne sono più attratti, che si conclude nella solitudine e nella povertà della sua Acicastello, in Sicilia. Anche per la Pezzana, come per Virginia, la Duse rappresenta una modernità irraggiungibile; un modello che il ribellismo della Pezzana in qualche modo anticipa e che invece il “verismo romantico” di Virginia è incapace di imitare; per entrambe comunque un confine apparentemente fragile ma che le loro carriere non riescono a valicare; una chiusura dunque, contro cui la Pezzana non smette di combattere e che invece Virginia istintivamente, umilmente asseconda. Gli studiosi di oggi dedicano ancora attenzione a Giacinta Pezzana, decisamente la più moderna della triade. Anche in scritti commemorativi su Virginia che apparvero nella rivista “Alexandria” in pieno Novecento, il mito della trinità femminile ottocentesca non si appanna. Lo rispolvera nel 1934 l’impresario Adolfo Re Riccardi: «Dopo la triade luminosa che tenne per trent’anni alta la bandiera dell’arte drammatica italiana in tutto il mondo civile -Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini- sorse all’orizzonte del nostro teatro una seconda triade che ha per venticinque anni illustrata la scena con magnifico splendore di arte: Adelaide Tessero, Giacinta Pezzana, Virginia Marini. Io sono abbastanza avanti negli anni per ricordarmi di queste tre attrici eccellenti che gareggiarono in bravura per lunghissimi anni e che furono considerate sempre come le tre “divissime” del nostro teatro. Virginia Marini era senza dubbio la più bella. Mentre la maschera di Giacinta Pezzana era soprattutto tragica, 238 PETRINI 2012, pg. 22.
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quella della Tessero improntata ad una squisita nobiltà di lineamenti, il volto della Marini fu pervaso sempre, da giovinetta fino al declinare degli anni, da tratti di una bellezza vivace, splendente e tranquilla, come se ella stessa ne fosse inconsapevole. Era di statura regolare, di figura flessuosa e perfetta, di viso incantevole: la sua leggiadria faceva di lei l’idolo delle platee: la sua voce ebbe e mantenne fino alla tardissima età il valore di una carezza: voce calma, insinuante, musicale come nessun’altra ne conoscemmo allora: più tardi ne ereditarono la dolcezza Virginia Reiter e Maria Melato. Quest’ultima, conscia della seduzione di quella voce, ne abusa facendovi un soverchio assegnamento. La Marini mai e poi mai ha avuto il cattivo gusto di fare una speculazione della sua “voce d’oro”. La prodigava come un dono alla folla, come un mezzo per quadrarvi e modellarvi l’arte sua: ma si sarebbe detto che avesse -come della sua luminosa bellezza- l’inconsapevolezza del fascino (starei per dire della provocazione) che quella musica accompagnava. Chi ebbe la fortuna di sentirla, quella voce, non potrà dimenticarla mai più»239. Nel 1935 Riccardo Scaglia scrive: «Per circa trent’anni Virginia Marini tenne -con Adelaide Tessero e con Giacinta Pezzana- lo scettro del teatro italiano di prosa. La Tessero le fu forse superiore per la ricchezza e la spontaneità del sentimento; e la Pezzana ebbe una forza tragica che mancò talvolta all’attrice alessandrina. Ma questa, com’ebbe a scrivere Jarro240, “fu più splendida dicitrice, fu più semplice, ebbe una affabilità e una grazia peculiari e, come donna, apparve sulla scena anche più bella”. Poche attrici, invero, seppero come lei ammaliare il pubblico. Ma Virginia Marini non aveva soltanto il dono della voce, aveva fervido talento, profondo intuito d’arte, e bellissima figura. E come sapeva essere magnifica di vivacità nella commedia goldoniana, così sapeva morir di tisi nella Signora dalle camelie o di veleno nell’Adriana: sul suo mutevole viso tutti i sentimenti avevano un’espressione profonda»241. Ricordando Virginia alla Radio nel 1938, Celso Salvini incomincia ad applicarle quel “romanticismo” che con il libro del ’44 incollerà caparbiamente su tutte e tre. «Fra Adelaide Ristori, divinamente classica, ed Eleonora Duse, la grande tormentata, Virginia Marini aveva rappresentato, colla Pezzana e la Tessero, il periodo del distacco romantico; 239 Cfr. RE RICCARDI 1934. 240 Provenendo da un critico molto severo con gli attori, vale doppio questo giudizio di Jar-
ro, al secolo Giulio Piccinni (1849-1915), che succedette a Yorick nella critica teatrale de “La Nazione” di Firenze nel 1884 e la tenne fino al 1914. 241 Cfr. SCAGLIA 1935.
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ma l’estasi e i rapimenti del romanticismo non si impersonarono così compiutamente in nessuna come in lei. In lei nessun cerebralismo, nessuna civetteria estetizzante; ella era stata felice di scrivere un giorno: “Nell’arte come nella vita il cuore intuisce assai prima dell’intelletto. Bisogna obbedire sempre alle sue ispirazioni”»242. Ritroveremo più avanti questa frase, che Celso Salvini piega un po’ troppo al suo assunto, prendendo per sentimentalismo prorompente quella che è piuttosto un’attorica tecnica della spontaneità. Credo si possa affermare che le personalità della Tessero e della Pezzana misero in risalto, per contrasto, la vittoriosa “normalità” di Virginia, che per un lungo periodo le consentì di sintonizzarsi pienamente con il pubblico e di catturarne una profonda benevolenza. Questa “normalità” si consolidava in un costante rigore esecutivo, in una capacità di “ripetere”, che costituiva la forza della sua arte. Il prossimo libro su di lei (buoni, sto scherzando!) lo intitolerò: “Virginia Marini, o del professionismo attorico”.
242 Cfr. SALVINI 1938, e anche 1944.
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Carlo Goldoni e Virginia Marini
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III.2 Servetta amorosa (1858-1868)
Nel momento (1866) in cui Virginia diventò primadonna, tornando con il capocomico Monti, «uno dei suoi primi studi fu La serva amorosa di Goldoni. Ha voluto con questo prepararsi insensibilmente alla metamorfosi? O conservare nel suo repertorio un ricordo dei passati trionfi? O mostrare al pubblico la propria capacità in tutti i più differenti caratteri? Chi lo sa!»243. La commedia goldoniana, che Virginia interpretò fino al termine della carriera con immutato successo, simboleggia nel titolo i due ruoli in cui eccelse negli esordi: “servetta” e “prima amorosa”, e che la portarono a conquistare quello di “prima attrice giovine” con Alberti (a ventidue anni), per poi acquisire quello di “primadonna” inizialmente con Monti (a ventiquattro) e compiutamente con Salvini (a ventisei). Per meritare la promozione a primadonna “vera”, fra il 1866 e il 1870 Virginia compie perfettamente il passaggio da attrice “comica” ad attrice “drammatica”, ben sapendo tuttavia che le corde della “comica” sono un valore aggiunto per la “drammatica”. «Risulta che, prossima a diplomarsi, la Marini ebbe occasione di assistere ad un corso di recite della compagnia comica di Alessandro Monti e del noto Preda, ultimo dei meneghini. Fu proprio in quel tempo che, lasciato l’insegnamento per l’arte, dopo qualche spiegabile contrasto con i genitori, riusciva nell’intento di unirsi ai comici della stessa compagnia del Monti. Risulta pure che la spinta definitiva per il sospirato consenso paterno sia venuta dall’artista Tessero, il famoso “tiranno” dei suoi tempi, buon amico del Visino e della sua famiglia. Il Tessero, esperto giudice della vocazione e delle possibilità della giovi243 PARON TONI (Antonio Salsilli), Virginia Marini: cenni biografici, Verona: Stab. lit.-tip.
Giuseppe Vianini, 1880 [BTBU].
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netta indusse i parenti a lasciar entrare la loro Virginia come “servetta” nella compagnia dell’ottimo Monti. Oggi [1947] forse può far sorridere la parte di servetta, da tempo scomparsa come sono scomparsi tanti altri ruoli ben definiti: brillante, caratterista, madre nobile, primo amoroso, ecc.; nessuna giovane filodrammatica sarebbe ora disposta a recitare nella parte di umile servetta; eppure proprio in questo modesto ruolo, modesto in apparenza ma in effetto allora non meno importante di tante altri parti, ebbe il suo battesimo di entrata nell’arte scenica ufficiale»244. Sappiamo che in realtà questa “entrata” è resa concretamente possibile dal matrimonio, che sul piano amoroso «non si può dire sia riuscito del tutto felice; dal lato artistico invece si deve considerare riuscitissimo in quanto, sotto la guida del marito, attore mediocre ma esperto maestro e amministratore, la Marini in breve salì alle più alte vette dell’arte nostra»245. Pare infatti che, poco dopo le nozze, il marito diventi socio della compagnia di Alessandro Monti (m.1894) e del meneghino Luigi Preda (1811-1884)246 e in questo modo “piazzi” per la prima volta la sua pupilla. I suoi successi del momento, proprio come “servetta”, sono commedie come La conversazione al buio di Giovanni Giraud; la sua freschezza cattura gli spettatori, la sua voce è già considerata straordinaria; sembra perfetta per le parti brillanti, nessuno intuisce la potenziale tempra drammatica. Il Preda è il contatto di Virginia con il teatro dialettale, che viene considerato formativo. Alcuni sostengono che da questa esperienza Virginia abbia assimilato la semplicità del gesto, la schiettezza della dizione, un gusto tangibile per il “vero”, come avevano fatto Giacinta Pezzana e Adelaide Tessero durante i loro esordi con il piemontese Toselli. È la stessa Virginia a riassumerci i primi passi nella professione. «Entrai, come “servetta”, nella compagnia di Alessandro Monti e del celebre meneghino Preda [nel periodo 1858/1861], nella quale rimasi per tre anni, prestandomi a fare le più piccole parti. Fui a Milano, Torino e Trieste. Gaspare Pieri mi udì e volle scritturarmi; e, per un anno, feci 244 ANGIOLINI 1947, pgg.78/79. 245 ANGIOLINI 1947, pgg.78. 246 Il Preda fu l’ultimo a interpretare la maschera dialettale lombarda di “Meneghino”. Nato
nel 1811, fu socio di Domenico Bassi e successivamente di Alessandro Monti. All’abbandono del Preda, Monti continuò per conto proprio, «conducendo una compagnia, non primaria, ma che salì in grande rinomanza, per l’armonia artistica, l’allestimento scenico, la cura minuziosa» [RASI 1897-1905, vol. III, pg.151].
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sempre parti comiche nella compagnia Pieri-Domeniconi247 [nel periodo 1862/1863]. Poi mi scritturai come prima donna giovane con il capocomico Adamo Alberti248 ai “Fiorentini” di Napoli; stetti due anni nella compagnia in cui erano Clementina Cazzola e Tommaso Salvini. Ritornai nel 1866 con Alessandro Monti, non più come servetta, ma come prima donna. Nel 1867 fui per la prima volta in Toscana con il Monti e recitai a Firenze , d’estate, all’arena Goldoni, e, di carnevale, al Teatro Alfieri. Per amorevole consiglio di Clementina Cazzola, travagliata da un morbo che le insidiava la vita, Tommaso Salvini mi scritturò per sostituire la grande attrice. Era il 1868. L’anno dopo, fui con lui in Ispagna, nel Portogallo, a Nizza»249. Quindi, dopo il battesimo con la Monti-Preda e una stagione con la Pieri-Domeniconi (1786-1867), si lega a Gaspare Pieri (1827-1866), il quale non smetterà di ripeterle che la sua vena è quella comica; con lui Virginia recita anche nelle farse a due personaggi; non è ancora la prima donna della compagnia (lo è la moglie del Pieri), ma è amatissima per la voce incantevole, per la freschezza e vivacità del viso, per la sua innata eleganza. Secondo Pieri la gestica di Virginia è sempre “da commedia”, nel suo portamento c’è sempre grazia ma non c’è mai maestà; aveva quindi indovinato che Virginia non era una “tragica” ma sbagliava a non pensarla in panni “drammatici”, come dovrà ammettere di lì a poco Tommaso Salvini. In ogni caso Virginia ha già intuito che non si fa carriera senza sfondare nelle parti “serie”, davanti ad un pubblico che magari si annoia con la tragedia ma certo la considera il genere “alto”, superiore a tutti gli altri. Forse sarebbe meglio -dopo Alfieri- distinguere la tragedia dal “dramma”, che fu il vero protagonista -in subordine al “melodramma”- del teatro ottocentesco italiano; Virginia fu una grandattrice drammatica e comica, non fu una “tragica” anche se in varie occasioni le cronache generiche la ricordarono con 247 Gaspare Pieri, nato nel 1827, ebbe una fortunata carriera sia come brillante che come ca-
pocomico. Luigi Domeniconi, nato nel 1786, fu il primo interprete di “Paolo” nella Francesca da Rimini del Pellico, accanto alla grande Carlotta Marchionni, prima “Francesca”. Decise di condurre compagnie e divenne famoso per la cura degli allestimenti, per la generosità nei confronti degli scritturati, per la rara onestà. Dal 1847 al 1850 governò una formazione impostata su Adelaide Ristori. Fu tra i primi a intuire la bravura di Tommaso Salvini, al quale trasmise la tendenza a studiare la parte meticolosamente, analizzando frase per frase. 248 Apprezzato brillante, che si provò anche come autore, Adamo Alberti, nato nel 1809, è ricordato per aver diretto, a partire dal fatidico 1848, la Compagnia dei Fiorentini di Napoli per quarant’anni. 249 ROUX 1909, pgg.138/139.
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questo appellativo. «Era una strana metamorfosi però! Un’attrice dedicatasi esclusivamente alle parti di brio, darsi alle parti di sentimento? Dimenticare le intonazioni, i coloriti vivaci, le vispe movenze della servetta, per apprendere le melanconiche sfumature, le grazie ingenue, gli effetti dolci e patetici dell’amorosa? Tutta l’arte -meno pochi, fra i quali chi scrive queste linee- scoraggiò la temeraria con un complimento ironico o con una sincera disapprovazione. Ma la Marini non si disanimò: armata della sua ferrea volontà, del suo ingegno saldo e pieghevole, si slanciò nell’arringo, e ben presto veniva acclamata fra le migliori amorose dell’epoca»250. Non ha avuto la fortuna di essere una “figlia d’arte” ma è ugualmente precoce; a vent’anni è già in condizione di dimostrare la sua bravura, ma non può farlo con le sue sole forze, e la mediazione del marito è insufficiente a questo scopo. Adamo Alberti è un altro incontro determinante per Virginia, perché la introduce in un teatro di livello nazionale come il Fiorentini di Napoli, di cui fu il patròn incontrastato per decenni, ma soprattutto perché la avvicina a Tommaso Salvini, che il capocomico aveva da poco fatto tornare nel suo teatro. Siamo nel 186465. Alberti manda nientemeno che il suo primattore a sentirla a Genova dove recita nel vecchio teatro Andrea Doria. L’impressione è positiva riguardo all’attrice comica, ma Salvini non la trova adatta al drammatico e tantomeno al tragico. Alberti la scrittura comunque nella compagnia del Fiorentini, per quattromila lire (considerate una paga medio-bassa) e due serate d’onore (che invece indicavano una certa considerazione). Anche il marito viene scritturato, il che significa che la coppia ha definitivamente deciso di essere una “ditta” indivisibile e, per il valore di lei, riesce ad imporre la cosa agli impresari. Alberti inizialmente vuole farne una “ingenua”251 o meglio: una prima amorosa; per il suo debutto nel più antico teatro di Napoli (attivo dal Seicento, famoso per aver ospitato i primi melodrammi di Cimarosa, Paisiello e Rossini, e tornato alla prosa nell’Ottocento) sceglie «la commedia Il lapidario [di Dumas], nella quale essa aveva una parte di non lieve responsabilità. Con quanta curiosità ed ansietà l’Alberti l’attendesse al varco è facile immaginare. Fin dalla prima prova tanto il capocomico quanto Tommaso Salvini, 250 PARON TONI (Antonio Salsilli), Virginia Marini: cenni biografici, Verona: Stab. lit.-tip.
Giuseppe Vianini, 1880 [BTBU].
251 TESTONI 1925 dice che, nella vecchia commedia di repertorio, le ingenue sono “civette
coperte dalle penne di colomba”, “fanciulle uscite di convento, che a prima vista pare non sappiano niente di niente della vita”.
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che si erano già preparati per insegnare molte cose alla nuova recluta, rimasero sorpresi della freschezza e dell’efficacia con cui essa rendeva la propria parte. Pareva che già l’avesse interpretata altre volte, tanto curava ogni menomo particolare ogni più leggiera sfumatura. Alla fine l’Alberti e il Salvini, che non avevano avuto l’occasione di muovere la più piccola osservazione, complimentarono moltissimo la Marini e quest’ultimo francamente le disse: “Vi avevo giudicata, dopo avervi udita a Genova, un’attrice essenzialmente comica. Confesso che mi sono ingannato. Ora mi è facile predirvi che rivaleggierete colle nostre migliori prime attrici”. Il vaticinio del Salvini si è, infatti, compiuto»252. La compagnia presenta La missione della donna, novità di Achille Torelli, un esordiente pieno di ingegno e di arguzia, che scriverà una fra le commedie di maggior successo dell’Ottocento: I mariti. De La missione della donna Celso Salvini scrive: «La interpretano Clementina e Tommaso, il vecchio Luigi Taddei, la promettente Virginia Marini che è salita al ruolo di “prima attrice giovine”»253. Quando, nel 1868, sta per tornare con Salvini ma questa volta in veste di primadonna, Virginia ricorda la precedente esperienza in una lettera: «Caro Signor Salvini! Avvicinandosi il momento in cui dovrò far parte della vostra Compagnia, vi pregherei di mandarmi delle “parti” da studiare, onde poi non mi trovi in Quaresima sopraffatta dallo studio. È inutile che vi dica quanto mi faccia piacere il tornare con un sommo artista quale voi siete, da cui ho tutto da apprendere; poiché già lo sapete, fin da quando eravamo insieme a Napoli fu sempre una smania, un delirio per me l’assistere ad ognuna delle vostre rappresentazioni. Tanti saluti per Marini, ed accettate una stretta di mano dalla vostra aff.ma Scolara»254. La “stretta di mano”, formula relativamente diffusa al tempo, si ritrova in chiusura di molte lettere di Virginia; usata da lei, mi dà una sensazione più popolare che borghese; mi piace pensare che rimandi al modo con cui un tempo si chiudeva e si suggellava qualsiasi contratto. Un’altra prova confermò il successo della prima amorosa della compagnia Alberti. «Tita Nane -pseudonimo che cela il nome di Antonio Salsilli255, il migliore e il più intelligente suggeritore che s’ebbe la nostra 252 CAUDA 1925, pg.122. 253 SALVINI 1955, pg.221. 254 SALVINI 1955, pg. 249. 255 Il pluricitato Salsilli è una figura emblematica del teatro al tempo di Virginia. Nato nel
1840, attore mediocre, decise di dedicarsi alla professione di suggeritore e in questo anonimo ma fondamentale “ruolo” divenne famoso. Suggeriva “a memoria” e, all’occor-
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scena di prosa- così narra: “Adamo Alberti scelse un vecchio pasticcio del Bayard: Il nuovo Figaro e la modista. La modista era lei, la Marini. La sala metteva paura. Il pubblico aveva avuto per una settimana i grandi della compagnia, Salvini, la Clementina Cazzola, e non dico altro. Della Marini nessuno aveva mai sentito ripetere il nome. Quand’ecco arriva sulla scena lei con una scatola in mano, vestita proprio come una sartina che si rechi a domicilio; e, senza uscire dalla naturalezza, fa sentire la musica di quella voce. Apriti cielo! Fioccarono gli applausi; e lei, poveretta, non credeva a se stessa. Subito Tommaso Salvini la lanciò nel genere drammatico, e il successo fu eguale. Essa non perdeva sillabe della Cazzola [che in seguito Virginia definì la sua vera maestra e] che per eleganza, naturalezza, profonda intuizione d’arte […] in certi parti non trovò chi riuscisse a superarla; e più tardi, a Firenze, quando la Cazzola ammalò, Tommaso Salvini ricorse alla signora Virginia; e la signora Virginia, improvvisando sera per sera una interpretazione, cominciò a spiccare il gran salto […] dividendo il regno dell’arte con la Tessero e la Pezzana, e tutte e tre facendo credere […] all’esistenza d’un moderno teatro italiano”»256. Luigi Rasi, nel suo dizionario dei comici italiani, considera determinante, per Virginia, l’incontro con Salvini, e in proposito esprime un giudizio ammirato ma severo, da tecnico della recitazione, rimarcando comunque l’eccellente “professionismo” di Virginia, cioè la capacità di non perdere mai la qualità nella ripetitività. «Virginia Marini, al fianco di Tommaso Salvini, diventò una di quelle artiste, rimasta unica poi, che sollevava, come il suo grande compagno e maestro, le platee con una semplice inflessione di voce; era quella una forza sua. I versi, nella sua bocca, si andavano aprendo e sviluppando in melodie nuove, forse non sincere talvolta, forse non sempre d’intonazione perfetta, ma di una meravigliosa efficacia sul pubblico, che rimaneva vinto di sorpresa e soggiogato. L’arte della Marini fu plastica nella dizione e nel portamento. Artista non troppo sincera, forse, al molto studio sagrificò di conseguenza la spontaneità. Gli scatti subitanei, le improvvisazioni inattese, e diciam pure gl’improvvisi lampi d’arte della Tessero mancavano a Virginia Marini; ma nella grande, grandissima artista del morenza, improvvisava per togliere gli attori dalle difficoltà. Fu traduttore dal francese e da altre lingue. Scrisse articoli e saggi di storia del teatro, spesso con un altro pseudonimo: “Paron Toni”. 256 Il pezzo apparve sulla “Tribuna Illustrata”, Roma, settembre 1894, e anche in RASI 18971905, vol. III, pgg. 86/87; ma qui la citazione deriva da ANTONA-TRAVERSI 1929, pgg. 219/220.
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mento mancavan le elette qualità dell’altra, che, se bene un po’ meccanicamente, si mostrava tutte le sere colla stessa voglia, colla stessa arte, cogli stessi mezzi, che formaron sì lungo tempo l’idolatria del pubblico pagante. Perché anche questo va pur notato. Di Virginia Marini non si poté mai dire: “stasera son capitato male; recita col sangue al naso!”»257. Nel 1866, dunque, diventa “prima donna”, ritornando sotto la direzione artistica di Monti, al quale il marito si era nel frattempo associato costituendo la Drammatica Compagnia di Alessandro Monti e Giovanni Battista Marini. Il 1866 segna quindi anche il coronamento del sogno capocomicale del marito che lo condurrà, più avanti, a tentare altresì, sfortunatamente, l’impresariato. I critici cominciano a dividersi, il che peraltro rivela l’avvenuta affermazione nazionale della nostra attrice, ma nel pubblico le accoglienze entusiastiche prevarranno sempre sulle reazioni contrarie. Scrive Jarro nel 1893: «Il pubblico che l’aveva gustata, ammirata in parti leggère, non sapea persuadersi che ella potesse rappresentare le patetiche, appassionate eroine di certi drammi moderni. Era il 1866. Gaspare Pieri aveva suggerito alla Marini non cambiasse il genere delle sue parti: la voce di lei, egli diceva, era maschia, non si sarebbe piegata ad esprimere i sentimenti gentili, affettuosi. Ora accade tutto il contrario. Non già che il giudizio del Pieri non fosse in parte vero. Se nessuno può affermare che a Virginia Marini sia mancata la calda espressione degli affetti, la parola pittrice, in certi momenti, delle immagini, le è mancata l’altissima espressione dell’arte: l’espressione lirica, poetica. Quando recita nell’Adriana Lecouvreur il brano della Fedra, vorrei dire si scorge in lei l’attrice che s’alza in punta di piedi per giungere alla sommità della tragedia… e non vi arriva: ha sempre le intonazioni più familiari, di brava e buona donnina, non l’accento imperioso d’una eroina sublime. Il suo gesto è sempre un po’ angusto, familiarissimo, gesto da commedia, non dico in più alto componimento: il passo è quasi automatico: nel portamento della persona c’è spesso grazia, vaghezza, non c’è maestà: neppur quando occorrerebbe. Forse dico, in germe, il giudizio del Pieri conteneva qualche cosa di vero. Ma l’attrice, con la perseveranza, con lo studio, ha vinto, o superato se stessa: se non fatto dimenticare, compensato certi difetti»258. Proprio sull’Adriana di Virginia, il critico Enrico Panzacchi aveva espresso nel 1883 opinioni diverse. Secondo lui, in questa parte l’allie257 RASI 1897-1905, vol. III, pgg. 89/90. L’espressione finale di Rasi significa che in scena Vir-
ginia era sempre al massimo delle sue capacità.
258 JARRO 1893, pg. 56.
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va Virginia supera la maestra Clementina Cazzola, che usava forme “elegiache”, che con “le sue occhiate lunghe e profonde e le sue grida appassionate rotte dal pianto” dimostrava una “sensiblerie delicata e un tantino leziosa” di natura romantica. Virginia è diversa, ha incominciato come servetta, ha assunto una particolare “naturalezza goldoniana” che le conferisce spontaneità e originalità anche nel drammatico e nel tragico. Nell’Adriana secondo Panzacchi è «forse meno ligia alle intenzioni di Scribe e Legouvè, forse meno fedele alla biografia, ma più conforme a natura e verità. Se non si trattasse di una povera parola sciupata, calunniata e resa ridicola, direi che la signora Marini è attrice verista, nel senso più bello e potente della parola. Esaminatela in ognuna delle sue principali parti drammatiche, poi confrontatela nella Serva amorosa: le note variano, salendo dagli accordi più umili ai più complicati e potenti, ma la intonazione è sempre la stessa: la verità finalmente studiata, fortemente sentita, entusiasticamente significata, con unità rigorosa di metodo e di intendimenti»259. Insomma, Virginia nel biennio 1866-68, come prima donna di Alessandro Monti, mentre si avvia ad un venticinquennio di applausi e onori, rivela già le sue coordinate. È una donna timorata di dio, una lavoratrice onesta e coscienziosa, che tuttavia decide di liberare il fuoco artistico che le si è acceso in petto fin dall’infanzia. Si è tuffata nelle braccia del “peccaminoso” Teatro, assumendo come antidoto una vita privata rigorosa, probabilmente grigia, tenendosi mandrognescamente lontana dai “clamori” eccessivi, e soprattutto riconoscendo in se stessa (con umiltà che credo sincera) i limiti che la separavano dalla genialità. Questo le consentì di imparare molto da colleghi-maestri e, insieme, di trovare una chiave personale, di assicurarsi il favore di un “suo” pubblico popolar-borghese. Virginia si muove in un periodo teatrale fondato sull’attore; non è in grado di influenzarne l’evoluzione ma lo incarna con attenta e duttile professionalità. Porta sulla scena un “verismo romantico”, che credo sia un modo discutibile ma efficace di definire il suo stile e di collocare la sua attività (si ricordi il “verismo artistico” che Zacconi attribuisce a Salvini). Quando divenne la protagonista della compagnia di Monti «nessuno se ne stupì. Era un’artista che non avrebbe mai fatto un passo falso. Possedeva le doti per sostenere tutti i confronti. E non se ne inorgogliva. Non cercava di imporsi a forza di gomiti, accettando il favor popolare coll’appoggiarsi al repertorio di grosso effetto e di resultato 259 PANZACCHI 1883, pgg. 175/181.
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immediato. Prova ne sia che affrontò la sua prima affermazione maiuscola in una commedia comica, in omaggio forse ai consigli di Gaspare Pieri: La serva amorosa. E la commedia goldoniana, in cui fu una Corallina impareggiabile, rimase sempre legata al suo nome. La critica di un ventennio continuò a proclamare che sotto la gentile umiltà “di quel guarnello260” non ebbe rivali»261. Ci fu chi continuò a preferirla “comica” e non solo goldoniana, tanto che il “Corriere della sera” del 2 marzo 1881 scrive: «Nei Dispetti amorosi la Marini fu un’innamorata deliziosa. Si mise una parrucca fulva che le stava benissimo e vestì un abito proprio dell’epoca. Risoluta, ingenua, furba nello stesso tempo, ci pareva una vera creatura di Molière, una ragazzetta di quei tempi rediviva. Decisamente, Virginia Marini è creata per la commedia vispa, come pel dramma sentimentale». E infatti “L’arte drammatica” del 28 settembre 1878 aveva scritto su La signora dalle camelie di Virginia: «Le gradazioni della vita sofferente e malandata, che la trascinano alla tomba, sono degne della grande artista. Grande nei momenti di affetto, nelle sofferenze, nelle gioie, nelle speranze che le si leggono sul volto; sublime fino a quando l’ultimo alito strappa dalla terra una vita che si sente rinascere alle illusioni, alla felicità nelle braccia di Armando»262. Quindi Adriana e Serva sono già due cavalli di battaglia per la giovane Virginia, ma il ruolo di prima donna unica allarga il suo repertorio. In febbraio-marzo 1866 e nell’ottobre 1867 la compagnia Monti-Marini si esibisce al teatro Aliprandi di Modena263; la prima stagione vede 12 attrici e 17 attori per 33 recite; la seconda 10 attrici e 18 attori per 30 recite; ogni sera un testo principale (scelto fra “tragedie, drammi, commedie”) e una farsa, oppure due testi; il repertorio è dunque vasto, come imponevano le consuetudini del tempo: Dumas, Molière, Scribe, Sardou, Goldoni, Alfieri; le commedie di Bayard, Francesca da Rimini del Pellico, Pia dei Tolomei di C. Marenco, opere di Giacometti e novità italiane; ma su tutte, un altro cavallo di battaglia per la venticinquenne Virginia: La signora dalle camelie, «il “pezzo forte”: ma fu un pezzo forte ammansito dalla sua sensibilità [così scrive Celso Salvini nel 1944], e recitarlo volle dire realizzare un dolce sogno vagheggiato fino dai suoi quattordici anni. Creò una Margherita Gauthier tutta sua: fino dai primi atti ne fece una creatura assorta, malinconiosa, già trasferita nel 260 “Veste rustica femminile, scollata e senza maniche, portata un tempo, in casa, dalle conta-
dine” [DEVOTO-OLI, 2011].
261 SALVINI 1944, pgg. 59/60. 262 CIOTTI 1978, pgg. 151 e 149. 263 TARDINI, 1899, pgg. 383/385 e 416/418.
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mondo della poesia. Ebbe l’aria di non conoscere l’avventuriera scettica e sfacciata; di non sapere e di non voler figurarsela. Fu piuttosto una Margherita goethiana, meglio ancora una donnina di casa, un po’ borghese e molto innamorata. Sbaglio evidente, errore di grosse proporzioni dal punto di vista di Alessandro Dumas. Errore che, se dipendeva dalla sua indole, era anche -volontariamente o no- coraggioso, perché poteva provocare un resultato negativo, un fiasco assai clamoroso. Invece, ebbe ragione lei. Creando intorno a Margherita un’atmosfera di simpatia, di sacrificio, fin dall’inizio, vinse su tutta la linea. E La signora dalle camelie si replicò, nel carnevale del 1867, per ben venti sere al Teatro Alfieri di Firenze: lo racconta Ermete Novelli in uno dei suoi Foglietti sparsi, quando parla di Firenze capitale d’Italia [dal 1864 al ‘70], con le Corti, i Ministeri, le Ambasciate, con due grandi teatri di musica. Due “stenterelli” di fama e tre Compagnie di prosa, al Niccolini al Nuovo e all’Alfieri. “Virginia Marini, giovane e già valentissima, dalla voce paradisiaca, nel torneo delle prime attrici di quel carnevale era la trionfante”»264. Fa eco Jarro, che pure -si è detto- è fra i critici più severi. «Nel 1867 venne per la prima volta in Toscana col Monti e recitò in Firenze, d’estate, all’Arena Goldoni. Gli entusiasmi che ella suscitò non si ridicono. Il pubblico si accalcava in quel teatro ore e ore prima che la rappresentazione incominciasse. Fu poi, nello stesso anno, di carnevale, al Teatro Alfieri. Firenze amò, sin d’allora, la grande attrice: Firenze, sì difficile a lasciarsi conquistare dagli artisti, e che crea, non accetta bell’e fatte, di seconda e cattiva mano, le riputazioni, adottò subito la giovane prima donna dalla voce d’oro, la graziosa fata sì ammaliante su le scene, interprete sì coscienziosa»265.
264 SALVINI 1944, pgg. 60/61. 265 JARRO 1893, pg. 57.
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Ritratti di Virginia Marini
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III.3 Primadonna (1868-1894)
Nel 1868 passa nella compagnia Salvini per sostituire la Cazzola. Proprio in quell’anno nasce un’altra Virginia, la Reiter (al secolo Reiterer, 1868-1937). La nostra Virginia la scoprì per caso nella compagnia di Giovanni Emanuel (quando la Reiter era diciottenne) e l’apprezzò subito, adoperandosi per la sua carriera. Infatti «proprio con la Marini si affermò per la prima volta, nell’86, ai Filodrammatici di Milano con La figlia di Jefte di Cavallotti»266. Nei decenni successivi alcuni considereranno la Reiter una continuatrice ideale dell’arte della Marini, forse perché entrambe dotate di eccezionali strumenti vocali, forse perché la Reiter, pur vicina alla recitazione “nevrotica” di fine secolo, conservava l’elaborazione accurata della naturalezza, lo studio approfondito della parte, gli equilibri psicologici, insomma il “professionismo” che aveva certamente osservato nella nostra Virginia. La Reiter sarà famosa per Madame Sans-Gēne di Sardou e per essere stata una magnifica prima interprete de La lupa di Verga nel 1891. Tommaso Salvini si era affermato nel 1848, nemmeno ventenne, entrando nella compagnia Domeniconi dove recita a fianco di Adelaide Ristori; nel 1856, nella compagnia di Cesare Dondini, incontra la sua vera compagna d’arte: Clementina Cazzola (1832-1868), che diventa sua moglie e che un altro grande attore, Ernesto Rossi, definì “attrice romantica drammatica”. La Cazzola, minata dalla tisi (che sulla scena le permise di dare una interpretazione di Margherita Gauthier tristemente sublime e inimitabile, che nel 1865 le valse, al Fiorentini di Napoli, la visita in camerino dello stesso Dumas fils e le sue lodi commosse), muore a soli 36 anni. Già costretta dalla malattia a star lontana 266 F.B., Scomparsa di una grande attrice. Virginia Reiter, La Stampa, 23.01.1937 [ALST].
