Guida al teatro contemporaneo(revisione luglio 2014)

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15. GUIDA

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Franco Ferrari

Guida al teatro italiano Contemporaneo

Gammalibri

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Pubblicazione periodica mensile Autorizzazione Tribunale di Milano n.210 del 10.5.78 Direttore responsabile Domenico Nodari

Proprietà letteraria riservata Copyright 1980 Š editrice Gammalibri Milano Prima edizione novembre 1980

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GUIDA AL TEATRO ITALIANO CONTEMPORANEO

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Premessa

Realizzare una Guida al teatro italiano contemporaneo significa non tanto presupporre una disinformazione e/o un disorientamento da parte dell’utenza teatrale, quanto sollecitare nello spettatore l’esigenza di accostarsi al teatro per il tramite (che si vuole consapevolizzante) di strumenti tecnicocritici. Non si tratta quindi di una “alfabetizzazione” che non tarderebbe a scontare la propria ambigua presunzione di sintesi; si intende piuttosto contribuire a una socializzazione della cultura teatrale. Il momento dello spettacolo (cioè la singola rappresentazione teatrale) riconferma oggi — dopo gli scossoni sessantotteschi, le fughe in avanti verso la spontaneità, l’autogestione, gli “anticircuiti”, etc. — la sua tradizionale primarietà nell’organizzazione e nell’economia teatrali. Il fatidico “decentramento” sembra in gran parte riassumersi e sistematizzarsi in un sostanzioso ruolo (anche imprenditoriale, cioè di tipo produttivo) dell’ente locale nel settore teatrale. L’iniziativa di base, quando non svuotata da riflussi individualistici, si è attardata nel dubbio del “professionismo”. La ricerca di un pubblico “altro”, cioè diversamente connotato a livello sociale e culturale (tipica del dopoguerra e ripresa, con più specifiche accezioni, nei primi anni Settanta), ha forse sottovalutato la necessità di modificare il pubblico “normale”, “pagante”, lo spettatore/consumatore che rifiuta lo spettacolo “elitario”, “d’avanguardia”, “che non si capisce” (cioè che “lui” non capisce o non vuole capire); lo spettatore della tradizione borghese che vuole diventare— senza traumi — lo spettatore del falso progressismo compromissorio. Bisogna prendere atto che la generica nozione di “teatro” raccoglie ormai una molteplicità non disorganica ma estremamente

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complessa, che impone strumenti adeguati. Fornire questi strumenti significa radicare il teatro non come evento ma come cultura, socializzarlo in senso “verticale” oltreché orizzontale; significa non rinunciare al “vecchio” progetto di una fruizione consapevolizzata, critica, autenticamente anti-consumistica. Da una parte, quindi, la sostanziale riabilitazione (e il sostanzioso rilancio) di una produzione già più volte accusata di sclerosi. Dall’altra, l’esigenza di negare definitivamente la primarietà sociologica di tale momento produttivo e di potenziarne i complementi operativo-culturali. Ma questi argomenti esulano da un ambito di premessa metodologica, e verranno perciò ripresi successivamente. Con essi, comunque, si è voluto porre indirettamente il problema centrale di questa (e di qualsiasi) “guida”: a che cosa servire. Scartato un intento rigorosamente saggistico (per l’immediata contraddizione con lo schema informativo-divulgativo che lo stesso titolo sottintende), ci si scontra al l’opposto con una ipotesi di “vademecum”, evidentemente risibile, e non soltanto in rapporto alla sua pretesa esaustività. La ricerca di una soluzione intermedia può forse individuare e assumere il seguente criterio: dare informazioni sulla situazione teatrale italiana e, insieme, non rinunciare a una lettura tecnicospecifica, esplicitamente attualizzata, di alcuni I settori in cui si determina l’astratta dizione di “teatro italiano”; da una parte non inibire, anzi agevolare, un uso “turistico”, semplicemente consultivo, di queste pagine, dall’altra evitare qualsiasi dissimulazione in merito alle “intenzioni”. Il tutto nel rispetto di un principio che si crede irrinunciabile: l’effettiva utilità (tecnica e/o culturale) di una Guida al teatro sta nell’esplicitare la propria inevitabile parzialità di catalogazione, e soprattutto nell’assecondare la straordinaria rapidità del proprio invecchiamento. Non crediamo possa esistere una formula canonica, in osservanza o in contrapposizione alla quale impostare un tale lavoro. Certo,

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nella stessa definizione di “guida” sono implicite una radicalizzazione e una sistematizzazione degli intenti informativodivulgativi. Mezzo secolo fa, il critico Cesare Levi, volendosi fare “garbato divulgatore” della cultura teatrale dell’epoca, scriveva una sorta di “guida” (Il Teatro, Roma, Fondazione Léonard, 1921), concepita esclusivamente come elenco di notizie esplicative sugli autori drammatici contemporanei e sulle loro opere, dimostrando così che — ad avvenuta rivoluzione teatrale futurista — l’unica nozione di teatro da lui ritenuta “divulgabile” coincideva con la letteratura teatrale. Gli replicherà idealmente Silvio d’Amico con un manualetto (Mettere in scena, Firenze, Sansoni, 1954), in cui si chiarisce che della nozione di teatro fa decisamente parte anche l’allestimento scenico (e il relativo problema, così urgentemente sollevato da d’Amico negli anni Quaranta, della regia). Individuati alcuni argomenti portanti (cioè constatata l’inopportunità di una “guida all’universo teatrale”), l’elemento caratterizzante diventa perciò l’assunzione di una finalità “didattica”; aggettivo ambiguo, che in genere viene adoperato come alibi, ma che qui ci tocca di usare. Crediamo che per fare una “guida” (ma, a questo punto, il termine diventa di comodo) occorra recepire ed evidenziare questa finalità; non crediamo si debba distinguere a priori (se non in sede critico-specialistica, beninteso) sui metodi con cui si persegue questo scopo: dal didascalicopopolare allo scientifico. L’ambito della divulgazione sembra infatti muoversi, consapevolmente, fra confini indeterminati. Da un’informazione di tipo “cronistico” (G. Geron, Dove va il teatro italiano, 1975); alla riflessione critica globale (A. Attisani, Teatro come differenza, 1978); al manuale storico-divulgativo (L. Arruga, Il teatro, 1973); o scolastico (R. Jacobbi, Guida per lo spettatore di teatro, 1973; G. Poli, Contenuti e tecniche.,., 1974; R. Ghiardoni, Teatro e Pubblico, 1979) o “tecnico- culturale” (C. Molinari-V. Ottolenghi, Leggere il teatro, 1979); alle notizie sul teatro come realtà infrastrutturale, politico-organizzati va, amministrativa, etc. (G. Guazzotti, Rapporto sul teatro italiano, 1966; L. Trezzini,

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Geografia del teatro, 1977); all’antologizzazione di documentazioni dirette (R. Alongé, Teatro e società..., 1974; F. Quadri, L’avanguardia teatrale..., 1977); alla formula, estremamente utile, del saggio bibliografico (G. Bettetini-E. De Marinis, Teatro e comunicazine, 1977; G. Scabia-E. Casini Ropa, L’animazione teatrale, 1978); per arrivare al tentativo di “socializzare” ulteriormente la recensione critica attraverso una nutrita iconografia (R. Alonge-R. Tessari, Immagini del teatro contemporaneo, 1977; che si inserisce in un recente filone editoriale tendente a privilegiare il materiale fotografico). Lo scrivente ha cercato di assimilare molte di queste sollecitazioni, tentandone una sintesi metodologica (resa comunque necessaria dall’ampiezza e dalla molteplicità dell’argomento prescelto) ma non una omogeneità semplificante. Evidentemente, titolare un’opera con il termine di “guida” implica la ricerca di una comunicazione “popolare”; ma senza eccessive semplificazioni. Se la comprensibilità e l’immediatezza fossero di per se stesse un valore culturale positivo, Garinei e Giovannini avrebbero molti più meriti di Samuel Beckett. Bisogna forse affermare (e difendere) il significato ‘ ideologico” di una terminologia settoriale che tenti di “spiegare” la propria specializzazione, anziché “tradurla” in termini “accessibili”. Altrimenti torniamo a fare le “matinées” riservate al proletariato. Auspichiamo quindi un lettore che, giunto all’ultimo capoverso, si ritenga decisamente insoddisfatto. In altri termini: questa “guida” si augura di essere “usata” oltre che “consumata”, di “diventare” una indicazione, non di “esserlo” di per se stessa; una proposta non di nozioni, ma di “materiali”. F.F.

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IL SISTEMA TEATRALE ITALIANO

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1.1. Teatro e Stato L’intervento pubblico nella materia teatrale (cioè il riconoscimento da parte dello Stato dei valori “artistico-culturale- sociale”, oltre che economico, del teatro) non è episodio straordinario e nemmeno di storia recente; basterebbe confrontare le tradizioni della Francia e della Germania. L’esempio italiano, invece, non potrebbe essere altrettanto confortante. Dopo non pochi tentativi interessanti ma falliti(I), nel 1921 lo Stato interrompe la politica del nonintervento con uno stanziamento che tuttavia rivela, nelle sue modalità applicative, non tanto una volontà politico-culturale, quanto un intento di burocratizzazione a fini di controllo autoritario. Questo provvedimento (che destinava allo spettacolo — lirica e prosa — la somma di 200.000 lire) innescava — involontariamente sono— un processo che, con l’affermarsi del regime fascista, imbavagliò di fatto il settore in un protezionismo opportunamente contraffatto dalle apparenze retoriche e clamorose del mecenatismo pubblico. Il fascismo infatti si adoperò «per un verso a individuare degli appositi centri politico-amministrativi per sviluppare l’azione dello Stato nel settore, e per altro a disciplinare le iniziative e la relativa domanda di intervento. E secondo la propria vocazione accentratrice e autoritaria usò di questa disciplina per rendere sempre più vincolata a un centro burocratico ogni attività teatrale che fino allora aveva regolata la propria vita secondo le consuetudini e il codice commerciale della libera iniziativa. L’istituzione dei nullaosta di agibilità per i teatri e per le imprese (1938) ha avuto indubbiamente una intenzione positiva nel proporsi di garantire una selezione più rigorosa degli imprenditori e assicurare la necessaria assistenza alle varie categorie dei prestatori d’opera dei quali si iniziava l’inquadramento organico nel mondo del lavoro; ma la richiesta di benemerenze e di riconoscimenti politici per accedere agli stessi nullaosta finì per salvaguardare innanzitutto la fedeltà al regime degli imprenditori. Così il passaggio della competenza amministrativa verso il settore

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teatrale dal Ministero della Pubblica Istruzione a quello degli Interni, e ancora a quello dell’Educazione Nazionale e quindi a quello delle Corporazioni per poi essere enucleata, nel 1935, sotto forma di ispettorato autonomo del Sottosegretariato alla Stampa e Propaganda, poi cresciuto a Ministero (1935) e ribattezzato Ministero della Cultura Popolare (1937), ebbe certo la funzione di istituire un centro specifico di elaborazione di una politica teatrale e del suo coordinamento; ma la funzione in effetti fu solo quella di riassumere burocraticamente e di accentrare il rigoroso controllo politico che partendo dalla , concessione dei nullaosta perveniva con l’istituto della censura a perfezionare il più completo asservimento di ogni iniziativa teatrale ai dettati del regime»'2’. Se da una parte quindi si appoggiarono (non senza resistenze) alcune iniziative di carattere culturale (come l’istituzione della Regia Accademia d’Arte Drammatica e il finanziamento al Teatro delle Arti, diretto da A. G. Bragaglia13’; se da una parte si commise l’imprevedibile “errore” politico di consentire alla nuova generazione di trasformare gli agonismi meritocratici dei GUF in esperienze tecniche sulla cui base preparare una realtà diversa,41, dall’altra parte si costrinse il teatro non soltanto in una morsa censoria ma soprattutto in uno sfruttamento propagandistico che confezionò “per il popolo” la ricetta del “teatro di massa” (i Carri di Tespi, il Teatro dei Ventimila alle Terme di Caracalla, i Teatri del Popolo). Per chi non avesse accettato di identificare il mezzo teatrale con il “messaggio” fascista, il regime portò a compimento il meccanismo delle sovvenzioni (che si istituzionalizza a partire dal R.D.L. 1 aprile 1935, n’ 327) e adottò (18 giugno 1931, ir 773) le norme del Testo unico di pubblica sicurezza (T. U.) secondo le quali ogni attività di pubblico interesse può ricadere sotto il controllo poliziesco. Questo strumento repressivo è stato ereditato dal dopoguerra ed è tuttora vigente (nonostante la sua applicazione contraddica talvolta la Costituzione1^. Il pesante ritardo con cui la Repubblica democratica abolisce la censura fascista (con la ir 161, 21/IV/’62, e il D.P.R.

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np 2029, ll/Xl/’63), è aggravato infatti non soltanto dalla permanenza del T.U. ma anche dalla conferma della discrezionalità sovvenzionati va e quindi dalla cronica mancanza di un assetto legislativo. All’interno di questa situazione complessiva (che non poteva non essere retrodatata al ventennio), l’attuale intervento dello Stato italiano nella materia teatrale è regolato, a ogni inizio di stagione, dalla “circolare ministeriale”, con cui il Ministero del Turismo e dello Spettacolo (entro cui la Direzione Generale dello Spettacolo fu inclusa a partire dal 1958) stabilisce delle “provvidenze a favore delle attività teatrali”; tali provvidenze sono elargite dal Ministero in modo differenziato, valendosi di una commissione consultiva. Il “sussidio”, per il cui stanziamento la circolare fornisce i criteri, viene rapportato alla “produzione” di spettacoli. La circolare divide quindi il sistema teatrale italiano in tre settori “quantitativamente” primari: “Organismi di produzione teatrale a gestione pubblica”, “Complessi teatrali a gestione cooperativistica' ’, “Complessi teatrali a gestione privata”(6’. Tra i settori individuati come minori, i “Complessi professionali di sperimentazione’.’ possono fruire di “speciali” interventi soltanto dopo aver effettuato un minimo (lo stesso delle compagnie private) di due mesi di attività “con la partecipazione dei pubblico”. Anche nel settore teatrale, lo Stato rivela infatti l’inadeguatezza dei propri stanziamenti a favore della ricerca scientifica (e non si scandalizzi il sottinteso riferimento a un “teatro-scienza”, su cui varrà la pena di tornare); rivela inoltre una concezione della sperimentazione deformata e deformante, imponendole una fruizione esterna che — se può diventare sollecitante per una diversa “educazione’ ’ del pubblico — è tuttavia affatto estranea alla nozione di laboratorio e comunque dovrebbe essere demandata a una autonoma scelta dei gruppi sperimentali; si aggiunga, infine, il problema di “dove” accogliere questo pubblico, cioè il problema di quali spazi operativi la ricerca possa conquistarsi. Il criterio della produzione coincide quindi con il criterio

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dell’affluenza degli spettatori. L’adesione del pubblico (in parole povere: il ‘ ‘successo”) «si conferma come presupposto indispensabile (anche se non unico) per giustificare l’intervento finanziario dello Stato a sostegno delle attività di produzione teatrale» (7). Non per nulla, la documentazione principale sulla cui base lo Stato giudica il teatro italiano e stabilisce in che misura finanziarlo, è costituita dai “borderò” (dal francese “bordereau”, che significa “nota”, “distinta”, etc.). In questo registro — compilato a ogni replica, dopo la chiusura dello sbigliettamento — vengono elencati gli incassi, le presenze, i dati relativi allo spettacolo, etc. La presentazione dei borderò, a cui il Ministero vincola le compagnie, sottopone l’attività teatrale a condizionamenti statistico-commerciali, attribuendo di fatto alla rispondenza del mercato un significato culturale. Se vuole garantire la propria sopravvivenza, il teatro deve assumere la logica della circolare, impostando la propria programmazione in rapporto ai criteri sullodati, riducendo ai minimo i tempi di prova (con i conseguenti rischi per il livello qualitativo), tendendo inevitabilmente a una mercificazione degli spettacoli. «I complessi teatrali vengono dunque a trovarsi in un percorso prestabilito; l’allestimento degli spettacoli subisce un nuovo tipo di censura preventiva (...) la speranza delle sovvenzioni è destinata infatti a influenzare e condizionare le scelte delle compagnie. (...) Le norme (...) sono estremamente concrete quando pongono termini di tempo, numero, diversità di sovvenzionamento per le varie articolazioni a carattere professionistico; ma diventano evasive quando accennano ai criteri da seguire nell’assegnazione dei sussidi (...). Alla Commissione consultiva è poi lasciata la libertà di interpretare questi stereotipi e incollarli a un complesso piuttosto che a un altro. Le circolari (...) sanciscono per tutti un “contributo forfettario d’avviamento”: unica forma in sé valida di intervento finanziario, in quanto slegata dagli incassi effettivi e riferita strettamente alle spese vive che ogni gruppo dovrà affrontare in partenza (il costo di allestimento scenico, il fogliopaga durante le prove). (...) Ma tale sovvenzionamento si

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quantifica per ogni complesso in modo estremamente diverso, con proporzioni (...) che per anni mantengono pietrificate le possibilità di miglioramento degli allestimenti delle compagnie meno provviste di contante» w. Maggiori o minori, privilegiate o no, le sovvenzioni non posseggono comunque il pregio della puntualità e del l’abbondanza; dopo immancabili lungaggini burocratiche, ritenute d’acconto a interessi passivi, l’ammontare delle sovvenzioni risulta decurtato di un terzo. Il provvedimento straordinario in favore del teatro datato 8 gennaio ’79 (una cosiddetta “leggina”), stanziava i fondi necessari a integrare i contributi alla stagione conclusasi il 30 giugno ’78, con evidente quanto preoccupante ritardo e con innegabile incidenza negativa sull’impostazione dell’anno teatrale ’78/’79 (e, in generale, sulle aziende teatrali che attualmente si trovano nei dissesti econo- mico-fìnanziari comuni al settore delle piccole imprese). Si è visto come la circolare ministeriale si innesti su una base tecnico-giuridica che dal 1935 non ha subito rilevanti modificazioni (se si eccettua la citata abolizione della censura). Il meccanismo per cui il Ministro dello Spettacolo — ‘ ‘sentito il parere della competente commissione’ ’ — stanzia i contributi, riproduce quello per cui il Sottosegretario alla Stampa e Propaganda elargiva fondi negli anni Trenta. L’incertezza “morale” che questo meccanismo comporta, viene aggravata (negli ultimi anni) dall’instabilità economico-finanziaria, cui si pone rimedio — sempre “in extremis” e dietro affannose sollecitazioni da parte dei teatranti — con provvedimenti urgenti caratterizzati dalle ripercussioni negative che più sopra (citando una di queste “leggine”) si esemplificavano. Se la circolare si basa sul riscontro economico che l’iniziativa sovvenzionata sarà in grado di fornire, la leggina denuncia, di per se stessa, le carenze legislative e viene immancabilmente emanata “in attesa di un organico provvedimento’ ’. Questa attesa ha ormai superato il trentennio e non è sempre stata così angosciosa. La

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legge sul teatro è infatti un Godot aspettando il quale si sono fatte molte cose che 1’ “arrivo” di Godot avrebbe probabilmente ritardato o addirittura non permesso19'. Ma la più determinante incidenza oggi esercitata dal problema finanziario non è l’unica causa dell’urgenza con cui si pone l’impasse legislativa. In un disegno di decentramento già delineato dalla Costituzione (e in un intento efficientistico — in materia gestionale e operativa — nei confronti delle amministrazioni centrali e locali), si è giunti — come è noto — alla legge 382, che riguarda l’attribuzione di competenze organiche a regioni ed enti locali. La legge — confortata sul piano politico da una larga maggioranza — ha provocato in sede attuativa duri scontri e alcune ambiguità. La situazione di stallo è stata sbloccata dal D.P.R. ir 616 (24 luglio 1977: “Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, ir 382”), che tuttavia differisce lo studio e l’approvazione di alcuni trasferimenti (dal centro alle autonomie locali) a una serie di riforme settoriali, tra cui quella dello spettacolo. L’articolo 49 del decreto recita infatti, tra l’altro: «Le funzioni delle Regioni e degli enti locali in ordine alle attività di prosa, musicali e cinematografiche, saranno riordinate con la legge di riforma dei rispettivi settori, da emanarsi entro il 31 dicembre 1979» (l<\ La disposizione di rinvio riduce la delega a un livello puramente programmatico; ma il contenuto fortemente innovativo dell’articolo in questione, rimane. Al di là del fatto che la scadenza prefissata non è stata rispettata, l’art. 49 sembra legittimare “moralmente” gli operati, anche legislativi, delle Regioni in materia di spettacolo e soprattutto riconoscere ufficialmente di “interesse” regionale questa stessa materia. Tuttavia i limiti di questa apertura sono esplicitamente denunciati dalla possibilitànecessità che lo Stato riserva a se stesso di un intervento legislativo globale. Ciò ha provocato un riaccendersi del dibattito, che nella seconda metà degli anni Sessanta si era assopito, sulla legislazione teatrale; tanto che si è assistito a un avvicendarsi quasi frenetico di disegni di legge.

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A differenza che in passato, questo attivismo non rivela soltanto il faticoso “sindacalismo” dei teatranti impegnati a garantire la sopravvivenza del settore, ma dimostra la definitiva assunzione del teatro fra gli strumenti di una corretta politica culturale. In altri termini, e per puntualizzare: al criterio quantitativo, meritocratico, meramente “contabile”, con cui le circolari ministeriali classificano il teatro italiano, si risponde rivendicando al teatro un valore di crescita civile, di socialità, di finalità pubblica, etc., ma soprattutto denunciando come questo valore — oggi universalmente riconosciuto — non oltrepassi “nei fatti” lo stadio delle dichiarazioni programmatiche e, spesso, delle affermazioni elettoralistiche. L’urgenza dell’ “organico provvedimento” diventa così “politica” (oltre che economica) più ancora che tecnica. Tutto il teatro deH’ultimo trentennio testimonia la capacità dei teatranti di sopperire alla vacanza legislativa: dalla “storica” affermazione della gestione pubblica, all’acquisizione del modello dell’impresa cooperativistica, in una continua — e più che mai attuale — sollecitazione del rapporto con le amministrazioni locali. Anche in base a quest’ultimo dato, il lavoro progettuale, che si sta conducendo sulla riforma del teatro, non può non esaminare in primo luogo la distribuzione di competenza fra amministrazione centrale e autonomie locali. Il difficile dialogo tra legislatore centrale e legislatore delegato potrebbe infatti essere ulteriormente compromesso da un autoritarismo “governativo” che costringesse schematicamente il sistema teatrale fra uno Stato che finanzia (cioè controlla) il momento produttivo (lo spettacolo) e delle Regioni che distribuiscono (cioè forniscono al prodotto un “mercato” pur nobilitato dalla propria matrice pubblica)110. Da qui lo scontro frontale — che ha caratterizzato una prima fase del dibattito — fra un “partito del centralismo” e un “partito del decentramento”; scontro a cui si collegava la disputa — più diplomatica — fra sostenitori della persistenza del teatro privato e fautori di una esclusiva pubblicizzazione. Adottare il “regionalismo” a oltranza significava avocare tutte le funzioni

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emerse dall’evoluzione dell’esistente e dalla riflessione su di esso: coordinare la distribuzione degli spettacoli nel territorio, sollecitando il recupero delle strutture teatrali o potenzialmente teatrali; individuare, e quindi consegnare, precise subdeleghe agli enti locali; permettere una gestione sociale di tutte le iniziative, coinvolgendo — fra l’altro — un nuovo pubblico attraverso un lavoro complementare allo spettacolo da svolgersi soprattutto nella scuola e nel mondo del lavoro; corresponsabilizzare interamente gli operatori teatrali nelle attività programmate; evidenziare, ove se ne presentino le motivazioni, il ruolo delle minoranze etnicolinguistiche e salvaguardare i patrimoni dialettali (si pensi al posto occupato, nella cultura teatrale, dal Veneto e dalla “napoletanità”); infine assumersi la produzione, ma è nodo problematico più recente, più complesso e più vincolante. 11 rapporto produzione/distribuzione (su cui si tornerà nel capitolo successivo) costituisce infatti il punto attorno a cui il dibattito — superate le rivendicazioni inconciliabili — sta esercitando la propria capacità di sintesi. Una politica che da taluni era stata definita del ‘ ‘doppio binario’ ’ (uno statale e uno regionale), tende oggi a sottolineare le occasioni di convergenza dei due “binari”, a puntualizzare le intersecazioni che devono continuamente alternarsi al parallelismo. Così come le compagnie private e le cooperativistiche sono vincolate da una circolazione nazionale che non può essere immediatamente ridotta al modulo regionale, gli stessi teatri stabili — sorti all’insegna della continuità — devono regolare la propria economia anche in rapporto all’itineranza (costretti come sono — tra l’altro — a ridurre drasticamente il numero degli allestimenti). Da ciò deriva alle Regioni — nell’ambito dell’impegno di programmazione sul territorio — da una parte l’obbligo di rispettare le esigenze di ‘ ‘giro” delle compagnie, e dall’altra le possibili difficoltà di rapporto con il teatro a gestione pubblica (il cui discorso, tuttavia, le Regioni stesse sono chiamate “storicamente” a portare avanti). La “necessità” di una sistemazione legislativa del settore

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teatrale trova una prima, decisiva conferma sul piano finanziario: una sovvenzione paternalistica e discrezionale deve diventare un finanziamento politicamente motivato, che non sia quindi una nuova forma di sotto-investimento (come dire che il finanziamento pubblico del teatro deve entrare con piena “dignità” finanziaria in un futuribile “piano Pandolfi”). Su questa base, una legge organica deve individuare e attivare una costruttiva dialettica fra obiettivi nazionali e obiettivi locali, fra competenze statali e competenze regionali. Una legge che, svincolando il teatro dall’affanno (sia amministrativo che culturale) della scadenza stagionale, consenta una programmazione pluriennale; una legge-quadro che, stanziata la necessaria dotazione di fondi, ne adegui i meccanismi di erogazione non soltanto alle realtà esistenti; una legge- progetto, dunque, che garantisca lo sviluppo delle attività teatrali e non si preoccupi eccessivamente di catalogarle

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1.1.

