ISSN 0035-6182
RIVISTA DI
FONDATA NEL 1924 DA G. CHIOVENDA, F. CARNELUTTI e P. CALAMANDREI ` DIRETTA DA GIA
E.T. LIEBMAN, G. TARZIA e E.F. RICCI
DIRETTORI
C. PUNZI e B. CAVALLONE COMITATO DI DIREZIONE
M. ACONE - G. BONGIORNO - V. COLESANTI L.P. COMOGLIO - C. CONSOLO - G. COSTANTINO C. FERRI - R.E. KOSTORIS - S. LA CHINA - G. MONTELEONE R. ORIANI - N. PICARDI - A. SALETTI - B. SASSANI N. TROCKER - R. VACCARELLA
Volume LXVI (II Serie) - Anno 2011
INDICE DEL FASCICOLO Anno LXVI (Seconda Serie) – N. 1 – Gennaio-Febbraio 2011 ————
A R T I C O L I Carmine Punzi, L’arbitrato per la soluzione delle controversie di lavoro .............................................................................................. Pag. Alessandro Pace, Interrogativi sulla legittimita` costituzionale della nuova «class action» ................................................................... » Luigi Paolo Comoglio, L’inutilizzabilita` «assoluta» delle prove «incostituzionali» .............................................................................. » Marta Bargis, Note in tema di prova scientifica nel processo penale » Marcello Daniele, Una proposta per semplificare il sistema delle impugnazioni della sentenza di non luogo a procedere ................. » Alberto Tedoldi, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c. ..... »
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STORIA E CULTURA DEL PROCESSO Bruno Cavallone, Un idioma coriaceo: l’italiano del processo civile Pag.
97
DIBATTITI Lotario Dittrich, La ricerca della verita` nel processo civile: profili evolutivi in tema di prova testimoniale, consulenza tecnica e fatto notorio .......................................................................................... Pag.
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` LEGISLATIVA ATTUALITA Giuseppe Battaglia, La nuova mediazione «obbligatoria» e il processo oggettivamente e soggettivamente complesso ........................ Pag.
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NOTIZIE Marcello Daniele, Il XXII Convegno nazionale dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale «G. D. Pisapia» ...................... Pag.
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RECENSIONI E SEGNALAZIONI Opere segnalate Roberta Aprati (P. P. Paulesu); Bruno Capponi (G. Finocchiaro); Luigi Paolo Comoglio (E. Marinucci); Elena Frascaroli Santi (M. Vanzetti); Lucio Lanfranchi (A. Castagnola); Mauro Rubino Sammartano (C. Punzi); Silvio Sau (M. Daniele); Giuliano Scarselli (a cura di) (M. F. Ghirga), C.H. van Rhee, A. Uzelac (a cura di) (F. Ferrari) .................................................... Pag.
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NOTE ALLE SENTENZE Maria Francesca Ghirga, Nuovo intervento delle Sezioni Unite sulle lacunose norme che regolano il processo in caso di morte di una delle parti ............................................................................. Pag. Fabio Marelli, Un passo indietro nella direzione della tutela giurisdizionale effettiva: la condanna accessoria ad una pronuncia costitutiva non e` provvisoriamente esecutiva ................................. » Chiara Spaccapelo, Anche in materia di appalto spetta all’obbligato provare l’esattezza del proprio adempimento ............................ » Massimiliano Bina, Le conseguenze processuali della cancellazione della societa` dal registro delle imprese ...................................... » Emanuele Ruggeri, Passata la tempesta: note (parzialmente) critiche in ordine al recente intervento delle Sezioni Unite sull’art. 645 cpv. del codice di rito .................................................................. » Giuseppina Fanelli, Note sulla «sollecita» e «sostanziale» definizione del giudizio alla luce del principio della ragionevole durata del processo e del nuovo art. 360 bis, comma 2º, c.p.c. .................. »
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SENTENZE Impugnazioni civili, morte della parte, notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi, necessita`, momento del decesso, irrilevanza, conoscenza del decesso, irrilevanza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 18 giugno 2010, n. 14699 .............................. Pag. Impugnazioni civili, morte della parte, notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi in forma collettiva ed impersonale nell’ultimo domicilio della parte defunta, validita`: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 18 giugno 2010, n. 14699 .............................. » Impugnazioni civili, morte della parte che ha notificato la sentenza alla controparte, notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi in forma collettiva ed impersonale in uno dei luoghi previsti dal primo comma dell’art. 330 c.p.c., validita`: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 18 giugno 2010, n. 14699 ...................... » Sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere
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un contratto, momento di produzione dell’effetto traslativo della proprieta`, passaggio in giudicato della sentenza, necessita`: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4059 Pag. Sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto, capi condannatori compatibili con l’effetto traslativo della proprieta`, esecutivita` provvisoria, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4059 .. » Sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto, capo di condanna al rilascio, esecutivita` provvisoria, insussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4059 ........................................................... » Onere della prova, contratto di appalto, azione di condanna al pagamento del corrispettivo dell’appalto, prova dell’esatto adempimento in capo all’appaltatore, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. II civ., sentenza 20 gennaio 2010, n. 936 ........................... » Societa`, iscrizione della cancellazione della societa` nel registro delle imprese, perdita della legittimazione processuale, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4062 ......................................................................................... » Procedimento per ingiunzione, opposizione a decreto ingiuntivo, dimidiazione ex lege dei termini di comparizione dell’opposto, dimidiazione automatica dei termini di costituzione dell’opponente, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 9 settembre 2010, n. 19246 ................................................................. » Impugnazioni civili, cause inscindibili, mancata notifica dell’impugnazione a un litisconsorte necessario, concessione di termine per la notificazione dell’impugnazione al litisconsorte, necessita`, insussistenza: Corte di Cassazione, sez. II civ., sentenza 22 gennaio 2010, n. 2723 ....................................................................... »
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PANORAMI Niccolo` Nisivoccia, Osservatorio sulla Corte Costituzionale (Processo civile: 1º novembre-31 dicembre 2010) ................................. Pag. Gina Gioia, Osservatorio sulle Sezioni Unite civili (Processo civile: 1º ottobre-30 novembre 2010) ......................................................... »
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L’ARBITRATO PER LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO (*)
Sommario: 1. L’arbitrato nelle controversie di lavoro: dalla giurisdizione dei probiviri al codice di procedura civile del 1940. – 2. Le vicende dell’arbitrato nel periodo successivo al tramonto dell’ordinamento corporativo: la clausola derogatoria c.d. irrituale di formazione intersindacale, la l. 15 luglio 1966, n. 604 e la riforma del processo del lavoro del 1973. – 3. L’arbitrato rituale nelle controversie di lavoro: le riforme introdotte dalla l. 11 agosto 1973, n. 533, dalla l. 5 gennaio 1994, n. 25 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. – 4. L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro: dall’art. 5, l. n. 533/1973 ai decreti legislativi 30 marzo, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387. – 5. Segue: le conseguenze prodotte dall’art. 808 ter c.p.c. sull’arbitrato irrituale in materia di lavoro. – 6. L’ulteriore riforma introdotta dalla l. 4 novembre 2010, n. 183. – 7. Conclusioni.
1. – Le alterne vicende sono una caratteristica comune di ogni manifestazione dell’arbitrato ed hanno condizionato in particolare l’arbitrato per la soluzione dei conflitti di lavoro. L’istituto ora considerato ha costituito, infatti, un terreno sul quale il legislatore, per ragioni ideologiche o scelte di stretto diritto positivo, si e` piu` volte addentrato, ora precludendone l’impiego per la risoluzione delle controversie, e di fatto bandendolo dall’ordinamento, ora – a fronte dell’esperienza, in ambito sindacale postcorporativo, di forme derogative dei divieti stabiliti nel codice di rito – introducendo un regime di relativa compromettibilita` unitamente all’assoggettamento ad una disciplina «vincolistica», ora prevedendo norme specifiche e settoriali per il procedimento e il trattamento processuale dei lodi laburistici, sicche´ esso risulta, nella sua storia e nell’ordinamento vigente, caratterizzato da una ricchezza di fonti, che appartengono, di volta in volta, all’ordinamento statale o a quello c.d. intersindacale (1). Ed, infatti, come anche altrove ho gia` avuto modo di osservare (2), se il legi-
(*) Questo scritto e` dedicato ad Edoardo Ricci, caro, fraterno amico, la cui scomparsa lascia un vuoto incolmabile. (1) C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, 2a ed., Torino 2010, vol. III, p. 286 ss. In generale, sulle alterne vicende dell’arbitrato in materia di lavoro, anche con riferimento al passato remoto, cfr. C. Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano 1990, passim.
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slatore del 1940 aveva lasciato sopravvivere l’arbitrato di diritto comune, sia pure confinandolo nell’ultimo titolo del libro quarto del codice di rito, non riservo` questa identica sorte all’arbitrato in materia di lavoro. In quel contesto storico, caratterizzato dalla volonta` di esaltare, in linea generale, il monopolio della giurisdizione pubblica e dello ius dicere quali funzioni squisitamente spettanti ai giudici togati e di affermare, in particolare, l’unita` della giurisdizione (3), con l’affidamento in via esclusiva delle controversie individuali di lavoro alla decisione dei magistrati dello Stato, non poteva trovare spazio la rivendicazione di forme di soluzione delle liti laburistiche, che fossero espressione dell’autonomia privata, individuale o collettiva. E risalendo ulteriormente indietro nel tempo – e potremmo dire nella storia dell’arbitrato in materia di lavoro – non si puo` fare a meno di prendere le mosse dall’esperienza della giurisdizione dei probiviri sviluppatasi nell’Italia liberale, nell’eta` giolittiana, e quindi alla l. 15 giugno 1893, n. 295, che conferı` alla giuria probivirale, accanto alla prevalente funzione conciliativa, una funzione di giudizio nel limite costituito da un certo valore della causa (cioe` duecento lire) e che, nelle controversie di valore superiore, permetteva di attribuire alla giuria probivirale vera e propria funzione di collegio arbitrale (4). Soppressi con il r.d. 26 febbraio 1928, n. 471 i collegi dei probiviri, lo stesso regio decreto se, da un lato, nell’art. 3, consentiva alle parti individuali (il singolo lavoratore e il singolo datore di lavoro) di compromettere in arbitri le rispettive controversie, con l’inserimento di clausole compromissorie nei contratti individuali; dall’altro lato e parallelamente comminava la nullita` delle clausole dei contratti collettivi di lavoro e delle norme assimilate con le quali fosse stato stabilito che le controversie individuali di lavoro, derivanti dall’applicazione dei contratti collettivi, venissero decise da arbitri o da collegi nominati dagli organismi sindacali contraenti (5). Ormai introdotto l’ordinamento corporativo, il codice del 1940, improntato – come si e` detto – sia al generale disfavore per l’arbitrato come strumento alternativo di risoluzione delle controversie sia all’esigenza di completamento, in senso
(2) Ci si permette di rinviare a C. Punzi, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Riv. arb. 2001, p. 389 ss., e di recente a L’arbitrato in materia di lavoro: fonti e impugnazioni, in Mass. Giur. lav. 2010, p. 352 ss. (3) Si legge, infatti, nel § 9 della Relazione del Ministro Grandi al r.d. 28 ottobre 1940, n. 1443: «La stessa tendenza si manifesta a proposito dell’arbitrato, che, strettamente limitato alle controversie su rapporti disponibili, non e` piu` ammesso sotto nessuna forma nelle controversie individuali di lavoro e nelle controversie in materia di previdenza, la cui rilevanza sociale consiglia di non sottrarle alle decisioni dei magistrati dello Stato (art. 806), colla sola eccezione di uno speciale arbitrato dei consulenti nelle controversie aventi contenuto prevalentemente tecnico (artt. 455-458)». (4) C. Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 37. (5) R. Flammia, voce Arbitrato III) Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, in Enc. giur., VIII Aggiornamento, Roma 2000, p. 1.
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statalistico, dell’assetto della giustizia del lavoro (6), non poteva fare a meno di abolire la facolta` delle parti di compromettere per arbitri le controversie di lavoro. E, infatti, l’originario testo dell’art. 806 del codice di procedura civile del 1940 escludeva tout court dalle controversie arbitrabili «le controversie previste negli artt. 409 e 442», e cioe` le controversie individuali di lavoro e quelle in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. Esclusione che, per la relatio operata dall’art. 808 alle «controversie che possono formare oggetto di compromesso», e quindi all’art. 806 ora richiamato, riguardava sia il patto compromissorio stipulato a controversia gia` insorta sia quello relativo a liti future ed eventuali concernenti il rapporto di lavoro. 2. – Il regime preclusivo per gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie di lavoro, ed in particolare per l’arbitrato, che al tempo della sua introduzione si giustificava eminentemente con la volonta` di affermare il monopolio, a favore dello Stato, non solo della forza, ma anche dello ius dicere e della funzione di giudizio, rimase operante anche dopo gli anni 1944-45, e cioe` dopo il tramonto dell’ordinamento corporativo; tuttavia, successivamente a tale momento e con l’avvento della Costituzione repubblicana, l’ostracismo per l’arbitrato laburistico si connoto` di una nuova giustificazione, ossia con il preteso intento di difesa dell’interesse e dei diritti del lavoratore, considerato la parte piu` debole nel rapporto di lavoro (7). Ma si ricorda che, dissoltesi le strutture dell’ordinamento corporativo, contro tale ostracismo reagirono gli interessi sindacabilmente organizzati, creando, relativamente ad alcune vicende del rapporto di lavoro subordinato privato, procedure sindacali di conciliazione e di arbitrato per la soluzione di controversie individuali e plurime (8). Operano in questo senso fonti appartenenti all’ordinamento c.d. intersindacale che, intorno agli anni ’50 del secolo scorso, portarono alla sperimentazione ed alla devoluzione a collegi di conciliazione e di arbitrato del potere di decidere le controversie individuali di lavoro, segnatamente aventi ad oggetto i licenziamenti individuali, mediante clausole compromissorie c.d. irrituali, derogative, nella specie, non solo delle norme codicistiche relative al regime processuale del lodo rituale, ma – piu` a monte e radicalmente – dei divieti di arbitrato rituale ancora operanti, per le controversie di lavoro e in materia di assistenza e previdenza obbligatorie, in forza dell’originario testo degli artt. 806 e 808, comma 2º, c.p.c. Queste clausole derogatorie c.d. irrituali, di formazione intersindacale, hanno offerto fino alla l. 15 luglio 1966 n. 604 una prima forma di tutela arbitrale in or-
(6) L. Montesano, R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, 3a ed., Napoli 1996, p. 3 ss. (7) Su tale questione, G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5a ed., Milano 2008, p. 56; per i rilievi critici a tali argomentazioni, cfr. C. Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 190 ss. (8) R. Flammia, voce Arbitrato, cit., p. 1.