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dal palcoscenico, la Cazzola vive con umana gelosia l’attenzione (pur esclusivamente artistica) per Virginia del marito, che la sta scegliendo come sostituta. Salvini aveva avuto dei dubbi in proposito, «ma la ferrea volontà di Virginia, il suo desiderio di apprendere, la sua docilità nell’ascoltare gli insegnamenti e nel farne tesoro, gli resero cara la giovine attrice e lo convinsero trattarsi di una “scolara” -come ella graziosamente amava chiamarsi- che sarebbe arrivata lontana. Non glielo disse, memore dei precetti di Gustavo Modena, che mai lodava direttamente un allievo, per non insuperbirlo. E, direttore duro e severo forse più con lei che con altri, arrivò a farle ripetere un grido della Zaira per un mese di seguito, finché non fu soddisfatto. Quando, due anni più tardi, nel 1870, si staccava da lui, Virginia Marini era ormai una “laureata con lode”»267. Virginia fa dunque coppia artistica con il più famoso attore del momento, “succedendo” a due regine del palcoscenico. È Jarro a marcare questo evento. «Tommaso Salvini, dopo la Ristori, la Cazzola, non ha avuto accanto a sé una prima donna, che fosse più degna di lui. Virginia Marini compariva su la scena bellissima: le due voci si rispondevano, con una armonia, una freschezza di suoni ch’era un incanto. Ricordo Virginia Marini, nel Figlio delle Selve, con le sue belle spalle nude risplendenti, le sue braccia tornite: accanto al colosso, che avrebbe potuto sostener solo tutta la gloria dell’Arte del recitare nel nostro tempo… Non v’è donna che in quella parte della fanciulla greca, sì lievemente ombreggiata dall’Halm, sia stata di maggior grazia, di maggior candore, di maggior verecondia, e più armata di que’ vezzi che riescono a attutire, a addolcire i cuori più rozzi. Ah! L’ho vista allora Virginia Marini nella Pamela, accanto a Tommaso Salvini, che sospirava, è la parola, con divini accenti la parte di Lord Bonfil [del quale Pamela-Virginia è innamorata]. E, quando penso a quelle recite, e a ciò che oggi [1893] udiamo, mi domando, per Dio, se sono attori della stessa razza, se parlano fin la stessa lingua»268. La musicalità delle due voci è “incomparabile”. Virginia dimostra già che con la voce può fare quello che vuole: «poteva essere terribile e dolcissima; urlare l’odio più profondo, cantare l’amore più tenero. Nessuno resisteva: sembrava che il pubblico fosse preso da follia collettiva. Qualcuno ha voluto giudicare che l’arte della Marini diveniva artifiziosa. A me, che di questa attrice ho notato in tante parti la semplicità più schiva di ogni ricerca banale 267 SALVINI 1955, pg. 250. 268 JARRO 1893, pgg. 57/58.
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di effetti, sembra, invece, che fosse soltanto questione di mezzi. Quelli della Marini erano preponderanti. E, d’altra parte, se pure fosse stato artifizio, bisogna pensare che molti attori, pur divenuti celebri, non hanno, in qualche momento della loro recitazione, rifuggito dall’adoperare una raffinata furberia, per farsi acclamare dal pubblico»269. Se il biennio con Monti era stato un passaggio fondamentale, l’affiancamento a Salvini è la consacrazione a primattrice di livello nazionale. Virginia si dichiarò sempre, e spesso si firmò nelle lettere loro indirizzate, “scolara” di questa ennesima trinità: Ristori (guardata come modello iperuranico), Salvini e Cazzola (ascoltati e osservati direttamente sul campo). Persino ne La signora dalla camelie la giovane Virginia regge il confronto con la Cazzola, senza imitarla, «con una interpretazione [scrive nel 1944 l’alessandrino Angiolini], che forse non va disgiunta da quel sentimento religioso che pur nella avventurosa sua vita teatrale, era rimasto fortemente radicato nell’animo della nostra concittadina. Nella protagonista del lavoro la nostra Marini non vide la mondana, ma soltanto la peccatrice redenta dall’amore e dal dolore. Il pubblico comprese perfettamente il pensiero e lo sforzo della grande artista e con applausi interminabili diede il suo consenso alla nuova interpretazione del lavoro dumasiano, anche se diversa forse dal pensiero dell’Autore»270. È un tipico interventismo dell’attore sul testo, ma non subordinato -come di norma- agli effettismi mattatoriali bensì quasi censorio sui contenuti, al fine di ottenere il gradimento di un pubblico borghese, tanto intraprendente quanto moralista, che è il perfetto interlocutore dell’arte di Virginia, cui lei vuole trasmettere la “sicurezza” inconscia di non ricevere mai scossoni intellettuali ma “solo” emozioni profonde. Quando gli spettatori, di lì a non molto, cederanno progressivamente alle lusinghe della belle époque, cioè ad emozioni superficiali, il successo comincerà a smorzarsi e Virginia (forse grazie ai suoi mandrogni piedini per terra) ne prenderà amaramente ma saggiamente atto. Ovviamente, per avere Virginia, Salvini ha dovuto cuccarsi anche il marito; lo dimostra il contratto che i coniugi Marini sottoscrivono con la “Drammatica compagnia di proprietà e sotto la direzione di Tommaso Salvini”, conservato presso il Museo dell’Attore di Genova. Vale la pena di riprodurlo perché è un resoconto chiarissimo delle pratiche teatrali allora vigenti. 269 LIBERATI 1930, pgg. 177/179. 270 ANGIOLINI 1947, pg.81.
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Con questa scrittura privata, che vogliono le parti abbia forza e vigore d’istromento rogato per mano di pubblico Notajo di questa od altra città, restano fissati e stabiliti dal signor Tommaso Salvini, o chi per esso, per un anno avvenire, cominciando con il primo giorno di Quaresima 1868 e terminando con l’ultimo giorno di Carnovale o Carnovalone 1868 in 69 I Signori Virginia e Giov Batta Marini sotto i seguenti inalterabili patti e condizioni: Primo. I Signori Virginia e G.B. Marini suddetti saranno obbligati di recitare tutte le parti come appresso vengono indicate, che dal direttore gli verranno assegnate senza ulteriore pretesa e contraddizione alcuna. Secondo. I Signori Virginia e G.B. Marini suddetti saranno obbligati di vestirsi con lusso e decenza in tutti i singoli caratteri che gli verranno assegnati secondo le epoche, e così pure avranno ogni cura di essere precisi nelle ore delle prove ne’ luoghi e tempi che gli verranno indicati attenendosi in tutto e per tutto alla direzione del signor Tommaso Salvini o di chi sarà da lui destinato a rimpiazzarlo. Terzo. Saranno tenuti i Signori Virginia e G.B. Marini di recarsi in qualunque città d’Europa che gli venga dal Direttore indicata, a partire ed arrivare nel giorno stabilito per darvi una o più rappresentazioni secondo sarà di volontà o convenienza del Direttore. Quarto. I viaggi in Italia saranno a carico delli Signori Virginia e G.B. Marini ma uscendo dall’Italia il viaggio delli Signori Virginia e G.B. Marini sarà a carico del Direttore. Nei viaggi in Italia e sue Isole dovranno servirsi di diligenze, strade ferrate, vapori, ecc., ecc., onde trovarsi nel tempo indicato alle piazze stabilite dal Direttore, e saranno obbligati di precedere o seguire la Compagnia come verrà indicato dal direttore. Nei viaggi fuori d’Italia il Direttore pagherà alli Signori Virginia e G.B. Marini due posti di 2° classe nelle strade ferrate e posti interni nelle diligenze o vetture cominciando a pagare il viaggio dalla frontiera d’Italia sia nell’andata come nel ritorno. Sesto. Il trasporto degli equipaggi è tutto a carico del Direttore sia in Italia che fuori. Però i Signori Virginia e G.B. Marini dovranno portare seco il vestiario delle ultime quattro rappresentazioni e quello delle quattro prime della piazza susseguente. Facendo un piccolo corso di recite è in diritto del Direttore il non portare che quella parte di bagaglio che è strettamente necessaria per le poche rappresentazioni stabilite. Settimo. Il Direttore si obbliga di avere tutta la cura possibile degli effetti che verranno consegnati dai Signori Virginia e G.B. Marini suddetti ma non si rende responsabile dei danni che potrebbero emergere per cattivo involto, forza maggiore od altro. Di più il vestiario che i Signori Virginia e G.B. Marini porteranno fuori d’Italia dovrà essere imballato in bauli che non siano di smisurata grandezza e che possano essere accettati sulle diligenze e nelle strade ferrate. Ottavo. Saranno obbligati i Signori Virginia e G.B. Marini di mantenersi del proprio, vitto, alloggio, vestito, ecc. ecc., come pure pensare alle spese di passaporto.
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Nono. Dovranno uniformarsi i Signori Virginia e G.B. Marini a tutti i tagli o restrizioni o cambiamenti che la censura o il signor Direttore crederà opportuno di fare sulle Produzioni. Decimo. Dovranno trovarsi ogni sera in Teatro ( o far sapere dove sarebbero reperibili in caso d’urgenza) un’ora prima dello spettacolo, anche non facendo parte del medesimo, come pure di non aggiungere alcuna frase del proprio o d’altro nelle parti che gli verranno assegnate senza opposizione o contraddizione. Undecimo. Saranno obbligati i Signori Virginia e G.B. Marini di recitare tutte le sere anche nelle farse, e se sarà di convenienza del Direttore dovranno agire eziandio in due commedie intere nella sera medesima. E qualora il Direttore lo creda necessario dovranno prestarsi per due Rappresentazioni nello steso giorno, vale a dire una al dopo pranzo e l’altra la sera. In questo caso però il signor Direttore dovrà aumentare la paga di un 50 per 100, ben inteso in quei giorni soltanto in cui questa doppia rappresentazione ha avuto luogo. Duodecimo. In caso di malattia di attori si obbligano i Signori Virginia e G.B. Marini di supplire onde non resti imperfetta la rappresentazione. Tredicesimo. In premio delle loro virtuose fatiche e di tutti gli obblighi su esposti il signor Tommaso Salvini o chi per lui si obbliga di pagare ai Signori Virginia e G.B. Marini suddetti la somma di undici mila lire italiane o sua giusta valuta in tante settimane o spesati giornalieri anticipati, il primo dei quali il primo giorno di quaresima dell’anno 1868 e l’ultimo soltanto l’ultimo giorno di Carnovale o Carnovalone 1868-69. Quattordicesimo. In caso di malattia dell’Artista prolungata fino al quindicesimo giorno, il Capo-Comico avrà diritto di sospendere la paga e prolungandosi fino ad un intero mese di sostituire altro attore se gli piacesse. Quindicesimo. All’uscire d’Italia il Direttore si obbliga di corrispondere alli Signori Virginia e G.B. Marini oltre il consueto stipendio portato dal contratto presente un aumento del 30 per 100 sulla paga giornaliera, il quale aumento dovrà computarsi dal giorno della partenza fino a quello del ritorno in Italia. Sedicesimo. Avvenendo casi fortuiti in materia di Teatri, per forza maggiore, incendj, sospensione per ordine delle Autorità. guerra guerreggiata, ecc. ecc., la paga verrà sospesa fino al ricomparire in scena della Compagnia. Diciassettesimo. I Signori Virginia e G.B. Marini si obbligano di uniformarsi al regolamento di scena e alle penali ch’esso in caso di mancanza alle prove, alle rappresentazioni o a qualunque altra parte del dover suo. Il suaccennato Regolamento gli sarà consegnato il primo giorno di Quaresima. Diciottesimo. Le parti contraenti in caso di divergenza d’idee sull’adempimento del contratto si sottopongono alla decisione delle leggi locali accettando per arbitro il Tribunale di Commercio o altro Tribunale qualunque del paese in cui si troverà in quel momento la Compagnia.
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E per l’osservanza di tutte e singole le condizioni su espresse e reciprocamente convenute e stabilite, annullando qualunque altra intelligenza verbale o scritta, le parti contraenti obbligano le persone e i loro beni presenti e futuri e gli oggetti di rispettiva proprietà, sottoponendosi fin d’ora a tutti i danni ed interessi che potessero emergere dalla mancanza dei patti convenuti; i quali danni vengono fin d’ora liquidati nella somma di tre mila lire italiane la qual somma verrà pagata dalla parte mancante senza eccezione veruna ed in qualunque luogo si presenterà copia del presente contratto come se fosse una cambiale accettata perché così hanno le parti stabilito e convenuto. La Signora Virginia Marini viene scritturata in qualità di Prima Donna Assoluta. Il Sig. G.B. Marini viene scritturato in qualità di Generico escluse le ultime parti, quali sarebbero i servitori d’ambasciate, i Notaj di una battuta et. et. I Signori Virginia e G.B. Marini avranno diritto a quattro serate, ad uso comico nel corso dell’anno, alle quali dovrà prendervi parte il Direttore Tommaso Salvini. Articoli addizionali. 1.Il Signor G.B. Marini dovrà uniformarsi al sistema tenuto da tutti i singoli attori della compagnia suddetta, caso mai abbisognasse in qualche sera di sortire vestito, e rappresentare qualche personaggio senza parlare. 2. I Signori Virginia e G.B. Marini avranno diritto ad una sovvenzione del 10% sulla loro paga da ritenersi dal capocomico nel corso dell’anno e pagabile al giorno 31 gennaio 1868. Firme.
Alcuni mesi dopo Salvini conferma i coniugi Marini per la stagione 1869/70, portando l’ingaggio a dodici mila lire, e scritturando anche la figlia di lui, Adelaide. Inoltre concede a Virginia di non recitare la tragedia “Giovanna d’Arco” (che egli aveva stabilito fosse messa in scena nelle serate dei suoi riposi settimanali) e di scegliere lei stessa il repertorio da presentare in quelle serate. Salvini è generoso con Virginia, che pure è già del tutto primadonna anche nelle pretese; era stata lei a chiedergli di scritturare la figlia, allora sedicenne, di primo letto del marito per consentirgli di tenerla accanto. Questa indulgenza vale doppio, perché Salvini è profondamente irritato dei modi di Giovanni Battista Marini, che si era ormai calato nel tipo del marito-agente, sempre incollato alla moglie che è il suo unico cliente, capace di rovinare o almeno ostacolare i rapporti artistici della sua rappresentata. Salvini decide di non nascondere questa opinione a Virginia scrivendole una lunga lettera, da cui traggo i brani più espliciti. «Carissima Virginia, quando mi si propose la coppia Marini, vi
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confesso candidamente che esitai alquanto ad accettarne l’esibizione, per la fama di incontentabili che, vera o falsa, godevate presso i vostri compagni d’Arte. Veniste in mia Compagnia e cominciai a lasciarvi un riposo alla settimana cui non avevate diritto, a proporvi di fare le vostre serate in quelle Città che credevate di vostro maggiore interesse, il che non è poco utile. Voi, o per meglio dire vostro marito, giacché lo credo la molla principale d’ogni vostra azione, che avete fatto per me? A Firenze quel goffo Marini, e dico poco, giacché in questo caso dovrei dire “cattivo”, pronunciò parole offensive al mio riguardo. Oggi vi lamentate che recitate troppo e che soccombete sotto la fatica, domani perché dopo il Sansone e La suonatrice d’arpa, onde non aggravarvi tanto, faccio l’Alfieri, vi lagnate. A Firenze vi lamentavate di avere avuto il secondo camerino, invece del primo, il quale poco differiva dal vostro, e molto più acconcio per me, che sono uso a fumare; mentre all’Alfieri in Quaresima vi lasciai quello del Palcoscenico, a Milano lo stesso, e scrissi appositamente a Genova perché vi facessero tappezzare quello rimpetto al mio. Ecco che jeri a sera, vostro marito fa una delle sue troppo frequenti guasconate. La vostra famiglia ha tutto il diritto di entrare quando che voglia in Teatro, ma io ho le mie ragioni per volere che tutti siano provveduti di un regolare permesso, e non so con quale scopo il Marini voglia indagarne e pretenda investigarne le ragioni. Desidero che quando si ha da reclamare contro qualcuno, si venga da me, e non si facciano piazzate con una ridicola importanza “da marito della prima donna”»271. Nel 1868, al teatro Re di Milano, Virginia recita in Zaira di Voltaire e in Otello. Qui la compagnia inscena un polpettone di successo: Il figlio delle selve di Frederick Halm (pseudonimo del barone Munc-BellingHausen), dove Salvini si cala, con prestanza fisica e voce tonante, nei panni di un barbaro, il quale viene puntualmente domato dalla bellezza e dalla voce soave della fanciulla Partenia-Virginia. L’anno seguente partono per una tournée in Portogallo (Lisbona, Coimbra) e in Spagna (Madrid, Barcellona, Siviglia, Saragozza), dove Virginia ottiene un successo che non perderà mai nelle successive tournées iberiche. Durante la sua permanenza al Teatro della Commedia di Madrid la famiglia reale frequenta assiduamente le sue recite e la invita a Corte per esprimerle ammirazione e per “parlare d’arte” con lei. Persino in Parlamento (le Cortes) si citano i suoi successi. Virginia è arrivata alla sua prima tournée internazionale a ventisette anni; Salvini non ha certo fatto una campagna promozionale per sostenerla in un tale debutto; eppure lei 271 Il contratto e la lettera sono in MAGE, Fondo Tommaso Salvini.
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ce la fa. Il “Gil Blas” di Madrid scrive: «Quando si annunziò l’arrivo in Madrid della compagnia italiana, si pronunciava un nome solo, quello di Salvini. Egli solo, fra tutti gli attori, sembrava degno degli applausi e delle ammirazioni del pubblico. Vedi però come è giusto, e più ancora, quanto è intelligente il popolo di Madrid, poiché, senza che la precedesse il solito “grido”, indovinò subito in Virginia Marini un’artista superiore, degna compagna del Salvini»272. Probabilmente questa coppia artistica avrebbe ripetuto a lungo i suoi trionfi; nel 1908 un amico, entrando nello studio di Firenze del grande vecchio per intervistarlo, ci rivela: «In una parete facevano bella mostra una infinità di ritratti d’attori e di attrici celebrate: notai Clementina Cazzola, Gustavo Modena, Luigi Vestri, Virginia Marini, Rossi, ecc»273. Ma l’incompatibilità fra il Maestro Salvini e il Cavalier Marini dev’essere stata davvero irrisolvibile. Nel 1870 (mentre Roma diventa capitale) entra nella “Drammatica Compagnia Lombarda diretta da Alamanno Morelli”, prendendo il posto di Pia Marchi274, il che significa che Morelli cercava un’attrice versatile, pronta a generi diversi. Nessuna più adatta di Virginia. Rispetto all’esperienza con Salvini, in questa compagnia trova un repertorio più ampio, ricco di testi “sicuri” ma anche attento alle opere poco frequentate: Un pugno incognito di Vittorio Bersezio, Fuochi di paglia di Leo di Castelnuovo, Il bacio di Luigi Rossi, Il manto della vedova di Sardou, la novità Marinella di Goffredo Franceschi, Le false confidenze di Marivaux, Il ridicolo di Ferrari, L’eredità di un geloso di Panerai, Misteri d’amore di Dominici. Il pubblico applaude ma è disattento e poi, si sa, diffida sempre delle novità: accoglie, per esempio, Le compensazioni di Giuseppe Costetti solo per rispetto degli interpreti, ovvero ciò che la critica chiama un “successo di stima”. Autentico successo invece per Agnese, il nuovo dramma in sei atti in versi di Felice Cavallotti in cui Virginia viene giudicata “sublime”. Vere ovazioni ottiene quando dedica una sua serata d’onore al Gerbino di Torino a Adriana Lecouvreur: «il dramma riuscì splendidissimo per esecuzione artistica e per messa in scena. La Marini superò se stessa nella parte della protagonista ed entusiasmò il pubblico al punto da venire addirittura stancata di applausi e chiamate alla scena»275. 272 PARON TONI (Antonio Salsilli), Virginia Marini: cenni biografici, Verona: Stab. lit.-tip. Giu-
seppe Vianini, 1880 [BTBU].
273 RUSSO-AJELLO Antonio, Tragedia e scena dialettale, Torino-Genova: Casa Editrice Renzo
Streglio, senza data [anni Dieci del Novecento?].
274 Pia Marchi-Maggi, nata nel 1846, era da sei anni con Morelli. Aveva esordito in compagnia
con Adelaide Ristori e si era poi imposta come caratterista brillante vivacissima
275 “Gazzetta piemontese”, 17.12.1874 [ALST].
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Questa Virginia neanche trentenne e appena approdata alla fama non si risparmia; dimostra la sua vena “comica” recitando anche (le primedonne non lo facevano) nei proverbi: Il peggio passo è quello dell’uscio e Chi sa il gioco non l’insegni di Ferdinando Martini, Mia moglie è sciocca di Nus, Lupo e cane da guardia di De Renzis. Con Morelli conquista le città più teatrali d’Italia, a cominciare dalla “sua” Torino dove la compagnia inaugura la propria attività al teatro Gerbino facendo stagione in novembre/dicembre 1870. Le cronache cittadine ne accolgono con entusiasmo l’arrivo: Virginia è «tanto buona, tanto bella, tanto brava», «Vi è la Marini e tanto basta», «Ogni reclame sarebbe inutile per la compagnia Morelli»276. Il teatro Gerbino di Torino si può considerare la “casa” di Virginia anche se la nostra attrice fu simpaticamente accolta da tutti i teatri italiani che frequentò. La piemontesità di Virginia si tradusse molto più in torinesità che in alessandrinità. Sotto la Mole i cronisti la chiamarono sempre “la nostra concittadina”. Virginia conquistò le platee del Carignano e dell’Alfieri, ma ebbe un legame forte con il “popolare” Gerbino, che forse le ricordava i politeama mandrogni e aveva un pubblico “vero”, il più caro alla Virginia diva provinciale277. La compagnia Morelli-Marini diventa di casa al Gerbino. Nel gennaio 1873 Virginia tiene una serata d’onore il cui “sceltissimo” programma restituisce bene l’idea della generosità della seratante, che non sfoderava soltanto i cavalli di battaglia, ma si metteva in gioco per “guadagnarsi” i doni degli ammiratori: «Una nobile vendetta, dramma i due atti di Adolfo Belot; Fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, proverbio nuovissimo in un atto in versi martelliani di Evasio Fossati; indi un atto dei signori Meilach e Halevy (autori del Frou Frou) traduzione di Yorick, dal titolo: Quella signora che aspetta. A tanta artista nulla si niega»278. Nel 1871 arriva a Bologna, nel “più popolare dei teatri”, famoso in tutt’Italia: l’Arena del Sole, “luogo dato agli spettacoli diurni”279 come dice la scritta ottocentesca sulla facciata; un teatro dove Virginia aveva recitato giovanissima con la Monti-Preda nel 1860 e 1861, e con Alessandro Monti nel 1867. Giovanni Emanuel, che più avanti lavorerà con Virginia, 276 “Gazzetta piemontese”, 01.11.1870 [ALST]. 277 L’Archivio informatico de La Stampa di Torino ha pubblicato, a partire dall’anno di chiusura
del Gerbino: il 1904, delle cronache su questo teatro interessanti e simpatiche: La fine di un teatro – 18.10.1904; Giornali e riviste – 12.10.1924; Quando al Teatro Gerbino il biglietto di platea costava otto soldi – 01.07.1942; Il Teatro Gerbino – 26.02.1954; Quando in Torino c’erano tanti teatri – 12.12.1966 [ALST]. 278 “Gazzetta piemontese”, 21.01.1873 [ALST]. 279 Cfr. TESTONI 1925, pgg. 40/41.
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celebra questo luogo particolare con enfasi ma fornendo una buona informazione sui costumi teatrali dell’epoca: «Qual è lo spettacolo che offre la maggioranza dei “signori” nei teatri d’Italia? Divagazione, trascuratezza, noia, disprezzo. Se dai un’occhiata nei palchi, nelle barcaccie vedi gente sdraiata che “binocola” la sala, legge giornali, parla, conversa e, per caso, guarda di tanto in tanto in scena per constatare se l’attrice o l’attore sono vestiti alla moda! Le poltrone sono occupate dopo il primo atto. Cosa ti offre il pubblico dell’Arena del Sole? Precisamente l’opposto, l’antitesi del teatro dei “signori”. Quando comincia lo spettacolo tutti gli spettatori sono al loro posto, e assistono allo svolgersi dell’azione con un’attenzione ammirabile. Gli scoppi d’entusiasmo, d’ira, di ribellione, sono la prova di codesta religiosità d’attenzione. E questo perché? perché il pubblico dell’Arena è eminentemente popolare»280. Virginia vi fa la sua beneficiata con La signora dalle camelie; il pubblico si inebria; viene costituito un comitato per la realizzazione di un medaglione in marmo di Carrara, collocato nell’ingresso del teatro, che reca la scritta: “A / Virginia Marini / Plauditissima / In arte drammatica / Gli ammiratori / Dedicarono l’anno 1872”281. Quando nel 1910 Virginia, anziana, ritiratasi da tempo, tornerà nell’Arena per il centenario dall’apertura, si dirà che i vecchi ancora la ricordano nella “straziante agonia” de La signora dalle camelie. Virginia si esibisce con Morelli all’Arena del Sole per tre anni consecutivi con un vasto repertorio, fra cui: nel giugno-luglio 1871: I dissoluti gelosi di Giuseppe Costetti, Fragilità di Achille Torelli, La famiglia, Celeste e Il ghiaccio del Monte Bianco di Leopoldo Marenco, Amore senza stima, Roberto Vighlius, Prosa, L’attrice cameriera di Ferrari, Le false confidenze di Marivaux, La riabilitazione di Montecorboli, La suonatrice d’arpa, Fernanda, Adriana Lecouvreur; nel giugno-luglio 1872: La principessa Giorgio e La signora dalle camelie di Dumas fils, Prosa e Il duello di Ferrari, Triste realtà di Torelli, Cuore di donna di Ippolito Tito d’Aste; nel luglio 1873: La moglie di Torelli, Vita nuova di Gherardi del Testa, Il ridicolo, La satira e il Parini, Cause ed effetti e Goldoni e le sue sedici commedie nuove di Ferrari, Pezzenti e Agnese di Cavallotti.282 «Quante commedie nuove allora! Quanti successi, cui è legato il nome di Virginia Marini! Quante cadute risparmiate, attenuate dalla sua abilità, dall’autorità, dalle simpatie, che essa godeva nel pubblico! Che lotta di ogni giorno e di ogni sera, con le difficoltà delle interpretazioni, con le pretensioni degli 280 EMANUEL Giovanni, Il pubblico dell’Arena del Sole, in COLOMBA 1999, pg. 198. 281 SCAGLIA 1929, pg. 11. 282 Cfr. COLOMBA 1999, pg. 152.
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autori, con i malumori della critica, e, soprattutto con le emule, con le rivali, disputanti alla infervorata, instancabile attrice la supremazia! Il pubblico si stipava nei teatri ove recitava Virginia Marini: essa ebbe ardenti, numerosi partigiani che la inalzavano al cielo contro le sue emule: ci fu una vera battaglia: e una battaglia di fiori»283. Virginia trascorre sei trionfali anni come primattrice di Morelli, del quale i coniugi Marini diventano soci nel secondo triennio, il ‘74/’76, e con cui rifanno tournée in Spagna e Portogallo dove Virginia è nuovamente festeggiatissima; certo né Virginia né il coniuge-agente hanno il coraggio artistico e la tempra organizzativa per tentare imprese che in quel momento alcune grandi attrici stanno attuando, facendo delle tournées internazionali una componente fondamentale e continuativa della professione, oltre che, nei casi più riusciti, una vera macchina da soldi. Nel 1873 Giacinta Pezzana lavora per mesi nell’America del Sud; nel 1874 Adelaide Ristori inizia il suo incredibile “giro del mondo”284. Nell’agosto del 1873 si attua il cambiamento capocomicale della Lombarda. Al teatro Aliprandi di Modena è annunciata la “Drammatica Compagnia G.B. Marini e F. Ciotti diretta da Alamanno Morelli”: il nostro Marini si è dunque fatto socio; Virginia è primattrice unica; il Morelli, che conserva la direzione artistica, è primattore ma affiancato in questo ruolo da un nome prestigioso, Francesco Ciotti; il brillante è Guglielmo Privato285; appare Enrico Reinach, un attore che lavorerà molto con i Marini. Il repertorio si conferma. Quando si trova a far beneficiate in “provincia”, Virginia predilige La signora dalle camelie e ciò avviene anche a Modena; in due settimane di recite vengono presentati: La moglie di Torelli; Il ridicolo e La Satira e Parini di Ferrari, Triste passato di Dominici, Il pericolo di Muratori, La principessa Giorgio di Dumas fils, La strada più corta di Martini, Le baruffe in famiglia di Gallina, L’onore della famiglia di Devigne e Battu, La dote di Cecilia di Gabriel e Auger, Fuochi di paglia di Castelnuovo, Le false confidenze di Marivaux. Durante la permanenza con Morelli, Virginia costruisce anche il rapporto con l’amata Trieste. Recita nel teatro Comunale nel 1870, 1872, e ancora nel 1874, quando fa serata d’onore, il 27 aprile, presentando La principessa Giorgio, dramma in tre atti di Dumas fils, con Francesco Ciotti nei panni dei Principi de Birac. Le donne presenti in sala pubblicano 283 JARRO 1893, pgg. 58/59. 284 Cfr. BUONACCORSI Eugenio, Adelaide Ristori in America (1866-1867). Manipolazione dell’opi-
nione pubblica e industria teatrale in una tournée dell’Ottocento, in BUONACCORSI 2001, pgg. 307/354. 285 Su Privato si veda CAUDA 1920, pgg. 78/82.
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un’epigrafe in omaggio a Virginia firmandosi simpaticamente “molte signore ammiratrici”: “Virginia Marini / Che per fatidiche ispirazioni / Del genio materno / La carità la gioja il dolore / Ne interpreta e commenta / Con eloquenza irresistibile / Di sorriso e di pianto di gesto e di accento / Sì vera spontanea commovente / Che la donna la madre l’artista / Triade divina / Con potentissimo fascino / In sé congiunge / Le frequentatrici del Teatro Comunale / Da tanto portento d’arte e d’affetti / Entusiastate [sic] / Dalla missione di donna e d’artista / Sublime benefica rivelatrice / E delle italiche scene / Onore vanto gloria / Plaudenti proclamano”286. Il pubblico trova Virginia irresistibile, spesso le chiede il bis anche di una sola battuta per riascoltare le intonazioni della sua voce miracolosa. Sul sodalizio con Morelli c’è un aneddoto di vita privata che riguarda la cittadina di Scandicci dove Morelli va in vacanza. Con lui i coniugi Marini si legano amichevolmente e su suo suggerimento si decidono ad acquistare in Scandicci «la villetta -allora si chiamava “La Palazzina”- posta all’angolo di piazza Matteotti e via Ferruccio Mangani. [Con Morelli inoltre] Virginia Marini fu tra i promotori della “Società Filodrammatica Alessandro Manzoni” di Scandicci»287. La villetta i Marini dovettero vendersela per i dissesti capocomicali, ma la simpatia di Virginia per gli artisti amatoriali non si spense mai. «I filodrammatici sono, del teatro di prosa, la guardia nazionale, come i comici ne sono l’esercito. Non accennano punto a sparire: anzi, pullulano gagliardamente per ogni dove»288. Nella stagione di carnevale 1876 la compagnia tiene una lunga stagione al teatro Valle di Roma, dove registra incassi eccezionali. Per la trentaquattrenne Virginia è una ennesima incoronazione secondo lo stile dell’epoca. «Appena la signora Marini si presentò fu accolta con un lunghissimo ed entusiastico applauso, che si rinnovò ad ogni scena. I fiori poi furono in tanta quantità, che per un instante il palcoscenico parve mutato in un giardino. La signora Marini s’ebbe pure alcuni doni di gran valore, fra i quali citeremo per primo quello inviatole da S.A.R. la principessa Margherita. Per iniziativa di molti frequentatori del teatro Valle, i professori del concerto municipale si recarono a fare una serenata sotto le finestre della casa dove abita la signora Marini, la folla che era nella via volle salutare la valente attrice. Si è detto con ragione di lei che cammina a passi di gigante sulle orme della Risto286 In MTTS. 287 “L’Informatore” di Scandicci, n°12, dicembre 1969. 288 COSTETTI 1879, pg.257.
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ri, e, ad onor del vero, ben poche attrici conoscono al pari della Marini il segreto di commuovere il pubblico»289. Il 3 gennaio Virginia è la protagonista della prima assoluta di Messalina di Pietro Cossa; la sua interpretazione contribuisce alla decisione di conferire al poeta la Commenda. Camillo Antona-Traversi racconta che all’origine di questo spettacolo ci fu un’amichevole scommessa fra Virginia e il Cossa; il quale, segretamente innamorato di lei, consapevole di non avere speranze con una tal donna “onestissima, di spirito eletto, superiore”, le faceva comunque una timida corte. Virginia, inviolabile certo ma pur sempre femmina, non era aliena dall’approfittarsene. Una sera, durante una cena fra amici nell’osteria “Felicetta” davanti al teatro Valle, vinta la suddetta scommessa, pretese da Cossa di essere compensata con un dramma scritto apposta per lei. In capo a sei mesi il poeta pose ai suoi piedi Messalina.290 All’indomani della prima l’autorevole critico D’Arcais scrive sulle colonne de “L’opinione” di Roma che: «la signora Marini è stata anche nella Messalina quell’attrice valentissima che in Italia non ha rivali. E si noti che questa è una delle parti più difficili ch’io mi conosca, nella quale l’attrice non può ricorrere ai soliti mezzucci che strappano l’applauso. La signora Marini ha tratto più volte all’entusiasmo il pubblico, con un gesto, con un atteggiamento, con una inflessione di voce che rivelavano uno studio diligentissimo del carattere e del personaggio»291. Edoardo Boutet ricorda che «l’avvenimento prese tali proporzioni, che si dimenticò perfino il grande movimento parlamentare che pochi giorni dopo portava al potere la Sinistra»; è infatti alle porte il governo Depretis e la tattica politica detta “trasformismo”. «Egregi artisti, tra i quali il povero Scifoni che diresse l’abbigliamento magnifico di esattezza della Marini, avevano disegnato i costumi e dipinto lo scenario. Gli attori, oltre il vestiario, avevano commesso appositamente gli “accessori”, e così la Marini faceva riprodurre tutti gli ornamenti delle dame romane, e il Ciotti quelli del gladiatore sugli originali esistenti nel museo di Napoli. Il successo fu trionfale». Boutet ci restituisce così una visione del modo di mettere in scena dell’epoca, e più avanti ci conferma un’altra regola (questa valida in qualsiasi epoca teatrale): l’autore “vivente” segue le prove e le recite della compagnia che sta rappresentando un suo testo, e ne ricava continui aggiustamenti; ovvero, non è soltanto la vittima delle manipolazioni attoriche, ma è egli 289 SCAGLIA 1929, pg. 13 e pg. 13n. 290 ANTONA-TRAVERSI 1929, pgg. 249/253. 291 SCAGLIA 1929, pg. 14
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stesso che si corregge soprattutto in rapporto alle reazioni del pubblico. «Un solo incidente aveva per un momento raffreddato l’entusiasmo del pubblico: la ricomparsa di “Bito, gladiatore”, al quinto atto, muto apportatore dell’ordine che uccideva Messalina. Alla seconda rappresentazione era quasi mutata di pianta la scena tra Messalina e Bito nel quarto atto, che finì colla morte di Bito, trovando una situazione la quale da quella seconda sera in poi ebbe costante il suffragio»292. Suscita entusiasmi, soprattutto con Dora di Sardou, nella platea del Manzoni di Milano, dove propone anche Messalina con un esito felice ma limitato dalla (citata) contemporanea presenza in città della Pezzana e della Tessero con lo stesso titolo. «Viene, quasi, impegnata una gara, e il pubblico giudica “somma” la Pezzana; la Tessero “più insinuante” per l’espressione di carezza voluttuosa; la Marini “eccelsa” per la dignità imperatoria e per il fascino della voce». Il critico che riferisce questa cronaca, chiosa con quella valutazione generale di Virginia che sappiamo trovare concordi molte altre fonti. «Io ho coscienza di affermare che il carattere della madre di Nerone non fu mai il più adattabile al temperamento della Marini. Virginia Marini, giovanetta e donna, fu sempre una natura eminentemente equilibrata, sana moralmente e fisicamente; una dama vera per istinto, per temperamento, oltre che per la severa educazione»293. Virginia ottiene invece un’apoteosi nell’aprile 1876, quando porta Messalina, come sua beneficiata, al teatro Gerbino di Torino. «Che serata monstre! Che successo! Che applausi e che fiori! La signora Marini ha toccato i massimi onori dei grandi artisti. Abbiamo contato da 20 a 25 chiamate entusiastiche all’autore, altrettante ai principali attori»294. Si organizza una celebrazione di Virginia e di Cossa, che ha anche una ricaduta sulla natia Alessandria [cfr. I.2.]. Da questo momento Torino “adotta” Virginia. Ella aggiunge «alla Messalina del Cossa l’incanto della sua voce armoniosa, della sua bella persona, del suo gesto ispirato»295. Si vuole onorare anche Luigi Bellotti-Bon, che dichiara di aver “scoperto” il Cossa nel 1869 e di aver messo in scena tutte le sue opere, e si aggiunge una iniziativa editoriale: «La Messalina venne già data alle stampe, in elegantissima edizione a caratteri elezeviriani, dal libraio Casanova successore Beuf, via Accademia delle Scienze»296. Il 1876 è anno decisamente ricco di avvenimenti. Per aver recitato la 292 BOUTET 1900-1901, fasc. n°10, 25.06.1900, pgg.149/150. 293 SCAGLIA 1929, pg.54. 294 “Gazzetta piemontese”, 09.04.1876 [ALST]. 295 “Gazzetta piemontese”, 14.04.1876 [ALST]. 296 “Gazzetta piemontese”, 10.04.1876 [ALST].