Note

— Cfr. F. Doglio, Il teatro pubblico in Italia, Appunti e documenti, Roma, Bulzoni, 1976. 2 — G. Guazzotti, Rapporto sul teatro italiano, Milano, Silva, 1966. «Dal 1931 fu necessaria l’autorizzazione del ministero dell’interno, e dal 1938 di quello della cultura popolare. La legge 6/1/1931, ri1 559, dettava le nuove forme sulla censura teatrale. (...) Secondo tali disposizioni (...) dovevano essere proibite le opere contrarie alla morale e ai buoni costumi, alla legge, ai principi costitutivi della famiglia, al sentimento religioso; le opere apologetiche del vizio o del delitto, perturbatrici dei rapporti intemazionali, ispiratrici di avversione fra le classi sociali; offensive per il re, per il pontefice, per i sovrani esteri, per il decoro e il prestigio delle autorità, dei militari, degli agenti di P.S.; offensive per la vita privata delle persone, relative a fatti nefasti che avessero commosso la pubblica opinione; insomma “tutto quanto possa essere ritenuto di danno o di pericolo pubblico” (Leopoldi Zurlo), (censore dal ’31 al ’43: n.d.a.)», (la citazione è tratta dalla voce “Censura”, Enciclopedia dello Spettacolo, voi. IH, coll. 402/408). Queste norme, trasfuse nel Testo Unico di P.S. (approvato con R.D.L. 6/V/1940, ri’ 653, e tuttora in vigore), legittimano l’arbitrio e l’assurdità (come il fatto che un’opera sia “rappresentabile” in una città e non in un’altra; ma è solo un esempio: cfr. in proposito la citata voce “Censura” e la sottostante nota n° 5). 3 — L’Accademia — divenuta nel dopoguerra “Accademia Silvio d’Amico” dal nome del suo fondatore primo Presidente — istituita nel ’35, formò la maggior parte dei teatranti che si assunsero la “sprovincializzazione” e la qualificazione del teatro italiano negli anni Cinquanta. L’Accademia è tuttora operante. Per quanto riguarda Bragaglia, cfr.: A. C. Alberti, Il teatro nel fascismo. Pirandello e Bragaglia — Documenti inediti negli archivi italiani, Roma, Bulzoni, 1974, Introd. di R. De Felice; A. C. Alberti, Poetica teatrale e bibliografica di Anton Giulio Bragaglia, Roma, Bulzoni, 1978. 4 — Si veda in proposito: C. Meldoiesi, Atti di fede e polemiche al tramonto nei teatri guf, Biblioteca Teatrale, 1978, n° 21/22. 5 — Secondo il T.U. (come si anticipava nella nota n° 2) qualunque commissario diventa depositario della ‘ ‘verità’’ in merito alla 1

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“morale”, ai “buoni costumi”, alla “famiglia”, etc. La disponibilità di tali norme a una strumentalizzazione reazionaria, la valuterà il lettore; che cosa esse comportino in concreto per il teatro italiano, può essere così esemplificato: «Roma, febbraio 1965: in via Belsiana, in una ex cappella trasformata in teatro, un gruppo di giovani attori rappresenta II Vicario di Hochnuth con la regia di Gian Maria Volontà. È un’anteprima nazionale per la stampa. Molti allestimenti hanno preceduto all’estero la versione italiana e, ovunque, un caos di polemiche per un testo che ricostruisce i silenzi diplomatici e la complicità di Pio XH durante l’occupazione nazista, in base a pagine di storia. Ma si tratta di civili polemiche verbali. Qui da noi bastano poche battute che la polizia irrompe nel teatro; lo spettacolo è sospeso; il carattere privato della rappresentazione non viene assolutamente discusso; gli spettatori, tutti invitati, dai giornalisti agli amici, se non escono spontaneamente, sono trascinati fuori di peso. Le camionette della P.S. circondano il teatro e pattugliano le strade adiacenti», (R. Agostini, Il controllo poliziesco, in F. Quadri (a cura di), Il teatro del regime, cit.). Se poi lo spettacolo riesce a debuttare e perfino a replicare, non tutto è perduto; ai facinorosi — direttamente stipendiati dal Regime — che provocavano risse per interrompere spettacoli autorizzati e tuttavia non graditi, oggi si sostituisce l’anonimo censore rintanato nel buio della platea (anche se, per citare l’esempio seguente, dobbiamo sconfinare nelle “violazioni del codice penale”): dopo aver assistito a Gin Game (di P.L. Cobum, regia di G. De Lullo, compagnia di Prosa del Teatro Eliseo) un avvocato milanese ha denunciato gli interpreti (Paolo Stoppa e Franca Valeri) per «aver recato continua- mente oltraggio alla divinità mediante bestemmie reiteratamente espresse in scena»; dal che si deduce— tra l’altro— che l’avvocato in questione non possiede soltanto la certezza del diritto ma anche la ben più utile “certezza” della divinità. Tuttavia la repressione più efficace rimane quella preventiva che, per tornare al T.U., arriva a regolare l’architettura. «Il Testo unico assoggetta le manifestazioni in “luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico” all’autorizzazione preventiva (“licenza”) della questura; (...) “l’autorità di P.S. non può concedere la licenza per l’apertura di un teatro o di un luogo di pubblico spettacolo, prima di aver fatto verificare da una commissione tecnica la solidità e la sicurezza dell’edificio e l’esistenza di uscite pienamente adatte a sgombrarlo prontamente in caso di incendio”. La Commissione di Vigilanza tecnica non è stata inventata al solo scopo di controllare la

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sicurezza dei teatri (...), ma per esercitare un ulteriore freno alla sperimentazione di linguaggi meno accademici, all’invenzione di un aggancio concreto con il pubblico. Il concetto basilare è illustrato dalFart. 30 delle Norme di Sicurezza (Capo III Separazione tra sala e scena): “...nei teatri in genere la parte di edificio comprendente la sala e i servizi relativi deve essere completamente separata da quella comprendente la scena e i relativi servizi (...). L’unica apertura ammessa nel muro tagliafuoco di separazione tra scala e scena è il boccascena”. Facilissima l’interpretazione: quella descritta è la struttura architettonica che privilegia la comunicazione borghese; uno spazio gerarcbizzato, frontalmente prospettico, gli spettatori ipnotizzati dalla realtà che sfuma in lontananza sulla scena. (...) Si spiegano così l’urgenza e il rinnovarsi di controversie intorno a uno spazio teatrale modellato da una cultura classista, per cui è possibile solo una visione unilaterale dello spettacolo, come della realtà sociale da cui indirettamente scaturisce. Assolutamente interdetta la partecipazione collettiva» (ib. cfr. inoltre, ib., Cronologia della repressione di spettacoli dopo l’abolizione ufficiale della censura sul teatro di prosa, 1962). Queste norme conservano un potere, anche se sono entrate in aperta conflittualità con le nuove competenze dei Comuni. Qui, e altrove, si fa riferimento alla circolare che ha regolamentato la stagione ’78/’79 (Roma, 28 luglio 1978). L. Scalpellini, Teatro in crescendo, Giornale dello Spettacolo, a. XXXV, n° 32, 9/LX/1978. P. Rossi, Il controllo economico, in F. Quadri (a cura di), Il teatrodel regime, cit. «Negli ultimi quindici anni gli spettatori del teatro di prosa sono passati da 1 milione e 600 mila a oltre 7 milioni, con espansione orizzontale del fenomeno. Il numero dei comuni nei quali si è effettuata attività primaria di prosa è passato dai 131 ai circa 800 del 1978. La realtà teatrale ha concretato ipotesi e modi di azione che, nel rispetto delle reciproche autonomie, hanno correlato l’intervento dello Stato alla capacità propositiva delle Regioni e degli Enti locali, che hanno sviluppato la loro presenza soprattutto nella organizzazione promozionale della distribuzione teatrale. Nella stagione 1977/78 hanno agito 11 organismi di produzione teatrale a gestione pubblica, oltre 70 cooperative e circa 70 compagnie a gestione privata; oltre 100 complessi professionali dì sperimentazione; 14 circuiti teatrali regionali; 45 complessi di teatro ragazzi, numerose formazioni minori e universitarie, il


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circuito ETI, festival, rassegne, etc. Il volume dell’attività di produzione — effettuata a prezzo politico— si è concretato in oltre 27 mila rappresentazioni, per un totale di oltre 7 milioni di biglietti venduti. Nella stagione in corso di svolgimento (’78/’79) queste cifre sono superiori, per l’incremento di iniziative produttive e distributive che allargano, anche territorialmente, l'ambito del servizio culturale espletato dal teatro di prosa». Dal documento UNAT (Unione Nazionale Attività Teatrali) presentato ai Ministro Ariosto in un incontro del 10/IV/79 (cfr. Giornale dello Spettacolo, a. XXXV, rf» 15, 14/IV/’79). — Il lettore che fosse particolarmente interessato a questo argomento, può cfr.: Lo spettacolo e la legge 382 — Attribuzione ai Comuni delle funzioni di polizia amministrativa — Norme, procedure e adempimenti, a cura delI’AGÌS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo), II ediz., Roma, Maggio ’78. Si veda anche: A. Barbera - F. Bassanini (a cura di), 1 nuovi poteri delle regioni e degli enti locali, Bologna, II Mulino, 1978 (con particolare attenzione a: R. Zaccaria, “Arde. 49. Attività di promozione educativa e culturale'’’). — A titolo di esempio: mentre il progetto PCI del ’73 radicalizzava la delega alle Regioni e la subdelega agli Enti locali, nel progetto DC del ’75 la regionalizzazione veniva attentamente controbilanciata dalla centralità e — tra l’altro — da una riconfermata attenzione al teatro privato, (cfr. L. Trezzini, Geografia del teatro, Roma, Bulzoni, 1977).

1.2. La produzione La circolare ministeriale, effettiva protagonista del rapporto

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Teatro/Stato, si indirizza principalmente a sovvenzionare l’allestimento di spettacoli, privilegiando di conseguenza una propria nozione di “spettacolo teatrale” e individuando gli organismi in grado di realizzarne la “produzione”. La principale suddivisione fra tali organismi risponde a categorie di tipo gestionale e raccoglie i settori privato, pubblico e cooperativistico (a ciò si aggiunge una sempre più ambigua suddivisione “di merito”, esplicitamente sottovalutata rispetto alla precedente, che comprende “complessi di sperimentazione”, teatro per i ragazzi, animazione). La compagnia privata coincide con l’immagine più autentica e insieme più conservatrice della nostra tradizione teatrale12’. Valutata a posteriori, la compagnia “a mattatore” dei primi decenni del secolo denunciava la banalità del repertorio, gli arbìtri del Grande Attore’3’, e soprattutto la sostanziale estraneità al contemporaneo processo di rinnovamento della scena. Il “capocomico” rimane la componente primaria di questa formula (e sarà l’interlocutore del già citato RDL del ’35); egli assume autoritariamente i compiti del primo attore, del direttore artistico e dell’amministratore. Così diretta, la compagnia “all’italiana’ ’ si fondava sulla quantità del repertorio e sulla capillare itineranza (il repertorio era un capitale artistico-mnemonico, che la compagnia doveva acquisire nel più breve tempo possibile, e consentiva di rappresentare nella stessa piazza un numero indeterminato di “pièces”, ciascuna per non più di qualche sera). il singolo attore diventava una vivente antologia di “ruoli”, che si portava appresso come la propria dotazione di costumi, e che sfruttava al massimo in una meccanica successione di repliche. Gli attori che avevano il nome “in ditta” costituivano — con la celebrità delle loro “interpretazioni” — il richiamo commerciale e quindi la capacità economica della compagnia. 11 dopoguerra, scuotendo questa routine, ne provoca alcuni adeguamenti. Gli allestimenti sbrigativi vengono sostituiti da una produzione più accurata, che viene ammortizzata in lunghe permanenze (soprattutto metropolitane) anziché attraverso nomadismi provinciali. Il capocomicato (che comunque deve essere citato

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come un tipico costume italiano: basti pensare all’esempio di Eduardo) si risolve nello sdoppiamento regista/organizzatore. Negli anni ’45/50 l’industria privata (attratta ancora parzialmente dal cinema) investe nella rivista, e questo rimarrà il settore di maggiore interesse economico, ma si trasformerà nel più sofisticato, “spettacolisticamente” impegnativo, genere della commedia musicale t4). Per quanto riguarda la “prosa”, il settore privato comprendeva, da una parte, una costellazione di compagini minori che si scioglievano nello spazio di una stagione, e dall’altra un’attività che si inseriva a pieno diritto nella riqualificazione della scena italiana: si pensi alle regie di Visconti con la ‘‘MorelliStoppa’ ’, ai “Giovani”, a registi come Costa e Giannini. Ma in termini di rinnovamento qualitativo del teatro negli anni Cinquanta, il discorso conduce direttamente alla presenza degli Stabili, cioè alla teorizzazione e alla realizzazione della “gestione pubblica” del teatro. La prima “industria” moderna nel settore prosa nasce (nel 1947) con il Piccolo Teatro di Milano, la cui “stabilità” si motiva e si basa sul rapporto con una municipalità, con una cittadinanza che deve essere “reclutata” (il termine è storico) attraverso la continua invenzione di strumenti organizzativi, primo fra tutti: l’abbonamento. Un pubblico “popolare”, cioè rappresentante di ogni categoria sociale, diventa l’interlocutore ideale degli Stabili, immancabilmente citato nei bilanci e nei progetti di ieri e di oggi: dagli storici manifesti programmatici di Grassi-Strehler alle relazioni della Presidenza del- l’UNAT. L’altra caratteristica originaria è la riqualificazione della scena italiana, attardatasi pesantemente in epoca fascista (anche se un attento esame del teatro durante il ventennio sta diventando sempre più necessario e interessante). La riqualificazione si traduce soprattutto nella “novità” e nel rigore del lavoro registico e nella conseguente produzione di uno spettacolo culturalmente motivato quanto esteticamente inappuntabile. Questa linea troverà piena realizzazione in episodi come il lavoro di Gianfranco De Bosio sul

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Ruzante (cominciato a Padova in ambito universitario, ma trasportato allo Stabile di Torino) e il celebre “Galileo” di Strehler. Nonostante motivazioni diverse (che vanno dal regionalismo dello Stabile di Catania, alle caratteristiche “di frontiera” di Bolzano e di Trieste), la fisionomia degli Stabili si connota in questo duplice modo: prodotto “di qualità” e utenza interclassista valutata qualitativamente(6). Queste connotazioni, che sostanzialmente permangono nella situazione attuale, hanno tuttavia attraversato una crisi profonda (a tratti ritenuta irreversibile), delineatasi a partire dagli anni Sessanta. La mancata copertura della geografia nazionale, con le clamorose deficienze nel meridione; la sempre più sistematica pratica della tournée, in aperta contraddizione con la dichiarata “stabilità”; la conseguente commercializzazione dei metodi produttivi; l’estrema parzialità, o l’episodicità, del reperimento di un pubblico effettivamente diverso, in senso classista; la progressiva trasformazione in centri di potere politico e di monopolio culturale; l’eccesso di delega al registademiurgo; l’esigenza di una gestione economica rinnovata; la scarsa attenzione dedicata al rapporto fra produzione e ricerca; è con queste crisi interne che gli Stabili attraversano, senza alimentarla, l’esigenza di rinnovamento delineatasi nella seconda metà degli anni Sessanta. L’istanza del “decentramento” (cioè di un corretto rapporto con il territorio) e la ricerca di nuovi linguaggi scenici (cioè l’affermarsi della cosiddetta neo-avanguardia), non vengono elusi da provvedimenti urgenti come V “invenzione” (milanese) dei TeatriQuartiere, né dal tentato assorbimento/ neutralizzazione dei gruppi da parte dei cartelloni “ufficiali”. Polemiche “secessioni” dagli Stabili non mancano, e spesso se ne alimenterà l’esordiente movimento cooperativistico. Per individuare un modello di autogestione funzionale alla collettività, e per contrastare l’iniziale tendenza dello Stato ad assimilarli alle compagnie private, i gruppi adottano la formula cooperativistica come la più idonea sia per affermare che per

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realizzare nuove istanze: affrontare i problemi (gestione interna, produzione, distribuzione) da un punto di vista complessivo; creare il gruppo non per partecipazioni casuali ma per formare unità omogenee (basate su un comune denominatore politico, che purtroppo non tarderà ad annacquarsi), per superare le divisioni del lavoro e gli squilibri economici fra i soci, le gerarchie culturali; tendere a una autogestione che diventi — tra l’altro — creazione di spazi alternativi (cfr., a questo proposito, anche il ruolo dei gruppi di base); aggregare forza-lavoro in risposta agli scarsi investimenti di struttura; organizzare diversamente il lavoro, soprattutto dell’attore, eliminandone la precarietà, ottenendo un più alto livello di partecipazione operativa; di conseguenza, reagire all’egemonia registica e, in generale, ai condizionamenti amministrativi e di mercato; contribuire alla formazione di nuovi quadri, che reinventino la politica del “servizio pubblico”, invecchiata e in gran parte mancata; ridare un senso al discorso della partecipazione popolare; opporre al lucro delle private le decisioni assembleali; corresponsabilizzare gli enti locali e tentare circuiti alternativi alla normale distribuzione. Sarà infatti con un circuito come ARCI/Nuova Scena che il movimento cooperativistico comincerà ad affermarsi (nel ’68/’69); in breve (praticando uno sbigliettamento a prezzo politico) il settore registra il maggior numero di repliche, mentre le private conservano la maggiore quantità di biglietti venduti a prezzo economico, e quindi di incassi. Tuttavia, sui tempi lunghi, emergono le contraddizioni. A metà degli anni Settanta, si riscontra una ‘ ‘riprivatizzazione” del teatro che interessa tutti i settori. Le cooperative, d’altronde, non si erano sufficientemente immunizzate da eventuali inquinamenti privatistici<7). La richiesta da parte del mercato attuale di prodotti tradizionalistici, impone alle cooperative una competitività sul piano qualitativo e sul piano economico. Il gruppo cooperativistico rischia quotidianamente di diventare (o “è” definitivamente) un’azienda, assimilabile alle compagnie “di giro” e necessariamente concorrenziale nei confronti di un’area pubblica,

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nella quale, d’altra parte, tende in qualche modo a confluire. In altri termini: si è decisamente indebolita l’efficacia terminologica dei parametri consueti, cioè della stessa suddivisione ufficializzata dalla circolare ministeriale. Il settore privato pratica ormai una sorta di mimesi della gestione pubblica, dedicando estrema attenzione alla qualità dei propri prodotti, flirtando sempre più esplicitamente con l’esercizio, cercando di annullare la propria incompatibilità con l’ente locale, non trascurando lo studio dell’organizzazione del pubblico e l’elaborazione di iniziative complementari allo spettacolo(8!. A questa innegabile rivalutazione del settore privato (generosamente premiato dal finanziamento statale), corrisponde una rivitalizzante conferma del ruolo degli Stabili, che tuttavia li colloca in un contesto di “teatro a gestione pubblica” che oggi non possono più esaurire. Infatti all’interno del teatro pubblico si sono definitivamente inseriti degli organismi derivanti da una logica diversa, come il Centro Teatrale Bresciano (CTB) e l’Emilia Romagna Teatro (ERT), che tentano nuovi (o vecchi, ma non applicati) criteri. «Indirizzare l’attività produttiva verso una più ampia, approfondita e permanente operatività culturale, intrecciare esperienze e progetti con le altre realtà nazionali e locali, pubbliche e non, sviluppare il rapporto con la scena, aprirsi alla ricerca di linguaggi e di funzioni, promuovere la diffusione della cultura teatrale, individuare nuovi rapporti con le componenti interne» w. Non per nulla, un recente convegno dell’UNAT concludeva: «L’area del teatro pubblico include non solamente gli organismi di produzione teatrale a gestione pubblica, ma tutte le istituzioni e gli enti, a livello nazionale e locale, che intervengono nel settore teatrale a livello produttivo, distributivo e, contestualmente, promozionale». La nozione di produzione raccoglie quindi le più pesanti ambiguità, pur essendo stata oggetto nell’ultimo decennio di continui attacchi e tentativi di riforma. Nel forte del “sessantotto teatrale” Edoardo Fadini scriveva: «Lo spazio esistente fra la struttura reale (organizzativa) e la reità oggettiva della teatralità

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come attività specifica, va ridotto al minimo. Andrebbe annullato, a dire il vero. Questo spazio è diventato oggi un fosso apparentemente incolmabile, a causa di una falsa distinzione tra necessità organizzative (leggi, provvidenze, enti pubblici e privati, circuiti, etc.) e problemi tecnici e di linguaggio. Questa distinzione va sfatata attraverso una riforma radicale della critica, nuovi modi di comunicazione, nuova estensione del territorio platea-scena, nuovi rapporti unitari con il pubblico popolare»(ll) La preoccupazione si dimostrerà fondatissima e successivamente dilaterà la portata del proprio significato, investendo i fatti nuovi che sono emersi e che influenzano direttamente e prepotentemente i criteri produttivi: la riabilitazione del professionismo inteso come alto livello tecnico; il ritorno allo spazio teatrale tradizionale, cui fa riscontro la fine (prematura) del decentramento e la diffusione delle iniziative accentranti e di massa; l’imprenditorialismo degli Enti Locali; i grossi problemi di concorrenzialità che derivano dalla situazione di “boom” teatrale ma ne limitano di conseguenza la capacità di offerta. Tuttavia il problema che pesa maggiormente sulla produzione è quello del denaro: dal finanziamento di base alla liquidità giornaliera, dai ritardi delle sovvenzioni statali agli estenuanti burocratismi degli Enti Locali alla quasi impossibilità di credito, dall’adeguamento inflazionistico delle paghe ai costi generali di allestimento; il tutto — ripetiamolo ancora — all’interno di un mercato che impone una sempre più agguerrita competitività. Protagoniste del momento produttivo diventano le sponsorizzazioni, le co-produzioni, magari le “irizzazioni”. Mantenere criteri e finalità di tipo qualitativo può diventare difficile, anche perché ci si trova alle prese con un pubblico sempre più “ideologicamente” diffidente nei confronti della proposta rigorosa, cioè sempre più “ideologicamente” convinto del proprio bisogno di evasione. La connotazione “manageriale”, prevalentemente spettacolistica, che il fatto teatrale viene assumendo (non per vocazione interna, e nemmeno soltanto per “rispetto delle tendenze del

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pubblico, ma per l’operato di un ben individuabile potere teatrale); la nozione di “cultura/divertimento/festa civile” che si è affermata a livello di gestione politico- amministrativa, sono fatti certamente innegabili e probabilmente positivi o comunque “realistici”, ma che caricano di una grave (quanto urgente) responsabilità il momento progettuale e il conseguente momento legislativo, sia a livello centrale che decentrato. La questione è quindi politica in senso stretto, e necessita di un sostanzioso apporto dalla base, cioè di un esteso e approfondito dibattito che metta a fuoco delle linee precise, severe sul piano culturale e ideologico, cioè non troppo inclini né ai pluralismi di moda né al fascino dei tempi brevi e dei successi quantitativi.

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1.2. Note 1

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— Un prodotto finito che viene riconosciuto come tale soltanto se ‘ 'visto’ ’ da un pubblico e se consumabile per un numero imprecisato di volte in spazi appositi. — Un gustosissimo documento in merito è costituito da: S. Tofano, Il teatro all’antica italiana, Milano, Rizzoli, 1965. — La definizione è storico-teatrale e rimanda alle grandi personalità che dominarono la scena ottocentesca e primo-novecentesca (da Gustavo Modena a Ermete Zacconi, da Adelaide Ristori a Eleonora Duse), con stili e finalità ovviamente diversi ma con lo stesso protagonismoindividualismo nei confronti di tutte le altre componenti della messinscena. — Anche la commedia musicale è prevista dalla circolare ministeriale ed è quindi finanziata dallo Stato, nonostante le sue straordinarie possibilità di lucro e di sfruttamento commerciale (.Aggiungi un posto a tavola fece, nella sola stagione 77/78, 146 repliche con 216.923 presenze; cfr. Giornale dello spettacolo, 1978, n° 32). — I due passi seguenti possono forse chiarire il senso di questa affermazione: «Massimo della qualità per il maggior numero di spettatori» (P. Grassi, “Le strutture teatrali in Italia’’, Quaderni del Veltro, n° 3, 1965); «Ragioni economiche e estensione delle toumées impongono un ristretto numero di spettacoli. E tali spettacoli devono avere un fortissimo carattere di “necessità”, devono cioè contenere — in virtù del testo, o della regia, o degli interpreti, o di tutte queste cose insieme— motivazioni suscettibili di interessare il maggior numero di spettatori», (I. Chiesa, Relazione al seminario dei teatri a gestione pubblica ad Iseo, 15/16 aprile 1978, dattiloscritto a cura del Teatro Stabile dell’Aquila). — «L’asse ideoligico (dei Teatri Stabili) è il rapporto con il pubblico: che viene stabilito sia operativamente attraverso l’impegno organizzativo, sia politicamente come espressione di una pubblica volontà, e perciò come servizio in cui l’investimento del pubblico denaro si giustifica in quanto ne facilita e permette l’accesso a tutte le categorie dei cittadini», (Giorgio Guazzotti, Rapporto sul teatro italiano, Milano, Silva, 1966). — Cfr. le risultanze del convegno che le cooperative tennero a Parma nel 1975, Scena, n° 1, gennaio-febbraio 1976. — Il settore privato superava così, senza nessuna conseguenza, una fase di dure polemiche. «Non dubitiamo che il teatro privato esprima un grosso contributo culturale, però è un teatro privato, realizza profitti ingenti, ed è giusto che, in quanto tale, si autogoverni. Fa delle scelte ideologiche, non pratica il prezzo politico, non ha rapporti con la comunità, non ha vincoli verso di essa, non ha strutture permanenti, non ha costi generali, è un teatro d’imprenditoria privata che si deve

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autosorreggere. Noi possiamo e dobbiamo impegnarci invece in una dimensione più ampia a vantaggio del teatro pubblico, sia attraverso il meccanismo dell’attuale finanziamento, sia attraverso la ipotesi della delega del governo alle Regioni per certe fasce di competenze teatrali», (B. Finocchiaro, La delega alle Regioni, in Regioni e teatro: verso una gestione sociale, Quaderni di Basilicata, n° 3, Roma-Matera, Basilicata ed., 1976). «Non vedo nessuna difficoltà al fatto che i teatri privati debbano, o che l’impresa privata debba in qualche modo, circolare in questo Paese, ma non vedo nessuna particolare ragione perché l’impresa privata venga premiata per il fatto di essere privata. Se c’è una ragione per mantenere l’impresa privata e per garantirle di partecipare al mercato è la ragione della garanzia, per ciascuno, di operare all’intemo di una struttura e di una società teatrale; ragione che non deve essere messa in discussione mai e tanto meno da una legge. Ma da questo a immaginare i privati membri di un grande organismo che porta avanti il discorso della cultura, il discorso dello sviluppo culturale e strutturale e linguistico del nostro teatro, mi pare che corra gran spazio», (M. Raimondo, cfr. Teatro italiano 76, Annuario dell’IDI, a cura di O. Spadaro, Roma, Bulzoni). 9 — R. Borsoni (direttore CTB), Relazione a Iseo, cfr. nota n° 5. 10 — Ib., comunicato. 11 — E. Fadini, Ragioni di un convegno, Teatro,a. II, n° 2, 1967/68. Gli argomenti toccati nella conclusione di questo capitolo saranno ripresi nella parte riguardante la ricerca; cfr. soprattutto cap. 2.1.

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1.3. Note sulla distribuzione Il prodotto teatrale, una volta confezionato, deve essere “distribuito”, cioè immesso nel mercato e sottoposto alle conseguenti regole capitalistiche. Il gioco della domanda e dell’offerta gli impone infatti di attraversare — prima di giungere al rapporto con il pubblico — una rete di mediazioni. «Tre agenzie private di collocamento, a Milano, Firenze, Roma, tengono stretto in loro potere il coordinamento delle piazze. (...) Le compagnie devono sottostare a un tasso di interesse che si aggira attorno al 3%. L’interesse economico affratella tutte le imprese private, e se per le agenzie determina la preferenza accordata al teatro leggero e alle commedie musicali — dando per scontato il maggior favore di pubblico — per le compagnie determina spesso la scelta di testi facili e gradevoli. In altre parole: rispetto agli spettacoli di un certo impegno politico, il cui successo è difficilmente prevedibile prima della partenza, gli spettacoli delle compagnie private danno una maggiore assicurazione di incassi, sia per il contenuto più generalmente evasivo, sia per la presenza di nomi di cassetta. E ancora una volta la legge della domanda e dell’offerta a suggellare il riconoscimento dell’establishment culturale»(1). In nome di questa logica (e in stretta connessione con la ‘ ‘crisi” sul piano commerciale del cinema anni ’70; crisi che è reale ma che andrebbe analizzata attentamente — pena alcune confusioni per il lettore profano — e la cui soluzione è comunque attivamente ricercata attraverso scelte ed esperimenti che attualmente mobilitano l’intero apparato: produzione, noleggio, esercizio), si assiste a clamorose inversioni di tendenza rispetto all’immediato dopoguerra. Se l’originario sistema distributivo (cioè la sala gestita dall’impresario privato) era stato annullato dalla pressoché totale alienazione dei teatri, soprattutto di provincia, all’uso cinematografico, oggi molti cinema-teatri vengono restituiti a una attività parzialmente o addirittura esclusivamente teatrale (si

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confrontino, per questo rilancio dell’esercizio teatrale privato, gli esempi del Brancaccio e del Giulio Cesare a Roma, del Nazionale e del Ciak di Milano; operazioni che, almeno per il momento, godono di ottimi esiti commerciali). Il che intensifica lo sfruttamento delle piazze “forti”, a cui le compagnie private (inclini da tempo a ridimensionare la loro componente “itinerante”) si dimostrano particolarmente sensibili, e a cui le stesse cooperative — per ragioni di sopravvivenza — devono definitivamente sottostare. È sottinteso che questo fenomeno come tutti i “boom” teatrali recentemente esplosi, presenta rischi di reversibilità. Soltanto in un primo tempo, quindi, le agenzie di collocamento fecero ostruzionismo nei confronti del teatro a gestione pubblica e cooperativistica; di fronte al “successo” degli Stabili e — successivamente — di alcune cooperative (e approfittando delle esigenze di competitività con il settore privato che gli stessi Stabili rivelano negli anni Sessanta, soprattutto in rapporto alle aree metropolitane), le agenzie riuscirono a inserire nei loro circuiti anche queste formazioni, imponendo loro una sorta di automatica assimilazione a criteri “manageriali”, provocando cioè una relativa commercializzazione degli spettacoli e frequenti riciclaggi del divismo. All’interno dell’egemonia distributiva esercitata dalle agenzie private, è opportuno dedicare una parentesi all’Ente Teatrale Italiano (ETI) che, costituito nel 1942, si incaricava di gestire un certo numero di sale, cioè diventava agenzia “di Stato”, e assumeva compiti di edilizia teatrale. Dal 1969 funzione primaria dell’ETI diviene organizzare la rappresentazione delle opere del proprio Presidente(2). «Sfruttando il meccanismo di intervento dell’ETI (che consiste nel garantire alle compagnie un certo numero di ‘ ‘piazze” e di assicurargli un incasso minimo concordato caso per caso), Diego Fabbri ha deciso che il suo tornaconto di pubblico imprenditore non gli consentiva di caricarsi sulle spalle troppe di quelle compagnie “impegnate’ ’ che incassano magari solo

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cinquantamila lire per sera e a cui va sempre versato il previsto conguaglio per arrivare all’incasso minimo garantito» ; di qui un prudente ma “sicuro” privilegio accordato alle compagnie primarie (leggi: “di grido”). La minacciata inclusione nell’elenco degli enti inutili viene inaspettatamente a sconvolgere questo andazzo consolidato da decenni. Il dibattito sulle proposte di legge provoca infatti (in un primo momento) una chiara richiesta di soppressione dell’ETI da parte della sinistra. La DC tiene duro, proponendo “sostanziali” modificazioni allo statuto dell’Ente. Per aggirare l’ostacolo, LETI viene cosi “costretto” a una riforma, attuata dalla legge 836 (14 dicembre 1978). Il riordinamento si concretizza in primo luogo in una democratizzazione degli organi direttivi (ma si è tuttora in attesa della nomina del Consiglio d’Amministrazione). Viene sottolineato, nel contesto dell’attuale espansione del mercato teatrale, un ruolo promozionale i cui nuovi compiti derivano da una aggiornata elaborazione dei vecchi e sono «individuati anzitutto nel coordinamento nazionale della distribuzione, con collegamenti organici con i circuiti regionali pubblici e privati. In questa proposizione generale si inserisce il particolare compito promozionale affidato all’Ente per l’Italia Meridionale e Insulare, nonché quello di programmare direttamente sale teatrali di proprietà o in uso per accordi o convenzioni con soggetti pubblici e privati»<4i. Non si può affermare quanto e come l’Ente terrà fede agli impegni assunti. Il ruolo di coordinamento operativo delle programmazioni regionali (con particolare, e finalmente effettiva, attenzione al Mezzogiorno) potrebbe essere disatteso, sia per riaffacciarsi — come si vedrà più sotto — di un coordinamento democratico espresso direttamente dal territorio, sia per la mancanza di un’organica sistemazione del contesto teatrale. La riforma dell’ETI (importante, ma certo non la più urgente del settore) è stata infatti l’unica a essere varata. Se lo Stato sovvenziona anche le compagnie private, il mercato

