Carissimi Amici,
è ormai una consolidata tradizione proporvi per l’Avvento il nostro Calendario con le classiche 24 finestre. Dietro ognuna di esse si cela una rappresentazione che rinvia ad accurate notizie storiche contenute in questo fascicolo. Il Calendario di quest’anno è speciale! Esso si colloca “al culmine” di un itinerario volto a descrivere quel mondo medievale che fu anche di Francesco e Chiara. Piace ricordare la serie di Calendari che da qualche anno, ovvero dal 2006, ci aiuta a immetterci in quell’età, lontana, ma anche per tanti aspetti, vicina. In questo Calendario del 2014 vi proponiamo un quadro d’insieme di quella società complessa e varia. L’abbiamo volutamente intitolato “Uomini e donne nel Medioevo” per mostrare il “lavoro” di entrambi, nonostante i limiti imposti alla condizione femminile. Emerge di tutto: un mondo di mestieri, di professioni, di attività, di rapporti familiari, religiosi, culturali; insomma: un universo di uomini e donne che s’incontrano, che lavorano, che vivono… che agiscono, che soffrono e che sperano… Se era scontato che la storia fosse stata fatta dagli uomini, ci si avvede che anche le donne hanno fatto ampiamente la loro parte a tutti i livelli degli strati sociali. Cari amici, ragazzi, genitori, nonni e lettori vari, speriamo di essere riusciti a farvi comprendere, o almeno a suggerirvi, che l’età medievale non è un tempo “oscuro” e “misterioso”, ma al contrario un’età creativa, inventiva, produttiva pur con tutte le sue durezze, contraddizioni, diversità, disuguaglianze e difficoltà. Grazie per averci seguito fin qui! Con il solito affetto, vi giunga il mio saluto e l’augurio di “Pace e Bene”. Frate Indovino
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PREMESSA In questo Calendario dell’Avvento, già preceduto da altri sei con tematiche specifiche relative all’età medievale intorno a Francesco e Chiara, ci lanciamo a prospettare uno sguardo panoramico sulla società nel suo insieme, senza alcuna pretesa di esaurire la vastità dell’argomento. La famiglia, in primo luogo, come nucleo-base di questa società, che si rivela attiva, fattiva, produttiva, creativa, popolata di energie in grado di esprimersi a tutti livelli: da quello religioso, con le varie forme e manifestazioni che comparvero in quest’epoca, alla sempre più vasta e articolata gamma delle attività lavorative e professionali. Tra diversità, disuguaglianze, difficoltà, fatiche, questo mondo è quello che ha posto le radici del nostro. Le differenze sono infinite, gli abissi profondi, cambiamenti e trasformazioni d’ogni genere, ma l’età medievale ha dato il meglio di sé in termini di
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vita religiosa; di capacità organizzative dei mestieri e delle professioni; di forme di “democrazia”; di innovazioni tecnologiche (dall’aratro al mulino, dalla bussola all’orologio); di inventività culturale (dalle scuole alle università); di creatività artistica: pittura, scultura, letteratura, musica, architettura, dando vita, quest’ultima, a strutture imponenti, le più grandi possibili per l’epoca, come le cattedrali, le grandi chiese degli ordini Mendicanti, i grandi palazzi pubblici; di attenzione ai poveri e ai derelitti con la creazione di istituti di accoglienza e di beneficenza (ospedali, confraternite). Gli uomini del Medioevo hanno dimostrato di essere in grado di organizzarsi dal basso “inventando” originali forme di aggregazione umana e politica come, ad esempio, i castelli e i Comuni.
Preambolo e punti fermi Uomini e donne nella società medievale! Attenzione però! Poniamo subito qualche punto fermo. Non esisteva nella lunga età medievale quella parità – o quasi – che appartiene ai nostri tempi e alle nostre aree geografiche (euro-occidentali)! Il Medioevo fu epoca di disuguaglianze a tutti i livelli: sociale, economico, politico, culturale e di “genere”, intendendo per “genere” quello maschile e quello femminile. Sulla condizione della donna nel Medioevo ha pesato un pensiero filosofico-teologico-dottrinale, un sostrato di mentalità, un retroterra di formulazioni legislative (ecclesiastiche e civili) che l’ha spesso relegata a livelli d’inferiorità. Così, nel corso del Medioevo la donna non ebbe quel potere e quel peso politico che fu proprio dell’universo maschile. Considerata inferiore, era esclusa dall’esercizio delle armi1, le donne non potevano quindi essere cavalieri; dallo studio sistematico quale venne svolgendosi nelle università; dalla vita pubblico-politico-amministrativa. Ciò non significa che regine, imperatrici, feudatarie, donne dell’alta nobiltà e sante non abbiano esercitato una loro influenza, ma si tratta di vette. Nella prassi quotidiana l’esclusione delle donne da qualsiasi forma di carica pubblica fu una costante; la loro fatica di lavoratrici non fu posta sullo stesso piano di quella dell’uomo. È ormai un’acquisizione storiografica irreversibile che le donne medievali po_ 1. Il caso di Giovanna d’Arco (1412 circa -1431) è un’eccezione assoluta! Si colloca in un momento particolare e critico del regno di Francia in piena Guerra dei Cento Anni (1339-1453) e la sua figura devota e religiosa, ispirata dalle “voci”, può aver attratto gli animi a sollevarsi contro la presenza inglese.
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tevano giocare i loro spazi di vita tra matrimonio, da un lato, e monastero e forme varie di vita religiosa, dall’altro. Il tono delle disuguaglianze passava, ad esempio, per almeno tre aspetti fondamentali della vita dell’uomo: la nutrizione, l’abbigliamento, l’abitazione. Il nutrimento fu un’ossessione della società medievale. La massa contadina deve accontentarsi di poco: la zuppa era la base della sua alimentazione, le erbe raccolte nei campi ne erano spesso il principale contorno. Tuttavia nel XII e XIII secolo il companagium, il companatico, si diffonde in tutte le categorie sociali ed è allora che il pane è sempre più base dell’alimentazione. La festa alimentare dei contadini era l’immolazione del suino. Per gli strati sociali dominanti la manifesta-
zione della loro superiorità passava attraverso l’alimentazione più abbondante, variata e “lussuosa”. I ceti più abbienti prendevano anche così le distanze dagli altri! L’abito nel Medioevo è un segno distintivo: poveri gli abiti dei contadini; preziosi e adornati gli abiti dei ricchi; alcuni capi di abbigliamento si riferivano a specifici lavori. Circa l’abitazione, case di pietra e torri, casamenti e palazzi distinguevano i ceti sociali più elevati e abbienti; case-botteghe quelli mercantili-artigianali; modeste le abitazioni contadine. Un altro punto fermo: la libertà. Gli uomini e le donne medievali non avevano alcun concetto della libertà come noi modernamente la intendiamo; l’uomo medievale deve sentirsi parte di un organismo, nel Medioevo si deve fare corpo, si deve appartenere a “qualcosa”: poteva essere un ente, un’ istituzione, una persona, ad esempio un “signore”. Si doveva necessariamente essere in qualche modo inseriti in un organismo/struttura sociale, in primo luogo in famiglia. Nel Medioevo non esiste un significato universale di libertà: le libertà sono sempre particolari, ovvero si incarnano in diritti e privilegi di cui
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Se Eva, vista come tentatrice, costituì l’emblema della negatività femminile, la Vergine Maria, il cui culto trionfa tra XII e XIII secolo, s’impone come anti-Eva in quanto strumento dell’incarnazione divina. Il riscatto della donna peccatrice è rappresentato dalla figura di Maria Maddalena, il cui culto si avvia nel XII secolo.
godono solo alcuni ceti e corporazioni; la libertà non è un “qualcosa” di astratto, ma si concretizza nella possibilità di fare qualcosa: è libero chi può fare qualcosa e ha il diritto di farlo. Non esiste il concetto di libertà personale/ individuale: libertà di scegliere, di agire, di muoversi, di fare. L’uomo e la donna medievali – e viepiù la donna – sono sempre circoscritti in un certo ambito, né poteva essere diversamente: essi erano sempre vincolati da tutta una serie di condizionamenti e di legami, signorili, corporativi, familiari, in mezzo a coercizioni e costrizioni di ogni sorta. Se ancora oggi parlare di libertà non è facile, per tutta una serie di infiniti condizionamenti, nel Medioevo ciò era ancora più complesso e limitativo. Altro punto fermo: la durezza della vita! Anche noi siamo abituati a dire “la vita è dura” ed è vero, ma nel Medioevo lo era, per certi versi, molto di più! Tutte le attività lavorative richiedevano molta fatica umana e animale. L’uomo medievale era
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afflitto da carestie e pestilenze; da malattie impossibili da curare con i mezzi e le conoscenze dell’epoca: oltre alla peste, molte altre erano le malattie che distruggevano la vita degli uomini come il vaiolo, il tifo, il colera, l’influenza con complicazioni bronco-polmonari, il fuoco di sant’Antonio (ergotismo) – per la cura del quale si specializzò l’ordine ospedaliero degli Antoniti – la scrofolosi, la tubercolosi, la malaria, la lebbra. Le condizioni di vita erano al limite della sopravvivenza: fame, freddo, buio, niente privacy e niente di quelle che oggi chiamiamo comodità e/o confort; il letto, ad esempio, poteva essere un bene comune a più persone; basso era il livello igienico: scabbia, tigna, topi, pulci, pidocchi erano all’ordine del giorno; si moriva di più e si viveva meno a lungo: la vita era breve, alta la mortalità infantile.
A livello sociale molte erano le emarginazioni e le esclusioni. Gli ebrei, ad esempio, erano esclusi dal possesso e anche dalla concessione della terra, dai mestieri e dall’attività mercantile. I lebbrosi venivano fisicamente isolati; gli eretici perseguitati come pure i sodomiti; le prostitute dovevano ben distinguersi dalle altre donne. Attenzione! Per gli uomini del Medioevo essere immersi in queste durezze era la “normalità” come per noi l’opposto! Si trattava di una normalità ben diversa dalla nostra! L’uomo medievale viveva nell’insicurezza materiale, avvolto da timori, minacce e pericoli, ma sperava nella salvezza in un mondo “altro”, in un sostegno e/o aiuto superiori: la Vergine e i santi e i loro miracoli, le reliquie, i sacramenti, le preghiere, per un verso, le pratiche magiche, per un altro. Le paure, le guerre, i saccheggi, insomma la necessità di proteggersi determinò il diffondersi dei castelli [cfr. “Nel castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010] e le città di distinguevano proprio per essere cinte da mura. Ma non dobbiamo neppure immaginare un Medioevo sempre triste e piangente: c’erano i giochi, le giostre, i tornei, i balli, la musica, le grandi celebrazioni liturgiche, le fiere, i saltimbanchi, i cantastorie, i trovatori, i banchetti.
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Ancora un punto fermo! Un Medioevo non-immobile sia in termini di effettivi spostamenti logistici: militari, mercantili e commerciali, religioso-devozionali [cfr. “Pellegrinaggi”, Calendario dell’Avvento 2012], culturali (università), lavorativi, maestranze esperte nell’edilizia che si muovevano da un luogo all’altro, ad esempio i Maestri Comacini e i mastri costruttori delle cattedrali [cfr. “Il Medioevo delle Cattedrali”, Calendario dell’Avvento 2013]; sia in termini di mobilità sociale, cioè era possibile migliorare le proprie condizioni intraprendendo una qualche attività, imparando un’arte: si poteva socialmente ascendere rientrando in tutta una fascia di ceti medi lavorativo-artigianali. Poteva andare bene, poteva anche andar male e si poteva scivolare tra i poveri, ad esempio tra quelli cosiddetti vergognosi, cioè che vivevano il loro stato di povertà dignitosamente senza ricorrere alla prassi della mendicazione. Tutti i mestieri diventano leciti; il lavoro è un valore. Ha scritto Le Goff: Tra il secolo XI e il XIII nell’Occidente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divisione del lavoro l’aspetto più importante. Nuovi mestieri nascono o si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza. Essi vogliono essere considerati e ci riescono. In ambito monastico il valore del lavoro fu sancito dalla Regola di san Benedetto (sec. VI). Esso fu ribadito come valore religioso, ad esempio, dai Cistercensi, dagli Umiliati, dai santi Francesco e Chiara d’Assisi.