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dine ai licenziamenti individuali, nella perdurante preclusione che affliggeva la species rituale. L’evoluzione legislativa si e` avuta prima con la l. 15 luglio 1966, n. 604 (che all’ultimo comma dell’art. 7 si limita a menzionare la possibilita`, per le parti individuali, di devolvere in arbitrato «irrituale» le controversie in materia di licenziamento) e poi con la riforma del processo del lavoro di cui alla l. 11 agosto 1973, n. 533. La legge del 1973 ha avuto una duplice valenza: da un lato, con riferimento all’arbitrato rituale, ha introdotto un regime di relativa arbitrabilita`, superando l’assolutezza dei precedenti divieti; dall’altro, con riferimento alla species irrituale – di cui le parti, fino a quel momento, potevano in astratto avvalersi, senza limitazioni, sul terreno dell’autonomia negoziale, sia individuale sia collettiva – ne ha viceversa circoscritto, come ora accennero` brevemente, l’ambito di ammissibilita`, puntualizzando anche il regime impugnatorio (9). 3. – Per cio` che concerne l’arbitrato rituale, la riforma del 1973 ha rimosso il divieto di inserzione della clausola compromissoria nei contratti collettivi di lavoro ed, anzi, ha subordinato la deferibilita` ad arbitri delle controversie individuali di lavoro proprio alla c.d. copertura sindacale, cioe` al presupposto che la possibilita` di devoluzione di tali controversie in arbitrato rituale sia prevista dalla contrattazione collettiva (10). La validita` di tali clausole era inoltre subordinata, oltre che alla detta «copertura sindacale» o «precostituzione collettiva», ad altre tre condizioni, parimenti desumibili dall’art. 808, comma 2º, c.p.c. (nel testo complessivamente risultante in conseguenza degli interventi operati con la citata l. 11 agosto 1973, n. 533 e con la l. 5 gennaio 1994, n. 25, e non ancora modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), e cioe`: a) che non fosse pregiudicata la facolta` delle parti individuali di adire l’autorita` giudiziaria (non potendo, dunque, le previsioni sindacali, anche quando in veste di vere e proprie clausole compromissorie, essere irreversibilmente impegnative neppure per le parti affiliate alle organizzazioni stipulanti il contratto collettivo) (11); b) che gli arbitri non fossero autorizzati a pronunciare secondo equita` e c) che il lodo non fosse dichiarato non impugnabile.
(9) Di recente A. Vallebona, L’arbitrato irrituale per le controversie di lavoro, in Mass. Giur. lav. 2010, p. 362 ss. ha parlato di «massacro» dell’arbitrato, specie irrituale, a seguito della l. n. 533/1973. (10) In proposito e` stato osservato da G. Ruffini, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, Padova 2010, sub art. 806, p. 25 che un’interpretazione sistematica dell’intera normativa portava infatti a ritenere che cio` che, alla luce della novella del 1973, risultava precluso alle parti del contratto di lavoro fosse non tanto la stipulazione di un patto compromissorio individuale – da ritenersi ammissibile quando la relativa facolta` fosse prevista nei contratti o accordi collettivi di lavoro – quanto la scelta di un arbitrato individuale non previamente autorizzato dalle fonti collettive. (11) La clausola arbitrale contenuta nei contratti collettivi di lavoro ben poteva atteggiarsi, alla luce della novella del 1973, sia come previsione meramente autorizzatoria della successiva
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Il successivo intervento sull’arbitrato rituale nelle controversie di lavoro si e` avuto con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che ha riscritto il testo dell’art. 806 c.p.c., ha sostituito il secondo comma dell’art. 808 c.p.c. (12) e ha modificato l’art. 829 c.p.c., confermando il divario, quanto al regime di impugnazione, fra i lodi rituali che decidono controversie di lavoro e tutti gli altri lodi parimenti rituali. A tale riguardo mi limito a ricordare gli aspetti salienti: a) e` stata dettata, nel novellato art. 806, comma 1º, c.p.c., una norma generale circa la compromettibilita` delle controversie, sulla base del parametro della disponibilita` dei diritti, nella quale non compare piu` l’espresso divieto di arbitrato per le controversie «previste negli artt. 429 e 459» e si stabilisce, viceversa, nel successivo secondo comma, che quelle in materia di lavoro «possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro»: tale modifica autorizza, pertanto, la deferibilita` delle controversie di lavoro non solo sulla base della c.d. precostituzione collettiva, ma anche direttamente ad opera delle parti individuali, abilitate alla stipulazione di patti compromissori nei casi previsti dalla legge (ad esempio ai sensi dell’art. 7 Statuto dei lavoratori, ossia in materia di sanzioni disciplinari); b) con riferimento agli arbitrati rituali con precostituzione collettiva o a ‘‘copertura sindacale’’, non viene testualmente riprodotta la possibilita` di svincolarsi dall’eventuale clausola arbitrale contenuta in contratti e accordi collettivi e di devolvere la controversia al giudice ordinario, possibilita` invece prevista, fino alla riforma del 2006, nell’art. 808, comma 2, c.p.c. (13); c) e` stata rimossa la comminatoria di nullita` per le clausole compromissorie di fonte sindacale, o contenute nei contratti individuali di lavoro, le quali autorizzino gli arbitri a decidere secondo equita` ovvero dichiarino il lodo non impugnabile. Tale modifica, peraltro, non sembra idonea a rimuovere il divieto di arbitrato rituale
stipulazione, ad opera delle parti individuali di lavoro, di un patto compromissorio per le stesse vincolante; sia come vera e propria clausola compromissoria, idonea all’attivazione dell’arbitrato, ma non immediatamente ed irreversibilmente vincolante per il singolo lavoratore (e datore di lavoro), essendo in facolta` di ciascuna parte di sciogliersi anche unilateralmente dal vincolo arbitrale: cfr. in proposito V. Bertoldi, in C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche2, 2a ed., cit., vol. III, p. 288 ss.; G. Ruffini, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub art. 806, p. 27. (12) Per effetto del d.lgs. n. 40/2006, si e` assistito alla scomparsa di qualsiasi riferimento alle controversie di lavoro nel testo dell’art. 808 c.p.c., concernente la clausola compromissoria, e alla contestuale riscrittura dell’art. 806 c.p.c., ora divenuta disposizione dedicata in generale all’arbitrabilita` delle controversie anche in materia di lavoro. (13) E` stato peraltro osservato in proposito, da una parte della dottrina, che la caducazione della norma, gia` contenuta nel secondo comma del previgente testo dell’art. 808, secondo la quale la clausola sindacale per arbitrato rituale non deve pregiudicare, a pena di nullita`, la facolta` delle parti di rivolgersi all’autorita` giudiziaria sarebbe peraltro anche oggi da considerarsi immanente al sistema positivo dell’arbitrato, che trova il suo fondamento costituzionale nella volonta` delle parti in lite: cosı` G. Ruffini, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub art. 806, p. 27.
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equitativo, dal momento che, nell’art. 829 c.p.c., il legislatore si e` fatto carico di precisare che, diversamente dai lodi c.d. di diritto comune (per i quali l’impugnativa per il c.d. error in iudicando e` ormai ammessa solo se espressamente disposta dalle parti), quelli in materia di lavoro sono «sempre» impugnabili per contrarieta` alle norme di diritto attinenti al merito della controversia (art. 829, comma 4º) ed anche alle previsioni contenute nei contratti ed accordi collettivi (art. 829, comma 5º), con la conseguenza che l’eventuale autorizzazione data agli arbitri a pronunciare secondo equita` o la previsione di non impugnabilita` del lodo contenuta, sebbene non nulla, sarebbe comunque inefficace (14). 4. – Con riferimento all’arbitrato irrituale, l’art. 5, comma 1º, l. n. 533/1973 stabiliva, come anche oggi stabilisce, che in materia di lavoro l’impiego di tale strumento «e` ammesso» (cosı` si esprime testualmente la norma) solo in presenza di una corrispondente previsione di legge o della contrattazione collettiva, purche´, in quest’ultimo caso, cio` avvenga senza pregiudizio «della facolta` per le parti individuali di adire il giudice dello Stato». I commi secondo e terzo dell’art. 5 l. n. 533/1973 dettavano (fino alla novella del 1998, su cui, v. infra) la disciplina delle impugnazioni dei lodi irrituali, affermando la sindacabilita` degli stessi per violazione di norme inderogabili di legge e dei contratti collettivi di lavoro (15); disciplina poi abrogata in conseguenza del d.lgs. 30 marzo 1998, n. 80. Contestualmente a tale abrogazione si e` assistito, sempre per effetto del d.lgs. n. 80/1998, all’inserzione, nel codice di rito, degli artt. 412 ter e 412 quater – che, nella loro formulazione originaria, non contenevano l’indicazione della species arbitrale e rispettivamente concernenti, il primo, gli arbitrati previsti dalla contrattazione collettiva e, il secondo, il trattamento processuale dei lodi in materia di lavoro, con una peculiare disciplina in tema di esecutivita` e impugnazioni (16) – a latere dei quali continuavano, come continuano, a porsi altre fattispecie di arbitrato
(14) In tal senso G. Ruffini, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub art. 806, p. 26; D. Borghesi, L’arbitrato del lavoro dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2006, p. 821 ss.; in senso contrario, M. Bove, La nuova disciplina dell’arbitrato, in M. Bove, C. Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano 2006, p. 63; Id., Arbitrato nelle controversie di lavoro, in Riv. arb. 2005, p. 879 ss., p. 885 s.; E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, in Riv. arb. 2008, p. 459 ss., spec. p. 474. (15) Sulla portata della disposizione, anche quanto alla consacrazione in essa della sindacabilita` del lodo irrituale per error in iudicando, cfr. C. Cecchella, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 438 ss. (16) Con riferimento alle criticita` derivanti dalla farraginosa disciplina originariamente dettata dall’art. 412 quater c.p.c., nella sua prima formulazione, cfr. C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. II, Padova 2000, p. 115 ss., p. 170 ss.; R. Vaccarella, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull’arbitrato in materia di lavoro, in Giur. lav. Lazio 1998, p. 263 ss., p. 300 ss.; B. Capponi, L’arbitrato in materia di lavoro dopo le riforme del 1998, in Aa.Vv., Diritto dell’arbitrato, a cura di Verde, Torino 2005, p. 571 ss.
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c.d. ex lege (come l’art. 7, ult. comma, l. n. 604/1966; l’art. 7 Statuto dei lavoratori; l’art. 5 l. n. 108/1990). Gli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c. sono stati modificati, a pochi mesi dalla loro introduzione, dal d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, il quale si e` affrettato ad aggiungere, con un significativo impatto sistematico, il nomen irrituale nella rubrica dell’art. 412 ter c.p.c. e a riscrivere parzialmente il testo dei menzionati articoli, ed in particolare dell’art. 412 quater c.p.c. (17). A ben vedere, peraltro, a fronte del concreto dettato degli artt. 412 ter (18) e 412 quater (19) c.p.c. e del sistema unitario complessivamente risultante dagli artt. 806 ss. c.p.c. in conseguenza della l. n. 25/1994 – che aveva determinato, in sede
(17) Per una sintetica esposizione delle criticita` lasciate aperte dagli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c., come complessivamente risultanti dalle riforme del 1998, anche successivamente alla riforma generale del 2006, nonche´ sul problema dell’ambito di applicazione dell’art. 412 quater c.p.c., cfr. B. Capponi, Le fonti degli arbitrati in materia di lavoro, in Mass. giur. lav. 2010, p. 357 ss.; R. Muroni, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub artt. 412 ter e 412 quater, p. 394 ss.; V. Bertoldi, Il regime di impugnazione dei lodi irrituali in materia di lavoro, in Mass. Giur. lav. 2010, p. 365 ss., spec. p. 366-368. (18) Si riporta il testo dell’art. 412 ter c.p.c. (rubricato «Arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi di lavoro») risultante dalle Novelle del 1998 e non ancora modificato dall’art. 31, l. 4 novembre 2010, n. 183: «Se il tentativo di conciliazione non riesce o comunque e` decorso il termine previsto per l’espletamento, le parti possono concordare di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia, anche tramite l’organizzazione sindacale alla quale aderiscono o abbiano conferito mandato, se i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro prevedono tale facolta` e stabiliscono: a) le modalita` della richiesta di devoluzione della controversia al collegio arbitrale e il termine entro il quale l’altra parte puo` aderirvi; b) la composizione del collegio arbitrale e la procedura per la nomina del presidente e dei componenti; c) le forme e i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria; d) il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo, dandone comunicazione alle parti interessate; e) i criteri per la liquidazione dei compensi agli arbitri. I contratti e accordi collettivi possono, altresı`, prevedere l’istituzione di collegi o camere arbitrali stabili, composti e distribuiti sul territorio secondo criteri stabiliti in sede di contrattazione nazionale. Nella pronuncia del lodo arbitrale si applica l’articolo 429, terzo comma, del codice di procedura civile. Salva diversa previsione della contrattazione collettiva, per la liquidazione delle spese della procedura arbitrale si applicano altresı` gli articoli 91, primo comma, e 92 del codice di procedura civile». (19) Si riporta il testo dell’art. 412 quater c.p.c. (rubricato «Impugnazione ed esecutivita` del lodo arbitrale») risultante dalle Novelle del 1998 e non ancora modificato dall’art. 31, l. 4 novembre 2010, n. 183: «Sulle controversie aventi ad oggetto la validita` del lodo arbitrale decide in un unico grado
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generale, il tramonto dell’arbitrato libero (20) – la qualificazione di «irrituale» elargita dalla seconda novella del 1998 (qualificazione che aveva olim una sua giustificazione per l’esigenza di aggirare il divieto di stipulazione di patti compromissori rituali contenuto negli originari artt. 806 e 808 c.p.c.) non era idonea a proclamare alcuna contrapposizione tra le due species arbitrali, ne´ appariva in grado di superare la sostanziale unita` dell’arbitrato, quale giudizio e processo privato egualmente tendente alla decisione della controversia in entrambe le sue forme: tale nomen, come una parte della dottrina ha avuto modo di osservare, si limitava a contrassegnare, al cospetto del quadro normativo delineato negli artt. 806 ss. c.p.c., ossia delle disposizioni c.d. di diritto comune per come novellate dalla generale riforma del 1994, l’esistenza di una disciplina speciale, concernente taluni specifici aspetti dell’istituto, concernenti i presupposti per lo svolgimento dell’arbitrato e i profili procedimentali, nonche´ soprattutto la dichiarazione di esecutivita` del lodo «irrituale» in materia di lavoro e il suo regime di impugnazione (21).
il Tribunale, in funzione del giudice del lavoro, della circoscrizione in cui e` la sede dell’arbitrato. Il ricorso e` depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. Trascorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso e` stato respinto dal Tribunale, il lodo e` depositato nella cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione e` la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarita` formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto». (20) Questa, come noto, e` la posizione mia e non solo: cfr. C. Punzi, in S. Satta-C. Punzi, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, p. 879 ss. e Id., Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. I, cit., p. 102 ss.; G. Ruffini, Sulla distinzione tra arbitrato «rituale» e arbitrato «irrituale», in Riv. arb. 2002, p. 750 ss., p. 756, che ha precisato come fosse all’uopo inidoneo anche lo strumento del patto di esclusione dell’exequatur; G. Monteleone, Diritto processuale civile, 3a ed., Padova 2002, p. 821 ss. (21) Per tale riflessione sul coordinamento fra gli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c. e gli artt. 806 ss. c.p.c. come modificati dalla l. n. 25/1994 anteriormente alla novella del 2006, v.: C. Punzi, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, cit., p. 399 ss., p. 403 s.; G. Monteleone, L’arbitrato nelle controversie di lavoro – ovvero – esiste ancora l’arbitrato irrituale?, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2001, p. 43 ss.; G. Ruffini, in A. Briguglio, G. Ruffini, L’arbitrato e le altre forme non giurisdizionali di soluzione delle liti nell’ordinamento italiano, in Riv. arb. 2003, p. 551 ss., spec. p. 588. In tale contesto, la citata dottrina, fautrice dell’unitarieta` del fenomeno arbitrale e del tramonto, in sede generale, della species c.d. irrituale o libera, aveva sottolineato che le previsioni di cui agli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c., lungi dal rinverdire in norme di diritto positivo la perdurante vigenza di due forme di arbitrato, stavano semplicemente ad indicare, per l’arbitrato in materia di lavoro, l’esistenza, per volere del legislatore, di una lex specialis in relazione a taluni specifici profili della disciplina dell’istituto (quali l’iter per conseguire l’esecutivita` del dictum arbitrale, la competenza funzionale ed il giudizio in unico grado sulla validita` del lodo, dinanzi al Tribunale del luogo in cui e` la sede dell’arbitrato, il termine di trenta giorni per la proposizione dell’impugnativa) ferma restando l’applicabilita`, per il resto (e senza distinzione di species), degli artt. 806 ss. c.p.c.