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teatrale non si presenta perciò come “pubblico”. Qual è l’alternativa (che tuttavia non può— per il momento — essere integralmente sostitutiva) alle infrastrutture private o comunque privatistiche? Le soluzioni (diverse da situazione a situazione; tanto più provvisorie quanto difficilmente sostituibili) sono state ancora una volta involontariamente delegate alla “base”, cioè ai teatranti. I risultati più duraturi si possono individuare nei circuiti pubblici costituiti dagli enti locali, di propria iniziativa o perché sollecitati dal costante attivismo operato in questo senso dal settore cooperativistico. Con forte anticipo sui tempi, a metà degli anni Sessanta si costituisce l’ATER (Associazione Teatri Emilia-Romagna), un istituto culturale che si propone una operatività regionale così intesa: realizzare un rapporto — soprattutto di servizio — con le comunità locali attraverso l’attivazione politico-organizzativa di una rete di teatri uniformemente distribuiti sul territorio e, per la maggior parte, associati fra loro. La formazione di questo circuito non incontrò — grazie a tipiche attitudini aggregative — grosse difficoltà. Enucleatasi intorno alla lirica (lo spettacolo indiscutibilmente più popolare in Emilia-Romagna, gestito fino ad allora da privati che potevano così controllare i fondi ministeriali), l’ATER individuò altre due linee di intervento: da una parte nel settore concertistico, per riscattarlo dal l’emarginazione cui Io condannava il “fanatismo” per il melodramma; dall’altra nel settore teatrale, responsabilizzando direttamente gli Enti locali. In primo luogo si convinsero i Comuni a recuperare i teatri “appaltati” a privati o all’ETI; in taluni casi ciò non fu possibile, il che provoca spesso l’anacronistica compresenza — in uno stesso teatro — di due cartelloni rigorosamente “paralleli”, e quindi di due settori di pubblico con diverse connotazioni sociali, reciprocamente stagni, affatto incomunicabili sul piano culturale. Tuttavia, la programmazione venne sottratta al monopolio ETI, e si formarono comitati di gestione nominati dai Consigli Comunali. Fornendogli una collaborazione specifica (e cioè realizzando strutture di coordinamento delle attività teatrali regionali), l’ATER

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sollecitò e sollecita l’ente locale all’assunzione di consistenti oneri finanziari e organizzativi in materia di politica culturale (recentemente, in tempi di ormai cronica stretta creditizia, a questo ruolo si aggiunge una speciale attenzione a che l’Ente locale non eluda gli oneri suddetti ricacciandoli nel ghetto delle ‘ ‘ spese facoltative ” ). Sulla base dell’intuizione iniziale (il protagonismo che l’ente territoriale deve assumere nella promozione culturale) viene elaborata e adottata una formula associativa, a tutt’oggi 4 ‘ostinatamente” non contraddetta dall’ATER: associazionismo come convergenza di singole autonomie, cioè come affermazione del loro ‘‘particolare” e insieme come stimolo a una sempre maggiore apertura al contesto politico-culturale; associazionismo come coordinamento di un’attività decentrata capillarmente, cioè indirizzata a una serie di articolazioni partecipative a cui si deve estendere “sistematicamente” ogni discussione; una dialettica fra decentramento itinerante e decentramento stanziale (o radicamento), che discende da una continua tensione problematica fra momento organizzativo e momento politico-culturale (non per nulla, nella storia dell’A- TER ogni esperienza acquisita deve immediatamente trasformarsi in un contributo al dibattito sulla riforma delle istituzioni musicali e teatrali italiane). Associazionismo, dunque, come strumento per svolgere un’attività, ma anche per rinnovare periodicamente la conoscenza della situazione culturale e degli stessi valori associativi. Naturalmente i rischi di cadere o in tentazioni centralistiche o in “eccentricità” campanilistiche sono grossi; ma rimane innegabile il programmatico sforzo di sintesi che l’ATER opera in proposito. Lo dimostra, ad esempio, la lunga riflessione che ha recentemente portato a una ristrutturazione sul piano “burocratico” e a un potenziamento delle finalità culturali01 . Episodio centrale di questo potenziamento è la decisione di estendere l’impegno produttivo dell’ATER al settore prosa. Si assiste così a un caso, se non unico, certamente eterodosso nel teatro italiano: l’esistenza e il collaudato funzionamento di una rete distributiva “provoca” un’iniziativa di produzione. La

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situazione “naturalmente” policentrica del territorio (che negli anni Sessanta era stata componente non secondaria del fallimento del Teatro Stabile di Bologna) esprime l’esigenza di acquisire comunitariamente un ulteriore patrimonio culturale su cui intervenire direttamente. Le motivazioni rivelano ancora una volta il tentativo di rapportare il rispetto delle istanze interne alla capacità di inserirsi costruttivamente nella vicenda generale del teatro italiano: «Costituire una struttura produttiva per il teatro di prosa come necessità di partecipazione diretta, e non delegata, dei “Centri ATER” a scelte da elaborare autonomamente con dibattito interno ed esterno; necessità di un contributo dell’Emilia-Romagna alle lotte ideali e al dibattito culturale civile e politico anche mediante la produzione teatrale. Necessità di correggere lo scarto del peso nell’ATER tra il settore lirico-musicale e quello della prosa, disponendo di strumenti per un’attività continuativa e diversificata (teatri, quartieri, scuole, animazione). Colmare un’assenza con una presenza che colleghi la (...) regione ad altri livelli nazionali, superando i latenti pericoli di un circuito regionale di teatri inteso come isola di buona gestione teatrale. Una struttura produttiva dovrebbe rispondere alle seguenti caratteristiche: essere strumento dei teatri associati e non organismo politicamente autonomo; realizzare una copresenza di amministratori e operatori teatrali, senza dirigismi amministrativi e senza delega al grande operatore teatrale; consentire l’espressione di diverse tendenze; avere una gestione efficiente»(6). L’ATER approda così alla costituzione dell’ERT (Emilia Romagna Teatro), un organismo produttivo che si inserisce nell’ambito del teatro a gestione pubblica come un modello fortemente innovativo. Una tale “struttura produttiva” non può porsi separata- mente dai Centri associati, ma questi conservano la loro autonomia decisionale; non tutti i soci dell’ATER infatti sono tenuti ad aderire all’ERT, ma tutti possono indistintamente usufruire della produzione. D’altronde, la nozione di coordinamento che sovrintende alla programmazione regionale da parte

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dell’Associazione (e cioè l’organizzazione della committenza sociale per sintesi territoriali), non poteva non condurre — per l’economia dell’intera attività — a una certa uniformità dei “cartelloni1’. «La “concentrazione”, cioè un alto numero di recite di una compagnia in Regione, consente vantaggi anche “politici”, nel senso che (...) pone nella condizione di poter chiedere debutti anche in piccoli centri (il termine gergale “debutto” significa che per una stessa “piazza” — cioè una città, un paese, etc. — viene richiesta una soia rappresentazione dello spettacolo. È evidente che una distribuzione per debutti diventa estremamente costosa e, d’altronde, spesso non sostenibile dalle compagnie anche per difficoltà tecniche (si tratta di trasportare, montare, smontare e trasferire chissà dove uno spettacolo, il tutto nel giro delle ventiquattr’ore, n.d.a.)» 71. Da questa angolatura, dotarsi di uno strumento produttivo significa anche consapevolizzare e finalizzare quella uniformità di programmazione, anziché “subirla”. Nell’esempio riportato, dunque, un’attività teatrale rivendica il diritto al finanziamento pubblico, non soltanto perché “tende” a finalità che devono essere riconosciute di pubblico interesse, ma anche perché deriva da una situazione che ha “già” acquisito e praticato questi valori. In altre parole, per chiamare in causa una terminologia su cui oggi si discute e su cui si tornerà, le condizioni per un “servizio pubblico” vengono realizzate dall’operatività di un “servizio sociale”, da una realtà partecipativa che a una “domanda” di teatro allega una concreta, preesistente “offerta” di fruizione. Anche se con scelte diversamente caratterizzate, questa linea (di una produzione teatrale che si articoli organicamente all’interno di una distribuzione territoriale) è stata adottata anche dal Teatro Regionale Toscano (TRT), formatosi fra il 1971 e il 1974, anche qui contraddicendo costruttivamente la presunta ripetitività del “modello” del Teatro Stabile. Nati anche come “spazio” fisico coagulante, gli Stabili infatti non riuscirono a mediare la necessità della distribuzione con la

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copertura ideologica del decentramento, probabilmente perché il problema distributivo non doveva (e non deve) essere di loro competenza, e certamente perché ne conseguiva un ulteriore squilibrio deficitario fra costi e ricavil8'. Lo dimostrerà involontariamente il Piccolo Teatro che nel ’68/’69 inaugura l’esperienza del tendone itinerante del Teatro Quartiere (TQ); un’operazione che da giustamente esplorativa delle potenziali autonomie degli spazi decentrati, diventa inevitabilmente colonialista (nel senso di strettamente imprenditorial-distributiva, un’antenata cioè degli odierni Teatri Tenda, che da una parte si inseriscono nello sviluppo dell’esercizio — anche di tipo culturale — quale lo si delineava più sopra, e dall'altra rappresentano una nuova perversione dello spettacolo di massa, da populistico a meramente consumistico). La mobilitazione dei quartieri (soltanto innescata dai TQ) non poteva esaurirsi nel trasferimento di spettacoli. Torino, alla fine degli anni Sessanta, troverà una corretta formula di decentramento (di cui tuttavia l’Amministrazione dello Stabile si “pentirà” presto): una animazione come reale attivazione delia base, che la renda capace di esprimere un programma di lavoro e una esecutività tale da vanificare il ricorso alla mediazione professionistica (principio da cui discende la formazione dei “gruppi di base”). L’organo più abilitato a saldare la periferia con il centro sembra dunque l’Ente locale e territoriale. Preso atto che i privati controllano una grossa fetta del mercato teatrale italiano; constatato che gli Stabili, “immobilizzati” in un ruolo produttivo, sul piano distributivo — al di là della ormai consueta prassi dei reciproci scambi di spettacoli — possono esercitare una consulenza, anche operativa, di tipo tecnicoorganizzativo; atteso che lo Stato conferma nei confronti del teatro un’impotenza legislativa (che si estende all'incapacità di aggiornare la letteratura esistente, cioè la legge 800 per la musica e la 1213 per il cinema) e costruisce sull’ETI un progetto ancora tutto da verificare; documentato un limitato ma apprezzabile apporto

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dell’autogestione (apporto che può andare dall’opera dei gruppi di base ai tentativi di associazione fra teatri autogestiti); rilevato che tutti i maggiori soggetti produttivi (le compagnie stabili, cooperativistiche e private) presentano comunque esigenze di “giro” (imposte, d’altronde, dai criteri della circolare ministeriale); si evidenzia — anche dall’angolatura della distribuzione — il tema centrale del dibattito sulla promulgazione di una legge per il teatro di prosa: il ruolo delle Regioni, cioè quale livello di controllo esse devono esercitare sul loro territorio. Questo non significa certo aderire al suggerimento (avanzato da alcuni, rifiutato dai più) di una impostazione più manicheistica che salomonica: la produzione allo Stato, la distribuzione alia Regione. Gli esempi citati dimostrano come l’incontro fra amministrazioni pubbliche e operatori teatrali si sia basato su un rapporto paritetico, di per se stesso fortemente innovativo rispetto alla tradizione del teatro pubblico. Inoltre, l’attuale “regionalismo” teatrale non si limita a esemplificare l’unicità dei problemi da territorio a territorio e quindi la diversità delle soluzioni; ma applica la propria preoccupazione di “sprovincializzazione” anche al settore politico-organizzativo. Si veda l’esempio della neocostituzione ANARTt9), dove l’associazionismo fra enti pubblici territoriali realizza un dinamico circuito periferico e la gestione sociale delle iniziative, offrendo all’Italia centrale un’autentica alternativa di mercato. Si conferma dunque quanto alcuni organizzatori teatrali dichiarano da tempo: la formula della “gestione pubblica” non coincide più con un santuario (leggi: Teatro Stabile) dove si materializza alchimicamente lo spettacolo “bello”; ma coincide con l’articolato e mobilissimo tessuto — stratificato di contraddizioni che bisogna evidenziare — del “teatro/ servizio sociale”.

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1.3. Note 1 — P. Rossi, “Il controllo economico”, in F. Quadri (a cura di), II teatro del regime, cit. 2 — Diego Fabbri; un autore che nega vistosamente la problematica “assenza” del drammaturgo italiano dalla scena nazionale. Spesso contemporaneamente presente in più teatri della stessa piazza (incresciose “gaffes” del distributore ETI), Fabbri ha sfornato — nella stagione ’78/’79 — Il commedione da G. Belli (il nostro pratica anche 1’“adattamento”: etri, l’inenarrabile Vizio assurdo da Pavese/ Lajolo), e le riprese di “Paludi”, de II seduttore e de La bugiarda. Di eventuali “novità” o ulteriori riprese di fine stagione non siamo informati, ma confidiamo che ve ne siano state. 3 — A. Cremonese, Un eroe del regime, in F. Quadri (a cura di), Il teatro del regime, cit. 4 — L. Scalpellini, L’ETI degli anni Ottanta, Giornale dello Spettacolo, a.XXXV, ri- 1, 6/1/79. 5 — Questa “riforma interna” dell’ATER fu il risultato di un approfondi to dibattito (lunghissimo, perché ovviamente esteso a tutte le istanze associative), le cui conclusioni si possono leggere in: Giornate per il teatro, Atti del Convegno di Riccione, 27/29 luglio 1975, ATBRDOC Li MENTI fi1 1 (a cura dell’Uff. Stampa dell’ATER, Bologna, febbraio 1976); Atti de\Y Assemblea ordinaria annuale, Bologna, 13/14 marzo 196, ATER-DOCUMENTI n° 2 (a cura dell’Uff. Stampa delFATER, Bologna, luglio 1976). 6 — E. Azzardi, Per un teatro regionale in Emilia-Romagna, Emilia Romagna Teatro, n° 10, giugno 1975. 7 — Regione Enfila-Romagna, Teatro in Italia: un’esigenza di riforma — Colloquio promosso dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con PATER, Riccione, 16/17 giugno 1978. 8 — Il problema del rapporto distribuzione-decentramento è certamente implicato nello sforzo, che alcune cooperative attuarono fin dall’inizio della loro attività, di acquisire una sede. La Lombardia è forse la regione con il più alto numero di cooperative che gestiscono uno spazio (teatro, cinema-teatro, o altro) con un’attività aperta al pubblico. Significativa a questo proposito la vicenda del TeatroUomo che rinuncia (anche se per ragioni in primo luogo finanziarie) alla produzione per dedicarsi all’ospitalità. Altrettanto significativo, e sempre nel tessuto milanese, il tentativo che cinque spazi teatrali a gestione cooperativistica fanno nel ’78, per creare un’associazione indirizzata a unificare la realtà teatrale cittadina e a promuovere un rapporto diverso fra ente locale e gruppi; il tutto nel legittimo e deliberato intento di rompere il centralismo del Piccolo, (cfr. M.

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Bello-G. Gherzi, Il compromesso dei poveri, Scena, a.Ili, n° 2, aprile 1978). 9 — «Costituita a Firenze il 21 marzo (1979), l’Associazione nazionale attività regionali teatrali (ANART) (...) raccoglie tutti gli organismi teatrali pubblici esistenti attualmente ed operanti a livello distributivo sul territorio nazionale: il Teatro Regionale Toscano (TRT), l’Associazione Teatri Emilia-Romagna (ATER), l’Associazione umbra per il decentramento artistico e culturale (AUDAC), l’Associazione marchigiana enti locali attività culturali (AMELAC), il Consorzio Teatro Pubblico Pugliese, il Consorzio teatrale di Calabria. L’Associazione teatrale Abruzzese-Molisana (ATAM)», (cfr. Giornale dello Spettacolo, a.XXXV, n<> 12, 24/111/1979).

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LA RICERCA

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Intitolare un capitolo che si riferisce a esperienze molto diverse con un termine (“ricerca”) che si pone come matrice comune, come connotazione generale che raccoglie e riassume le singole applicazioni, significa voler dimostrare un assunto. “Ricerca” può prendere vari significati, ma tendenzialmente rimanda a una accezione scientifica e/o laboratoriale che, di per se stessa, esclude una componente immediatamente “produttiva”. Ricercare significa “fermarsi” sugli strumenti con cui normalmente si produce, tentare di modificarli o di sostituirli integralmente (e quindi, in primo luogo, di negarli). Ricercare comporta dunque una riflessione, uno strania- mento: si guarda l’oggetto come se lo si vedesse per la prima volta; si rifiuta (o meglio, si analizza dall’esterno) ogni “consuetudine” con esso, cioè ogni modo precostituito di fruirlo. La meditazione critica sul teatro è sempre esistita, in termini filosofici, letterari, tecnici. Il teatro del Novecento nasce all’insegna di un ripensamento globale del teatro da parte dei teatranti: ripensamento della parola, dello spazio scenico, della recitazione, etc. La teoresi primonovecentesca è tra le più rivoluzionarie dell’intera storia teatrale; l’esclusione da questo movimento che il teatro italiano subisce nel ventennio fascista (e, in parte, anche precedentemente), impose un durissimo recupero alla nostra cultura teatrale negli anni Cinquanta. Il tema è vastissimo; quanto qui importa è attribuire al termine “ricerca” un valore cultural-provocatorio. Affermare un teatro/ricerca, presupporre un teatro/oggetto di studio specifico, tendere quindi a un teatro/scienza, innanzitutto significa negare che il teatro si “compia” esclusivamente nel rapporto con un pubblico, significa conferire alla materia teatrale non 1’ “indipendenza” del “fool”, ma l’autonomia culturale di una tecnica; significa dimostrare che il teatro è “insegnabile”, anche a chi non è interessato a praticarlo. Al di là delle genialità artistiche e delle capacità organizzative con cui si costituisce il successo o l’insuccesso quotidiano, al di là della maggiore o minore rilevanza che si attribuisce al fattore

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pubblico, la prassi di palcoscenico si pone sempre (prima o poi) il problema della riqualificazione del proprio “prodotto’Prima del prodotto, questa auto-riqualificazione non può non toccare le singole componenti produttive: la drammaturgia, l’attore, la scena, etc... Il senso della ricerca (cioè di questo ristretto settore dell’attività teatrale) sta in questo, e di qui può derivare un “suo rapporto con il pubblico”. Mettere lo spettatore in una posizione insicura; costringerlo a non dare per scontato e per “unico” il suo abituale modo di fruire il teatro; porgli dei problemi “interni” al fatto teatrale oppure— all’opposto — consegnargli uno strumentoteatro completamente nudo (cioè non misterioso, e quindi “usabile”, disponibile); ammettere lo spettatore “nella” scena come uditore, proprio per superarne il ‘ ‘distacco’ ’ fisico-moralistico; cercare un dialogo con lo spettatore individuale, non con la “platea”: con questi e con altri metodi si coinvolge il pubblico in un lavoro di ricerca; “anche” questo (all’interno degli scopi cui si tende) costituisce un risultato di tale lavoro. Se si riconosce alla ricerca il valore che si definiva ‘ ‘culturalprovocatorio”, una linea fondamentale riguarda la controversa tensione verso un “teatropolitico”. Avviata da fenomeni ormai “storici” (il teatro di Piscator e di Brecht, l’agit-prop, il teatro della Rivoluzione Sovietica); sostanzialmente mancata, o comunque abusata in sede drammaturgica (cioè, fallito il tentativo che faceva coincidere teatro politico con contenuti politici immessi, più o meno forzatamente, nel testo); ormai dimostrata l’efficacia “politica” di un teatro del gestuale e del vissuto; l’applicazione di più articolata praticabilità e socialmente più incisiva, rimane 1’ “animazione teatrale”, comprendendo in essa anche il settore della drammatizzazione. In ogni caso, l’ipotesi “teatro politico” riassume la ricerca “al di fuori” del teatro, al cui opposto sta la ricerca sul teatro, la ricerca che vuol trovare un nuovo modello produttivo ma senza essere

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condizionata, il laboratorio per il laboratorio. Vedremo come la “competenza” di questa seconda linea sia, per i terzi, molto meno precisata che la precedente. La discriminazione (sancita dall’immancabile circolare ministeriale) fra organismi “produttivi” e sperimentazione accentua, o addirittura provoca, il distacco della ricerca da quel settore (produttivo, appunto) per modificare il quale essa nasce e opera. Non si intende affatto affermare che la sperimentazione deve contribuire a una migliore confezione del prodotto, cioè “risolversi” automaticamente in esso al termine di un prede- terminato itinerario; ma avallare un antagonismo fra Laboratorio e Spettacolo significa ghettizzare deliberatamente una fascia dell’attività teatrale, significa ignorare (o, peggio, limitare pesantemente) la capacità/volontà della ricerca di realizzare una propria socializzazione prima, cioè “al di qua”, delle mediazioni “industriali”.

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2.1. Riflessioni sui “Nuovo Teatro” “Nuovo Teatro” è formula “storica” (che coincide con il movimento creatosi nella seconda metà degli anni Sessanta e di cui si parlerà) e insieme generica. Il rinnovamento del teatro è stato infatti cercato e ottenuto — per quanto riguarda l’epoca contemporanea — così dai riformatori di inizio-secolo (Stanislavskij, Appia, Craig, etc.) come dalla drammaturgia di Pirandello, così dalle avanguardie degli anni Venti come dalle teorie di Artaud e di Brecht, così da influenze esterne (pittura, musica, culture “esotiche”, etc.) come dalla storia delle formule gestionali. Il significato con cui si assume qui il termine “nuovo”, rimanda a una linea programmaticamente di ricerca, di sperimentazione nel linguaggio, negli spazi, nelle modalità di fruizione e nelle finalità politico-organizzative. Il “vecchio”, a cui tutto ciò si contrappone, non è tanto una realtà comunque negativa, quanto un sistema di valori tendenzialmente immobile, opportunisticamente elastico ma vocazionalmente ripetitivo e monopolistico. Questo “vecchio” (contro cui all’inizio degli anni Sessanta si erano indirizzate le provocazioni di Carmelo Bene, le rigorose pitture beckettiane di Carlo Quartucci, gli esperimenti drammaturgieo-linguistici di un Frassineti, di un Giuliano Scabia e del Gruppo ’63) trovò una semplice ma efficace definizione, immediatamente proverbiale, in un convegno che — volente o nolente — codificava l’esistenza del “nuovo” e il suo bisogno già nevrotico di affermazione, seppur alternativa. La definizione era ‘ ‘teatro ufficiale’ ’ e il convegno per un “nuovo” teatro era quello di Ivrea (giugno 1967); l’affermazione era quella implicita in una sacrosanta totalità di negazione: «La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica. In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di floridezza. Apparenza pericolosa in quanto nasconde l’invecchiamento e il mancato adeguamento delle

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strutture; la crescente ingerenza della burocrazia politica e amministrativa nei teatri pubblici; il monopolio dei gruppi di potere; la sordità di fronte al più significativo repertorio internazionale; la complice disattenzione nella quale sono state spente le iniziative sperimentali a cui si è tentato di dare vita nel corso di questi anni». Alla protesta rivendicativa, si affiancava un cartello di istanze programmatiche, che comprendeva la priorità di un “teatro di laboratorio” come concretizzazione operativa del postulato della ricerca, cui si collegava una nozione di teatro “collettivo” (un teatro che “elimini i diaframmi fra scena e platea”) a dimostrazione di una volontà di effettivo superamento, e non di rifiuto, del problema del pubblico. Ciò comportava un intento di analisi continua e molteplice, indirizzata al “gesto” così come allo spazio scenico, perfettamente conscia di doversi scontrare (e in modo determinante) con le strutture organizzative, con l’esigenza d’inventarne di nuove e con il possibile (poi reale) ricatto da parte delle vecchie. Alla fine degli anni Sessanta il Living Theatre, che aveva contribuito con la sua prima tournée italiana ad accelerare le nuove tendenze, con il finale di Paradise Now (l’abbandono della sala teatrale e l’uscita in strada) indica chiaramente una vocazione “extrateatrale” che si stava diffondendo e che innanzitutto coinciderà con un teatro militante, funzionalizza- to alle lotte cresciute intorno al ’68, esclusivamente attento ai contenuti o all’utilità di tipo politico. Ma, al di là di esperienze uniche come il “caso” Dario Fo o come la formazione dei cosiddetti “gruppi di base” l’extrateatralità” si traduce soprattutto in quella che venne definita “ricerca di nuove radici” (di cui d’altronde gli stessi gruppi di base sono un’applicazione particolare). Non si tratta del recupero di tradizioni popolari, né tantomeno di una sorta di spettacolarizzazione della filologia come è avvenuto in tempi recenti (si veda l’ottimo esempio di De Simone). Scavando nuove radici, si vuole invece riabilitare o rifondare una scienza teatrale, trasferendola all’interno di situazioni

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culturalmente autentiche, tecnicamente non previste né condizionabili. Non si trattava quindi né di populismo né di spontaneismo, e nemmeno di rifiuto irreversibile della teatralità tradizionale. Ciò sia detto per il “teatro ufficiale”, una “cimice” inestinguibile perché molto più elastica dello stesso Capitale. L’ “ufficialità” oggi attacca la ricerca (ormai impegnata in uno sforzo non più di scissione polemica, ma di inserimento non compromissorio nel contesto teatrale anche in senso “spettacolare”) accusandola, malignamente, di voler mangiare nel piatto dove ha sputato, oppure, paternalisticamente di rimpiangere il fascino e i privilegi del palcoscenico; come se lo spettacolo teatrale tradizionale e il sistema che ne deriva, fossero un buongoverno esclusivamente dovuto agli ortodossi e ai riformisti, unici detentori dell’economia teatrale perché unici “preoccupati” della sua buona amministrazione e soprattutto della sua destinazione, cioè il pubblico. E con ciò si tocca un altro mito, ancora profondamente diffuso: il “disprezzo per il pubblico” che la ricerca comporterebbe sia sul piano ideologico che su quello pratico. Oggi il mercato valuta il pubblico come portatore di interessi precostituiti, pressoché immodificabili; l’organizzazione culturale si accomuna all’organizzazione commerciale privilegiando la capacità di prevedere e soddisfare questi interessi. Ma una tale operazione è più “attiva”, più “di potere”, di quanto non sembri; e comunque non si può rinunciare alla ricerca (sempre, volutamente, questo termine) di nuove formule organizzative e più ancora, di nuovi modi di diffondere la cultura teatrale; non “educazione del pubblico” (definizione ormai antielettorale) ma nemmeno eccessivo adeguamento ai “gusti” del pubblico, alla massificazione o— all’opposto— alla settorializzazione fruitiva che ne può derivare. Ciò significa tentare di eliminare concretamente, e quindi nel cartellone, prudenti quanto rigide discriminazioni fra un teatro “per gli abbonati”, uno “per le teste d’uovo” e uno “per i benpaganti”. Ciò significa — tra l’altro — ribadire che il famigerato teatro di laboratorio e le iniziative analoghe, pur

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valutabili caso per caso, costituiscono non una discutibile sottrazione di denaro pubblico, ma la sede in cui le finalità fin qui delineate sono più specificamente e più tenacemente perseguite. La “ricerca di nuove radici” si è caratterizzata per applicazioni rigorose: dalla presenza di Leo De Berardinis e di Perla Peragallo a Marigliano, agli interventi animativi di Giuliano Scabia, alla scelta “camionistica” di Carlo Quartucci. «Sul camion bianco con cui ha voltato le spalle al teatro come ambiente e come convenzione — del resto non aveva inteso negarlo già quando vi stava dentro, per mezzo dei suoi non spettacoli — di demistificazione, all’insegna dell’arte povera dai Testimoni al Lavoro teatrale? — Quartucci porta il peso della sua autobiografia, l’interezza della sua presenza quotidiana d’intellettuale artigiano, una pratica che va dalle gessose clownerie beckettiane alla scoperta del fonema a braccetto con Scabia in Zip, dal tentato connubio con il Gruppo ’63 in un mitico “meeting” a Palermo— Hotel delle Palme, al ripensamento del cubofuturismo russo nel suo Ma- jakovskij, e poi i quintali di dimostrazioni-spettacolo sulle avanguardie storiche progettati e mai allestiti, il pop di Segai per il primo incontro con Lerici e l’unione di qualche stagione con Kouneìlis... Ma se la gloria dei suoi anni sessanta la traduce in termini di mera esperienza acquisita e riappropriata, da conoscere attraverso schedature e ritagli da archivio ambulante, da comunicare con il suo fisico “stare lì”, del “dopo”, della tecnica della frammentazione applicata alla registrazione radiofonica degli sceneggiati televisivi studiati di nuovo con Lerici, dell’attacco ai mass-media, dei tempi di Berio e di Strawinskij, testimoniano i nastri, le diapositive, le pellicole — e questi sono materiali da “usare” in un nuovo contatto, non cultura da imporre. Sono i materiali per l’operazione di “scarico” che Camion effettua nelle borgate romane o chissà dove, per poi ripartirne con un altro “carico” di vissuti, di dibattiti, di concretezze, altri visi e altre voci inquadrate per una casualità prevista, il non-pubblico che verrà a abitare lo spettacolo ideale di Quartucci, cioè il racconto di questo viaggio, Camion che esprime se stesso. Non importa se lo spettacolo in senso proprio non c’è