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Famiglia e matrimonio ne rispondenti a un “capofamiglia”, ivi incluso il vasto mondo dei “servi”. Il termine con l’andare del tempo cambia significato e da questa sorta di famiglia “allargata” pervenne progressivamente a indicare una famiglia “ristretta”, ridotta agli ascendenti e discendenti diretti. La famiglia, cioè, venne prospettandosi come una comunità di residenti il cui nucleo sono i genitori e i figli, il gruppo fondamentale di discendenza biologica. Essa così come verrà evolvendosi con l’avanzare del Medioevo si concentrò nella coppia, con relativi figli, dando vita a un nucleo familiare compren-
La famiglia – intesa come comunità domestica o gruppo parentale – è il nucleo-base della società medievale. In origine il termi ne “famiglia” (dal latino familia) non indicava la esclusi va discendenza di sangue, quanto piuttosto un insieme di perso-
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sivo di due generazioni! Tutte le testimonianze che abbiamo in tempi e luoghi diversi del mondo medievale indicano che le famiglie ricche erano più grandi, e presumibilmente più complesse, di quelle povere. Famiglia significa necessariamente matrimonio. La parola matrimonio deriva dal latino matrimonium, ossia dall’unione di due parole latine, mater, madre, genitrice, e munus, compito, dovere; il matrimonium era nel diritto romano un “compito della madre”, intendendosi il matrimonio come un legame che rendeva legittimi i figli nati dall’unione. Quindi per la donna matrimonio significava diventare madre in una casa diversa da quella paterna. Questo comportava molte conseguenze giuridiche e sociali e quindi doveva essere un atto pubblico. Progressivamente la Chiesa conferisce contorni sempre più precisi alla sua dottrina circa il matrimonio, concepito in termini monogamici e indissolubili che doveva poggiare sul libero e reciproco consenso degli sposi. Di fatto il matrimonio nel Medioevo si configurò come un contratto, stipulato davanti a un notaio; la benedizione della coppia da parte di un sacerdote non era ritenuta necessaria ai fini della validità dell’unione, anche se era una prassi usuale. Il matrimonio non era affatto una libera scelta e l’amore ben poco c’entrava! In linea di massima le unioni coniugali stabilite tra membri di ceti alti – per non dire regal-principeschi – e “borghesi” erano tutte combinate, cioè frutto di accordi tra le famiglie per precisi intenti di carattere economico e politico. Si può parlare di “mercato matrimoniale” per cui le famiglie facevano le loro contrattazioni ricercando le condizioni più vantaggiose per sé e per i loro figli/e. Notevole era in genere la differenza d’età tra uomini e donne: i primi si sposavano dai 20/25 anni ai 40/45; le seconde dai 12 ai 20. I vedovi si risposavano più delle vedove. Per quest’ultime – quando non facevano ritorno alla casa di ori-
gine riprendendosi la dote – la scomparsa del marito poteva in taluni casi significare una condizione di vita con spazi di maggiore autonomia. Quanto la vita familiar-matrimoniale fosse idilliaca è tutto da vedersi: le battiture potevano essere frequenti dal momento che il marito poteva esercitare lo ius corrigendi. Certo la famiglia “ideale” faceva perno sulla figura dell’uomo quale pater familias e su quella della donna quale bona mulier che, fedele al marito, si doveva occupare di tutte le cose di casa. Questa era uno spazio a un
tempo protetto e chiuso, in cui certi spazi più segreti bene le si addicevano: la camera, la stanza da lavoro, la cucina. La fragilità e la debolezza della donna esigono protezione e sorveglianza. I suoi andirivieni all’esterno devono limitarsi a percorsi ben controllati: chiesa, lavatoio, forno pubblico o fontana, luoghi che variano a seconda della condizione sociale, ma esattamente delineati. La “famiglia” è anche tutto un complesso di persone su cui la moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le attività. In primo luogo il marito, che conta di trovare, nel calore del focolare, il riposo
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Il matrimonio è sempre stato preceduto da atti, da formalità, da cerimonie e da feste, sia nei ceti sociali più elevati, come in quelli più bassi. A Firenze, ad esempio, nel corso del XV secolo, negli strati più ricchi della popolazione, il processo iniziava con un primo incontro non pubblico (detto ‘impalmamento’ o ‘abboccamento’) fra i parenti dei due futuri sposi, preparato dai sensali, nel corso del quale venivano stabilite le condizioni dell’accordo matrimoniale. A distanza di pochi giorni aveva luogo un secondo incontro, solenne e pubblico, fra i membri maschili delle due famiglie, che serviva a definire ed enunciare, con l’aiuto di un notaio, le condizioni del matrimonio. Un terzo incontro avveniva, il ‘dì dell’anello’, a casa della fanciulla, dove si recavano il fidanzato e i suoi parenti. Alla presenza di un notaio il promesso sposo infilava al dito della donna l’anello nuziale. Infine, a distanza talvolta di molti mesi dal ‘dì dell’anello’, aveva luogo la cerimonia nuziale, con festeggiamenti che si protraevano per alcuni giorni. Negli strati più bassi della popolazione, invece, il numero degli incontri era minore e più ridotte le formalità. Nei secoli XII e XIII i canonisti introdussero la fondamentale distinzione fra ‘verba de futuro’ e ‘verba de presenti’, cioè parole per il futuro e parole per il presente. Il contratto per ‘verba de futuro’ costituiva una promessa, un impegno per l’avvenire, il vero fidanzamento ed era revocabile. Il contratto per ‘verba de presenti’, con il quale i due fidanzati si scambiavano, di fronte a testimoni, formule come ‘io prendo te in moglie’ e ‘io prendo te per marito’, costituiva il matrimonio e non era dunque revocabile. Fino alla metà del XVI secolo era questa cerimonia, e non quella in chiesa, che creava l’obbligo legale vincolante. E non mancavano cortei, festeggiamenti e banchetti più o meno sfarzosi… notevolmente sfarzosi in caso di ceti alti che dimostravano così la solidità del loro status.
e i piaceri del bagno caldo, della tavola servita, del letto pronto; poi i servitori, quando la famiglia è abbastanza agiata da averne. I bambini, inoltre, la cui prima educazione le spetta senza discussione. Il culto crescente per Gesù Bambino può essere
letto come segno di attenzione affettiva verso i bambini; questo, insieme a quello per la Vergine Maria – e dal sec. XIV per san Giuseppe – proiettò a livello sacrale (Sacra Famiglia) l’immaginemodello della famiglia “reale”.
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DOTE È il complesso di beni che la donna porta al marito per sostenere gli oneri del matrimonio. È un istituto giuri dico sancito dal diritto romano. Con la dissoluzione dell’Impero e il formarsi di nuove culture dovute alla presenza dei popoli germanici, ampiamente insediatisi con i loro usi e costumi nelle zone dell’ex-Impero occidentale, le donne cominciarono a entrare in possesso di parte dei beni dei mariti: la “terza” in ambito franco, la “quarta” in ambito longobardo. In quest’ultimo contesto, ad esempio, ebbe diffusione la Morgengabe, cioè il dono fatto dallo sposo alla sposa nel mattino seguente alla prima notte di matrimonio. Ma con la ripresa della vita economica e cittadina e la riscoperta del diritto romano (dal sec. XI in poi) la dote tornò in auge tanto da divenire l’unica parte del patrimonio di famiglia spettante alle figlie! La dote passava tra i beni del marito; in
caso di morte di questi, si prevedeva la restituzione della dote alla vedova, se questa tornava alla casa paterna. L’istituto della dote fu molto sostenuto dai Comuni italiani: escludendo con essa le femmine dall’asse ereditario, si favoriva la linea di discendenza maschile! La dote, comunque, non era necessariamente indolore per le famiglie che dovevano sborsarla. Per sovvenire a tale esborso furono “inventati” con l’andare del tempo i “monti delle doti”, come ad esempio quello di Firenze (1425). E la dote era necessaria sia che le donne si sposassero, sia che entrassero in qualche monastero (in questo secondo caso in misura inferiore): dotare le fanciulle povere divenne una pia opera di cristiana carità! Alle donne toccava portare con sé il corredo (biancheria, vesti…) chiuso in apposite casse o cassepanche o cassoni. A livello di ceti abbienti la coppia sposata aveva una camera da letto sua e i cassoni diventavano parte integrante del mobilio; in essi era custodita la biancheria personale e da casa degli sposi. Gli uomini dovevano provvedere agli ornamenti delle proprie spose (capi di abbigliamento, gioielli ecc.).
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Testamenti
Per quanto escluse dall’asse ereditario, limitate nel campo degli offici, dei me stieri e degli studi, non certo era loro negata la dignità di “libere cittadine”, cioè lo stato giu ridico di persone di condizione libera e quindi in grado di disporre dei loro beni, con o senza il beneplacito del marito; se poi erano vedove potevano fruire di maggiore autonomia gestionale e amministrativa. Una quantità sterminata di atti privati mostra le donne attive in contratti dei generi più diversi (compre, vendite, locazioni… e anche società commerciali …),
quindi le donne potevano disporre di beni immobili e mobili. Tra i tanti atti privati un genere brilla per la sua peculiarità: si tratta dei testamenti che uomini e donne di solito dettavano ai notai per sistemare “il mondo delle loro cose” e proiettarsi in quello dell’Aldilà. I nostri archivi sono ricchissimi di tali documenti ed attraverso di essi anche le donne s’impongono per la loro capacità di decidere la destinazione dei beni fruiti in terra. Esse mostrano, in linea di massima, rispetto agli uomini, una forma di religiosità più concreta, fatta di persone e non di sole istituzioni, lasciando trapelare una sorta di solidarietà femminile. Comunque i testamenti sia degli uomini che delle donne palesano attenzione per parenti e congiunti vari, amici, conoscenti, e tutta una varietà di chiese, monasteri, conventi e specifici religiosi.
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Gerarchie ecclesiastiche Come è noto le donne sono state escluse dal sacerdo zio. Le motivazioni di tale esclusione sono molteplici; ad esempio: nessuna di loro era nel gruppo dei Dodici Apostoli all’atto dell’istituzio ne dell’Eucarestia. Tuttavia ciò non significò che esse non potessero essere partecipi di varie forme e manifestazioni di vita religiosa [cfr. Finestre 5, 6, 7, 8]. Una volta stabilito e consolidato il non-accesso delle donne al sacerdozio ne conseguì (e ne consegue) che tutta la gerarchia ecclesiastica fu ed è declinata al maschile: papi, cardinali, vescovi e prelati vari erano e sono tutti uomini. Ma proprio nel cuore del pieno Medioevo (secc. XIII-XIV) circolò una storia immaginaria che ha ideato la figura della papessa Giovanna. In breve. Intorno all’anno 850 una donna di ascendenza inglese, ma nativa di Magonza, seguì il suo amante, dedito agli studi, fino a Roma; avendo ella stessa acquisito gli strumenti del sapere riuscì a infiltrarsi nella gerarchia curiale romana al punto da essere eletta papa. Il suo pontificato sarebbe durato due anni e si sarebbe vergognosamente concluso con la messa al mondo di un bambino durante una processione per le strade di Roma. Questa storia immaginario-leggendaria ebbe “successo” fino al XVI secolo: forse perché sottendeva aspirazioni sommerse? Forse per mettere in luce critica l’istituzione del papato? La Chiesa temporalizzata? Forse serviva a far discutere circa la legittimità dell’elezione papale a seguito del Grande Scisma (1378-1417)? Nella figura della papessa Giovanna si vide anche la Grande Meretrice di Babilonia (Gv, Apocalisse 17) dandole, quindi, una connotazione apocalittica. La storia si nutre anche di figure immaginarie il cui
successo si protrae nel tempo, si pensi al film del 2009. Attenzione! Immaginario chiama immaginario e così comparve anche il mito della sedia per la verifica della virilità dei papi. Una sedia simile esiste; quando un papa prendeva possesso della sua Cattedra romana, in San Giovanni in Laterano, si sedeva tradizionalmente su due sedie di porfido (la pietra degli imperatori, assimilata alla porpora), con la seduta dispiegata a ciambella. Il motivo di questi fori è oggetto di discussione, ma poiché entrambe le sedie, di età costantiniana, sono più vecchie di secoli della storia della papessa Giovanna, esse non possono avere niente a che fare con una verifica del sesso del papa.