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parte di Postumia in Roma vinta del Parodi, Virginia riceve le lodi di Sarah Bernhardt, interprete acclamatissima dello stesso personaggio sulle scene francesi; è il primo contatto, anche se solo epistolare, fra le due dive. Sarah le scrive: “Au moment où je prends la plume pour vous rèpondre, l’ècho m’apporte la murmure triomphant de votre succès. J’en suis tout heureuse e je vous tends la main par-dessus les monts ». Sempre nel 1876 i Marini lasciano l’amico Morelli e passano con Luigi Bellotti-Bon, considerato il più geniale e audace impresario del momento. Figlio dell’attrice Luigia Ristori Bellotti e figlioccio del secondo marito di lei, quel Francesco Augusto Bon protagonista (attore, drammaturgo, didatta) del teatro primo-ottocentesco, Luigi Bellotti-Bon è un esempio perfetto di “figlio d’arte”. Sommo attore brillante, allievo di Gustavo Modena, presto volle cimentarsi come capocomico e direttore. In questo ruolo dimostrò notevoli qualità, ma decise di tentare una sorta di monopolio mettendo sul mercato, contemporaneamente, tre compagnie a suo nome. L’esperimento fallì e lo condusse al suicidio nel gennaio del 1883. Al suo ingresso in compagnia, Virginia sostituisce la Tessero come primattrice, Enrico Salvadori è il primattore, Domenico Bassi297 il brillante. Con Salvadori interpreta un memorabile Trionfo d’amore di Giacosa. Di Sardou affronta Ferreol, Patria e Dora (con quest’ultima ottiene un grandissimo successo al Manzoni di Milano); trasforma in una “vera creazione” la parte di Laforgia ne Il ridicolo di Paolo Ferrari; conquista i torinesi con La straniera di Dumas fils; al solito piacciono poco le novità come Gli scandali di ieri di Berriere o Gli speroni d’oro di Leopoldo Marenco (che presenta a Firenze), tuttavia lei è ugualmente giudicata “inarrivabile”. La compagnia viene chiamata, nel settembre 1877 a reinaugurare, dopo un’accurata ristrutturazione, il Gerbino di Torino. Virginia è la prima interprete di Rosalia nelle Due Dame di Ferrari, testo che dopo Torino porta a Firenze, dove Yorick scrive che quella di Virginia «è l’arte che si rivela nella sobrietà dei mezzi, nella chiarezza della dizione, nella semplicità delle forme. Mai uno sforzo, mai un artifizio, mai un gesto, né un grido, né un giuoco di fisionomia, che non renda tutto il pensiero, che non contenga tutta la passione, che non esprima tutto il concetto, che non sia il segno visibile, il suono avvertibile coll’orecchio, 297 Enrico Salvadori (1848-1886), apprezzato primo attor giovine, famoso Fernando della Par-
tita a scacchi, morì per paralisi progressiva in manicomio. Domenico Bassi, comico caratterista, si ritira presto dalle scene per fondare a Torino una scuola di recitazione intitolata a S.A.R. Maria Laetitia, che fu considerata come la scuola del Rasi a Firenze e quella di Santa Cecilia a Roma.
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di un’idea, d’un giudizio, d’un sentimento, d’una passione, d’un moto arcano e complesso dell’anima che prorompe e si agita e si affanna nelle peripezie della vita»298. Accanto a Virginia ci sono attori che, periodicamente, reciteranno con lei per tutta la carriera. C’è Francesco Ciotti (nato nel 1835), primattore dai tratti aristocratici, dalla voce armoniosa, sempre elegantissimo, protagonista con Virginia di un memorabile Trionfo d’amore di Giacosa. C’è Enrico Reinach (nato nel 1851), considerato un “eterno primo attor giovine”, amatissimo dalle signore, un perfetto Armando per La signora dalle camelie di Virginia; sposa Edwige Guglielmetti299 che proprio Virginia aveva scoperto nella scuola del Bassi. C’è Cesare Vitaliani (1824-1893), “pregiato” primattore e soprattutto direttore artistico; in quest’ultimo ruolo sarà di grande utilità ai coniugi Marini. C’è il brillante Francesco Garzes (1848-1895), di ottime qualità ma troppo ambizioso e sfortunato, il quale, vent’anni dopo, avrà una triste influenza nell’abbandono delle scene da parte di Virginia. Il “peso” artistico-commerciale dei coniugi Marini sta sicuramente aumentando perché, oltre ovviamente a Giovanni Battista, in compagnia vengono scritturate la sorella di lei Anna (in locandina: Annetta Weiss) e la figlia di primo letto di lui Adelaide Sciarra, il cui debutto nella professione i coniugi, anni prima, erano riusciti ad imporre al Salvini. Bellotti-Bon apre il Gerbino con Il ridicolo di Ferrari; fin dalla entrata in scena (si chiamava : “applauso di sortita”) Virginia è acclamata: «sempre affascinante col suo sguardo, col suo gesto, col suo modo di porgere elegante, gentile, artistico»300. La compagnia inizia la stagione 1878 a Firenze; Virginia se ne stacca temporaneamente per recitare a Roma, con Tommaso Salvini, la “Zaira” in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Voltaire. Avviando un altro triennio di sodalizio con Bellotti-Bon, il Marini ne diventa socio, assumendo le funzioni di capocomico. Sembra che, in attesa di decisioni, la stessa Virginia sia incaricata della direzione artistica e in questa veste gestisca la stagione marzo/aprile 1879 al Sannazaro di Napoli con esiti non entusiasmanti. In questo teatro la compagnia debutta con Luisa, una novità del Giacosa. «Caduto a Firenze, applauditissimo a Milano, questo nuovo lavoro del chiaro scrittore ebbe la prima sera, fra noi, un successo di stima, e la seconda un vero insuccesso, tanto da impedirne ulteriori rappresentazioni. neanche la 298 YORICK 1922, pg. 323. 299 Sulla Guglielmetti si veda CAUDA 1925, pgg. 152/158. 300 “Gazzetta piemontese”, 02.09.1877 [ALST].
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bellezza dei versi martelliani valse ad impedire il naufragio, dovuto alla povertà dell’intreccio drammatico, alla poca verosimiglianza dei caratteri»301. La situazione non migliora con altri titoli: Un paggio, bozzetto medievale di Carlo Pignone del Carretto, Niccolò Machiavelli di Emilio Marenco, Mastr’Antonio di Leopoldo Marenco; ottiene invece successo Lantenac, un dramma di Stefano Interdonato, dove Virginia è affiancata da Giovanni Ceresa (m.1884), un primattore di alto livello, che si dovrà ritirare prematuramente dalle scene per crudele malattia. Nell’agosto 1879, durante la consueta trasferta estiva a Livorno, si compie il necessario riassetto della compagnia. La direzione artistica viene affidata al citato cav. Cesare Vitaliani, attore di grande esperienza. Si debutta il 3 settembre nel torinese Gerbino, luogo amico; si registrano “affiatamento ammirevole”, “precisione coscienziosa” e “soddisfazione della cassetta eziandio”. Virginia cala gli assi: Messalina e La signora dalle camelie; al suo primo apparire in palcoscenico è già “una tempesta di battimani”. Per la serata della Dame «non era un accorrere, era addirittura un pigliar d’assalto tutti gli anditi del teatro; fin sulle scale ci furono spettatori tutta la sera»; Virginia «ebbe: una magnifica guantiera lavorata al cesello; un ricco medaglione, canestri di fiori, ghirlande, ecc»302; bravissimo anche il Ceresa nei panni di Armando. Ma non basta; Vitaliani spara una raffica di Sardou; il pubblico esulta, la critica un po’ meno: «Al Gerbino recita la Compagnia Bellotti-Bon e Marini, una delle cinque o sei Compagnie che portano il nome di primarie, e che lo sono di fatto. Questa non la si può chiamare perfetta: per quanto potei giudicare dalle poche recite alle quali assistetti, mi sembra che sia mancante nelle parti secondarie, difetto pur troppo comune oggidì fra noi a tutte le Compagnie drammatiche. In compenso le parti principali sono affidate ad artisti veri e coscienziosi. Fra le signore sta in prima fila la Virginia Marini, al cui nome in arte sono oramai superflue le lodi, poi vengono le signore Beseghi e Zoppetti, e la signorina Belli-Blanes; fra gli uomini il Ceresa, il Cola, lo Zoppetti, il Pietrotti. L’allestimento scenico è più che dignitoso ed accurato; è elegante; l’affiatamento buono, il che non toglie che talvolta prima di quella degli attori si senta la voce del suggeritore, male anche questo che si è fatto pressoché generale nelle nostre Compagnie. Una cosa contro la quale sentii muovere lagnanze, e non a torto, si è l’uniformità del repertorio. Nelle prime quattro sere della stagione furono date quattro commedie francesi, fra le quali tre 301 “Gazzetta piemontese”, 15.03.1879 [ALST]. 302 “Gazzetta piemontese”, 16.10.1879 [ALST].
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del Sardou: la Fernanda, la Dora ed il Ferreol. È troppo davvero»303. Forse per placare i distinguo giornalistici, la compagnia presenta un dramma in versi del prof. Saraceni, Amore e patria, ambientato nel XIV secolo; l’obiettivo di vellicare l’orgoglio sabaudo dei torinesi viene pienamente raggiunto: le gazzette inneggiano all’arte piemontese “fondata in pieno sul cuore e sui sentimenti purissimi di patria, di famiglia e di dovere, informati al bello nel vero e nell’onesto”! Nel 1879, con la compagnia Bellotti-Bon e Marini e con Messalina, Virginia compie un trionfale ritorno da primadonna in quel Fiorentini di Napoli in cui aveva debuttato giovanissima e poi salito i gradini da “servetta” a “prima amorosa”. Il 1880 è ancora una volta per Virginia un anno intensissimo. Si apre con un evento particolare; il 13 marzo interpreta a Verona, probabilmente al Nuovo, Medea di Franz Grillparzer, tradotta appositamente per lei dall’insigne vegliardo Andrei Maffei. Grillparzer (1791-1872), viennese, l’aveva scritta come ultimo atto di una Trilogia dedicata agli Argonauti. «Se la Trilogia viene rappresentata di rado, la Medea è invece di repertorio e quasi tutte le grandi attrici hanno voluto cimentarsi in questa parte»304. Maffei aveva tradotto l’opera nel 1879 e nello stesso anno, anticipando le preoccupazioni morali di Virginia, le scrive assicurandole che Grillparzer «redense quasi l’antica infanticida dalla nota di snaturata e solo indotta al misfatto dall’enorme ingratitudine di Giasone» e quindi di non vedere «chi altri potrebbe in Italia, ed anche fuori, interpretarla al pari di Lei in quel contrasto di tanti affetti ora teneri, ora violenti, ora terribili, che fanno [di questa] Medea una creazione nuova e ben diversa dal convenzionale»305. I cronisti sono freddini sul testo e puntualmente attribuiscono all’Attrice il “miracolo” di aver reso immortali versi che sul piano letterario non lo sono proprio306. Il “Corriere della sera” del 1° marzo 1881 scrive: «Il pubblico iersera tenne un contegno mirabile, degno di lui. Sopportò con santa rassegnazione il dramma del Grillparzer, ma non diede alcun segno di malumore per rispetto dell’eminente attrice Virginia Marini»307. Il sommo Yorick, manco a dirlo, non è d’accordo e «dopo aver rilevato che il Maffei aveva magistralmente adattato la tragedia alla scena, rendendola più ricca d’azione e d’emozione», aggiunge: «Virginia Marini ha fatto il resto, indovinando il lato umano ed eterno di quel personaggio femminile 303 “Gazzetta piemontese”, 11.09.1879 [ALST]. 304 GRILLPARZER Franz, Teatro, Torino: UTET, 1983, pg.X. 305 SCAGLIA 1929, pg. 21. 306 “Gazzetta piemontese”, 22.03.1880 [ALST]. 307 CIOTTI 1978, pg.150.
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così tragico e così drammatico ad un tempo, così leggendario e così vero, così tradizionale e così moderno. Con lei, e per lei, Medea ha cessato di essere un mito ed è diventata una donna con tutte le passioni, con tutte le violenze, con tutte le delicatezze, con tutte le stravaganze fisiologiche d’una donna. Feroce, coraggiosa, innamorata e terribile, sempre eccessiva ed ardita, una e proteiforme, Virginia Marini ha reso mirabilmente tutte le sfumature, tutte le mezze tinte di quella grande figura illuminata da una luce tanto vivace e sinistra»308. Il giudizio autorevole di Enrico Panzacchi, sulle colonne del bolognese “La Patria” nel 1880, è ancora una volta favorevole: «La signora Marini è attrice verista nel senso più bello e potente della parola: nella sua recitazione ci alletta e c’incanta con una costante e ingenita spontaneità»309. I coniugi Marini decidono di mettere insieme una compagnia e di partire per una tournée in Spagna di alcuni mesi. Al Teatro della Commedia Italiana di Madrid, Virginia “è fatta segno delle più cordiali dimostrazioni”; a Saragozza le regalano una Beata Vergine d’argento e oro. È ricevuta a Corte, e il re Alfonso in persona le racconta che «persino in Senato parlasi de’ suoi successi. L’altro giorno un senatore ha fatto un discorso perorando la causa di una provincia colpita dalla sventura. Egli fu così felice oratore che venne applaudito freneticamente. Allora il senatore si alzò nuovamente e disse: “Signori, io sono veramente commosso di questa dimostrazione; ho ottenuto il successo che ottiene tutte le sere la signora Marini al teatro della Commedia”»310. Anche gli osservatori spagnoli hanno più elogi per la recitazione degli italiani che per il repertorio da loro presentato, puntualmente a maggioranza francese. Un giornale di Madrid scrive: «Presentemente tutte le persone di buon gusto corrono al teatro della commedia per ammirare la perfezione, la cura dei particolari e l’amore con cui la compagnia della Virginia Marini presenta il suo svariato e difficile repertorio. Questa grande artista si fa ammirare per la flessibilità del suo talento, la distinzione delle sue maniere e lo studio coscienzioso della natura, ch’ella abbellisce artisticamente senza uscire dai limiti della verosimiglianza tecnica. È difficile il dire in qual genere primeggi. È un’artista comica, diciamo noi, quando desta il riso degli spettatori nelle commedie di Goldoni; pare un’attrice del teatro francese, esclamiamo, allorché in308 SCAGLIA 1929, pg. 21. 309 SCAGLIA 1929, pg. 26. Si veda anche: SCAGLIA Riccardo, Virginia Marini e Andrea Maf-
fei, in “La fiera letteraria”, 1928, n°32, pg.4 [BNNA]. Si veda anche PANZACCHI 1883.
310 “Gazzetta piemontese”, 11.05.1880 [ALST].
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terpreta i drammi di Augier, Dumas o Sardou. Gli è che la sua natura privilegiata si presta ugualmente bene al drammatico ed al tragico non meno che al comico»311. «La signora Marini suscita un vero entusiasmo, ma le produzioni passano freddamente e la critica dei giornali con fiera costanza le ammazza tutte. Né Ferrari, né Cossa, né Augier, né Dumas, né Sardou non trovano grazia, e il giornalismo madrileno prova regolarmente ad ogni recita di lavori di questi autori, ch’e’ non sanno quel che si fanno. Un lavoro nostro però piacque assai al pubblico che lo applaudì con molto calore: è Il sorriso di Enrico Montecorboli»312. In una lettera al Montecorboli da Trieste il 27 maggio 1881, Virginia conferma questo episodio; aveva proposto Il sorriso in quella città, «ma la direzione non volle farlo; del resto è una commedia che noi facciamo dappertutto, e con successo sempre; l’abbiamo fatta anche in Ispagna». Di Montecorboli Virginia era stata la prima interprete di A tempo, un atto unico con cui debutta nel 1875, quando è con Alamanno Morelli. Nella prefazione dell’edizione a stampa del suo testo, l’autore definisce la Marini “eccezionale ed insuperabile”. Di lui Virginia mette in scena anche La scuola del matrimonio e Riabilitazione; fra loro quindi intercorre un certo carteggio, da cui emerge in modo interessante il quotidiano di Virginia: le ansie dei debutti, le chiacchere del “dietro le quinte”, la fatica delle prove. «Gentile Signor Enrico. Non cerco scuse inutili; non ho risposto subito dopo di aver ricevuto l’A tempo stampato perché non ho avuto mezz’ora libera, sono indietro di una dozzina di lettere per lo meno. Si figuri che la Compagnia è quasi tutta cambiata [siamo nel 1877, i Marini sono appena diventati soci di Bellotti-Bon] e stiamo alle prove 6 e alle volte 7 ore al giorno; insomma le do la mia parola d’onore che qualche volta non c’è il tempo per desinare. P.S. Io dovrei ricopiare queste zampe di mosca, ma non ho più un minuto disponibile, l’ho scritta alla prova in furia in furia ed ora sento che tocca a me. Arrivederla presto». In una lettera del 1883, mentre sta iniziando l’avventura della Compagnia Nazionale diretta da Paolo Ferrari, spiega a Montecorboli come sia difficile raggiungere l’”affiatamento”, termine usato in modo tecnico, quasi gergale, a dimostrazione che la compagnia “di complesso”, anche in tempi di potere grandattorico, è un’idea qualitativa, connotante313. Tuttavia la citazione è altresì una conferma 311 “Gazzetta piemontese”, 20.05.1880 [ALST]. 312 “Gazzetta piemontese”, 23.06.1880 [ALST]. 313 Cfr. GIOIA Anita, L’archivio privato di Enrico Montecorboli. Epistolario inedito, in AAVV
2001, pgg. 201/240.
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che l’operazione della Nazionale, pur ricca di premesse interessanti, fu malriuscita: un’occasione persa, schiacciata da conflitti mercantili ed economici, più forti degli obiettivi artistici. Il 1880, per la compagnia Bellotti-Bon e Marini, si chiude alla grande a Bologna, al teatro Brunetti (oggi Duse), dove «la buona società rinnovò con slancio il rito dell’abbonamento tanto che, per le recite della compagnia Bellotti-Bon, l’orchestra suonava in palcoscenico, avendo l’impresa approfittato del posto destinato ai suonatori per collocarvi sedie numerate per il pubblico. La bravura della primattrice, Virginia Marini, è indiscutibile»314; tanto indiscutibile che per la sua serata d’onore del 21 dicembre 1880 le viene consegnato qualcosa di più che le consuete odi encomiastiche. La stampa cittadina le tributa un “Omaggio” attraverso un prezioso opuscolo tirato in 150 esemplari, che contiene numerosi componimenti poetici insieme ad una importante introduzione che un ignoto autore firma con il foscoliano pseudonimo Didimo Chierico. Nella pagina iniziale è riprodotta, manoscritta, una frase di Virginia: “Nell’arte come nella vita il cuore intuisce assai prima dell’intelletto. Bisogna obbedire sempre alle sue ispirazioni”. Su questa base l’autore traccia un profilo di Virginia attrice e donna. «Bisogna vedere Virginia Marini sotto le vesti di Margherita Gauthier, per convincersi che non si può rendere con tanta perfezione un personaggio senza che l’attore gli abbia prestato la propria anima e la propria mente. Soltanto allora può trasfondere nel pubblico i sentimenti che prova, soltanto allora nasce spontaneo l’effetto, quell’effetto artistico, grande, che non ha nulla di comune e di convenzionale, che è il carattere ed il fondamento dell’arte. Fuori del palcoscenico si trova in Virginia Marini la signora distinta, cortese, affabile, buona, senza quel sussiego che accompagna d’ordinario le celebrità. Essa è dotata di uno spirito che non si comprende facilmente da chi non ebbe la fortuna di avvicinarla; è parlatrice piacevole ed eloquente. A tutti questi pregi quello di una eleganza fine, di un buon gusto squisito»315. Nel marzo 1881 la compagnia fa l’ennesima stagione al teatro Gerbino di Torino. Propone I napoletani del 1799 e Cecilia di Pietro Cossa. In Facciamo divorzio di Sardou c’è la novità, molto gradita dal pubblico, di Virginia nella parte della “amabile civetta” Cipriana des Prunelles. Ovazioni anche per il primattore Ceresa che nella sua beneficiata interpreta Il 314 CALORE Marina, Il teatro del Corso 1805-1944. 150 anni di vita teatrale bolognese tra aneddoti
e documenti, Bologna: Editrice Lo Scarabeo, 1992, pg.128 [ARCH].
315 In: Omaggio a Virginia Marini, Bologna: Società Tipografica già Compositori, 1880 [BIDD].
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romanzo di un giovane povero di Feuillet. Cade, come da copione, la novità Valentina da Milano dramma storico di B. Prado; ma subito “lietissime accoglienze” sono riservate a Il dispetto amoroso di Molière tradotto da Riccardo Castelvecchio; lo si recita tutto “a sipario alzato”, con stacchetti musicali tra un atto e l’altro, per renderlo più veloce; il pubblico apprezza (evidentemente la visione dei cambi di scena non era un problema per gli spettatori). Esito contrastato per La principessa di Bagdad di Dumas fils; sullo stesso testo cadono anche la Tessero e la Pezzana, mentre la giovane Duse vi trionfa con la sua già marcata originalità316. Intanto a Roma, in un momento difficile per l’attività lirica, un gruppo di “aristocratici” sta pensando di costituire una società per fondare «una compagnia drammatica stabile, che dovrebbe recitare al Valle almeno sei mesi l’anno. La società si proporrebbe di incoraggiare l’arte italiana, dando al teatro un carattere quasi esclusivamente nazionale, e chiamerebbe a far parte della compagnia due dei nomi più cari all’arte italiana: Luigi Bellotti-Bon e Virginia Marini»317. Sembra altresì che la direzione artistica possa essere assunta, per la prima volta, da un autore. Nell’aprile/maggio 1881 la Drammatica Compagnia Luigi Bellotti-Bon e Marini, presenta una “stagione”al Teatro Comunale di Trieste, della quale il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” conserva gran parte delle locandine. Questa preziosa documentazione consente di ricostruire una permanenza-tipo di una compagnia primaria, di grande chiamata, in una città molto teatrale ma non metropolitana come l’allora “non italiana” Trieste. La compagnia è “diretta” da Vitaliani, e “condotta” da Giovanni Battista Marini, associato all’impresario Bellotti-Bon; la primattrice è Virginia, il primattore è Giovanni Ceresa, il brillante è Angelo Zoppetti (18381902)318; insomma la distribuzione dei “ruoli” è riaffermata. La formazione conta su una ventina di attori, che recitano tutte le sere (alternandosi nei riposi) per un periodo di sette settimane. Nelle locandine talvolta sono definiti “interlocutori”. Quotidianamente intrattengono il pubblico dalle 19,30 alle 23,30 con un’opera principale seguita da una farsa (o scherzo comico), talvolta proponendo invece due o addirittura tre commedie/drammi nella stessa serata. 316 ORECCHIA 2007, pg. 79. 317 “Gazzetta piemontese”, 02.07.1881 [ALST]. 318 «Angelo Zoppetti appartenne come brillante al periodo, non so dir bene se fortunato o
sciagurato, in cui i primi attori spremevan lagrime dagli occhi degli uditori, e i brillanti facevano smascellar dalle risa. L’andatura dello Zoppetti, il suo occhio, la sua dizione, tutto era comico», RASI 1897-1905, vol. III, pg.766
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Quest’ultima soluzione non stupisca troppo in merito alla durata, perché era scontato che i testi potessero subire tagli anche vistosi in funzione delle esigenze degli attori e della serata. Non era escluso replicare qualche spettacolo “a grande richiesta”. Una orchestrina allietava intervalli ed eventuali pause. Anche fermandosi soltanto sulle opere principali, e considerando le serate che non sono documentate, la successione dei titoli che la compagnia porta ai triestini è perfettamente significativa di una consuetudine teatrale che ha caratterizzato un’epoca irripetibile. 17 aprile 1881: Fernanda, commedia in quattro atti di V. Sardou; 19 aprile: Demi-Monde, commedia in cinque atti di A. Dumas; 20 aprile: Cecilia, dramma in cinque atti in versi di P. Cossa; 23 aprile: I vecchi celibi, commedia in cinque atti di V. Sardou; 25 aprile: Il positivo, commedia in tre atti di J. Estebanez; 26 aprile: Giorgio Nano marchese di Ceva, commedia nuovissima in un prologo e tre atti in versi di L. Marenco; 29 aprile: La principessa di Bagdad, commedia in tre atti di A. Dumas fils; 30 aprile: Una catena, commedia in cinque atti di E. Scribe; 1° maggio: La signora dalle camelie, dramma in cinque atti di A. Dumas fils; 2 maggio: Dora o Le spie, commedia in cinque atti di V. Sardou; 3 maggio: Luisa, dramma nuovissimo in tre atti in versi di G. Giacosa; 4 maggio: Dispetto amoroso, commedia in cinque atti di Moliere, riduzione di Riccardo Castelvecchio; 5 maggio: Lupo e cane da guardia, proverbio in un atto di F. De Renzis, e Collera cieca, commedia nuovissima in due atti di G. Rovetta, e I due gemelli veneziani, commedia in due atti di Carlo Goldoni; 10 maggio: È mio fratello, commedia nuovissima in tre atti di G. Salvestri; 11 maggio: Il fratello d’armi, dramma in quattro atti di G. Giacosa; 13 maggio: Valentina di Milano, dramma storico nuovissimo in cinque atti in versi di Benedetto Prado; 14 maggio: Una bolla di sapone, commedia in tre atti di Vittorio Bersezio; 15 maggio: Il figlio di Cloralia, commedia in quattro atti di A. Delpit; 16 maggio: Le false confidenze, commedia in tre atti di Marivaux; 17 maggio: Scellerata!, un atto nuovissimo di Gerolamo Rovetta, e Dispetto amoroso [v. più sopra]; 18 maggio: Lei, Voi e Tu, dialogo nuovo in un atto di A. G. Cagna, e Quella signora che aspetta, un atto nuovissimo di Meilach e Halevy, traduzione di Yorick, recitato dalla prima attrice Virginia Marini, e I nostri bimbi, commedia in quattro atti di H. J. Byron [Virginia non vi recita]; 19 maggio: serata d’onore della Prima Attrice Virginia Marini con La principessa Giorgio, commedia in tre atti di A. Dumas fils (si noti che in altre locandine la stessa opera viene definita “dramma”);
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20 maggio: Guai dell’assenza, commedia nuovissima in quattro atti di L. Marenco; 21 maggio: Dita di fata, commedia in cinque atti di Scribe e Legouvé [Virginia non vi recita]; 22 maggio: L’onore della famiglia, dramma in cinque atti di Battu e Desvignes; 23 maggio: La scuola del matrimonio, commedia nuovissima in quattro atti di Giuseppe Giacosa (l’Autore assisterà alla Rappresentazione); 24 maggio: La straniera, commedia in cinque atti di Dumas fils. Il 31 agosto 1881 muore a Livorno Pietro Cossa. Virginia, che recitava in quella città come ogni estate, era accorsa al suo capezzale. Si decide di trasferire in treno la salma a Roma. Nel corteo per Livorno Virginia tiene un cordone del carro; i coniugi Marini si offrono di accompagnare il feretro per tutto il viaggio. A Roma le onoranze, ufficiali e popolari, sono eccezionali; il massone Cossa non poteva che richiamare parlamentari, ufficiali, illustri borghesi; il poeta Cossa evidentemente aveva un suo popolo di ammiratori. Il corteo che lo accompagna al cimitero è imponente. Nota un giornalista: «A Campo Verano ha parlato l’avvocato Petroni a nome della Massoneria. Mentre la sua voce indebolita dagli anni si perdeva in un tremolio doloroso, l’occhio mi è andato sopra una nobile figura di donna, tutta a nero, con le mani giunte insieme in un gesto desolato, lo sguardo perduto nel vuoto: Virginia Marini. No, il palcoscenico non inaridisce il cuore!»319. Gli eredi del Cossa decidono di far rappresentare al teatro Valle i primi due atti e alcuni brani del terzo di Silla, ultima creazione del poeta. «Gli ultimi versi del manoscritto furono vergati da mano amica sotto la dettatura del poeta morente. Fu Virginia Marini che, legata al Cossa da profonda devozione, al capezzale di lui già aggravatissimo -in una stanza dell’albergo del “Giappone” a Livorno- raccolse dalla sua bocca i versi della parlata di Valeria, sui quali rimase interrotto il Silla»320. Nel gennaio 1882 lo spettacolo viene fissato al teatro Valle di Roma e l’allestimento è naturalmente affidato ai coniugi Marini, che fin dal letto di morte si erano adoperati per gestire la buonanima e che pensano bene di aumentare «enormemente i prezzi della serata, per cui se il teatro era pieno, non era però pienissimo». Il fido Ceresa impersona Silla, Virginia la sannita Telesina. Al termine dello spettacolo il sipario si alza rivelando il busto di Cossa abbracciato da ghirlande di lauro e bacche d’oro. In mezzo alla compagnia schierata si avanza Virginia che «triste e funerea come una prefica, tenendo fra le mani tremanti un grande foglio su cui erano impressi alcuni sciolti 319 “Gazzetta piemontese”, 05.09.1881 [ALST]. 320 “La Stampa”, 30.11.1895 [ALST].
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scritti da Federigo Napoli per la memoria del povero amico, cominciò a leggere con voce commossa quei versi. Pareva che un alito di morte aleggiasse per il teatro: fu un momento di silenzio solenne, di silenzio sepolcrale, non interrotto che dai singhiozzi repressi di qualche signora». La sera dopo si replicò. «Passata la trepidazione, ribassati i prezzi di entrata, l’ultimo lavoro di Cossa [ebbe] dal pubblico di Roma tutto il meritato tributo di plausi e di compianti»321. Virginia e Giovanni Battista sono una piccola impresa, la loro unione è cementata dai reciproci interessi, che con il progredire della fama di Virginia sono diventati dei veri “affari”. Con Bellotti-Bon vanno avanti a denti stretti, non trascurano occasioni per fare impresa per conto loro. Il marito sogna la proprietà totale di una compagnia e il sogno lo condurrà al disastro economico. Virginia ha i piedi ben piantati per terra; i suoi modi angelici non devono far pensare ad una artista lontana dai problemi materiali, e nemmeno si può indulgere al pensiero di una “vittima” dell’avidità del coniuge. I due lavorano in coppia e Virginia, fuori dal palcoscenico, porta nell’azienda familiare il suo pizzico di mandrognità, come emerge con incontestabile evidenza dalle lettere del 1881 a Vittorio Bersezio, nelle quali si intuisce altresì la trincea commerciale dove i capocomici sono costretti a combattere per la migliore programmazione sia quotidiana sia pluriennale delle loro compagnie. Il “mercato dei copioni”322 è davvero una lotta senza quartiere. Il pubblico è schizzinoso nei confronti delle novità; ciò nonostante le opere inedite o comunque ancora fresche, sono la linfa dell’attività di compagnie che ogni sera devono presentare un testo diverso. Quando un dramma o una commedia vengono proposti per più repliche, è un episodio straordinario, memorabile. Gli autori italiani non riescono a sfornare la quantità di prodotto necessaria, e inoltre faticano a trovare il gradimento del pubblico. Ecco l’invasione dei francesi, che i provinciali sabaudi adorano, con la loro merce “bien faite”, sicura, fabbricata con la sapienza commerciale di uno sceneggiatore cinematografico di oggi. Vittorio Bersezio (1828-1900) è passato alla storia teatrale, anche internazionale, per aver scritto Le miserie ‘d mônsù Travet, ma possiede altri meriti. Il colpo della vita lo fa nel 1875 quando ottiene di sfruttare per l’Italia tutti gli scritti di Victorien Sardou, avendone altresì l’esclusiva per la tradu321 “Gazzetta piemontese”, 26.01.1882 [ALST]. 322 Definizione, che abbiamo già incontrato, di GEDDA 2003, un saggio fondamentale per la
comprensione del ruolo dell’Autore a metà Ottocento, soprattutto prima della fondazione della S.I.A. e quindi della conquista dell’identità economica dello scrittore.