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più, importa incontrarsi (come in Grotowski), pronuba la massiccia fisicità di Camion. E è questo, appunto nel suo momento magmatico dell’incertezza e della discussione (che è una messa in autodiscussione..l’evento che più adeguatamente tasta il polso della crisi dell’avanguardia rimasta a dissanguare le proprie formule nelle cantine nett’artificiosamente emblematico 1972»(4). Il “rifiuto del teatro ufficiale”, formulato a Ivrea, era stato infatti trasformato dalla controparte in “condanna alla clandestinità”, cioè all’isolamento. Nel 1972 il convegno di Chieri sarà dedicato a questo tema; uno dei relatori scriveva: «Quello che invece il teatro ufficiale non ha assolutamente fatto, anche qui ci sono le eccezioni ma sono rarissime, è stato di fare proprie le istanze provenienti dai cosiddetti gruppi d’avanguardia offrendo ai loro animatori una possibilità di saggiarle su pubblici più vasti e con mezzi meno acrobatica- mente limitati o anche travasandole nel proprio modo di fare teatro. Si potrebbe parlare al limite più che dell’isolamento dell’avanguardia della blindata impermeabilità del teatro ufficiale e di quello pubblico in particolare»(5). La mancanza di sostegno pubblico sottintende la mancanza di sostegno strutturale; nello stesso convegno di Chieri si ribadiva la necessità «dell’istituzione di una sede permanente in cui, rifacendosi alle esperienze della Bauhaus e della scuola di Ulm, si consenta a nuclei di insegnanti e di allievi di effettuare continue sperimentazioni sui materiali, sulle tecniche, sugli strumenti, sulle proposte e sulle idee. Questo laboratorio artistico, costituendosi senza precise divisioni di settore, rendendosi disponibile per interventi nei campo del teatro, della scenografia, del cinema, del design, sarebbe produttivo di continui scambi di idee e di validi risultati sia sul piano del linguaggio che su quello delle tematiche»(6). Questa situazione organizzativa, il contesto politico e l’evoluzione tecnico-artistica della ricerca, provocheranno un solo apparente “riflusso” del Nuovo Teatro, quel recupero critico della spettacolarità (anche nei suoi spazi tradizionali) di cui già si è parlato. Si è anche detto che non siamo in tempi di rigide demarcazioni; l’ “extrateatralità” non può essere aprioristicamente considerata più onesta e progressista della

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“teatralità”. Ma l’attuale sviluppo del fenomeno teatro, obiettivamente innegabile e tuttora attivo, non può coincidere soprattutto con l’incremento dell’iniziativa privata o soltanto con la riabilitazione delle grandi istituzioni. Resta l’assenza/indifferenza delle classi subalterne e la loro rinnovata subordinazione al divismo; resta la sostanziale chiusura della scuola, attenuata o abilmente mascherata dai decreti delegati; resta (anzi, si accentua) la paura, motivata economicamente, della mancata adesione delle scarse presenze, in una sorta di sospensione amletica fra laboratori pratesi e carnevali veneziani; resta cioè (anzi, si riafferma) una dicotomia fra “rassegne dell’avanguardia” ghettizzanti e pietistiche, e un nuovo teatro di massa riqualificato ma forse ancora pericoloso. Resta, per il teatro, il pericolo di “sorpassi a sinistra”, per esempio da parte del cinema. Un “nuovo teatro” deve applicarsi a campi interdisciplinari, penetrare profondamente il settore organizzativo e le sue leggi, intervenire concretamente nel dibattito politico, denunciare costantemente ogni involuzione, contribuire a mantenere la provocatorietà (fisica e intellettuale) del fatto teatrale, rivendicandone l’aggressiva laicità in un momento di riflusso religioso sottilmente moralistico. Questa concezione rivela nostalgie brechtiane troppo anacronistiche o magari banali riciclaggi sessantotteschi; ma qui si è voluto dare al teatro-ricerca una funzione sanguigna, un’accezione vasta ma riconoscibile, su cui rifondare lo slogan programmatico di Ivrea: «La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica». Una lotta non per l’utopica coincidenza teatro-vita, non per un grotowskiano “giorno santo”, e nemmeno per la morte-delteatro, ma per un teatro-cultura che ribadisca, con un po’ di sana eccitazione illuministica, la politicità della scena e il fascino/fastidio provocato dal suo spazio.

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2.1. Note 1— Questa dichiarazione, e il manifesto in cui è contenuta, è riportata in La Scrittura Scenica (a.li, 1972, n° 5), ma fu pubblicata per la prima volta su Sipario nel novembre del 1966. 2 — Cfr. Elementi di discussione, ib. 3 — Per quanto riguarda i gruppi di base, l’argomento è minore e di non più scottante attualità, ma riveste certamente un interesse particolare; a questo proposito si veda: A. Attisani, La scoperta del teatro, Scena, a.II, n° 1, febbraio 1977; AAVV, Frammenti di un incontro difficile e grande, Scena, a TI, n° 2, aprile 1977. A titolo informativo si possono citare le seguenti riflessioni di Cesare Motina- ri: «“Decentramento” voleva significare allargamento della base decisionale, del momento partecipativo, assunzione del diritto e della responsabilità di scegliere, gestione diretta e autonoma almeno dei problemi locali, e ha finito per voler dire il suo contrario: moltiplicazione dei punti di vendita e di esecuzione di decisioni già prese, allargamento e organizzazione del consenso. In campo teatrale è successa un po’ la stessa cosa: il decentramento doveva essere organizzazione dell’iniziativa culturale primaria, ed è invece diventato sinonimo di distribuzione capillare del prodotto... Al problema del decentramento teatrale è stato strettamente legato quello del teatro di base, e l'evoluzione dell’un concetto è stata parallela a quella dell’altro. Il teatro di base era, o almeno avrebbe dovuto essere, il teatro della base, in un duplice senso. Da un lato in quello di un teatro legato alle microstrutture organizzative in cui la società civile, ed in particolare le classi emergenti, venivano dando forma alle loro potenzialità associative... Comunque sia, in questo senso si doveva trattare di un teatro capace di affrontare e di chiarire, con gli strumenti particolari del suo specifico linguaggio, la problematica locale dei rapporti comunitari, dei bisogni immediati, sia nefl’ordine economico, sia neU’ordine culturale. Nell’altro senso si doveva trattare di un teatro che rendesse possibile la diffusione della cultura teatrale nel significato più pieno del termine, che mettesse cioè a disposizione dei membri della microstruttura associativa gli strumenti per possedere il linguaggio teatrale, e non solo in senso passivo (leggere il teatro), ma anche in senso attivo (costruire il teatro). I risultati furono pochi e cattivi. La problematica già povera e marginale del “territorio’ ' (altra parola magica) venne affrontata e svolta in maniera per lo più superficiale e retorica, mentre la produzione teatrale dei gruppi (?) del più bieco dilettantismo di tipo gaddista e dopolavoristico: o spettacolini di quarta, secondo le formule plebee della “pochade” dialettale, o orecchiamenti banali di

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avanguardismi conosciuti di seconda mano... I gruppi che si consolidarono non videro allora altra via d’uscita che la posizione radicalmente opposta: il professionismo assoluto, rigoroso, esclusivo. Senza pensare a quanto questa parola d’ordine sia omogenea con la visione tecnocratica dello sviluppo economico (sia per prima la merce ad alto valore aggiunto, ad alto contenuto tecnologico) il nuovo professionismo teatrale assunse a proprio modello la commedia deH’Arte nella visione un tantino mitica di Ferdinando Taviani: essere professionisti del teatro significa prima di tutto possedere una tecnica raffinata e complessa, che solo un lavoro diuturno e accanito e una serie di precise doti naturali permettono di conquistare» (C. Molinari, Dal teatro di base al teatro di base, Quaderni di teatro, a.I, n° 3, febbraio 1979). Ma il “destino” dei gruppi di base non è soltanto quello di immobilizzarsi nelFautocompiacimento tecnicistico di cui parla Molinari, ma anche quello di contribuire ad un “servizio sociale” che le istituzioni professionali non possono e non vogliono assumersi interamente. Per un fenomeno come il “teatro di Fo” si rimanda invece ai numerosi titoli riguardanti questo argomento, che si trovano elencati in cap. 4.2; si rimanda altresì a due articoli dello scrivente, apparsi prima del “boom” editoriale su Fo; cfr.: F.F., L’esperienza ParentiFo-Durano nella genesi del teatro di Fo (1953-55), Fena- rete, a.XXVIII. n° 157/158; F.F.. L’episodio Canzonissima (1962), ib., a.XXIX, ri’ 164/165. 4 — F. Quadri (a cura di), L’avanguardia teatrale in Italia, Torino, Einaudi, 1977,1 volume. 5 — E. Capriolo, La situazione artistica, La Scrittura Scenica, a.IV, n° 8, 1974 6— Cfr. La Scrittura Scenica, a.II, ri’ 5, 1972.

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2.2. Animazione «Le motivazioni e le finalità dell’animazione dovrebbero essere quelle di qualsiasi strumento culturale: dotare adulti e ragazzi della capacità di guardare la realtà con occhio critico, con la cosiddetta coscienza critica, per avere poi la forza di incidere attivamente su questa realtà e modificarla. Per acquisire questa capacità occorre impadronirsi della propria '‘personalità storica”, con la quale intervenire decisamente nel processo storico del nostro ambiente»(1). Affrontato in questi termini generali, il discorso sull’animazione può costituirsi una propria tradizione, può cioè individuare un elenco non soltanto di rimandi culturali, ma anche di “precedenti” sperimentali: dal teatro dei Gesuiti ad Asya Lacis, dal teatro-proletario di Piscator agli scritti di Brecht sul “dramma didattico”, dal teatro della “improvvisazione” di Jacob L. Moreno alle esperienze di Copeau e di Chancerei(2) Attraverso questo panorama storico emerge soprattutto una tecnica della “drammatizzazione”, che nell’animazione italiana contemporanea si può rubricare tra le componenti originarie. Giuliano Scabia, che proveniva da un’esperienza di autore sperimentale (si pensi alla collaborazione con Carlo Quartucci per Zip Zip Zap..., 1965), cominciò (anni ’69/ ’70) a intervenire nei quartieri per “trovarsi” una drammaturgia di base; questa ricerca — che esordi con grande efficacia all’interno del decentramento torinese, ma fu interrotta dallo Stabile che pure ne era promotore'— divenne poi metodo di lavoro presso la cattedra di Scabia al DAMS (Discipline Arti Musica Spettacolo) di Bologna; ne deriveranno esperienze come Marco Cavallo (cfr. la bibliografia riguardante Scabia in cap. 5.2, III). Ma l’attività universitaria di Scabia documenta innanzitutto che l’animazione perviene a un ambito metodo- logico, non può essere “oggetto di studio” ma si collega “naturalmente” alla didattica. «Circa il rapporto tra animatori e insegnanti non è inopportuno chiarire che pedagogicamente l’insegnante ha da essere, tra

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l’altro, animatore, ma non soltanto questo. L’insegnante è anche ricercatore e garante dell’uso corretto della ricerca, è figura ferma (di stabilità e sicurezza) cui si riferisce l’organizzazione della comunità-classe, è lo stimolatore della concettualizzazione oltre che della comunicazione. Per assolvere a tali compiti l’insegnante necessita di una buona competenza disciplinare e di una duttile capacità metodologica. L’animazione è appunto una tra le molte capacità metodologiche necessarie. Si tratta di possedere — da parte dell’insegnante — quella disponibilità e fluidità comportamentale e ideativa, nonché padronanza tecnica e partecipazione profonda, che consentono da un lato di “sentire il gruppo-classe” e di interpretarlo — o meglio, di orientarlo a esprimersi e a interpretarsi — e dall’altro di fornire gli strumenti più adeguati al l’attivazione dell’interesse, della creatività, della comunicazione e della riflessione». Non per nulla l’animazione era nata «negli anni Sessantotto per effetto di crisi: della scuola e del teatro, come insegnamento e come prodotto. Da un lato essa si affaccia e interviene nella scuola (elementari e medie prevalentemente) con derivazione teatrale dapprima, ma via via estendendosi per interdisciplinarità; dall’altro lato si muove dentro e contro il teatro come istituzione e come spettacolo (cercando di far saltare quest’ultimo e di dargli una forma comunicativa, partecipativa)» 151 ; le ricerche in tal senso tendevano a una compromissione “esterna” del teatro (auspicata e simboleggiata dal Paradise Now del Living). «Da questo discorso risulta che l’animazione teatrale, inseritasi nel rapporto incrociato scuola/teatro, teatro/scuola, è: a) Confronto culturale (operato però sperimentalmente e non solo a livello teorico-critico) con il patrimonio drammatico ereditato dal passato; b) Sperimentazione attiva del fare teatro, inteso però non come fenomeno culturalmente acquisito e strutturato (un testo, degli interpreti, un pubblico), bensì come fenomeno da riscoprire nelle esigenze di chi lo fa e nei linguaggi da usare»(6). Ma l’inadeguatezza, 1’“insoddisfazione” teatrale che alimentò l’interesse per l’animazione, non proveniva soltanto da un

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ripensamento complessivo, ma riguardava anche lo specifico (trascuratissimo) settore del teatro “per"’ ragazzi. «Se si vuole ritrovare un valore storico nell’animazione bisogna ritornare agli anni precedenti il ’68, come per il gruppo De Stefanis Passatore che, portando nelle scuole di Torino uno spettacolo per i ragazzi, si accorge, prima ancora che del valore pedagogico del suo lavoro, dell’indicazione drammaturgica che continuamente, nel corso del lavoro, viene dal rapporto con un pubblico non soltanto interlocutore, ma che rivendica, nella sua disponibilità a vivere totalmente il gioco drammatico, un ruolo di protagonista per un dramma continuamente nuovo. Solo più tardi quelle idee entreranno nella scuola, verificata attraverso il Movimento di Cooperazione Educativa, e avranno un effettivo impatto di rottura su una scuola vecchia e sclerotizzata»,(7). L’attore-personaggio non può dare al bambino che un prodotto finito, è costretto cioè a inserirlo in un gioco-copione basato su regole inderogabili. L’animatore parte da un'idea concretamente ’‘aperta”, con un programma “da modificare”; le reazioni del bambino non vengono, come nello spettacolo “per” i ragazzi, considerate “pilotabili” dalia maestria dell’attore e comunque dalla ineluttabilità del testo. Il ruolo dell’animatore sta nel riuscire a “essere animato” dal gruppo con cui lavora. «Il tempo e lo spazio dell’attività espressiva (finora definita “artistica”) vengono di conseguenza a non essere più ritagliati e nettamente separati da quelli didattici (la recita di fine d’anno nel teatrino o nella palestra trasformata della scuola) ma diventano quelli stessi dello studio e del lavoro, interni al “quotidiano”, nella prospettiva di una pedagogia che privilegia lo sviluppo della creatività. A tale trasformazione sono sottesi due dei principi culturali fondamentali su cui l’animazione teatrale si fonda: il ritiro della “delega” all’espressione e la svalutazione del “prodotto” artistico. Riqualificando la creatività personale e di gruppo si restituisce all’individuo la delega alla creazione e all'espressione data a suo tempo all’artista, eliminando nel contempo ogni pertinenza dei valori “estetici” nella valutazione del prodotto della espressione. Si

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privilegia il momento del “fare”, il lavoro progettuale-operativo come momento di formazione collettiva, mentre al “prodotto” rimane soltanto il valore del comunicare il lavoro svolto dal gruppo, per cui diviene casuale, facoltativo o addirittura superfluo». Si intuisce una funzione strumentale del teatro che, a sua volta, evidenzia il momento pedagogico-didattico; si sviluppa «il concetto di scuola come spazio politico-sociale, cioè di una scuola “aperta’ ’ come contenuti e tecniche, non solo al ragazzo, ma anche alla famiglia, al quartiere, insomma alla realtà. Si matura e si precisa il rapporto adulto-bambino sul ‘ ‘crescere insieme”, agganciato alla realtà dell’ambiente che determina problemi e interessi, che consente di realizzare un lavoro interdisciplinare, che dà al ragazzo la possibilità e gli strumenti perché si esprima, si difenda, perché realizzi la “sua” cultura»(9). Di questa socializzazione (che si può forse datare verso la metà degli anni Settanta) fa in primo luogo parte la trasmissione delle tecniche(10) e delle esperienze acquisite. Il carattere metodologico che fin dall’inizio l’animazione aveva assunto nell’ambito scolastico, contraddiceva all’occasionalità della presenza dell’animatore, alla “estraneità” in cui il suo intervento veniva spesso confinato da parte del contesto didattico. All’inserimento dell’animatore “esperto” bisognava sostituire la “trasformazione dell’insegnante in animatore”. Si poteva evitare così un latente “professionismo” dell’animatore, una concezione dell’animazione come area di parcheggio per teatranti disoccupati. Corrispondentemente, si diffondono i “corsi per animatori” e le istituzionalizzazioni dell’attività animativa(ll) «Spinto in parte dall’esigenza di sperimentare la propria ipotesi pedagogica di crescita culturale di gruppo al di fuori dell’ambito chiuso della scuola, in parte dal bisogno di sfuggire alla crescente strumentalizzazione istituzionale che tendeva a ridurre l’animazione a un supporto gratificante per insegnanti e allievi delle materie scolastiche tradizionali, un notevole settore di operatori cerca spazi nuovi nel sociale, nel quartiere, nei territorio,

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dapprima solo con i ragazzi e poi, con perplessità e incertezze iniziali, ma via via con sicurezza crescente, anche con gli adulti. E in questo passaggio viene perdendo i suoi caratteri più specificamente pedagogici e teatrali e assumendone altri più ampiamente culturali e antropologici, esprimendo la tendenza a farsi indirizzo di ricerca culturale, atteggiamento pragmatico nell’esercizio della propria professionalità (e nei campi più diversi) e prospettiva nuova del ruolo dell’intellettuale nella società»(l2). Per riassumere. Dal teatro-strumento per una “scuola aperta”, al tentativo di collaborare a una “cultura del territorio”. Dal rifiuto del teatro “ufficiale” (rifiuto teorizzato dal “nuovo” teatro italiano nella seconda metà degli anni Sessanta) e dalla insufficienza/inidoneità della drammaturgia per ragazzi, nasce una tendenza “fuori” dal teatro; questa tendenza trova un fertile terreno di confronto in una scuola agitata da esigenze radicalmente innovative, una scuola disposta ad acquisire il teatro fra i propri strumenti didattici. Così impostata, l’integrazione dello strumento-teatro nella scuola non può, per evolversi, che diventare totale: di qui la necessità dell’insegnante-animatore e il parallelo recupero/ rilancio dello spettacolo “per” ragazzi, che tuttavia sia realizzato per essere “usato” dallo stesso insegnante-animatore, e non dall’assessore di turno per routine elettoralistica o (peggio) da qualche Stabile per mero efficientismo imprenditoriale. L’animazione si dirige dunque verso il “sociale”, una direzione implicita nei motivi originari e rintracciabile in numerosi “precedenti” storici(l3). Di qui l’incontro con un “territorio”, che diventa il referente più citato a livello politico-culturale. L’importanza (e la possibile ambiguità) di questa operazione impegna attualmente l’animazione forse in una vera autonegazione, e comunque in una de-settorializza- zione che si traduca in una interdisciplinarità completamente rinnovata. «Oggi con tutte queste istanze di servizi culturali nuovi, non basta più la genialità individuale, né la spettacolarità di una forma di teatro incisiva. Il

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nuovo animatore, in prospettiva e nell’ambito del centro culturale polivalente, ha, da una parte, il problema della circolazione della cultura, nel momento in cui il decentramento diventa reale, e dall’altra la decodifica ragionata di prodotti e di interventi per quanto riguarda ogni forma di espressione culturale e artistica; questa scelta va estesa al cinema, al teatro, al libro, ecc.(14).

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2.2. Note

— Bruno Grieco, in L’animazione, Quarta parete, n° 1, Torino, Stampatori, 1975. 2 — Per alcune annotazioni storiche in proposito, cfr.: Paolo Puppa, L’animazione adulta: Narciso in quartiere, La scrittura scenica, rf 15, 1977; Loredana Perissinotto, Date per una stona, inL. Mantrin, G.R. Morteo, L. Perissinotto, Tre dialoghi sull’animazione, Roma, Bulzoni, 1977. 3 — Cfr. Teatro, rivista diretta da Bortolucei - Fadini - Capriolo, a.Ili, n° 2, 1970. 4 — Silvana Mosca, Animazione e progetto didattico, Le botteghe della fantasia, a.I, n° 1, die. 78/febbr. 79; nello stesso articolo si legge: «La validità dell’ingresso deH’animatore nella programmazione didattica (di classe o di laboratorio specificamente dedicato all’espressione) è indiscutibile, sia per lo sblocco di situazioni istituzionalmente statiche, sia per la strutturazione e Farricchimento di situazioni aperte ma sprovviste di competenza». 5 — Giuseppe Bortolucei, Animazione 77. Morte dell’animazione?, La scrittura scenica, n° 15, 1977. 6 — Gian Renzo Morteo, Fisionomia e caratteristiche dell’animazione teatrale, in L. Mamprin, G.R. Morteo, L. Perissinotto, cit. 7 — Alfredo Ronchetta, Ferdinanda Vigliani, Proposte!Assemblea, La scrittura scenica, n° 15, 1977. 8 — Eugenia Casini-Ropa, I percorsi dell’animazione, in G. Scabia, E. Casini-Ropa, L’animazione teatrale, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1978. . 9 — Loredana Perissinotto, Note per una storia, in L. Mamprin, G.R. Morteo, L. Perissinotto, cit. 10 — Eugenia Casini-Ropa, nell’articolo citato (cfr. nota n° 8), si sofferma su queste tecniche «di cui l’animazione fa uso e che dilatano in misura imprevista il senso dell’aggettivo “teatrale”. Dalla drammatizzazione (che spazia dalla libera improvvisazione alla rappresentazione organizzata di testi precedentemente elaborati dai ragazzi per rimanere a volte semplice recupero di forme di teatro amatoriale) all’ideazione, costruzione e uso di burattini pupazzi maschere che mediano e favoriscono psicologicamente la comunicazione del bambino con l’esterno; dalla pittura e il disegno presi spesso a spunto di partenza, perché tecniche note e familiari, verso l’uso di altri moduli espressivi, il 1

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modellaggio, il collage, la scultura con l’utilizzazione dei materiali più vari e inconsueti, alla costruzione di grandi strutture organizzate (luoghi immaginari, quartieri, città) che richiedono un forte impegno collettivo; dall’uso del linguaggio parlato in tutte le sue forme ormai codificata dalle comunicazioni di massa (il linguaggio giornalistico dei notiziari, delle interviste delle radiocronache sportive e di attualità, e il linguaggio pubblicitario), alla sua versione scritta fissata attraverso la stampa secondo le tecniche più svariate; dall’uso creativo della musica e dal canto con l’invenzione di fantasiosi strumenti musicali “poveri” e di canti liberi, all’utilizzazione dei più moderni mezzi tecnici di riproduzioni del suono e deH’immagine come macchine fotografiche, magnetofoni, cineprese e videotape. Costante appare la volontà di fornire al ragazzo la conoscenza del maggior numero possibile di mezzi attraverso cui esprimersi con il duplice scopo di esautorare il linguaggio scritto e parlato dalla sua istituzionalizzata funzione di canale privilegiato della trasmissione culturale che lo rende privilegio di classe e di recuperare la globalità del processo conoscitivo e pedagogico e la sostanziale unità della persona umana». 11 — Oggi l’animazione ha alcuni poli particolarmente attivi, come Torino (Stabile e gruppi), il Teatro-Scuola di Roma, il Centro Teatrale Bresciano (naturalmente, con diverse fisionomie). 12 — Eugenia Casini-Ropa, Ipercorsi dell’animazione, cit. 13 — «L’animazione “fuori” che punta a raggiungere gli adulti, intanto,è il tema sotterraneo, poi sempre più esplicito, delle avanguardie e neoavanguardie teatrali del ’900, spinte, per conservare un senso al proprio esistere, tra le altre cause, dalla schiacciante concorrenza del cinema e dalle nuove e più redditizie forme della industria dello spettacolo, a “attivizzare” e/o abolire il pubblico», Paolo Puppa, L’animazione adulta: Narciso in quartiere, La scrittura scenica, n° 15, 1977. 14 — Giuseppe Bartolucci, in Elisa Salvatori Vincitorio, Animazione econoscenza, Bari, Dedalo, 1978.

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2.3. Digressioni 2.3.1.

Per una “scienza” della comunicazione teatrale

«Nell’estate 1976 iniziano a Prato i lavori triennali del “Laboratorio di progettazione teatrale’ ’, nato per un accordo tra la Cooperativa Tuscolano e il Comune di Prato, che ha poi coinvolto la Regione Toscana, la Provincia di Firenze, il Teatro Regionale Toscano, il Teatro Comunale Metastasio di Prato e l’Azienda Autonoma di Turismo di Prato. (...) Il programma del Laboratorio definito nella sua forma generale dal rapporto teatro-territorio, stabilisce di indagare che cos’è la comunicazione teatrale attraverso la produzione di spettacoli-saggio» . La realizzazione di questo programma era affidata a Luca Ronconi. La linea di ricerca, che Ronconi aveva individuato e praticato durante la propria storia registica, poteva così trasferirsi e “pensarsi” in un più idoneo contesto laboratoriale. Dopo un (felice) esordio da “attor giovane”, che gli aveva procurato una definitiva insoddisfazione per certi moduli recitativi “natural-epici”, era approdato alla regia nel 1963 con un Goldoni (La buona moglie) polemico, volutamente degradato a un naturalismo volgare, «addirittura truce, molto populista, senza nessuna di quelle ricercatezze o estetiche o critiche delle messinscene goldoniane divergenti dalla tradizione viste in quegli anni, dalla Locandiera di Visconti alla Trilogia della villeggiatura di Strehler» a>. Da quell’esperienza, da I lunatici a Utopia (attraverso Riccardo 111, Candelaio, Orlando furioso, XX, Orestea), si erano coerentemente enucleati i contenuti di una ricerca: sulla “fisicità” e, in genere, sulle chiavi antinaturalistiche della recitazione; sulla funzione “interpretativa” dell’elemento scenografico e, di conseguenza, sullo spazio scenico come prima e determinante “lettura” del testo (uno spazio “ricostruito’ ’ per ogni spettacolo e sempre al di fuori delle costrizioni del luogo teatrale tradizionale); sul testo come patrimonio letterario non “traducibile” in altro

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codice ma assunto oggettivamente (di qui il “critico”, non paradossale “rispetto” del testo da parte di Ronconi, su cui si tornerà); sulla necessità di collocare fisicamente ed emotivamente lo spettatore all’interno di “queste” angolature. Sulla base di questo lavoro e del progetto che ne poteva derivare, «il Laboratorio di Prato ha prodotto tre spettacoli, le Baccanti di Euripide, la Torre di Hofmannsthal, e il Calderon di Pasolini. Ha studiato la Vita è sogno di Calderon de la Barca. Ha influenzato la produzione del documentario di Jancso, prodotto la versione televisiva della Torre, del tutto autonoma rispetto alla versione teatrale, promosso l’attrezzamento del Fabbricone e la sistemazione della parte dell’Istituto Magnolfi dove si danno le Baccanti. E queste rimangono strutture complete del Comune di Prato, dotate di impianti elettrici e di sollevamento scene fra i più moderni. Allora, mi pare che una produzione del genere sia rara, non solo in Italia ma anche in altri paesi. E in rapporto al finanziamento, tanto strombazzato, di 670 milioni in due anni, ci siano dei risultati»(3). Il carattere esplicitamente polemico di questa dichiarazione introduce alla problematizzazione (sostanzialmente falsa, o comunque deformata) che il Laboratorio subì sul piano del dibattito politico e delle problematiche dì parte. Si accusò Ronconi di “capitalismo” mentale, il PCI di sponsorizzazione elettoralistica o comunque di protezionismo, e l’intero esperimento di sperpero del denaro pubblico continuato e aggravato; aggravato da che cosa? dal mancato raggiungimento del fine politicamente primario (o meglio, primario per le controparti politiche): il “rapporto con il territorio”. Questa argomentazione era fondata su un equivoco(4), e tuttavia la si strumentalizzò per etichettare gli innegabili ostracismi antironconiani della cittadinanza pratese, e soprattutto per alimentare uno scontro fra comunisti e socialisti che portò a una frattura della Giunta comunale. Le polemiche intorno all’esperienza pratese sembrano talvolta ignorare che obiettivo del Laboratorio era «creare un modello di produzione culturale diverso che si definisce non più in relazione