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Monaci e monache Il monachesimo be nedettino dominò l’intera Europa occidentale e non si trattò solo di grandi e potenti abbazie o monasteri riservati agli uomini – i monaci, appunto – ma anche di una nutrita quantità di insediamenti religiosi femminili riservati
alle donne, monache appunto! [cfr. “Dall’abbazia al convento”, Calendario dell’Avvento 2011]. In un mare di monaci e monache si stagliano figure di spicco per varie qualità. Bernardo di Chiaravalle (1090/91-1153)si impegnò per il rinnovamento del monachesimo benedettino nell’ambito dell’Ordine Cistercense; si batté, infatti, per il rispetto della Regola di san Benedetto secondo principi improntati a semplicità e povertà. Fondò monasteri in Francia (Clairvaux = Chiara Valle) e in Italia (Chiaravalle nel milanese). Fu mistico, tutto teso all’amore Nel mondo medievale popolato di monaci e monache non manca una celebre love-story: è quella di Abelardo (1079 circa-1142) e di Eloisa (1100 circa-1164). Lui, maturo maestro teologo, seduce la giovane Eloisa nipote di un canonico; lo scenario è la Parigi del XII secolo quando la città diviene anche vitale centro culturale, dotata di scuole. Abelardo intendeva sposare Eloisa rimasta incinta, ma ciò gli fu drasticamente impedito dallo zio della fanciulla che lo fece evirare. Abelardo peregrinò di monastero in monastero e morì in un priorato dell’ordine di Cluny. Eloisa visse da badessa nel monastero del Paraclito, costruito per lei dallo stesso Abelardo. La storia non ebbe il felice epilogo del “vissero felici e contenti”, ma la loro relazione affettiva non ebbe fine ed è rimasta affidata a un Epistolario a tutt’oggi oggetto di studi e ricerche.
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Perché nel Medioevo – e oltre – vi fu un gran numero di monache e religiose varie? Perché il destino di una ragazza medievale, e non solo, era quello di divenire sposa o di un uomo o di Cristo. Condizioni diverse da quella coniugale e monacale non davano, in linea di massima, alle donne alcun riconoscimento sociale! Del resto la vita religiosa poteva essere preferita a quella coniugale per vocazione, da un lato, ma anche per sfuggire a un pesante destino, quello della cosiddetta “buona moglie”, dall’altro.
verso Dio, promotore del culto della Vergine2 e della devozione delle Piaghe di Gesù, ma anche uomo d’azione: dette slancio all’organizzazione dell’ordine dei Templari; incoraggiò la Seconda Crociata; predicò contro gli eretici. Numerosi i suoi scritti e i suoi sermoni. Ildegarda di Bingen (1098-1179), monaca benedettina tedesca, fondatrice di monasteri lungo la Valle del Reno, mistica, profetessa,
dotata di visioni divine, è autrice di un’imponente mole di opere che rivelano un sapere enciclopedico: ella, oltre a libri di teologia e di mistica, compose anche opere di medicina e di scienze naturali. Numerose sono anche le lettere – circa quattrocento – che indirizzò a persone semplici, a comunità religiose, a papi, vescovi e autorità civili del suo tempo, tra cui l’imperatore Federico I Barbarossa. Fu anche compositrice di musica sacra. Il corpus dei suoi scritti, per quantità, qualità e varietà di interessi, non ha paragoni con alcun’altra autrice del Medioevo. Fu un raro caso di donna autorizzata a predicare in pubblico; si impegnò a promuovere la riforma della Chiesa contribuendo a migliorare la disciplina e la vita del clero. È stata proclamata Dottore della Chiesa e santa da Benedetto XVI il 7 ottobre 2012. Herrada, abbadessa del monastero di Hohenburg in Alsazia (1125/30 circa - 1195), è la compilatrice dell’Hortus deliciarum, uno scritto di carattere enciclopedico, costruito come raccolta di testi tratti dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali (e anche da autori latini profani) relativi alle varie discipline sacre e profane. Herrada vi aggiunse poesie che in parte ella stessa dettò in esaltazione del Redentore, rivestendole di note musicali. Il prezioso manoscritto dell’Hortus, ricco di centinaia di illustrazioni, fu distrutto nell’incendio della biblioteca di Strasburgo (1870); il testo è stato ricostruito e pubblicato in base a precise copie precedentemente realizzate.
_ 2. Il Canto XXXIII del Paradiso si apre con la preghiera che il Santo rivolge alla Vergine Maria (vv. 1-45) perché Dante possa vedere Dio: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti si’, che ‘l suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 1-6).
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Frati e suore A partire dal Duecento tutta l’Europa occidentale andò popolandosi di nuove presenze religiose: non più solo i monaci e le monache, ma tutto un universo molteplice di frati e suore, ciò fu dovuto all’apparire degli or dini Mendicanti [cfr. “Dall’abbazia al Convento”, Calendario dell’Avvento 2011]. Se sul fronte francescano brillano le grandi figure di Francesco e Chiara d’Assisi, universalmente note, sul fronte domenicano si stagliano le personalità di Domenico di Guzman (1170-1221), fondatore dell’Ordine, e di Diana degli Andalò. Questa nacque, nei primi anni del sec. XIII, da nobile e potente famiglia bolognese; già sensibile alla predicazione domenicana, quando Domenico giunse a Bologna (estate 1219), approvò la sua idea di entrare nell’Ordine dei Predicatori e accolse la sua promessa insieme con quella di altre quattro giovani dame di potenti famiglie bolognesi. Ostacoli furono frapposti dalla famiglia, che arrivò anche a segregarla per un anno. Domenico le inviò delle lettere per consolarla, oggi perdute. Dopo vicissitudini varie, Diana riuscì a portare a compimento il suo proposito di dar vita a una comunità monastica; nel 1222 fondò il monastero di S. Agnese di Bologna dove visse tutta la vita (morì nel 1236) e di cui fu superiora. Nell’ambito agostiniano spiccano Nicola da Tolentino (1245-1305) e Chiara da Montefal-
co (1268-1308). Il primo ancora adolescente entrò nell’Ordine Agostiniano. La sua caratteristica è quella di un religioso semplice, molto caritatevole verso i suoi confratelli e verso il popolo di Dio. Con molta sollecitudine visitava gli infermi e gli indigenti, e molto volentieri chiedeva l’elemosina per la sua comunità. Notevolmente efficace come predicatore, era particolarmente ricercato come direttore spirituale. Si distinse per lo spirito di preghiera e di penitenza, come anche per la sua carità per le anime del purgatorio. La seconda nacque a Montefalco e lì trascorse tutta la sua vita. La fama della sua santità, delle sue prerogative taumaturgiche (le si attribuivano, infatti, moltissime guarigioni), delle sue capacità di percezione dei segreti del cuore umano (si diceva che fosse in grado di intuire i peccati dei suoi interlocutori senza che questi glieli rivelassero) e, infine, la fama delle sue visioni profetiche si diffusero tanto rapidamente, che molti erano coloro che esprimevano il desiderio di incontrarla. Fra questi vi furono personaggi di rilievo nella vita politica e religiosa del tempo che pare apprezzassero in lei, benché illicterata, la straordinaria capacità di interpretare le Scritture. Minata dall’eccessivo rigore della sua vita, Chiara morì, appena quarantenne, nel monastero della Croce a Montefalco. Si diffuse la voce che una suora, predisponendo il corpo alla venerazione dei fedeli, avesse visto nel cuore della defunta i simboli della passione di Cristo. La miracolosa scoperta venne messa in relazione con una frase, più volte ripetuta dalla Santa durante la sua agonia, ed esprimente la certezza di portare la croce nel cuore.
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Conversi e oblati L’universo religioso medievale fu po polato anche da un “sottobosco” di personaggi detti oblati (dal latino offerre = offrire) o conversi (dal latino convertere = convertire); si trattava di uomini e donne liberi che, spinti da sentimento religioso o da qualche necessità, si appoggiavano alle più diverse istituzioni religiose, ecclesiastiche, caritativo-assistenziali legandosi a esse con una specifica promessa e ricevendone protezione. Indossavano un abito religioso e si possono includere – insieme a penitenti ed eremiti vari – [cfr. Finestra 8] nella denominazione di laicus religiosus (= laico-religioso), coniata nel XIII secolo da Enrico da Susa (1210-1271), cardinale di Ostia, per indicare quegli uomini e quelle donne che vivevano la propria vocazione cristiana senza abbandonare lo status laicale, consacrandosi a Dio senza necessariamente abbracciare una regola. In ambito monastico benedettino riformato (Camaldolesi, Cistercensi, Vallombrosani) i conversi, distinti e separati dai monaci, trovarono spazio e a loro erano in genere demandati quei lavori che assicuravano la sussistenza della comunità. La loro opera fu notevole presso gli ospedali più vari, ivi inclusi i lebbrosari [circa gli ospedali cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2010, 2012],
dove forse fungevano anche da personale “infermieristico”. Quando fiorirono gli Ordini Mendicanti anch’essi “inglobarono” conversi/oblati come, ad esempio, l’Ordine di S. Domenico che fu molto aperto ad accoglierli. Non è infrequente trovarli presso monasteri sia maschili che femminili, conventi, canoniche, vescovati, chiese, eremi e perfino ponti, “conversi pontieri”! Si trattava sovente di singoli individui (uomini e donne) che donavano se stessi e i propri beni all’ente di riferimento, ma poteva trattarsi anche di coppie: marito e moglie o di altre soluzioni parentali. Si stabiliva un rapporto di mutua “convenienza”: i conversi/oblati trovavano uno spazio protetto,
sostegno e una vita “dignitosa”, gli enti, dal canto loro, avevano a disposizione personaggi su cui poter contare per varie necessità.
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Penitenti, reclusi e confraternite Oltre al vitale mondo dei con versi e degli oblati con le loro varie afferenze, il Medioevo religioso vede i laici attivi in altre molteplici soluzioni. L’Ordine della Penitenza-Terz’Ordine francescano (ufficialmente dal 1289) e gli altri Terzi Ordini apparsi nel tempo furono un valido spazio per uomini e donne; grazie a regole e/o norme di vita questi laici-religiosi avevano precisi orientamenti su come condurre una vita cristiana corretta improntata a preghiere, penitenze, opere di carità. Potevano vivere nelle proprie case, essere coniugati3 e attivi nelle “faccende” del mondo, ma anche nonconiugati e vivere in eremi e/o in comunità. Terziari francescani celebri sono: Pietro Pettinaio di Siena (†1289)4, che fu commerciante di pettini per telai; Angela da Foligno (1248-1309) e Margherita da Cortona (1247-1297); in ambito domenicano splende la figura di Caterina da Siena (1347-1380), che si batté per il ritorno del papa da Avignone a Roma e per la riforma della Chiesa. Le aspirazioni di vita eremitica trovarono anche una soluzione di tipo urbano nel fenomeno della reclusione volontaria [cfr. “Reclusa nella celletta”, Calendario dell’Avvento 2010], quando uomini – e molte donne – si posero a vivere singolarmente – o con poca compagnia – presso chiese, luoghi religiosi vari, ponti, porte, fonti, lungo vie nelle città e
nei loro pressi. Ne emerge un’immagine della città marcata sì da chiese, monasteri, conventi, ma anche da un microtessuto di celle e carceri dove questo genere di eremiti-reclusi (laici) vivevano in ritiro e preghiera usufruendo della pubblica beneficenza e delle elemosine dei fedeli. Ciò è apparso con evidenza, attraverso i documenti, per città, ad esempio, come Firenze, Perugia, Pisa, Viterbo, Siena … La vita religiosa dei laici trovò il suo massimo spazio nelle associazioni confraternali [per la loro varietà, i loro scopi, la loro natura ecc. cfr. “Confraternite” in Calendario del l’Avvento 2006] diffuse capillarmente ovun que e che sovente contavano un cospicuo numero di aderenti. Poteva trattarsi di confraternite esclusivamente maschili, talvolta anche esclusivamente femminili, come quelle di devozione alla Vergine; spesso si trattava di confraternite miste quindi comprensive di uomini e donne. Due casi opposti sono la Misericordia di Perugia, esclusivamente maschile, e la Misericordia di Bergamo che vanta un ramo femminile notevolmente numeroso.