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5. – La vicenda delle fonti e delle impugnazioni dell’arbitrato in materia di lavoro non si e` peraltro esaurita con le riforme del 1998. Se e` vero che il d.lgs. n. 40/2006 non si e` occupato direttamente delle fonti ne´ delle impugnazioni dell’arbitrato irrituale in materia di lavoro, incidendo viceversa (per la species rituale) soltanto sugli artt. 806, 808 e 829 c.p.c., lo stesso intervento legislativo ha, dall’altro lato, prodotto, nell’ambito del titolo VIII del libro IV del codice di rito, un’innovazione senz’altro idonea a riverberarsi anche sullo specifico «statuto» dell’arbitrato irrituale laburistico. Per effetto della novella del 2006 e` stato, infatti, inserito nel tessuto del codice l’art. 808 ter c.p.c., quale norma ad hoc dettata per l’arbitrato irrituale c.d. di diritto comune, che se, da un lato, codifica una duplicita` di modelli (rituale ed irrituale) anche per l’arbitrato c.d. di diritto comune, dall’altro lato conferma l’identita` di funzione e di struttura degli stessi e fa consistere la differentia specifica nella deroga (per l’arbitrato irrituale) agli artt. 824 bis, 825 ed 827 ss. c.p.c. (22). Detta disposizione, per quel che rileva ai fini del «dialogo» sistematico con i c.d. statuti o arbitrati speciali, e` suscettibile – ed, anzi, postula – anche alla stregua della direttiva contenuta nella legge delega 14 maggio 2005, n. 80 (23), di atteggiarsi quale canone di armonizzazione delle discipline speciali e, dunque, di essere confrontata con le previsioni settoriali, come quelle di cui agli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c. ovvero contenute nelle ulteriori disposizioni dettate, in materia di lavoro, per singoli ambiti o tipologie di controversie (quali il gia` citato art. 7 Statuto dei lavoratori o l’art. 5 l. n. 108/1990). In quest’ultima direzione, non si e` tardato ad osservare che, per gli aspetti, anche procedimentali, non espressamente disciplinati dalle norme settoriali che si occupano dell’arbitrato irrituale in materia di lavoro, ben possono valere le regole ricavabili per il modello c.d. di diritto comune alla stregua dell’art. 808 ter c.p.c. (con quanto ne consegue in punto di scelta, ad opera delle parti, della normativa applicabile e di esclusione – o meno – delle regole dettate nel titolo VIII del titolo IV del codice di rito) (24) e che il riferimento alle controversie aventi ad oggetto la validita` del lodo – riferimento contenuto nel testo dell’art. 412 quater c.p.c. quale risultante dalle Novelle del 1998 e che peraltro si riaffaccia anche nelle norme di nuovo conio recate dalla l. n. 183/2010 – ben potrebbe essere integrato (25) con i cinque motivi
(22) Ci si permette in proposito di rinviare a C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche2, 2a ed., vol. III, cit., p. 269 ss. (23) L’art. 1, comma 4º, l. 14 maggio 2005, n. 80 aveva autorizzato il Governo a «revisionare la formulazione testuale e la sistemazione topografica degli articoli del vigente codice e delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investiti dai principi di delega in modo da accordarle con le modifiche apportate dalla legge delegata». (24) Per una ricostruzione delle diverse opinioni affacciatesi in dottrina in ordine all’individuazione della disciplina applicabile all’arbitrato irrituale ai sensi del primo comma dell’art. 808 ter c.p.c, cfr. V. Bertoldi, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M. Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub art. 808 ter, p. 58 ss., spec. p. 74 ss. (25) Cfr. R. Muroni, in Aa.Vv., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di M.
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processuali previsti dal secondo comma del medesimo 808 ter c.p.c., destinati in linea tendenziale ad assorbire i tradizionali vizi dei lodi irrituali (26). 6. – Ma l’interesse del legislatore nei riguardi dell’istituto non si e` arrestato pur dopo la riforma del 2006: si e`, infatti, in questi giorni assistito ad un ulteriore intervento legislativo, che ha visto la luce dopo un tormentato iter parlamentare (27). Ci si riferisce alla l. 4 novembre 2010, n. 183, che appare destinata a ridisegnare il volto e la disciplina dei mezzi alternativi, ed in specie dell’arbitrato per la risoluzione delle controversie di lavoro e a complicare, se possibile, il relativo quadro delle fonti (28).
Benedettelli, C. Consolo e L. Radicati di Brozolo, cit., sub artt. 412 ter e 412 quater, p. 394 ss.; V. Bertoldi, Il regime di impugnazione dei lodi irrituali in materia di lavoro, cit., p. 365 ss., p. 367 s. (26) Sui motivi di impugnazione dei lodi irrituali c.d. di diritto comune, v. C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, 2a ed., vol. III, cit., p. 284 ss. (27) Il disegno di legge contenente le norme su conciliazione e arbitrato in materia di lavoro (dopo lo stralcio alla Camera dal d.d.l. n. C-1441) e` stato ivi inizialmente approvato dall’Assemblea, con il n. C-1441-quater, il 28 ottobre 2008, e quindi trasmesso al Senato il 29 ottobre 2008, ove il d.d.l., acquisito il n. S 1167, e` stato approvato, con modifiche, alla luce di alcuni emendamenti, il 26 novembre 2009. Il disegno di legge, in quanto modificato al Senato, e` stato, quindi, trasmesso alla Camera dei Deputati ed ivi, con il n. C 1441-quater-B, nuovamente approvato, con ulteriori modificazioni, il 28 gennaio 2010, con conseguente ri-trasmissione, il 1º febbraio 2010, al Senato. Tale ramo del Parlamento ha quindi avviato una seconda lettura del d.d.l., contrassegnato con il n. S 1167-B, ed e` addivenuto ad una prima l’approvazione finale il 3 marzo 2010. Come noto, in data 31 marzo 2010, il Presidente della Repubblica ha re-inviato alle Camere il testo del disegno di legge, testo che e` stato, dunque, sottoposto ad un riesame, avvenuto dapprima alla Camera dei Deputati (ove il d.d.l., con il n. C 1441-quater-D, e` stato modificato e quindi approvato dall’Assemblea il 29 aprile 2010) e nuovamente al Senato, con il n. S 1167-B/bis. A seguito di ulteriori revisioni intervenute in occasione di tale terza lettura al Senato, conclusasi con l’approvazione da parte di tale ramo del Parlamento il 29 settembre 2010, il d.d.l. e` stato ancora una volta trasmesso alla Camera, con il n. C 1441-quater-F, ove e` stato definitivamente approvato il 19 ottobre 2010. (28) La genesi di tale nuovo intervento legislativo sull’arbitrato in materia di lavoro e` stato seguito con attenzione, e preoccupazione per i profili sistematici ed applicativi, da una parte della dottrina. In proposito, cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, cit., p. 459 ss.; con riferimento al d.d.l. S 1167, in seconda lettura al Senato dopo l’approvazione alla camera il 28 ottobre 2008, cfr. C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, 2a ed., vol. III, cit., p. 293 ss.; nonche´, con riferimento al testo del d.d.l. S 1167, approvato dal Senato in prima lettura il 26 novembre 2009 e al testo del d.d.l. S1167 B approvato, sempre dal Senato, in seconda lettura il 3 marzo 2010, v. i contributi di B. Capponi, Le fonti degli arbitrati in materia di lavoro, in Mass. Giur. lav. 2010, p. 357 ss.; A. Vallebona, L’arbitrato irrituale per le controversie di lavoro, ivi, p. 362 ss.; V. Bertoldi, Il regime di impugnazione dei lodi irrituali in materia di lavoro, ivi, p. 365 ss.; R. Tiscini, Nuovi disegni di legge sulle controversie di lavoro tra conciliazione e arbitrato, ivi, p. 372 ss.; G. Sigillo` Massara, L’arbitrato nel contratto collettivo di lavoro dei dirigenti delle aziende industriali, ivi, p. 381 ss.; R. Vaccarella, Conclusioni, ivi, p. 388 s.; R. Pessi, La protezione giurisdizionale del
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Quest’ennesima novella apporta significative modifiche agli artt. 410 ss. c.p.c., sostituendo integralmente il testo degli artt. 412 ter e 412 quater c.p.c., come introdotti con la Novella del 1998, nonche´ dettando apposite nuove previsioni per l’arbitrato laburistico. In particolare, la nuova legge, oltre mutare da obbligatorio a facoltativo il tentativo di conciliazione quale filtro per la proposizione delle domande giudiziali, sembra voler disciplinare cinque nuove modalita` o tecniche di devoluzione delle controversie ad arbitri e, piu` in generale, e con indubbi riflessi sistematici, sembra voler incidere sui presupposti di ammissibilita` dell’arbitrato in materia di lavoro e sui limiti alla sindacabilita` del lodo. Come e` stato notato con riferimento ai progetti preparatori della riforma, la nuova legge si caratterizza per due profili essenziali e qualificanti. Il primo consistente in cio` che, se, da un lato, rimangono ferme, in quanto non direttamente incise ne´ abrogate, le previsioni generali dettate dall’art. 806 c.p.c. (per la species rituale) e dall’art. 5, comma 1º, l. 11 agosto 1973, n. 533 (per la species irrituale), dall’altro lato, il legislatore ha chiaramente inteso attenuare il rilievo fino ad oggi attribuito alla precostituzione collettiva per favorire la generale stipulazione di patti compromissori, impegnativi e vincolanti, direttamente ad opera delle parti individuali del rapporto di lavoro, al di fuori di specifiche ipotesi o tipologie di controversie. Il secondo elemento connotante la riforma e` l’abbandono, per il dictum irrituale, di un trattamento processuale unitario (prima ricollegabile all’art. 412 quater c.p.c.), con l’accentuarsi della frammentazione della disciplina concernente la finalizzazione del dictum agli effetti esecutivi e il regime di impugnazione, unitamente al tentativo di limitare la censurabilita` del lodo per violazione di norme inderogabili di legge (29). Sotto il primo punto di vista, si deve infatti notare che accanto alla disciplina codicistica per l’arbitrato rituale in materia di lavoro, di cui alle menzionate disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice di rito, e accanto alle singole fattispecie di arbitrati facoltativi gia` previsti da disposizioni legislative (quali l’arbitrato sui licenziamenti individuali di cui all’art. 7, ult. co., l. n. 604/1966 e di cui all’art. 5, l. n. 108/1990 e l’arbitrato in materia di sazioni disciplinari di cui all’art. 7, l. n. 300/1970), la nuova legge sembra distinguere altre cinque modalita` di devoluzione delle controversie di lavoro ad arbitri. a) La prima, regolata dall’art. 412 c.p.c. (nel testo modificato per l’appunto dalla l. n. 183/2010), viene prevista durante o a conclusione dell’infruttuoso tentativo di conciliazione in sede c.d. amministrativa, ed e` caratterizzata dal fatto che il mandato
lavoro nella dimensione nazionale e transnazionale: riforme, ipotesi, effettivita`, in Riv. it. dir. lav. 2010, I, p. 195 ss., p. 203 ss. (29) V. in proposito le osservazioni, svolte sulle linee tendenziali che gia` si preannunciavano nei passaggi parlamentari, di B. Capponi, Le fonti degli arbitrati in materia di lavoro, cit., p. 360 ss.; V. Bertoldi, Il regime di impugnazione dei lodi irrituali in materia di lavoro, cit., p. 369 ss.
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a risolvere la controversia in via arbitrale e` affidato alla stessa commissione di conciliazione e dal dato che le parti, nel conferire il predetto mandato, hanno il potere di stabilire il termine per la pronuncia del lodo, che non puo` superare i sessanta giorni, e le norme applicabili al merito della controversia, nonche´ di formulare richiesta per la decisione secondo equita`, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamrnto e dei principi regolatori della materia. Si tratta di un arbitrato di natura irrituale, come si desume dai modificati commi terzo e quarto del novellato art. 412 c.p.c., che, da un lato, operano il rinvio all’art. 808 ter c.p.c. e, dall’altro, dettano un apposito regime procedimentale e di finalizzazione agli effetti esecutivi (mutuato dal precedente testo dell’art. 412 quater c.p.c. e dunque incompatibile con la species rituale) e che, quanto all’ambito di censurabilita` del dictum, intendono rendere irrilevante l’eventuale inosservanza delle norme inderogabili di legge e della contrattazione collettiva, con tendenziale equiparazione, da questo punto di vista, del lodo arbitrale al verbale di conciliazione, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2113 cod. civ. b) La seconda modalita`, in linea con la tradizione, e` quella prevista dalla contrattazione collettiva, in relazione alla quale la nuova legge interviene con un’integrale riscrittura del testo dell’art. 412 ter c.p.c., come in precedenza risultante dai decreti legislativi n. 80/1998 e n. 387/1998. In primo luogo, detta norma ben puo` riferirsi, nella sua anodina formulazione, sia alla species rituale che a quella irrituale e pare dunque destinata a coordinarsi, quanto alle manifestazioni della volonta` individuale, con gli artt. 806 c.p.c. e con l’art. 5, comma 1, l. 533/1973. Inoltre, quanto al procedimento, il nuovo testo si svuota delle dettagliate previsioni prima contenute nell’art. 412 ter c.p.c. (30) e si limita a rinviare alla disciplina dei contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. c) La terza modalita` di arbitrato, che viene oggi disciplinata nel riformato art. 412 quater c.p.c. (il cui testo risulta, dunque, integralmente sostituito), trae origine da una manifestazione di volonta` delle parti individuali, non bisognosa di precostituzione collettiva, che interviene a lite gia` insorta, al fine di devolvere la controversia al collegio disciplinato ai sensi del medesimo art. 412 quater. Trattasi di un arbitrato di natura irrituale – come emerge dal rinvio al regime impugnatorio dell’art. 808 ter c.p.c., in relazione al quale si riproducono peraltro anche le altre previsioni di cui ai commi 3º e 4º del precedente art. 412 c.p.c. – fortemente processualizzato e per il quale l’art. 412 quater c.p.c. prevede l’investitura di un collegio composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte, tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione. d) La quarta modalita` e` prevista dal comma 10º dell’art. 31, l. n. 183/2010, che ammette la devoluzione delle liti in arbitrato, quando cio` sia previsto dalla contrattazione collettiva o dalla normativa secondaria sostitutiva emanata con decreto del Ministro del Lavoro – ai sensi del successivo comma 11º (31) – sulla base di
(30) Contenuti richiamati supra alla nota 18. (31) Comma 11º di cui si riporta il testo: «In assenza degli accordi interconfederali o con-
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una clausola compromissoria stipulata direttamente dal singolo lavoratore e datore di lavoro e che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere immediatamente vincolante per le parti individuali (senza conservazione, quindi, della facolta` di adire il giudice dello Stato prevista nell’art. 5 l. n. 533/1973) e chiaramente idonea, per sua intrinseca natura, a comprendere anche le controversie future ed eventuali nascenti dal rapporto di lavoro, con la sola esclusione di quelle relative alla risoluzione del contratto di lavoro. La natura di siffatto modello arbitrale non viene espressamente indicata dalla disposizione, dal momento che il rinvio agli artt. 412 e 412 quater c.p.c. viene effettuato in relazione alle modalita` di espletamento dell’arbitrato e non anche al trattamento processuale del relativo lodo. La norma, che ha avuto una genesi sofferta, sembra voler dettare anche alcuni correttivi, forse piu` apparenti che sostanziali, rispetto al pericolo, paventato da piu` parti in dottrina, che il lavoratore si trovi esposto a dover accettare una manifestazione di volonta` compromissoria, e quindi l’opzione per l’arbitrato, con rinuncia ad adire il giudice dello Stato, non gia` a controversia insorta, bensı` al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Si tratta, in particolare, del presupposto (comunque superabile ai sensi del successivo comma 11) che siano gli accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dalle organizzazioni datoriali comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale a prevedere la possibilita` per le parti individuali di stipulare detta clausola compromissoria; della necessita` che questa sia certificata, all’atto della sua sottoscrizione, dalle commissioni di cui all’art. 76 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, previo accertamento della effettiva volonta` delle parti di devolvere ad arbitri le future eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro; della prescrizione che esclude temporalmente il potere di sottoscrivere la clausola «prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascrosi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di alvoro, in tutti gli altri casi». e) La quinta modalita`, prevista nel comma 12 dell’art. 31, l. n. 183/2010, configura, invece, un’ipotesi di arbitrato amministrato innanzi alle camere arbitrali istituite presso i predetti organi di certificazione, arbitrato di natura irrituale, come si desume rinvio testuale alla «definizione ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.». 7. – Alla luce di questo quadro, che ho ritenuto opportuno delinerare sia pure in termini sintetici, non puo` sfuggire, come non e` sfuggito alla dottrina, che gli in-
tratti collettivi di cui al primo periodo del comma 10, trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali convoca le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente piu` rappresentative, al fine di promuovere l’accordo. In caso di mancata stipulazione dell’accordo di cui al periodo precedente, entro i sei mesi successivi alla data di convocazione, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto, tenuto conto delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti sociali, individua in via sperimentale, fatta salva la possibilita` di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi, le modalita` di attuazione e di piena operativita` delle disposizioni di cui al comma 10».