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alla confezione di un prodotto, ma in relazione a tutte le tappe intermedie per arrivarci»l5). Si tendeva a mantenere nella categoria dell’apocrifo la potenziale (e magari realizzata) estraneità/alternatività del discorso laboratoriale nei confronti del “sistema” produttivo vigente. La ricerca intorno alla modificabilità di questo sistema si caratterizza doppiamente: costituisce un tentativo di evoluzione interna del lavoro teatrale e, conseguentemente, tende a rifondare la fruizione. Posto il problema in termini sperimentali (ma nel caso di Prato, già ampiamente elaborati), la ricerca non può che, da una parte, attendere una diffusione/ verifica dei propri risultati e, dall’altra, rimandare a un intervento politico/socializzante che non si ponga come antagonistico ma come strettamente complementare alla ricerca stessa. Il tema, di cui il “caso Prato-Ronconi” costituisce una manifestazione clamorosa, non può essere ridotto a questi termini (6' ; occorre tuttavia puntualizzare che le argomentazioni politicoeconomiche non possono essere impermeabili alla connotazione specifica del Laboratorio, cioè di ricerca nel settore della sperimentazione teatrale. D’altronde, la stessa querelle interpartitica non aveva evitato di coinvolgere il merito tecnicoteatrale. Alberto Abruzzese scrisse su Rinascita: «(Ronconi) esperto facitore di macchine, raffinato lettore degli spartiti della parola e della musica, mi pare invece ancora incapace di fare recitare bene» 0). L’osservazione (che, a prima vista, sembra finnata da un Silvio d’Amico angosciato dal l’arretratezza tecnica della scena italiana) esclude non soltanto il rigore con cui Ronconi si colloca nella fenomenologia del “regista-autore”, ma anche gli esempi concreti che il Laboratorio ha fornito: dall’eccezionale “performance” di Maria Fabbri nelle Baccanti, ai registri interpretativi ottenuti da un Giancarlo Prati, da un’Edmonda Aldini, da una Miriam Acevedo. Questa “intellettualizzazione” del fatto recitativo (che forse trova la sua realizzazione più chiara e più completa in Mauro Avogadro) deriva da una esplicita (per lo spettatore)

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analisi/straniazione della propria tecnica da parte dell’attore recitante. La costrizione in spazi fisicamente condizionati e contenutisticamente almeno complementari alla presenza attorica, la frequente imposizione di costumi deformanti e la forzatura ossessiva dell’antinaturalismo (elementi rinvenibili in tutta la storia registica di Ronconi, dai Lunatici in poi), non sembrano costituire un abuso dell’attore/strumento, ma una sua diversa responsabilizzazione interpretativa, un lucido tentativo di consapevolizzare una tecnica, di acquisire una “scienza” (sperimentale) della recitazione (interna— evidentemente — e organica a una “scienza” della comunicazione teatrale). Esperire una comunicazione teatrale non tradizionale significa dare una valutazione politica “altra” del fare e del fruire teatro; ed è a questa valutazione che si deve, “politicamente”, aderire o non aderire. Si è già visto come la biografia professionale di Ronconi riveli, a questo proposito, un’inquieta quanto innegabile coerenza. Secondo Franco Quadri, dopo la realizzazione dolY Orestea (Belgrado, 20 settembre 1972), per il regista poteva «formularsi un dilemma: il teatro di. routine o la fuga. Dove fuga vuol dire “mass-media”. In ogni caso, neH’odiema situazione, il rifiuto della comunicazione teatrale». Orestea (come XX, presentato al Théatre Odeon il 13 aprile 1971) presupponeva un metodo laboratoriale, e “quel” rifiuto della comunicazione teatrale non poteva non costituire Loggetto di una continuazione e di una specificazione (“esclusivamente” laboratoriale, appunto) della ricerca. Ronconi ne aveva infatti già individuato l’assunto programmatico: risolvere il contraddittorio rapporto testo/messinscena, proiettandolo sul tessuto dello spazio scenico, ma, in realtà, senza “costringere” la componente letteraria (il testo) a tale proiezione. Per Ronconi non si tratta di “trasformare” la letterarietà in teatralità, ma di leggere una scrittura. Lo spettacolo teatrale non è una “reinvenzione” condannata a non “restituire” nulla dell’originale, ma un processo di esecuzione/ invenzione. Si parte da un’ipotesi di esecuzione (in cui il testo è un pretesto) e si approda a una

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invenzione scenica in cui il testo è un meta-testo (cioè potrebbe “non esserci” o comunque — rifacendo iì percorso all’inverso — si potrebbe ‘‘tornare” a un pre-testo diverso). In altri termini: la struttura scenica è “unica” (esecutiva) in rapporto al pre-testo da cui si era partiti, ed è “assoluta” (inventata) in rapporto al meta-testo “possibile” cui rimanda. E il caso del labirinto/abitazione di XX. È il caso de Vanitra selvatica, strutturalmente contraddetto ma polemicamente potenziato da una situazione architettonico-teatrale di tipo tradizionale. Con quell’allestimento si dava una lettura strettamente “esecutiva” (e filologicamente, quasi minuziosa) del testo; si consentiva cioè una presentazione dell’Autore perfettamente “rispettosa” proprio perché a-interpretativa sul piano lette- raio; ma si inventava una “macchina” entro la quale lo spettatore poteva cacciarsi ignorando i personaggi che fisica- mente vi si muovevano, oppure con la quale lo spettatore stesso poteva confrontare un dramma (L’anitra selvatica di Henrik Ibsen) di cui gli veniva così proposta “una” delle letture che una pagina scritta (per il teatro o no) prevede. Ecco la “non-costrizione” della scrittura letteraria da parte della trascrittura scenica che più sopra si anticipava. Questo “rispetto” del testo deriva paradossalmente dall’affermazione che, “in scena”, il testo “non può” essere rispettato, nella misura in cui la categoria della letterarietà “pensa” la pluricodica (e collettivistica) categoria della teatralità in modo inevitabilmente unico dico (e individualistico). Questo contrasto lo si enuclea e se ne progetta il superamento in sede di riscrittura drammaturgica. Ronconi manovra con abilità consumata contrasti siffatti (si rifletta, ad esempio, sulla lontananza/vicinanza del testo nella realizzazione pratese delie Baccanti; sull’esclusione/coin volgimento dello spettatore, che il Laboratorio non soltanto realizza nuovamente, ma dimostra; sull’abuso/responsabilizzazione dell’attore cui si accennava; sulla deformazione tecnologica/liberazione concettuale dello spazio scenico, che più sotto si cercherà di dimostrare). Con l’esemplificazione óe\Y Anitra, Ronconi ha scritto una

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sorta di “pars destruens” da premettere al discorso di Prato e da riprendere — “a contrario” — soprattutto con il lavoro sul Calderon di Pasolini. La polemica contenuta nello spettacolo “ibseniano” si dirigeva contro il condizionamento imposto allo spettatore da uno spazio ripetitivamente preconfezionato: la sala “all’italiana”. La rottura con questo spazio (avviata, d’altronde, già dall’allestimento della Fedra di Seneca, nel gennaio 1969) muove dalla negazione del palcoscenico. Ronconi rifiuta la mistificazione tecnicistica del primo contenitore (la “scatola” del palcoscenico stesso e la sua attrezzeria) su cui si innesta la mistificata (appunto) “realtà” del secondo contenitore, cioè l’apparato scenografico. Tale duplice mistificazione viene superata soltanto in parte da una scenografia che si proponga di “straniare” il primo contenitore, cioè ne metta a nudo le caratteristiche di “servizio” e di “strumento”; rimane infatti il problema della “inutilità” del palcoscenico sul piano contenutistico: la sua estraneità, il suo essere neutrale ma non “neutro”, perché inserito in una logica architettonica che neutra non è. Il problema diventa non tanto di negare lo spazio teatrale rinascimentale, quanto di denunciarne il falsificato recupero della “classicità”, e quindi di riacquistare — sintetizzandolo — il momento comunicativo dell’“orchestra”. La ricerca di un contenitore “unico” per ogni spettacolo coincide cosi con la ricerca di un contenitore “assoluto”. Un procedimento che sarebbe certamente approvato da Gordon Craig. Un procedimento che giunge a piena attuazione con il Calderon™. Lo spazio scenico, “unica” traduzione teatrale pensabile per un testo retorico e datato, si assolutizza (“rompendo” un atteggiamento tradizionale nel modo più suggestivo e insieme più tangibile, fornendo cioè allo spettatore, che entra in questo universo del tutto inaspettato, luna splendida “emozione” iniziale). Il testo di Pasolini si riduce veramente a un meta- testo facilmente sostituibile, un innesto come tanti altri operato “a posteriori” su di un “a priori” totalmente disponibile. La polemica delVAnitra si allarga e si risolve: la contraddittoria fruizione che era stata accettata (anche se ipostatizzata), viene ora

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(con il Calderon) chiaramente imputata a una architettura complice proprio con lo sperimentarne un’alternativa “dall’interno’” (mentre una soluzione ’‘esterna” alla logica deiredifìcio teatrale è fornita dall’itinerario psicodrammatico nel labirinto del Magnolfi). Se ne conclude che la deformazione del Metastasio è un “lavoro sul territorio”, oltre che un risultato tecnico a disposizione di qualsiasi verifica/uso. Riformare le leggi della produzione significa rifondare Fatteggiamento “culturale” della fruizione. Se il raggiungimento di un teatro “politico” viene continuamente ritardato anche dal fallimento delle formule tecnico-espressive; se un “sistema” distributivo riconferma la propria fiducia (e delega la propria sopravvivenza) a una “messinscena” ben definita tipologicamente; probabilmente una ricerca che si qualifica come puramente “scientifica” può offrire — e nemmeno tanto indirettamente — un uso “politico” dei propri risultati. Non per nulla Ronconi, «regista non del ’68, ma della tecnologia avanzata»,l0), supera il discorso “chiuso” di un Grotowski e quello “aperto” di un Living Theatre, da un’angolatura rigorosamente “scenica” ma, proprio per questo, allargandone la potenzialità realizzativa.

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2.3.1. Note 1 2 3 4

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— Gae Aulenti, Teatro e territorio — Il Laboratorio di Prato, Lotus International, n° 17, die. 1977. — Franco Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino, Einaudi, 1973. — Dichiarazione di G. Aulenti a: G. Manzella, Prato dentro gli ingranaggi del Laboratorio. Intervista a Gae Aulenti, Il Manifesto, a.Vili, n" 149; 24 giugno 1978. — L’interpretazione programmatica che il Laboratorio dava del pro blema, era precisa: «Il teatro è un soggetto che parla, esso assume il territorio come luogo del proprio discorso» (G. Aulenti, Teatro e territorio, cit.}. — Questo intervento di Roberto Toni (responsabile del Teatro Regio nale Toscano) si inserisce in una sorta di antologia riportata a conforto della tesi iìn qui sostenuta; Ronconi dichiarava: «L’obiettivo si è chiarito: una ricerca che investe tutti i problemi della comunicazione teatrale e che implica una ' 'permanenza" nel luogo e nel tempo: non un consumo di circuito» (E. Filippini, Che bel testo: smontiamolo!, in La Repubblica, I9/IV/1978). Lo stesso Toni cosi difendeva il Laboratorio: «A mio avviso è assolutamente indispensabile una premessa che puntualizzi qual è l’effettiva originalità del laboratorio di Ronconi, il fatto cioè di favorire condizioni diverse e più avanzate perché un gruppo di operatori possa sviluppare una nuova qualità del lavoro teatrale; perche sia in grado di realizzare un tipo di ricerca non più affannosamente condizionata dagli attuali meccanismi di mercato pubblico e privato, ma dotata di un respiro e di una serenità operativa più ampia e più proiettata nel tempo, tale cioè da ricercare al suo proprio interno le proprie articolazioni, i propri connotati, il proprio metodo. L'obiettivo in sostanza è quello di creare un modello di produzione...», (G. Tescari, Il dilemma del laboratorio, in Scena, a. II, n1’ 2, aprile 1977), Quadri, presentando la ’'stagione" del Laboratorio: «Un regista e degli attori che della società e della cultura in cui sono innestati risentono il momento di incertezza e di confiittuaiità. Identificano un luogo dove gli sia consentito "provarsi"... Non hanno di mira il tuffo nella produzione, ma la riflessione sul procedimento del lavoro; anche se l’ospite (l'istituzione) che li accoglie è attratto piuttosto dal loro prestigio (produttivamente quantificabile) che dai dubbi che li han spinti fin qui. In realtà il regista e gli attori hanno bisogno di interrogarsi sulla loro funzione... Come teatranti lavorano sulla comunicazione col pubblico; quindi gli si impone prima di tutto di chiedersi questa comunicazione cos'e e di esaminarne i canali», (F. Quadri, Prato. Un laboratorio per ritrovare l’identità, in il Manifesto, a. Vili, n° 149, 24 giugno 1978).

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Abruzzese, infine, commentava: «Credo si debba avere il coraggio di dire che l’esperienza pratese di Ronconi non ha nulla a che vedere con la “modellistica" del decentramento culturale (radicamento, polivalenza, formazione di operatori, ecc.)», (A. Abruzzese, Le tecniche di lusso del laboratorio di Ronconi, in Rinasci- la,a. 35°, n° 29, 21 luglio 1978). — «Non si può né si deve costringere nello spazio di una cronaca frettolosa un episodio che meriterebbe un'attenta analisi, e che certamente rimanda ai “rischi" che la gestione politico-culturale propone alla sinistra. In questo senso, l’esigenza dì mediare (senza grosse abdicazioni ideologiche) fra crisi economica e “nuova" operatività culturale, rimane la responsabilità più pesante. Non si tratta infatti di rifiutare una economia, ma semplicemente di riesaminare i “rapporti" che questa economia prevede/impone. «Il valore di scambio del teatro dell’era borghese si fonda nel carattere della ripetizione, della replica». «L’avanguardia più sensìbile è quella che ha messo in discussione l'attività teatrale basata sul “valore di scambio"... Ne deriva una conseguenza importante: alio “spettacolo" viene negata quella caratteristica di “gradevolezza obbligatoria" propria di tutto il teatro basato sul valore di scambio. Lo spettacolo non riflette ma è parte di un processo. ...Si tratta insomma di un teatro che sembra procedere (o regredire, a seconda dei punti di vista) verso l'adozione di un “valore d’uso" del proprio lavoro: il gruppo non vende prodotti ma compie un’azione, che non può essere uguale ogni volta e che si propone al pubblico come “gesto che inaugura un rapporto"», (A. Attisani, Teatro come differenza, Milano, Feltrinelli, 1978). — A. Abruzzese, La spesa, lo spettacolo e il piacere dell’occhio, Rinascita, a. 35°, n(> 32, 11 agosto 1978. — F. Quadri, Il rito perduto, cit. — «Approdando finalmente agli spettacoli, il connotato spaziale che rifiuta la divisione consolidata tra scena e platea ne emerge come dato più appariscente, assieme al correlativo intervento sulla città, toccata in tre punti significativi; uno ovviamente è il Metastasio, il teatro abituale della borghesia di Prato (e si rivelerà il luogo meno ricettivo), gii fanno eco un ex istituto educativo (un’ala del seicentesco istituto Magnolfi, sede deirorfanotrofio) e una fabbrica abbandonata (il Fabbricone, per l’appunto); tanto per completare il quadro, sì pensi che la sede direttiva del laboratorio è sistemata in un’ex banca. Non alla massa dei cittadini sono diretti gli spettacoli, ma a un numero limitato di spettatori-cavie, sperimentatori e propagatori. Il rapporto con il pubblico è infatti studiato “ad personam". «Subito Ja ricerca dì una nuova disposizione spaziale prevede la profanazione del teatro. Per il Calderon la scena e la platea del Metastasio divengono tutte praticabili, un “continuum” senza barriere da guardare


dall’alto, per un’esercitazione di geometria organizzata tra i due punti focali ai due estremi, sulla traccia delle "meninas”, espressamente citate dall’autore: infatti come in quel famoso quadro il pittore Velasquez che vi figura autoeffigiato è contemporaneamente dentro e fuori l’opera, nella stessa duplicità di posizioni si ritroveranno il commediografo e il regista, immaginando qui concretamente come sede delle “meninas” il Palazzo, ovvero la scena tradizionale, e come sua riproduzione speculare la platea, cerchio-lager in cui la borghesia è rinchiusa e si rinchiude. «Nell’Istituto Magnolfi per le Baccanti recitate dalla sola Marisa Fabbri, l'unico elemento visivo di rottura conflittuale, in mancanza di antagonisti, è affidato al cambiamento di ambiente corrispondente alla divisione in episodi e stasimi del testo: ogni stanza — a partire dal teatrino del collegio che però non viene più usato come teatro, introducendo per lo spettatore un primo dato spiazzante — soggiace a una rifondazione a volte radicale tra l’uno e l’altro passaggio dell’attrice e dei 24 ascoltatori che la seguono, e non sempre vi sono subito ammessi, costretti come sono a spiarla da fuori, in un tormentoso e graduale itinerario di voyeurs.» «Analogo è il criterio seguito per la Torre, dove il pubblico viene inserito in posizione di uguale disagio nel “luogo degli attori”, ma ammassato vicino alle pareti, quasi con vergogna, senza concedergli l’appropriazione dello spazio che provvisoriamente occupa né di fare massa “contro” chi recita, “dentro” alla gran sala bianca sontuosa di stucchi, riprodotta secondo i canoni della verità ma palesemente finta, quale può esserlo la copia dell’interno di una reggia viennese rimontata pedissequamente in quel contesto industriale. Viene ribadito anche il concetto della mutevolezza ambientale, già constatato nelle Baccanti, per quanto la trasformazione abbia per oggetto lo stesso ambito, che riapparirà ogni volta reinventato a ogni ingresso nei sette quadri successivi. Ma lo spettatore inevitabilmente disorientato vedrà ogni volta ripresentarsi degli elementi fissi come chiave d’interpretazione, anche con evidenti citazioni delle Baccanti, e alludo al fuoco delle torce, al tornare dell’emblematico altare in mattoni, al sole artificiale che promana dalle finestre, all’uso degli specchi che per tutta la fase conclusiva coprono interamente il suolo della stanza. È innegabile l’effetto destabilizzante provocato dalla radicalità delle soluzioni spaziali» (F. Quadri, Prato. Un laboratorio per ritrovare l’identità, Il Manifesto, a.Vili, ri’ 149,.24 giugno 1978. 10 — F. Angelini, Luca Ronconi: la macchina e l'esperimento, Scena, a.Ili, iF 3/4, 1978.

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2.3.2. “II libro delle danze” «L’Odin Teatret(1), che in Danimarca è ufficialmente riconosciuto come “Laboratorio di ricerche pedagogiche”, si è affermato non solamente con i suoi spettacoli, ma anche per la sua visione del gruppo teatrale che agisce nella realtà circostante tramite una vasta gamma di attività culturali, a volte anche molto distanti da quelle teatrali (inchieste sociologiche, ricerche sulla dinamica di gruppo, produzione di film didattici...). Fra il maggio 1974 e il settembre 1975, l'Odin Teatret ha trascorso complessivamente circa dieci mesi in Italia: un primo periodo nel Salento (maggio-ottobre 1974), con sede nel piccolo centro di Carpignano; un secondo, nella primavera del ’75, con presenze a Vilminore, in provincia di Bergamo, e a San Sperate, in Sardegna; e infine, dal luglio al settembre ’75, con un nuovo soggiorno di un mese a Carpignano e con un mese e mezzo in Sardegna, con sede a Ollolai, in Barbagia. A questo periodo segue, nel mese di settembre, una presenza in alcuni paesi del Veneto. (...) La presenza dell’Odin nelle “realtà senza teatro” del Salento e della Barbagia non si è esplicata attraverso uno spettacolo finito, che va soltanto mostrato, ma tramite il “baratto”. (...) Non si trattava di portare il teatro lì dove il teatro non c’è (e dove forse non è neppure necessario): le 83 presenze dell’Odin in 15 paesi della Puglia e in 13 della Sardegna sono state “barattate” con le forme della cultura propria alla storia e all’esperienza dei paesi visitati, alla ricerca di un confronto, di una reciproca definizione delle proprie scelte, e del valore in un periodo passato»<2). La merce che l’Odin scambiava con la cultura altrui era la propria sapienza di gruppo, il proprio “specifico”; per fabbricarlo, aveva usato l’esercizio sistematico, un allenamento (“training”) duramente applicato al corpo dell’attore. Venuto a contatto con la civiltà indiana, Eugenio Barba aveva analizzato una forma di teatro rimale, il “kathakali”. Spettacolo basato su «mimica, gesti e movimenti che hanno dell’acrobazia e della danza»(3), il “kathakali” impone un durissimo allenamento psico-fisico che inizia dall’infanzia. La scelta, cui l’attore è

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chiamato, diventa quindi di tipo sacerdotale. La continuità dell’esercizio per l’acquisizione perfetta di una tecnica, evidenzia a Barba la funzione-base del" “training”. La religiosità (e perciò la non-commercialità) entro cui si collocano la prestazione attorica e la situazione scenica “kathakali”, rimandano a una presa di coscienza totale dei propri mezzi da parte dell’attore: una recitazione che si “giustifica” da sé, indipendentemente dal suo rapporto con il pubblico, e che, se si esibisce, non si propone come oggetto ma come soggetto. “Laicizzando” il tecnicismo “Kathakali”, se ne ricava l’idea di una recitazione non come repertorio di “effetti” più o meno efficaci, ma come proposta di un patrimonio culturale (cioè una sorta di “traduzione” razionalisticocritica della “offerta di sé” religiosa), che deriva da una conoscenza totale del proprio codice espressivo e dei segni che ne devono esplicitare il messaggio. Con una terminologia di questo tipo ci si collega a Grotowski, fondamentale “maestro”'4’ di Barba negli anni ’62/’64. Formatosi l’Odin (con aspiranti attori “rifiutati” dal teatro istituzionale), alla “compagnia” si sostituisce immediatamente la “comunità’ ’ laica, il gruppo umano che sa di potersi inserire socialmente proprio perché incomincia con una “chiusura” — non settaria ma “di coscienza” — strettamente dedicata allo studio della propria materia. Rifiutare l’imitazione naturalistica tradizionalmente alla base della recitazione occidentale, trovare “gli ostacoli che bloccano la comunicazione”, cercare gesti simbolici immediatamente comprensibili: in una analitica assimilazione dei canoni orientali voluta- mente parziale. Il training non è un “imparare a recitare”, ma un’autodisciplina praticata attraverso azioni fisiche; la tecnica acquisita è uno strumento a disposizione della creatività e delle intenzioni dell’attore (e non l’esecuzione di una tradizione immodificabile, come nel “kathakali”). Il teatro orientale e il Laboratorio di Grotowski diventano così non un sistema dottrinale da adottare, ma la negazione dei sistemi occidentali.

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«Il “training” oscilla da una problematica tecnica, di addestramento e di acquisizione di capacità, a una problematica esistenziale, legata anch’essa alla creatività ed espressività attraverso il corpo. Ma la prima realtà (comune) del “training” è la ricerca di come liberare il corpo dai condizionamenti, come decolonizzarlo per recuperare una specifica creatività: non l’espansione disorganica o approssimativa, velleitaria in rapporto alle motivazioni e quindi alle finalità espressive, bensì le tensioni e la condensazione dell’energia. (...) L’allenamento era composto agli inizi da una serie di esercizi ripresi dalla pantomima, dal balletto, dalla ginnastica, dallo sport, dalla ritmica, dalla plastica, dallo yoga, in base a conoscenze più o meno dirette. (...) L’esercizio è la disciplina (la forma fìssa) e l’allenamento consiste nello scontro tra questa disciplina che è stereotipa e il suo superamento. “La motivazione di questo superamento è individuale, differente per ogni attore. E questa giustificazione, questa motivazione personale che decide nel senso dell’allenamento”. (...) È a questo stadio che intervengono le ‘ ‘fonti creatrici personali nel lavoro con lo spettacolo”, cioè le improvvisazioni che “dopo un lungo periodo di distillazione vengono fuse insieme a quelle dei compagni e danno vita a quello che gli altri chiamano lo spettacolo”. (...) La tappa successiva del “training” dell’Odin Teatret è fissata dal Libro delle danze, il “training’ ’ congelato e strutturato a spettacolo. La differenza con il “training” del periodo ’70/’72 (...) è un totale cambiamento di atteggiamento nel lavoro. (...) Tale cambiamento si rendeva necessario per ovviare al pericolo di eseguire gli esercizi come fossero un talismano per “imparare”, e di trasformare così il lavoro in un qualche cosa di muscolare, di riduttiva- mente ginnastico, di cadere insomma in una mistica dell’esercizio. (...) Naturalmente il lavoro continua come autodisciplina, ma tutto quello che l’attore fa lo fa come momento di teatro. Ci si esercita e si trovano soluzioni di spettacolo per un uso immediato, ma in situazioni anormali, per quelle che l’Odin ha chiamato “regioni senza teatro”. Il “training” non è più il momento del lavoro per l’attore, per se stesso: è il

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lavoro per coniare la moneta da scambiare nelle regioni del teatro» (5) . In queste “regioni” l’Odin porta una sapienza sconosciuta non per dimostrarne una (ovvia) “teatralità” esterna al laboratorio, ma per offrirla come risposta onestamente soggettiva e quindi per stimolare risposte esplicitamente diverse. Il tramite per un incontro con una cultura altrui è — come già detto — il proprio “specifico” t6 '; decidendo per una permanenza nel meridione italiano, l’Odin cerca di superare il fatto di essere un gruppo “estraneo” con l’esplicita affermazione del suo essere “straniero’1. «Se il problema è quello di trovare il senso del teatro, l’unico punto di partenza può essere costituito da una “volontà di fare teatro” priva di ogni altra connotazione. È il paradosso della “spedizione antropologica” (in questa immagine Barba individua l’itinerario del teatro). Ma è anche l’unico livello a cui il problema può essere correttamente impostato. Basta porsi un gradino oltre per ingabbiarsi nelle aporie di un teatro che vive inautenticamente della denuncia del teatro inautentico, o che fugge, non si sa se indietro o in avanti, verso il teatro delle terre di utopia. Volontà di fare teatro, dunque, come unico punto di partenza rigoroso: fare un teatro ancora inesistente, e quindi essenzialmente “fare”. L’impostazione di esercizi privi di un’immediata finalità, e che possono essere eseguiti, sopportati, solo se riempiti di volta in volta di senso da parte degli attori, non sono l’immagine di una visione francescana del grotowskiano “teatro povero”, (...) ma costituiscono il logico approdo di un’ipotesi iniziale (...). Da un riscontro del nonsenso del teatro ufficiale, borghese, al reperimento di un senso, che è in fondo lo stesso diritto all’esistenza del teatro. Dal senso alla formulazione di un linguaggio che non può non essere costituito dai segni elementari, primari, della comunicazione teatrale. Affidata integralmente al veicolo dell’attore, essa tenta di tradurre in linguaggio fisico quel “primo sistema” di segnali che, secondo Pavlov e la sua scuola, cui costantemente Barba si riferisce, costituisce l’espressione inarticolata ma genuina della realtà profonda del-

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l’uomo. Ed è evidente che un linguaggio del genere non può porsi come base per enunciazioni intellettuali o per la mera esibizione di calligrafismi formali che ridurrebbero la comunicazione teatrale al puro fatto visivo; tende piuttosto a trasferire, o al limite a indurre negli spettatori, quello stesso processo di rivelazione a se stesso e di se stesso agli altri, sul quale si fondano il lavoro e l'espressione dell’attore»(7). Il "training” come continuo esercizio fisico-acrobatico per comunicare visualizzando; come affermazione dell’autonomia del lavoro teatrale dallo spettacolo (il che è una specificazione "tecnica” di una più generale affermazione del teatro come "vissuto”, portata avanti dai gruppi del nuovo teatro soprattutto negli anni Sessanta); come presa di coscienza che, prima della verifica del pubblico, occorre una verifica interna, pratica, individuale e interpersonale: esattamente il contrario di quanto avviene nella produzione "industriale” dello spettacolo. Non ne consegue necessariamente la negazione dello spettacolo; ne consegue un’azione attorica eminentemente "fisica” (ma non per questo meno intellettuale), un rapporto con il testo (e con Fautore) come materiale disposto a farsi "significare” e non semplicemente "dire”; uno spazio scenico ribaltato in cui si realizza il massimo rispetto per lo spettatore proprio perché gli si chiede di non "subire’ ’ ma di4 ‘acquisire” una fruizione diversa. Ne conseguono "spettacoli” come Ornitofilene (1965) e Kaspariana (1967), che l’Odin portò in Italia nel ’67. A ciascuna rappresentazione potevano assistere poche decine di spettatori; era un’informazione a proposito di una ricerca di gruppo (il teatro può tentare di essere "scienza” senza con ciònegare la propria natura— giova ripeterlo). Queste aperture al pubblico non diventano che stadi successivi della ricerca, ma questa ricerca tende a una ulteriore verifica. «A volte domandano: qual è la tua utilità, Futilità del tuo teatro? Rispondere significherebbe accettare la ragione per cui

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solo chi produce ha diritto di esistere, e chi non produce non ha più funzione, va isolato, eliminato perché socialmente defunto, alla lettera: morto. Chi fa questa domanda— “Qual è la vostra utilità” — deve stare attento a se stesso, al suo atteggiamento che Io porta a negare il valore degli alberi che non danno frutti. L’albero che non dà frutto — proverbialmente inutile — diventa essenziale nelle città senza ossigeno. La produzione non produce soltanto merci, ma anche relazioni tra gli uomini. Questo vale anche per il teatro: non produce soltanto spettacoli, prodotti culturali. Chi giudica dal punto di vista estetico, è alla “merce” teatrale che guarda. Per comprendere il valore sociale del teatro non bisogna guardare soltanto alle merci, agli spettacoli prodotti, ma anche alle relazioni che gli uomini stabiliscono producendo degli spettacoli»'*'. Il Libro delle danze è una spettacolazione non programmata del “training”, una sintesi (difficilmente ripetibile) fra professionismo e spontaneità. Il “training” diventa una forma di improvvisazione teatrale (l’improvvisazione teatrale deriva sempre da una tecnica ampiamente sperimentata). «Di volta in volta gli attori vengono avanti (flauto e tamburi), si staccano dal fondo unitario della musica che i compagni suonano a turno»'9'. «Né Barba né gli attori dell’Odin consideravano le danze un vero e proprio “spettacolo”: erano frammenti di “training” fissati in una sequenza appena teatralizzata, in cui il lavoro degli attori e quello del regista apparivano nei loro momento più “professionale”. Le danze individuavano il “sapere” del gruppo, usato come moneta» da scambiare con altre “improvvisazioni” (canti, balli, etc.), autentiche — perché anch’esse discendenti da una tecnica — e perciò liberatorie. Sarebbe assurdo identificare il Libro delle danze con l’Odin Teatret e con il significato della sua attività. Non si intende nemmeno analizzare la capacità animativa che l’animazione fin qui descritta comporta (o non comporta). Questo “spettacolo” costringe ad avere dei dubbi sul termine “spettacolo”, costringe lo spettatore a non

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barare perché gli pone di fronte un attore che non bara. I “segni” che l'attore-atleta trasmette al pubblico sono autentici, possiedono una capacità straniarne che non si riscontra nell’esibizione dell’acrobata o del danzatore. Lo scopo non è un (populistico) “invito alla danza” (che non tarderebbe a regredire a livelli di “ca’ del liscio”), ma un invito a meditare sulla propria “inettitudine” alla danza, il ribaltamento del rapporto teatrale tradizionale è effettivo: l’attore si colloca in una situazione di autenticità; lo spettatore si scopre così in una situazione di inautenticità.