_ 3. Una coppia di Penitenti furono, a Poggibonsi, il beato Lucchese e sua moglie Bonadonna, nella prima metà del sec. XIII. 4. Viene citato nella Divina Commedia da Sapìa Salvani, che nel tredicesimo canto del Purgatorio afferma di esser stata aiutata dalle sante orazioni di Pietro Pettinaio: « ...e ancor non sarebbe lo mio dover per penitenza scemo se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe Pier Pettinaio in sue sante orazioni, a cui di me per caritate increbbe» (Canto XIII del Purgatorio, vv. 125-129).
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Cavalieri Quando si parla di “signori” nel Medioevo, specie italiano, non si deve necessariamente pensare all’alta nobiltà costituita da principi, duchi, conti, marchesi, come ci ha abituato l’immaginario della letteratura filmica e non solo, ma a una “folla” di milites, cioè di uomini d’arme le cui famiglie vivevano sulla base di più o meno estese proprietà terriere sulle quali magari potevano aver edificato castelli. Chiara d’Assisi proveniva proprio da una di queste famiglie. [Per armi e armati nel Medioevo cfr. “Nel castello medievale”, Calendario dell’Avvento 2010]. Bisogna però distinguere tra milites e milites! Erano tutti combattenti a cavallo, e quindi tutti “cavalieri” sul piano militare, ma non tutti avevano
ricevuto la dignità cavalleresca! Sino al XII secolo essere cavaliere non significava necessariamente essere nobile, perché la nobiltà era una questione di nascita; ben presto però la dignità cavalleresca venne riservata ai figli dei cavalieri dando così vita a una classe ereditaria. Fu così che cavalleria e nobiltà tesero a fondersi e a confondersi. La cavalleria è una delle immagini classiche del Medioevo, già mitizzata dalla letteratura epica di quel tempo che faceva del cavaliere un guerriero portatore di pace, impegnato nella difesa della cristianità. Al di là del mito, la realtà era ben più dura e diversa! L’avventura cavalleresca era essenzialmente la ricerca di nuove fonti di ricchezza, ad esempio da parte dei cadetti, che ereditavano meno ricchezza e potere rispetto ai primogeniti. Si trattava di guerrieri a cavallo strategicamente importanti nelle campagne militari, tant’è vero che la fine della cavalleria fu determinata dall’invenzione delle armi da fuoco. Si diventava cavalieri dopo un lungo tirocinio. Al primo gradino vi è il paggio: impara a badare al cavallo e a combattervi sopra; al secondo gradino vi è lo scudiero: che apprende il maneggio delle armi, le regole del combattimento e porta le armi e lo scudo del suo signore; alla fine si diventava cavalieri all’età di 20-21 anni con una specifica cerimonia d’investitura detta “addobbamento” che consisteva nella consegna di speroni, dell’elsa della spada e del morso del cavallo dorati; del cinturone ar-
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ricchito di rinforzi metallici dorati anch’essi e del mantello foderato di vaio. Varie furono le autorità che nel tempo ebbero il diritto di conferire la dignità di cavaliere: sovrani, capi militari, e gli stessi comuni italiani.
La fortuna di un cavaliere
Guglielmo il Maresciallo (1145-1219), figlio cadetto, divenne cavaliere e come tale si distinse in numerosi tornei conquistando il favore dei signori, divenne così nel tempo membro prestigioso in seno all’entourage di re Enrico II d’Inghilterra. Fu tutore del re bambino Enrico III, figlio di Giovanni Senza Terra, e come reggente del regno, fu uno degli uomini dell’Occidente più potenti dell’epoca. Le sue gesta sono tramandate da una composizione letteraria, la “Chanson di Guglielmo”, redatta nel sec. XIII in lingua anglonormanna.
Santi cavalieri
San Galgano, al secolo Galgano Guidotti (1148/1152-1181), visse in Toscana nel XII secolo all’epoca delle lotte per la successione dei beni di Matilde di Canossa. Secondo i costumi dell’epoca, essendo membro della piccola aristocrazia del contado senese, fu avviato alla vita militare in qualità di cavaliere. La tradizione vuole che fosse un giovane violento, ma destinato a cambiare vita e a diventare un cavaliere di Dio come profetizzatogli da san Michele Arcangelo in persona, di cui ebbe due visioni. Nel 1180 Galgano abbraccia la vita eremitica e a suggello della sua conversione pianta la sua spada a mo’ di croce in terra e trasforma il suo mantello in un saio. Angelo da Rieti (†1258), figlio di Tancredi, fu il primo nobile cavaliere che nel 1210 seguì Francesco mentre si recava a Roma per ottenere l’approvazione del suo modo di vita.
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Donne di potere La figura di Matilde di Canossa (1045/ 1046-1115) è legata al celebre episodio del 1077 quando l’imperatore Enrico IV si recò penitente a Canossa per impetrare il perdono del papa Gregorio VII; da qui l’espressione “andare a Canossa” per indicare l’umiliazione di chi è costretto a pentirsi e ravvedersi. L’episodio s’inserisce nell’ambito della “lotta delle investiture” dei secoli XI e XII che vide
Papato e Impero contrapposti a motivo della nomina dei vescovi. Ma la stessa “lotta delle investiture” rientrava nel più vasto progetto di “riforma della Chiesa” volto alla moralizzazione del clero, all’eliminazione della simonia, a evitare l’ingerenza dei laici sulle cariche che avrebbero dovuto essere di esclusiva pertinenza ecclesiastica. Contessa di città come Modena, Reggio Emilia, Mantova, Brescia, Ferrara, il titolo più prestigioso che ebbe fu quello di marchesa di Toscana. La vastità dei domini territoriali e la dignità dei titoli, di cui rimase unica erede, conferirono a Matilde un’autorevolezza che esercitò, ad esempio, amministrando la giustizia, organizzando eserciti, fondando monasteri. Tra il Papato e l’Impero in lot-
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ta tra loro, ella operò una decisa scelta di campo schierandosi attivamente dalla parte dei pontefici riformatori da Gregorio VII (1073-1085) fino a Pasquale II (1099-1118). Matilde morì a Bondeno di Roncore il 24 luglio 1115. Fu sepolta, come voleva, nella chiesa abbaziale di S. Benedetto in Polirone, dove il suo corpo rimase sino al 1632, quando fu venduto dall’abate Andreasi a papa Urbano VIII e da questo trasferito in un sontuoso monumento in S. Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini.
Eleonora d’Aquitania (1124-1204) visse 80 anni e fu protagonista della politica del suo tempo; prima moglie di Luigi VII di Francia, poi di Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra, madre, tra gli altri, di Riccardo Cuor di Leone e di Giovanni Senza Terra, condizionò il regno di Francia e quello d’Inghilterra. Insieme a Luigi VII partecipò alla Seconda Crociata (11471148) dove palesò la volontà d’intervenire anche in decisioni militari cercando di evitare l’assedio di Damasco.
Varietà di mestieri La varietà dei mestieri nelle città italiane ed europee era infinita! Alcuni lavori si connotano per essere praticati esclusivamente da uomini, altri solo da donne, altri ancora da uomini e donne. Macellai, fabbri, maniscalchi, tintori, cuoiai, falegnami, carpentieri, muratori, calzolai, calzaioli, notai, medici, salaioli, cambiatori, marinai, segantini, bottai, canapai, vasai, vetrai… erano attività declinate quasi esclusivamente al maschile. Nel campo dell’edilizia gli uomini ebbero una predominanza assoluta: maestri muratori, carpentieri la fanno da padroni [cfr. Calendari dell’Avvento 2006, 2007, 2013], sono loro i grandi artefici di cattedrali e palazzi, tuttavia le donne venivano impiegate come manovali nella preparazione della malta, nella copertura dei tetti e anche nella lavorazione del vetro; venivano retribuite a giornata e rappresentavano una forza lavoro più a buon mercato rispetto ai lavoratori giornalieri maschi. Tuttavia una divisione del lavoro rigida tra i sessi non vi fu; né gli uomini lasciarono completamente alle donne i campi delle attività specificatamente femminili – come la tessitura e la lavorazione delle stoffe o la produzione alimentare – né il lavoro femminile poteva limitarsi a pochi specifici settori come il lavoro di riproduzione, ostetricia, puericoltura, maternità, ricerca e preparazione del cibo, economia domestica ecc. Le donne che lavoravano erano molte e nei campi più disparati. Notevole la loro presenza nell’industria tessile (scelta delle lane, filatura, tessitura); esse potevano anche esercitare piccoli commerci porta a porta
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o in strada; potevano vendere cibi cotti, verdura, frutta e prodotti del pollaio, panni vecchi, cuffie e ornamenti. Inoltre le donne facevano le ricamatrici, le sarte, le lavandaie, le balie, le levatrici, le erboriste; nelle città marinare rammendavano le reti da pesca; negli ospedali erano tra il personale di fatica; le troviamo a far le serve nelle case dei signori e nelle terme; a fare le portiere e le campanare, a portare acqua nei cantieri. Ed è in tutti questi luoghi che possiamo incontrarle molto più spesso che non all’interno di un’organizzazione artigiana. Spesso le donne erano coinvolte nelle aziende a conduzione familiare. I poderi, gli alberghi, le botteghe, le osterie o le cartiere, erano tutti luoghi nei quali l’abitazione diveniva un tutt’uno con il luogo di lavoro e tutti i membri della famiglia, compresi dunque donne e bambini, erano coinvolti quotidianamente nelle operazioni di lavorazione e gestione. In casa si lavorava anche per l’esterno, svolgendo per esempio operazioni per conto della manifattura della lana: la filatura, l’orditura e la tessitura. In tutte queste attività l’apporto della manodopera femminile risultava decisivo e almeno in una di esse – la filatura – le forze lavorative erano prevalentemente femminili. Le donne potevano diventare maestre nei settori della tessitura e dell’abbigliamento, ma per lo più erano impiegate come aiutanti e/o lavoratrici giornaliere. Le contadine lavorano duramente nei campi, le artigiane nella bottega del marito che, talvolta, rilevano alla sua morte. Anche dentro la casa, signorile o borghese che sia, non si lasciano in ozio figlie e mogli. Vanno a costituire il nucleo degli eserciti di lavoratrici soprattutto le vedove, troppo spesso minacciate dalla solitudine e dalla miseria. Anche nelle classi agiate della società medievale la vedovanza minaccia le donne di un rapido declassamento, per cui precipitano nella povertà quando non possono ottenere dagli eredi del marito il rispetto dei loro diritti, cioè la restituzione della dote. Il lavoro nelle città italiane era organizzato soprattutto in corporazioni/arti che avevano il compito di tutelare gli interessi di chi esercitava una stessa attività economica. Nella documentazione delle Arti delle città italiane le donne non si incontrano quasi mai: quando emergono nomi femminili è probabile che esse siano vedove che assumevano i diritti del marito od orfane di artigiani che, come i loro fratelli, potevano ereditare l’arte dal padre e continuavano a esercitarla o a farla esercitare ad altri.