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terventi normativi che si sono accavallati a partire dagli anni ’70 in poi non sono stati ispirati dall’esigenza di attribuire dignita` giuridica ad un istituto, quale l’arbitrato, che, dopo la dissoluzione dell’ordinamento corporativo e nonostante la sopravvivenza delle disposizioni del codice di procedura civile del 1940, su impulso e traendo linfa vitale da fonti appartenenti all’ordinamento intersindacale, era gia` entrato pienamente nel c.d. diritto vivente. Il vero e` che tali interventi hanno trovato, soprattutto in un primo tempo, la propria giustificazione nella volonta` legislativa per un verso, di attrarre, entro l’ordinamento statale, un istituto fino ad allora operante esclusivamente sul terreno, che e` il terreno proprio e genuino dell’arbitrato, dell’autonomia negoziale, al di fuori di ogni regolamentazione legale, introducendo all’uopo vincoli e limiti e, per l’altro verso, di disciplinare l’equilibrio dei rapporti fra autonomia privata individuale e autonomia privata collettiva (32); mentre le successive iniziative del legislatore si sono connotate per le variazioni di tipo sistematico (come avvenuto con il d.lgs. n. 387/1998, conseguentemente all’inserzione del nomen irrituale nella rubrica dell’art. 412 ter c.p.c.) nonche´ per l’aver rinverdito in norme positive quella bipartizione fra le due forme di arbitrato, che alla luce della riforma degli artt. 806 ss. c.p.c. operata dalla l. n. 25/1994 ed anteriormente al d.lgs. n. 40/2006, era stata superata in sede generale. Una diversa ispirazione sembra sottesa alla recentissima l. n. 183/2010, ossia quella di incidere su taluni profili della disciplina positiva, nei quali si sono storicamente ravvisati altrettanti ostacoli al successo dell’istituto e che tuttavia pongono delicate questioni in ordine, da un lato, alle tecniche e forme di manifestazione della volonta` compromissoria, ossia alla stessa scelta dell’arbitrato come strumento per la soluzione delle controversie, e, dall’altro, ai criteri, alle regole di giudizio e all’impugnabilita` del lodo: mi riferisco alle previsioni tese a consentire la devoluzione ad arbitri delle controversie di lavoro in forza di clausola compromissoria individuale (sia pure «certificata»), ad affermare la possibilita` di decidere secondo equita` e a limitare, in sede di impugnazione, il sindacato del lodo in relazione alle norme di legge e della contrattazione collettiva. Resta, tuttavia, il fondato dubbio che questa nuova riforma, per la delicatezza degli interventi sulla manifestazione della volonta` compromissoria e per la proliferazione dei modelli di arbitrato (con relativi regimi di impugnazione) cui da` vita, sia ben lungi dall’offrire all’istituto una disciplina effettivamente idonea a superare le incertezze che lo circondano e dunque a fare dell’arbitrato una modalita` di risoluzione delle controversie di lavoro pienamente alternativa rispetto al ricorso al giudice (33). Carmine Punzi
(32) Cfr. C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. I, cit., p. 234. (33) In questi termini, nel commento alle proposte di riforma avanzate negli anni 20092010, cfr. anche R. Vaccarella, Conclusioni, cit., p. 389; piu` fiducioso R. Pessi, La protezione giurisdizionale del lavoro, cit., p. 204 ss., p. 206, il quale pone peraltro l’accento sulla necessita` della formazione di un ceto professionale di arbitri che sia in grado di svolgere un ruolo che, in una materia come quella di lavoro, si presenta particolarmente complesso.
` INTERROGATIVI SULLA LEGITTIMITA COSTITUZIONALE DELLA NUOVA «CLASS ACTION» (*)
Sommario: 1. Precisazioni preliminari. – 2. Sulla nozione di consumatore applicabile all’azione di classe. – 3. L’asserita discriminazione delle associazioni dei consumatori e degli utenti con riferimento all’autonoma promovibilita` dell’azione di classe. – 4. Sulla pretesa disparita` di trattamento degli aderenti all’azione di classe nei confronti del promotore. – 5. L’asserito stravolgimento delle normali regole processuali da parte della disciplina del giudizio di classe. – 6. Sull’impugnabilita` per cassazione dell’ordinanza di ammissibilita` dell’azione di classe. – 7. Sulla possibilita` dell’impresa di proporre domande riconvenzionali e chiamate di terzo nel giudizio di classe. – 8. Sulla discutibile legittimita` costituzionale della norma che impedisce l’applicabilita` dell’azione di classe agli illeciti commessi prima del 15 agosto 2009.
1. – Con l’art. 49, l. 23 luglio 2009, n. 99 il legislatore, modificando radicalmente l’impostazione piu` pubblicistica dell’attuale seguita dall’art. 2, comma 446, l. 24 dicembre 2007, n. 446 – che attribuiva la legittimazione ad agire alle sole associazioni portatrici di interessi collettivi -, ha dato vita ad un’azione che, pur essendo parimenti «collettiva risarcitoria», come quella del 2007 (1), e` denominata «di classe» e si realizza nel cumulo e nella gestione congiunta di azioni individuali in uno stesso «unico» processo contro la stessa impresa per i medesimi fatti, per celebrare il quale il legislatore ha attribuito al competente tribunale poteri inusuali, tra cui quelli di «definire i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio» e di regolare «nel modo che ritiene il piu` opportuno l’istruzione probatoria». Al rimedio cosı` congegnato la prevalente dottrina ha riconosciuto il merito di costituire, nel nostro ordinamento, uno strumento processuale assolutamente originale e, sotto taluni profili, addirittura dirompente, ancorche´ attento ai contrapposti interessi in gioco (2). Cio` non di meno con riferimento a tale normativa sono stati prospettati in dottrina svariati dubbi di costituzionalita`.
(*) Relazione al XXV Convegno di studio «Adolfo Beria di Argentine» sul tema «Class Action: il nuovo volto della tutela collettiva in Italia», Courmayeur, 1-2 ottobre 2010. (1) R. Caponi, Il nuovo volto della class action, in Foro it. 2009, V, 383. (2) Cosı`, tra i molti, F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria: l’azione di classe dopo le recenti modifiche all’art. 140-bis cod. cons., in www.judicium.it, § 1.
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La disamina di tali dubbi e degli altri che mi sono stati verbalmente sottoposti da amici e colleghi costituisce l’oggetto del presente contributo. 2. – In primo luogo deve essere sgombrato il campo da un dubbio, gia` fatto oggetto di esame nella prima decisione giudiziaria in materia di azione di classe (3), secondo il quale la normativa introdotta con l’art. 49, comma 1º, l. n. 99/ 2009 violerebbe, sotto il profilo soggettivo (nozione di consumatore e di utente ai sensi dell’art. 140 bis, comma 1º), gli artt. 3 e 24 Cost. Si e` infatti sostenuto che la definizione di consumatore di cui all’art. 3 c.cons – in forza del quale il consumatore o l’utente e` «la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attivita` imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta» – sarebbe bensı` applicabile ai contratti del consumatore in generale (artt. 33 ss. c. cons.) ma non all’azione di classe. Come giustamente rilevato dal Tribunale di Torino – che ha ritenuto manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalita` – e` pero` impensabile che il legislatore abbia inteso attribuire alla nozione di consumatore di cui all’art. 140 bis, comma 1º, un significato diverso da quello dell’art. 3 c.cons., quando in questo articolo, specificamente dedicato alle «Definizioni», si prescrive che la nozione di consumatore o utente e` quella ivi testualmente riportata «ove non diversamente disposto» (4). Il che appunto non accade nell’art. 140 bis, comma 1º. D’altra parte non si vede perche´ mai la nozione di consumatore di cui all’art. 140 bis dovrebbe essere diversa da quella degli artt. 33 ss., nell’uno come nell’altro caso essendo rilevante la qualita` di soggetto debole che agisce, nei confronti dell’imprenditore, per scopi estranei alla sua attivita` professionale. Ma proprio perche´ il soggetto a cui il legislatore riconosce la legittimazione all’azione di classe e` «la persona fisica che agisce, nei confronti dell’imprenditore, per scopi estranei all’attivita` imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta» (conseguentemente identificata come «soggetto debole») (5), ne segue che, qualora questo requisito soggettivo venisse riscontrato in fat-
(3) Trib. Torino, ord. 27 maggio 2010, Codacons e altro c. Intesa San Paolo. (4) Cosı`, ancora, Trib. Torino, ord. cit. (5) Si vuole con cio` sottolineare che il requisito di soggetto debole non e` ulteriore rispetto a quello gia` insito nella definizione dell’art. 3 c.cons. In questo senso v. gia` Corte cost., 20 novembre 2002, n. 469 a proposito del vecchio art. 1469 bis, comma 2, c.c. Si legge in tale decisione: «La preferenza nell’accordare particolare protezione a coloro che agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale si dimostra non irragionevole allorche´ si consideri che la finalita` della norma e` proprio quella di tutelare i soggetti che secondo l’id quod plerumque accidit sono presumibilmente privi della necessaria competenza per negoziare; onde la logica conseguenza dell’esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti – quali quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani – che proprio per l’attivita` abitualmente svolta hanno cognizioni idonee per contrattare su un piano di parita`. Una diversa scelta presupporrebbe logicamente che il piccolo imprenditore e l’artigiano, cosı` come il professionista, siano sempre soggetti deboli
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tispecie normative non esplicitamente previste nel codice del consumo, gli interessati potrebbero parimenti pretendere di avvalersi, dinanzi al tribunale competente, dell’azione di classe e, in via subordinata, potrebbero prospettare, ai sensi dell’art. 3 Cost., la questione di legittimita` costituzionale di tale disposizione, per disparita` di trattamento nei confronti delle figure soggettive contemplate nel codice del consumo, le quali rileverebbero percio` come tertium comparationis nella questione di costituzionalita` (6). 3. – Il secondo interrogativo attiene alla legittimazione attiva. Ci si chiede infatti se l’art. 140 bis, comma 1º, c. cons., nel prescrivere la necessita` del previo mandato da parte del singolo componente della classe che abbia subı`to un concreto pregiudizio, non violi gli artt. 2, 3, 18, 24 e 111 Cost., in quanto precluderebbe irragionevolmente alle associazioni dei consumatori e degli utenti di cui agli artt. 139 e 140 c. cons. la possibilita` di promuovere autonomamente l’azione di classe (7). E` vero, invece, che cosı` disponendo, il legislatore si e` mosso rispettando rigorosamente l’art. 3 Cost. Le associazioni dei consumatori e degli utenti di cui agli articoli citati vengono infatti trattate alla stessa stregua delle altre associazioni (8), richiedendosi, per queste come per quelle, che esse siano effettivamente rappresentative di soggetti concretamente lesi (e quindi anche di un solo utente o consumatore, sempre che egli sia in grado di dimostrare «di curare adeguatamente l’interesse della classe», ai sensi dell’art. 140 bis, comma 6º, c.
anche quando contrattano a scopo di lucro in funzione dell’attivita` imprenditoriale o artigianale da essi svolta; il che contrasterebbe con lo spirito della direttiva e della conseguente normativa di attuazione» (c.n.). (6) Diverso problema solleva G. De Nova, La disciplina della vendita dei beni di consumo nel «Codice» del consumo, in Contratti 2006, 392, che prospetta l’ipotesi di un danno cagionato a un «non» consumatore dal difetto di un prodotto, la cui disciplina, inizialmente dettata dal d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, e` stata ormai trasferita nel codice del consumo. Sembra doversi ritenere che, in tal caso, non sia opponibile dal produttore la carenza di legittimazione del danneggiato «non» consumatore. La trasposizione della disciplina della responsabilita` del produttore nel codice del consumo (con conseguente abrogazione del d.p.r. n. 224 del 1088) non puo` infatti implicare – come temuto dal De Nova – che, in contrasto con la dir. CEE n. 85/374, di cui il d.p.r. n. 224 costituiva attuazione, la responsabilita` del produttore per i danni provocati a «non» consumatori sia ormai rimasta priva di disciplina. Per vero cio` determinerebbe la responsabilita` civile dello Stato italiano, nei confronti del danneggiato «non» consumatore, per omessa trasposizione di direttiva. La disciplina del codice di consumo dovrebbe quindi applicarsi, in parte qua, anche al «non» consumatore. Egli pero` rimarrebbe «non» consumatore e pertanto non gli si applicherebbe l’art. 143 c. cons. che prescrive l’irrinunciabilita` dei diritti del consumatore. (7) Cosı` A. Riccio, La nuova azione di classe: prime riflessioni critiche, in Contratto impr. 2010, 11 ss. (8) Ad esempio un’associazione professionale tra avvocati. Sul punto, amplius, v. F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 3.