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zione (che, in allora, spesso diventava libero adattamento). Inoltre è un commediografo di successo, e quindi esercita una riconosciuta autorità di indirizzo e di valutazione nei confronti dei suoi clienti. Insomma, mentre l’Autore sta uscendo dalla subalternità all’Attore, Bersezio si inserisce, per un paio di decenni, fra i “padroni” (quelli dietro le quinte) della scena italiana. Ecco cosa gli scrive Virginia. «Venezia, 30 novembre 1881. Gentilissimo Sig. Bersezio. Ho sentito il gran successo dell’Odette di Sardou e non vorrei accadesse a me e a Marini come pei lavori passati. L’anno venturo noi siamo sciolti dal Bellotti, la compagnia è nostra esclusivamente e vogliamo acquistare l’Odette. Il contratto sarebbe per un anno giacché noi nell’83 faremo parte della comp. Stabile Romana, e vorremmo il lavoro di Sardou nuovo per Trieste dove ci recheremo il novembre e dicembre, poi all’eventuale altra piazza nuova o vecchia sia nei teatri. Sono sicura che lei e mio marito si metteranno [sic] subito d’accordo, come spero che combinerete con Bellotti per questo resto dell’anno. Mille saluti affettuosi alla cara Signora, tanti baci ai bambini e una forte stretta di mano a Lei da me e Marini. Sua aff. amica Virginia Marini». «Venezia, 13 dicembre 1881. Gentile e caro amico. Non è la prima volta che Bellotti cerca di rovinare i nostri interessi per fare i suoi. Si figuri che anche in questo momento non ci ha mandato il Cantico dei Cantici [appena scritto da Felice Cavallotti] per tenerselo nuovo per questa Quaresima che egli farà appunto qui a Venezia. Marini voleva fargli una causa perché noi abbiamo un articolo di contratto che lo obbliga a consegnarci tutti i lavori italiani e stranieri che mette in scena perché debbono essere rappresentati nella stessa epoca da tutte due le compagnie; orbene egli ha già mancato più volte a questo suo obblgo e sempre per fare il comodo suo. Marini aspetta il contratto e spera di poterne fare molti altri il prossimo inverno, anzi egli lo [sic] prega a volergli tener nuovo per il carnevale venturo, l’altro lavoro che scriverà Sardou dopo l’Odette; come qualunque altra commedia di autore buono che potesse essere nelle sue mani, signor Vittorio. Come vede noi pensiamo per tempo agli affari, facciano altrettanto gli altri. Io le avevo fatto chiedere in compenso del contratto il Daniele Rochat [ennesima commedia di Sardou tradotta dallo stesso Bersezio] perché ora è sfruttato dappertutto, ma se lei non può accordarmelo io non voglio certo insistere ed abusare della sua cortesia. Gradisca, gentile amico, mille saluti da me e da mio marito e tanti complimenti per la Signora e un bacio pei bambini. Sua devotissima e aff.ma Virginia Marini»323. 323 GEDDA 2003, pgg. 355/356.
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La compagnia Bellotti-Bon e Marini parte per il Teatro Nuovo di Verona, dove si presenta con le collaudate Fernanda e Odette di Sardou ma non registra una grande affluenza. Virginia ottiene, il 17 marzo 1882, un’affermazione personale recitando al Filarmonico poesie di Francesco dell’Ongaro. Si decide di tornare nella fedele Spagna tra aprile e luglio; alla Commedia di Madrid Virginia trionfa con Fernanda di Sardou; al teatro del Buen Retiro di Barcellona, dopo una serata dedicata a La signora dalle camelie, viene “accompagnata a casa con fiaccole, musica e un imponente corteo di ammiratori”. Riccardo Scaglia ne fa un aneddoto che vuole celebrare la rara riservatezza di Virginia: «Esempio non certo frequente nel mondo dei comici, Virginia Marini era schiva d’ogni sorta di esibizionismo e mal sopportava attorno a sé il rumore della grancassa. Una sera a Barcellona, dopo una serata d’onore, la gloriosa attrice fu accompagnata all’albergo dal pubblico plaudente, che la chiamò poi con insistenza al balcone. Presa una sciarpa, la Marini ne coperse il capo d’una sua sorella [Annetta] sospingendo questa verso il balcone: e la folla reiterò i suoi calorosi evviva, credendo naturalmente di applaudire l’attrice!»324. La sua recitazione perde potenza con gli anni, ma si affina, ed è la critica a riconoscerlo, come a Genova dove si trova in ottobre: «Non passò inavvertita la maestria colla quale ne La signora dalle camelie la Marini misura il sentimento, il calore, la passione in un modo razionalmente progressivo e consono allo svolgimento del dramma, attalché l’interesse degli spettatori va, senza scosse eccessive, gradatamente aumentando quanto più prossima è la catastrofe. Altrettanto non si può dire di tutte le attuali celebrità. Anche le toelettes di Margherita erano perfette»325. Si sa, il pubblico ama dividersi in tifoserie spesso fanatiche. Mentre Virginia era alla Commedia di Madrid, al teatro Real c’era Sarah Bernhardt che, guarda caso, stava furoreggiando con La Dame aux camelias, un testo che ormai era diventato una sorta di giudizio di dio per le Signore della scena. Gli italici amanti del teatro subiscono il fascino della Francia, figuriamoci i torinesi; quando Sarah si esibisce al Carignano, la critica si trova nella imbarazzante posizione che fu di Paride, ma se la cava: non si possono fare paragoni, sono diversamente straordinarie, la recitazione di Virginia-Margherita è “tutta intima”, quella di SarahMarguerite è “tutta esteriore”326. Gli spagnoli, pubblicando una loro 324 SCAGLIA Riccardo, Glorie di palcoscenico, in “La stampa della sera”, 15.09.1931 [ALST]. 325 “Gazzetta piemontese”, 29.10.1882 [ALST]. 326 “Gazzetta piemontese”, 28.02.1882 [ALST].
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versione de La dama de las camelias, sono dello stesso parere; decidono che Sarah e Virginia sono le massime interpreti di questo personaggio e le pongono fianco a fianco in un ritratto dalla didascalia inequivocabile: «Como el tributo de admiracion à los principales intèrpretes che hoy tiene en el teatro el personaje de la heroìna, damos en lugar preferente de este libro los retratos de Sarah Bernhardt y Virginia Marini, primeras actrices del teatro francès è italiano»327. Si conferma l’apprezzamento per lo stile moderato ma ricco di tonalità di Virginia, per il suo “verismo romantico” che non è in grado di trasformarsi in naturalismo scientifico e tantomeno in simbolismo poetico, ma che rappresenta il punto di piena maturità (e quindi l’inizio della decadenza) di una scuola attorica italiana. Quando, a fine 1882, Virginia è a Trieste, la querelle ancora imperversa. La rassegna “L’Arte”, che si pubblica a Trieste-Firenze-Genova, scrive: «Pare impossibile, eppure è un fatto; vi sono critici, che si ostinano a porre l’un nome accanto all’altro, e quel ch’è peggio, a voler credere e far credere altrui, che Virginia Marini, dopo essere salita ai primi onori della scena, dopo aver conquistato per lunghe e diuturne battaglia il suo diploma di celebre e la sua bella corona d’artista, dopo aver seguito con fede incrollabile quella scuola della verità, la cui iniziativa e il cui primato spettano incontestabilmente all’Italia, auspice e maestro Gustavo Modena, dopo essere stata l’emula della Ristori, della Sadowsky, della Cazzola, ad un tratto abbia rinnegato il suo passato, le tradizioni dell’arte nazionale, e siasi posta a scimmiottare la Sarah, modellandosi su lei, e adottando il suo modo di recitazione. A me ed a chi ben guardi, non pare. Oggi nella Marini si scorge un qualche divario, questo però non deriva dal partito preso di voler imitare la grande attrice francese. La sua voce piena, robusta, squillante nella sua giovinezza, pur essendo ancor bastevole e direi sovrabbondante nei momenti drammatici e negli scatti della passione e dell’entusiasmo, ora non vibra più così forte, ond’è che nelle scene tranquille, nella conversazione pacata, sembra più dimessa. V’ha di più; la Marini piena di fede nel dogma della scuola italiana, ch’è la scuola del vero, parla più che non reciti, lascia la declamazione, le volate, le piccole malizie che la nuova scuola aveva ereditato dall’antica; non è avida dell’applauso ad ogni costo e rinnega tutte quelle micelle, che i francesi non sono per anco disposti a 327 In La dama de las camelias, de Alejandro Dumas, traducion de J.A. de Real, illustrada con
gran nùmero de grabados y los retratos de Sarah Bernhardt y Virginia Marini, segunda edicion, Barcelona : Administracion Nueva de San Francisco, 1884 [BNNA].
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lasciare nell’arsenale dei piccoli mezzi dell’arte. ella aspetta il momento opportuno per rivelarsi; aspetta l’urto e lo scoppio della passione; e allora dove sono le sue rivali?»328. L’ennesima presenza a Trieste riserva a Virginia un episodio extrateatrale di grande significato. L’attore ottocentesco è sensibile all’idea di nazione italiana; è una componente del suo ritrovato ruolo morale e anche del suo afflato artistico. Nella prima parte del secolo il precursore (non omologabile) della stirpe del Grande Attore, Gustavo Modena, è prima di tutto un patriota; Adelaide Ristori, marchesa, diventa ambasciatrice di Cavour in Francia; quasi tutti si schierano, e non si fermano con la raggiunta unità. Virginia non è da meno. «Nel 1882, quando Guglielmo Oberdan fu condannato al capestro, la Marini -che si trovava a Triestesottoscrisse con altre signore una domanda di grazia all’imperatore Francesco Giuseppe, che per tutta risposta mandò il carnefice. La sera in cui avvenne l’impiccagione del martire, ella si astenne dal recitare. Il teatro non poté essere chiuso, ché la Polizia avrebbe sfrattato la Compagnia, ma la rappresentazione si svolse dinnanzi a un pubblico esiguo, composto in gran parte da gente mandata dalla stessa Polizia»329. Un altro episodio, che palesa il fervido patriottismo della grande attrice. Ancora a Trieste, la compagnia Marini doveva mettere in scena, per la prima volta in questa città, le Due Dame di Paolo Ferrari. Sottoposto il copione all’approvazione della censura, questa esigette che l’ufficiale d’artiglieria e quello di marina, anziché vestire la divisa italiana, comparissero sulla scena in abito borghese; e soppresse questa frase d’una delle protagoniste: “Mia figlia Margherita è il fiore più gentile di tutti i giardini d’Italia”. La sera della rappresentazione la Marini -che nella parte di Rosalia avrebbe dovuto dire la “battuta” soppressa- arrivata a quel punto interruppe la sua recitazione, rivolgendo al pubblico un’occhiata piena di significato. Gli spettatori, molti dei quali erano già al corrente della cosa, compresero subito l’eloquenza di quella pausa e di quello sguardo: e scattarono in un applauso unanime, caldo, insistente. Ma nessun grido si levò dalla gremita platea, e quindi la polizia non trovò motivi per intervenire. E la commedia del Ferrari poté anche replicarsi per alcune sere; ma, in seguito, nessuna Compagnia ottenne più il permesso di rappresentare a Trieste le Due Dame!»330. Il culto per la Patria rimase sempre nel cuore di Virginia; 328 BUONO M., Virginia Marini e Sarah Bernhardt, in “L’Arte”, a.XIII, n°21, Trieste, 15.11.1882
[MTTS].
329 SCAGLIA 1929, pg. 40. Di questo episodio c’è una curiosa ricostruzione in VITTI 1926,
pgg.233/236.
330 SCAGLIA Riccardo, Virginia Marini, in “Il popolo di Trieste”, A. VIII, 27.03.1930.
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nel 1918, ultimo anno di guerra e ultimo della sua vita, si recò ancora una volta in un ospedale militare per recitare di fronte ai feriti poesie patriottiche. Non che Virginia fosse una rivoluzionaria, beninteso; nel 1878, in occasione dell’attentato al Re Umberto, recitò fra acclamazioni di popolo una poesia di circostanza, per cui le giunsero i ringraziamenti personali del sovrano. È nota poi la devozione di Virginia alla Regina Margherita, che sempre le diede protezione; quando Virginia decise di por fine alla carriera, essendo tuttavia in pessime condizioni finanziarie, fu la Regina a raccomandare al Ministro di trovarle una degna collocazione. Nel frattempo, a Roma non si è fermato il progetto di una formazione qualitativamente alta, tesa al ricorrente obiettivo della stabilità. Le ambizioni del gruppo promotore sono variegate. Non si dimentichi che il 1882 è l’anno di nascita della Società Italiana degli Autori (SIA) e ciò porterà ad uno scontro con la parte impresariale che di fatto durerà fino al Fascismo. Diventatone direttore, lo scrittore Marco Praga cercherà di fare della tutela del diritto d’autore e della difesa della drammaturgia nazionale la chiave per costruire un monopolio. La controazione più potente sarà quella dell’impresario Adolfo Re Riccardi331, ma nell’immediato nacquero varie associazioni interessate a contrastare i trust degli altri e a tentare di realizzare il proprio. Fra queste emerge il gruppo romano che si chiama “Società per l’acquisto, tutela ed incoraggiamento delle opere drammatiche in Italia” e che come primo atto istituisce l’annunciata “Compagnia Drammatica Nazionale”332 e addirittura promette l’edificazione di un nuovo teatro in Roma. La guida impresariale è nelle mani di Eugenio Tibaldi, che offre a Virginia un ingaggio, ritenuto molto generoso, di 34.000 lire annue, che con la più fallibile spannometria si possono avvicinare a 150.000,00 euro. «Era naturale che in Roma e nelle alte classi della nobiltà e della cittadinanza trovasse favore la istituzione di una Compagnia stabile, formata dei meglio attori, e col programma di un repertorio presso che esclusivamente italiano. Eugenio Tibaldi, già esercente della filodrammatica [romana] antica, raccolse firme, redasse statuto e programmi, avviò pratiche con attori per la formazione della Compagnia, e con autori per quella del repertorio. In breve volger di tempo la Società era costituita, la Compagnia formata, le commedie allogate; il terreno per il nuovo teatro, già scelto; e collocato di questo la prima pietra; mentre, in attesa del compimento dello edificio, il Teatro Valle era per mesi e mesi 331 Cfr. CAVAGLIERI 2012, pgg. 52/61. 332 Cfr. CAVAGLIERI 2012.
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impegnato nell’esercizio della Compagnia che, dal nome della Società, dicevasi Nazionale. N’erano parte un Borghese, un Theodoli, un conte Vinci, un marchese Cappelli; e più altri blasonati, amici dell’arte e delle lettere. Della Compagnia erano decoro e forza, Virginia Marini, Pierina Giagnoni, Adelaide Falconi, Teresa Leigheb, attrici; Ermete Novelli, Luigi Biagi, Claudio Leigheb, Enrico Reinach, Angelo Vestri, Giuseppe e Ignazio Bracci, Pietro Falconi, attori»333. Ma il contesto è favorevole ad una novità più rilevante: è un autore ad essere incaricato, per la prima volta in assoluto, della direzione artistica. Si tratta del celebrato Paolo Ferrari, che lascia l’insegnamento di letteratura nell’Istituto Superiore di Milano per trasferirsi nella capitale. Il Marini è riuscito ad essere della partita, anche se con il grado di “direttore di scena”; ci sono pure un amministratore e un segretario; insomma: una vera, inusuale struttura organizzativa. «La nuova Compagnia inaugurerà il corso delle sue rappresentazioni sul principio dell’anno artistico 1883-1884 al teatro Gerbino di Torino, e prenderà tutti gli anni stabile dimora in Roma nelle stagioni di autunno, carnevale e quaresima»334. Il debutto avviene proprio al Gerbino l’11 febbraio 1883 con I mariti di Achille Torelli. Accanto a Virginia c’è una primattrice “giovine” di grande talento: Pierina Ajudi Giagnoni (1854-1890), incantevole, colta, moderna, spentasi troppo presto. C’è una giovanissima ben predestinata: Italia Vitaliani (nata nel 1866), della grande famiglia d’arte; lo zio Cesare Vitaliani l’aveva già fatta entrare, quindicenne, nella compagnia “Bellotti-Bon e Marini”; nel ’91 arriverà ad essere primattrice, a vicenda, con Virginia nella compagnia dei Marini. C’è un personaggio del calibro di Ermete Novelli (nato nel 1851); capace di passare dalla tragedia alla pochade, di trasformarsi totalmente con il trucco e il costume, di tenere anche un commercio di oggetti antichi; nella Nazionale è scritturato come caratterista ma ci sta solo un anno. C’è Angelo Vestri (1828-1889), come altro caratterista; membro di una numerosa famiglia d’arte, Vestri morirà mentre fa parte della compagnia dei Marini. C’è il più famoso brillante del momento: Claudio Leigheb (1848-1903), “l’ultimo brillante della grande vecchia scuola”, figlio del “rinomatissimo” Giovanni, allievo di Bellotti-Bon, comico raffinato ma dotato di un macchiettismo straordinario; anche Leigheb lavorerà nella compagnia dei Marini. C’è Luigi Biagi, che nella Nazionale assume la funzione di vice di Paolo Ferrari e vice sarà, anni dopo, anche di Virginia nella scuola di Santa Cecilia. 333 COSTETTI 1901, pg. 366. 334 “Gazzetta piemontese”, 17.05.1882 [ALST].
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C’è l’immancabile Reinach e altri ancora. Inoltre l’infiltrazione della ditta familiare Marini è stata massiccia; a libro paga risultano: la figlia di lui (in locandina: Adelaide Sciarra), la sorella di lei (in locandina: Annetta Gattinelli) il cognato di lei (Angelo Gattinelli) e forse anche il marito di Adelaide (in locandina: Francesco Sciarra). I mariti, commedia di immediato e longevo successo, era stata portata sulle scene per la prima volta nel 1867 da Bellotti-Bon, con la partecipazione di Giacinta Pezzana. Pochi giorni prima del debutto della Compagnia Nazionale, il 31 gennaio 1883, il grande Luigi Bellotti-Bon, rovinato dalle perdite delle sue insensate attività produttive e definitivamente vinto dall’avvento della nuova, prestigiosa compagnia, forse anche dai tradimenti dei Marini e di altri, si era suicidato a Milano. Il 20 febbraio al Regio di Torino viene eseguito un concerto a beneficio della famiglia Bellotti-Bon e dei suoi artisti più colpiti dal fallimento. La Nazionale partecipa con un “intermezzo drammatico” in cui Virginia, Novelli, Biagi e Reinach interpretano il proverbio di Ferdinando Martini, dal titolo allusivo, tipico di questo genere di testi, Chi sa il gioco non l’insegni. Il drammaturgo-direttore Paolo Ferrari «ebbe nell’attrice alessandrina l’interprete più appassionata e più efficace del suo teatro, e specialmente delle sue migliori commedie a tesi, quali Il ridicolo, Le due dame, Il suicidio. Fu la Marini che per prima incarnò vittoriosamente sulla scena le infelici figure della marchesa Emma del Ridicolo e di Rosalia delle Due dame; e nel Suicidio sollevò entusiasmi memorabili con i famosi tre gridi, non avendo a rivale che Adelaide Tessero. E quando fu costituita la famosa “Compagnia nazionale” della quale Paolo Ferrari assunse la direzione, la Marini fu prescelta come prim’attrice»335. Di Ferrari Virginia aveva interpretato per la prima volta Cause ed effetti con Alamanno Morelli a Firenze nel 1872, brillante Domenico Bassi; lo stesso terzetto prosegue con Il ridicolo dove «Virginia Marini ha fatto dell’Emma Braganza [la protagonista, di cui lei è la prima interprete in assoluto] un personaggio così vivo, così vero, così commovente e così simpatico che nessun più vero e più vivo personaggio si vide mai sulle scene. La Marini, che non ha chi la superi per intelligenza, ha pochi rivali che l’eguagliano nell’esecuzione. Per un autore come Ferrari ci vorrebbe sempre un’attrice come la signora Marini, che ha mente per comprendere, cuore per sentire, abilità per rendere tutto intero un ca335 SCAGLIA 1935, pg. 214. È lo stesso pezzo che Scaglia pubblica su La Stampa del
09.08.1928 e poi riporta nel saggio SCAGLIA 1929.
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rattere, un concetto, una figura, una commedia»336. Virginia è la prima a mettere in scena anche Le due dame nei panni della protagonista Rosalia, con la compagnia di Luigi Bellotti-Bon nel ’77 al suo prediletto teatro Gerbino di Torino. Yorick scrive che il personaggio ferrariano di Rosalia ha qualcosa in comune con quello di Adriana Lecouvreur di Scribe-Legouvé: «c’è in ambedue le eroine drammatiche la stessa bontà di cuore, la medesima virtù di sacrificio, la stessa coscienza della propria inferiorità in faccia alle femmine virtuose, che non hanno mai peccato e che non sono uscite mai dal cerchio degli affetti di famiglia»337. Sembrano parole scritte per Virginia e probabilmente Rosalia lo fu davvero. Ma Ferrari non fa parte di coloro che disegnano “traviate” che ottengano il perdono del pubblico mercé l’impossibile passione e il purificante sacrificio. Ferrari è il campione della commedia “a tesi”, in cui si smarca dai francesi; riproduce i problemi sociali senza dare giudizi netti e tantomeno soluzioni, ma con chiarezza, senza sconti; se indulge a tirate e a discussioni fra i personaggi, diventa moralistico. “La sobrietà dei mezzi, la chiarezza della dizione, la semplicità delle forme” di Virginia, insieme all’intensità del suo “verismo romantico”, non possono che andargli a fagiolo. Certamente come omaggio alla primadonna, il direttore Ferrari impegna la Compagnia Nazionale nella goldoniana Serva amorosa, facendone una briosa versione filologica, reinventando i costumi settecenteschi, ripristinando le improvvisazioni fra le maschere alla maniera dei Comici dell’Arte, e permettendosi una distribuzione memorabile: Virginia come Corallina, Ermete Novelli come Pantalone, Claudio Leigheb come Arlecchino, Angelo Vestri come Ottavio. Secondo il costume dell’epoca, lo scrittore amava inviare all’attrice vari componimenti poetici, soprattutto in concomitanza di sue serate d’onore. Il 29 maggio 1885, mentre Virginia sta furoreggiando al Manzoni di Milano, le indirizza un sonetto che non è solo di maniera, ma ci offre una ulteriore conferma di una fase di passaggio (meglio: dei primi segni di questo fenomeno) cui ho già accennato: fra una recitazione basata su una naturalezza ben riconoscibile ma temprata dal romanticismo, e un naturalismo scientifico della interpretazione, da una parte, e dall’altra una recitazione modernamente nervosa e astratta, in una parola: dusiana. 336 YORICK 1922, pgg. 158/159. 337 YORICK 1922, pg. 328.
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Donna Virginia, ahimé! Siam troppo buoni D’amar nostr’arte! Dicono che è vecchia! Che Plauto! Che Terenzio! Che Goldoni! La nostra scuola ormai dorme o sonnecchia. E assicuran solenni dottoroni Che ben altr’arte or or ci si apparecchia!... Ma, vecchio io pure, a lor mille ragioni Peccatore indurito ho sorda orecchia! E non capisco quest’arte fanciulla Divenuta segnacolo in bandiera Di scopritori che non scopron nulla Amo l’arte che, interprete sincera Di natura, insegnando altrui trastulla: Non amo la “verista”, amo la “vera”. Nel marzo 1883 Virginia fa serata d’onore al Gerbino con Adriana Lecouvreur suscitando “ovazioni, che sono trionfi”; nel maggio 1884 presenta Medea affidando tuttavia drastici tagli all’esperto Yorick. Il testo di Grillparzer continua a non piacere, ma l’andamento dello spettacolo convince: onori al venerando traduttore Andrea Maffei presente in sala. Per Virginia è un commiato dal vecchio Gerbino che l’aveva servita fedelmente, perché successivamente la “Nazionale”, sulla piazza di Torino, prenderà a scendere al Carignano. È un tripudio di beneficiate. Il 7 maggio 1883 la inscena a Trieste. Il 27 giugno 1883 al Niccolini di Firenze, e in quella circostanza i redattori del quotidiano “Fieramosca” pubblicano una raccolta di versi in suo onore, a cura di Yorick che deteneva la cronaca teatrale di quel giornale338. Il 15 febbraio 1884 è a Roma, scegliendo La serva amorosa. Il 6 ottobre 1884 fa Messalina al Brunetti di Bologna e si adopera in un comitato di beneficenza. Nel 1884 c’è il fiasco “imperiale” di Theodora di Sardou al Manzoni di Milano; è Virginia stessa ad usare l’ironico aggettivo aggiungendo che “però il fiasco l’aveva pagato il pubblico generosamente, perché in quella occasione erano stati aumentati i prezzi, facendo un incasso pari a quelli che faceva la Sarah Bernhardt”. Il 5 aprile 1884 presenta Medea al Manzoni di Milano e la replica il 29 maggio 1885 nello stesso teatro. Il 12 febbraio 1885 al Niccolini con Come si fanno le commedie di Landau, novità: non piace. Nel marzo 1885 la Nazionale arriva al Carignano di Torino. Apre in 338 Alcune odi di questo “omaggio” sono riportate in ANTONA-TRAVERSI 1929, pgg.245/248.
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sicurezza con La serva amorosa e ci riprova con Theodora di Sardou, protagonisti Virginia e Enrico Reinach, ma abbassa il prezzo dei biglietti come presagendo difficoltà. Lo sforzo produttivo è immane: trenta attori e numerose comparse, costumi “splendidissimi”, decorazioni raffinate, attrezzeria curata meticolosamente. «La signora Marini e il Reinach fecero, come sempre, un serio e accurato studio per mettere in mostra quanto vi aveva di buono nella parte loro affidata e palliare i difetti. Molti degli applausi al terzo e al quinto quadro, forse gli unici che passarono senza contrasto, furono dovuti alla valentia di questi due artisti; nessuno avrebbe potuto rendere meglio l’effusione, la passione, il contrasto delle due scene d’amore. Ma nessun lusso di vesti e di scenari, nessuna maestria di esecuzione può far parer bello ciò che è brutto; nel quadro ottavo la Marini e il Reinach superarono se stessi, lottarono, per così dire, corpo a corpo col grottesco della situazione, e se non riuscirono a farla tollerare dal pubblico, certo resero meno grave la caduta. Quello che più ci colpisce dopo la rappresentazione di questo lavoro, che pure vorrebbe essere storico, si è la poca o nessuna conoscenza che l’autore in esso dimostra di aver avuto dei tempi nei quali successero i fatti che egli riprodusse sulla scena. Che rimane dunque di questo lavoro tanto strombazzato? Null’altro che lo sfarzo dell’allestimento scenico; e la valentia dell’esecuzione con cui i nostri artisti vollero generosamente vendicarsi dello scrittore francese che ha, imitandolo, sciupato uno dei migliori drammi del repertorio contemporaneo italiano»339. La spiegazione di questa chiusa è immediata. Per condurre questo attacco allo strapotere gallico, bisogna sventolare un vessillo patriottico: chi meglio del nostro indiscutibile artefice di drammi storici, Pietro Cossa? Virginia, cossiana di ferro e professionista di lungo corso, non se lo fa dire due volte. Porta subito sul palcoscenico del Carignano Messalina e incassa un plebiscito. «Una serata d’onore di Virginia Marini è un avvenimento artistico di primo ordine a cui non manca mai il fior fiore della nostra società340, l’olimpo femminino e la numerosa schiera dei buongustai dell’arte drammatica. Ieri sera, infatti, il Carignano era splendidissimo: non un palchetto, non una sedia vuoti, la platea piena zeppa di pubblico. Virginia Marini aveva molto opportunamen339 MOLINERI G.C., Novità drammatiche. Teodora, dramma in 8 quadri di Vittoriano Sardou, in
“Gazzetta piemontese”, 26.03.1885 [ALST].
340 Le gazzette torinesi di quei giorni informano che nel salotto dei signori Rodocanardi di
Monterotondo “si conversa d’arte drammatica con Virginia Marini”.
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te scelto la commedia cossiana Messalina, che, com’è noto è uno dei suoi cavalli di battaglia e nella quale, a nostro giudizio, non ha rivali. I confronti sono odiosi, ma noi, ieri sera, ripensando a Teodora, abbiamo assistito con vero entusiasmo a questo nuovo trionfo del morto poeta romano. Teodora e Messalina sono due grandi figure storiche di donna che hanno fra di loro, benché in ambienti e tempi tanto diversi, non pochi punti di contatto; ma quanto più non grandeggia la concezione del Cossa a confronto di quella del Sardou! L’interpretazione è stata, per parte della Marini, superiore ad ogni elogio. La valorosa attrice è stata segno alle più entusiastiche manifestazioni di simpatia»341. Sul finire del 1885 Virginia lascia la Nazionale, in apparenza per ragioni amministrative che illustra in una letterina indirizzata al direttore de “La Scena”, nuovo giornale artistico teatrale di Venezia, Giuseppe Zoppetti. «Prego lei, che gentilmente si è sempre occupato di me, tanto favorevolmente, a voler far noto che il mio scioglimento dalla Compagnia Nazionale è seguito di comune accordo, causa una vertenza per la tassa di ricchezza mobile, scioglimento che avevo più d’una volta domandato e che non mi venne consentito»342. Questo abbandono suscita scalpore. La reazione più eclatante è di Edoardo Boutet, il critico che una quindicina d’anni dopo sarà collega di Virginia a Santa Cecilia, il quale dalle colonne del “Corriere di Roma” le rivolge una vera e propria invettiva come mai registrata nella carriera della nostra attrice: «Voi, pubblici del Gerbino, del Manzoni, del Niccolini, del Sannazaro, del Valle, del Paganini, del Goldoni ecc. ecc. accorsi per tanti anni, fino a ieri ancora, a udire Virginia Marini e a festeggiarla; voi, Yorick, Fortis, D’Arcais, e quanti altri siete critici italiani, che le tributaste sempre tutti i vostri maggiori elogi, colla più fine poesia della vostra prosa; voi commediografi e drammaturghi, da Paolo Ferrari al più modesto, che scriveste e dedicaste a lei i migliori frutti del vostro ingegno; voi Tessero, Pezzana, Salvini, Rossi, Emanuel, Leigheb, Vestri, la AliprandiPieri, Ceresa, Pia Marchi, Glech, Novelli, e quanti siete, eletti nell’arte, che sempre riconosceste in lei una regina della scena; tu, dotta Bologna, che le elevasti un busto nella tua Arena; tu, povero Cossa, che tanto l’apprezzavi e che a lei t’inspirasti per le tue forti creazioni; tu, infelice Bellotti-Bon, che andavi così superbo d’averla al tuo fianco e non rifinivi mai dal lodarla; voi tutti, infine, che colla parola, cogli scritti, cogli applausi, coi fiori, colle corone, coi doni avete dato a lei tante 341 “Gazzetta piemontese”, 01.04.1885 [ALST]. 342 “Gazzetta piemontese”, 19.01.1886 [ALST].
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testimonianze di profonda stima, simpatia, affezione e ammirazione, voi tutti siete stati ignoranti e cretini»343. Nel 1915 Giuseppe Cauda, commemorando il Boutet appena scomparso, ricorderà il suo attacco alla Marini e le insurrezioni che provocò, da parte della critica e, cosa rara, delle colleghe attrici. Cauda cita la lettera che Adelaide Tessero gli scrisse nella circostanza: «Caro Cauda, il vostro bell’articolo sulla Marini è un atto di vera giustizia. Non potete comprendere il rancore profondo destato in me da questa guerra indecorosa fattale per innalzare un altro Dio [la Duse]!»344. La sgradevole provocazione di Boutet, di cui in qualche modo si pentirà (pur continuando a considerare Virginia non un’artista ma una ammirabile professionista, cosa che, detta da un personaggio come Boutet, merita comunque una meditazione), questa provocazione in realtà riassume scrupolosamente il consenso che Virginia ottenne, nel periodo 1868/1894, dall’intero mondo teatrale. “La Scena” di Venezia pubblica un “Omaggio” a Virginia345. Per inciso, Graziosa Glech, citata da Boutet, è la primattrice che subentra a Virginia nella Nazionale. Nel 1886 Virginia viene scritturata da Giovanni Emanuel. Qualche cattivo profeta sentenzia che non ce la faranno a recitare insieme. Nell’amata Torino i due “sfidano” nientemeno che il teatro Alfieri, culla dell’operetta. «Il teatro aveva cambiato la fisionomia che vi imprimeva l’operetta; il pubblico scelto, numerosissimo, presentava un aspetto, diremo così, solenne. Al primo apparire di Virginia Marini scoppiò un applauso che durò lungamente, l’applauso del benvenuto alla concittadina, l’applauso della simpatia e dell’ammirazione. Uguale accoglienza ebbe l’Emanuel»346. Il quale fa “pienona” con il Nerone del Cossa “nonostante i suoi lunghi baffi anti-romani”; Virginia sfodera La signora dalle camelie, un testo che ormai viaggia verso i quarant’anni di onorato servizio, ma: “si va più per sentire e valutare l’attrice, che per ammirare il dramma”. Se si fosse pretesa qualche altra conferma della supremazia del grandattore, ecco qua! Il cammino trionfale di Emanuel-Marini non si interrompe: La figlia di Jefte di Cavallotti; di Sardou la collaudata 343 “La Stampa”, 05.05.1915 [ALST]. 344 “La Stampa”, 05.05.1915 [ALST]. 345 SCAGLIA 1929 ci informa, a pg.35, che nell’occasione furono pubblicati versi e pensieri
celebrativi di Virginia in un opuscolo: Omaggio a Virginia Marini, Venezia, tip. Emporio, 21 febbraio 1886, in 8°, pp. (10), con ritr. in costume greco (supplemento al giornale “La Scena”, a. XXII, n°4). Una copia dell’opuscolo si trova presso la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Torino, ma, al momento in cui scrivo, non è consultabile. 346 “Gazzetta piemontese”, 31.10.1886 [ALST].