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Il contadino e la contadina Contadino: antica mente valeva uomo del contado, ma nel senso di abitatore di esso; poi si restrinse a designare colui che lavora la terra. Infatti quando si dice “contadini” si allude al mondo dei lavoratori della terra. Per un lungo periodo dell’età medievale i contadini sovente non erano uomini liberi, ma servi con tutta una serie di vincoli e obblighi che li legavano alla terra e ai proprietari di essa (signori); con il tempo (sec. XIII) le varie forme di servitù tesero a scomparire e i lavoratori della terra conquistarono anch’essi la dignità di “liberi cittadini”; ma la conquista di una condizione giuridica libera non portava necessariamente con sé un miglioramento delle condizioni economiche di vita. Con l’avanzare del Medioevo – ormai “conquistata” la condizione giuridica di “liberi” – i contadini,
cioè gli agricoltori, potevano essere o proprietari o affittuari e mezzadri; in quest’ultimo caso erano tenuti a spartire con il proprietario – aristocratico o borghese che fosse – i prodotti ricavati dal lavoro della terra. Si poteva essere semplicemente salariati agricoli con una scarsa retribuzione e occupazione precaria. Per quanto liberi, la vita e il lavoro dei contadini sono rimasti sempre duri! Le loro misere condizioni di vita sono così descritte da Goffredo de Troyes5: I contadini che lavorano per tutti – scrive – che si stancano continuamente, con tutte le stagioni, che si danno ai lavori servili disprezzati dai padroni, sono oppressi incessantemente, e questo per provvedere alla vita, ai vestiti, alle frivolezze degli altri. Sono perseguitati dall’incendio, dalla rapina, dalla spada; sono gettati nelle prigioni e in catene, poi costretti al riscatto, oppure si fanno morire violentemente di fame, si infliggono loro ogni genere di supplizi. La donna è nel mondo contadino, in fatto di lavoro, quasi l’equivalente, se non l’uguale, dell’uomo! La donna affiancava il marito nel lavoro dei campi specie in certi periodi,
_ 5. Goffredo di Villehardouin (Castello di Villehardouin, 1160 – Messinopoli, 1213) partecipò alla conquista di Costantinopoli nel corso della Quarta Crociata e alla formazione dell’Impero Latino con Baldovino VIII di Fiandra. Goffredo nacque nel castello di Villehardouin, sito a circa 30 km ad est della città di Troyes, fra Arcis-sur-Aube e Bar-sur-Aube, nell’attuale dipartimento dell’Aube.
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ad esempio, di raccolta; se l’aratura e la semina erano occupazioni principalmente maschili, la raccolta di cereali ed erbaggi era svolta da entrambi così come la vendemmia; a lei competeva la cura dell’orto; e a lei spettavano lavori tessili in casa (filatura, dipanatura e tessitura di lana e lino) e a lei competevano tutte le attività domestiche quali potevano essere l’app rovvigionamento dell’acqua e della legna, la stacciatura della farina, la preparazione e cottura del pane, la cura degli animali da cortile (pollaio e porcile); la cura della famiglia e dei bambini, “guardare i bambini”; fare il bucato… Se tu sposi un contadino, mai donna sarà più infelice: ti farà filare, frantumare il lino, stigliare la canapa, battere i panni e cavare le barbabietole. Il breve racconto in versi Il massaro Helmbrecht,
composto da Wernher der Gartenaere nella seconda metà del XIII secolo, è forse l’opera tedesca più rappresentativa del suo tempo e dei grandi mutamenti politici, economici e sociali che l’hanno caratterizzato. Protagonista è un giovane contadino che, per la sua smisurata ambizione e insofferenza della vita dei campi, diventa cavaliere predone e sconta con una morte orrenda i suoi crimini e la sua prima colpa: aver infranto l’ordine della società medievale, rifiutando il ruolo che gli era stato assegnato dalla nascita. L’opera offre un quadro critico del suo tempo – decadenza della cavalleria, volontà di ascesa e di ricchezza dei contadini, dissoluzione dell’ordine sociale – discostandosi dalle immagini ideali della letteratura cortese verso una rappresentazione più concreta, quasi naturalistica, della realtà. Il disprezzo per i contadini/villani fu una costante, tant’è che ancora oggi si usa la parola “villano” in senso dispregiativo e volutamente offensivo.
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Servi/e, Schiavi/e e apprendisti/e In origine il termine famiglia/familia non indicava la esclusiva discendenza di san gue, quanto piut tosto un insieme di persone rispondenti a un “capofamiglia”, ivi incluso il vasto mondo dei servi-schiavi [cfr. Finestra 1]. Il Medioevo segnò per questo universo di lavoratori il progressivo superamento della schiavitù in senso stretto, per passare a vari stati di servitù e/o servaggio, cioè a tutta
una rete di rapporti-legami limitanti, condizionanti e tali da richiedere tutta una serie di prestazioni e servizi. Fu nel corso del sec. XIII che, attraverso le affrancazioni, questi lavoratori pervennero alla condizione di liberi cittadini, cioè ottennero la condizione giuridica di liberi; semplificando si può dire che si passò dall’antica condizione schiavile a quella servile e da questa a quella di libere persone. Ciò non significò la totale sparizione della schiavitù, questa, non più autoctona, ma di tratta, cioè legata alle correnti commerciali che attraversavano il Mediterraneo: schiavi barbareschi, turchi, caucasici, tartari, “greci” cominciarono a comparire nel XIII secolo nelle grandi metropoli di Spagna e
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di Italia; prima come oggetti di lusso destinati a rialzare con un tono di esotismo lo stile di vita dei patrizi; più numerosi dal XIV secolo, furono poi normalmente usati per funzioni domestiche e artigianali. Servi e serve, famuli e famule, attivi nelle case dei ceti cittadini potevano trovarsi a condividere la pesantezza del lavoro quotidiano con gli schiavi/e. Se forse alle schiave venivano affidati i lavori più pesanti, è anche possibile che non vi fosse una ripartizione rigida dei ruoli. Cucinare, fare il bucato, rassettare la casa, procurare legna e acqua, alimentare il fuoco, badare ai bambini, fare commissioni, accompagnare la padrona erano gesti che probabilmente riempivano le giornate sia delle serve che delle schiave. La durezza della vita e del lavoro nonché umiliazioni e soprusi accomunavano, per certi versi, serve e schiave. La differenza sta nel fatto che le prime erano donne di condizione libera, ma povere, sia che fossero cittadine o che pro-
venissero dalla campagna, per cui dovevano ripiegare su di un lavoro modesto, retribuito sì, però poco e male! In qualche modo tuttavia questi collaboratori domestici erano parte della famiglia: lasciti testamentari, infatti, palesano talvolta una certa attenzione rivolta loro. Il caso di santa Zita di Lucca (1218-1278) è rivelatore di quanto fosse diffusa la categoria sociale dei servi domestici. Proveniente dal contado lucchese, fin da dodicenne fu avviata a questo lavoro che svolse sempre presso un’importante famiglia della città, dove visse in castità, umiltà e devota penitenza; praticava anche la misericordia verso i poveri, pur non disponendo di mezzi personali, ricorrendo a “santi furti” che interventi prodigiosi provvedevano a riparare. La figura di Zita si staglia come esempio di onestà e moralità in rapporto a una categoria che non godeva di buona fama. La famiglia presso la quale lavorò e visse si fece promotrice del suo culto. Le case-botteghe degli artigiani accoglievano
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anche gli apprendisti, ragazzi e ragazze collocati, tramite una qualche forma contrattuale, a vivere e a prestare mano d’opera – nonché servizi vari – nelle abitazioni dei “maestri” presso i quali avrebbero dovuto imparare “l’arte”. Po-
teva accadere che la famiglia che collocava il/ la giovane in apprendistato pagasse una qualche retta a quella del “maestro”; da parte sua il “maestro” avrebbe dovuto provvedere a vitto, alloggio e quant’altro dell’apprendista.
Il mercante e sua moglie Quando si pensa a un mercante [cfr. “Mercanti”, Calendario del l’Avvento 2006] nel la società italiana medievale si pensa a Francesco di Marco Datini di Prato (1335-1410) che fece la sua fortuna ad Avignone dove costituì una compagnia individuale. Tornò a Prato nei primi anni 80 del Trecento. Quand’era ormai in età matura, più che quarantenne, sicuro dei ri-
sultati conseguiti, si decise al matrimonio e la scelta della sposa cadde sulla fiorentina Margherita di Domenico Bandini, di quasi venticinque anni più giovane. La riuscita del matrimonio, celebrato con molto sfarzo, fu indubbia, anche se Margherita non diede figli al Datini. I rapporti fra i coniugi, sia per le frequenti assenze del mercante, sia per l’inclinazione a quegli amori ancillari consueti nel suo mondo, furono spesso burrascosi, ma la profonda intesa che li unì emerge – è il caso di dire – a chiare lettere dalla corrispondenza che frequentemente si scambiarono e che si è in larga parte conservata: è sulla base di questi documenti che è stato possibi-
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le ricostruire, con notevoli approfondimenti psicologici, un quadro della vita matrimoniale dell’epoca, oltre a un profilo del Datini “intimo”. La loro corrispondenza, ricca di notazioni ispirate al buon senso comune, punteggia gran parte dei 34 anni di una vita matrimoniale nel corso della quale gli episodi salienti (le assenze del Datini, la tragica successione della morte dei più fedeli collaboratori, i timori per la peste) videro i due sposi sempre affettuosamente legati e solidali, con una forte propensione del Datini ad affidare alla moglie, nell’ambito della vita domestica, un ruolo di “padrona” che appare tutt’altro che insignificante. E d’altronde Margherita (che sopravvisse al marito e venne a morte a Firenze nell’anno 1423) condivise fino in fondo questo “senso della famiglia” che il Datini avvertiva assai forte. Accolse, ad esempio, nella sua casa una figlia naturale, Ginevra, che il Datini aveva avuto da una schiava. Il Datini realizzò un sistema di aziende e
istituì una varietà di compagnie tra l’Italia e l’Oltralpe creando fondaci in varie città; a Prato il Datini dette vita all’industria laniera. Mise insieme una fortuna di 100.000 fiorini che destinò in gran parte per l’istituzione pratese del Ceppo dei poveri di Cristo. La destinazione ai poveri della fortuna accumulata in oltre sessant’anni di ininterrotto impegno mercantesco può esser forse letta nella chiave di un estremo atto contabile, volto a regolare il rapporto con l’Aldilà, ma se si pensa, ad esempio, al tragico succedersi delle pesti, l’ipotesi di un’intima, profonda conversione appare tutt’altro che improponibile. Nel Medioevo, attivo di commerci, le donne ebbero loro spazi in specie nel piccolo commercio al dettaglio – bottegaie, merciaie … – ma non mancò neppure la loro presenza nel grande commercio: ad esempio, in città italiane ed europee, appaiono anch’esse far parte di società di commercio.