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cons.) (9) e non lo siano solo astrattamente, in forza di un «rescriptum principis» (10). Conseguentemente, si e` giustamente concluso che, «a seguito della nuova formulazione dell’azione di classe, le associazioni dei consumatori non avranno piu` un potere esclusivo nella promozione della tutela collettiva risarcitoria, ma cio` non di meno esse potranno comunque proporre l’azione nella qualita` di rappresentati processuali, ove anche un solo soggetto della classe attribuisse loro mandato» (11). Il che, si badi bene, non significa che, per altro verso, i diritti di cui si postula il pregiudizio non possano essere tutelati mediante il rimedio inibitorio o ripristinatorio a cura delle associazioni dei consumatori, quando, mediante un diverso petitum, sia diverso il risultato che si intende perseguire (12). 4. – Terzo interrogativo. Ci si chiede se il nuovo art. 140 bis c. cons. implichi una illegittima disparita` di trattamento tra promotore e aderenti (13), in particolare per cio` che attiene sia al potere di determinare la strategia processuale sia all’obbligo di far fronte alle spese processuali. L’apparente disparita` di trattamento risponde, a ben vedere, ad una diversita` ontologica delle due figure. In primo luogo, non diversamente da tutti i fenomeni anche lato sensu associativi, la posizione giuridica degli aderenti e`, e non puo` non essere, nettamente diversa da quella dei promotori (si pensi alle riunioni in luogo pubblico, alle associazioni sindacali, ai partiti politici ecc.), il che costituisce la logica conseguenza della scelta legislativa in favore del sistema dell’opt-in, il quale implica necessariamente l’adesione degli utenti e dei consumatori ad una preesistente iniziativa processuale gia` sufficientemente delineata nei suoi termini essenziali dal promotore. Ed appunto in cio` trova conferma l’esatto rilievo secondo il quale, nonostante l’imprecisa formulazione del comma 3º («L’atto di adesione (...) e` depositato in cancelleria, anche tramite l’attore...»), il singolo consumatore/utente non puo` «aderire all’azione di classe senza il coinvolgimento» del promotore (14).
(9) Sui problemi che solleva tale ipotesi v. M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, in www.judicium.it , § 5. (10) Si ricordi che l’art. 2, comma 446º, l. n. 446/2007, nel disciplinare la prima class action, conferiva alle associazioni di cui agli artt. 139 e 140 il monopolio dell’azione. Ne rileva la fine C. Punzi, L’azione di classe a tutela dei consumatori e degli utenti, in Riv. dir. proc. 2010, 257. (11) Cosı`, ancora, F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 3. (12) I. Pagni, L’azione di classe del nuovo art. 140-bis: le situazioni soggettive tutelate, l’introduzione del giudizio e l’ammissibilita` della domanda, in Riv. dir. civ. 2010, 354. (13) Manifesta perplessita` sul punto C. Punzi, L’azione di classe a tutela dei consumatori, cit., 259 s. (14) C. Consolo, Come cambia, rivelando ormai a tutti e in pieno il suo volto, l’art. 140-bis e la class action consumeristica, in Corriere giur. 2009, 1301.
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In secondo luogo e` pacifico che le parti in causa sono solo due: il promotore da un lato e l’impresa dall’altro. Di qui la conseguenza, altrettanto pacifica in dottrina, secondo la quale i poteri riconosciuti agli aderenti sono solo quelli della parte in senso sostanziale, e non della parte in senso formale (15). Va pero` ricordato che l’adesione all’azione di classe deve essere formalizzata in atto scritto (16), autenticato da pubblico ufficiale (17) e che all’atto di adesione si applicano le norme del mandato con rappresentanza (18). Non puo` quindi escludersi che nei rapporti interni tra promotore e aderente possano essere previste delle clausole che attribuiscano ad uno o piu` aderenti il potere di concorrere alla determinazione della strategia difensiva. Del pari, mentre e` ovvio, in linea di principio, che l’aderente, non essendo parte in senso formale, non risponde delle spese processuali in caso di rigetto della domanda (19), non e` da escludere, anche a questo riguardo, che tra promotore e aderente si addivenga ad un diverso carico delle spese ancorche´ con effetti limitati ai rapporti interni (20). Comunque sia, il mandato non consente al promotore di compiere atti che presuppongano la capacita` di disporre dei diritti altrui oggetto della controversia (21) e quindi non gli consente di prestare acquiescenza alla sentenza di rigetto nel merito (22). Cio` e` del resto desumibile anche dall’art. 140 bis, comma 15º, secondo il quale «Le rinunce e le transazioni intervenute tra le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti che non vi hanno espressamente rinunciato» (23). Il che, a ben vedere, implica anche un’altra conseguenza. Non solo e` preferibile (24), ma deve ritenersi addirittura imposto dal legislatore, ancorche´ in via implicita, che il potere di transigere o rinunciare all’azione possa essere conferito al
(15) In questo senso per tutti v. R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 385; C. Consolo, Come cambia, cit., 1300; C. Punzi, L’azione di classe a tutela dei consumatori, cit., 259; S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, in www.judicium.it, § 5; I. Pagni, L’azione di classe del nuovo art. 140-bis, cit., 362 s. In questo senso v. anche Trib. Torino, ord. cit. (16) C. Punzi, L’azione di classe a tutela dei consumatori, cit., 257-259. (17) Non quindi del promotore che non e` un avvocato, ne´ dell’avvocato del promotore che non e` l’avvocato degli aderenti. (18) R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 385; M. Guernelli, La nuova azione di classe: profili processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2010, 927 s. Perplessita` al riguardo solleva invece M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, cit., § 6. (19) In questo senso C. Consolo, Come cambia, cit., 1300; R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 385. (20) Cosi R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 385, argomentando ex art. 1719 c.c. (21) R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 385; S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, cit., § 3. (22) In senso contrario S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, cit., § 5. (23) In senso contrario S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, cit., § 5. (24) In questo senso v. C. Consolo, Come cambia, cit., 1306, il quale, dopo aver giustamente osservato che la disciplina dell’art. 140 bis «implica una procura speciale con riguardo al potere di transigere o rinunciare all’azione, ma non chiarisce se tale procura possa essere gia` contenuta nel mandato iniziale o debba essere rilasciata dai singoli consumatori/utenti solo dopo aver conosciuto i contenuti della proposta transattiva», si limita a sottolineare i vantaggi connessi a questa seconda soluzione (ivi, 1306, nt. 15).
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promotore soltanto specificamente e solo dopo che gli aderenti abbiano conosciuto i contenuti della proposta. Non quindi genericamente nel mandato di adesione. Inoltre, a mio avviso, l’aderente potrebbe revocare in qualsiasi momento il suo mandato, senza dover addurre l’esistenza di una giusta causa, beninteso salvo patto contrario e salvo il caso, rarissimo ma possibile, in cui il consumatore/utente sia l’unico aderente, nel qual caso il mandato deve oggettivamente intendersi conferito anche nell’interesse del promotore con conseguente irrevocabilita` (art. 1723 c.c.). Ovviamente da tale revoca e dalla conseguente rinuncia al giudizio di classe derivera` nel contempo la rinuncia «ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo» (art. 140 bis, comma 3º, c. cons.). La rinuncia non dovra` pero` essere accettata dall’impresa convenuta per la semplice ragione che l’aderente non e` parte in senso formale (25). Perplessita` potrebbero sorgere nell’ipotesi che la revoca sia dovuta ad un mutamento di strategia del promotore o ad errori tecnici del difensore. Ma anche in tal caso dovrebbero restare fermi, a mio parere, gli effetti legali derivanti dall’atto di adesione (e cioe` la rinuncia all’azione individuale), e cio` non solo perche´ le conseguenze di cui si lamenterebbe l’utente/consumatore sono il frutto di una sua libera scelta, ma anche perche´ una soluzione diversa potrebbe dare la stura, nel corso del processo di classe, ad una moltiplicazione di azioni individuali. 5. – Il quarto interrogativo e`, a ben vedere, una variante del secondo. Ci si chiede perche´ mai i diritti individuali seriali omogenei, mentre possono essere liberamente esercitati con azioni individuali secondo le normali regole processuali, la loro disciplina ne viene invece totalmente stravolta sul piano processuale qualora vengano esercitati aderendo all’azione di classe, al punto che e` escluso l’intervento del terzo (art. 140 bis, comma 10º, c. cons.). Anche a tal proposito non sembra emergere una violazione ne´ del diritto di agire in giudizio ne´ del diritto al pari trattamento, e cio` per il semplice fatto che, in forza dell’art. 140 bis, comma 1º, c. cons., i diritti individuali dei singoli sono comunque salvaguardati in quanto l’azione di classe costituisce un plus rispetto ad essi (26). L’adesione all’azione di classe costituisce quindi una libera scelta dell’utente/ consumatore, il quale, potendo optare tra l’azione individuale e l’azione collettiva, preferisce avvalersi, grazie all’art. 140 bis, di questo nuovo strumento processuale, sicuramente meno costoso per i singoli aderenti, ma che il legislatore ha disciplinato in maniera del tutto originale e diversa rispetto alle comuni regole processuali. Il che, di per se´, non costituisce un sintomo d’incostituzionalita`, essendo pacifico,
(25) Contra M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, cit., § 6. (26) Art. 140 bis, comma 1º, c. cons.: «I diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe, secondo le previsioni del presente articolo».
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nella giurisprudenza della Corte costituzionale, «che il legislatore, nella sua discrezionalita` – con il solo limite della non manifesta irragionevolezza o non palese arbitrarieta` – puo` adottare norme processuali differenziate tra i diversi tipi di giurisdizioni e di riti procedimentali, non essendo tenuto, sul piano costituzionale, ad osservare regole uniformi rispetto al processo civile, proprio per le ragioni che possono giustificare la pluralita` di giurisdizioni, le diversita` processuali e le differenze delle tipologie dei riti speciali» (27). Esaminiamo allora se le peculiarita` processuali introdotte rispettano il limite della ragionevolezza. In tal senso e` importante che si sia autorevolmente rilevato che il legislatore ha modellato questo nuovo strumento processuale ponendo, su un piatto della bilancia, «le garanzie costituzionali che sorreggono il modello tradizionale di tutela giurisdizionale dei diritti nel singolo processo, e sull’altro piatto l’efficienza di un processo complesso in re ipsa» (28). Prima peculiarita`. La scommessa dell’«efficienza processuale» viene giocata dal legislatore soprattutto sulla capacita` del tribunale di sommare alla figura del giudicante quella del legislatore del «caso processuale concreto» (29). Al tribunale e` infatti affidato il compito di «definire i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio», di determinare «il corso della procedura», di regolare «nel modo che ritiene il piu` opportuno l’istruzione probatoria» e di disciplinare «ogni altra questione di merito» [art. 140 bis, commi 9º, lett. a, e 11º, c. cons.]. Il che, proprio perche´ la norma richiede una particolare sensibilita` «creativa» da parte del magistrato, potrebbe far prospettare il dubbio sulla violazione del principio di legalita` di cui all’art. 101, comma 2º, Cost. Sembra tuttavia dirimente il rilievo che la novita` dell’azione di classe si regge proprio su questa capacita` creativa dei magistrati del tribunale. Di talche´, se si la si volesse escludere (ritenendosi «troppo» ampia la discrezionalita` attribuita al magistrato), si negherebbe conseguentemente la stessa possibilita` di sopravvivenza dell’azione di classe cosı` come configurata dall’art. 140 bis. La seconda peculiarita` della disciplina, che a ben vedere costituisce la ragione dell’attribuzione dei poteri creativi teste´ discussi, sta nella scelta legislativa in favore dell’«unicita`» dell’azione di classe, da cui consegue l’improponibilita` di «ulteriori azioni di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice ai sensi del comma 9» (art. 140 bis, comma 14º, c. cons.). Unicita` dell’azione di classe che si giustifica soprattutto per evitare che la singola impresa venga fatta oggetto di una pluralita` di azioni di classe, con conseguenti «forti turbative di mercato» (30), ed e` garantita dagli ampi poteri del tribu-
(27) Cosı` ad es. Corte cost., ord. 6 maggio 2002, n. 179 del 2002 che si richiama alle ordinanze nn. 242/2001, 30/2000, 359/1998, nonche´ alla sentenza 9 marzo 1998, n. 53. (28) R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 386. (29) C. Consolo, Come cambia, cit., 1303. (30) Cosı` anche F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 1, i quali sottolineano che, a tal fine, il legislatore ha previsto «non solo i meccanismi pre-
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nale sull’ammissibilita` dell’azione (art. 140 bis, comma 6º), la quale puo` essere negata non solo quando essa sia manifestamente infondata, quando non vi sia identita` dei diritti tutelabili, quando il proponente non appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe ma anche «quando sussiste un conflitto di interessi» (31). Il che, a parer mio, si verifica nell’ipotesi che la stessa impresa che ha commesso l’illecito tenti di instaurare, sotto mentite spoglie e/o per il tramite di soggetti compiacenti, un’azione di classe «fasulla» contro se stessa, nel tentativo di difficultare o boicottare l’azione di classe dei soggetti effettivamente lesi. Se, per tutte queste ragioni, e` ben condivisibile la scelta legislativa della concentrazione dell’azione di classe in un unico processo, ne segue anche la ragionevolezza della scelta legislativa di escludere l’intervento dei terzi ai sensi dell’art. 105 c.p.c. (32), che il precedente art. 140 bis contemplava al comma 2º suscitando al riguardo forti perplessita` (33), anche se, nella logica di quell’azione (la cui promozione era rimessa alle associazioni dei consumatori e degli utenti), l’intervento dei privati poteva avere una qualche giustificazione. Una terza peculiarita` dell’azione di classe, che giustifica la previsione di norme processuali differenziate, sta nell’attribuzione soltanto ai tribunali di taluni distretti di corte d’appello della competenza a decidere sulle azioni di classe (art. 140 bis, comma 4º, c. cons.). Un’attribuzione che per un verso razionalmente si giustifica per l’elevata specializzazione che deve caratterizzare il collegio giudicante e che per altro verso non implica alcun aggravio di spese a carico dei singoli aderenti eventualmente sparsi su tutto il territorio nazionale (tranne, ovviamente, l’autentica della propria firma da parte di un pubblico ufficiale) (34). E` infatti il promotore, e non l’aderente, a dover curare il deposito in cancelleria dei vari atti di adesione. 6. – Quinto interrogativo. Nel silenzio del legislatore si e` prospettato il dubbio se l’ordinanza con la quale la corte d’appello si pronuncia per l’ammissibilita` (o per l’inammissibilita`) dell’azione di classe sia impugnabile in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7º, Cost. La risposta di gran lunga prevalente in dottrina e` negativa: essa risiede in cio`, che l’ordinanza non avrebbe contenuto decisorio avendo ad
clusivi alla riproposizione dell’azione, ma anche condanne aggravate al pagamento delle spese processuali in caso di inammissibilita` dell’azione proposta». (31) In favore della legittimita` costituzionale di tale «filtro», v. M. Guernelli, La nuova azione di classe: profili processuali, cit., 923. (32) R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 386 rileva giustamente come il processo di classe sia stato «opportunamente depurato dell’intervento di terzi». (33) Cosı` ancora F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 9, che citano al riguardo S. Menchini, La nuova azione collettiva risarcitoria e restitutoria, in Giusto proc. civ. 2008, 41 ss. e D. Amadei, L’azione di classe italiana per la tutela dei diritti individuali omogenei, in www.judicium.it. (34) V. supra, nt. 17.