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Fedora e la novità Serafina la devota; Il padrone delle ferriere di Ohnet: sala “zeppa”, Virginia “supera se stessa”, sontuose le toilettes di Virginia, ammirabili gli allestimenti. Non si perde l’attenzione agli investimenti artistici; in compagnia c’è una giovanissima Virginia Reiter, già considerata dal pubblico un’erede della nostra Virginia; la quale inoltre, girando per saggi di recitazione torinesi, scrittura una ragazza, Edwige Guglielmetti, della citata scuola del Bassi. Saluta il teatro Alfieri, dopo aver “eguagliato” l’operetta per due mesi consecutivi, con un suo testo prediletto. «Mai si è vista in quel teatro una folla più pigiata e compressa, fra cui non sarebbe penetrato il proverbiale granello di miglio. E che applausi, che entusiasmi, quante chiamate alla valentissima artista! Noi crediamo che nella sua lunga carriera, così piena di allori, la Marini possa segnare la rappresentazione di ieri sera fra le più solenni. E ben scelse la Marini quel capolavoro del Fortis: Cuore ed Arte; crediamo che difficilmente artista possa superarla in questo dramma»347. La Emanuel-Marini sfrutta ancora l’onda nel Natale immediatamente successivo (non si dimentichi che per la prosa questa festività è l’inizio della tradizionale stagione “di Carnevale”), ma lasciando tornare l’operetta all’Alfieri e trasferendosi al Gerbino. I coniugi stanno per realizzare il sogno di una compagnia di loro esclusiva proprietà, e ne danno i primi annunci. Dopo una presenza a Venezia, dove Virginia è “festeggiatissima”, decidono di lasciare Emanuel e di legarsi al primattore Cesare Rossi (1829-1898), anima, dal 1876 al 1884, della formazione semistabile “Città di Torino” e poi socio di Eleonora Duse e di suo marito Tebaldo Checchi. Rossi e Virginia (che si trovano, entrambi, momentaneamente senza un gruppo) scritturano per il periodo 1886-87 l’intera compagnia di Eugenio Casilini che in quel momento era diretta da Zacconi. Con questa formazione Virginia sarà a Bologna nel novembre/dicembre 1887 e al Niccolini di Firenze per il Carnevale 1888. Finalmente i Marini fanno impresa autonomamente: il cav. Giovanni Battista impresario e capocomico, Virginia “mente che dirige” e primadonna; la loro gestione primeggerà nella cura della messinscena e nell’affiatamento recitativo. La loro compagnia «fu veramente l’ultima di grande complesso»348. Terranno la rotta per due trienni, ma andranno incontro al naufragio economico. La compagine artistica è formata da nomi “dei più chiari in arte”, tutti reduci da rapporti di lavoro con 347 “Gazzetta piemontese”, 27.11.1886 [ALST]. 348 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 245.
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i Marini, insomma un complesso davvero prestigioso: Italia Vitaliani, Teresa Leigheb (moglie di Claudio), Angela Beseghi, Edwige Guglielmetti e il marito Enrico Reinach, Giuseppe Bracci, Claudio Leigheb, Angelo Vestri, Francesco Ciotti; si conferma la presenza della sorella e del cognato della direttrice e della figlia dell’impresario. Debuttano al Carignano di Torino il 19 febbraio 1888 con Le due dame di Ferrari: “pienona” e applausi ininterrotti. «Il cav. Marini ha voluto mostrare sino dalle prime sere che, nel raccogliere questa Compagnia, il suo primo scopo fu l’arte e che per conseguenza non intendeva risparmiare né danari né fatiche: l’allestimento scenico fu di un lusso non solito a vedersi»349. Il “lusso” è da intendersi anche come accuratezza della realizzazione scenografica; il naturalismo drammaturgico stava facendo degli arredamenti degli interni borghesi una vera chiave espressiva; interni sempre meglio illuminati dal perfezionamento della illuminazione a gas e poi dall’avvento di quella elettrica. Al Carignano la primattrice Virginia conquista tutti con Messalina, Adriana Lecouvreur, e persino con Fedra di Racine dimostra di avere sempre “un grande ascendente” sul pubblico torinese; la direttrice artistica si dedica con coraggio a testi e anche ad autori nuovi, ma i suoi spettatori non la seguono. Accoglienze freddine e talvolta glaciali per L’amico di Marco Praga, per Il pittore Scan di Icilio Polese, per L’Abate Costantino di Cremieux e Decurcelles (che «si risolve in una pesantezza, in una noia, in un tedio che fa rimanere il pubblico mezzo intontito, e se non lo sospinge alla disapprovazione gli toglie ogni forza di applaudire»350), per Moneta corrente di Antonio Salsilli (il quale «si sarà persuaso ieri a sera di quanto sia più difficile il far ridere il pubblico che farlo piangere»351). Un caso particolare e significativo è rappresentato da Neva, una prima assoluta, che “è opera di un giovane d’ingegno, ed è, coi suoi difetti, colla sua tetraggine, degna per lo meno di essere attentamente ascoltata e giudicata con calma”. Il suo autore, Cesare Chiusoli, è un “valente pubblicista e letterato bolognese”. “Accolta dal pubblico con una severità così arcigna da rasentare l’ingiustizia”352, in realtà Neva viene recitata davanti ad una platea pressoché deserta; ed è que349 “Gazzetta piemontese”, 20.02.1888 [ALST]. 350 MOLINERI G.C., Novità drammatiche. L’Abate Costantino, in “Gazzetta piemontese”,
17.03.1888 [ALST].
351 MOLINERI G.C., Novità drammatiche. Moneta corrente, in “Gazzetta piemontese”,
27.03.1888 [ALST].
352 I virgolettati sono di MOLINERI G.C., Novità drammatiche. Neva, in “Gazzetta piemonte-
se”, 21.03.1888 [ALST].
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sto che fa imbestialire il critico. Mentre a L’Abate Costantino, andato male, si accorre comunque numerosi semplicemente perché a firma francese, alle prime di autore italiano non ci si presenta nemmeno. Il critico arriva a dichiarare che c’è una responsabilità del pubblico nella crisi nazionale del teatro, che non dà fiducia agli autori debuttanti e non premia i rari impresari, come il cav. Marini, che non lesinano gli investimenti culturali. Tuttavia si sa che la fruizione superficiale e conservativa è riscontrabile in tutto il teatro borghese contemporaneo (se questo appellativo può correttamente inglobare anche il secondo Ottocento). Bertolt Brecht combatterà tale atteggiamento come “gastronomico”, riferendosi a spettatori che dopo aver cenato vogliono solo digerire rilassandosi. Ma questo genere di spettatori esiste tuttora, è sopravvissuto allo squagliamento del termine “borghesia”. Non dimentichiamoci mai che lo spettacolo è “divertimento”, anche fine a se stesso, e che ci può essere “arte teatrale” anche in questo. Il giovane Chiusoli, all’epoca, se ne rendeva perfettamente conto. Aveva partecipato alle prove e alla prima al Carignano, ed era contento. Sosteneva che il verismo a teatro aveva già fatto il suo tempo, che ci voleva un altro linguaggio scenico, ma dichiarava simpaticamente: «Con una nuova pochade o con un vecchio repertorio si va sul sicuro. Il pubblico chiede all’autore quello che ogni amante chiede alla propria donna: “ingannami bene”. Il pubblico non è quello delle premieres. Gli spettatori devono essere tanti. Al pubblico deve essere riservata la sanzione suprema»353. Virginia non recitava in Neva, ma come direttrice artistica l’aveva convintamente “protetta” presso il marito. A entrambi i titolari Chiusoli è riconoscente. L’edizione a stampa della sua commedia si apre con una epigrafe: «A / Virginia Marini / fiore di gentildonna e di artista /amica indulgente e cortese / che resse questo mio lavoro / affettuosa consigliatrice e madrina /al battesimo del primo applauso»; e più avanti: «La compagnia era quella fortunata e ricca [si noti il “ricca”] che è condotta dal cav. G.B. Marini, un fior di galantuomo e un oculato capocomico, che intende il suo ministero, e lo esercita con senso d’arte e con amore»354. Diciamolo: al di là delle crude connotazioni commerciali, d’altronde legittimate dai tempi, i coniugi 353 CHIUSOLI Cesare, Miss Bella, commedia in 5 atti, rappresentata per la prima volta dalla Com-
pagnia Drammatica Nazionale al Teatro Brunetti di Bologna, la sera delli 19 settembre 1887, Bologna: Stabilimento tipografico Zamorani-Albertazzi, 1889, pgg.XIX-XXV [ARCH]. 354 CHIUSOLI Cesare, Neva, commedia in 3 atti, rappresentata per la prima volta dalla Compagnia Virginia Marini al Teatro Carignano di Torino, la sera delli 20 marzo 1888, Bologna: Stabilimento tipografico Zamorani-Albertazzi, 1889, pg.XIX [ARCH].
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Marini furono dei teatranti “veri”, più sensibili di quanto appaia agli aspetti artistico-culturali del loro lavoro, i quali buttarono i guadagni di una carriera in un bel progetto, avventato, forse malgestito, puntualmente fallimentare, ma sentito, generoso, encomiabile. Nel luglio 1888 la compagnia Marini è a Genova; in agosto non manca l’appuntamento estivo con il Politeama di Livorno dove presenta Le due dame e Adriana Lecouvreur. «Gli applausi cominciarono appena l’orchestra principiò a suonare per avvisare il pubblico che il sipario presto si sarebbe alzato. Livorno seppe davvero mostrare in qual pregio tenga l’arte, la vera arte drammatica rappresentata da elementi come quelli che si trovano nella compagnia della Marini»355. Nella beneficiata del 17 agosto «la Marini fu sublime, fu una principessa Gabriella [Cuore ed Arte] inarrivabile. Trasportò il pubblico non all’entusiasmo ma al delirio! Parlarvi di regali sarebbe superfluo; per esempio, un astuccio contenente un servizio da toilette in argento. L’astuccio era guernito in raso rosso ed era coperta da un magnifico cristallo di Boemia dorato»356. A Livorno la compagnia Marini torna puntualmente nell’agosto 1889; nell’ottobre tiene “un corso di trenta rappresentazioni” all’Alfieri di Torino, aperto da Fernanda di Sardou, un testo che permette di schierare tutti i componenti della compagnia. L’Alfieri è affollato; l’attesa era alta, per la formazione “migliore d’Italia”, per i suoi artisti ma anche per «l’accuratezza ed il lusso della messa in scena, non ultimo dei meriti, questo, della Compagnia Marini. Con lodevole pensiero la Direzione del teatro, sgombrato dai leggii il posto dell’orchestra, vi ha collocati molti vasi di piante verdi che rendono più elegante la sala; l’orchestra, come si usa ormai in molti teatri di prosa, è collocata sotto la galleria, al lato destro della scena. Stasera avremo una novità, cioè la commedia in tre atti di Valebregue, La sicurezza delle famiglie, commedia tradotta da Salsilli, di proprietà esclusiva della Compagnia Marini»357. La sicurezza delle famiglie è la farsa che Virginia fa seguire alla Esmeralda di Giacinto Gallina; in un’altra recita duetta con il brillantissimo Claudio Leigheb in Da galeotto a marinaio di Legouvé. Come sempre, non trascura le novità: Un colpo di stato di Carrera, e l’atto unico Caporale di Testoni. Alcuni frequentatori dell’Alfieri le chiedono pubblicamente di interpretare Cleopatra di Pietro Cossa, ma lei nicchia; un po’ perché trattasi di un cavallo di battaglia di Adelaide Tessero, un po’ perché, se era riuscita a imborghesire Messali355 “Gazzetta piemontese”, 03.08.1888 [ALST]. 356 “Gazzetta piemontese”, 20.08.1888 [ALST]. 357 “Gazzetta piemontese”, 02.10.1889 [ALST].
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na, ripeterlo con la regina d’Egitto non era facile. Ma Virginia tiene tutti buoni dedicando l’ultima serata d’onore a Adriana Lecouvreur. «La signora Marini fu chiamata al proscenio un’infinità di volte frammezzo ad un profluvio di fiori, e con i fiori altri doni come un sontuoso servizio di bicchierini e vassoio di cristallo montato in argento, un superbo album ed altri oggetti artistici»358. Nel marzo dello stesso 1889 Sarah Bernhardt aveva portato al Carignano la Tosca che Sardou aveva dipinto su di lei. I torinesi trovano da ridire sull’odiosamato autore rimproverandolo di non essere sufficientemente documentato sul piano storico, ma si inchinano alla “sublime”, “prodigiosa” naturalezza della recitazione della Bernhardt359. Come in altre occasioni, Virginia apre il 1890 al Gerbino di Torino, prima con Mater dolorosa, commedia “nuovissima” di Marco Praga, e poi con un suo spettacolo d’onore dal programma inusuale, “sceltissimo”: Nicarete di Cavallotti, Pater di Coppée (“nuovissimo”, che “in Francia è stato proibito per ragioni d’ordine pubblico”), Bere o affogare di Leo di Castelnuovo e Il beniamino della nonna. In un momento in cui la stessa Virginia avverte i sintomi di un possibile declino, il pubblico torinese nutre un consenso e un rispetto immutati per lei, «forte artista, la quale nonostante altre attrici e altre scuole venute su di poi col favore meritato del pubblico, tiene pur tuttavia il campo e onora l’arte scenica italiana. Espone per la prima volta in Italia Pater di Francesco Coppée, il poeta delle soavità spirituali care alle anime gentili e pie. L’interpretazione fu giudicata giusta, sentita, efficace. E la valorosa artista ebbe meritati applausi e fiori»360. L’anno procede; la compagnia continua ad occuparsi di novità: mette in scena a Verona Fides del fiorentino Gatteschi; al Valle di Roma Ad oltranza di Edoardo Calandra. A Verona, mentre Virginia interpreta Cuore ed Arte, «una signorina, figlia di un capitano di fanteria, colpita dalla bellezza dell’ultimo atto, protendendo le braccia dal palchetto e coprendosi poi colle mani il volto lagrimoso, si dette a gridare fra i singulti affannosi: “No! No! Non voglio che tu muoia! Infelice! Vivi! Vivi!”. Queste parole, che esprimevano in tutta la loro eloquenza un forte, sentito dolore, erano dirette alla Marini»361. Dopo la pausa estiva agli stabilimenti balneari di Livorno, dove gli ammiratori la trovano “sempre fresca, sempre bella”, Virginia dedica l’autunno all’amato teatro Gerbino. La compagnia si esi358 “Gazzetta piemontese”, 26.10.1889 [ALST]. 359 “Gazzetta piemontese”, 18.03.1889 [ALST]. 360 “Gazzetta piemontese”, 12.02.1890 [ALST]. 361 “Gazzetta piemontese”, 04.04.1890 [ALST].
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bisce nel repertorio più collaudato, ma si sta concludendo il ciclo triennale. Attori fondamentali come i coniugi Claudio e Teresina Leigheb, Enrico Reinach, la pupilla Guglielmetti, stanno meditando di passare ad altre formazioni. Presto si diffonde la voce che la ditta Marini si rinnoverà alla grande per il periodo 1891-1893. La compagnia riceve naturalmente una valanga di proposte italiane. Nel 1890 Camillo Antona-Traversi (che trent’anni dopo scriverà su Virginia saggi sinceramente encomiastici) le propone la sua commedia Le Rozeno; Virginia, che del giovane autore aveva appena presentato al Manzoni La figlia di Nora, la vive come una proposta indecente: le sorelle Rozeno infatti sono tre sciagurate, che passano dai letti degli amanti ai figli illegittimi, da sporchi affari a squallidi suicidi362. È lo stesso Antona-Traversi a citare la risposta di Virginia, datata 10 agosto 1890: «Il verismo spinto, l’arditezza del dialogo… No, no! È impossibile che il pubblico tolleri, senza mormorare, situazioni come quelle che ci sono nelle Rozeno. Sono dispiacentissima di non essere dell’opinione dei bravi artisti e critici che hanno letto il suo lavoro; ma a me pare che sarebbe tollerato soltanto a Parigi nel “teatro libero”»363. Effettivamente il testo è quanto di più lontano dall’immagine di Virginia, dal suo stile interpretativo; è troppo anche per quella ricerca di novità che percorre il suo tormentato fine-carriera. Secondo Virginia il verismo “spinto” è roba per altri mondi, buono forse per Parigi dove André Antoine ha fondato nel 1887 il “Theatre libre”, caratterizzato da una chiave realistica estremizzata e immerso nell’avvento europeo del regista. Ma Le Rozeno viene presentata, l’anno dopo, con successo, al Valle di Roma; elegantemente, Virginia invia una letterina di rallegramenti. È stato forse un errore impresariale che denuncia, nel suo piccolo, la sostanziale incapacità di Virginia di adeguarsi ai cambiamenti in atto; durante trent’anni aveva attentamente rapportato la sua arte al mercato; ora, credo involontariamente, non ci riusciva più. Intanto il cav. Giovanni Battista, che guarda -non così oculatamente- a tutt’altro repertorio, acquista la costosa esclusiva per l’Italia di molte opere commerciali francesi, non trascurando le pochades indispensabili alla completa fidelizzazione del pubblico. A questo genere appartengono Le sorprese del divorzio e Il fu Toupinel, entrambe di Bisson, che ottengono un plauso generale negli ultimi mesi della vecchia 362 Su Le Rozeno cfr. PERSONÈ Luigi M., Il teatro italiano della “Belle Èpoque”. Saggi e studi, Fi-
renze: Leo S. Olschki Editore, 1972, pgg.287/291.
363 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg.238.
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compagnia, centrate sulla irresistibile comicità di Claudio Leigheb. Ma il rimescolamento annunciato deve attuarsi. Il Marini ha l’intuizione di scritturare la diciottenne Tina di Lorenzo (1872-1930), padre marchese decaduto e madre teatrante modesta, che presto diventerà una stella del teatro italiano; ma un altro capocomico offre di pagare dodicimila lire di penale per accaparrarsi la giovane e Marini, avido, accetta. In realtà ha in serbo un colpo più eclatante: si assicura l’ingresso in compagnia di Ermete Zacconi (1857-1948), che accanto a Virginia compirà definitivamente il salto verso l’olimpo dei grandi attori. Con lui il bravo comico-promiscuo Oreste Calabresi (1857-1915) e l’attore-autore Libero Pilotto (1854-1900). Il rapporto di lavoro con giovani primattrici come la Guglielmetti e l’Aliprandi dà occasione a Virginia per dichiarare che rimane prima donna ma non più “assoluta”, che vuole quindi cimentarsi anche in altro ruolo, e all’epoca non poteva che trattarsi di quello di “madre”364. Il secondo triennio dell’impresa Marini nasceva così, con premesse a metà ottime e a metà preoccupanti. La prima volta da “madre” è al Valle di Roma, nel settembre 1891, con L’ostacolo di Daudet, del quale viene rappresentato anche La lotta per la vita; per Zacconi, che i cronisti chiamano “lo Zaccone” ci sono ovazioni. La compagnia passa all’Alfieri di Torino, dove Virginia ripropone con successo Messalina e Cuore ed Arte. La ditta Marini replica più volte L’anguilla di Bisson con pubblico entusiasta e propone Termidoro di Victorien Sardou tradotto da Vittorio Bersezio; il celeberrimo autore scrive, da Parigi, un telegramma di complimenti a tutti365. Nel 1892 l’ottimo Jarro scrive una lunga riflessione su un nuovo periodo di Virginia che ancora nessuno immagina si chiuda di lì a breve. È un peana alla maturità femminile. «La parte di madre è troppo sprezzata nelle nostre Compagnie; non è bene intesa nel Repertorio. Certe attrici sfuggono tali parti a tutto potere: non si comprende, o sembra che non si comprenda, che vi sono parti di madri, le quali, oltre l’abilità artistica, ricercano la grazia, la seduzione, l’eleganza. Virginia Marini è oggi attraentissima, squisitamente simpatica, perfetta in quelle parti di madre, per le quali ci vuole un’attrice che allo spettatore rappresenti una donna capace d’ispirar le passioni e che le ispiri, ma, nel tempo stesso, sappia con dolcezza guidarle e frenarle. Su la scena Virginia Marini ha poi quella vera, amabil bellezza che orna certe donne nella loro seconda e florida gioventù. Le attrici hanno l’età che dimostrano su la scena. E Virginia Marini compa364 Cfr. “Gazzetta piemontese”, 16.08 e 28.10.1890 [ALST]. 365 Cfr. “Gazzetta piemontese”, 24.10.1891 [ALST].
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risce agli occhi dello spettatore la donna fra i trenta e i quaranta anni [mentre Jarro scrive lei ne ha cinquanta], ideale d’alcuni romanzieri nella prima metà del secolo, il frutto maturo e saporoso, e pur tutto splendente di luce come un’aurora, talvolta di colori più accesi, più varii dell’aurora, soffuso d’una certa malinconia poetica, che aggiunge valore alle sue ricchezze: al punto della vita in cui certe promesse della prima, incerta età divengono a dirittura magnificenze: e la donna avvenente acquista un dolce, ineffabil mistero, che tutti sarebbero ansiosi di scoprire, o di penetrare. Virginia Marini ha due occhi, che parlano e vanno al cuore degli spettatori prima della sua voce sonante, armoniosa; una vera voce d’oro, e che sempre piacque e piace tanto per la misura d’affetto, che vi è trasfusa. Agli artisti drammatici, che studiano, l’età reca nuove perfezioni: ben inteso in un certo limite, quando i difetti fisici non li rendano incomportabili nell’aspetto e nella pronunzia; e pur che si attengano alle parti ad essi confacenti. In ispecie, come dicitori, gli attori han sempre da affinarsi. E nella dizione di Virginia Marini, ad esempio, ci sembra riscontrar nuove squisitezze: una maggiore fusione dei varii tuoni, una miglior contemperatezza di opposti effetti»366. Questo inno, ancorché celebrativo, ci fa pensare che la decisione di Virginia di abbandonare non derivi affatto dalla sensazione di una decadenza dei suoi mezzi espressivi, bensì dalla consapevolezza che tali mezzi non sono comunque più adeguati ai tempi, cioè possono catturare un sincero apprezzamento da parte del pubblico ma non ne provocano più quell’entusiasmo che a sua volta crea e mantiene l’eccellenza e la fama dell’artista. Jarro scrive nel dicembre 1892; nello stesso anno Virginia aveva deciso di sperimentarsi in un ruolo di “madre-primadonna” che era una soluzione persino “naturale”, se supportata adeguatamente dalla drammaturgia; ma nel caso specifico si scontrò, come si vedrà di seguito, con le permanenti rigidità del grandattorismo. Sarebbe stato significativo avviarsi verso parti “minori” ma caratterizzanti, meno ponderose nella quantità di battute ma ricche di potenziale presenza scenica; sarebbe stato altresì originale rispetto alla tendenza delle primattrici sue contemporanee di interpretare tutta la vita protagoniste giovanili, sensuali (a costo di esplicitare la loro decadenza). Ma entrambe le scelte non convinsero Virginia, che d’altronde era impermeabile, come già si è detto, alla messa in discussione dei ruoli che in quegli anni si manifestava da più parti e a cui le stesse considerazioni di Jarro sembrano fare indiretto riferimento. Forse la prudente, schiva Virginia pensò che era meglio farsi ricordare artisticamente dagli ammiratori più fedeli così “com’era”. 366 JARRO 1893, pgg. 49/50.
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Ma ancora nello scritto del 1892, nonostante non ci sia alcun avvenimento o annuncio da cogliere, Jarro vuole dipingere un ritratto completo di Virginia, fermandosi sul rapporto fra immedesimazione e tecnica. «Per quindici anni [Jarro parte dall’ingresso di Virginia nella compagnia Bellotti-Bon, 1876-77, e cita il ritorno trionfale, con questa compagnia, ad Alessandria nel 1877], ha recitato tutte le sere; e a volte, interpretando in un anno più di venti commedie nuove, e avendo appena un riposo per settimana. Immaginate la vita che ha condotto questa attrice, perché le recite sono un nulla, rispetto alla fatica dello studio e delle prove. Virginia Marini ebbe sempre l’abitudine, non pur di studiare la sua parte in un lavoro, ma di studiarvi tutte le parti. In certi lavori recita facendo tacere il suggeritore. I quadernetti delle sue parti son tutti pieni di geroglifici: delle sue osservazioni, de’ suoi appunti. Ecco perché non li ha mai voluti restituire a’ capocomici, quando era nelle compagnie non sue! Essa recita, sentendo quello che dice, concitata intimamente dalla situazione. In tal modo le vengono talvolta effetti inaspettati. Mentre recitava testé l’Ostacolo del Daudet [un ruolo di madre nobile], in una scena col figlio, eccitata dalla sua commozione, trovò un effetto vero, bellissimo, che le procurò molti applausi. Essa aveva veramente le lacrime agli occhi e i singhiozzi nella gola [l’estremo opposto delle teorie di Diderot!]. Questo modo di recitare non può però esser accettato come regola generale da chi mira appunto alla verità, all’effetto. Sta bene che l’attore senta, ma deve essere padrone della sua commozione, deve saperla dominare con l’arte e a’ fini dell’arte. Invece di commuovere il pubblico, si può giungere al grottesco: scopo dell’attore non è soltanto il sentire, ma il rimaner sì padrone di sé, de’ mezzi dell’arte, da trovar la giusta espressione per far sentire agli altri! Virginia Marini lo sa meglio di me. Una volta ha studiato per settimane un solo grido, che voleva facesse, in una certa situazione, Tommaso Salvini: e, alla fine, v’è riuscita. Sicché non basta la commozione per essere commoventi, ci vuole l’arte. C’è in Virginia Marini un non so che di familiarmente buono, affettuoso, semplice, ed essa non è mai riuscita, neppur con la molta arte, con l’artificio, a vincere, in questo, la sua natura. In certe scene della Signora delle camelie, ad esempio, essa fu sempre una buona donnina da casa, e sembrava parlar di cose che non capiva, o che le facevano troppo dispiacere. In certe parti Virginia Marini è oggi unica»367. Il 22 febbraio 1892 è una data importante per Virginia. Al Manzoni di Milano, nell’ambito di una sua beneficiata presenta, in prima italiana, 367 JARRO 1893, pgg. 61/63.
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Spettri di Henrik Ibsen nei panni della vedova Alving madre (“madreprimadonna”) di Osvald, interpretato da Zacconi. È un “successo entusiastico” per alcuni, per altri meno. Il critico Giovanni Pozza commenta così: «Gli Spettri furono applauditi, ma non hanno divertito che i pochi. In essi infatti mancano il riso, l’effetto e quelle forme convenzionali che dispensano il pubblico da ogni fatica del pensiero. Il pensare a teatro non sembra essere un piacere pari almeno a quello del digerire. E se così è davvero, è probabile che abbia ragione quel critico che, pur ammirando gli Spettri, predisse ieri l’imminente esilio dalle scene del teatro di Ibsen. Ma io non credo che così sia. Poiché il teatro di Ibsen è logico, è vero, è originale, la vittoria in questa battaglia che combatte contro le abitudini e le impazienze del pubblico, non gli può mancare. Il pranzo ed il riso non ebbero sempre l’odierna importanza nei destini dell’arte drammatica. Che se anche il teatro di Ibsen dovesse essere presto ripudiato dai nostri attori, che lo trovano troppo difficile, e dai nostri pubblici, che lo trovano troppo faticoso, esso non cesserà per questo di essere l’opera drammatica più poderosa ne’ suoi risultati e più feconda di effetti che la seconda metà del nostro secolo abbia avuto»368. “L’arte drammatica” del 27 febbraio 1892 scrive: «Di fronte a un simile lavoro l’esecuzione viene necessariamente in seconda linea, gli artisti rimangono fatalmente nell’ombra. L’esecuzione che ne fece la compagnia Marini non fu certamente perfetta ma lodevole. Bisogna però considerare che i nostri attori non sono avvezzi a questo genere di lavori. Però la signora Marini e il Pilotto vi posero ogni cura. Lo Zacconi, se aveva, a dire il vero, tra le principali la parte meno difficile, la rappresentò in modo inappuntabile»369. È una critica un po’ furbetta. La traduzione-riduzione di Spettri, voluta da Zacconi, è di Enrico Polese, direttore (perché figlio del fondatore Icilio) della stessa “L’arte drammatica” e dell’annessa, potente agenzia, nella cui scuderia è allevato il giovane Zacconi. Questo evento chiarisce chi è il vero direttore artistico della compagnia dei Marini, i quali sono attenti e coraggiosi ma si trovano di fronte a relazioni e ad abilità più forti delle loro; anche questi sono certamente per Virginia motivi di riflessioni amare. Ibsen è un fatto internazionale dirompente, e il “mercato dei copioni” si agita. Enrico Polese si è accaparrato la traduzione (dal tedesco) delle prime opere edite di Ibsen, e impianta un’operazione tipicamente commercial-grandattorica. Tradurre significa adattare alle esigenze di marketing370. «Polese taglia 368 FERRONE 1979, tomo III, pg. 402. 369 CIOTTI 1978, pg. 151. 370 Le successive citazioni sono da SORBA 2004, pgg. 203/208. Sull’argomento si veda anche
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e aggiusta, ma cerca anche di supplire all’oscurità e allusività dei testi ibseniani; il termine “oscurità”, peraltro, è ormai associato quasi automaticamente a Ibsen e al suo teatro, e spesso, in virtù di tale “oscurità” quasi ovunque, in modalità differenti per ciascun “campo letterario nazionale”, Ibsen veniva esplicitato, ma anche riletto e riadattato». La critica italiana propende a considerare la vecchia Alving il centro del dramma, ma Polese ha il suo cavallino da far correre, e allora si focalizza «sulla malattia di Osvald (forse sifilide) che lo porta alla pazzia. La protagonista non c’è più, sostituita dal figlio e dal suo male». Polese «rivendica il diritto di tradurre reinterpretando, allo scopo di soddisfare le esigenze di un pubblico abituato a ben altro repertorio. [Il suo] è senza dubbio il lavoro di un abile mestierante della drammaturgia, che conosce il pubblico, che ha il controllo sul reclutamento degli attori e che spesso svolge, in modo indiretto, il ruolo di impresario». «Il binomio fra traduttore-agente e grande attore fa sì che le modifiche sulla traduzione giungano fino al copione [essendo] la traduzione stessa costruita ad arte per l’attore. E Zacconi è convinto di dover esercitare un ruolo nei confronti del pubblico ed è certo che l’arte possieda una funzione etico-sociale; sanzionare la sifilide, l’adulterio mercenario, lasciare intuire un pentimento finale». I meriti dei Marini si riducono all’apertura di lei verso un repertorio innovativo e all’assunzione da parte di lui del relativo rischio d’impresa. Zacconi, dunque, negli anni successivi farà di Osvald il protagonista assoluto, dandone una versione realistico-patologica che persino illustri clinici giudicheranno straordinaria; tuttavia per il debutto del 1892 non può comprimere più di tanto la presenza della vedova Alving perché Virginia non si sarebbe «accontentata di una piccola parte»371. Inoltre al Manzoni di Milano Virginia era una istituzione. Vi recitò molte volte, fino al 1894, graditissima al pubblico, capace di salvare una commedia pericolante con una di quelle invenzioni d’una recitazione che “spesso dissimulava la maniera o la declamazione”. Attrice “più efficacemente artificiosa che sincera”, ogni sera entusiasmava il pubblico. Nonostante i moralismi inflitti dall’attrice al personaggio, di cui si è parlato fin dalle prime pagine, in chiusura di Frine del Castelvecchio, nel 1877, Virginia, evidentemente per inderogabili esigenze di copione, lasciava “intravedere la bellezza delle proprie forme”372. Sono notizie e opinioni che derivano dalla storia del teALONGE Roberto, “Spettri”, Zacconi e un agente tuttofare, traduttore, adattatore (e anche un poco drammaturgo), in TINTERRI 1990, pgg. 371 LIVIO 1989, pg. 84. 372 Cfr. MEZZANOTTE 1953.
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atro Manzoni di Milano del critico-drammaturgo Renato Simoni; possono sembrare spiazzanti; sono state scritte nel 1953 e quindi, semplicemente non possono avere i colori retorici e le tendenze agiografiche di tante “onoranze”; tuttavia mi sembrano importanti per il profilo generale di Virginia. I coniugi Marini forse avvertono che i cavalli di battaglia della carriera di Virginia, da una parte, e le novità più o meno esilaranti d’oltralpe, dall’altra, non bastano a garantire il futuro della loro impresa. È inoltre probabile che nel secondo triennio Zacconi abbia assunto, di fatto se non di nome, la direzione artistica della compagnia. La sensibilità di Virginia la conduce ad affrontare Ibsen, e ciò è merito davvero non da poco; tuttavia l’impatto con una drammaturgia ancora “borghese” ma in chiave pre-psicoanalitica373, aumenta il dubbio (già impadronitosi di lei) di non riuscire a tenere il passo dei tempi. Cambiano i modi di scrivere per il teatro e cambiano i modi di recitare, non sapendo quale cambiamento abbia influenzato l’altro. Qualcuno arriva a minare il fondamento artistico-organizzativo della compagnia ottocentesca, cioè a sostenere la necessità di superare la secolare regola dei ruoli, che «hanno fatto ormai il loro tempo. Le classificazioni cui davano luogo fra gli attori, erano così rigide, così disformi dall’indole della compagnia moderna, così nemiche, anzi, ad ogni spontaneo progresso di questa, che ormai una voce doveva sorgere a condannarle, ed una forte coscienza d’artista doveva, spezzando i legami degli antichi convenzionalismi, aprire la via ad un razionale ordinamento delle nostre Compagnie drammatiche. Così i commediografi, nel pensare una commedia, non dovranno distillarsi il cervello nell’idea che nella Compagnia A o B, cui essa è destinata, il tale o tal altro personaggio non troverebbe interpreti, sicché bisogna sacrificarlo o travisarlo. Il che capita forse più spesso che non si creda: perché chi scrive un lavoro drammatico è tratto istintivamente, pel desiderio di una migliore interpretazione, ad acconciare i suoi tipi alle attitudini dei suoi interpreti, e così a modificare quasi inconsciamente le sue creazioni psicologiche»374. In realtà i ruoli sono tutt’altro che moribondi, e continueranno a caratterizzare il teatro italiano nel primo Novecento, come Sergio Tofano ci testimonia con il suo già citato, impagabile libro di ricordi. D’altronde, Virginia continuerà ad insegnarli nella sua scuola, e a raccomandare agli impresari i suoi allievi come promettenti “brillanti” o “promiscui”. È il percorso incongruo, in ritardo rispetto al contesto europeo, che il teatro 373 Freud pubblica L’interpretazione dei sogni fra il 1899 e il 1900. 374 “Gazzetta piemontese”, 05.09.1892 [ALST].