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Proprietari/e, poveri/e Uomini e donne liberi godevano pieni diritti di proprietà. Lo studio degli atti giuridici prova che per quanto riguarda la gestione dei beni della coppia, la situazione della donna è peggiorata dal XII e XIII secolo. In un primo tempo con il matrimonio la donna entrava in quota-parte dei beni del marito (terza/ quarta) [cfr. Finestra 2] e quindi erano frequenti atti in cui marito e moglie agivano insieme; poi la donna non entrerà più in parte dei beni del marito per favorire la linea agnatizia e non disperdere
i beni di famiglia; non rientrerà neppure nell’asse ereditario di famiglia (padre, madre, fratelli…) perché da ciò sarà esclusa a motivo della dote che è quanto legalmente le spetta. Tuttavia la documentazione del pieno e avanzato Medioevo rivela molte donne in azione, in grado di vendere, comprare, stabilire contratti vari, fare testamento… e spesso da sole, ciò vuol dire che erano in possesso di beni di cui poter disporre. Come erano entrate in possesso di beni? Anche se ufficialmente escluse dall’asse ereditario, poteva comunque accadere che mancassero figli maschi e quindi il loro posto veniva preso dalle figlie femmine; inoltre i beni potevano essere acquisiti attraverso vari lasciti di madri, padri, fratelli, congiunti e/o conoscenti vari… e forse anche attraverso l’esercizio di una qualche attività lavora-
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tiva… ; le vedove poi talvolta erano eredi del marito, talaltra fidecommissarie dello stesso e dallo stesso potevano essere designate destinatarie di lasciti vari. Un bell’esempio di donna, vedova, in grado di gestire il patrimonio familiare è quello di Alessandra Macinghi Strozzi (1406-1471). La raccolta delle sue lettere contiene molte testimonianze relative ai rapporti della Macinghi con gli uffici del Fisco, e consentono di ricostruire con precisione i vari passaggi seguiti nella conduzione dei beni e i criteri che la stessa intese adottare per assicurare ai figli un degno futuro nella città natale. Costretta a numerose vendite, fu l’attività svolta a Napoli dal figlio Filippo a consentire la ricostruzione del patrimonio familiare. La Macinghi vi concorse con la saggezza delle sue scelte e con la forte impronta di una educazione morale e civile di alto profilo. Le lettere rivelano anche la grande attenzione della Macinghi per tutto ciò
che accadeva nella vita politica interna a Firenze. Se il Medioevo pieno-centrale e avanzato presenta tutta una gamma vasta, variata e variegata di situazioni economico-sociali che vanno dagli alti livelli aristocratico-nobiliari a tutta una “folla” di ceti mercantili, proto-imprenditoriali, medio- produttivi, lavorativi, medio-piccoli proprietari, ceti abbienti di articolata entità collegati all’esercizio di svariate attività lavorative, non sono mai mancati i meno-abbienti e/o non-abbienti, cioè i poveri di cui il Medioevo è disseminato. Chi sono i poveri nel Medioevo? Si tratta di un mondo molto variegato che va dai miserabili ai poveri vergognosi, dai carcerati agli storpi. Come si sopperiva alla povertà? Con l’elemosina e il fiorire di istituzioni caritativoassistenziali come le confraternite, che non solo elargivano elemosine, ma gestivano ospedali e ospizi di accoglienza.
Il mondo della tessitura e dell'abbigliamento Intorno all’universo di vesti e ornamenti ruotava nella città medievale una mi riade di artigiani: assortitori di lana, borsai, berrettai, calzaioli, canapai, cimatori, cinturai, conciatori, cucitori di borse, cuoiai, farsettai, fibbiai, filatrici, guantai, lanaioli, merciai, orafi, pannaioli, pellicciai, pettinatori di lana, pianellai, ricamatori, sarti, scarsellai, setaioli, tessitori, tintori, tiratori di panni, torcitori di refe, zoccolai e via dicendo [cfr. Calendario dell’Avvento 2006]. Nella produzione tessile le donne furono vastamente impiegate fin dai ginecei dell’alto Medioevo, dove
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le donne del castello si affaccendavano sotto la direzione della moglie del signore: si fila, si tesse, si approntano le fibre. In particolare la filatura competeva pressoché esclusivamente a maestranze femminili. Il ricamo e la filatura erano attività svolte frequentemente dalle donne: «l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio» (Boccaccio, Decameron, Proemio) erano inseparabili compagni delle donne medievali per contrastare malinconia e ozio. I ricamatori più famosi, vale a dire quelli che lavoravano per le principali corti d’Italia e d’Europa, erano solitamente uomini; e mentre quest’ultimi erano specializzati nell’operare con fili d’oro e d’argento, le donne maneggiavano fili di seta per arricchire non solo vesti, ma anche paliotti e gonfaloni. Per ottenere fili d’oro e d’argento erano necessarie numerose operazioni. La prima era svolta da uomini (i battiloro) che fondevano il materiale prezioso, verghe d’argento e monete, e ne ricavavano, a forza di martellate, foglie di metallo che unite insieme formavano delle lastre. Queste, a loro
volta, venivano assottigliate fino a ottenerne foglie sottilissime che venivano inviate alla filatura. A questo punto intervenivano le donne che con forbici lunghe e taglienti riducevano le foglie in strisce sottilissime e le avvolgevano intorno a un filo di seta giallo, ottenendo un filo che alla vista era tutto d’oro, lucido e brillante, pronto per eseguire i ricami. Tra i ricami medievali più famosi, l’arazzo di Bayeux, opera che celebra la conquista normanna dell’Inghilterra, fu realizzato da ricamatrici anglosassoni, probabilmente a Canterbury, tra il 1066 e il 1082. In pieno Quattrocento ricamatori e ricamatrici furono impiegati a Ferrara per gli arazzi voluti dal duca Borso d’Este (1450-1471); il lavoro delle ricamatrici era sottoposto a quello dei ricamatori e diversamente retribuito (esse lavoravano a cottimo). Nel settore della manifattura tessile si trovano casi di intraprendenza femminile come in città quali Lucca, Londra, Parigi, Colonia; in città come Colonia e Parigi esistevano anche delle corporazioni esclusivamente femminili.
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Tavernieri e albergatori Nel Medioevo l’in cremento dei traffici commerciali e l’af fiancarsi quindi di altre classi di viaggiatori a quella tipica dei pellegrini [cfr. Calendario dell’Avvento 2012] aveva reso insufficiente il sistema altomedievale degli hospitia istituiti da chiese e monasteri e ciò fece sì che si sviluppasse un altro genere di accoglienza non più caritativo, ma a pagamento con personale di mestiere (osti, tavernieri, albergatori) che dava alloggio e a volte vitto al viaggiatore. Le città si popolarono di alberghi e taverne la cui attività era regolamentata da apposite norme
statutarie tese a evitare che divenissero dei postriboli, che si facessero giochi d’azzardo (dadi), che scoppiassero risse e incidenti vari a motivo di ubriachezza, e si ordinava che fossero chiuse dopo la terza ora di notte. Tavernieri e albergatori si costituirono anch’essi in corporazioni [cfr. “Corporazioni” in Ca lendario dell’Avvento 2006]; queste avevano un ruolo rilevante ad esempio a Padova e Torino e di scarsa portata a Milano, Brescia, Cremona e Modena; l’attività poteva essere esercitata anche da donne, da sole o con i mariti. In particolare a Siena, nel 1288, si contavano ben 90 albergatori. Nelle campagne si potevano incontrare luoghi di sosta, più modesti, che svolgevano funzioni polivalenti: fungevano da taverne per gli abitanti del luogo, ma potevano offrire un pasto caldo e un letto a chi era di passaggio nonché ricoverare i mezzi di trasporto dell’epoca (asini, muli, cavalli). Oltre a bere il vino, nelle taverne, appunto, si poteva mangiare e in ta luni casi erano gli stessi macellai che aprivano una taverna e offrivano ai propri clienti le carni da loro stessi macellate. Così era, ad esem pio, a Parigi e a Pisa, dove, fino al calare del Trecento il termine tabernarius indicava il macellaio.
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Mestieri alimentari
Numerosi e sparsi nella città per rispondere ai bisogni della clientela, i mestieri legati all’alimentazione co stituiscono un settore vitale dell’economia cittadina; in questo ambito le donne sono notevolmente presenti. Il pane [cfr. “Fornai” in Calendario dell’Avvento 2006] è senza dubbio l’alimento essenziale e quotidiano: se in campagna ogni famiglia contadina faceva il pane e andava a cuocerlo nel forno di qualche signore, questa pratica era vietata nella maggior parte delle città dove la produzione del pane era monopolio di alcuni mestieri: i mugnai fanno la farina per i panettieri, che impastano il pane che verrà cotto
dai fornai. A Parigi gli statuti del 1305 obbligavano i fornai a cuocere il pane ogni giorno, eccetto la domenica. I fornai erano controllati dalle autorità annonarie (fuoco, igiene, scorte, prezzi) e da loro dipendeva il vettovagliamento delle città; sono considerati un’arte minore, ma assai numerosa. Al contrario di quanto si ritiene comunemente, i cittadini nel Medioevo sono grossi consumatori di carne (bovina, d’agnello, di capra, di lepre, di coniglio e di pernice e/o volatili vari). Questo è un mercato in continua crescita che fa la ricchezza dei macellai: essi, infatti, figurano in tutte le città medievali dell’Occidente tra i contribuenti più facoltosi. Benché abbiano successo, i macellai sono poco amati, invidiati per le loro ricchezze e disprezzati perché esercitano un mestiere sporco a contatto con il sangue. Alla fine del Medioevo per questioni di igiene si istituiscono i mattatoi. I macellai vendono sì la carne, ma fanno anche commercio dei
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prodotti relativi alla loro attività, come la lana, le pelli, il sego (cioè il grasso animale importante per la fabbricazione delle candele). Alcuni macellai si servivano di scuoiatori e di macellatori che ricevevano un compenso per ogni capo abbattuto ed era loro vietato di appropriarsi della carne sia per il consumo personale che per la vendita. Se questi erano mestieri praticati solo da uomini, quello del pollaiolo era declinabile tanto al maschile quanto al femminile, come si può vedere nelle miniature. I pollaioli oltre ai pollami offrivano le interiora di questi e vendevano le uova. Anche nella vendita delle spezie potevano cimentarsi le donne. L’uso delle spezie nella preparazione del cibo permetteva di mascherare sapori poco gradevoli e inventare una varietà di gusti. Il mestiere del formaggiaio era tanto maschile quanto femminile. Gli obblighi religiosi fanno sì che la consumazione di pesce occupi una parte importante dell’alimentazione medievale; corpora-
zioni di pescatori sono presenti in varie città italiane: Padova, Reggio, Modena, Como, Torino … Nessuna meraviglia! Le città lontane dal mare potevano fruire del pesce di acqua dolce! Alla vendita al minuto del pesce provvedevano i pescivendoli considerati tra le arti medio-inferiori. A Roma vi era uno specifico mercato ittico attestato già dalla fine del sec. XII; la zona era quella della chiesa di S. Angelo detta per questo motivo “in Pescheria”; il pesce veniva esposto e venduto al pubblico su pietre raramente di proprietà dei pescivendoli, mentre a Perugia, Bologna e Verona la corporazione di questi era proprietaria delle strutture di vendita. La gamma dei mestieri alimentari è quasi inesauribile: ortolani, fruttivendoli, erbivendoli, salaioli [cfr. Calendario dell’Avvento 2006], pizzicagnoli, lardaioli…
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MEDICI
Nel corso del Me dioevo la medicina ufficiale fu sempre, in linea di massima, esercitata da uomini [cfr. Finestra 20]. Si diventava medici professionisti frequentando apposite scuole e poi le università [cfr. Finestra 20]. Nel Duecento e Trecento erano celebri per tale corso di studi, ad
esempio in Italia, le università di Padova, Pisa, Firenze, Siena, Perugia, Roma, Napoli per non parlare di Salerno e Bologna già fiorenti nel sec. XII. A Bologna il corso di medicina si basava su i testi obbligatori di Ippocrate (460 a.C. circa -370 a.C. circa), Galeno (130 d.C. circa -200 d.C. circa), Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198). Anche la curia pontificia incoraggiò studi di medicina. Nell’Italia comunale pure i medici si organizzarono in corporazioni e in questo generale slancio corporativo appaiono le specializzazioni: medici dell’università, chirurghi, cerusici, speziali. La separazione tra medici
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Per spiegare la struttura del corpo umano e la patologia a esso connessa la medicina medievale poggiava su di un sistema quaternario. Il corpo umano era formato da quattro umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Queste sostanze, corrispondenti ai quattro elementi cosmici (aria, acqua, fuoco, terra), di cui possedevano le stesse qualità (caldo, umido, secco, freddo), erano responsabili dello stato o meno di salute dell’individuo, nonché del suo temperamento, distinto in impulsivo, flemmatico, collerico e melanconico. La condizione di armonia psichica e di sanità fisica consisteva nello stato di equilibrio di questi quattro umori, collegati a loro volta all’influenza del clima, dell’ambiente, delle stagioni, degli astri. fisici (specialisti della natura/physis) e medici chirurghi era netta. Professione di prestigio e redditizia, i medici guadagnavano molto e potevano accumulare patrimoni. L’abito stesso li distingueva: indossa-
vano mantelli foderati di vaio (pelliccia morbida e pregiata di colore grigio) e il berretto rosso. La diagnostica si basava su scarsi elementi fondamentali; ogni visita medica seguiva una sorta di rituale: osservazione dell’aspetto del malato,
Un polifarmaco diffuso era la teriaca, il cui nome deriva dal vocabolo greco therion, usato per indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere. Dotata di virtù magiche e capace di risolvere ogni tipo di male, fu prescritta ininterrottamente dai medici per 18 secoli. Fino al XII secolo fu preparata dai medici, poi nel 1233, con l’editto dell’Imperatore Federico II di Svevia, noto come “L’Ordinanza Medicinale”, si ebbe una netta separazione tra la professione medica e la professione farmaceutica, per cui ai medici fu vietata la preparazione dei farmaci. Dal XIII secolo, perciò, le preparazioni medicamentose furono affidate alla Corporazione degli Aromatari e poi agli Speziali. La migliore teriaca era quella che si preparava a Venezia, dal momento che gli speziali della Serenissima potevano utilizzare più facilmente le droghe provenienti dall’Oriente, la cui fragranza e rarità conferivano al preparato una qualità superiore. L’elemento più curioso della preparazione sono i “trocisci” di vipera, vale a dire carne di vipera femmina, non gravida, catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri, bollita in acqua di fonte salata e aromatizzata con aneto, triturata, impastata con pane secco, lavorata in forme tondeggianti della dimensione di una noce e posta a essiccare all’ombra. La teriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie che spaziavano dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani, dall’ipoacusia alla tosse.