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2.3.2. Note 1—

L’Odin Teatret si forma a Oslo, nell’ottobre ‘64: fondatore e principale animatore ne è un italiano, Eugenio Barba. Per una documentazione sulPOdin sì rimanda a: F. Taviani (a cura di), Il libro dell’Odin. Il teatro-laboratorio di Eugenio Barba, Milano, Feltrinelli, 1975. Il libro esordisce con una nota bibliografica aggiornata fino al 1975 e con un’intervista a Barba e a Torgeir Wethal datata ottobre ’69 (Wethal è fra i maggiori attori dell’Odin, l’unico — insieme a Else Marie Laukvik — che faccia parte del gruppo fin dalla fondazione). Seguono materiali sugli spettacoli: Ornitofilene (’65), Kaspariana (’67), Perai (’69) e Min Pars Plus (’72). Inoltre, il libro di Taviani fornisce una cronologia dell’attività dell’Odin dalla fondazione al ’75, una documentazione sul rapporto con la città di Holstebro e alcuni interventi di e sugli attori del gruppo. T. D’Urso e F. Taviani, Lo straniero che danza. Album dell’Odin Teatret — 1972/1977, Torino, Studio Forma, 1977. il libro è costituito da una ricca documentazione fotografica, commentata da alcuni materiali critici. Le fotografie riguardano Mins Pars Hus, la permanenza dell’Odin in Italia (’74/’75) e in altri paesi, Il libro delle danze e Come! and thè day will be ours. F. Marotti (a cura di), Il teatro fra antropologia e avanguardia: cfr. 5.2.: I. In un contesto antologico — che fornisce materiali sulla teatralità orientale, su Peter Brook, sul Living Theatre, su Grotowski e sulla “neo-avanguardia” italiana— il libro dedica un grosso spazio all’Odin, in particolare al “training”, a Ferai e aU’esperienza italiana del gruppo. Per quanto riguarda l’esperienza dell’Odin in Italia (in particolare: Puglia, settembre ’73), cfr. il n° speciale dei Quaderni del CUT/ Bari, n° 13, marzo 1974, a cura di F. Perrelli. Inoltre è interessante il dibattito sull’Odin animato dalla rivista Scena: cfr.: E. Barba, Il terzo teatro, Scena, a.I, n° 6, nov/dic. 1976, con note di Siro Ferrone (questo documento, che Barba presentò ai colloqui intemazionali di Belgrado nel settembre ’76, è pubblicato anche in: E. Barba, Tre interventi sul teatro che muta, Quarta Parete, rf 3/4, Torino, Stampatori Ed., 1977); S. Ferrone, Il teatro del signore, ib.; F. Taviani, Terzo teatro: vietato ai minori, Scena, a. II, n° 1, febbario 1977; S. Ferone II teatro invisibile ib.; A. Attìsani, Maschere di oggi (ma di quale oggi?), ib. ; quest’ultimo articolo tratta ampiamente de II libro delle danze. Cfr. anche: E Barba, Teatro-Cultura, Scena, a. IV, ri’ 2, giugno 1979-68/71.

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Dalla relazione dell’équipe di ricerca che ha seguito il lavoro dell'Odio in Italia negli anni Ì974-’75; cfr. F. Marotti (a cura di), 11 teatro fra antropologia e avanguardia, cit. 3 — AAVV, Kathakali, Roma, Tair Teatro Arcoiris, 1977— Il saggio di Barba sul Kathakali qui contenuto (pg. 10/48) era stato pubblicato dalla rivista Teatro, nei numeri aut/inv. 1967-’68, 1/1969, 2/1969. 4 — Fondatore a animatore del Teatro-Laboratorio di Wroclaw (Polonia), personaggio complesso ai limiti del l’enigmatico, Jerzy Oro- towski costituisce un fenomeno tra i più importanti del teatro degli anni Sessanta. Impossibile sintetizzare i risultati e il significato della sua ricerca; elencare una breve bibliografia in italiano (che inizierebbe con il volume, edito da Bulzoni, che raccoglie i saggi dello stesso Grotowski e assume come titolo la formula “grotowskìana” per eccellenza: Teatro Povero) significherebbe limitarsi al primo Grotowski, non si sa quanto e come collegato alla sua attività odierna (cfr. U. Volli, Nasce al suono di un flauto la nuova utopia di Grotowski, La Repubblica, 1 /VII/1979). Sul “mistero” del Grotowski attuale, si è tenuto (gennaio ’79), a Milano, un convegno organizzato dal CRT. Da un commento al dibattito e allo spettacolo presentato (Apocalypsis cum fìguris, proposto per fa prima volta al pubblico nel 1969 e da allora replicato/“museifìcato” come ultimo spettacolo del Laboratorio) si possono forse ricavare utili indicazioni: «Come è noto quello di Grotowski è un teatro che ha spezzato alle sue fondamenta il teatro all’italiana, il rapporto tradizionale opera-spettatore, e la dimensione e funzione dello spazio scenico: dunque, seduti per terra in cerchio su un grande tavolato di legno, abbiamo assistito ancora alle straordinarie prestazioni di attori capaci di rivivere la recita in un vero e proprio stato di “grazia”, offrendo la propria carne, le vibrazioni della voce, gli impulsi dei nervi e degli sguardi a contenuti di una religiosità violenta, a figure, appunto, che riguardano l’Uomo, il Cristo, Lazzaro, Maria Maddalena, Giuda, e così via. (...) “Teatro povero” (teoria di una riduzione progressiva verso l’essenziale: di un rifiuto della mondanità insita in ogni “bazar” scenografico, in ogni concessione decorativa, in ogni sussidio spettacolarizzante; ma teoria anche di una produttività legata alle risorse più intime e originarie dell’ “uomo”); teatro che si manifesta come risultato “ultimo” di un lavoro lungo e ricolmo di sacrificio e dedizione; che illustra l’attività di laboratorio del regista e degli attori intorno a “nuclei formali via via accresciuti per successive conquiste”. (...) Grotowski punta sulla cancellazione del teatro come forza

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espressiva e istituzionale; il laboratorio si rivela così essere stato, prima, l’officina di una nuova professionalità dell’attore e della regia, ma ben presto il luogo di massacro dello specifico teatrale, la dissoluzione a vantaggio dell’ "uomo”. Come dire: prima un gruppo (regista e attori) per il teatro; poi il teatro per un gruppo; infine “soltanto” il gruppo (magari “contro” il teatro). (...) Grotowski illustra in modo esemplare la centralità del corpo dell’attore nella storia della istituzione teatrale dalla fase ottocentesca in cui germina una teoria della regia, alla sua piena espressione primonovecentesca, alla sua dissoluzione in una teoria dell’attore che segna il punto di frattura e di disgregazione del teatro stesso, aggredito dai processi di socializzazione dell’industria culturale contemporanea, immerso e ricomposto nell’occulto dei meccanismi dell’informazione. (...) E un progetto che nega lo spettatore come è andato formandosi nella storia dello spettacolo (che è allo stesso tempo la storia dell’alienazione) e che nega la professionalità dell’attore percome l’attore è andato costruendo le proprie tecniche all’interno delle tecnologie industriali». (A. Abruzzese, Il corpo attore e spettatore, Rinascita, a. 36°, n° 6, 9/11/1979). 5 — F. Marotti (a cura di), Il teatro fra antropologia e avanguardia, cit. 6 — «L’esperienza (delì’Odin a Carpignano Salentino, Puglia) è stata condotta da un gruppo teatrale scandinavo, il che mette di fatto in discussione la problematica vecchia e nuova dell’integrazione e della partecipazione. Con molta lucidità, l’Odin non ha cercato di mascherare, di “superare” il suo essere “straniero”, “diverso”. Non solo a livello umano, ma anche a livello culturale, perché ha fondato la propria credibilità — come gruppo — sul proprio specifico lavoro di teatro. E con ciò si riferisce non tanto agli spettacoli, quanto, invece, al lavoro di ogni giorno durante la sua permanenza. E la problematica dello “straniero” è una costante dell’ormai lunga e consolidata maniera di essere presente dell’Odin, che si incontra con gli altri “attraverso” il proprio specìfico, e sa muoversi con elasticità e fantasia all’interno del proprio specifico in modo da rispondere alle diverse esigenze dei diversi tipi di incontro. Una poetica che si traduce in una dimensione etica. Siamo al punto diametralmente opposto allo sciogliersi (ambiguo) del teatro nell’attivismo politico (o genericamente “sociale”), o in astratto Dibattito Culturale; ma opposto anche all’alienarsi del teatro nel Consumo della Cultura» (F. CrucianiLaboratorio?, Biblioteca Teatrale, n° 10/11, 1974. Questo articolo è pubblicato anche in: T. D’Urso-F. Taviani, Lo straniero che danza, cit.).

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7 — F. Marotti (a cura di), Odin Teatret di Eugenio Barba, Terzoprogramma, Torino, ERI, n° 2/3, 1973, oppure in F. Marotti (a cura di), Il teatro fra antropologia e avanguardia, cit. 8 — E. Barba, Teatro-Cultura, cit. Cfr. anche: E. Barba, Letterfrom southern Italy, in T. D’Urso-F. Taviani, Lo straniero che danza, cit. 9 — F. Taviani, Lo spreco dei teatro, Biblioteca Teatrale, rf 10/11, 1974. 10 — F. Taviani (a cura di), Il libro deU’Odin, cit.

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3. QUESTIONI

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Si propongono alcuni “interrogativi”, ognuno dei quali implicherebbe una trattazione specializzata e numerosi rimandi interdisciplinari; ma qui si vuole soltanto problematizzare alcuni temi riguardanti la tradizionale fruizione del teatro.

3.1. “Spazio” teatrale? Orlando Furioso, rappresentato nella piazza del Duomo a Milano, era un avvenimento del tutto “eccezionale”? Una sorta di irrepetibile Carnevale intellettualistico? Il Libro delle danze era una ricreazione per un turismo di massa nella provincia sottosviluppata? Vage d’or del Théâtre du Soleil è stato rappresentato nell’arena di un circo esclusivamente per consentire una maggiore affluenza di pubblico? Visitare il teatro greco di Siracusa e l’Olimpico di Sabbioneta, significa semplicemente soddisfare una curiosità archeologica, ben sapendo che i “veri” teatri sono fatti come il San Carlo, la Pergola di Firenze, il Carignano? In che misura l’Eliseo o il teatrino di via Rovello sono diversi da un teatro a palchi? La “moda” delle “cantine” scoppiò soltanto per reggere un “teatro della miseria”, cioè privo di mezzi adeguati e soprattutto di spazi “adatti”? Si possono rifiutare gli spettacoli-laboratorio (accursarli di sfacciato elitarismo) solo perché non ammettono che poche decine di spettatori e li cacciano in posizioni “inusitate”? In altri termini: l’opinione più diffusa identifica lo spazio teatrale autentico con un ben riconoscibile “edificio” appositamente costruito? Probabilmente sì; e vale la pena di contestarla. I (difficili) rapporti fra teatro e architettura sembrano dimostrare, fra molteplici esigenze e tentativi di riforma, una cristallizzazione della tipologia teatrale moderna. Questa tipologia si basa su un modello ideologico comunemente definito “teatro all’italiana”, che si è venuto delineando, con parziali modifiche, dagli studi sulla prospettiva ai barocco al melodramma al “salotto borghese’ ’, fino a entrare in una sorta di sopravvivenza comatosa nel Novecento,

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ospitando una drammaturgia (dai Sei personaggi alla Classe morta) da cui viene continuamente contraddetto o addirittura “ucciso”. Quali sono le caratteristiche di questo spazio? La cultura umanistica sconfisse la coralità e la partecipazione del teatro classico e medievale, attraverso una ideologia del “chiuso” che sostituisce lo spazio naturale con lo spazio prospettico, la scena “universale” con Fambientazione urbana. La prospettiva introduceva l’illusionismo (e non per nulla fissava un’angolatura privilegiata, dalla quale “si veniva ingannati meglio”: il palco del principe); il palcoscenico diventava un “quadro” incorniciato dall’arco scenico, sede di una magia figurativa della quale saranno padroni assoluti gli architetti-scenografi del ’600 e del ’700. Ma, sebbene ancora connotato da questo edonismo visivo, il teatro seicentesco segna anche l’ingresso della speculazione finanziaria. Di spettacolo si incominciano a interessare gli imprenditori. A Venezia e a Genova — città mercantili — si inaugurano i primi teatri aperti a un pubblico anche popolare ma “pagante”’. Il melodramma diventa il prodotto migliore con cui rispondere commercialmente alla domanda di questo pubblico. La cavea cinquecentesca (cioè la gradinata di derivazione grecoromana) viene sostituita dagli ordini di palchi, che sviluppano la sala in senso verticale. «La capienza della sala è un obiettivo primario per tale spettacolo come merce. II “teatro all’italiana” risponde cosi a tre scopi complementari: a) rende leggibile la stratificazione sociale: i palchetti vengono arredati a cura degli affittuari, che gareggiano in fasto e ricchezza di materiali; essi quindi sono veri e propri “indicatori di status”; b) crea occasione di profitto supplementare, tramite il subaffitto dei palchetti stessi; lo stare in palco, anche se la visibilità dello spettacolo è peggiore, è ormai considerato privilegio sociale, il vero spettacolo è quello del pubblico che si osserva e si commenta; c) rappresenta, ideologicamente, l’aspirazione ideologica dell’età barocca: l’unità nella molteplicità. (...) Rispetto a tutto ciò, lo spettacolo vero e proprio è solo uno degli elementi

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della rappresentazione »( . Questa situazione viene denunciata e attaccata dalla critica illuministica; nella seconda metà del Settecento, il teatro italiano viene infatti scosso da un generale movimento riformatore: sul piano drammaturgico e scenico (Goldoni), sul piano architettonico e sociale (Milizia), sul piano politico (Salii). “Diletto” deve congiungersi a “Istruzione”; ma la concezione di un teatro come insegnamento civile, come istituzione pubblica, non neutralizza le leggi imprenditoriali consolidatesi in età barocca, né incrina la logica che era stata fondata dal luogo fisico seicentesco. «La “scena all’italiana” con le sue tecniche, il suo illusionismo prospettico, le sue macchine (e le sue tipologie di sala) si afferma ovunque e diventa la “causa formalis” (in senso aristotelico) di ogni possibile creazione scenica e drammaturgica, il luogo cui si rapporta ogni possibile creazione o fruizione teatrale»(’’. Alla “distrazione” della presenza aristocratica, la rivoluzione borghese vuole sostituire una platea “attenta” (che non tarderà a diventare la platea voyeuristicamente “passiva” contro cui insorgerà il ’900). Il palcoscenico come fabbrica di illusionismo (che probabilmente è la caratteristica tecnica e culturale fondamentale del “teatro all'italiana”) sopravvive a se stesso passando dal razionalismo della “macchina” scenografica all’ emozionalismo delle “atmosfere” romantiche. Per arrivare a questo risultato, la sala, e il suo rapporto con il palcoscenico, subiscono ovviamente delle modificazioni. La riforma wagneriana teorizzerà e in parte realizzerà l’ipnosi del singolo spettatore da parte della “magia” scenica; strumenti realizzativi ne sono l’oscuramento della sala (e il perfezionamento dei mezzi illuminotecnici, prima a gas e poi elettrici), la creazione del “golfo mistico” per l’orchestra, l’uso del sipario (che nasconde i cambiamenti di scena e quindi ne annulla le capacità straniami), il recupero della gradinata-“galleria” a favore della visibilità (e del livellamento) del pubblico. Verso la fine dell’Ottocento dunque, la formula (4) ‘all’italiana” ha trovato una nuova conferma nel melodramma romantico e nella drammaturgia borghese; e con

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questa presunzione di totale adattabilità sostiene l’urto frontale delle concezioni rivoluzionarie, che emergono a partire dal teatro tardo-naturalista. Attraverso la pittoricità del gusto prospettico, il macchinismo illusionistico, l’ipnotismo dell’empatia romantica e della “tranche de vie’’ naturalistica, il palcoscenico ‘‘all’italiana’' diventa una sorta di lanterna magica, una cubatura autonoma a cui viene funzionalizzata, ma da cui rimane separata, un’altra cubatura, quella dove si trova il pubblico. Il ’'luogo” che ne deriva è a struttura rigorosamente assiale; spezzare la linea di demarcazione fra le due cubature costituisce il primo problema, che una nuova organizzazione dello spazio teatrale deve risolvere. Non per nulla l’abolizione del sipario, cosi frequente nello spettacolo contemporaneo (si vedano, per tutti, gli scritti teorici di Brecht), la si può leggere come tentativo di “trasformare” dall’interno il luogo teatrale tradizionale; lo stesso dicasi dell’introduzione, da parte delle avanguardie storiche, di moduli provenienti dal circo, dal varietà, dal café-chantant. La storia del teatro ”all'italiana” riguarda i rapporti fra architettura, società (urbana) e drammaturgia; i problemi della messinscena venivano relegati in palcoscenico, costituivano una mera fase operativa (l'Olimpico di Vicenza, episodio fra i più importanti nella fondazione dell'architettura teatrale moderna, ignorava le esigenze tecnieo-realizzative dello spettacolo cinquecentesco). «La technique est un moyen important pour aider le théâtre nouveau à remplir son rôle. Mais cette technique, servante de l’art, doit s'intégrer organiquement et sans contrainte dans un ensemble, au même titre que l'architecture théâtrale. (...) La technique partecipe à la conception de l’ensemble. Seule la collaboration de l’artiste, de l’architecte e du technicien est à même d'accomplir la grande tâche» l3). Ma questa collaborazione, all’invenzione di quale spazio può condurre se non a uno spazio ogni volta “reinventatale”? La regia aveva individuato e sperimentato, da altra angolatura, lo stesso principio: per ogni idea-

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spettacolo esiste lo spazio più adatto, e questo— nella drammaturgia contemporanea— non è quasi mai il teatro “all'italiana”. La ricerca del teatro contemporaneo sullo spazio si può quindi riassumere in due tendenze: ideazione di nuove architetture; evasione dall'edificio tradizionale e ricerca incondizionata, talvolta volutamente casuale, di nuovi ambienti. Come dire: spazio “da inventare” e spazio “da trovare”, spazio “da sfruttare” e spazio "da servire”. Le due tendenze si, intersecano e si risolvono nell'utopia del “teatro trasformabile”: dal "palcoscenico mobile” di Craig al “teatro-atelier” di Svoboda, dal “dispositivo scenico” di cui parla Bablet ai progetti dell'architetto Sacripanti. La scelta di spazi “diversi” in cui collocare lo spettacolo teatrale risponde così a molteplici istanze: individuazione di una nuova drammaturgia, il cui “contenitore” ne sia componente paritaria; coinvolgimento reale dello spettatore14'; attivazione di luoghi socialmente significativi; ritorno a una teatralità “necessaria”, etc. Un’alternanza di finalità tecnico- espressive e di valenze politiche, compresa fra due estremi: da una parte, il luogo teatrale interamente ricostruito e unificante attori con spettatori, e, dall’altra, la scena universale, cioè nuda, dove l'attore è egli stesso, fisicamente, senza altre mediazioni, lo “spazio teatrale”. A questo spazio lo spettatore si deve consapevolmente adeguare, mettendo in crisi la propria sicurezza di “saper fare lo spettatore”: una sicurezza che il teatro “all'italiana” gli garantisce da tempo. Una recente campagna-abbonamenti di uno Stabile italiano si basava sullo slogan: <11 tuo posto fisso». Assumere un'angolatura inconsueta in uno spazio sconosciuto può essere più divertente che assicurarsi una poltrona in settima fila. 3.1. Note 1

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— M. Tafuri, 11 luogo teatrale dall’Umanesimo a oggi, in: Touring Club Italiano, Teatri e scenografie, Introd. di L. Squarzina, Saggio di M. Tafuri, Milano, 1976. — F. Cruciani, Lo spazio teatrale, Casabella, a.XLI, n° 431, die.

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1977. — Hans Gussmann, Théâtre réaliste et construction théâtrale, in D. Bablet-J. Jacquot (a cura di), Le lieu théâtral dans la société moderne, Paris, CNRS, 1978. (i edizione: 1963). Molti degli interventi pubblicati in questo volume si trovano in '‘Dalla scenografia allo spazio scenico' ', n° speciale di Sipario, a.XXIV, rf 284, die. 1969. — Non dimentichiamoci che gli“spettacoli” riservati a poche decine di Spettatori, coinvolgono tutti i partecipanti in una esperienza o in un dichiarato esperimento. Giudicarli secondo parametri tradizionali significa ignorare che — in questi eventi teatrali — ci si deve sentire corresponsabilizzati nella rifondazione di quegli stessi parametri,


3.2.

“Testo” teatrale?

Dopo la prima stesura e la prima rappresentazione, l’originale rapporto testo/pubblico può essere ripetuto? Certamente no. Per un traduttore, la lettura di una frase può non essere traducibile, il contenuto lo è sempre; ma rispettare il solo contenuto evidenzia la mediazione: per tutelare la fedeltà, si deve quindi optare per un possibile tradimento. L’ “autore” di un testo teatrale non è forse un nome collettivo che comprende scrittore, eventuale traduttore, coloro che mettono in scena e spettatori? Di conseguenza, il “testo” teatrale non è forse un nome collettivo che comprende gli elementi letterario-verbale, scenografico, gestuale, etc.? Probabilmente sì; ma affrontiamo il discorso meno direttamente. «Lo storico dello spettacolo non può fare la storia sugli spettacoli. I documenti di cui si trova a disporre non sono documenti per così dire neutri, sommando i quali si può costruire (sia pure nelle sue grandi linee) un insieme perduto. Tanto i documenti che appartengono all’ideazione e alla progettazione dello spettacolo, quanto quelli che invece riguardano il modo in cui esso si sviluppò di fronte al pubblico, appartengono a due insiemi che li segnano irrimediabilmente e conducono forse, nei loro esiti estremi, a ricostruire l’“idea di teatro” di un artista, di una scuola, di un’epoca, o un modo d’essere del pubblico, il luogo in cui si situa nella mappa culturale di un periodo, il fatto “x” che è lo spettacolo. (...) E questo è il vero oggetto del nostro studio, ciò in cui lo spettacolo effettivamente consiste, in cui si prolunga al di là del suo svolgersi effimero: in avanti, le sue risonanze (anche soltanto “culturali” in senso stretto) presso il pubblico, in un determinato contesto sociale; e, indietro, la poetica, l’idea o l’utopia di teatro da cui derivò»(1). Oggi lo studioso affronta in questo modo la storia e la cronaca della cultura teatrale, ma è angolatura scientifica di recente

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acquisizione (motivata soprattutto dalla riflessione teorica sul teatro tipica del Novecento, e dall'affermarsi della regia). In realtà, I’ “assenza” del singolo evento spettacolare ha coinciso (e talvolta coincide) con l’assunzione della componente letteraria a unica testimonianza dell'evento stesso, a documento che in sé comprende e riassume (o comunque “sta per”) i documenti mancanti. «Se infatti siamo tutti d’accordo nel ritenere che sia lo spettacolo teatrale l’oggetto in senso proprio degli studi sul teatro, dovremo concordare anche nella constatazione che, purtroppo, questo oggetto non si pone quasi mai come “dato”, come “presente”: nessuna o quasi delle componenti dello spettacolo sopravvive allo spettacolo stesso a eccezione del “testo letterario”, che viene molto spesso per questa sola ragione, ma indebitamente, “promosso” da unica componente “presente” e “persistente” a unica componente “significante”, e fornito così di uno statuto di priorità gerarchica nei confronti delle altre componenti» i2'. Rilevata la sostanziale diversità/contraddittorietà della sede letteraria nei confronti della sede scenica, il nucleo problematico diventa il ruolo del “testo” e la sua stessa definizione in rapporto alla messinscena. Con il Novecento, il problema conosce una brusca quanto giustificata radicalizzazione, che degrada il testo (o meglio, la “parola”) a materiale complementare — o secondario— a disposizione della scena; il testo quindi come spartito verbale che presuppone un’esecutività puramente fonica; il testo «in quanto realtà distinta, che esiste per se stessa, che basta a se stessa, non nel suo spirito (...) ma semplicemente come spostamento d’aria provocato dalla sua enunciazione» . L’avanguardia degli anni Dieci/Venti colloca il “logos" consacrato dalla tradizione fra i primari bersagli della propria irruzione. Craig, Appia, Bragaglia, Tairov, ipotizzano e sperimentano un teatro-arte visiva in cui l’apporto “logico” deve essere travolto, o addirittura escluso dal movimento “fisico”. Il teatro degli anni Sessanta fa propria ed estremizza la primarietà dell’“azione”(4>, poi complicata da un’accezione politica, di

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matrice sessantottesca. In generale, la ricerca teatrale inscrive se stessa in un teatro-scienza, che analizzi e modifichi i propri linguaggi, aprendosi a patrimoni culturali "altri’' (espressività orientale e relative tecniche, discipline scientifiche come l’antropologia e la psicoanalisi, metodologie come 10 strutturalismo, etc.). In altri termini: nell'opposizione letterarietà/teatralità, evidenziata l’alterità della scrittura scenica, si assiste a una netta emancipazione delle componenti non verbali, fino ad approdare a formule (non vuote, evidentemente, ma inevitabilmente limitative) come "teatro-immagine”, "teatrocorpo”, teatro "di guerriglia", teatro del "vissuto”, etc. Da questa angolatura non soltanto si nega il testo come "invariante” (di cui gli spettacoli non sarebbero che "varianti”); ma si rifiuta anche di limitare il testo alla sola categoria della letteratura "drammatica”, disponendo così alla scena qualsiasi "occasione”, letteraria o non. Queste posizioni comportano il superamento o l'esclusione dei testo "scritto- perlescene”, ma non autorizzano affatto la ghettizzazione di un teatro "senza testo”, "che fa a meno dei testi”. A proposito di quest'ultima definizione (coniata, per cosi dire, dalla controparte), giova annotare alcune recenti osservazioni di Ferdinando Taviani: «Storicamente, la novità (o una delle novità) della Commedia delFArte consistette non nell’abbandono del testo, ma nell'uso, e nello sfruttamento del testo drammatico tipico di una tradizione letteraria d'elite, nell'adattarlo alle esigenze di pubblici vasti e di differenti livelli culturali. (...) Vedere la Commedia dell'Arte come "teatro che fa a meno dei testi ' ' è una deformazione che deriva dal vizio di trasformare in idea assoluta di Teatro il sistema teatrale formatosi nell'Europa del Settecento, quando nacque 11 Teatro come categoria culturale autonoma, e quando il "corpo separato” costituito dalle compagnie degli attori venne integrato nella città, con il compito di trasformarsi — almeno in teoria — in vivente museo della letteratura drammatica. (...)». Oggi, «spettacoli come Apocalypsis cum figuris e Come! and thè