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italiano compie fino agli anni trenta (non dimenticando, beninteso, protagonisti del rinnovamento come Marinetti, Pirandello, Anton Giulio Bragaglia, Silvio D’Amico, altri). Ma già alla fine dell’Ottocento si avverte, da parte di artisti e di critici (si vedano, più avanti, le posizioni di Edoardo Boutet), che la supremazia degli autori stranieri non è più semplicemente sul piano commerciale, bensì su quello stilistico, e che la recitazione deve secondare i nuovi contenuti. Giacosa non è Ibsen e nemmeno Cechov; la Marini non è la Duse, e nemmeno la Bernhardt. Virginia è “ottocentesca”, e ne è consapevole; vive questa condizione come un limite professionale che può danneggiarla di fronte al giudice volatile e impietoso che è il pubblico. Sta decidendo, poco più che cinquantenne, di chiudere la carriera attiva arrendendosi a questo limite ma si appresta a difendere dignitosamente, insegnandolo, il suo “stile” come un patrimonio comunque utile al mestiere della scena. Quando Virginia, il 2 ottobre 1892, dedica una beneficiata alla sua ennesima Messalina, i complimenti a lei non si potranno sottrarre ad un confronto, amabile, proprio con quella Tina Di Lorenzo che il Marini non aveva voluto trattenere in compagnia. «Tutti sanno come Virginia Marini sia stata l’interprete prediletta a Pietro Cossa per i suoi drammi storici. Le figure scolpite nel saldo granito dei versi del poeta romano ricevono da lei una personificazione quale nessun’altra delle odierne attrici nostre sa dare. E noi, quindi, ci compiacciamo della rappresentazione di questa sera, come giorni or sono abbiamo salutato con parole di lode e di simpatia le prime prove di una giovane e pur valente attrice, la signorina Di Lorenzo, in un altro lavoro cossiano. Così due diverse scuole di recitazione si incontrano nel rendere un meritato tributo al potente evocatore di tempi e di personaggi ormai lontani nella storia»375. In ogni caso la coppia Marini-Zacconi non teme confronti e inanella successi. Passa l’ottobre 1892 all’Alfieri, presentando una novità di Gerolamo Rovetta, I disonesti, alla presenza dell’autore, molto apprezzata dal pubblico. Come al solito a Natale la compagnia resta a Torino ma si sposta al Gerbino. Qui, il 27 dicembre, mette in scena Spettri. La critica aggiunge un tratto esplicito, crudo, alla parabola di Virginia prima descritta. «Poche volte il pubblico torinese ha ricevuto in teatro l’impressione da cui fu dominato dall’intera serata di ieri. Fu il trionfo di un drammaturgo e il trionfo d’un attore. Non si potrebbe, certo, scindere la parte che ciascuno d’essi ha avuto nel meraviglioso risultato. Non sarebbe facile concepire, qui in Italia, gli Spettri sostenuti da altro attore che da Ermete Zacconi. 375 “Gazzetta piemontese”, 02.10.1892 [ALST].
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Virginia Marini fu una collaboratrice dello Zacconi come ella sola avrebbe potuto essere; la figura della signora Alving ebbe da lei un rilievo doloroso; le scene tra la madre e il figlio ne ebbero una efficacia grandissima. Qui non è il caso di discutere oltre il dramma dell’Ibsen, né il genere del filosofo norvegese, né l’influenza e la parte che potrebbe o dovrebbe avere nello svolgimento avvenire del teatro. Qui basta constatare un fatto: il trionfo del dramma – il trionfo dell’attore»376. Questa “parità” fra testo e interpretazione è un fatto epocale, ma si è visto che non corrisponde alla operazione di Zacconi; tanto è vero che Ibsen dichiara nel 1899: “Zacconi recita sotto il mio nome un dramma Spettri che non è mio”377. La “collaboratrice” Virginia non è perdente come può sembrare. Zacconi è acclamato per la scientificità positivistica con cui ha impersonato la decadenza cerebrale di Osvaldo. Ma il pubblico acclama anche Virginia, “miseranda figura di madre addolorata”, che ha avuto il coraggio non soltanto di cambiare ruolo ma di affrontare un personaggio di tale difficoltà, per lei non un “copione” ma un’opera “terribile”, “impressionante”. Camillo Antona-Traversi si spinge a dire: «Ibsen non poteva averla per interprete. Ella era una sognante dell’armonia, che si innalza e vola nelle platee; non poteva gemere e turbarsi negli angosciosi singulti delle anime complesse della vita d’oggi»378. Zacconi imporrà alla compagnia altri testi internazionali non di repertorio tradizionale: La potenza delle tenebre di Tolstoj, Pane altrui di Turgenev, Gringoire di Mirabeau, Anime solitarie di Hauptmann. Nell’autunno 1892, mentre recita a Torino, la regina Margherita, moglie di Umberto I, invita Virginia nel salotto di corte di Stupinigi. «Erano i tempi in cui nel real castello si succedevano convegni e trattenimenti a cui partecipavano i letterati e gli artisti più noti d’Italia, cui la Regina Margherita donava la sua protezione ed il suo incoraggiamento. Poeti e musicisti, attori ed attrici, cantanti e virtuosi d’ogni strumento, si succedevano nel salone del castello, producendosi nella loro arte, al cospetto della intellettuale regina, circondata da un gruppo di elettissime personalità, degne di essa e delle arti. La Marini volentieri accolse l’invito della Sovrana, presso la quale già più volte s’era trovata, e sulla breve pedana approntata nel salone disse con quell’arte in cui era maestra molte scene o brani di lavori interessanti e d’attualità. Dizioni perfette, vive di passione e di espressione, quasi come canti soavi e vibranti, declamazioni piene di misura e di squisito senso d’arte e 376 “Gazzetta piemontese”, 28.12.1892 [ALST]. 377 LIVIO 1989, pg. 84. 378 ANTONA-TRAVERSI 1929, pgg. 268/269.
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di verità. La regina Margherita dava, alla fine d’ogni brano cantato, il segno dell’applauso, schietto, caloroso, significativo. Dopo il trattenimento artistico la Regina Margherita volle che la Marini si fermasse al castello per il pranzo, durante il quale sedette a mensa di fronte alla Sovrana, che le rivolse mille domande interessanti il teatro, l’arte e le vicende dell’attrice la quale soddisfaceva le richieste dell’augusta interlocutrice con quella signorilità e distinzione che in Virginia Marini erano come una seconda natura. L’attrice parlava degli autori che aveva conosciuto personalmente, come Cossa e Dumas; narrava episodi ed aneddoti originali o curiosi, ricordava scene accadute… fuori di scena e quindi assai più interessanti di quelle viste dal pubblico. Fu un pomeriggio ed una serata scintillante di brio e di grazia, spumeggiante di spirito e di arguzia, contenuta ed espansiva sempre entro la dignità regale e la genialità intellettuale. Il signorile, squisito trattenimento si protrasse fino quasi alla mezzanotte; la Marini fu riportata a Torino da una vettura reale, cui facevano corteo e scorta d’onore le carrozze delle più elette dame dell’aristocrazia torinese. La Regina Margherita donò a Virginia Marini una ricca spilla con un medaglione contenente il suo ritratto circondato di brillanti: dono regale ed offerto con quella grazia e solennità, che lo rendevano anche più accetto, gradito e prezioso»379. Il 1893 inizia positivamente al Gerbino; la compagnia replica Spettri, fa la novità Madre di Donati, mescola sapientemente i drammi alle farse. Anche i comprimari Oreste Calabresi e Libero Pilotto ottengono grandi consensi. Ricorre il centenario della morte di Goldoni, sempre celebrato da Virginia con innumerevoli repliche de La serva amorosa, ma per l’occasione la coppia Marini-Zacconi si esibisce ne Gli innamorati. Si spegne l’amico Alemanno Morelli, in quella Scandicci che i coniugi Marini, raggiunto un certo benessere, avevano eletto come loro villeggiatura. Poco prima se n’era andata prematuramente la “rivale” Adelaide Tessero. Era ancora forte la memoria del suicidio di Bellotti-Bon. Dopo la scomparsa di Cossa, sono altri pezzi del mondo di Virginia che scompaiono. Mentre è in tournée a Trieste, muore improvvisamente Adelaide Sciarra, l’attrice figlia di primo letto del Marini che Virginia aveva sempre aiutato. Non solo, avvicinandosi la scadenza triennale la compagnia si sfalda. Mentre ancora non mancano i successi a questa formazione, Zacconi e Pilotto annunciano che dalla quaresima 1894 faranno compagnia per conto loro. Il Marini si trova costretto a vendere al monopolista Adolfo Re Riccardi tutte le commedie che aveva acquisito. 379 L.A., Ricordi torinesi di una grande attrice nel centenario della sua nascita. Virginia Marini a
Stupinigi, in “Stampa Sera”, 15.12.1942 [ALST].
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L’esperienza impresariale dei nostri coniugi si sta concludendo, travolta dalla crisi finanziaria di lui e dalla crisi artistica di lei. Virginia non si sente di scegliere una delle alternative che, al momento del congedo dall’Ottocento, le si prospettano: non riesce ad abbracciare totalmente il trionfo del verismo; non ha gli stimoli intellettuali per una recitazione poetico-astratta; non può umanamente inserirsi nella leggerezza della belle époque. Persino la “voce”, la sua carta vincente, sta perdendo la propria centralità; tutti raccomandano di “recitare come si parla”, e la nostra Virginia è fiera di aver duramente imparato a parlare come si recita. Decide che questo è il tesoro lasciatole dalla sua carriera, e che sarà bello trasmetterlo ad altri. Nel 1894, a cinquantadue anni, rinuncia definitivamente al ruolo di primadonna; forse, al di là dei motivi più profondi, non regge più il confronto con giovani brave e aggressive, come un’Italia Vitaliani, che pure non sono così “nuove” rispetto a lei, anzi: devono molto al suo indiretto magistero. Viene scritturata come “madre nobile” nella compagnia di Francesco Garzes (1848-1895), amoroso-brillante, cagionevole di salute e soprattutto di umore; invaghitosi del sogno impresariale di Luigi Bellotti-Bon, tenta di emularlo fondando una compagnia moderna e raffinata, piena di grossi nomi (ecco la scrittura di Virginia), senza badare a spese: «scene nuove, abolito il suggeritore, attrezzi veri, mobili antichi, nuove combinazioni di illuminazione, allogate agli autori italiani le meglio commedie»380. Il fallimento economico è inevitabile; Garzes si suicida come il suo maestro Bellotti-Bon, con un colpo di rivoltella al cuore, in una locanda di Chioggia. È l’ultimo dolore per Virginia. Nel giugno 1894 aveva annunciato al periodico “Arte drammatica” di voler lasciare le scene. Nello stesso momento il ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli le prospetta la possibilità di insegnare arte scenica applicata al canto agli allievi del Liceo Musicale di Santa Cecilia in Roma, creando la cattedra apposta per lei: “maestra di declamazione”. Non sono numerosi i gesti di rammarico per la sua rinuncia al palcoscenico. Antonio Fogazzaro le scrive una “lettera affettuosissima”. Le cronache parlano di “dispiacere per l’arte” e sostengono che Virginia stia scrivendo un dramma dal significativo titolo Vita ingannatrice381 (cosa di cui non si ha traccia). Rientra a Roma, che diventerà la sua residenza definitiva attraverso traslochi in abitazioni sempre più modeste. 380 COSTETTI 1901, pg. 454. 381 “Gazzetta piemontese”, 03.11.1894 [ALST].
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Virginia Marini come Direttrice dell’Accademia Santa Cecilia in Roma
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III.4 Maestra (1894-1918)
L’istituzione romana di Santa Cecilia ha una storia secolare e di prestigio internazionale. Risale al 1566, quando Giovanni Pierluigi da Palestrina raccoglie in corpo morale un gruppo di maestri di cappella “sotto l’invocazione” di Santa Cecilia, «vergine e martire che a partire dal tardo medioevo si era progressivamente sostituita a Davide nel ruolo di patrona della musica»382. Dopo secoli di attività rigorosamente pontificia, a tutela dei canoni della musica sacra, dal 1830 comincia l’emancipazione dall’autorità ecclesiastica e la riforma degli scopi statutari, stimolata ma travolta dai fatti del ’48, rallentata dal conservatorismo vaticano, e infine promossa dall’avvento dello Stato unitario, che favorisce la trasformazione in Regia Accademia avvenuta con sovrano decreto n°2202 del 17 ottobre 1874. L’obiettivo dell’istruzione musicale, a lungo preparato, trova la sua concretizzazione il 13 marzo 1877, quando l’Accademia inaugura le lezioni del Liceo Musicale con un concerto alla presenza dei Principi di Piemonte383, anche grazie ai sussidi finalmente ottenuti dal Governo, dalla Provincia e dal Comune. Nel 1881 diventa Ministro della Pubblica Istruzione un illustre socio della Accademia, Guido Baccelli, affermato chirurgo ed eminente uomo politico. Un solerte docente di pianoforte, Giovanni Sgambati, propone che nei programmi venga inserito l’insegnamento di recitazione per i cantanti, sull’esempio del Conservatoire di 382 BINI Annalisa, Le origini della Scuola Nazionale di Cinematografia e dell’Accademia d’Arte
Drammatica presso l’Accademia di Santa Cecilia, in “Bianco&Nero”, n°560, 01/2008, Carocci Editore, Roma, pg.106 [ANSC]. 383 BINI Annalisa (a cura di), Enrico di San Martino e la cultura musicale europea. Atti del convegno di studi. Roma, 11-13 maggio 2009, Roma: Accademia nazionale di Santa Cecilia – Fondazione, 2012, pg.527.
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Parigi. Il Presidente dell’Accademia aggiunge questa richiesta alle tante che rivolge al Ministro. Certo, la tradizione autonomistica dell’Accademia non agevolava i suoi tentativi di dialogare con la neonata amministrazione del Regno. Nel 1886 viene varato il primo statuto del Liceo, anche come gesto di avvicinamento alle strutture organizzative degli altri conservatorï nazionali. In tale statuto vengono inseriti nuovi insegnamenti fra cui “declamazione e gesto” e “letteratura poetica e drammatica”; è possibile che già nel 1888 il primo fosse stato affidato a Virginia, che allora aveva residenza a Roma in via Veneto 51. In ogni caso nel 1894 si fa il primo passo attraverso decreto. «Umberto I, per grazia di Dio, e per volontà della nazione re d’Italia. Veduto il nostro Decreto in data d’oggi col quale è aggiunto nel ruolo organico del Liceo musicale di Santa Cecilia in Roma un posto di Direttrice per l’insegnamento dell’arte scenica; sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per la pubblica istruzione; abbiamo decretato e decretiamo: Marini Virginia è nominata Direttrice per l’insegnamento dell’arte scenica nel Liceo musicale di Santa Cecilia in Roma con l’annuo stipendio di lire quattromila384 a far tempo dal 1° luglio 1894»385. Il 1895 è l’anno della svolta. Viene costruita una sala da concerto con il “generoso concorso” di S.M. la Regina Margherita. L’Accademia decide di documentare la propria storia e il proprio lavoro attraverso la pubblicazione di annuari. Il primo va, eccezionalmente, dal 1° gennaio 1895 al 30 giugno 1896, anche se l’anno accademico si svolgerà sempre “stagionalmente”, cioè dal 1° luglio al 30 giugno successivo. Nel dicembre diventa Presidente il conte Enrico di San Martino e Valperga386, senatore del Regno, che manterrà con grande capacità questa carica per decenni. Pochi mesi prima il Ministro Baccelli era personalmente intervenuto per sviluppare -come d’altronde a molti sembrava “naturale”- l’insegnamento di arte scenica per i cantanti in una vera scuola di arte drammatica, indicandone Virginia come la perfetta direttrice. Virginia si dedicò scrupolosamente anche ai cantanti lirici, assumendosi l’impresa di farli consapevoli di come la recitazione possa integrare positivamente la loro arte vocale. In occasione delle feste per il cinquantenario dell’unità nazionale (1911), al cui programma romano 384 Se la si paragona a paghe citate in precedenza, si può capire l’esiguità di tale somma sen-
za ricorrere a dubbie attualizzazioni monetarie.
385 SCAGLIA 1929, pg. 38. 386 Cfr. BINI Annalisa (a cura di), Enrico di San Martino e la cultura musicale europea. Atti del con-
vegno di studi. Roma, 11-13 maggio 2009, Roma: Accademia nazionale di Santa Cecilia – Fondazione, 2012.
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sovrintendeva il conte di San Martino, Virginia farà parte del comitato unico per la sezione Musica e Drammatica387. L’Accademia accetta entusiasticamente l’idea del Ministro, come documenta la lettera del 22 giugno 1895: «A S.E. il Prof. Comm. Guido Baccelli, Ministro della Istruzione Pubblica, Roma. Adempio ad un incarico dei più lieti col partecipare alla E.V. come nella sua tornata del 14 corr. la Assemblea Generale dei Soci di questa Regia Accademia abbia deliberato che fosse significata alla E.V. la riconoscenza di tutti gli Accademici per la illuminata scelta della illustre artista Sig.ra Virginia Marini a capo della scuola di Declamazione di cui fu di recente arricchito il Liceo Musicale. I risultati che già si constatano danno a vedere di quanto possa avvantaggiarsene la educazione artistica dei giovani che si destinano alla scena»388. Nell’atto stesso della sua nomina a Presidente, il conte di San Martino dichiara: «Il Liceo musicale vide attuata la riforma dell’intero regolamento, reso ora più omogeneo e più consono ai suoi scopi didattici e amministrativi, ed aumentato il numero della cattedre colla nomina di una illustre artista ad insegnante di declamazione [Virginia], nomina dovuta alla benevolenza del Governo e che speriamo non sia che il primo passo verso l’impianto di una vera e propria scuola di arte drammatica, che verrebbe a colmare una mancanza deplorevole in Roma e completerebbe mirabilmente il quadro dei nostri insegnamenti, dando maggior lustro ed importanza all’Istituto»389. In quel momento la direzione dell’arte scenica ha ben tre insegnanti, coordinati da Virginia, che a sua volta è operativa in qualità di Maestra primaria: Angelo Gattinelli (18581941)390, Maestro secondario, Laura Dondini (n.1848)391 e Alessandro Meschini, Maestri aggiunti. A loro si affiancherà, con l’incarico di Maestro primario, Luigi Biagi, attore e autore già citato, celebre per 387 Ib., pgg. 195 sgg. 388 Cfr. Archivio di Santa Cecilia, Scuola di Recitazione – posizione n°32, fascicolo anno 1895
[ANSC].
389 BINI Annalisa, Le origini della Scuola Nazionale di Cinematografia e dell’Accademia d’Arte
Drammatica presso l’Accademia di Santa Cecilia, in “Bianco&Nero”, n°560, 01/2008, Carocci Editore, Roma, pg.110 [ANSC]. 390 Appartenente ad una illustre famiglia d’arte, aveva lavorato con i coniugi Marini in varie compagnie. Era cognato di Virginia avendone sposato la sorella Annetta nel 1880. 391 Anche lei figlia d’arte, studia recitazione e canto, ma finisce per scoprirsi la vocazione all’insegnamento. È cugina di quel Cesare (Cesarino) Dondini che nel 1920 commemora Virginia ad Alessandria [cfr. I.3.] e che succederà ad Angelo Gattinelli nella direzione della Scuola di Santa Cecilia.
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la sua interpretazione del Nerone del Cossa. Biagi, come Virginia, aveva deciso di lasciare il palcoscenico per consacrarsi all’insegnamento. In una dispensa per gli studenti del 1898, rintracciabile presso l’Archivio informatizzato di Santa Cecilia, traccia -con la solita metafora monarchica cara all’epoca- una genealogia artistica delle attrici che “tennero lo scettro” del teatro e delle loro principali “dame di corte” nel secolo che va dal 1796 al 1896. Il primo “regno” è attribuito ad Anna Fiorilli Pellandi; il secondo a Carlotta Marchionni, affiancata da Carolina Internari, Maddalena Pelzet, Amalia Bettini. Nel terzo (collocato precisamente “a metà secolo”) la regina è in realtà una “imperatrice”: Adelaide Ristori; fra le sue nobildonne più amate Clementina Cazzola e Fanny Sadowski. Per il quarto regno Biagi conferma la sovranità della triade su cui tutti sono d’accordo: Marini, Pezzana, Tessero (e Pia Marchi loro degna ancella) e dice che esse regnarono dal 1864, “all’epoca delle Compagnie Bellotti-Bon e Morelli”. Superfluo indicare l’imperatrice “moderna”: la Duse; le sue dame rappresentano, dietro di lei, il passaggio nel Novecento: Tina di Lorenzo, Virginia Reiter, Italia Vitaliani. Sulla solida base di un gruppo di esperti insegnanti, il sospirato obiettivo viene conquistato rapidamente. Nel luglio 1896 la scuola di recitazione è cosa fatta. Virginia assume la direzione di quella che può essere considerata la maggiore scuola nazionale di arte drammatica a carattere istituzionale (nel 1911 riceverà lo status di scuola pubblica). È un episodio importante nella storia del teatro italiano. In un saggio del 1895 Ferdinando Martini392 traccia una cronaca interessante. Quando il neonato regno unitario abolì ogni sovvenzione al teatro, si pensò che la mano pubblica dovesse sostenere comunque gli autori teatrali ma anche l’insegnamento della recitazione. Già nel ’62 il primo ministro “italiano”, barone Ricasoli, istituisce premi per i drammaturghi e incentiva la tradizione della sua Toscana, dove Antonio Morrocchesi (interprete alfieriano autore, nel 1832, di un celebre manuale per attori393) era stato nominato dal Granducato docente di declamazione alla Accademia delle Belle Arti di Firenze. La Firenze del Gabinetto Viesseux, forse aspirando già al futuro ruolo di capitale unitaria idealmente fondato sull’indiscusso ruolo di madre della lingua nazionale, riprende l’idea di scuola, non limitandola alla recitazione ma introducendo392 Cfr. MARTINI 1895. 393 Cfr. una sintesi in FERRONE 1979, tomo I, pgg. 210/224, oppure il testo originale in
MORROCCHESI 1991.
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la nel contesto formativo dei giovani e dei cittadini. «Ciò che importa insegnare è, imprima, il leggere a senso e pronunciar corretto; di poi, leggere con arte, e colorire la lettura secondo il testo. Questo è necessario per tutti. La parola, oggidì, è lo strumento sovrano indispensabile ad ogni pratica manifestazione della attività umana; e non solo all’oratore, al deputato, al giurista, ma a chiunque debba o voglia manifestare efficacemente il proprio pensiero. L’attore abbisogna altresì delle nozioni tecniche dell’arte sua, che non possono essergli date se non da un’artista provetto: il quale possa aggiunger alla bontà del precetto, la suggestione autorevole dello esempio394». Queste parole del Costetti potrebbero essere il vademecum di Virginia “maestra”. La scuola di Firenze fu fondata in questi termini e diretta da Filippo Berti395, che trovò sovventori privati, fra i quali Adelaide Ristori, e una sede adeguata, il teatrino della Accademia Filodrammatica dei Fidenti. Questa iniziativa dura a lungo; mentre il Martini scrive, la dirige -dal 1882 fino ai primi del Novecento- Luigi Rasi (l’autore del famoso dizionario dei comici396). È l’unica scuola “governativa”, cioè sovvenzionata dal Regno, mentre per la penisola è sparsa una pletora di scuole private, fondate da attori grandi e piccoli. Un merito da non sottovalutare va accreditato agli scritti vari e in particolare alle memorie, ai “ricordi” dei grandattori, in cui volutamente distribuiscono un patrimonio di esperienze e di consigli. Chi, fra loro, ha maggiore vocazione didattica va oltre: si pensi al Prontuario delle pose sceniche (1854) di Alamanno Morelli397. Il Martini la pensa a modo suo: i grandattori non sono andati a scuola di recitazione, hanno fatto tesoro dell’apprendistato di bottega. La recitazione “classica” del Morrocchesi in realtà insegnava a “contraffare”, era tutta “pose” accademiche: c’era da esprimere il dubbio? si spingeva avanti la gamba destra, e si metteva il polpastrello dell’indice i mezzo alla fronte. I grandattori hanno sconfitto il convenzionalismo con la loro sublime naturalezza. È una questione di talento; le scuole, così come le compagnie “stabili”, sono conservatrici per natura. Il Martini non ha del tutto torto, ma per l’evoluzione del teatro moderno, alle soglie del Novecento, non guasta codificare un percorso: una scuola “pubblica”, con un progetto didattico delineato. È in realtà lo stesso Martini a sottolineare la necessità di aggiungere doti culturali a quelle 394 COSTETTI 1901, pg. 226/227. 395 Cfr. Filippo Berti: progetto per una società d’incoraggiamento e di perfezionamento dell’arte tea-
trale (1850), in FERRONE 1979, tomo II, pgg. 467/469.
396 Sul Rasi cfr. CAUDA 1920, pgg. 159/164. 397 In FERRONE 1979, tomo II, pgg. 454/458.
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naturali. «Tale è la triste sorte delle attrici italiane; sbalestrate tutti i mesi da un capo all’altro della penisola, costrette a passare la maggior parte della giornata fra le quinte, a provare ogni mattina per recitare ogni sera, vedendo e studiando il mondo nel tragitto tra la casa e il teatro, imparando la lingua nella traduzione de’ suggeritori, il vivere civile ne’ pettegolezzi de’ camerini, se manca loro il tempo della meditata interpretazione de’ caratteri che hanno da raffigurare, come è possibile provvedano all’acquisto della cultura e alla educazione della mente?»398. Sarah Bernhardt è considerata un raro caso di attrice colta. Gli attori devono guardare ai musicisti e ai danzatori, che non possono fare a meno di una formazione specifica. Santa Cecilia è la culla ideale per un tale progetto. L’accademia d’arte drammatica creata da Silvio D’Amico negli anni Trenta del Novecento, la cui fondamentale opera di rinnovamento si compie nel secondo dopoguerra, non sarebbe stata la stessa senza la spinta soprattutto “istituzionale” che la Scuola di Virginia aveva dato quarant’anni prima. Arriva la fondazione formale. «Umberto I, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia. Veduto il nostro decreto in data d’oggi, col quale sono approvati il Regolamento e il Ruolo Organico per la Scuola di Recitazione annessa al Liceo Musicale di Santa Cecilia in Roma; veduto il nostro decreto 1° luglio 1894 col quale Virginia Marini fu nominata Direttrice per l’insegnamento dell’arte scenica nel Liceo medesimo; sulla proposta del nostro Ministro di Stato per la pubblica istruzione; abbiamo decretato e decretiamo: Virginia Marini, Direttrice per l’arte scenica nel Liceo Musicale di Santa Cecilia in Roma, , è nominata invece Direttrice e maestra primaria nella Scuola di Recitazione annessa al Liceo medesimo, con l’annuo stipendio di lire quattromila a decorrere dal 1° luglio 1896»399. Nello stesso giorno, dunque, era stato firmato il regolamento della scuola di recitazione, in cui si legge: «La Scuola di recitazione, annessa al Liceo musicale di Santa Cecilia in Roma, ha per fine l’insegnamento teorico-pratico dell’arte drammatica. La Scuola ha: una Direttrice e Maestra primaria, un Maestro primario, un Maestro secondario, un Maestro aggiunto ed una Maestra aggiunta. Alla Direttrice è affidato l’indirizzo artistico e didattico della Scuola. Ella risponde dello svolgimento del programma degli studi, stabilisce gli orari, sceglie il reper398 MARTINI 1895, pg. 249. 399 SCAGLIA 1929, pg. 39.
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torio e dirige le prove e gli esperimenti400. La durata normale dell’insegnamento sarà di tre anni. Le lezioni saranno quotidiane esclusi i giorni festivi, secondo il calendario scolastico. Gli esperimenti saranno quattro all’anno. Alla fine di ogni anno sarà dato un saggio pubblico e solenne con invito delle autorità. Del conferimento del diploma di licenza giudicherà una Commissione composta della Direttrice e degli insegnanti della Scuola e presieduta dal Presidente dell’Accademia»401. Virginia manteneva altresì il compito di inserire nei corsi della Scuola, e di seguire direttamente, gli allievi “destinati all’arte lirica” ovvero i cantanti, per l’esame finale dei quali si aggiungeva il Direttore del Liceo. Dopo alcuni anni sarà la fedele Laura Dondini a subentrare nella cattedra di “Arte Scenica applicata al Canto per gli alunni del Liceo musicale”. Lo stesso conte di San Martino sottolinea gli aspetti metodologici della Scuola. «Nei saggi preparatori [i suddetti “esperimenti”] ogni alunno tempra il proprio carattere alla prova del pubblico, fornisce ai suoi futuri esaminatori preziosi elementi di giudizio, superiori alla inevitabile alea di un breve esame, acquista la padronanza graduale dei propri mezzi, subisce un allenamento eccellente per le future battaglie. I saggi finali, poi, organizzati cogli elementi che hanno primeggiato in quelli preparatori, sono un ambìto premio ai migliori, un potente sprone ad una sana emulazione ed in pari tempo un serio controllo per gli insegnanti, una dimostrazione aperta degli sforzi fatti, dei risultati ottenuti. La scuola è fatta per la massa, non per l’eccezione, deve rivolgere i suoi sforzi agli individui normali, non agli esseri superiori, ha per vero scopo la diffusione e la graduale elevazione della cultura media»402. È interessante come Luigi Biagi, “vice” di Virginia, nella citata dispensa per gli allievi datata 22 maggio 1898, travasi i criteri riassunti dal Presidente in una sorta di manifesto della filosofia didattica di quella che alcuni avevano già bollato come “vecchia scuola” attorica; una filosofia che Virginia, autodidatta che ora intraprendeva una lunga strada da maestra, aveva certamente fatto sua. «Se la provvidenza concede all’artista la sacra fiamma del genio, l’artista stesso non può limitarsi a questo gran dono che gli pervenne dal Cielo. Si troverebbe inceppato nella gloriosa carriera da ostacoli insormontabili, mentre se 400 Piccoli saggi, a porte chiuse o alla presenza di alcuni spettatori. 401 Annuario della Regia Accademia di Santa Cecilia 1896-1897, Tipografia della Pace, Roma,
1898, pgg.54/55 [ANSC].
402 Annuario della Regia Accademia di Santa Cecilia 1901-1903, Tipografia della Pace, Roma,
1904, pgg. 26/28 [ANSC].
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invece lo studio, la ponderazione, la coltura, l’analisi delle sensazioni completeranno quelle elargizioni sì preziose che avvicinano l’uomo all’infinito, avremo quel complesso armonico di sublimi requisiti ai quali è costretta a inchinarsi reverente l’umanità. Colui che possiede genio, coltura e mezzi fisici, non nego che si eleverà sempre dalla comune, ma non sarà perfetto, e l’arte mira sempre alla perfezione. Egli sarà, per quanto grande, disordinato e sconnesso. L’arte drammatica, come tutte le altre ed anzi più che le altre, è soggetta a regole, a norme, e chiamasi Arte appunto perché essa non è che la riproduzione della bella natura. A rispecchiare sulla scena con bel resultato tutte le passioni umane, dalla più bassa a quella elevata, dipingere tutte le gradazioni di un’anima che passa tumultuosamente dall’odio all’amore, dalla gioja alla disperazione, rivestire i caratteri con scrupolosa perfezione, e tutto ciò eseguirlo con un tatto squisito, cercando di tutto armonizzare, di tutto rendere alla perfezione, tal compito sì difficile non si può fare da sé solo! Bisogna ispirarsi! In tutti tempi, in tutte le epoche per respecchiare con qualche resultato il “bello” che ci attornia nella sua elevata grandiosità, si ammirarono prima non solo le opere di un uomo, ma quelle di una lunga falange di sommi, e fu questo minuzioso esame, questo scrupoloso raffinamento di un “vero”, già da altri iniziato, che può condurci alla conquista della perfezione, che in arte non segna confini. L’Arte drammatica, riproducendo sulla scena la “verità” della vita umana, avrà pure a mostrare il convenzionalismo imponente dei classici, il poetico del romanticismo, il semplice della vita domestica di tutti i tempi»403. L’Accademia cura con estrema attenzione lo sviluppo della Scuola di recitazione. Si prendono iniziative nuove; per esempio si stipula un accordo con la compagnia di Ermete Novelli per l’affidamento di piccole parti ad allievi: l’equivalente dell’odierno stage aziendale, ma probabilmente con ben maggiori risultati dal punto di vista dell’addestramento professionale404. Si allargano i programmi con nuove catte403 Cfr. Archivio di Santa Cecilia, Scuola di Recitazione – posizione n°32, fascicolo anno 1894,
ma la dispensa di Biagi è datata 22.05.1898 e quindi probabilmente fuori posto [ANSC].
404 L’iniziativa è documentata dallo stesso attore in una lettera al conte di San Martino datata
6 dicembre 1900. «Illmo Signor Conte, La ringrazio della gentile concessione degli allievi di S.ta Cecilia per la Casa di Goldoni. Appena liberato dal lavoro, in questi giorni gravosissimo, delle prime recite, ne approfitterò, lietissimo che gli alunni possano, dalle prove della mia compagnia, completare praticamente quanto loro viene insegnato in codesta R. Accademia. Intanto mi è grato testimoniarle i miei sentimenti di stima per Lei, e per la Signora Marini, in uno alla ferma convinzione che gli allievi sapranno degnamente profittare del beneficio dalla S.V. saggiamente concesso. Dev.mo Ermete Novelli». Cfr. Archivio di Santa Cecilia, Scuola di Recitazione –
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dre, fra cui di grande significato è l’incarico a Edoardo Boutet (18561915) di tenere corsi (lo farà, quasi ininterrottamente, dal 1901 fino alla morte) di “Storia e Letteratura Drammatica” e di “Teoria dell’interpretazione scenica”. L’attività intellettuale di Boutet è vulcanica e in gran parte dedicata al teatro. Conferenziere molto apprezzato, è autore di saggi e di opere letterarie; giornalista instancabile, è fondatore di riviste, spesso firmate con lo pseudonimo “Caramba”. Membro della commissione giudicatrice dei concorsi drammatici presso il Ministero della Pubblica Istruzione, è un promotore anche organizzativo di soggetti teatrali innovativi. Nel 1897 collabora con la Duse e con D’Annunzio alla elaborazione di un progetto per un “teatro di poesia”, non realizzato. «Dirige (l’inaugurazione avvenne ai primi di novembre del 1911) il “Quattro Fontane”, tipo di teatro “minimo”, detto anche “a sezioni”, in cui venivano presentati spettacoli misti di canto e balli, e una “sezione” di prosa di un’ora, con lavori di uno o al massimo due atti»405. Ma è tuttora ricordato soprattutto per essere stato direttore artistico del primo, vero teatro “stabile”, quello voluto dal conte di San Martino e dalla Società degli Autori (di cui Boutet era Vicepresidente) presso il teatro Argentina di Roma. Questa “drammatica compagnia di Roma” -che in qualche modo è un secondo tentativo, al di là della “Casa di Goldoni” di Novelli, della Nazionale diretta da Paolo Ferraridebutta nel dicembre 1905 con Giulio Cesare di Shakespeare; Boutet vi dichiara le sue linee fondamentali: lo scrittore deve essere il “cervello” dello spettacolo, l’attore non può più esserne il padrone assoluto, tutta la messinscena deve essere finalizzata alla migliore comunicazione dell’opera al pubblico. Nella locandina è evidente la particolare attenzione al “coordinamento” artistico: a Boutet “direttore” si affiancano un “regisseur” (che è l’esperto Antonio Salsilli) e un direttore della messinscena, a conferma del fatto che Boutet è guidato dalla sua previsione del regista moderno, garante di un allestimento in cui anche la scenografia e i costumi sono una chiave interpretativa coerente e non più un anonimo raffazzonamento oppure un inutile sfoggio di lusso. Il grandattore è tutt’altro che pronto a fare passi indietro; nella compagnia dell’Argentina ci sono liti memorabili fra Boutet e Giacinta Pezzana. Peccato che Virginia sia scappata dalla trincea: non più guardata a vista dal marito, con la sua docilità innata forse avrebbe potuto, sesposizione n°32, fascicolo anno 1900 [ANSC].