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Uno strano caso di medico
Medici famosi
Taddeo Alderotti, fiorentino (1223-1295), dette inizio a una scuola medica che segna la rinascenza della medicina antica nello Studio bolognese e che si protrasse fino alla seconda metà del XV secolo. Fu tenuto in gran stima dai bolognesi che gli concedettero ampli privilegi; per la sua fama fu chiamato anche al capezzale di Onorio IV, durante l’ultima malattia del papa. Aldobrandino da Siena (†1287?) è celebre per il suo trattato Le Régime du corps ovvero De regimine santitatis. Esso è diviso in quattro parti principali: a) igiene generale; b) cure particolari; c) dietetica; d) fisionomia, tratti psicofisici. Dell’opera, che ebbe particolare fortuna nel Medioevo, esistono due volgarizzamenti italiani.
Arnaldo da Villanova (1240-1313), detto il “Catalano”, è stato un medico, alchimista e scrittore del XIV secolo. Fu un personaggio influente nelle corti europee dell’epoca, consigliere del re d’Aragona, del papa e del re di Sicilia. Subito dopo la sua morte, la sua personalità e i suoi studi gli conferirono fama di alchimista e mago. Nel 1305 l’inquisizione catalana proibì la lettura dei libri di Arnaldo, che spaziavano dalla medicina all’astrologia, dalla teologia all’alchimia, ecc., nei quali, con uno spirito apocalittico, il Villanova prevedeva, per la metà del XIV secolo, la fine di un’era e la venuta dell’Anticristo. Dopo la sua morte, nel 1316, i suoi libri furono confiscati e bruciati.
esame del polso, delle orine, del sangue, dello sputo. I rimedi consigliati consistevano in salassi, bagni e diete. Nel Medioevo si sviluppa la dietetica e molti medici davano appositi consigli in merito. La terapia medicamentosa poggiava in gran parte su erbe e radici, ma anche su rimedi di origine animale e vegetale. Con l’accentuarsi delle specializzazioni la preparazione dei “farmaci” spettò agli speziali [cfr. “Speziali” in Calendario dell’Avvento 2006]. Le cognizioni erano ridotte e carenti; le conoscenze anatomiche scarse (non si
praticava la dissezione) e l’efficacia delle cure era tutta da vedere come prova l’ampia richiesta di miracoli. Una professione di tipo paramedico fu quella dei barbieri ai quali competevano salassi, estrazioni di denti, incisioni di ascessi, applicazioni di mignatte, cura di ferite semplici; spesso rappresen tavano il medico della gente povera e dei piccoli villaggi di contado6.
_ 6. Per contro sembra che le donne esercitassero il mestiere di barbiere in senso stretto.
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Levatrici e curatrici Se la pratica della medicina, specie in senso accademico, fu di pertinenza maschile, tuttavia pare che non siano del tutto mancate donne-medico. C’è una Trotula leggendaria e una Trotula storica: la prima nata da nobile famiglia, i De Ruggiero, moglie del medico Giovanni Plateario e madre di due medici illustri, sarebbe stata famosa per la sua bellezza oltre che per la sua scienza e abilità diagnostica. Un dato è sicuramente documentato: le donne erano presenti e operanti nell’ambiente medico salernitano. Dal XII secolo in avanti abbiamo testimonianza di un nutrito numero di donne esperte nell’arte di Ippocrate: Abella, Rebecca Guarna, Francesca di Romana, fino a Costanza Calenda che nel XV secolo divenne dottore in medicina all’Università di Napoli. Inoltre ricordiamo che secondo il medico e scienziato spagnolo Arnaldo da Villanova [cfr. Finestra 18], non poche mulieres salernitanae aiutavano le partorienti e curavano malattie femminili. Quanto a Trotula il documen-
to fino a oggi più interessante è un breve testo manoscritto che contiene osservazioni sulle mestruazioni, sulle terapie atte a favorire il concepimento, ma anche suggerimenti pratici contro il vomito, la pazzia, i morsi dei serpenti, ossia consigli più generali che riguardano gli uomini come le donne. Fin dal più profondo Medioevo vi fu tutto un mondo di donne che praticavano una sorta di attività paramedica: si tratta di levatrici e curatrici. Nell’alto Medioevo, ad esempio, le herbarie, erano le esperte delle erbe di cui conoscevano proprietà e virtù ed erano in grado di ricavare con esse pozioni, decotti, cataplasmi, filtri e così curavano le malattie più diverse: febbri, ferite e quant’altro. Per tutto il Medioevo le donne occupano un posto ben definito nella terapeutica a base di erbe, erano loro, del resto, le incaricate della cura del corpo nella vita quotidiana! Il campo in cui per tutto il Medioevo le donne dominarono incontrastate fu l’oste tricia. Le donne pre ferivano ricorrere ad altre donne per tutto quello che riguardava l’aspetto ginecologico. Il parto era un mo mento/evento di esclu siva pertinenza fem minile; solo levatrici e balie vi assistevano senza il controllo dei medici che consideravano l’os tetricia un’attività per loro poco qualificante. Il parto, quindi, era un “affare di donne”!
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L’ UniversitA
L’Università è una delle grandi creazioni del Medioevo. Si stabilizzò in una istituzione di tipo corporativo legata allo sviluppo urbano e destinata a ciò che oggi chiamiamo insegnamento superiore. Prima dell’università vi erano scuole ecclesiastiche sia presso monasteri e/o canoniche sia presso cattedrali; comparvero anche scuole private. Alla base dell’insegnamento c’erano le sette arti liberali (il “trivio”: grammatica, dialettica e retorica; il “quadrivio”: matematica, geometria, musica,
astronomia), al vertice la teologia. Già in pieno secolo XII Bologna era celebre per lo studio del diritto. Parigi pullulava di scuole e fu qui che nel primo decennio del secolo XIII si costituì l’“università dei maestri e degli scolari” riconosciuta dal papa; in particolare nel 1231 il pontefice Gregorio IX ne confermò gli statuti e le conferì privilegi con eccezionale solennità. Le varie scuole, raggruppate in discipline, dettero vita alle facoltà. Contemporaneamente a quella di Parigi si formò l’Università di Bologna quale organizzazione comunitaria di studenti. Nel corso del Duecento sorsero in modo spontaneo altre università come quella celeberrima di Oxford in Inghilterra; altre sorsero per iniziativa del papato (Tolosa) e altre per iniziativa di sovrani (Napoli per volontà di Federico II). Nel corso del Trecento
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Medioevo notarile Nel pieno Medioevo, quando gli scambi e le transazioni s’incrementarono, per dare loro validità giuridica si affermò un ceto di professionisti in grado di redigere gli atti più diversi, un ceto che si organizzò in collegi/corporazioni e che con il proprio lavoro si guadagnò uno spazio sociale di tutto rispetto! I notai! [cfr. “Notaio” in Calendario dell’Avvento 2006]. I notai sono una peculiarità dell’Italia medievale. Il loro compito era di scrivere documenti, quei documenti (carte e registri) che riempiono i nostri archivi storici. Per fare ciò essi dovevano seguire un corso di studio ed essere riconosciuti dalla pubblica autorità. Dove studiavano i giovani che volevano avviarsi alla professione? Nelle città, questo è certo; ma bisogna distinguere. In un primo periodo si formavano nelle scuole cattedrali, dove imparavano la scrittura professionale, la grammatica cioè il latino, il diritto e il dictamen ossia l’arte di scrivere documenti e lettere. Dal Trecento in avanti queste funzioni passarono a vere e proprie scuole professionali, gestite dall’organismo che riuniva tutti i notai esercitanti in quel territorio, sia che tale organismo si chiamasse Collegio o Arte o Consorzio dei notai. Quelli più ambiziosi e ricchi di famiglia invece andavano a studiare presso le Università in cui c’era una facoltà di diritto civile e canonico, presso la quale era attivata una scuola di notariato; le più importanti all’epoca erano quelle di Bologna, Padova, Napoli e Perugia. I notai che avevano ottenuto il titolo universitario si riconoscono perché, quando sottoscrivono un documento, affiancano alla qualifica di notarius quella di iudex ordinarius. Dopo questo corso di studio (cittadino o universitario), che durava due o tre anni, bisognava – come oggi – fare pratica presso uno studio notarile (allora si chiamava statio). Alla fine del praticantato, ci si presentava all’esame di notariato presso il Collegio della propria città e, se bravi, si otteneva la licenza di esercitare la professione. e Quattrocento, con fasi di maggiore o minore espansione, tutta l’Europa si “rivestì” di università che, grandi o piccole che fossero, creavano un clima universalistico e movimentavano studenti7 e docenti. Furono favorite dal Papato, da sovrani e principi e dai Comuni. Inizialmente non ebbero una sede specifica, ma i corsi, le dispute, gli esami e quant’altro si svolgevano in luoghi diversi tra i quali quelli religiosi e/o ecclesiastici (chiese, conventi ecc.). Le singole università ebbero propri statuti e governi con a capo il rettore. Funzione sociale dell’università – oltre la diffusione delle idee e del sapere – fu quella di favorire l’ascesa sociale di molti laureati grazie al riconoscimento della competenza intellettuale individuale. Già si è detto dei medici [cfr. Finestra 18], ma vi fu, ad esempio, un’altra categoria di esperti professionisti che nel Medioevo praticamente trionfarono: è quella dei giurisperiti8, cioè degli esperti in diritto civile e canonico; essere, infatti, dottori
in utroque iure era quanto di meglio si poteva ambire! Cosa si studiava nelle università medievali? S’insegnavano le sette arti liberali per poi accedere a studi superiori di teologia, diritto (civile e canonico), medicina. I corsi di studio duravano anni e il conseguimento del dottorato era il grande punto di arrivo che veniva solennizzato con la consegna del berretto, dell’anello, del libro. I papi del Duecento avvertirono l’importanza delle università; da esse doveva uscire personale specializzato a servizio della Chiesa e della Santa Sede. In tale prospettiva tutti i maestri e gli studenti, anche se laici, godevano i privilegi dei chierici e dipendevano dalla giurisdizione ecclesiastica (universitari = chierici). L’Università di Parigi si specializzò, ad esempio, in teologia e vi insegnarono san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Con l’avanzare del Medioevo e l’affermarsi degli Stati le università divennero centri di formazione professionale a servizio di questi.