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day will be ours, ad esempio, si riferiscono "anche” a una rete fittissima di testi, fatti, interpretazioni storiche di avvenimenti del passato, dentro le quali il gruppo teatrale si muove criticamente, senza rileggerle allo spettatore. (...) È solo all’interno del sistema teatrale formatosi nei Settecento e che si è retto quasi senza alternative per più di due secoli in Europa, che si è stabilita una connessione strettissima, un’implicazione reciproca fra testo letterario drammatico e spettacolo teatrale. Una reciproca implicazione di fatto che ha poi emanato, sul piano delle idee, uno dei più teneri luoghi comuni dell’ideologia teatrale, quello secondo cui i testi letterari drammatici “implicherebbero” per loro essenza la rappresentazione, e troverebbero solo in essa il loro “adempimento”. Il desiderio e l’interesse degli autori si trasforma, così, in una legge dell’espressione!»,5\ Questo *‘desiderio ’’ e questo ‘‘interesse ' 'possono essere chiaramente evidenziati partendo ''dall'interno ' ' del testo tradizionalmente inteso, isolando cioè quell'autentica eminenza grigia che è la “didascalia” 6'. Attraverso la didascalia l’autore impone al proprio lettore un ben preciso “contesto” al dialogo; sussurrandogli delle notizie “in più”, non fomite direttamente dai personaggi e dalle situazioni, egli tende a lasciargli un esiguo, possibilmente nullo, margine di immaginazione. Questo condizionamento, che nei confronti del lettore diventa una sorta di prudenza reciprocamente rassicurante (non per nulla si fa qui riferimento a una drammaturgia prediletta da un ben preciso clima culturale, cioè al dramma borghese), nei confronti del teatrante — cioè di colui che dovrà materializzare il testo sulla scena — diventa una perentoria intromissione nel merito realizzativo. Di qui la “colpa” del teatrante “irrispettoso”, la “trasgressione” (cioè la traduzione scenica non meramente esecutiva) del dettato letterario; di qui lo “scandalo” che coglie lo spettatore benpensante e ne provoca lo sdegno («Il Tale, invece di maltrattare i capolavori, se lo scriva lui un testo, se è capace!»). L’attitudine da parte dell’autore ad agevolare condizionare attraverso annotazioni contestuali la lettura ma soprattutto la

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messinscena del proprio testo, rivela così una contraddizione interna. La didascalia infatti, da una parte vuole accreditare alla sede letteraria il privilegio di contenere una “preteatralità” e di conservarla come unico filo conduttore che attraversa le “effimere” realizzazioni sceniche; dall’altra parte, dichiara ingenuamente l'incompiutezza del testo scritto, dimostra indiscutibilmente che un “testo” teatrale non è (nemmeno a livello di stesura letteraria) costituito da sole battute, ma presuppone “di per se stesso” l'intervento di altri linguaggi; intervento che ovviamente la didascalia considera strumentale e subordinato, ma che invece è “strutturalmente” complementare; linguaggi che la didascalia presuppone, appunto, ma che non può tradurre/sostituire/anticipare con il proprio codice. Da questa lunga esemplificazione esce un testo irreversibilmente definito nella sua autonomia letteraria da una parte, nella sua complementarità scenica dall'altra, e nell’assoluta disomogeneità di queste due caratteristiche. Se di preteatralità della parola scritta si vorrà ancora teorizzare, si tratterà dunque di una preteatralità intenzionale ma non effettiva, “morale”, non “fisica”. Da questo punto di vista, paradossalmente, il testo sta nella sfera del “possibile”, la messinscena nella sfera del “certo”. II teatro non può identificarsi con la drammaturgia; quindi, se la storia del teatro non può — come si accennava in apertura — essere storia degli spettacoli, non può nemmeno coincidere con la storia della letteratura drammatica. In realtà ci troviamo di fronte al solito problema di ridefinire (o definire esattamente) il significato delle parole. Questo problema occupa non poco la teoresi teatrale contemporanea, rischiando talvolta gli astrattismi eruditi, ma indubbiamente costituendo un nodo fondamentale per la fondazione di una “scienza” teatrale. «L’ambiguità terminologica che pesa sulla parola “teatro” (dramma? drammaturgia? spettacolo ?) riflette l’ambiguità della definizione stessa dell’oggetto di cui si parla: tanto è vero che in altre lingue — altri contesti culturali— si distingue tra “drama” e

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“theater” (“theatre”). (,..)La nozione di testo drammatico non solo ha fondato e fonda molta parte della riflessione critica, ma nella specificazione dei suoi rapporti con il cosiddetto testo spettacolare ha dato nuovo impulso agli studi di semiotica teatrale. (...) Un punto emerge abbastanza chiaramente dalla discussione in atto oggi tra gli studiosi di semiotica teatrale: pur restando un problema centrale, il testo drammatico, anche per coloro che esplicitamente ne tanno l’oggetto privilegiato delle loro anal isi, non può più prescindere dalla sua collocazione rispetto al testo spettacolare > ‘ . Destituito di ogni “virtualità" scenica, il testo può conservare (e caratterizzarsi per) una specifica “potenzialità" teatrale; ma anche su questo occorre puntualizzare. Franco Ruffini, soffermandosi sul testo drammatico, propone di sostituire questa definizione con quella di “copione"' (attribuendo ovviamente al termine una scientificità, che è estranea al tradizionale significato meramente operativo). «Un copione può essere qualificato drammatico “se" vi si discrimina (isola) una parte “metatestuale" che diremo “didascalie". 11 complemento al copione (cioè il copione meno le didascalie) costituisce la “parte testuale" o “testo". Una precisazione preliminare. Il testo può essere un insieme vuoto. Ciò che e necessario per la drammaticita del copione e l’isolamento delle didascalie, che possono anche “assorbire" l'intero copione»(S|. La contraddittoria nozione di didascalia, che più sopra si esaminava, ora risolve — separandoli nettamente — 1 due termini della contraddizione. Il “copione" e la sede della “riscrittura drammaturgica"; se le didascalie (che determinano non la “preteatralità" ma la “teatrabilita" di un testo) sono indicazioni per la scena, esse non possono essere che indicazioni per “una" messinscena; se fanno riferimento a una ben precisa tecnica teatrale (quella conosciuta e adottata dall'autore) non possono condizionare nessun'altra t e c n i c a . ( 9 ) La riscrittura drammaturgica perbene alla fase interpretativo- realizzativa: essa può ripetere le indicazioni dell'autore (ma, appunto, “ri-petere", cioè inevitabilmente “ri-scrivere"), o modificarle o addirittura sovvertirle, oppure “inventarle" (perché il testo scelto può essere

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del tutto privo di didascalie.così come sono state definite). Concludendo. «Anche il testo drammatico più completo, descrittivo e ricco di didascalie-progetto nei confronti del suo allestimento scenico, deve sempre essere considerato alla stregua di uno schema, di un'articolata ipotesi teatrale e deve quindi essere analizzato in questa prospettiva anche quando l'indagine si voglia restringere alle sue strutture e ai suoi valori letterari. 11 processo di comunicazione teatrale trasforma il testo drammatico e lo utilizza soltanto come materiale sul versante dei contenuti; (...) quando l'azione scenica si svolge in funzione di una lotta contro le strutture e le forme di un testo scritto (in funzione, ad esempio, di una demistificazione e di una trasformazione dei sistemi di valore e di senso che vi erano immanenti), la nozione dì testo-progetto non dovrebbe limitarsi alla considerazione del materiale letterario da cui hanno preso le mosse le operazioni sceniche, ma dovrebbe comprendere anche il lavoro di decodifica e di “riscrittura" che sta alla base della messa in scena: dovrebbe insomma estendersi alla ricerca “letteraria" dalla quale è partita l'ipotesi teatrale, agli "appunti" di regia e alle loro motivazioni critiche, oltre che al materiale assente nel primitivo testo ed eventualmente assorbito e integrato nel lavoro di trasformazione. 11 teatro (non solo quello di avanguardia) è un luogo di "rappresentazione " autonoma, non quello di una contingente e sfuggevole "lettura" di un testo drammatico: la manifestazione scenica è il frutto dell'organizzazione di più sistemi di significazione che trovano in quell'evento e nella messa in scena di fronte a un gruppo di spettatori il luogo specifico in cui si realizza il fine della loro vicenda comunicativa. La "interpretazione' ' di un testo drammatico, anche la più rispettosa e fedele nei suoi confronti, non consiste solo in una lettura critica e nell'analisi della sua organizzazione significante e del suo intervento semantico (entrambe comunque necessarie), ma in una produzioneprogettazione di una "forma" scenica che in quel testo trova alcune delle sue premesse, alcuni dei suoi principi costitutivi. La specificità dell'evento teatrale non sta nella sua pedissequa

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referenziai ita a uno scritto immanente alla costruzione dello spettacolo, ma nella messa in scena».'"". II repertorio (cioè la componente "‘testuale’ ’) della nostra cultura teatrale è costituito da una “letteratura teatrabile” (in cui si possono trovare il “testo letterario drammatico”, il romanzo, il trattato filosofico, gli atti del “processo Loc- keed”, il fatidico elenco telefonico, etc.). Questo repertorio può presentare una potenzialità scenica assolutamente teorica, che rimane implicita fino a che non divenga oggetto di una volontà drammaturgica. L'intervento drammaturgico si connota tecnicamente, si pone cioè da una rigorosa angolatura realizzativa, scenica: esso comporta la coscienza degli altri linguaggi cui la parola si deve associare se vuole materializzarsi teatralmente. La cultura individuale (che in genere ha prodotto il testo letterario) deve confrontarsi con la cultura collettiva, di gruppo, che ha scelto di concretizzare una “teatrabilità”. È questa scelta che lo spettatore deve fruire criticamente, ammettendo che il testo letterario (eventualmente “riconoscibile" in scena e di cui egli può avere una nozione “sicura”) è diventato un oggetto, un pretesto/metatesto, una “scrittura generalizzata", una “scrittura testuale"; ammettendo cioè che il testo/pagina non è che una componente di un imprevedibile testo/scena.

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3.2. Note — F. Marotti, Prefazione a: A. Appia, Attore musica e scena, Milano, Feltrinelli, 1975. 2 — G. Bettetini - M. De Marinis, Teatro e comunicazione, RiminiFirenze, Guaraldi, 1977. 3 — A. Artaud, Il teatro e Usuo doppio, Torino, Einaudi, 1968. 4 — Or. F. Quadri, La deverbalizzazione del teatro, Lotus International, tr' 17, die. 1977. 5 — F. Taviani, Sul teatro che fa a meno dei testi, Quaderni di Teatro, a. 1, n° 1, agosto 1978. Per quanto riguarda gli spettacoli citati, efr. 3.3.2. 6 — 1 1 termine "didascalia” appartiene da sempre ai teatro e fin dalle origini ha avuto un'accezione operativa; deriva infatti da "didàska- los' ‘ che è il nome che nella Grecia classica si dava al poeta-regista, colui che non soltanto scriveva un'opera ma la scriveva in funzione di un allestimento che egli stesso coordinava. Di conseguenza, le didascalie furono numerose e determinanti in quelle epoche teatrali (ad esempio, il Medio Evo) che privilegiavano il momento scenico- realizzativo; accessorie nelle epoche "egemonizzate'' dalla letteratura teatrale. 7 — Giovanna Romei, Il testo drammatico come “lettura" e come “riscrittura”, Rivista Italiana di Drammaturgia, a.IV. n° 11/12, giugno 1979. 8 —- F. Ruffini, Semiotica del testo. L'esempio teatro, Roma, Bulzo ni, 1978. 9 — «Occorrerebbe rivedere la situazione del teatro moderno e contemporaneo. o. almeno, di tutto quel teatro in cui il sistema comunicativo non si presenta più come sistema linguistico "omogeneo” (filtrato cioè attraverso le sole battute, dialoghi o monologhi che siano) con funzioni moltiplicate (didascaliche, scenografiche, etc.), dando luogo a una netta distinzione fra battuta c didascalia, secondo i caratteri che questa componente del testo teatrale è venuta assumendo, dal dramma realistico-borghese ottocentesco a oggi». (Angela Guidoni, Contatto e tensione fra analisi del testo e dello spettacolo, Rivista Italiana di Drammaturgia, a.IV, n° 11/12, giugno 1979). IO — G. Bettetini - M. De Marinis, Teatro e comunicazione, cit. 1

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3.3. Il ruolo del critico Il dibattito sulla sua "situazione e funzione" costituisce forse una componente essenziale della critica teatrale (e della critica in genere). Per il critico la "necessità" del proprio ruolo coincide sempre con la capacita di metterlo in discussione (da non confondere con la capacità di adattarlo alle direzioni del vento). Questa ricorrente esigenza di "auto-critica" si è fatta negli ultimi decenni particolarmente significativa. All’inizio del Novecento il modello dominante, mutuato dalla stampa francese, era la cronaca teatrale di tipo mondanoletterario. Si mosse in questo ambito il critico che, con la bacchetta magica della propria "opinione", era in grado di riempire o di svuotare le sale. Negli anni Venti, non soltanto le individualità di Gramsci e di Gobetti — che dedicano al teatro un’attenzione tanto inevitabilmente marginale quanto “ ‘appassionata”“' — ma anche un erudito come Tilgher, propongono alla critica teatrale un allargamento di orizzonti, politici e culturali. Tuttavia le avanguardie, che proprio in quegli anni sovvertivano ogni "legge” teatrale, vennero riduttivamente e forzatamente ricondotte dalla critica italiana alla tradizionale «visione della scena come luogo per l'interpretazione di un testo, e le correnti estetiche del teatro europeo valutate e giudicate sul metro delia maggiore o minore rispondenza a questa funzione interpretativa»,2). Si rinnova così un’ottocentesca "certezza" del teatro- parola, che il critico conserverà fino agli anni Cinquanta, e di cui fu assertore più lucido e più interessante Nicola Chiaro- monte. Lo stesso Silvio D’Amico, attento osservatore (e riformatore) della pratica scenica, portando un contributo fondamentale alla correttezza e alla professionalità del lavoro critico (cioè scrivendo la sua monumentale storia del teatro), individuerà una periodizzazione storico-teatrale sulla base delle diverse "letterature drammatiche”. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, quando temi centrali come la regia e il teatro a gestione pubblica esauriscono la spinta entusiastica del dopoguerra, emergono gli interrogativi che gli avvenimenti del '68 faranno definitivamente

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esplodere, rendendo necessaria una radicale "critica della critica". Proprio da uno "scandalizzate^' Chiaromonte trapela l'inadeguatezza del critico di fronte alieccezionalita degli eventi: «il teatro di "divertimento" — detto anche "teatro borghese" — e finito o sta per finire, e il suo posto viene sempre più evidentemente occupato da forme d'espressione spettacolare diretta (...) le quali non sono forse più teatro, anzi segnano un ritorno in una zona che sta al di qua del teatro, ma si sono comunque affermate dappertutto, e con più virulenza là dove il teatro propriamente detto aveva tradizioni meno antiche e vigorose. È il teatro gestuale, quello detto "di rivolta" o di "contestazione”, quando non addirittura di pubblica manifestazione (come è il caso di vari complessi teatrali americani); e infine il teatro detto di "happening", o d'improvvisazione. L'idea che unisce queste varie forme dt teatro (le quali spesso, ripetiamolo, non sono teatro ma forme di "spettacolo", di "manifestazione", o di "provocazione" più o meno scandalosa, in genere basate molto sulla mimica e poco sulla parola) è, lo si e proclamato abbastanza, quella di coinvolgere gli spettatori nello spettacolo, di renderli partecipi dell'azione inscenata o improvvisata dagli attori-manifestanti. Si è visto, a Londra e altrove (proveniente, come al solito, dall'America), il ritorno del fenomeno degli attori girovaghi (in genere comici), i quali danno spettacolo sulle pubbliche piazze e vivono del denaro che raccolgono dopo le esibizioni. (...) Sorge la domanda, molto seria, se queste forme dette teatrali (o "antiteatrali", che è modo anche più sofisticato di caratterizzarle) non significhino la volontà deliberata di uscire dal teatro propriamente detto (che è sempre "azione contemplata” e fondata su un certo equilibrio fra parola, gesto e, eventualmente, anche danza e musica), per tornare, come si è accennato, a manifestazioni preteatrali, le quali possono assomigliare alla buffonata istrionica, al pubblico comizio con accompagnamento di lazzi e acrobazie, alla pantomima, o anche all’orgia collettiva».

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Rimpiangendo, e continuando a privilegiare, un teatro “propriamente detto", Chiaromonte finisce per ammettere, indirettamente, che i) critico non può più detenere una nozione di teatro unitaria; escludendo dall'ambito di questa nozione tutto quanto egli ritiene non possa inerirvi, conclude che funzione fondamentale del critico rimane «sostenere un partito preso chiaro e ragionato quanto a ciò che può e deve essere oggi il teatro»; insomma, compiere delle scelte “ideologiche” e, insieme, degli aggiornamenti metodologici, ma proprio perché si affronta una “molteplicità", forse la più complessa che il teatro abbia presentato. Da “prendere partito" a “sporcarsi le mani" il passo non è poi lunghissimo. Queste formule segnano, alla fine degli anni Sessanta, un vivace dibattito che anima alcuni convegni di studio e con cui la critica fornisce a se stessa nuovi parametri. La crisi più profonda tocca probabilmente il criticogiornalista, quello impegnato a fornire una cronaca, costretto a non eludere le esigenze informative. Un ruolo sempre minacciato dalla routine e dallo spiazzamento rispetto alla mobilità della scena; una critica mediocre preoccupata/appagata da quella che De Monticelli chiamò la “recensione-scheda". La stessa evoluzione del costume ha modificato questa impostazione. La componente strettamente informativa (lo spettacolo dove, quando, fatto da chi, a che prezzo, ere.) oggi viene trattata separatamente e con particolare attenzione, sia dalla stampa quotidiana che da quella specializzata. Il critico non ha certamente più questo compito, ma ne ha assunti di più impegnativi. La “recensione-scheda" presuppone Futilità sociale (e la caratteristica professionale) del “commento", che a sua volta si basa suìl’estraneità, sul “distacco" imparziale del criticante dal criticato: il critico-giudice, non perché si senta “al di sopra" delle parti, ma perché vuole esserne completamente “al di fuori". Contestare questa concezione non significa elevare la faziosità a sistema di valutazione; significa invece negare che il ruolo del critico si compia sempre e soltanto a posteriori. Al commento può

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sostituirsi 1’ “intervento”. Questo principio tende a superare la contraddizione che vede il critico — la cui attività ovviamente “appartiene” al settore teatrale — “separato” da tutto il contesto teatrale, effettivamente partecipe di una cultura soltanto in quanto se ne autoemargina. Una prima fondamentale distinzione diventa quindi fra il critico-uomo di cultura (il quale si occupa di teatro, magari occasionalmente, da una angolatura dichiaratamente “esterna”) e il critico-“tecnico”, “addetto ai lavori”, “compromesso” con la prassi teatrale, impegnato a sostenerla attivamente. Quest'ultima figura — che interessa direttamente — assolve a un duplice servizio, ugualmente responsabilizzato: nei confronti del pubblico e nei confronti dei teatranti. Il ruolo di questo critico comporta il suo inserimento nel “farsi” di un'esperienza (il che non vuol dire presenziare alle prove, ma “provocare” un1 iniziativa oltre che assecondarla, tentare di influenzare una politica editoriale, collaborare a un laboratorio, interessarsi agli aspetti organizzativi, “sindacalizzarsi” su determinati problemi, etc.). Il rapporto critica/ pubblico che ne nasce, è concretamente animativo. Il critico “anticipa” uno spettacolo anziché commentarne la “prima”, lo “promuove” anziché “pubblicizzarlo”; la sua funzione divulgativa non si esaurisce nella recensione, ma si estende all'informazione “tecnica”, alla sistefnatica chiarificazione dello “specifico”: partecipare alle trasformazioni del teatro per modifìcare-aggiomare la cultura teatrale degli spettatori; dove “cultura” significa attitudine mentale (nozioni + sensibilità) sulla cui base il pubblico guarda e valuta 1 ’ oggetto-spettacolo.

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3.3. Note 1

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—Ctr.: P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, Torino. Einaudi, 1974, Introduz. di G. Guazzetti; A. Gramsci, Scritti sul teatro, in Marxismo e letteratura, Roma, Editori Riuniti. 1975, a cura di G. Manacorda; G. Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi. 1972; E. Beilingeri, Dall’intellettuale al politico (Le cronache teatrali di Gramsci), Bari, Dedalo, 1975. Per tutto il presente capitolo ctr.: La critica teatrale, Quaderni di teatro, a.il. n1’ 5. agosto 1979. — Sandro D'Amico, La figura del critico dal dopoguerra a oggi: tendenze e orientamenti culturali, in AAVY, Il mestiere del critico, Roma, Bulzoni, 1971. — N. Chiaromonte, Situazione del critico. Il Ponte, a.XXV. ir 6/7, giugno/luglio 1969.


APPENDICI

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4.1. Appunti di stagione/intervista a Franco Quadri

La collaborazione di Franco Quadri ad alcune riviste (Sipario, Vbu, Panorama,etc.) ha dato un impulso determinante a un nuovo modo di fare critica teatrale, modo che lo stesso Quadri definisce nel corso dell’intervista. Accanto a una operatività culturale “dalla parte dei teatranti”, l’attivismo di Quadri si è tradotto in un intervento di tipo organizzativo (p. es., l’esperienza di Associazione Nuovo Teatro) e soprattutto nella capacità di influenzare direttamente (e di “inventare”) una politica editoriale nel settore teatrale, capacità che ha assunto connotazioni “manageriali” nella fatica del Patologo. Ne è derivata una serie di testi (sul Living, sulFOpen, su Fo, sul nostro sistema teatrale, su Ronconi, sull’avanguardia italiana), che hanno ottenuto un concreto risultato informati- vo-divulgativo senza abdicare a una rigorosa impostazione critica, talvolta esplicitamente tendenziosa. Un apporto diretto da parte di Franco Quadri, a titolo “riassuntivo” dei principali argomenti trattati, è perciò coerente con gli assunti metodologici di questo libro. Vorrei partire, per poi toccare vari aspetti del teatro italiano, da una domanda generale: quale pensi sia il ruolo del critico teatrale? Sulla base ovviamente della mia esperienza, non credo a una critica al di fuori delle parti, che non si “sporchi le mani”; non credo a una critica che dall’alto di una cattedra amministri giudizi o distribuisca pagelle; credo piuttosto a un tipo di lavoro che cerchi di rendere nel modo più oggettivo possibile quello che succede sulla scena; cioè una critica che si ponga in partenza nel modo più “cronistico” possibile, se vogliamo. Magari in questo sono stato un po’ aiutato dal settimanale per cui scrivo, ma questo si ricollega anche al teatro di cui scrivo preferibilmente, cioè il teatro sperimentale. L’inizio di un tipo di teatro diverso negli anni Sessanta, ha portato — tra l’altro — a una crisi della critica. Prima la critica era

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vista come un fatto eminentemente letterario, che si dilungava in discussioni letterarie sul testo messo in scena, e alla fine dava uno stringato giudizio su come questo testo era arrivato alla scena. A un certo momento è subentrato un tipo di teatro non più così collegato al testo, e dove comunque avevano importanza anche il fattore eminentemente scenico e il fattore, magari precipuamente, visivo. Questo obbligava il critico, volendolo o no, a dar conto di quanto vedeva, a cercar di descriverlo, di “ricostruire” io spettacolo prima di giudicarlo sulla pagina. io credo a un modo di scrivere che sia il più possibile leggibile e che però affronti anche i problemi dello specifico scenico. In ogni caso non credo a una critica fuori dalla mischia, perché mi sembra impossibile oggi non prendere posizione; questo può sembrare in contraddizione con quanto ho appena detto suiroggettività, ma per arrivare a una completa oggettività bisogna anche approfondire il lavoro scenico, in un modo che è consentito soltanto seguendo questo lavoro di palcoscenico non dal di fuori ma dal di dentro. Ora si dà il caso che sia materialmente impossibile farlo per tutti gli spettacoli. Ogni critico è obbligato a fare delle proprie scelte e a seguire più un gruppo che un altro, ad appoggiare più un indirizzo che un altro. La posizione del teatro l’ho sempre considerata molto marginale nell’ambito della società; la posizione del critico mi sembra marginale in confronto a quella del teatro. Io ho creduto di estenderla, seguendo il lavoro— quando mi si dava la possibilità — dall'interno, e dandomi da fare perché quel lavoro che più mi sembrava comunicativo potesse arrivare il più possibile, cioè cercando con questo di impegnarmi nella “diffusione” di determinati spettacoli. Ho lavorato anche come organizzatore di certe toumées, del Living per esempio (negli anni Sessanta si era formata un’Associazione Nuovo Teatro che cercava appunto di far girare dei gruppi); oppure ho collaborato al primo anno del Laboratorio di Ronconi a Prato, salvo poi andarmene. Questo per cercare di mettere a profitto il mio lavoro non solo sulla pagina.

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Secondo te, come e in che misura si inserisce, in ciò che dici, una presenza attiva del critico nel settore editoriale? E inoltre: non ti pare che in un momento di grande vitalismo della politica teatrale degli enti locali, uno dei tanti sforzi da fare sia quello di diffondere al massimo, di ‘'radicar e", la cultura teatrale? Non ti pare cioè che sia una cosa ancora da fare (perche in gran parte mancata dalle esperienze “storiche”: servizio pubblico, decentramento, etc.) il tentativo di “specializzare” lo spettatore? Senz’altro. In un’intervista che feci a Ronconi al termine del primo anno di attività dei Laboratorio, lui parla di Prato come di un tentativo di sensibilizzare un numero ristretto di spettatori; di insegnare a questi spettatori a essere spettatori. Però, guarda caso, è stato un tentativo pubblico che è durato il tempo che è durato, in mezzo a un mucchio di ostacoli e di difficoltà. Penso che la domanda di teatro della gente è andata molto crescendo— anche in modo imprevedibile — in questi ultimi anni; e questo anche indipendentemente dannazione degli enti pubblici. Molte iniziative di enti pubblici (organizzazioni di rassegne, seminari, ricerche di sensibilizzazione culturale, etc.) hanno avuto una grossa risposta. Probabilmente non si è però fatto abbastanza; la situazione italiana è quello che è: per esempio, tutto si ferma quando ci sono le elezioni in vista. Ci sono troppi condizionamenti dati dal momento di crisi economica, per cui in certi comuni è stato messo un freno alla cultura; niente fondi: tutti i fondi vanno da un'altra parte. La cultura è considerata una sovrastruttura da utilizzare soltanto per motivi di comodo o magari anche clientelari. L’attività culturale non è mai stata strumentata in modo sistematico; però correlativamente si è assistito a un successo sempre maggiore delle attività editoriali. Io ho fatto un libro sulle avanguardie che neanche l’editore ci credeva e che costava moltissimo per l’epoca: in tre mesi è stata esaurita la prima edizione. Di colpo gli editori si sono resi conto che il teatro “andava” e si sono messi quindi a cercare di pubblicare cose teatrali. Il fenomeno e ancora in ascesa; anche perché si sono

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pubblicate varie cose abbastanza disordinatamente, ma non è che si sia coperto un arco di discorsi da fare. Voglio dire: di libri utili sul teatro secondo me ce ne sono ancora tanti. D'altra parte, se si scorre il panorama intemazionale, bisogna ammettere che in pochi paesi escono tanti libri di teatro come in Italia; ci sono delle riviste teatrali che aU'estero non ci sono. Mi sembra comunque che a tutt'oggi l'editoria teatrale abbia ancora delle possibilità di sviluppo e di approfondimento. Oggi assistiamo a un successo dello “spettacolo ” — cioè del singolo prodotto teatrale “ben confezionato” — , sue- cesso cui sta dietro il rinnovato ruolo delle compagnie private, una conferma della presenza degli Stabili (in quanto principali “confezionatori” di prodotti teatrali), nonche una recuperata supremazia del “contenitore” teatrale tradizionale. Cosa significa e come pensi si possa gestire questo successo? Non e che il teatro debba temere di * ''riperdere" il pubblico, come paradossalmente (anzi neanche tanto paradossalmente) è successo quasi sempre negli anni di “boom” economico. Mi ricordo che nei primi anni Sessanta le platee si vuotavano, la gente andava al ristorante e si beava di altre cose; in genere, nei momenti di crisi, invece, il teatro va bene, è in ascesa. Oggi la domanda di teatro cresce in modo, secondo me, anche abbastanza indiscriminato; “va” un po’ tutto: dal teatro tradizionale, ai grandi successi di vecchie attrici o di mattatori. In una città come Milano, che è sempre stata abbastanza sorda alla sperimentazione, da un paio d’anni in qua, appena c’è qualcosa che rompa un po’ con i canoni tradizionali, subito la gente ci va. Che vi sia questo “bisogno” di teatro, lo si vede anche dalla voglia che i giovani hanno di farlo, il teatro, non solo di essere spettatori; c’è un bisogno di creatività, di formare gruppi di base, si sono continuate a moltiplicare iniziative spontanee. La gente continua ad andare a teatro, anche se siamo di fronte a un momento in cui il teatro, come risultati, dà abbastanza poco.