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oggetto «il potere processuale di azione di classe, e mai – neppure nel caso che vi siano state adesioni preventive – i diritti soggettivi dei class members» (35). La tesi non convince. Essa non tiene conto di quanto si e` sottolineato nella stessa dottrina civilprocessualistica, e cioe` che la nuova azione di classe realizza delle istanze di tutela che l’ordinamento processuale italiano sino ad oggi non era stato «in grado di soddisfare, sia per carenze fisiologiche sia per un’incapacita` strutturale e genetica della classica struttura processuale»: istanze che, nel caso delle azioni di modico valore (c.d. small claims), sarebbe doveroso tutelare efficacemente ai sensi dell’art. 24 Cost. «in quanto diritti soggettivi che rischiano di non ottenere un’efficiente tutela con le comuni normative processuali, che vanno pertanto attualizzate» (36). Ma se l’azione di classe costituisce una forma di tutela costituzionalmente «doverosa», pare allora davvero contraddittorio sostenere – soprattutto nel caso delle c.d. small claims – che la pronuncia d’inammissibilita` dell’azione di classe non provocherebbe un pregiudizio irreparabile ai diritti soggettivi dei class members. Pur essendo vero che la declaratoria di inammissibilita` dell’azione di classe non estingue l’azione individuale, e` infatti altrettanto vero che gli ex attori collettivi non saprebbero cosa farsene dell’azione individuale. Di qui, a mio parere, la con-
(35) Cosı` S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, cit., § 13, ed ivi alla nota 13 ampi riferimenti alla dottrina favorevole alla tesi negativa, a cui vanno aggiunti M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, cit., § 5, e I. Pagni, L’azione di classe del nuovo art. 140-bis, cit., 370 s. Nello stesso senso, a proposito della prima versione dell’azione collettiva risarcitoria, v. A. Giussani, L’azione collettiva risarcitoria nell’art. 140 bis codice di consumo, in Riv. dir. proc. 2008, 1231, il quale contestava la possibilita` «di qualificare come diritto una situazione di vantaggio attributiva di utilita` solo processuali». Sul punto v. anche F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 5, nt. 113, che pero` prospettano perplessita` circa la soluzione. In senso favorevole alla ricorribilita` in cassazione, v. invece, con riferimento al vecchio testo, G. Costantino, La tutela collettiva risarcitoria: note a prima lettura dell’art. 140-bis del cod. consumo, in Foro it. 2008, V, 22 s. e A. Briguglio, L’azione collettiva risarcitoria (art. 140 bis Codice del Consumo), Torino 2008, 119 ss., quest’ultimo favorevole all’impugnativa della sola ordinanza di inammissibilita`. In senso favorevole, con riferimento al nuovo testo, v. F. Camilletti, Il nuovo art. 140-bis del codice del consumo e l’azione di classe, in Contratti 2009, 1182 e T. Galletto, L’azione di (seconda) classe (Considerazioni sul novellato art 140 bis del codice del consumo), in Nuova giur. civ. comm. 2009, II, 345. (36) In tal senso v. F. Santangeli, P. Parisi, Il nuovo strumento di tutela collettiva risarcitoria, cit., § 1; T. Galletto, L’azione di (seconda) classe, cit., 340 e, gia` prima, R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 387, che rilevava che l’azione di classe in primo luogo «realizza la garanzia dell’accesso alla giustizia per le controversie di modico valore». Nel senso che l’azione di classe trova il suo naturale campo di applicazione nelle c.d. small claims v., tra gli altri, S. Menchini, A. Motto, Art. 140-bis, cit., § 3. Tale unanime rilievo smentisce le perplessita` manifestate da F. Valerini, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano, in Temi e questioni di attualita`costituzionale, a cura di S. Panizza e R. Romboli, Padova 2009, 142, secondo il quale l’attore singolo non avrebbe, in linea di massima, mai interesse ad agire in forma collettiva.
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seguenza della doverosa applicabilita` dell’art. 111, comma 7º, Cost. alle ordinanze di inammissibilita` delle azioni di classe di modico valore. La stessa soluzione si impone pero`, a ben vedere, per tutte le azioni di classe. Infatti, se e` pacifico che l’ordinanza di inammissibilita` dell’azione di classe non preclude che altri promotori facciano tempestivamente propria la stessa azione di classe «per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa» (art. 140 bis, comma 14º, c. cons.), l’ordinanza esplica invece un effetto preclusivo nei confronti dell’originario promotore quale che sia il fondamento del rigetto (asserita manifesta infondatezza, asserita inesistenza di un conflitto di interessi o di diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2, asserita incapacita` del proponente di curare adeguatamente l’interesse della classe). E poiche´ una cosa e` l’azione individuale, altra cosa l’azione di classe – la differenza tra l’una e l’altra essendo la stessa (chiedo venia per la banalita` del paragone) che passa, nei lunghi percorsi, tra un viaggio in automobile e un viaggio in treno o in aereo – mi sembra insostenibile la tesi che, in nome della permanente spettanza dell’azione individuale, neghi al promotore la possibilita` del ricorso per cassazione contro il provvedimento che neghi l’ammissibilita` dell’azione di classe. Affermata l’applicabilita` dell’art. 111, comma 7º, Cost. alle ordinanze di inammissibilita`, a identica conclusione non puo` pero` non pervenirsi con riferimento alle ordinanze ammissive dell’azione di classe. Per vero, mentre il promotore fonda la sua azione su uno dei diritti elencati nell’art. 140 bis, comma 2º, c. cons., e sul diritto di agire in giudizio (art. 24, comma 1º, Cost.), l’impresa convenuta ha dalla sua il diritto di difendersi in ogni stato e grado del procedimento e il principio della parita` delle armi (artt. 24, commi 2º e 111º, comma 2º, Cost.), di talche´ non e` sostenibile l’obiezione secondo cui la pretesa dell’impresa sarebbe priva di fondamento giuridico. Del resto, che l’impresa convenuta abbia anche un rilevantissimo interesse di fatto alla ricorribilita` per cassazione dell’ordinanza ammissiva dell’azione di classe e` reso evidente dal rilievo secondo il quale e` ben vero che, nell’ipotesi di accoglimento del ricorso per cassazione, l’impresa potrebbe essere convenuta dai singoli aderenti col rito ordinario e nel rispetto dei termini di prescrizione, ma e` altrettanto vero che, trattandosi di doglianze di modico valore, con tutta probabilita` i singoli giudizi individuali non verrebbero mai piu` instaurati. 7. – Sesto interrogativo. Ci si e` chiesti se nel giudizio di classe l’impresa possa spiegare domande riconvenzionali o effettuare chiamate di terzo per essere garantita (37). Negarlo aprioristicamente in nome dell’«omogeneita`» che deve caratterizzare le pretese individuali di parte attrice suscita fondate perplessita` alla luce dell’art. 24, comma 2º, Cost. Proprio per cio` si e` suggerita la seguente distinzione: la domanda riconvenzionale e la chiamata di terzo sarebbero ammissibili nel caso
(37) Si pone il problema M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, cit., § 4.
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che esse abbiano una valenza comune e sarebbero invece inammissibili qualora esse riguardino singole posizioni individuali (38). Cio` pero` significa, in questo secondo caso, che e` l’impresa a dover far valere i propri diritti in separati giudizi contro i singoli aderenti all’azione di classe. Il che non puo` non suscitare qualche perplessita`. Contro questa conclusione potrebbe, tuttavia, e almeno in linea di principio, soccorrere l’autorevole suggerimento, secondo il quale la sentenza resa nel giudizio di classe avrebbe due varianti: una condanna che si applichera` in tutte le ipotesi oppure un contenuto di accertamento alla cui luce dovranno essere celebrati i giudizi individuali degli aderenti (39). Qualora si accogliesse questa tesi – si e` soggiunto –, il processo di classe «darebbe comunque un risultato utile: esso non sarebbe stato celebrato inutilmente, ancorche´, poi, ne debbano derivare giudizi individuali in cui ogni aderente, forte del giudicato favorevole in ordine alle questioni comuni, tratterebbe questioni individuali» (40) con conseguente possibilita` dell’impresa di introdurre domande riconvenzionali ed effettuare chiamate di terzo. Deve tuttavia osservarsi, alla stregua di quanto sottolineato nel paragrafo precedente, che limitarsi, nel processo di classe, al mero accertamento e rinviare ai giudizi individuali tanto per le conseguenti condanne a carico dell’impresa, quanto per la proposizione, da parte di questa, delle domande riconvenzionali e delle chiamate di terzo equivarrebbe, nelle c.d. small claims, ad un diniego di giustizia, in quanto, come gia` rilevato, proprio per l’esiguita` del valore economico, e` assai probabile che ben poche azioni individuali verrebbero instaurate dagli ex aderenti, i quali, questa volta, dovrebbero singolarmente munirsi di un difensore a loro spese. E` quindi di tutta evidenza che e` proprio in presenza di domande riconvenzionali dell’impresa e di sue richieste di chiamate di terzo, che vengono in considerazione i poteri «creativi» del tribunale nel «definire i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio», nel determinare «il corso della procedura», nel regolare «nel modo che ritiene il piu` opportuno l’istruzione probatoria» e nel disciplinare «ogni altra questione di merito», non potendosi, una volta per tutte, affermare quando sia piu` opportuno consentire domande riconvenzionali e chiamate di terzo e, conseguentemente, emettere, nello stesso giudizio di classe, una sentenza di condanna che consideri anche il ristoro dei danni subiti dagli aderenti, e quando sia invece piu` opportuno limitarsi ad un mero accertamento, rinviando cosı` ai singoli giudizi individuali la eventuale condanna dell’impresa (anche alla luce delle domande riconvenzionali e di quanto emerso a seguito delle chiamate di terzo). 8. – Settimo ed ultimo interrogativo. Si e` sostenuto che l’art. 49, comma 2º, l.
(38) Id., op. loc. ult. cit. (39) Cosı` R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 386 s. Ritengono invece che l’accertamento della responsabilita` del convenuto abbia natura meramente incidentale S. Menchini, A. Motto, Art. 140bis, cit., § 2. (40) Cosı` anche M. Bove, Profili processuali dell’azione di classe, cit., § 4.
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n. 99/2009, prescrivendo che le disposizioni del nuovo art. 140 bis si applicano soltanto «agli illeciti compiuti successivamente all’entrata in vigore della presente legge», introdurrebbe «una irragionevole eccezione rispetto alla regola che, se entrano in vigore nuove norme processuali», tutti i diritti anteriormente sorti sono deducibili in giudizio, alla luce di tali norme (41), secondo il noto principio «tempus regit actum». La limitazione di questo principio sarebbe pertanto incostituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. Il problema dell’incostituzionalita` o meno del comma 2 dell’art. 49 risiede quindi, in primo luogo, nella qualificazione dell’art. 140 bis come «legge regolatrice del processo» e non come «legge che regola il rapporto sostanziale, anche se influisce sul processo» (42). Ed in effetti gli studiosi che hanno affrontato il problema della natura – sostanziale o processuale – delle disposizioni sia del nuovo che del precedente art. 140 bis (43) si sono schierati generalmente per la tesi della natura processuale (44) basandosi su due risolutivi e concorrenti argomenti letterali desumibili dal primo comma dell’art. 140 bis. Primo argomento. L’art. 140 bis, nel disporre, al comma 1º, che «I diritti omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe, secondo le previsioni del presente articolo» (c.n.), esclude
(41) Cosı` R. Caponi, Il nuovo volto, cit., 383. (42) Cosı` la bella e incisiva contrapposizione presente in S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, 13a ed., Padova 2000, 260. Prospetta l’alternativa, senza pero` prendere posizione F. Logoluso, Tutela del consumatore e azioni collettive di classe, Roma 2010, 327. (43) Nel senso della natura processuale dell’azione collettiva di risarcimento, con riferimento alla prima formulazione dell’art. 140 bis, v. S. Chiarloni, Il nuovo art. 140 bis del codice di consumo: azione di classe o azione collettiva?, in Giur. it. 2008, 1844; A. Briguglio, L’azione collettiva risarcitoria (art. 140 bis Codice del Consumo), cit., 119 ss. e A. Giussani, L’azione collettiva risarcitoria nell’art. 140 bis codice di consumo, cit., 230, i quali concordemente affermano la preesistenza delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dall’art. 140 bis, negando quindi che l’art. 140 bis avrebbe «una nuova posizione di diritto sostanziale prima inesistente». Nello stesso senso v. M. Guernelli, La nuova azione di classe: profili processuali, cit., 917. (44) Con l’eccezione, assai autorevole, di C. Punzi, L’azione di classe, cit., 269, secondo il quale la legittimazione a proporre le azioni di classe secondo la l. n. 99/2009 avrebbe natura sostanziale e quindi non potrebbe esser fatta valere con riferimento a fatti plurioffensivi anteriori alla sua entrata in vigore. L’opinione dell’illustre studioso e amico e` stata pero` fuorviata – a mio sommesso avviso – dalla soluzione da lui data ad un problema diverso: quello della natura sostanziale della decisione del tribunale che accerti «la insussistenza della legittimazione di un determinato proponente l’azione di classe, perche´ – ad esempio – tale proponente non appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe». Il che comporterebbe, «la negazione del suo diritto ad esercitare l’azione». Ma l’appartenenza o meno alla classe degli aderenti all’azione non deriva dal nuovo art. 140 bis, ma dalle varie normative a tutela del consumatore che addirittura preesistono allo stesso codice del consumo (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206). Per una sintesi delle direttive successivamente di volta in volta trasposte nel nostro ordinamento, mi permetto di rinviare al mio I diritti del consumatore: una nuova generazione di diritti?, in Dir. e soc. 2010, 128 ss.