_ 7. Per accogliere questi si crearono appositi collegi come quello della Sorbona a Parigi (1257). 8. Tra i celeberrimi figurano Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) e Baldo degli Ubaldi (1327-1400).
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Donne intellettuali e "teologhe” Le donne furono escluse dall’accesso agli studi uni versitari! Ma ciò non impedì che alcune di loro si affermassero per le loro qualità intellettuali. Celebre è il caso di Cristina de Pizan (1364-1430), nata in Italia, fu educata alle lettere e alle scienze dal padre, prima docente di medicina e astronomia all’università di Bologna, poi consigliere di Carlo V, re di Francia. Cristina stessa ricorda che il maggior ostacolo alla sua istruzione – raro percorso per una donna di quei secoli – era rappresentato dalla opposizione della madre che avrebbe preferito per lei la
tradizionale istruzione femminile (“ago e filo”), più adatta a una futura moglie. La morte del padre e del marito la costrinsero – come lei stessa dice – a “diventare uomo” e a mettere a frutto la sua cultura e le sue capacità: divenne la prima scrittrice della storia francese in grado di provvedere con il suo lavoro alla famiglia, conquistandosi un ruolo sociale e intellettuale di prestigio. Le sue due opere più importanti sono La città delle dame (1405), in cui rovescia i luoghi comuni dell’inferiorità femminile che risalivano all’autorità di Aristotele, e il Dettato dedicato a Giovanna d’Arco scritto poco prima di morire. Nella prima opera Cristina racconta di aver ricevuto la visita di tre donne, Ragione, Rettitudine e Giustizia, che la invitavano a costruire una fortezza per difendere le donne dalle maldicenze e dai pregiudizi avversi. L’opera dedicata a Giovanna d’Arco è una dimostrazione nei fatti della teoria dell’au-
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trice sulla parità naturale del genere femminile. Che onore per il sesso femminile quando questo nostro regno interamente devastato, fu risollevato e salvato da una donna, cosa che cinquemila uomini non hanno fatto... scrive Cristina. Non sappiamo se abbia vissuto abbastanza per conoscere la tragica conclusione della storia di Giovanna (condannata nel maggio 1430): per pochi mesi forse la notizia le è stata risparmiata. Presso le università la teologia era una disciplina di punta ed in tal senso brillò quella di Parigi dove insegnarono Tommaso d’Aquino (1225-1274), domenicano, e Bonaventura da Bagnoregio (1217 circa -1274), francescano. Le donne non potevano essere teologhe in senso accademico; Dio però si rivela agli uomini attraverso la via dell’istruzione e della ragione
(scientia) e attraverso quella dell’amore (sapientia); tenuto conto che la scientia è il terreno dei teologi dove la ragione è signora e padrona, e che la sapientia è una conoscenza ispirata direttamente da Dio a chi ritiene opportuno, nel progredire del Medioevo si ebbe una fioritura di donne mistiche, dotate di visioni, in grado di dialogare con Dio e con Gesù in particolare. Tra le tante si ricorda Angela da Foligno (1248-1309), proclamata di recente santa da papa Francesco (9 ottobre 2013), qualificata come “maestra dei teologi” per essere “autrice” di un Liber, opera di grande intensità e testo fondamentale della mistica, che ripercorre la sua esperienza dal raggiungimento della consapevolezza del peccato fino all’unione con la Trinità, dalla necessità della conoscenza di sé fino al desiderio di dare istruzioni ai figli spirituali.
Mestieri esclusivamente al femminile Il mestiere del balia tico fu, ovviamente, tutto al femminile (si potevano chia mare balii i mariti delle balie che, ad esempio, interve nivano nella stipula di contratti di baliatico) così come tutto al femminile, per altri versi, era quello della prostituzione, attività sempre condannata, ma anche tollerata fino a “inventare” luoghi specifici – i postriboli – per il suo esercizio. La pratica di ricorrere alle nutrici per l’allattamento dei neonati si diffuse dal XIII e XIV secolo ed ebbe ampio successo nel corso del XV. Vi facevano ricorso le classi sociali più elevate e/o abbienti. Non vi è un’univoca motivazione per tale diffusa pratica: mancanza di latte
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delle madri; lo scarso ricorso al latte animale; desiderio di una maggiore fecondità femminile; modo di ritardare l’affezione verso figli destinati sovente a morte prematura; ripresa dei rapporti coniugali; volontà di alleggerire le donne dal compito dell’allattamento. Le balie svolgevano il loro lavoro o nelle proprie case in campagna e/o in città, dove i bambini venivano, appunto, “mandati a balia”, o nelle case private; qui il loro lavoro si assimilava in parte con quello delle serve, ma erano più considerate e meglio
Francesco da Barberino
Francesco da Barberino (1264-1348), notaio e poeta fiorentino, è autore del Reggimento e costumi di donna. L’opera riguarda l’educazione e il contegno delle donne a seconda della loro condizione. È, tra l’altro, una sorta di “enciclopedia” dei mestieri femminili: balie, levatrici, fornaie, barbiere, serve, “treccole”, cioè venditrici di frutta e verdura, tessitrici, filatrici, molinare, pollaiole, caciaiole, taverniere e albergatrici. Per suggerire loro corretti comportamenti lascia intravvedere astuzie, furbizie, inganni perpetrati ai danni dei datori di lavoro e/o dei clienti. Ad esempio: alle treccole raccomanda di non porre la frutta migliore sopra quella meno fresca; alle mugnaie di non cambiare la farina migliore con quella meno buona; alle pollaiole e caciaiole di non lavare le uova e il cacio perché paiano più freschi a chi li compra; alle serve di non rubare. pagate; o presso gli enti ospedalieri deputati ad stiere, “regolarmente” retribuito. Francesco da Barberino vi dedica un intero capitolo del suo accogliere i bambini abbandonati. Quello delle balie fu un vero e proprio me- Reggimento.
Bambini e bambine Nel Medioevo si sviluppò un’atten zione “scientifica” per il trattamento dei bambini [cfr. “Bambini” e “A scuola” in Calendario dell’Avvento 2006], una sorta di pediatria/pueri coltura; ad esempio vi dedica attenzione il medico Aldobrandino da Siena nella sua opera Le régime du corps [cfr. Finestra 18]. Punire i bambini fisicamente era un fatto quotidiano e anche gli insegnanti non scherzavano in termini di battiture; fu Aldobrandino a consigliare un trattamento più “affettuoso” nella prassi della loro educazione. Presso le classi aristocratiche accadeva che i figli fossero affidati ad estranei di fiducia: l’imperatri-
ce Costanza, ad esempio, affidò il piccolo Federico alla duchessa di Spoleto; in genere i giovinetti erano inviati a casa di altri signori per imparare le belle maniere; qui le fanciulle fungevano da damigelle e i ragazzi da paggetti cui competeva, tra l’altro, il servizio a tavola… Per i giovani nobili era importante apprendere l’equitazione, la scherma, la caccia. Fu prassi ampiamente diffusa nel Medioevo collocare bambini e bambine in monasteri; essi venivano offerti/oblati dai genitori; lì crescevano e venivano educati alla vita monastica che – giunti all’età “giusta” – avrebbero abbracciato. I parti si succedevano quasi senza soluzione di continuità e l’allattamento era ovviamente la cura più immediata da rivolgere ai neonati; questi potevano essere allattati direttamente dalle madri, ma divenne di moda affidare tale impegno alle balie/nutrici [cfr. Finestra 22]. Ma vi fu anche un’altra realtà! Numerose furono le donne che si trovavano costrette dalla miseria, dalla malattia, dalla pubblica disappro-
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vazione ad abbandonare, più o meno in fretta, i loro bambini. Il rifiuto del neonato sembra una pratica molto diffusa per lo meno nelle città: la alimentano le gravidanze delle domestiche, libere o schiave, e la povertà, cronica o legata a crisi di sussistenza. I miserabili o comunque i ceti in stato di precarietà e indigenza lasciavano presso gli ospedali delle città i loro figli legittimi, nella speranza, talvolta, di poterli riprendere in seguito e altresì confidando che l’ospedale potesse salvarli dalla morte meglio di quanto avrebbero potuto fare loro. In genere si trattava di neonati che potevano essere “deposti” in qualche specifico “posto” prossimo all’ingresso dell’ospedale, in anonimato, di nascosto, magari di notte; oppure “recati” da qualcuno; alcuni potevano portare addosso oggetti e/o “scritte”, patetico segno di “affetto” da parte di chi li abbandonava. Bambini e bambine (più femmine che maschi) abbandonati erano fortunati – diciamo così – se venivano lasciati presso un ente ospedaliero che in qualche modo se ne prendeva cura, in primo luogo provvedendo al loro allattamento tramite balie, interne all’ospedale stesso o sovente esterne. Se i piccoli abbandonati riuscivano a sopravvivere alla fase dell’allattamento, in genere rientravano nell’ospedale, qui venivano accuditi e anche sommariamente istruiti, potevano
essere adibiti a servizi interni o esterni all’ospedale. Una volta raggiunta l’età di 10-12 anni venivano avviati al lavoro o a una qualche collocazione: restavano in servizio presso l’ospedale; affidati a comunità religiose; indirizzati ad attività artigianali; le femmine assegnate come famule, cioè serve domestiche e, comunque, veniva loro assegnata una piccola dote perché l’orientamento era quello, se possibile, di maritarle. Nonostante la frequenza dei parti, nel quotidiano succedersi delle nascite e delle morti, le case della fine del Medioevo, quando si dispone di “censimenti”, ospitano in media poco più di due figli viventi. Anche i testamenti dei genitori si rivolgono a un giro non cospicuo di figli. Pure in seno alle famiglie facoltose molti figli non superavano i vent’anni. Le partorienti morivano, forse, più di rado di quanto spesso non si dica. Tuttavia, anche le donne ricche, attraversano uno dei momenti più rischiosi della vita: una su tre delle mogli fiorentine, nell’avanzato Medioevo, che muoiono prima del marito soccombe mettendo al mondo un bambino o muore per le conseguenze immediate del parto. Il fardello delle gravidanze e dei parti solo una volta su due ha la speranza di portare il bambino all’età adulta.
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NATIVITA La festa del Natale, consolidatasi tra IV e V secolo, nel corso del Medioevo, e in particolare nel pieno Medioevo tra i secoli XII-XIV, divenne sempre più centrale, conferendo devota solennità al mistero dell’Incarnazione. Fu un fiorire di rappresentazioni dell’Evento, sia in forme artistico-figu rative che in termini di espressioni letterarie. Tra Duecento e Trecento, si impongono laudi e sacre rappresentazioni incentrate su i misteri della Fede, quindi su episodi della vita di Cristo e della Vergine, tra cui non manca di certo la Natività! Famosi sono i laudari redatti in area centroitaliana, tra questi è celeberrimo il Laudario di Cortona (seconda metà del sec. XIII) da cui questa splendida lauda.
Gloria ‘n cielo e pace ‘n terra: nat’è ‘l nostro salvatore! Nat’è Cristo glorioso, l’alto Dio maravellioso: fact’è hom desideroso lo benigno creatore! De la vergene sovrana, lucente stella diana, de li erranti tramontana, puer nato de la fiore. Pace ‘n terra sia cantata, gloria ‘n ciel desiderata; la donzella consecrata parturit’à ‘l Salvatore! Nel presepe era beato quei ke in celo è contemplato, dai santi desiderato reguardando el suo splendore. Parturito l’à cum canto, pieno de lo Spiritu santo: de li bracia li fe’ manto cum grandissimo fervore. Poi la madre gloriosa, stella clara e luminosa, l’alto sol, desiderosa, lactava cum gran dolzore.
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