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Il pericolo maggiore è cercare di sfruttare commerciai^ mente questa esplosione teatrale, sopravvalutandola e usandola poi a scopi speculativi; ad esempio: si vede moltiplicarsi il numero di cinema che diventano teatri. Poiché il cinema va male, allora ci si rivolge al teatro. Si moltiplicano le sale “trasformate”, e si sente continuamente di esercenti che propongono di fare teatri, più o meno velleitariamente e in molti casi pericolosamente. A Roma si era già assistito a un fenomeno di questo genere, ma nel campo della ricerca (il termine “avanguardia” non lo uso tanto volentieri, anche se è nel titolo del mio libro). Quando qualche anno fa c’è stato il “boom” delle salette e delle “cantine”, di colpo, da cinque, sei che erano, sono diventate trenta; e Ingente non ci andava, perché erano troppe. Tu parli della “conferma” della presenza degli Stabili; a me sembra che gli Stabili abbiano progressivamente limitato il loro ruolo, senza aver trovato una soluzione che corrisponda alle speranze degli anni Cinquanta; ma che si siano piuttosto accontentati di dare dei prodotti finiti. Mi sembra invece che dagli Stabili ci sia da pretendere anche una politica culturale, mentre essi forniscono solo dei prodotti che si ammortizzino il meglio possibile, magari affidandosi anche alla politica di certi nomi che “chiamino” il pubblico, abdicando quindi proprio a quei principi della prima fase di attività. Gli Stabili si autolimitano a un livello più basso di quello che era il precedente, a un livello meno ambizioso, di buon prodotto medio. Il teatro di Genova è un po’ il modello di questa situazione. Lo Stabile oggi serve a importare, a presentare degli spettacoli; i propri spettacoli li sfrutta invece abbastanza limitatamente nel luogo: deve “venderli”, magari attraverso agenzie (perché c'è anche questa cosa che non funziona, nella distribuzione, in Italia; perché un ente pubblico non può autodistribuirsi in quanto certi luoghi sono in mano alle agenzie), piuttosto che coprire di più la propria zona. In Germania esistono 120 o più teatri pubblici, ogni piccola cittadina ha il suo teatro pubblico e questo teatro si copre tutta la

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sua programmazione. Non esiste scambio: ogni teatro fa dalle dieci alle tredici realizzazioni all'anno. È uno sforzo enorme, ed effettivamente hanno altri mezzi. Penso che anche li, tutto sommato, ci sia un’anomalia, in questa totale mancanza di scambi; però la soluzione del teatro di repertorio, di un teatro che si programma totalmente nel proprio spazio, non mi sembra così sbagliata, perché agli effetti di una politica culturale in una città può dare i suoi risultati. Mi pare che attualmente si dedichi una rilevante attenzione critica al discorso “attore”. Che ne pensi? Il teatro senza attore non si fa. C’è stata una reazione alla posizione di negazione o di posposizione dell’attore al regista. Ora, l’inversione di tendenza si tende a farla risalire al Sessantotto, quando hanno cominciato a formarsi le compagnie autogestite; attori che si univano e cercavano poi un regista all'intemo dei loro gruppi, cercando di valutare al massimo il loro lavoro, di dare il massimo spazio al lavoro deH’attore. Comunque sia, da questo punto dì vista si è cercato di vedere nel regista una figura in un certo modo reazionaria, come un’autorità demiurgica, dittatoriale. Io trovo che sia reazionario in egual misura, se non di più, anche in senso culturale, il fenomeno di rivalutazione dell’attore-mattatore a cui si va assistendo negli ultimi tempi (Gassman, Proietti e altri), cioè la figura dell’attore che dice sono io il padrone della scena, che nega ogni mediazione registica e spacca anche ogni filtro culturale, schiacciando poi molto spesso i suoi compagni. L’attenzione ritrovata dagli spettatori nei riguardi dell’-attore-mattatore di questo tipo, mi insospettisce molto; sembra tanto una ricerca di sicurezza, un affidarsi all’uomo forte che lo tranquillizzi, paternalisticamente. Per esempio, ho assistito a una replica di Ajfabulazione di Pasolini, interpretata da Gassman; durante lo spettacolo si aveva la sensazione che qualsiasi cosa Gassman avesse proposto, avrebbe suscitato lo stesso calore e lo

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stesso entusiasmo. Molto spesso questo riaf fermarsi del Fattore-mattatore (questa volta in senso negativo) risponde anche alla riaffermazione del teatro privato. Il riaffiorare del teatro privato data già da qualche anno, ma è scoordinato; non so bene vedere il peso che ha nella situazione generale, ma probabilmente questo fenomeno si inserisce nello spazio vuoto che i teatri pubblici non hanno saputo gestire, di cui non hanno saputo approfittare. Io credo che nella dialettica teatrale sia necessaria anche la presenza di voci private. Sono completamente contrario al teatro di “boulevard" , lo trovo esasperante: l’espressione della stupidità... e da noi oltretutto è particolarmente malfatto; all’estero, dove magari regge benissimo ai botteghini, conta su una ricerca interpretativa molto più raffinata. In ogni caso dove esiste una tradizione teatrale, esiste anche il ‘boulevard"; bene o male in Italia ci si era illusi di poterlo soppiantare per dieci e più anni, invece poi è riemerso (ci sono sempre state certe punte: vedi Garinei e Giovannini). Discutendo dell’argomento “teatro privato", bisogna poi vedere fino a che punto di privato si possa effettivamente parlare, perché il nostro è un paese dove si sovvenziona assolutamente tutto: un teatro come FEliseo conta anche su sovvenzioni enormi, fa una politica assolutamente da teatro privato, ma finisce coll’essere semipubblico. Ma, per tornare a quanto dicevo, una cosa è il mattatore, un’altra è una maggior consapevolezza dell’attore; non è un fenomeno cosi generale a livello di certi gruppi che lavorano da parecchi anni, che si allevano dei nuovi attori, che si sono formati una loro “scuola" (perché poi ennesimo problema è che non ci sono scuole, si pensi alla crisi dell’Accademia a Roma). La scuola del Piccolo pare sia in netto rialzo; però forse più a livello di preparazione di animatori, operatori culturali, che non di attori. La crisi delle scuole esiste, quindi a questa crisi suppliscono in parte questi gruppi (soprattutto cooperative) che, svolgendo un’attività abbastanza coerente stilisticamente, hanno finito con il

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fungere da scuole per i loro attori più giovani. Così come una scuola poteva essere il Laboratorio di Ronconi, dove un grosso lavoro sulla espressione deH’attore è stato in ogni caso condotto e anche, paradossalmente, perché c'era un regista ‘‘demiurgo", un lavoro di consapevolizzazio- ne deH'attore: si era infatti di fronte al caso in cui il regista si rifiutava di dare la battuta all'attore; cercava piuttosto di ispirare il lavoro di ricerca alla base, lasciando però il lavoro finale all'espressione dell’attore stesso. D'altra parte — questo sempre perché non esiste una scuola — si assiste anche al fenomeno dell’attore che si improvvisa; fenomeno non esauritosi alla fine degli anni Sessanta. Sul piano della sperimentazione c'è stata l’esaltazione del non attore, e questo è un fatto; anche se Bene è uno dei pochi maestri, l’unico punto di riferimento dell'ultima generazione di teatranti; salvo il Gruppo della Rocca o quei pochi gruppi che si sono allevati i loro attori, l’unico seguito— sul piano dell'avanguardia e no — è stato Carmelo Bene, sia per l’espressività che per l’interpretazione: non esistendo una scuola, gli unici maestri si trovano sulla scena. Un altro che aveva una massima ambizione di aprire una scuola e poi non c’è riuscito, Eduardo, è punto di riferimento per altri attori, come Carlo Cecchi. Da un’altra parte collocherei quel tipo di attore con basi tecniche piuttosto eccezionali, che si dedica a un "training" che lo occupa totalmente; si pensi all'Odin, che ha fatto anche dei proseliti in Italia, in alcuni gruppi, a Pontedera e a Bergamo (TTB). Però quello che è stato fatto da noi in questo caso lo sento molto come un fatto di riporto; qualche volta si è magari arrivati a degli apprendimenti meramente tecnici, ma non a dei veri e propri risultati. Sono, tutto sommato, abbastanza scettico su questo indirizzo di “epigoni”. Credo quindi che l’unico tipo di scuola sia quello del gruppo o di chi guida un gruppo, anche magari disordinata- mente. A parte il fenomeno Carmelo Bene e qualcun altro (Perla Peragallo, ad esempio, è attrice straordinaria), l’avanguardia — negli anni Sessanta — è consistita soprattutto in ricerche che non

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erano di interpretazione. Ma adesso mi sembra che ci sia, anche qui, una maggiore attenzione alla presenza dell’attore. Breve interruzione: visto che stai toccando il discorso dei gruppi, vorresti fermarti un momento sull’avanguardia, magari per chiarire alcuni termini come il recente “post- avanguardia”? Dicevo: ci sono dei gruppi che sono nati proprio come negazione del fatto teatrale, che hanno praticato il teatro apparentandosi molto alle “performances” degli artisti (per esempio il Carrozzone), dove però a poco a poco si vede — anche se il fatto “parola” è ancora assente— un certo tipo di tecnicizzazione (per esempio la Gaia Scienza, dove ci sono alcuni che vengono dalPAccademia d’Arte Drammatica). Per quanto riguarda la tua domanda, dico subito che Bartolucci ha creato questo termine (io stesso l’ho applicato a malavoglia perché era diventato un termine di comodo), poi ha deciso, a un certo momento, che era finito, che di postavanguardia non si doveva parlare più. A me sembra già abbastanza negativo il fatto che ogni paio d’anni bisogna inventare un termine (postavanguardia, teatro-immagine, teatro della catastrofe). Cosa che risponde abbastanza a dei canoni di “consumo” per dei gruppi che non vorrebbero assolutamente essere consumistici né consumati. Perché quando uno “decide” che la post-avanguardia è finita può anche voler dire la “consumazione”, la liquidazione di certi gruppi. Quindi andrei al di là dell’uso dei termini. Due anni fa, quando si è cominciato a usarlo questo termine di “postavanguardia”, c’era una corrispondenza tra tre gruppi a giustificarlo: quella fra Carrozzone, Gaia Scienza e Beat 72 (Stranamore). Ora la situazione si è abbastanza evoluta perché, come sempre accade, anche i gruppi maturano e si trovano a essere appagati da un successo che non sempre magari è sufficiente a remunerarli finanziariamente, ma già basta ad avvicinarli alla sfera consumistica: uno spettacolo all’anno, un certo numero di borderò, etc. Un gruppo come il Carrozzone andato al Festival di

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Amburgo, adesso è molto richiesto all’estero; è arrivato a superare quel concetto di spettacolo fatto di studi separati ma rigidamente non narrativi ed è comunque arrivato a una concezione di spettacolo più formalizzata di prima. Questo non vuol dire che sia approdato alla istituzionalizzazione. E chiaro che per la sperimentazione c’è sempre questa crisi di crescita che corrisponde all’incontro con il “successo”. Uno sorge come gruppo di opposizione, ma sa bene che non può venire sempre confinato in una posizione di autoemarginazione. E contro l’istituzione, però lavora anche per affermarsi e per essere riconosciuto. Si trova in contraddizione già in partenza e, appena viene riconosciuto, si sente inglobato nel qualcosa contro cui aveva lavorato fino a quel momento. È stata questa la crisi del Living, che poi praticamente non si è mai riavuto: ha continuato a buttarsi all’opposizione, senza più riuscire a recuperare la carica primitiva. Altri gruppi si sono sciolti. Grotowski ha cambiato completamente il suo modo di lavorare. L’Odin è quello che più ha resistito, ma è andato anch’esso modificandosi come struttura. Hai citato il tipo dì ricerca svolta da alcuni gruppi. Tu hai partecipato, o comunque hai seguito il lavoro di Luca Ronconi; per concludere, vuoi soffermarti su questo argomento non in generale, ma specificamente sulla ricerca che Ronconi e i suoi collaboratori hanno condotto sullo “spazio” teatrale? La ricerca di Ronconi sullo spazio data da\V Orlando è continuata fino a oggi. È una ricerca non soltanto sua perché trova dei paralleli importanti a livello internazionale, e non solo. Qui si tratta di considerare esaurito o imprigionante il ruolo del “teatro all’italiana”, comunque non coni sponde n te a una situazione, a una necessità di rapporto. A me sembra un discorso abbastanza importante il fatto che ogni testo richieda un rapporto diverso tra la scena e lo spettatore, dove non necessariamente la scena deve avere una posizione autoritaria o predominante rispetto allo spettatore; è il contrario dello spettacolo di consumo. il discorso dello spazio, in Ronconi, è il massimo ricono-

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scimento della necessità che lo spettatore assuma un linguaggio che non è soltanto il linguaggio del testo; cioè che esiste il teatro come spettacolo e non solo il teatro come illustrazione di un fatto letterario. Nelle Baccanti usa diversi ambienti di un ex-convento, nella Torre prende una fabbrica inutilizzata, ci costruisce dentro la riproduzione di una sala di una reggia tedesca, e dentro questa sala ricostruisce degli ambienti diversi a ogni azione, mettendo il pubblico nelle posizioni più coinvolgenti. Comunque sia, Ronconi ha condotto questa ricerca non solo utilizzando dei contenitori creati appositamente, ma a volte spostandosi in contenitori già esistenti. Come dicevo, non è il solo a tentare questo tipo di lavoro. A Berlino c’è il regista Gruber che ha fatto uno spettacolo nello stadio di Olimpia, e uno spettacolo in un vecchio albergo abbandonato usandone i diversi locali che si affacciano sul Muro (basta questa sua collocazione a spiegare la ricchezza di significato che può avere il collocarsi di due spettacoli in due ambienti così diversi del passato berlinese, in una tematica che a un certo momento vuole avvolgere la città portando il teatro a un’altra dimensione). Non è che voglia rifarmi agli stranieri, ma c’è un altro regista tedesco, Peter Stein, che fruirà di un teatro nuovo, attualmente in costruzione (costerà 32 miliardi), e bisognerà vedere che tipo di lavoro farà; l’anno scorso aveva fatto uno spettacolo shakespeariano in uno studio cinematografico, costruendoci due ambienti: una città neoclassica rinascimentale nella prima parte, poi, attraverso un percorso il pubblico arrivava a una specie di foresta; era il Come vi piace di Shakespeare, dove appunto la prima parte si svolge in una città, la seconda in una foresta. Con questo mezzo si immetteva lo spettatore in una situazione... Quest'anno ha fatto invece uno spettacolo di un autore nuovo tedesco, ancora in quello stesso studio cinematografico. In questo lavoro il testo assumeva un grossissimo spessore: trattava della crisi di una donna. La protagonista era situata in uno spazio

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particolare che cambiava dieci volte nelle dieci scene con un semplice spostamento di sipario, rivelando di volta in volta degli ambienti a distanza diversa dagli spettatori. Si partiva da dieci stanze, asettiche e bianchissime, sullo sfondo: in una di esse gira la protagonista, nelle altre ci sono altre persone. L’insieme dava un’impressione di alienazione abbastanza forte. La scena delle dieci stanze si trovava a 40 metri dagli spettatori, con avvicinamenti progressivi essi venivano a trovarsi di fronte a un muro che evidentemente chiudeva una sala d'attesa, perché su di esso si leggevano bene i cartellini con le indicazioni di "'Uscita”, "Attenda prego”. La protagonista si trovava effettivamente ad attendere, insieme ad altri, proprio davanti alla prima fila di spettatori, una visita psichiatrica (fin dal principio, infatti, si dibatteva in una crisi di identità non lontana dalla sindrome schizofrenica). A questo punto lo spettatore passava dalla finzione iniziale a una totale identificazione con la ragazza perché veniva a trovarsi praticamente nella stessa sala d’attesa in cui, per dieci minuti, la scena si svolgeva realisticamente — non una parola, solo persone che a turno entravano e uscivano dallo studio — raggiungendo un effetto di forza impressionante. Io lo spettacolo l’ho rivisto in teatro, perché nel frattempo è successo che la compagnia di Stein è stata buttata fuori da questo studio, le è stata negata la disponibilità; per questo hanno dovuto ricostruire lo stesso spettacolo sulla scena del normale teatro dove si trovano a lavorare di solito. Ne è risultato un generale appiattimento, nonostante il grosso lavoro sugli interpreti — eccellenti —, e non si è riuscito a evitare una certa meccanicità, uno schematismo che portava a galla i limiti del testo che quella costruzione di ambienti era riuscita a nascondere. Ho voluto sottolineare questo fatto per dire quale può essere l’importanza di un contenitore, di un diverso uso dello spazio proprio agli effetti dell'interpretazione di un testo e dell’efficacia della comunicazione tra scena e spettatore.

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4.2. Indicazioni bibliografiche

4.2.1. Storia del teatro Se si affronta il problema della conoscenza storico-cronologica del teatro, occorre forse premettere la citazione di; Enciclopedia dello Spettacolo, Roma-Firenze, “Le Maschere“ ed./Unione Editoriale, 1954/1968, 11 voli, (l’opera, che è aggiornata al 1965, si occupa evidentemente di tutti i settori dello spettacolo). Per quanto riguarda la storia del teatro dalle origini al Novecento, cfr.: — Moussinac Léon, Il teatro dalle origini ai nostri giorni, Bari, Laterza (Univers.), 1967; — Chance rei Léon, Storia del teatro, Roma, Bulzoni, 1967. — D’Amico Silvio, Storia del teatro, Milano, Garzanti, 4 voli., VI ediz., 1970 (con un Appendice di Raoul Radice su 11 teatro dal 1950 a oggiy, di quest’opera esiste anche un’edizione economica, in due volumetti, presso la stessa casa editrice, a cura di Sandro D'Amico; — Fiocco Achille, Teatro universale, Bologna, Cappelli, 1970, 3 voli. — Nicoli Allardyce, Lo spazio scenico, Roma, Bulzoni, 1971; — Molinari Cesare, Teatro, Milano, Mondadori, 1972; — Fagiolo Maurizio, La scenografia dalle sacre rappresentazioni al futurismo, Firenze, Sansoni, 1973; — Pandolfi Vito, Storia del teatro, Torino, UTET, 1974,2 voli.; — Duvignaud Jean, Le ombre collettive (sociologia del teatro), Roma, Officina, 1974, Introd. di Achille Mango; — Pignarre Robert, Storia del teatro, Torino, Giappichelli, 1977; — Cfr. inoltre una pubblicazione riservata agli studenti di scuoia media: Ghiaroni Rosanna, Teatro e' Pubblico, Torino, Loescher, 1979.

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Per quanto riguarda il Novecento, si citano alcuni volumi a carattere orientativo: — Pandolfi Vito, Spettacolo del secolo, Pisa, NistriLischi, 1953; — Dori Bernard, Teatro pubblico ( 1953-1966), Padova, Marsilio, 1967; — Hodgson John, Richards Ernest, L'improvvisazione teatrale, Bari, De Donato, 1970; — Artioli Umberto, Teorie della scena dal naturalismo al surrealismo (voi. I: dai Meininger a Craig), Firenze, Sansoni, 1972; — Pandolfi Vito, Regia e registi nel teatro moderno, Bologna, Cappelli, 1973 (II edizione aumentata); — Arruga Lorenzo, Il teatro, Milano, Mursia, 1973; — Poli Gianni, Contenuti e tecniche del teatro contemporaneo, Messina-Firenze, D'Anna, 1974; — Alonge Roberto (a cura di), Teatro e società nel Novecento, Milano, Principato, 1974; — Mancini Franco, L'evoluzione dello spazio scenico (dal naturalismo al teatro epico), Bari, Dedalo, 1975; — Ragghiami Carlo Ludovico, Arti della visione (voi. II: ‘‘Spettacolo’'), Torino, Einaudi, 1976(Iediz.: 1952); — Il teatro fra antropologia e avanguardia, Catalogo critico a cura di Ferruccio Marotti, Comuni di Bologna-CarpiComacchio-Ferrara-Modena-Scandiano, Ater, Università di Bologna e di Roma, febbano-aprile 1978 (realizzazione a cura delFUfficio Cinema del Comune di Modena); — Momo Arnaldo, Brecht Artaud e le avanguardie teatrali, Venezia, Marsilio, 1979; — Bartolucci Giuseppe, Capellini Lorenzo, Il segno teatrale. Avanguardie alla Biennale dì Venezia 1974-1976, Milano, Electa, 1978; — Molinari Cesare, Ottolenghi Valeria, Leggere il teatro, Firenze, Vallecchi, 1979.

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Il panorama dei testi che contengano una trattazione storica sul teatro italiano, non è ampio (si vedano, in proposito, i titoli elencati in apertura); in particolare si rimanda a: — Apollonio Mario, Storia del teatro italiano, Firenze, Sansoni, 1938/1950,4 voli.; — Tofano Sergio, Il teatro all’antica italiana, Milano, Rizzoli, 1965. — Viviani Vittorio, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1969. — Pulì ini Giorgio, Teatro italiano del Novecento, Bologna, Cappelli, 1971 (nelle note bibliografiche si possono trovare indicazioni sulla letteratura teatrale italiana del Novecento); — Jacobbi Ruggero, Teatro da ieri a domani, Firenze, La Nuova Italia, 1972; — Fontana Alessandro, La scena, in Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1972 sgg., voi. 1:1 caratteri originali; — Pineìli Antonio, / teatri (lo spazio dello spettacolo dal teatro umanistico al teatro deiFopera), Firenze, Sansoni, 1973; — Angelini Franca, Il teatro del Novecento da Pirandello a Po, Bari, Laterza, 1974 (anche in questo libro sono contenute note bibliografiche sugli autori italiani); — Pullini Giorgio, Teatro contemporaneo in Italia, Firenze, Sansoni, 1974; — Doglio Federico, Il teatro pubblico in Italia, Roma, Bulzoni, 1976; — Alonge Roberto, Struttura e ideologia nel teatro italiano fra ’500 e ’900, Torino, Stampatori, 1978; — Per una storia antologica della letteratura teatrale italiana, dalle origini a oggi, cfr. la pubblicazione II teatro italiano, Einaudi, Torino, 1975 sgg.

4.2.2 Periodici di teatro italiano Un elenco di periodici specificamente teatrali non può che essere parziale, cioè attenersi a testate tuttora in pubblicazione e con una

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certa diffusione (fra le riviste apparse negli anni scorsi e costrette alla chiusura da varie difficoltà, soprattutto economiche, ci sono esempi molto interessanti: Annali di storia del Teatro e dello Spettacolo di Vito Pandolfi e Teatro di Bartolucci-Capriolo-Fadini, che anticipano un filone di taglio documentario e saggistico, oggi particolarmente nutrito; oppure Spettacoli &. Società, che realizzò una felice sintesi critico-divulgativa).

Giornale dello spettacolo Roma, via di Villa Patrizi 10. Si tratta dell’organo dell’AGIS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, una federazione che svolge compiti di consulenza e di assistenza sul piano economico, fiscale e sindacale), e fornisce, settimanalmente, a tutti gli operatori notiziari dettagliati sull’intero settore dello spettacolo. L’AGIS svolge inoltre una grossa attività sul piano statisticoinformativo, presentando (e aggiornando periodicamente) alcune pubblicazioni tra cui citiamo: Il teatro di prosa. Sintesi delle norme legislative amministrative e regolamentari vigenti, La legge per il teatro di prosa, Lo spettacolo e le regioni, Le statistiche.

Sipario Milano, via Nicola d’Apulia 11. Nata nel 1946, dopo aver testimoniato e coadiuvato il rinnovamento del teatro italiano negli anni Cinquanta, la rivista ha svolto un molo meramente informativo nei campi teatrale, cinematografico e musicale. Giova piuttosto ricordare come il periodo più fecondo di Sipario abbia coinciso, negli anni Sessanta, con la gestione di Franco Quadri. Di questo periodo si citano alcuni numeri monografici che interessano direttamente i contenuti di questo libro: Rapporto sulTattore (236, die. 1965), Numero dei ventanni: 194611966, (241, maggio 1966), Tendenze del nuovo teatro italiano (246, ott. 1966), Nuove strutture per un nuovo teatro, (280, agosto 1969), Dalla scenografia allo spazio scenico (284, die. 1969), Temi e momenti esemplari del teatro alla svolta degli anni Settanta (296, die.

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1970). Oggi la rivista è stata rilevata da una nuova gestione e si è trasformata in una interessante serie di numeri monografici.

Il dramma Bologna, via Marsili 9. Fondata da Lucio Ridenti nel 1926, la rivista rimase fino al ’69 ancorata a una concezione drammaturgica e a un * "costume” teatrale databili agli anni Venti- Trenta. Oggi, questa impostazione pare aggiornata soltanto parzialmente.

Ridotto Roma, via Po 10. È il Drammatici (SIAD), e ha letterari che critici di recentemente svecchiata editoriale.

mensile della Società Italiana Autori annoverato per decenni i contributi sia autori italiani. La formula è stata esclusivamente sul piano grafico-

Le riviste fin qui citate hanno sempre curato la pubblicazione di testi contemporanei per il teatro, italiani e stranieri. Esse costituiscono così — al di là di ogni giudizio di merito — una monumentale antologia della drammaturgia (scritta) del Novecento. Ma una riflessione critica sull’autore italiano e sul suo rapporto con la messinscena è portata avanti più efficacemente dalla Rivista italiana di drammaturgia.

Rivista italiana di drammaturgia Roma, ed. Bulzoni. Nata nel 1976 come trimestrale delFIDI (Istitutojdel Dramma Italiano), si propose «un discorso teorico e tecnico sulla drammaturgia in generale, un discorso storico e filologico sulla drammaturgia italiana, una serie di profili di autori contemporanei corredati da un apparato bio- bibliografi- co, un’attenzione costante a tutto ciò che si scrive sull’argomento». L'IDI pubblica inoltre un annuario che contiene: gli atti dei

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convegni organizzati annualmente dall'Istituto; una rassegna sulla produzione drammaturgica e sulle novità bibliografiche deiranno: una documentazione fotografica sulla stagione precedente; notizie varie sulla "geografia" teatrale italiana (attualmente l'annuario è pubblicato da Bulzoni).

Biblioteca teatrale Roma, ed. Bulzoni, Nata nella primavera '71 e diretta da Ferruccio Marotti-Cesare Molinari, questo trimestrale e diventato «il principale strumento di lavoro degli istituti e delle cattedre di storia del teatro e dello spettacolo, ormai diffusisi e operanti, nell'ultimo decennio, in parecchie università italiane. Tipico della pubblicistica universitaria e il taglio della pubblicazione, dedicata prevalentemente a studi, ricerche, analisi e dibattiti non di rado di notevole rigore e livello, fermamente alieni da ogni compiacimento accademistico deteriore» (N. Lodato, Le riviste di teatro, Bollettino per Biblioteche, Pavia, Nu 15/18). Alcuni numeri monografici (cfr. L’invenzione del teatro, ir 15/16, 1976) costituiscono contributi fondamentali a livello intemazionale.

La scrittura scenica — teatroltre Roma, ed. Bulzoni. Nel gennaio '71 Giuseppe Bartolucci porta avanti ed estende la sua esperienza torinese (cfr. il citato episodio di Teatro), fondando e dirigendo questo trimestrale; l’obiettivo è fornire al ‘'nuovo" operatore teatrale un patrimonio di strumenti teorici riguardante l’animazione, la sperimentazione, e in genere gli aspetti più avanzati del teatro italiano e straniero.

Scena Milano, via Nicola d’Apulia 11. Apparsa nel gennaio ’76 per creare uno spazio al discorso delle cooperative e dei gruppi di base, ha rigorosamente tentato di sintetizzare la militanza inequivocabile con la metodologia scientifica, la documentazione diretta con

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l'informazione critica. L'impegno del Fin formazione, perseguito sempre tenacemente da Scena, caratterizza questo periodico all’interno di un panorama di pubblicazioni prevalentemente saggistiche, dove la cronaca teatrale e demandata ai quotidiani e alle rubriche sempre più diffuse nei settimanali. (Cfr. il numero monografico sullo spettacolo contemporaneo: Oggi, dentro gli ultimi dieci anni, a.ìli. 1978, nr 3/4).

Quaderni di teatro Firenze, Volta dei Mercanti 1. Questo trimestrale, avviato nell'agosto '78 dal Teatro Regionale Toscano (TRT), non si rapporta alla sola realtà locale da cui e curato (come accade p. es., con Emilia Romagna Teatro, periodico dell'ATER), ma tenta una formula di libro-rivista molto interessante: ogni numero e infatti una monografia.

Quarta parete Tonno, Stampatori. Diretta da Ruggero Bianchi e da Gigi Livio, la rivista e giunta ai ir 5 individuando una serie di argomenti: l'animazione, il teatro politico, la sperimentazione, etc. Per quanto riguarda lo specifico settore dell'animazione teatrale, un caso a parte e costituito da Le botteghe della jamasia (Milano, Emme Edizioni), diretta da Franco Passatore-A ve Fontana e fondata nell’inverno del ’78; una rivista che riesce non soltanto a "parlare di" ma anche a "tare" animazione. Infine si elencano alcuni numeri unici che hanno interessato direttamente questa ricerca: — Il teatro nella società italiana, Quaderni de 11 Veltro, rr 3, 1965; — Teatro aperto, II Ponte, a. XXV, ir 6/7 giugnoluglio 1969;

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— Il teatro e il suo domani, 1 problemi di Ulisse, a. XXII, voi. X, luglio 1969, Firenze, Sansoni; — Un’esperienza di decentramento teatrale in una grande città industriale, Teatro, a. Ili, ir 2, 1970; — Regioni e teatro: verso una gestione sociale, Quaderni di Basilicata, rr 3, 1976, Roma-Matera, Basilicata Editrice; — L'ambiente dello spettacolo. Casabella, Milano, a. XLI, dicembre 1977; — Lotus International, Milano, tr 17, dicembre 1977: — Teatro e dintorni, Rinascita (Il Contemporaneo), a. XXXV, ir 9,3/111/1978.

4,2.3. Teatro italiano contemporaneo Si elencano alcuni testi sul teatro italiano contemporaneo, rimanendo esclusivamente nell'ambito dell'editoria nazionale. La bibliografìa viene riportata con l'abituale criterio della successione cronologica. — D'Amico Silvio, Il teatro non deve morire, Roma, EDEN, 1945; — Pandolfì Vito, Teatro italiano contemporaneo, Milano. Schwarz, 1959; — Chiaromonte Nicola, La situazione drammatica ( 1953-1958), Milano, Bompiani, 1960; — AAVV, Teatro situazione 1963, Genova, Edizz. del Teatro Stabile, giugno 1963; — D'Amico Silvio, Cronache del teatro, Bari, Laterza, 1963, a cura di E.F. Palmieri e Sandro d'Amico (voi. I: 1914/1928; voi. II: 1929/1955); — Possenti Eligio, Dieci anni di teatro (1952/1963), Milano, Nuova Accademia, 1964; — Arbasino Alberto, Grazie per le magnifiche rose

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