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inequivocabilmente che i diritti disciplinati dalla l. n. 99/2009 traggano il proprio fondamento in tale legge (45). Secondo argomento. Prescrivere che «i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe» (c.n.) costituisce «un chiaro sintomo della natura processuale dello strumento introdotto con il nuovo art. 140 bis cod. cons., nel senso che l’azione di classe (...) non attribuisce ai consumatori alcun diritto che gli stessi non avessero gia` prima della sua emanazione» (46). In tal senso si e` inoltre richiamato un importante precedente giurisprudenziale: la sentenza 10 ottobre 2008, n. 25010, con la quale la Corte di cassazione, con riferimento all’esperibilita` della tutela collettiva del danno ambientale, ha avuto modo di statuire che la nozione di danno ambientale preesiste alla l. 8 luglio 1986, n, 349, la quale ne avrebbe solo disciplinato le modalita` di tutela, essendosi limitata a ripartire tra i vari enti «la legittimazione ad agire od intervenire nel relativo giudizio di risarcimento» (47). Nello stesso senso si e` di recente pronunciato anche il Tribunale di Torino nel primo caso della nuova azione di classe allorche´ ha sottolineato che l’art. 140 bis «disciplina soltanto un nuovo mezzo di tutela» (48). Tutto cio` conferma che, ad entrare in vigore dal 1º gennaio 2010 non sono stati i diritti sostanziali tutelabili, ma il «nuovo strumento processuale» accordato agli utenti/consumatori. E quindi, se non fosse stato inserito il secondo comma dell’art. 49, la nuova azione di classe avrebbe potuto essere utilizzata anche con riferimento a fatti plurioffensivi anteriori a tale legge, pur sempre nel rispetto dei termini di prescrizione. Ma cio` e` sufficiente per concludere che il secondo comma dell’art. 49 sia costituzionalmente illegittimo? Direi di no. Per quanto siano numerosissime le pronunce di accoglimento della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’incostituzionalita` di norme transitorie (49), deve avvertirsi che la Corte costituzionale ha te-
(45) Cosı` G. Costantino, La tutela collettiva risarcitoria 2009, 390 s. Analogamente v. M. Masnada, La nuova azione di classe a tutela dei consumatori e utenti, in Dir. pratica soc. 2010, 16. (46) Cosı` A.D. De Santis, L’azione di classe a tutela dei consumatori, in G. Chine´ e G. Miccolis, La nuova class action e la tutela collettiva dei consumatori, 2a ed., Lecce 2010, 144 s., il quale cita, in favore della tesi da lui sostenuta, S. Chiarloni, Il nuovo art. 140 bis del codice di consumo, cit., 1844 e A. Briguglio, L’azione collettiva risarcitoria, cit., 119 s. (47) Cosı` G. Costantino, La tutela collettiva risarcitoria 2009, cit., 391. (48) Trib. Torino, ord. cit. (49) Dalla sentenza 7 febbraio 1963, n. 7, dichiarativa dell’incostituzionalita` ex artt. 3 e 30 Cost. dell’art. 123 delle disp. trans. c.c., che prevedeva limiti alle indagini circa la paternita`; alla sentenza 24 maggio 1963, n. 73, dichiarativa dell’incostituzionalita` ex art. 136 Cost. della norma transitoria (art. 30) della l. 5 luglio 1961, n. 641 che prevedeva i criteri per la delimitazione della discrezionalita` dei Comuni nell’imposizione tributaria; alla sentenza 11 dicembre 1969, n. 152, dichiarativa dell’incostituzionalita` ex art. 3 Cost. della norma transitoria (art. 199 comma 2) del d.p.r. 30 giugno 1965, n. 1124 relativa all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali che, pur esplicitamente ricomprendendo gli agenti delle imposte di consumo tra i beneficiari dell’assicurazione obbligatoria, irrazionalmente rinviava «alla data del
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nuto a ribadire, anche di recente, che «la discrezionalita` del legislatore e` particolarmente ampia quando trattasi di dettare disposizioni transitorie» (50). Ebbene, qualora si dimostrasse che la liberazione «dal peso della retroattivita`» sia stata consapevolmente e specificamente determinata, ad esempio, allo scopo di prefigurare «un carico di casi per numero e gradualita` temporale accettabile» (51), in tal caso l’irrazionalita` del divieto di retroattivita` verrebbe a sfumare, perche´ di esso verrebbe data una giustificazione razionale. E` bensı` vero che una siffatta sensibilita` sembra pero` alquanto inusuale per il legislatore italiano e che, piuttosto, vien fatto di pensare che, impedendo il pieno dispiegarsi del principio tempus regit actum, si sia inteso impedire l’applicazione dell’art. 140 bis a taluni specifici fatti illeciti commessi prima del 15 agosto 2009 (cosı` come, altrettanto arbitrariamente, l’emendamento governativo presentato il 9 aprile 2009 pretendeva di negare l’azione di classe agli illeciti anteriori al 30 giugno 2008) (52). E` quindi vero che identificare gli illeciti plurioffensivi rimasti fuori della sfera di applicazione temporale della nuova azione di classe (nonche´ le imprese che li hanno posti in essere) costituisce, gia` di per se´, un forte argomento a favore dell’incostituzionalita` dell’art. 49, comma 2º, l. n. 99/2009 ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost. – perche´ impedirebbe agli utenti/consumatori, con riferimento agli illeciti commessi prima del 15 agosto 2009, di poter «usufruire degli innegabili vantaggi di costi ed efficacia derivanti dall’azione di classe» (53) –; e` pero` altrettanto vero
1º gennaio 1966 l’inizio dell’obbligo assicurativo per gli agenti delle imposte di consumo ancorche´ vincolati da rapporto impiegatizio»; alla sent. n. 28 giugno 1973, n. 134, dichiarativa dell’incostituzionalita` ex art. 3 Cost. della norma transitoria (art. 199, comma 2º) dello stesso d.p.r. n. 1124/1965, relativa all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali che irrazionalmente escludeva i commessi viaggiatori e i piazzisti; alla sentenza 26 marzo 1982, n. 64, dichiarativa dell’incostituzionalita` della norma transitoria (art. 229) della l. 19 maggio 1975, n. 151, la quale non prevedeva per il padre la possibilita` di proporre azione di disconoscimento nello stesso termine riconosciuto alla madre; alla sentenza 9 giugno 1988, n. 692, dichiarativa dell’incostituzionalita` della norma transitoria (art. 17, comma 7) della l. 3 maggio 1982, n. 203 in quanto, nell’attribuire un beneficio agli affittuari (un’indennita` commisurata all’aumento di valore risultante al tempo di cessazione del rapporto, prodotto dalle opere migliorative o incrementative da lui eseguite), lo estendeva irrazionalmente alle opere comunque eseguite e cosı` via. Da ultimo, v. la sentenza 23 ottobre 2006, n. 393, con la quale e` stata dichiarata l’incostituzionalita` di una norma transitoria che introduceva «una deroga ingiustificata alla regola della retroattivita` della norma penale piu` favorevole al reo di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen.». V. anche la sentenza 19 novembre 2008, n. 390. (50) V. le sentenze nn. 11, 356 e 376/2008. V. inoltre, richiamate da tali pronunce, le sentenze n. 21/2005, n. 413/2002 e n. 217/1998 e le ordinanze n. 66/1994 e n. 131/1988. (51) Cosı`, ma in termini ben piu` sfumati e possibilistici, v. C. Consolo, Come cambia, cit., 1308. (52) R. Caponi, La riforma della class action. Il nuovo testo dell’art. 140-bis cod. cons. nell’emendamento governativo, in www.judicium.it. (53) M. Masnada, La nuova azione di classe, cit., 16.
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che una dimostrazione del genere non sarebbe risolutiva qualora ex adverso si riuscisse a provare, alla luce dei lavori preparatori (e non argomentando sulla base di mere congetture), che la scelta del legislatore in favore della limitazione temporale e` stata consapevole e razionale, e perseguiva l’interesse generale. Alessandro Pace Professore ordinario f.r. nell’Universita` Sapienza Roma
` «ASSOLUTA» L’INUTILIZZABILITA DELLE PROVE «INCOSTITUZIONALI» (*)
Sommario. 1. Introduzione. Spunti da un caso concreto e dal correlato dibattito giurisprudenziale. – 2. Prove «illegali», intercettazioni illegittime e divieti di utilizzabilita`. – 3. Le prove c.d. «incostituzionali» e la loro inutilizzabilita` necessariamente «assoluta». Rilievi finali.
1. – Le considerazioni sistematiche, di cui mi occupo in questa sede, traggono origine – se vogliamo, del tutto occasionale – da uno specifico caso concreto (che, per brevita` di ulteriore citazione, convenzionalmente definiro` come caso Cagnazzo) (1), analizzato e deciso nel 2010, in composizione di un precedente contrasto giurisprudenziale, dalle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione (2). Le mie riflessioni, peraltro, mirano ad aggiungere, senza alcuna pretesa di esaustivita` e di completezza, taluni ulteriori rilievi alla corretta elaborazione di una categoria dogmatica ormai ben nota, qual e` quella delle prove c.d. «incostituzionali» (vale a dire: di quelle prove, i cui mezzi o metodi di formazione, di acquisizione e/o di assunzione si siano fondati su di una chiara violazione dei diritti di liberta` individuale, attinenti alla persona, al domicilio od alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione interpersonale, garantiti come «diritti inviolabili dell’uomo» dagli artt. 2, 13, 14 e 15 Cost. (3),
(*) Dedico questo scritto, con affetto, a Mario Romano, destinandolo, quindi, agli Studi in suo onore. Ma, nel pubblicarlo anche qui, quando e` ancora vivo il dolore per la recente morte di Edoardo Ricci, non posso non unire a tale dedica anche il commosso ricordo del caro Amico scomparso. (1) Dal cognome del ricorrente principale (cfr. infra la nota 2). (2) Cfr. Cass., sez. un. pen., 9 aprile 2010, n. 13426, Cagnazzo ed altri, in Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, 45-57, con commento di P. Gaeta, Dalle sezioni Unite un forte richiamo alle garanzie del giusto processo, ivi, 58-63. La massima non ufficiale di tale pronunzia e` la seguente: «Le intercettazioni dichiarate inutilizzabili a norma dell’articolo 271 del c.p.p. (nella specie, per mancata osservanza delle disposizioni previste dall’articolo 268, comma 3, dello stesso codice), cosı` come le prove inutilizzabili a norma dell’articolo 191 del c.p.p., non sono suscettibili di utilizzazione agli effetti di qualsiasi tipo di giudizio, ivi compreso quello relativo all’applicazione di misure di prevenzione». Per taluni rilievi in merito, cfr. anche L. Filippi, sub art. 271, in A. Giarda, G. Spangher (a cura di), Cod. proc. pen. commentato, Artt. 1-315, 4a ed., Milano 2010, 2764 ss., 2767-2768. (3) Per ogni opportuno riferimento e richiamo sul tema, il cui suggestivo fascino e` da tem-
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nonche´, in via integrativa, dall’art. 8, 1º-2º comma, della Convenzione europea del 1950 (4). Il punto focale della questione, che la ricordata decisione delle Sezioni Unite ha inteso risolvere, riguarda la controversa possibilita` di utilizzare validamente sul piano probatorio, senza incorrere in alcun divieto, i risultati «registrati» di intercettazioni (telefoniche od ambientali) – gia` dichiarate inutilizzabili nel giudizio penale di merito, ex art. 271, 1º comma, c.p.p., perche´, pur alla luce delle imputazioni ascritte (5), disposte in violazione delle modalita` prescritte dall’art. 268, 3º comma, st. cod. (6) –
po indiscutibile anche nel nostro ordinamento (dopo di esserlo stato ben prima in altri sistemi processuali, quali quello tedesco e quello angloamericano), mi permetto di rinviare, in sintesi, al mio volume Le prove civili, 3a ed., Torino-Milano 2010, XVII-935, sp. 64-91. Con specifico riferimento alla categoria della prova «incostituzionale», nel confronto con le altre possibili nozioni di prova «illegittimamente» acquisita (in quanto specificamente «illecita» e/o «illegale»), alla luce degli artt. 188 e 191 c.p.p., cfr., poi, A. Gaito, Il procedimento probatorio (tra vischiosita` della tradizione e prospettive europee), in La prova penale, Trattato diretto da A. Gaito, vol. I, TorinoMilano 2008, 95-138, sp. 117-122; F.R. Dinacci, L’inutilizzabilita`, ivi, vol. III, Torino-Milano 2008, 167-270, sp. 203-217. (4) Dopo la riforma costituzionale attuata con l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, si impone a pari titolo anche questo specifico richiamo alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta` fondamentali, ratificata in Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, in quanto – per effetto del nuovo art. 117, 1º comma, Cost. – le norme di tale Convenzione, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, costituiscono «fonte integratrice» del parametro di costituzionalita` introdotto dal cit. art. 117, laddove si sancisce che la potesta` legislativa (statale o regionale) si esercita «nel rispetto della Costituzione, nonche´ dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»; sicche´ la violazione di quelle norme «integratrici» comporta che la legge, statale o regionale, da cui la violazione deriva, «... deve essere dichiarata illegittima» dalla Corte costituzionale, «sempre che la norma della convenzione non risulti a sua volta in contrasto con una norma costituzionale» (cosı`, ad es., nella massima riportata in Rep. Foro it. 2008, voce Diritti politici e civili, n. 159, Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 349, pubblicata per esteso, con la coeva sent. n. 348, in Foro it. 2008, I, 39-72, con commenti di R. Romboli, 39-47, di L. Cappuccio, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra convenzione europea dei diritti dell’uomo e Costituzione, 47-50, e di F. Ghera, Una svolta storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio [ma non in quelli con il diritto comunitario], 50-54). Per ulteriori affermazioni dei predetti principi, si vedano ancora: Corte cost. 27 febbraio 2008, n. 39, sulla ritenuta incostituzionalita` degli artt. 50 e 142 l. fall. (nel testo antecedente alla riforma del 2006), ivi, 2008, I, 1037; Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317, sulla dichiarata incostituzionalita` parziale dell’art. 175, 2º comma, c.p.p., ivi, 2010, I, 359-366, con commento di G. Armone, La Corte costituzionale, i diritti fondamentali e la contumacia di domani, 366-371. (5) Si trattava dell’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa (ex art. 416-bis c.p.), poi modificata in associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (ex art. 74 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309). (6) In base a tale norma, le operazioni di intercettazione delle comunicazioni (che, una volta intercettate, vanno registrate) possono essere «esclusivamente» compiute «per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica» (cfr. anche gli artt. 89-90 disp. att. c.p.p.). Tutta-
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nel corso di un procedimento camerale (7) di applicazione di talune misure di prevenzione (8), quali sono disciplinate dalle vigenti leggi anti-mafia (9).