405 BARBINA 2005, pg. 20. Nella parte seconda di questo saggio si possono trovare le uscite
su giornali e riviste delle critiche di Boutet a spettacoli di Virginia.
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santenne, farsi guidare artisticamente in territori nuovi! O forse no: la custodia, modesta ma tenace, di un trovarobato recitativo ancora utile le si addiceva di più. Celebrando il centenario della sua nascita (quindi nel 1942) un critico scrive: «”Lasciate che io canti, se recito dei versi”, diceva Virginia Marini ad alcuni entusiasti a freddo della dizione moderna. “E anche se avvenga che io canti recitando della buona prosa, non me ne vogliate!”. È falso, assolutamente falso che i pubblici siano avversi ai vecchi repertori. Riportateli alla ribalta con interpreti che posseggano le virtù insostituibili dei vecchi attori e il trionfo non mancherà. Anche Virginia Marini, morta a Roma il 1918, vaga ora fra coloro che si rimpiangono, ma alla stregua di tutte le fonti della nostalgia, essa ha legato al nostro cuore le speranze e i desideri del ritorno»406. La generazione della Marini superò il convenzionalismo di inizio secolo, abbandonò la gestica alla Morrocchesi; non per nulla rifuggì dalla tragedia classica (che anche la Duse non amò) e si dedicò a costruire una interpretazione in cui il “bello” e il “vero” brillassero della stessa luce. Alla fine dell’Ottocento il “verismo romantico” di Virginia viene considerato dai progressisti un vecchio arnese, inadatto ad esprimere i movimenti che si affacciano con il nuovo secolo. Il cronista del 1942 pensa che il ciclo debba ricominciare; che l’uso della voce e del gesto da parte dei grandattori sia, spogliato delle ridondanze declamatorie, nuovamente prezioso. Ringraziando gli dei, il teatro è un artigianato antico, e la sua storia si basa sull’accumulazione delle tecniche, su corsi e ricorsi, recuperi e reinvenzioni dei suoi innumerevoli modi espressivi. Si è detto più sopra che agli inizi del Novecento il benemerito Luigi Rasi dirige la Regia Scuola di Recitazione di Firenze in cui, settant’anni prima, era stato attivo il Morrocchesi. Nel 1905 Rasi dà alle stampe un manuale didattico che, con il modo di chiamare gli attori contemporaneamente immortalato nel suo dizionario, intitola L’arte del comico407. Nei suoi sette capitoli dedicati a: il gesto, la parola, le intonazioni, l’interpretazione, la fisionomia, il costume, e gli artisti di canto, il manuale approfondisce quei rapporti fra talento e tecnica, fra immedesimazione e riproduzione, su cui Edoardo Boutet lavorerà ulteriormente e Silvio d’Amico troverà la sintesi, fondando l’”università” del teatro nel momento di massima espansione della politica culturale fascista. 406 M., Virginia Marini, I due tempi di una grande attrice, “Il Piccolo”, Trieste, 26.02.1942
[MTTS].
407 Cfr, RASI 1905.
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L’obiettivo era di togliere alla recitazione stereotipi e calligrafismi (già ridotti, tuttavia, dalla misura “drammatica” degli attori di secondo Ottocento), trattenere l’esondante istinto scenico dell’interprete (ma ci aveva già messo un freno il naturalismo), e soprattutto governare le “doti naturali”, consapevolizzarle, arricchirle di norme espressive e di strumenti culturali. In realtà si trattava di “convincere” l’attore della perdita della sua centralità con l’affermarsi del nuovo secolo. La recitazione non è più l’unica chiave dello spettacolo; avanzano le novità scenografiche (la visione a tre dimensioni! l’illuminazione!); i drammaturghi non scrivono più “per” gli attori; e poi è emerso lui: il regista, al quale toccherà di concretizzare le riforme e, talvolta, le rivoluzioni. Nel giovane Novecento l’arte ammaliatrice della recitazione si può esercitare meglio sullo schermo: l’intrattenimento popolare non è più il teatro, è il cinema; l’attore vi trova persino uno smisurato ingrandimento del suo volto e del suo corpo, che il teatro non potrebbe mai dargli. Ma Luigi Rasi, sempre attento e intento a raccogliere i tesori del passato, sa che non si deve buttare via niente, che tutto può servire, che tutto torna. Nel suo L’arte del comico ricorda che gli stessi grandattori ottocenteschi riflettevano sulla loro arte; basti pensare a Giovanni Emanuel e ai suoi sforzi di “insegnare” ai colleghi operando come direttore e anche producendo regole scritte. Rasi cita direttamente Virginia che, pur subendo le critiche “dei chierici della scena”, porta avanti la sua appassionata attività di formazione: non sarà una stilista geniale ma la sua esperienza di taglio e cucito è ancora imprescindibile. E per dimostrare che i tentativi di sistematizzazione del sapere teatrale cominciano in pieno Ottocento, Rasi richiama un saggio di E. L. Franceschi pubblicato nel 1857 (l’anno del matrimonio di Virginia), quindi nella fase in cui il teatro italiano “svolta”, entra nel periodo postrisorgimentale e unitario che, come si sa, gli riserva oneri e onori nuovi sotto lo sventolio di due vessilli: quello del grandattore e quello della borghesia. La maggior parte del saggio di Franceschi è intitolata: Dell’arte comica e abbraccia la declamazione e la recitazione, fornendo semplici precisazioni per distinguerle: la declamazione è della parola poetica, la recitazione è della parola drammatica; la declamazione si rapporta alla musica, la recitazione alla realtà. L’arte comica ha piena dignità, si distingue nettamente dall’arte oratoria e si basa sulla dizione e sull’azione. Per l’artista comico “azione” significa espressione del viso, andatura, gesti. Franceschi dedica una speciale attenzione (nel 1857!) al “direttore”: è lui che deve garantire il “concertato” fra tutti gli attori
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dello spettacolo; l’armonia delle pause, dei silenzi, delle controscene, insomma: il rapporto fra chi sta dicendo una battuta e gli altri che non stanno dicendo nulla ma sono in scena. Infine Franceschi raccomanda (nel 1857!) agli attori il massimo rispetto nei confronti degli autori. Il tavolo è abbondantemente apparecchiato per la pratica e la teoria della seconda metà dell’Ottocento. Torniamo a Boutet, che è un innovatore importante; in un’ideale evoluzione delle azioni riformatrici fra Ottocento e Novecento, lo possiamo considerare un iniziatore del gran lavoro che sarà fatto, di lì a breve, da Silvio D’Amico. Più sopra l’abbiamo trovato autore di un attacco durissimo a Virginia; è evidente che lui, a Santa Cecilia, è fra coloro secondo i quali Virginia incarna l’ingiustificata sopravvivenza della “vecchia scuola”. Il suo modello è la Duse, la sua passione è Tina Di Lorenzo. Tuttavia Boutet è un teorico che conosce la realtà del palcoscenico (ha il vezzo di lavorare in scenografia e fare la comparsa muta); ci sono delle basi tecniche che vanno riaffermate; e una professionista come Virginia è il massimo per insegnarle, in uno spirito addirittura di unità nazionale. «Nelle compagnie le quali si affibbiano il titolo di “primarie”, la dizione è dimenticata. Per questo invocato e conteso bene della dizione potrebbero riuscire utili le “Scuole di recitazione”. Il primo anno di tali scuole dovrebbe essere consacrato severamente, e specialmente, alla dizione. Per questo corso, mentre si intende andrebbe affidato a maestri di impeccabile dizione, sarebbe necessario il rigore, la severità, senza il quale e senza la quale, data la intima natura dello studio riflettente la dizione, non è possibile riuscire nell’intento. Poiché la via è aspra e ardua: trattandosi prima di dover combattere il dialetto che si parla dalla culla, e poi di dover piegare, nel favorevole caso, alla dizione unica e sola»408. Una conferma indiretta e illuminante viene da un’intervista rilasciata da Virginia nel 1907409, quando erano trascorsi tredici anni dal suo ritiro dalle scene. L’incipit del giornalista ci ricorda bruscamente che il pubblico ha ormai altri idoli: «Quelli che cominciano ad avere i capelli bianchi ricordano ancora la bella figura slanciata, il soavissimo sorriso e la voce carezzevole, vellutata, armoniosa di Virginia Marini». Ma l’ammirazione emerge subito. «L’artista piemontese è una delle poche attrici nostre che sia salita alla celebrità senza essere stata figlia dell’arte, senza cioè es408 BOUTET 1900-1901, fasc. 19, 25 settembre 1900, pgg. 289/290. 409 AGOSTINONI Emidio, La scuola di una celebre attrice. La Marini a Santa Cecilia, in “Il secolo
XX” di Milano, 1907,
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sere uscita dalla famiglia dei comici. Virginia Marini ha abbandonato il teatro quando ancora avrebbe potuto mietere degli allori, specialmente in quelle parti serene di madre, per le quali aveva nel suo temperamento artistico qualità preziose di soavità e di dolcezza». L’intervistata non si abbandona ai rimpianti e comincia con piglio le sue dichiarazioni autobiografiche. «Abbandonai l’arte prima che l’arte abbandonasse me. Non volli trascinare la mia vecchiaia di palcoscenico in palcoscenico. L’arte che adorai, che infiammò tutta la mia vita, mi fece vagheggiare lungamente una scuola in cui potessi continuare a volerle bene senza sciuparla. Io ebbi per maestro mio marito. Anzi mi sposai per poter dedicarmi all’arte. Era quella l’unica via, i pregiudizi delle famiglie d’allora non mi avrebbero mai permesso diversamente. Il mio povero marito che non era un grande attore ma che era pieno di talento e di coscienza, incominciò a farmi dimenticare il piemontese, a correggermi la pronuncia, e lui, toscano ma libero dal difetto d’aspirazione, riuscì a ridurmi così come ella sente. Progredimmo insieme. Per la memoria del mio primo maestro e per quanto vidi e deplorai lungo la carriera pensai necessaria una scuola che preparasse e indirizzasse certe attitudini spontanee. L’arte non si insegna, si inspira, si anima, si sviluppa. Il resto è tutto compito della natura, e alla più schietta naturalezza indirizziamo la nostra opera correttiva. I grandi artisti diventarono grandi per questo segreto, e la nostra scuola cerca di svelarlo a tutti». La “voce” forse più bella dei palcoscenici del secondo Ottocento, non poteva che basare la sua missione didattica sul pronunciare bene e sul leggere con espressione; non per nulla l’insegnamento di Virginia è frequentato anche da professori, avvocati, “futuri tribuni” al fine di migliorare la loro prestazione professionale, e da signorine di ottima famiglia che vogliono soltanto “dire” con grazia nelle conversazioni salottiere. «Con la lettura e con la dizione insegniamo i segreti del prender fiato, dell’impostare il crescendo, del trarre gli effetti più gradevoli e più efficaci, insegniamo in una parola quell’arte dell’orazione che ha bisogno di coltura». Ma naturalmente sono gli allievi attori i suoi prediletti: “l’unico argomento in cui si indugi volentieri”. Virginia illustra con scrupolo e con orgoglio la sua creatura. «Nel primo corso si legge, si pronuncia con garbo e s’inizia qualche breve recita di un bozzetto, un brano, un monologo. Nel secondo si entra a studiare le opere più facili ma complete sia del genere comico che del serio. E nel terzo infine si approfondiscono tutte le forme pigliando a modello papà Goldoni e poi giù giù tutti gli altri, senza esclusivismi contro gli stranieri ma con larga referenza pei nostri. E si chiude con la dizione dei versi, con
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la lettura d’intere poesie che sono sempre un gran cimento per chi aspira a dir bene. Il critico Boutet completa il nostro insegnamento con la storia dell’arte e del teatro, e i nostri giovani licenziati e diplomati dopo tre anni sono graditi e ricercati dalle compagnie. Spessissimo mi giungono richieste di capicomici e la nostra raccomandazione è il migliore viatico verso la fortuna». Esperta, pacata, amabile Virginia! I corsi si susseguono regolarmente e sono divisi in una classe principale e in una complementare, entrambe dirette da Virginia. Il corpo docente ha un membro d’eccezione: Adelaide Ristori, che era diventata socia dell’Accademia nel 1847, appena diventata marchesa. Si è detto che il “vice” di Virginia è Luigi Biagi, ma un gran lavoro didattico viene svolto da Laura Dondini. Edoardo Boutet arricchiva il programma didattico di una forte connotazione culturale. Mediamente, ogni anno la frequenza è di venti/trenta allievi, fra i quali riescono ad essere “licenziati” non più di tre/quattro. Nei saggi finali gli allievi affrontano la drammaturgia che ha segnato la carriera di Virginia e, in generale, il secondo Ottocento: le opere di Paolo Ferrari, di Sardou, di Cossa, di Cavallotti, Il padrone delle ferriere di Ohnet, Romanticismo di Rovetta, Come le foglie di Giacosa, non trascurando lo studio della dizione poetica (Leopardi, Ada Negri, Pascoli); e, come un denominatore comune, i capolavori di papà Goldoni. Nell’anno scolastico 1906/1907 si diploma Sergio Tofano. Belle le sue parole di commemorazione della Maestra: «Al nome di Virginia Marini è legato il ricordo, quando ancora frequentavo la scuola di recitazione, di tutte le mie più furibonde ammirazioni e di tutti i miei più ciechi entusiasmi per tutto ciò che, cose o persone, avesse vita al di là della ribalta, in un mondo per me sconosciuto. Quante di quelle ammirazioni poi, di fronte alla realtà, si sono affievolite; quanti di quegli entusiasmi si sono calmati: ma quella che è rimasta immutata è la mia gratitudine per Colei che con tanto amore fu la mia prima maestra in quella lunga impaziente vigilia del mio ingresso in arte»410. L’Annuario 1918/1919 di Santa Cecilia conferma che Virginia rimase al suo posto di Direttrice, pur sotto gli attacchi della malattia, fino all’ultimo giorno di vita, 13 marzo 1918. Le succede Angelo Gattinelli, che resse la scuola con la qualifica di Direttore incaricato fino al 1920, quando fu nominato direttore Cesare Dondini, che tenne il posto fino al 1922. Nel 1924 la Scuola venne intitolata a Eleonora Duse: una dedica incontestabile ma che a noi conferma amaramente la fragilità della 410 SCAGLIA 1929, pg. 95.
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fama di Virginia. Nel 1925 appare come insegnante di storia del teatro il grande Silvio D’Amico, attraverso la straordinaria azione del quale la “Duse” arriva a staccarsi definitivamente da Santa Cecilia, trasformandosi nel 1936 in Regia Accademia d’Arte Drammatica. Il citato Annuario 1918/1919 si chiudeva con il seguente necrologio. «Nata ad Alessandria il 19 novembre 1845 [sic], morta in Roma il 13 marzo 1918. Fra queste due date va la nobilissima esistenza di Virginia Marini, della cui grandezza artistica e dei successi memorabili noi non faremo cenno qui, se non per dire che la scuola la ebbe insegnante altrettanto valorosa quanto la scena l’aveva già avuta interprete insigne dei capolavori drammatici d’ogni tempo. Nella luce splendida della ribalta come in quella raccolta della scuola Ella portò la stessa genialità, la stessa coscienziosa e vigile cura per cui come fu attrice insuperata così fu anche maestra valentissima. Chiamata nel 1894, quando era all’apogeo della sua gloria artistica, ad insegnare l’arte scenica applicata al canto agli alunni del Liceo musicale di S. Cecilia, passò nel 1896 a dirigere la nuova scuola governativa di recitazione e tenne quest’ufficio, sino alla fine della sua vita, con generale soddisfazione, circondata dall’affetto degli scolari numerosissimi che dal ricordo della gloria artistica della loro grande maestra, dall’assiduo tirocinio cui Ella li sottoponeva nella scuola, traevano incitamento e profitto nell’arte drammatica e, non pochi, la esercitano con singolare successo. Questa circostanza di aver dedicato gli ultimi anni della sua vita, anziché ad un meritato riposo, alla formazione dei giovani è veramente un segno della inesauribile dote di energia di cui disponeva l’attrice mirabile, non paga della sua gloria personale, ma invece pervasa, sino all’ultimo della sua esistenza, della passione di mantenere e di propagare fra i giovani l’arte da lei elevata ad altezza sublime. Ella conservò sino agli ultimi anni il tono di quella sua voce mirabile che aveva altra volta commosso i teatri d’Europa e i suoi scolari ricordano, con affettuosa ammirazione, le sue ultime lezioni, in cui, pur tra le minacce del male ormai dominante la sua fibra indebolita, la grande attrice riusciva ancora a far rivivere i momenti più felici e migliori delle sue interpretazioni d’un tempo»411.
411 Necrologio di Virginia Marini, Regia Accademia di Santa Cecilia, Annuario dal 1° luglio 1918
al 30 giugno 1919, pg. 218 [ANSC].
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Virginia Marini settantaduenne, quattro anni prima di morire
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III.5 Sipario
Non è così vero che dopo il ritiro dalle scene Virginia sia stata dimenticata da tutti, così come non sarebbe esatto dire che si appartò anche dalla vita sociale. Le cronache ci svelano infatti alcune sue presenze in pubblico. Allo scopo di accrescere il fondo per un monumento a Pietro Cossa, nel 1895 Virginia recita con Cesare Rossi e Alfredo de Sanctis a Roma (al Valle o all’Argentina) I Borgia, applauditi dal pubblico anche se la messinscena “lasciò alquanto a desiderare”. Nel luglio 1896, al teatro Costanzi di Roma si tiene una serata in memoria di Ernesto Rossi. Adelaide Ristori e Tommaso Salvini scoprono un busto marmoreo del grandattore; Virginia vi depone corone di fiori e legge le partecipazioni. Commosse ovazioni dal pubblico. Nello stesso 1896 a Torino si insedia una commissione presieduta da Vittorio Bersezio, che deve preparare una mostra del Teatro Drammatico da tenersi all’interno della Esposizione Nazionale di Torino del 1898, per dare “quella nota di sentimento artistico che innalza e rende utili tutte le manifestazioni dell’ingegno e del lavoro umano”. Si trattava soprattutto di celebrare il cinquantenario della promulgazione dello statuto albertino anche “dedicando speciali cure al teatro, la forma d’arte che tanta e diretta influenza ha sul pubblico”. Bersezio individua alcuni corrispondenti dalle principali città; per Roma, Virginia è nominata insieme a personaggi come la Ristori, il Boutet e Giuseppe Costetti. Nell’aprile 1898 “La Stampa” annuncia la partecipazione di Virginia all’Esposizione, chiamata altresì dal “Teatro d’Arte” di Domenico Lanza che ebbe sede al Gerbino e intenti nobili, ma visse solo un anno. Virginia declinò gli inviti.
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Ancora “La Stampa”, il 10 gennaio 1898, ci informa che su una importante rivista parigina, lo scrittore Enrico Montecorboli -caro a Virginia- ha fatto «sfilare innanzi al lettore la schiera illustre e graziosa delle principali e migliori attrici nostre in questa seconda metà del secolo. E a regina della scena Adelaide Ristori: altezza a cui nessuna più si innalzò, potenza che nessuna più raggiunse. Dopo questa somma, a contendersi un lampo di quel diadema, incalzantisi, succedentisi, Clementina Cazzola, Giacinta Pezzana, Adelaide Tessero, Virginia Marini, Pia Marchi, e ultima, con maggiore sfolgorio e più venturosa vicenda, Eleonora Duse»412. Nel gennaio 1899 Virginia è invitata ad una cena in onore di Ermete Novelli che annuncia l’intenzione di fondare la “Casa di Goldoni” in Roma, il suo progetto di compagnia stabile, con cui la Scuola di Virginia ha -come detto più sopra- una qualche collaborazione. Abbiamo già visto Virginia colpita dalla scomparsa di colleghi. Nel maggio 1900 muore “di violenta tisi”, nemmeno cinquantenne, Libero Pilotto che, accanto a Zacconi, era stato un pilastro degli ultimi anni della compagnia dei Marini. Poco dopo, nel 1901, scompare la brava Pia Marchi; al funerale Virginia è fra coloro che reggono i cordoni del carro. E insieme arriva il lutto più profondo: la morte di Giovanni Battista, il marito al quale fu «sempre devota e generosamente sottomessa». «Ogni anno, il Marini, durante le vacanze estive, soleva villeggiare, con la consorte, nei dintorni di Firenze, presso un’amica di entrambi [avevano dovuto vendere il villino di Scandicci, dove Virginia aveva sognato di ritirarsi per godere di una agiata vecchiaia], quando, il 26 settembre del 1901, fu colto da fiera polmonite, che lo trasse a morte. E così fu esaudito il desiderio da lui sempre vivamente manifestato, di essere sepolto nel cimitero di Firenze, sua patria»413. Il 29 gennaio 1902 cade l’ottantesimo compleanno di Adelaide Ristori, che morirà nel 1906. La Regina Margherita le manda un braccialetto con brillanti. A palazzo Capranica del Grillo arriva una valanga di lettere e telegrammi, Virginia aiuta la signora marchesa a fare lo spoglio. Ci va il sindaco di Roma, principe Colonna; si affacciano moltissimi cittadini comuni; ci va il Re e si intrattiene mezz’ora; fanno visita anche gli allievi della Scuola di Virginia; gli auguri di illustri personaggi non si contano. Alla sera ci sono gli onori del palcoscenico, ovviamente al teatro Valle, “sfarzosamente illuminato”. «Si dà prima Esmeralda di G. 412 “La Stampa”, 10.01.1898 [ALST]. 413 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 236.
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Gallina, protagonisti Virginia Marini ed Ermete Novelli, poi Tommaso Salvini legge un indirizzo ad Adelaide Ristori in nome di tutta l’arte. Il Salvini è contornato da tutta la compagnia della “Casa di Goldoni” vestita in costume goldoniano, colle maschere. Poi viene recitato l’ultimo atto di Goldoni e le sue sedici commedie di P. Ferrari. Segue la declamazione della Morte di Cristoforo Colombo di C. Gazzoletti, fatta da T. Salvini. In ultimo Ermete Novelli dice il monologo Un guitto da lui stesso composto per la circostanza»414. Nel febbraio del 1902, in Campidoglio, alla presenza di numerose Autorità, Virginia recita un’ode di Giosuè Carducci dedicata al centenario della nascita di Victor Hugo. Nel marzo 1903 a Santa Cecilia c’è un concerto della soprano Adelina Patti alla presenza della Regina, la quale siede nel palco d’onore fra il conte di San Martino e la nostra Virginia. Nel 1905 legge, sempre a Roma, la “Rapsodia garibaldina” del poeta livornese Giovanni Marradi. Nel 1909 fa parte di una commissione che esamina copioni per il cartellone del Quirino di Roma. Alla fine di aprile 1908, nella sala “Orazi e Curiazi” del Campidoglio si apre il primo congresso nazionale delle Donne Italiane. Si parla di mille donne partecipanti “di ogni classe e di ogni partito”. Virginia è fra gli esponenti della sezione “Letteratura ed Arte”, dove Matilde Serao relaziona su “la donna e la stampa” e Antonio Fogazzaro su “il libro e la donna”. Virginia sviluppa il tema della “donna nell’arte drammatica”. Loda la capostipite: la comica dell’arte Isabella Andreini, e il modello per tutte: Adelaide Ristori; cita le principali attrici dell’Ottocento, dice che hanno ispirato l’arte drammatica e l’hanno “incoraggiata a mantenersi pura perché l’arte non è il risultato di una mentalità morbosa”. Nel gennaio 1909, in Campidoglio, il sindaco di Roma celebra Tommaso Salvini per il suo ottantesimo compleanno; al teatro Argentina Virginia dal palcoscenico reca al maestro gli auguri dei compagni d’arte. In questa ricorrenza Jarro scrive una importante biografia di Salvini415, dove ricorda come una giovane Virginia lo avesse accompagnato in tournées all’estero e avesse ben retto l’affiancamento a un tale artista, traendone un successo personale soprattutto in Spagna. Il 1910 segna l’ultima prestazione di Virginia da attrice su di un vero palcoscenico. L’Arena del Sole di Bologna era sempre stata un teatro amico per lei. Il 30 luglio 1910 questo luogo caro a tutti i teatranti ita414 Adelaide Ristori. Ricordo nazionale, Roma: Casa Editrice Enrico Voghera, 1902, pg. 3 [ASCAL]. 415 CFR. JARRO 1909.
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liani celebra il suo centenario di attività con una serata speciale. Nella locandina l’ovale con il volto di Virginia è il primo in alto, centralmente416. Con lei partecipano al memorabile spettacolo Zacconi, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri, Lida Borelli, Dina Galli. Virginia è molto attesa; il 28 luglio “Il resto del carlino” informa i bolognesi che la «Marini è arrivata ieri ed è scesa all’Hotel d’Italie»417. La conducono all’Arena per dimostrarle che c’è ancora la targa collocata nel 1872: “A Virginia Marini – Plauditissima – In arte drammatica – Gli ammiratori – Deposero”, e vi appendono una corona d’alloro. Per la serata sceglie di interpretare “Esmeralda” di Giacinto Gallina; appena appare, il pubblico le rivolge un “saluto commuovente” con un “irrefrenabile applauso”. «I giovani non sapevano che si recitasse, un tempo, con tanta armonia di suoni, i vecchi si ricrearono nei ricordi del passato»418. Dopo teatro i protagonisti si ritrovano a cena; l’oratore ufficiale, on. Fradeletto, loda Virginia e lei interviene per ringraziare l’Arena del Sole419. È felice. La sera del 27 marzo 1911, nelle sale dei musei capitolini, il Comune di Roma offre un ricevimento d’una mondanità esagerata, alla presenza dei Sovrani. La cronaca cerca faticosamente di essere all’altezza dell’avvenimento: «Alle 22,10 sono giunte le berline reali di gala, precedute e scortate dai corazzieri. Le dame di corte, contessa Bruschi Falgari in bianco pailleté argento, la principessa Caetani in crème e valencienne, sono scese dalle loro vetture, ed a piedi per breve tratto hanno raggiunto i Sovrani. Il Re indossava la tenuta di generale, la Regina un meraviglioso abito di stoffa argentea, ricco di veli, di dentelles [merletti], avvolto il collo in un ricchissimo boa di struzzo bianco; sul capo un diadema di brillanti, ed al collo il famoso collier di brillanti. Ai piedi dello scalone del palazzo Senatorio, ove sono giunti alle 22,20, erano a ricevere i Sovrani il sindaco di Roma e la Giunta. Le meravigliose sale degli storici palazzi michelangioleschi, che per l’occasione sono stati congiunti con costruzioni provvisorie, sono sfolgoranti di luce e di eleganza. Esse sono affollate di tutta l’élite della politica, dell’arte, della coltura, del patriziato, della grande borghesia, dell’esercito, della 416 COLOMBA 1999, ill. n°17, da “Il piccolo Faust” n°30-31 del 27 luglio 1910. 417 “Il resto del carlino”, a.XXVI, 28.07.1910 [ARCH]. 418 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 268. 419 “Il resto del carlino”, a.XXVI, 31.07.1910 [ARCH]. Nel 1967, la Città di Bologna, per cele-
brare il XX° della Repubblica italiana, decide l’intitolazione di strade urbane a persone e fatti che “furono il presupposto” della democrazia e che “meritano la riconoscenza, l’onore, la celebrazione della Città”. Virginia è fra questi nomi, a lei viene intitolata una via che congiunge viale della Repubblica a via Ermete Zacconi.
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marina. Vi sono in numero notevolissimo le notabilità, molte signore e signori della colonia straniera in Roma. Appena i Sovrani sono giunti, passano ossequiati rispettosamente attraverso le sale e si recano alla Sala degli Orazi e Curiazi, ove ha luogo la rappresentazione di gala, a cui partecipano i maggiori artisti drammatici d’Italia. Virginia Marini recita un’Ode del Carducci…»420. Il 27 maggio 1911 presenzia all’Argentina di Roma alla prima di Fiamma, tragedia di Francesco Pastonchi e Giannino Antona-Traversi. Nel giugno 1912 fa parte, insieme al conte di San Martino, della commissione ministeriale dell’annuale concorso governativo per una novità drammatica (vince Orione di Morselli). Nel settembre 1914 si riunisce a Roma l’Associazione Artistica Internazionale per protestare contro il bombardamento della cattedrale di Reims; Virginia partecipa. Nel numero di aprile 1915 del periodico torinese “La fotografia artistica”, l’amico critico Giuseppe Cauda riepiloga i successi di Virginia in un lungo articolo-omaggio che diventa, a posteriori, un affettuoso congedo. «Nessun’attrice seppe ammaliare il pubblico più di Virginia Marini. Per un trentennio essa fu la beniamina di tutti i pubblici. Dalle dame alle figlie del popolo, tutte erano entusiaste di lei. A Torino, in occasione della sua serata d’onore, il pubblico faceva la “queue” alla porta del Gerbino per diverse ore, pur di poter assistere allo spettacolo. Virginia Marini conserva preziosamente gli innumerevoli doni ricevuti. Carissimi ricordi per lei sono specialmente il ritratto che il compianto Pietro Cossa le regalò, chiamandola “la più grande e la più vera interprete dei suoi lavori”; il telegramma che ricevette da Sarah Bernhardt dopo l’entusiastico successo riportato nella Roma vinta del Parodi; il biglietto che le mandò Tommaso Salvini dopo la rappresentazione del Torquato Tasso [di Paolo Giacometti] a Lisbona, in cui è detto: “Alla fine della tragedia siete sparita e non potei dirvi che il marchese Oldoini, ministro plenipotenziario d’Italia, vi fa i suoi rallegramenti e vi manifesta l’ammirazione che sente per voi il re Don Luigi”; la medaglia coniata espressamente e presentatale quando, nella ricorrenza del centenario del Voltaire, rappresentò, con Tommaso Salvini, la Zaira; e il medaglione d’oro “al merito artistico” offertole dall’Accademia artistico-letteraria di Barcellona. I più insigni artisti e le più spiccate individualità della letteratura hanno considerata e trattata Virginia Marini come una regina dell’arte. La celebre artista francese [Charlotte-Marie] Doche [famosa per essere stata la prima interprete de “La dame aux camelias”, nel 1852 a Parigi], dopo aver udito la Marini ne 420 “La Stampa”, 28.03.1911 [ALST].
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La signora dalle camelie, a Milano, si fece presentare a lei esclamando: “Io sono il passato. Voi siete il presente!”. Nella dotta Bologna un bel medaglione, in cui la Marini è ritratta sul marmo, ed un’epigrafe ricordano i suoi grandi successi. Quando si trattò di formare la grande Compagnia Nazionale, diretta da Paolo Ferrari, subito si pensò alla Marini, la quale tenne così degnamente il suo posto che, quando non recitava lei, il concorso del pubblico era sempre scarso. Dopo essere stata in società con l’Emanuel e con Cesare Rossi, essa, nel 1888, assunse coraggiosamente da sola il capocomicato. Dell’ultima sua Compagnia fu primo attore Ermete Zacconi. Uno dei suoi ultimi successi la Marini l’ottenne raffigurando Elena Alving negli Spettri dell’Ibsen. Come capocomica Virginia Marini non ebbe fortuna»421. Agli inizi del 1915 muoiono Oreste Calabresi, ottimo caratterista nella compagnia dei Marini, e il collega-avversario Edoardo Boutet, ai funerali del quale Virginia non manca di presenziare pur essendo molto provata dalla malattia. Il 14 marzo 1918 le agenzie battono la notizia: «Ieri sera è morta a Roma Virginia Marini. da parecchio tempo l’illustre grande attrice, che attualmente dirigeva la scuola di recitazione presso il Liceo di Santa Cecilia, teneva sempre più preoccupati i suoi parenti e lo stuolo numerosissimo dei suoi allievi e ammiratori. Una grave malattia di cuore minava l’esistenza della veneranda donna che, ormai fiaccata dai violenti e frequenti attacchi, aveva dovuto con suo profondo dolore allontanarsi a poco a poco dalla scuola. Così in questi ultimi tempi Virginia Marini trascorreva la vita nella sua casa in via Cola di Rienzo 264, fra l’ansioso affetto della sorella e delle sue preferite scolare. Ieri sera [13 marzo], poco dopo le 21, la gagliarda tempra dell’illustre artista non ha più resistito all’insistenza del male e l’inferma si è spenta»422. Il cognato Angelo Gattinelli commenta: «Spirò serenamente, quasi senza accorgesene. Fu un vero pellegrinaggio alla sua casa, e il letto di morte ricoperto, in breve, di fiori, da ammiratori e amici. Il suo volto aveva preso un aspetto giovanile, dal quale traspariva una dolcezza infinita. I funerali furono degni di Lei: tali e tanti i telegrammi di condoglianza, che impiegai un mese per rispondere a tutti. La sua salma riposa a Campo Verano423 [quindi separata da quella del marito, che rimane 421 “La Stampa”, 02.06.1915 [ALST]. 422 “La Stampa”, 15.03.1918 [ALST]. 423 Mi sono recato personalmente al Verano di Roma. Dagli archivi è effettivamente emersa l’indicazione che Virginia riposa in questo cimitero, nel “loculo adulti esterno”, “zona ingresso principale” “sottozona muro di cinta”, “numero 79”, insieme alla madre “Teresa Weyzo [sic] Cornaglia”.
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a Firenze], presso la tomba della madre. Sur essa ho fatto incidere queste poche parole: “Virginia Marini, onore e vanto dell’arte drammatica italiana, qui, presso la madre, volle essere sepolta”»424. «I funerali furono molto modesti. Il feretro è stato trasportato a braccia, al carro di seconda classe tirato da due cavalli, dai congiunti dell’estinta e da amici di famiglia. Chiudevano il corteo numerose carrozze recanti una cinquantina di corone inviate da artisti drammatici, da talune delle principali Compagnie drammatiche e da famiglie amiche dell’estinta»425. Il giornalista e commediografo Orio Vergani (1898-1960), fratello dell’attrice Vera Vergani, ci lascia una testimonianza degli ultimi giorni di Virginia, svolta da un’angolatura un po’ impietosa ma eloquente. La madre di Vergani, che a Roma abitava non lontana da Virginia, aveva maturato nei suoi confronti una vera devozione. «Aveva, e questo fu sempre ricordato di lei, una “voce d’oro”. Io l’ho udita, questa voce d’oro, quand’ero ragazzino, non sulla scena, ma in casa, nella sua casa, assai modesta, in fondo a via Cola di Rienzo, in quattro stanzette di un mezzanino: un mezzanino per non affaticar con troppe scale il cuore della grande attrice che, invecchiando, si era fatta un po’ pingue. Le visite di mia madre alla Marini non erano visite: erano genuflessioni. Avvenivano nel pomeriggio della domenica, quando l’attrice non aveva scuola. La Marini stava seduta su un divanetto, appoggiando i piedi su uno sgabello imbottito. Accanto le stava una sorella [Annetta], che morì poi novantenne, e su una poltroncina il cognato, l’antico attore Gattinelli, che insegnava pure all’Accademia, e che credo avesse fatto l’”amoroso” fino a sessant’anni, e che stava sempre zitto. Avevo quattordici anni; sentivo parlare del povero tizio e della povera caia. Nel torpore mi teneva sveglio il suono della “voce d’oro”, che veramente, per quanto sommessa nella conversazione, era bellissima, anche se usciva fra le griglie di una economica dentiera. La Marini non doveva mai essere stata bella: adesso era piccola, tozza nelle forme stanche, niente altro che una nonna, con un naso che era soltanto un batuffoletto e gli occhi un po’ acquosi della settuagenaria. Salvini l’aveva “strozzata” non so quante volte come Desdemona; Ernesto Rossi l’aveva chiamata la “vaga Ofelia”. Adesso la tragica parlava di modestissime preoccupazioni: del rincaro del gas, della cameriera poco obbediente e talvolta Dopo aver vagato per ore insieme ad un cortesissimo funzionario, aver goduto dell’interessamento di un venditore di crisamtemi e della disponibilità di alcuni seppellitori anziani, della tomba non si è trovata traccia.
424 ANTONA-TRAVERSI 1929, pg. 236. 425 “La Stampa”, 16.03.1918 [ALST].
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-con lei che era stata Lady Macbeth!- quasi insolente, dei fastidiosi cani del vicino, dell’implacabile vociare notturno dei cocomerari…»426. Naturalmente ci furono memorie e commenti immediati427 che, pur nel contesto commemorativo, provocarono interessanti ricapitolazioni sull’arte di Virginia. Il critico bolognese Antonio Cervi scrisse su “Il piccolo Faust”: «La Marini fece rivivere il dramma del suo tempo nella voce più che nel cuore. Era una musica la sua voce e doveva interpretare i canti del suo tempo. E Cossa fu il suo maestro. Goldoni, Ferrari, Giacosa, Cossa, Marenco furono i suoi autori preferiti. E quando Augier, Dumas, Sardou invasero i teatri d’Italia, la Marini ne divenne l’interprete acclamata, ma non convinta. Attrice profondamente italiana, il suo maggior titolo di gloria sarà quello d’essere stata l’ultima attrice goldoniana. Era una signora perfetta, una donna ammirata per la sua bontà, per la sua rettitudine. La donna e l’attrice non saranno dimenticate». La stampa di Roma diede il dovuto risalto. Il “Messaggero”: «Virginia Marini aveva cominciato a muovere i primi passi sul palcoscenico quando il teatro italiano si trovava sotto l’impressione di un potente genio artistico, Gustavo Modena. Era naturale che iniziando la sua carriera artistica, nei ruoli di “servetta” prima, e poi di “amorosa” e di attrice-giovane con Tommaso Salvini, risentisse il grande influsso della scuola di Gustavo Modena, del quale il Salvini era un grande imitatore. Ma quando passò al fianco di Emanuel [la breve esperienza del 1886-87], che allora accennava già a reagire contro le esagerazioni e il romanticismo vieto che minacciavano d’invadere le scene, anch’essa si studiò di seguire, in certo modo, la corrente realistica e naturalistica che faceva intravedere un metodo più razionale, cercando di modellarsi sulla verità osservata e di riprodurla senza preconcetti. I generi più disparati la ebbero coscienziosa e valente interprete; gli autori d’ogni tempo diedero modo al suo ingegno ed al suo magnifico temperamento di mostrarsi sotto forme molteplici. Scevra di tutto l’istrionismo che invadeva anche i migliori artisti del suo tempo, Virginia Marini intendeva l’arte serenamente, senza ciarlataneria, ed amava sempre la ricerca del bello e del vero. La sua recitazione, corretta ed armonica sempre, nella dizione e nel gesto, la ricerca paziente che metteva in tutti quei particolari, che servivano a lumeggiare il suo personaggio, la sincerità della commozione, lo 426 VERGANI Orio, I fiori della Marini, in “Corriere di informazione”, Milano, 13.06.1957 [TSTO]. 427 Cfr. ANTONA-TRAVERSI 1929, pgg. 255/283.
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slancio febbrile della sua persona rivelavano un’anima eletta, assetata di bellezza e di verità». I critici e gli studiosi scrissero ancora su di lei fino agli anni trenta, come ho testimoniato attraverso numerose citazioni. Nessuno mette in dubbio che la sua natura mite sia stata il limite e il pregio della sua arte. Persino il suo rapporto con i testi è da grandattrice ma non nel senso utilitaristico applicato da tanti colleghi. Virginia non esprime il volto cortigiano di Margherita Gauthier, lo “salta” passando subito alla donna pentita e innamorata, perché è nelle sue corde “umane”; la sua abilità artistica si ferma davanti ad aspetti della vita che il suo spirito non “conosce”, che giudica troppo lontani dalla sua visione morale. Alcuni lo giudicano un atteggiamento da “figlia di Maria”, e in parte è vero. La professionista Virginia capisce molto presto che la “ingenuità” del suo approccio ai personaggi è la chiave del suo successo presso un pubblico “medio”, senza eccessive esigenze intellettuali. Questo pubblico approva totalmente il tipo di mediazione operata dall’attrice, naturalmente grazie alla sua bravura interpretativa. Ed ecco il fondamento di quella bravura: la voce. Negli anni d’oro di Virginia la persona del grandattore è la principale, forse l’unica componente visiva dello spettacolo. Il costume, il trucco, soprattutto il gesto e le espressioni facciali, sono importanti ma in prima linea c’è la voce. Virginia ha un timbro bellissimo e una duttilità di toni invidiabile; gli spettatori sono inebriati dalla sua voce. Sull’uso che Virginia ne fa, alcuni vedono un palese artificio; i più cattivi sostengono che reciti con la voce e non con il cuore. Mi sembra la solita storia, che nel libro ho raccontato. L’attore recita con tutto: con le sue doti naturali (il “talento”, che se non ce l’hai, non te lo puoi dare: la componente più importante in assoluto), con “tutte” le tecniche teatrali derivate dall’esperienza, con l’intelletto e con il sentimento; la cultura nell’attore è un optional (come sentii dire un giorno da Paolo Grassi, in privato), un attore incolto può essere un meraviglioso strumento culturale. Ho incorniciato Virginia in un “verismo romantico” influenzato dal più significativo incontro della sua vita artistica: quello con Tommaso Salvini, con i suoi criteri e i suoi metodi. Non si dimentichi che il massimo idolo dello spettacolo ottocentesco è il cantante lirico, il quale, per essere all’altezza di momenti di alta emozione spirituale, deve possedere una grande tecnica, quella che i melomani di allora privilegiavano e sapevano riconoscere. Virginia si gioca tutto con il suo “cantar-re-
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citando”; passa -apparentemente senza alcun sforzo- dalla leggerezza alla disperazione. Lo sa “fare” e soprattutto lo sa “rifare” in primo luogo grazie alla tecnica. Beninteso, non sto parlando banalmente della padronanza della respirazione; il grandattore “studia”. Anche quel testo drammaturgico che magari rivolterà come un calzino, il grandattore prima lo analizza approfonditamente. Cura scrupolosamente la sua fisicità, si “guarda”. Lo stesso tentativo di immedesimarsi nel personaggio, lo affronta con razionalità. Pur negli estremismi del suo individualismo, non perde di vista l’impatto dello spettacolo; sa anticipare le reazioni del pubblico, oppure le asseconda immediatamente. Tutto ciò, sempre in subordine alla maggiore o minore “animalità” di ciascuno, è tecnica. Ho scelto arbitrariamente il termine “grandattore” per indicare un’epoca piuttosto circoscrivibile, quindi non come epiteto generico. Il periodo che ho assunto a riferimento si inscrive nella seconda metà dell’Ottocento. Il fenomeno non è fatto soltanto dalla individuale personalità artistica (che nella tradizione italiana si può considerare una tipologia tuttora viva) ma anche dal contesto in cui essa si muove, dalla macchina organizzativo-economica cui è finalizzata; e inoltre dalle peculiarità degli spettatori di uno specifico passaggio storico. Il grandattore ha di fronte un pubblico che per alcuni decenni vive il teatro come il focus della sua vita sociale, come il prediletto luogo d’incontro della sua giornata. Sarebbe arbitrario prolungare l’era del grandattore nel Novecento; certo, ho ripetuto che il mattatorismo all’italiana sopravvive, ma è in atto una evoluzione professionale. Alcuni sostengono che dapprima subentra l’attore “artifex”, quando, sul modello della Duse matura, non si tratta più di capocomici ma di “artisti” iperuranici; poi arriva il regista, l’artifex a tutto tondo. Virginia appartiene al cuore dell’era del grandattore. Non ha la statura della Ristori, non è in preda ad inquietudini (come la Pezzana) con cui potrebbe anticipare la Duse. Ho detto esplicitamente che oggi la nostra attrice non può essere interessante sul piano storico-teatrale se non come testimonianza. Entra nella professione quando il regno unitario taglia i finanziamenti e impone al teatro la commercializzazione; non può quindi sostenere rigorosamente il concetto di un teatro educatore del popolo, che aveva animato l’attività di Gustavo Modena; deve ottenere dal pubblico un consenso quantitativo e deve contribuire alla quadratura dei conti; tuttavia conserva una spontanea idealità nel
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fare spettacolo. È un’ottima professionista; non soltanto non fa capricci inutili, ma sa “ripetere”, sa mantenere un alto standard qualitativo sera dopo sera; ha una volontà di ferro, una disciplina da atleta, e insieme un cuore che sa pulsare. Non ha avuto privilegi, non si è servita degli strumenti della femminilità. È caparbia, ed è fedele. Non molla il povero marito, prezioso agli inizi ma insufficiente a fare il gran salto, con il quale non può che sentirsi soverchiata da giochi più grandi di loro. Sa davvero “accontentarsi”, ha i piedini per terra; conosce i suoi limiti e, insieme, sa perfettamente tesaurizzarli. La sua forza è la voce. In un palcoscenico poco illuminato e mal scenografato arriva alla ribalta con costumi sempre più accurati ed espone il suo “cantar-recitando” non lezioso, spontaneo, capace di “naturalezza” espressiva, dotata di molte corde tutte inscritte in una percepibile armonia artistica. Anima con bravura la mediocre drammaturgia del momento; a taluni sembra l’ultima grande interprete goldoniana; altri pensano che avrebbe dovuto continuare ad essere una straordinaria “madre nobile”. È una teatrante all’antica italiana; una operaia del palcoscenico; macina chilometri tutto l’anno; vive per incontrare il pubblico cui donarsi pienamente. Come ogni grandattore degno di questo nome, concepisce il pubblico come sovrano assoluto, che non significa assecondarne la frequente superficialità ma conquistarne, recita dopo recita, l’effimera ammirazione. E gli spettatori le fanno una grande applauso “di sortita” appena si affaccia in palcoscenico, la interrompono per osannarla, le fanno ripetere le battute come chiedono i bis alle soprano, depongono aiuole fiorite ai suoi piedi, le dedicano poesie e la colmano di doni preziosi. Lei è sinceramente grata ma, appena oltrepassate le quinte, non è più una diva, e non ha alcun interesse a sembrarla. Riduce al minimo i contatti con la mondanità; non si deprime quando finiscono anche quelli. Cerca di rispettare i colleghi, all’interno di un microcosmo decisamente irrispettoso. Segue con generosità i giovani talenti, fino a diventare “maestra” a tempo pieno; incoraggia i nuovi autori; aiuta il marito nella conduzione di una attività piena di dubbi e di rischi. Mantiene materialmente la famiglia e se ne circonda affettuosamente. Non perde occasione per fare beneficenza. È una moderata, ma è sensibile alle passioni patriottiche e alle rivendicazioni femministiche. Per tutta la vita ha onorato, senza clamori, un mestiere antico, in genere misconosciuto, un po’ ridicolo un po’ affascinante, metà superfluo metà indispensabile.
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Indice dei nomi ABBIATI Amaele, 77 ALBERTI Adamo, 149-151n-152-153-154 ALFIERI Benedetto, 18 ALFIERI Vittorio, 26n-102n-104-126-157 ALIGHIERI Dante, 94-145 ALIPRANDI-PIERI (attrice), 196-204 ANDÒ Flavio, 110 ANDREINI Francesco, 93 ANDREINI Isabella, 92-93-233 ANGIOLINI Piero, 22-23-74-75-76-77-163 ANTOINE André, 203 ANTONA-TRAVERSI Camillo, 70n-135-140173-203-211 ANTONA-TRAVERSI Giannino, 235 ARONA Danilo, 79 ASTORI Carlo, 57 AUGIER Èmile, 180 A-VALLE Carlo (Fra’ Chichibio), 36 BACCELLI Guido, 213-215-216-217 BAYARD, 154-157 BALLERINO Alberto, 79 BALZAC Honoré de, 51 BARATIERI, 44 BARBAROSSA, 19 BARBERIS Tommaso, 75 BARZIZZA Giuseppe, 57-64 BASILE Nicola, 21-67-77 BASSI Domenico, 150n-175n-176-192-198 BASSI Lucio, 35-78 BATTU & DEVIGNES, 184 BEAUMARCHAIS, 51 BECHI Gino, 67n BELLANA (signor), 22-34 BELLI-BLANES (attrice), 177 BELLOTTI-BON Luigi, 55-123-130-131-141174-175-176-177-180-182-185-186-191-193196-212-213 BELOT Adolfo, 169 BELTRAMI Cesare, 78 BELVIGLIERI C., 74 BENINI Ferruccio, 141n BERANDI I.L., 45 BERNHARDT Sarah, 68-143-175-187-188n194-202-210-235
BERRIERE, 175 BERSEZIO Vittorio, 168-183-185-186-204-231 BERTI Filippo, 219 BERTOLA Ignazio, 18 BESEGHI Angela, 177-199 BETTINI Amalia, 218 BIAGI Luigi, 47-134-191-192-217-218-221-228 BIANCOLELLI Domenico, 92 BIMA Fausto, 13 BISSON, 203-204 BISTOLFI Leonardo, 68 BYRON H.J., 183 BLUM & TOCHÉ, 53 BOBBIO Felice, 51 BOCCA Enzo, 71 BON Francesco Augusto, 175 BORELLI Lida, 234 BORGHESE, 191 BORROMEO, cardinale, 94 BORSALINO G.B., 58 BORSALINO Giuseppe, 35-40 BORSALINO Lazzaro, 35 BORSALINO Teresio, 63-69 BOSSOLA Amilcare, 25-60 BOTTERO (consigliere comunale TO), 41 BOTTERO Osvaldo, 51 BOUTET Edoardo, 31-97-111-138n-173-196197-210-223-224-226-228-231-236 BRACCI Giuseppe, 191-199 BRACCI Ignazio, 191 BRAGAGLIA Anton Giulio, 97-210 BRECHT Bertolt, 200 BRONDOLO Enrico, 68 BRUNELLI Vittorio, 69 BRUNO Mario, 79 BRUSCHI FALGARI (contessa), 234 BUONACCORSI Eugenio, 127 BURONZO Vincenzo, 69 CAETANI (principessa), 234 CAGNA A.G., 183 CALANDRA Edoardo, 72-202 CALABRESI Oreste, 204-212-236 CAPPELLI, 191 CAPRANICA DEL GRILLO Giuliano, 108-
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109-119 CAPUANA Luigi, 86n-134 CARDUCCI Giosuè, 233-235 CARRERA, 201 CASELLI Giuseppe, 18 CASTELVECCHIO Riccardo, 182-183-208 CAUDA Giuseppe, 197-235 CAVALLOTTI Felice, 51-53-161-168-170-186197-202-228 CAZZOLA Clementina, 126-127-140n-151153-154-156-161-162-163-168-188-218-232 CECHOV Anton, 210 CERESA Giovanni, 177-181-182-184-196 CHECCHI Tebaldo, 198 CHIUSOLI Cesare, 199-200 CIMARA Luigi, 23n-69-98 CIMAROSA Domenico, 152 CIOTTI-CAVALLETTO Giovanna, 124 CIOTTI Francesco, 171-173-175-176-199 CIVALIERI Pietro, 20 COLA, 177 COLLI Carolina, 32n COLONNA (principe), 232 COMETTA, 44 Compagnia ALBERTI, 153 Compagnia BELLOTI-BON, 43 Compagnia DOMENICONI, 126-161 Compagnia Cesare DONDINI, 161 Compagnia d’operette E. VECTA, 64n Compagnia d’operette G. MAGNANI, 63 Compagnia Eugenio CASILINI, 198 Compagnia Mario FUMAGALLI, 63 Compagnia MEYNADIER, 123 Compagnia MONTI-PREDA, 26-34-151-169 Compagnia PIERI-DOMENICONI, 151 Compagnia SADOWSKI-ASTOLFI, 35 Compagnia VESTRI-ANTINORI, 36 COPPÉE Francesco, 202 CORNAGLIA Teresa, 20-21-22-23-36-236n COSSA Pietro, 41-43-44-47-52-62-123-142143-144-173-174-180-181-182-184-185-195-196197-201-210-212-228-231-235 COSTETTI Giuseppe, 44-104-115-123n-168170-219-231 COUREL P., 62 CREMIEUX & DECURCELLES, 199 D’AMBRA Lucio, 69
D’AMICO Silvio, 89-97-98-99-102n-111-138210-224-226-229 D’ANNUNZIO Gabriele, 69-111-138n-223 D’ANTONIO Mario, 69-70-73 D’ANTONIO Rina, 69 D’ARCAIS, 44-144-173-196 D’ASTE Ippolito Tito, 170 DAUDET Alphonse, 204-206 DE ANTONI, 76 DE GIORGIS Mario, 66/67n-69 DELL’ONGARO Francesco, 186 DELPIT A., 183 DE MARINI Giuseppe, 133 DE MUSSET Alfred, 106n DE NEGRI Giuseppe Battista, 43-51 DERENZI [?], 44 DE RENZIS Francesco, 106n-169-183 DE SANCTIS Alfredo, 141-231 DEVIGNE & BATTU, 171 DI CASTELNUOVO Leo, 168-171-202 DIDEROT, 120n-206 DI LORENZO Tina, 204-210-218-226 DI MENZA Elia, 79 DI STEFANO Giuseppe, 67 DOCHE Charlotte-Marie, 235 DOLLFUS Ennio, 72 DOMENICONI Luigi, 151n DOMINICI, 168-171 DONATI, 212 DONDINI Cesare (Cesarino), 25-65-69-228 DONDINI Laura, 217-221-228 DORO Giuseppe Viero, 117 DUMAS Alexandre fils, 35-52-121-142-152157-158-161-170-171-175-180-182-183-184-212 DUMAS Alexandre père, 129 DUSE Eleonora, 66-70-95-97-99-110-124125-132n-138-140n-141-143-145-146-182198-210-218-223-224-226-228-232-240 ECO Umberto, 13 EDUARDO De Filippo, 93-103 EMANUEL Giovanni, 51-135-136-137-138-143161-169-196-197-198-225-236-238 ESTEBANEZ J., 183 FALCONI Adelaide, 134-191 FALCONI Pietro, 191 Famiglia MONTI, 71 FAVA Carlo, 60-64
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FERRARI Luigi, 23-24-53 FERRARI Paolo, 53-62-73-122-132n-133-134135-142-168-170-171-175-176-180-189-191-192193-196-199-223-228-233-236 FERRAVILLA Edoardo, 141n FEUILLET Octave, 182 FINZI Attilio, Arrigo e Dante, 57 FIORILLI Tiberio, 92 FIORILLI PELLANDI Anna, 218 FO Dario, 93 FOA M., 59 FOGAZZARO Antonio, 213-233 FORTIS Leone, 196-198 FOSSATI Evasio, 169 FRADELETTO (on.), 234 FRANCESCHI E.L., 225 FRANCESCHI Goffredo, 168 FRANCHI & INGRASSIA, 92 FRANCHINI Teresa, 63 FRANCO Giuseppina, 52 GABRIEL & AUGER, 171 GALATERI DI GIANOLA Gabriele, 19 GALLI Dina, 69-234 GALLIA, 76 GALLINA Giacinto, 171-201-233-234 GARIBALDI Giuseppe, 132n GARZES Francesco, 176-213 GASPAROLO canonico Francesco, 40 GASSMAN Vittorio, 127 GATTESCHI, 202 GATTINELLI Angelo, 23-49-65-69-70-133192-217-228-236-237 GAZZOLETTI, 233 GEA DELLA GARISENDA, 63 GHERARDI DEL TESTA Tommaso, 170 GHIRINGHELLI Antonio, 67 GHIRLANDA, 133 GIACOMETTI Paolo, 109-139-157 GIACOSA Giuseppe, 129-142-175-176-184210-228 GIAGNONI-AJUDI Pierina, 66-117-191 GIARELLI Francesco, 54 GIOBERTI (consigliere comunale TO), 41 GIRAUD Giovanni, 150 GLECH Graziosa, 196-197 GNONE Francesco, 51 GOBETTI Piero, 138
GOLDONI Carlo, 49-53-87-90-92-93-100-137142-149-157-179-183-212-227-228 GORDON CRAIG Edward, 111 GRA (signor), 40-51 GREPPI, 66 GRILLPARZER Franz, 178-194 GUASCO GALLARATI, 18 GUAZZONE DI PASSALACQUA Giuseppe, 70 GUGLIELMETTI Edwige, 176n-199-203-204 HALM Frederick, 162-167 HAUPTMANN Gerhart, 211 HUGO Victor, 233 IACHINO Crispino, 40-51 IBSEN Henrik, 72-100-138-207-208-209-210211-236 INTERDONATO Stefano, 177 INTERNARI Carolina, 133-218 JARRO (Giulio Piccinni), 146n-155-158-162204-205-206-233 JUVARRA Filippo, 18 KELLER (maestro di banda), 52 LANDAU, 194 LANZA Domenico, 132-231 LAVAGETTO Luigi, 64 LEIGHEB Claudio, 49-52-53-117-134-191-193196-199-201-203-204 LEIGHEB Teresa, 117-191-199-203 LEGOUVÉ Ernest-Wilfrid, 201 LEOPARDI Giacomo, 228 LIVIO Gigi, 130 LIVRAGHI Roberto, 76n LUGNÉ-POE Aurélien, 111 MAFFEI Andrea, 178-194 MAJERONI Achille, 134 MAGGI Andrea, 127 MAGNAGHI, 76 MANCINELLI, 44 MARCHI Pia, 54-66-140n-168-196-218-232 MARCHIONNI Carlotta, 74n-75-119-120-123133-151n-218 MARENCO Carlo, 157 MARENCO Emilio, 177 MARENCO Leopoldo, 170-175-177-183-184 MARESCOTTI Giovanni, 69-71-76 MARINETTI Filippo Tommaso, 210 MARIVAUX, 92-168-170-171-183 MARRADI Giovanni, 233
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MARTINI Ferdinando, 106n-169-171-192218-219 MAZZINI Giuseppe, 144 MAZZUCCO (Podestà), 68-69 MEILACH & HALEVY, 169-183 MELATO Maria, 67-69-146 MESCHINI Alessandro, 217 MIGLIARA (cantante), 51 MILLY (Giuseppina Mignone), 79 MINA Lorenzo, 65 MINERVINI, 44 MIRABEAU Honoré de, 211 MODENA Gustavo, 34-76-95-99-104-126-128129-133-162-168-175-188-189-238-240 MOLIÈRE, 92-157-182-183 MONTECORBOLI Enrico, 170-180-232 MONTI Alessandro, 9-149-150-151-155-156157-158-163-169 MORBELLI Angelo, 67 MORELLI Alamanno, 123-129-130-132-141169-170-171-172-174-180-192-212-219 MORO Carlo, 54-76 MORROCCHESI Antonio, 101/102n-218219-224 MORSELLI, 235 MURATORI, 171 NAPOLEONE Bonaparte, 19-98-123 NAPOLI Federigo, 44-185 NEGRI Ada, 228 NOVELLI Ermete, 47-48-117-132-134-158-191192-193-196-222-223-232-233-234 NUS [?], 169 OBERDAN Guglielmo, 189 ODDONE Giovanni, 41 OHNET Georges, 47-198-228 OLTRABELLA, 67n PAISIELLO Giovanni, 152 PAISSA (una cantante), 51 PALESTRINA Giovanni Pierluigi da, 215 PANDOLFI Vito, 70n-90-97-98 PANERAI, 168 PANIZZA (operaio), 50 PANZACCHI Enrico, 155-156-179 PARODI, 175-235 PASSAGGIO Lorenzo e Carlo, 63 PASCOLI Giovanni, 228 PASTONCHI Francesco, 235
PATTI Adelina, 233 PEDEMONTE Mario, 64 PELLICO Silvio, 104-157 PELZET Maddalena, 218 PETITO Antonio, 141n PETROLINI Ettore, 93 PETRONI (avvocato), 184 PEZZANA Giacinta, 20-26-54-66-124-140141-142-143-144-145-146-147-150-171-174-182192-196-218-223-232-240 PICCARDI, 44 PIERI Gaspare, 150-151n-155-157 PIETROTTI, 177 PIGNONE DEL CARRETTO Carlo, 177 PILOTTO Libero, 138-204-207-212-232 PIRANDELLO Luigi, 97-100-210 PISTOIA Ernesto, 65-72-76 PITTALUGA Giuseppe, 49 PLAUTO, 91 POLESE Icilio, 136-137n-199-207 POLESE Enrico, 137n-207-208 PONCHIELLI Amilcare, 59 POZZA Giovanni, 207 PRADO Benedetto, 182-183 PRAGA Marco, 190-199-202 PREDA Luigi, 149-150n PRIVATO Guglielmo, 171 PROIETTI Gigi, 103 PUGNO, 44 RACINE, 199 RAIMONDI, 76 RANDONE Salvo, 127 RASI Luigi, 101-103-111-154-219-224-225 RATTAZZI Urbano, 20-39 RE RICCARDI Adolfo, 73-77-145-190-212 REDUZZI Ercole, 68 REINACH Enrico, 52-134-171-176-191-192194-195-199-203 REITER Virginia, 51-124-146-161-198-218 RICASOLI (barone), 218 RICCI (generale), 72 RISTORI Adelaide, 20-26-66-99-103-104-108109-110-119-121-122-123-125-126-128-133-140141-142-143-145-146-151n-161-162-171-188189-218-219-228-231-232-233-240 RISTORI BELLOTTI Luigia, 175 RISTORI Carolina, 26
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ROBOTTI, 133 ROSA Norberto, 35 ROSSETTI Antonio, 39 ROSSI (consigliere comunale TO), 41 ROSSI Cesare, 110-132-198-231-236 ROSSI Ernesto, 20-128-133-145-161-168-196231-237 ROSSI Gustavo, 74-77 ROSSI Luigi, 168 ROSSINI Gioacchino, 152 ROVETTA Gerolamo, 183-210-228 RUBINO Margherita, 78 RUGGERI Ruggero, 234 S.M. Francesco Giuseppe, 189 S.M. Re Alfonso di Spagna, 179 S.M. Regina Margherita, 62-70-73-190-211212-216-232 S.M. Re Luigi di Portogallo, 235 S.M. Re Umberto I, 190-211 S.M. Vittorio Amedeo II, 18 SADOWSKI Fanny, 104-188-218 SALSILLI Antonio, 116-135-153n-199-201-223 SALVADORI Enrico, 175n SALVAY Giocondo, 74 SALVESTRI G., 183 SALVINI Celso, 22-26n-74-77-126-141-146147-153-157 SALVINI Gustavo, 69 SALVINI Tommaso, 20-26n-74-95-126-127128-129-133-139-143-145-149-151-152-153-154156-161-162-163-166-168-176-196-206-231-233235-237-238-239 SALVIO Roberto, 78 SAN MARTINO E VALPERGA Enrico conte di, 216-217-221-223-233-235 SARACENI (prof.), 178 SARDOU Victorien, 47-49-51-52-53-142-157168-174-175-178-180-181-182-183-185-186-187194-195-196-197-201-202-204-228 SBODIO Gaetano, 141n SCAGLIA Riccardo, 21-54-65-69-70-71-73-77146-187 SCARPETTA Eduardo, 141n SCIARRA Adelaide, 166-176-192-212 SCIARRA Francesco, 192 SCIFONI, 173 SCRIBE Eugène, 157-183
SCRIBE & LEGOUVÉ, 51-144-156-184-193 SERAO Matilde, 233 SHAKESPEARE William, 87-126-143-223 SGAMBATI Giovanni, 215 SIMONI Renato, 65-99-208 SOLERI Giorgio, 91 STABILE Mariano, 67 STANISLAWSKIJ Konstantin, 126 STRANEO Ludovico, 39 STREHLER Giorgio, 91 TADDEI Luigi, 133-153 TAFURI Andrea, 78 TAGLIAVINI Ferruccio, 67n TALLI Virgilio, 111 TESTONI Alfredo, 117-201 TESSERO Adelaide, 20-26-54-66-129-133-140141-142-143-144-145-146-147-150-174-175-182192-196-197-201-212-218-232 TESSERO Giovanni, 26 TESSERO Pasquale, 26-149 THEODOLI, 191 TIBALDI Eugenio, 190 TOFANO Sergio, 23n-98-107-209-228 TOLSTOJ Lev, 211 TORELLI Achille, 49-122-129-142-153-170171-191 TORRE, 67 TOSCANINI Arturo, 58 TOSELLI Giovanni, 141n-144-150 TURCO, 44 TURGENEV Ivan, 211 TUROLA Jacopo, 62 VACCARI Luigi, 69 VALDENGO, 67 VALEBREGUE, 201 VALIZONE Leopoldo, 39 VALLI Romolo, 103 VANDONE (ingegnere di Torino), 59 VASSALLI Giuseppe, 51 VERDI Giuseppe, 20-87 VERGANI Orio, 237 VERGANI Vera, 237 VESTRI Angelo, 49-52-133-134-191-193-196-199 VESTRI Luigi, 168 VIECHA Antonio, 40 VINCI, 191 VISINO Anna (Annetta), in locandina: An-
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netta Weiss o Gattinelli, 23-176-187-192-237 VISINO Carlo, 20-21-22-23-24-36-149 VISINO Giacinta, 23 VISINO Giulio, 23 VITALIANI Cesare, 49-177-182-191 VITALIANI Italia, 52-191-199-213-218 VIVIANI Antonio, 93 VOCHIERI Andrea, 20 VOLTAIRE, 126-167-176-235 WAGNER Richard, 58n WEISS Domenico, 21 WILBRANDT Adolf, 144
YORICK (Pietro Coccoluto Ferigni), 132n-133134-143-146n-169-175-178-183-193-194-196 ZACCONI Ermete, 51-61-62-95-99-138-139143-156-204-206-207-208-209-210-211-212232-234-236 ZAGO Emilio, 63 ZALLIO (ballerina), 51 ZANZI Carlo, 58 ZOLA Émile, 145 ZOPPETTI Angelo, 177-182n ZOPPETTI (attrice), 177 ZOPPETTI Giuseppe, 196
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Indicazioni bibliografiche
Le abbreviazioni in parentesi quadra alla fine delle citazioni bibliografiche, indicano la reperibilità del documento: ALST: citazioni dal giornale “La Stampa” di Torino, archivio storico (dal 1867) informatizzato: www.archiviolastampa.it; ANSC: Bibliomediateca dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma; ARCH: Biblioteca dell’Archiginnasio, Bologna; ASCAL: Archivio storico del Comune di Alessandria conservato dall’Archivio di Stato di Alessandria; BCAL: Biblioteca Civica di Alessandria; BIDD: Biblioteca Italiana delle Donne, Bologna; BNNA: Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Napoli. BTBU: Biblioteca Teatrale del Burcardo, SIAE, Roma; MAGE: Museo dell’Attore, Genova; MTTS: Civico Museo teatrale “Carlo Schmidl”, Trieste; SALV: Biblioteca Civica di San Salvatore Monferrato (AL); TEAL: testi, attualmente non consultabili, provenienti dai fondi librari conservati nel Teatro Comunale di Alessandria; TSTO: Centro Studi del Teatro Stabile di Torino; Nb: l’assenza di indicazione in parentesi quadra significa che il libro/documento è posseduto personalmente dall’autore.
Generali ALLEGRI 2005 = L’arte e il mestiere. L’attore teatrale dall’antichità a oggi / Luigi Allegri, Carocci editore, 2005. ALONGE 2000-2003 = Storia del teatro moderno e contemporaneo / Diretta da Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, Torino: Einaudi, 2000-2003, 4 volumi. ALONGE 2012 = Storia del teatro e dello spettacolo / di Roberto Alonge e Franco Perrelli, con la collaborazione di Alessandro Pontremoli, Elena Randi, Claudio Longhi, Armando Petrini, Torino: UTET Universitaria, 2012. CRUCIANI 1992 = Lo spazio del teatro / Fabrizio Cruciani, Roma-Bari: Editori Laterza, 1992, D’AMICO 1970 = Storia del Teatro Drammatico / Silvio d’Amico, Milano: Garzanti, 1970, sesta edizione, 4 volumi (nel IV vol.: un capitolo aggiuntivo sul teatro dal 1950 a oggi di Raul Radice). DOGLIO 1990 = Storia del teatro / Federico Doglio, Milano: Garzanti, 1990, 4 volumi. Enciclopedia dello Spettacolo 1954/1962 = Enciclopedia dello Spettacolo, fondata da Silvio d’Amico, Roma: Le Maschere, 1954/1962, 9 voll. + Aggiornamento 1955/1965 + Indice-Repertorio.
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LUZZATTO 2012 = Atlante della letteratura italiana / a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol.III: dal Romanticismo a oggi / a cura di Domenico Scarpa, Torino: Giulio Einaudi editore, 2012. PANDOLFI 1964 = Storia universale del teatro drammatico / Vito Pandolfi, Torino: UTET, 1964, 2 volumi. FERRONI 1991 = Storia della letteratura italiana / Giulio Ferroni, vol.III: Dall’Ottocento al Novecento, Milano: Einaudi Scuola, 1991.
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La carriera di Virginia
Servetta amorosa 1858/61: con Alessandro Monti e Luigi Preda 1862/63: con Luigi Domeniconi e Gaspare Pieri 1864/65: con Adamo Alberti 1866/68: con Alessandro Monti Primadonna 1868/70: con Tommaso Salvini 1871/73: con la Compagnia Lombarda di Alamanno Morelli 1874/76: ancora con Morelli, marito socio nell’impresa 1876/79: con Luigi Bellotti-Bon 1879/81: ancora con Bellotti-Bon, marito socio nell’impresa 1883/85: con la Compagnia Drammatica Nazionale di Roma 1886/87: con Giovanni Emanuel 1887/88: con Cesare Rossi 1888/93: compagnia di proprietà dei coniugi Marini 1894: con Francesco Garzes Maestra Dal 1894 al 1918: direttrice della scuola di recitazione presso l’Accademia Santa Cecilia – Roma
Finito di stampare nel mese di novembre 2013