via – la stessa norma soggiunge – quando siffatti impianti siano «insufficienti o inidonei» e, soprattutto, sussistano «eccezionali ragioni d’urgenza», il p.m., con «provvedimento motivato», ha il potere di disporre che le medesime operazioni vengano compiute «mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria». Lo specifico «divieto di utilizzazione», delineato nell’art. 271, 1º comma, c.p.p., preclude l’utilizzabilita` probatoria dei risultati delle intercettazioni, non solo quando queste ultime siano state «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge» (cfr., ad es., gli artt. 103, 5º-6º comma e 266), ma anche quando non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, 1º e 3º comma, c.p.p. Altre ipotesi sono, pure, individuate nell’art. 271, 2º comma, con riferimento all’art. 200, 1º comma. Su quella di cui al cit. art. 103, 6º comma, in rapporto all’art. 237 ed alla sequestrabilita` dei c.d. «appunti difensivi», cfr., per utili riferimenti e considerazioni, Corte cost. 19 giugno 1998, n. 229, in Rep. Foro it. 1998, voce Difensore penale, n. 27, e voce Prova penale, n. 38. Nel caso qui in esame (ed in quelli cui si fara` cenno piu` avanti), la causa primaria della ritenuta inutilizzabilita` probatoria (ex art. 271, 1º comma) dei risultati di determinate intercettazioni e` consistita, proprio, nel difetto di motivazione dei provvedimenti «eccezionalmente» autorizzativi di un’esecuzione dell’intercettazione, per cosı` dire, extra moenia. Si ricordi, a tal proposito, come piu` volte la Corte costituzionale abbia sottolineato la ragionevolezza e/o la non arbitrarieta` delle norme suindicate, nel loro deliberato intento di privilegiare l’impiego degli apparati esistenti negli uffici giudiziari, sı` da circoscrivere restrittivamente l’uso «eccezionale» di impianti «esterni» di intercettazione, in funzione della «particolare invasivita` del mezzo nella sfera della segretezza e della liberta` delle comunicazioni», costituzionalmente garantite (cfr., ad es., Corte cost. (ord.) 19 luglio 2000, n. 304, in Giust. pen. 2000, I, 369; (ord.) 17 luglio 2001, n. 259, ivi 2002, I, 6; (ord.) 6 luglio 2004, n. 209, ivi 2004, I, 295; (ord.) 29 dicembre 2004, n. 443, ivi 2005, I, 76). Per un analitico ed aggiornato commento delle norme suindicate, cfr. ancora Filippi, sub artt. 266-271, in Giarda, Spangher, op. ult. cit., 2559-2815, sp. 2680-2731, 2764 ss. (7) La stessa pronunzia delle Sezioni unite sul caso Cagnazzo, richiamata supra in nota 2 (Guida dir. 2010, n. 19, 54) ricorda, in motivazione, come la Corte costituzionale – con sent. 12 marzo 2010, n. 93 – abbia dichiarato l’incostituzionalita` parziale delle norme sul procedimento di applicazione delle misure di prevenzione (cfr. la nota che segue), proprio per la sancita esclusione del procedimento in «udienza pubblica», in contrasto con i parametri del processo «equo», ex art. 6, § 1, della Convenzione europea del 1950, applicati anche ai procedimenti di irrogazione delle misure di prevenzione da taluni recenti arreˆts della Corte europea di Strasburgo. (8) Nel nostro caso, si trattava di misure patrimoniali di confisca e di sorveglianza speciale di P.S. (9) Si vedano, al riguardo, gli artt. 1-3, ed in particolare l’art. 4, 6º comma, della l. 27 dicembre 1956, n. 1423, nonche´ gli artt. 1-11, ed in particolare gli artt. 2-bis/ter, della l. 31 maggio 1975, n. 575, con le successive integrazioni e modificazioni. La cit. Corte cost. 12 marzo 2010, n. 93 (cfr. ancora, supra, la nota che precede) ha, appunto, dichiarato incostituzionali l’art. 4 della l. n. 1423/1956 e l’art. 2-ter della l. n. 575/1965 «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale o alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica». Su taluni ulteriori profili della disciplina, nell’ottica delle garanzie costituzionali, cfr., pure,
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Il contrasto giurisprudenziale e`, al riguardo, assai lineare. Per un verso, infatti, si e` piu` volte ritenuto di risolvere in termini affermativi la menzionata questione, nel nome della ribadita «autonomia» del procedimento di prevenzione, rispetto al giudizio di cognizione e di merito. Si e`, cosı`, sottolineato come nel procedimento di prevenzione, fondato sulla regola della «piena ed autonoma utilizzabilita` di qualsiasi elemento indiziario», non siano utilizzabili dal giudice quelle sole prove che incorrono in una «patologica inutilizzabilita`», per effetto di un vizio che abbia intaccato «in maniera sostanziale» la loro validita` (come accade per le intercettazioni realizzate in aperta violazione delle garanzie individuali, sancite dall’art. 14 o dall’art. 15 Cost.). In quel procedimento, invece, secondo l’indirizzo de quo, non troverebbe spazio alcuno qualsiasi altra ipotesi di «fisiologica inutilizzabilita`», in cui – come, ad es., accade con le intercettazioni attuate mediante «impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria», in forza di un provvedimento non adeguatamente motivato del pubblico ministero (10) – viene ad operare una «regola di esclusione» specifica e propria del processo penale di cognizione (11). Per altro verso – nell’ambito di un orientamento (gia` confermato nel 2008 in un diverso settore, non meno delicato, da analoga pronunzia delle Sezioni Unite del Supremo Collegio sul caso Racco) (12), cui sostanzialmente aderisce la pronunzia qui in esame (13) – si e`, invece, sostenuto che l’art. 271 c.p.p., quale lex specialis rispetto alla generale previsione dell’art. 191, nel ricomprendere in
Corte cost. 6 marzo 1995, n. 77, in Rep. Foro it. 1995, voce Misure di prevenzione, n. 92, e Corte cost. 8 ottobre 1996, n. 335, ivi 1996, voce cit., n. 59. In dottrina, per ogni opportuno approfondimento e rilievo, cfr., da ultimo, B. Bocchini, L’accertamento della pericolosita` (misure di prevenzione e di sorveglianza e misure alternative alla detenzione), in La prova penale, cit., vol. I, Torino-Milano 2008, 577-622; Id., La prova nel procedimento di prevenzione, ivi, vol. II, Torino-Milano 2008, 867-893, sp. 875-884. (10) Lo si ripete: in violazione dei precetti ricavabili dagli artt. 268, 3º comma, e 271, 1º comma, c.p.p. (11) In tal senso, ad es., cfr. Cass., sez. VI, 30 settembre 2005, Nicastro, in Giur. it. 2006, 1482, in Cass. pen. 2006, 1894 e in Rep. Foro it. 2006, voce Misure di prevenzione, n. 88; Cass., sez. VI, 25 ottobre 2007, n. 1161, ivi 2009, voce cit., n. 87, e, per esteso, in Dir. pen. e proc. 2009, 90-m, con nota di S. Beltrani, Intercettazioni inutilizzabili e procedimento di prevenzione: un rapporto controverso, 90; Cass., sez. V, 28 maggio 2008, n. 37659, Simonetta, in Rep. Foro it. 2009, voce cit., n. 88, e in Ced Cass., rv. 241944 (m). (12) La piena inutilizzabilita` dei risultati di determinate intercettazioni, gia` accertata dal giudice penale di merito (in base al cit. art. 271), anche nei giudizi di «equa riparazione» per «ingiusta detenzione» (ex artt. 314-315 c.p.p. ed art. 24, 4º comma, Cost.; sul che, volendo, si vedano i miei sintetici rilievi sub art. 24 Cost., in Giarda, Spangher (a cura di), Cod. proc. pen. commentato, 4a ed., cit., Milano 2010, 49), e` stata recentemente ribadita da Cass., sez. un. pen., 30 ottobre 2008, n. 1153, Racco, in Rep. Foro it. 2009, voce Errore giudiziario, n. 44, nonche´, per esteso, in Giust. pen. 2009, III, 385, e in Cass. pen. 2009, 1833. (13) Cfr., supra, nota 2.
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una categoria unitaria piu` motivi di possibile inutilizzabilita` delle intercettazioni «illegittimamente acquisite», sarebbe imperativamente operante (per cosı` dire, in blocco) a tutela di «regole poste a garanzia della segretezza e della liberta` delle comunicazioni», adeguandosi alle condizioni ed ai limiti di «inviolabilita`», inderogabilmente tracciati nell’art. 15 Cost. (14). Di conseguenza – cosı` si argomenta, nel predetto indirizzo – i risultati delle intercettazioni, la cui realizzazione si ponga comunque in contrasto con siffatte regole (ivi, appunto, compresa quella che sancisce la necessita` di una rigorosa motivazione del provvedimento con cui il p.m. abbia autorizzato l’impiego eccezionale di impianti extra moenia) (15), dovrebbero reputarsi «illegali e non utilizzabili in alcun modo» in qualunque sede giurisdizionale (e quindi non soltanto nel processo penale di merito, ma anche nel procedimento di applicazione delle misure di prevenzione), trattandosi di prove illegali, assunte come tali «in violazione dei diritti dei cittadini garantiti dai principi costituzionali» (16). Altri elementi di discussione sono stati apportati – come ricorda lo stesso Supremo Collegio nella sentenza sul caso Cagnazzo (17) – dalla Sezione che, con la rimessione degli atti al primo Presidente, ha provocato il responso delle Sezioni Unite (18). Nell’opinione espressa dai giudici rimettenti, con un consapevole distacco dalle posizioni gia` assunte dalla Corte nel 2008 (19), occorrerebbe anzitutto sottolineare come, nel settore probatorio, l’«inutilizzabilita`», «fenomeno tutto interno al processo», non sia equiparabile tout court alla «illegalita`» della prova. Sicche´, a tale stregua, la regola sull’«inutilizzabilita`» – ricavabile dagli artt. 268, 3º comma, e 271, 1º comma, c.p.p. per le intercettazioni effettuate con impianti «esterni» agli uffici del p.m., in assenza di un provvedimento del p.m. adeguatamente motivato circa la loro «eccezionalita`» – non potrebbe considerarsi «direttamente attuativa» del precetto sancito dall’art. 15, 2º comma, Cost.. in quanto l’espressione «atto motivato», ivi enunciata, dovrebbe riferirsi al provvedimento, in se´ e per se´ considerato, con cui, a prescindere dalle variabili modalita` di esecuzione
(14) Sul punto, per quanto si e` detto supra, in nota 4, si veda pure l’art. 8, 2º comma, della Convenzione europea del 1950. (15) Si ricordi, in proposito, quanto prescrive il cit. art. 268, 3º comma, richiamato dal 1º comma dell’art. 271. (16) In questi termini, ad es., cfr. Cass., sez. I, 15 giugno 2007, n. 29688, Muscolino, in Rep. Foro it. 2008, voce Intercettazione di conversazioni, n. 55, e Misure di prevenzione, n. 55, nonche´, per esteso, in Arch. nuova proc. pen. 2008, 332, con commento di I. Palma, La nozione di prova illegale arriva in cassazione, 334, e in Giur. it. 2008, 444, con nota di V. Carini, Giudizio di prevenzione e intercettazioni «illegali»: sui rapporti fra prevenzione e «cognizione», 444; Cass., sez. V, 5 febbraio 2009, n. 8538, Calabrese, in Ced Cass., rv. 243418 (m), e in Rep. Foro it. 2009, voce Misure di prevenzione, n. 86. (17) Cfr. ancora supra, nota 2. (18) Si tratta di Cass., sez. VI, ord. 24 marzo 2009 e ord. 21 ottobre 2009 (menzionate in Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, 46-49). (19) Si tratta di Cass., sez. un., sent. n. 1153/2008, sul caso Racco, ricordata supra in nota 12.
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dell’intercettazione, l’autorita` giudiziaria ordina la «limitazione» della liberta` e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, «con le garanzie stabilite dalla legge». Inoltre, a suffragio della tesi che, pure per il predetto vizio motivazionale del provvedimento autorizzativo, propugna l’inutilizzabilita` delle intercettazioni anche nei procedimenti diversi da quello penale di merito, non varrebbe invocare taluni elementi letterali ritraibili dal nuovo art. 240, 2º comma, c.p.p. (20), ove si parla di «intercettazioni illegali», di «dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico o telematico, illegalmente formati o acquisiti», nonche´ di «documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni», da «secretarsi» e quindi da destinarsi alla successiva «distruzione». Infatti, la nozione di «illegalita`», cui la nuova norma si ispira, si riferirebbe non gia` a tutte le ipotesi di «inutilizzabilita`», contemplate nell’art. 271, bensı` alle sole fattispecie nelle quali la condotta acquisitiva delle predette prove possa dirsi di per se´ «illegale», essendosi tradotta nella realizzazione di una c.d. «captazione illecita» e, quindi, nella perpetrazione di uno specifico reato (21). Da tali «captazioni», dunque, dovrebbero tenersi ben distinte, soprattutto nelle loro ricadute processuali, quelle captazioni che, provenendo da ordini autorizzativi dell’autorita` giudiziaria, siano da reputarsi a priori non «illegali» (ma, semmai, «illegittime»), in quanto comunque disposte dal p.m., pur con l’eventuale violazione dell’obbligo di motivazione, imposto dall’art. 268, 3º comma, in rapporto all’art. 271, 1º comma, c.p.p. (22). Ora, e` agevole accorgersi di quali siano, sul piano sistematico, gli snodi principali delle questioni prospettate alle Sezioni Unite nel caso Cagnazzo. Ci si trova, anzitutto, nella necessita` di rivalutare, o meno, la non perspicua distinzione fra inutilizzabilita` «patologica» e inutilizzabilita` «non patologica» (o «fisiologica») che, sin dalle sue prime manifestazioni giurisprudenziali (23), aveva suscitato non poche perplessita`. Vi e`, poi, l’ulteriore necessita` di verificare se ed in che misura la categoria della prova «illegale» (cioe`: formata, acquisita od assunta contra legem), che, come
(20) La norma e` stata modificata ed integrata dagli artt. 1-4 del d. l. 22 settembre 2006, n. 259, conv. in l. 20 novembre 2006, n. 281. Sulla sua parziale incostituzionalita`, cfr., poi, Corte cost. 11 giugno 2009, n. 173, in Giust. pen. 2009, I, 232, e in Rep. Foro it. 2009, voce Prova penale, nn. 24-26. Per altri riferimenti e rilievi, sul punto, si riveda, volendo, il mio vol. Le prove civili, cit., 81-82 (testo e nota 251), 510-512. (21) Si vedano, al riguardo, gli artt. 615 bis / quinquies e gli artt. 616, 617 bis/sexies nonche´ gli artt. 618-623 bis c.p., introdotti e /o integrati dall’art. 1 della l. 8 aprile 1974, n. 98, e dagli artt. 4-5 della l. 23 dicembre 1993, n. 547. (22) Per un’efficace sintesi, cfr. ancora la motivazione di Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 13426, sul caso Cagnazzo, menzionata supra, in nota 2 (Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, 48-49). (23) Cfr., soprattutto, in motivazione, Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro, in Rep. Foro it. 2000, voce Giudizio abbreviato, n. 68, nonche´, per esteso, in Arch. nuova proc. pen. 2000, 375, e in Giur. it. 2000, 2122, con commento di G. Berni, Nuovi scenari per il giudizio abbreviato tra evoluzione giurisprudenziale e controriforme legislative, 2122.
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si e` visto, normativamente e` di nuovo conio (24), sia compatibile con le tradizionali classificazioni, le quali mirano a tenere separate le c.d. prove «incostituzionali», nel contesto generale delle prove «illegittimamente acquisite» (ex art. 191 c.p.p.), categoria omnicomprensiva in cui tendono a rifluire sia le prove «illegittime», perche´ formate, acquisite od assunte con modalita` difformi dai paradigmi legali (ed in contrasto con i divieti specifici), propri delle prove «tipiche» (25), sia le prove c.d. «illecite», in quanto formate, acquisite od assunte mediante la commissione di specifici reati. 2. – E` chiaro il riferimento giurisprudenziale, da cui muove il ragionamento delle Sezioni Unite nella decisione sul caso Cagnazzo, cui qui si fa primario riferimento. Occupandosi della controversa utilizzabilita`, nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione (26), dei risultati di intercettazioni precedentemente dichiarate inutilizzabili (ex artt. 268, 3º comma, e 271, 1º comma, c.p.p.) nel giudizio di merito, gia` la pronunzia del 2008 sul caso Racco (27) aveva, da un lato, risolutamente respinto ogni tentativo di svalutare il rigore delle regole di esclusione con la (non pacifica) riqualificazione in termini civilistici della natura di quel procedimento riparatorio (28), ma, dall’altro, aveva propugnato con vigore la tesi, secondo la quale, laddove siano comunque in gioco «diritti costituzionalmente presidiati» (in particolare, quelli garantiti dall’art. 15 Cost.), l’inutilizzabilita` «assoluta» delle prove scaturite da una loro conclamata violazione deriverebbe omisso medio – a costo di sacrificare altri interessi, pur egualmente provvisti di protezione costituzionale, ma non prevalenti sulla tutela di quei diritti individuali inviolabili (29) – dalla chiara «illegalita`» dei comportamenti sottesi ai divieti sanciti, nel caso delle intercettazioni, dagli artt. 267, 268, 1º-3º comma, e 271, 1º comma, c.p.p. Si era, quindi, affermato che l’intera disciplina di siffatti divieti – assicurando in toto, con una disciplina unitaria ed organica, l’attuazione piena del precetto costituzionale (ex artt. 14-
(24) Si riveda il cit. art. 240, 2º comma, c.p.p., cit. retro in nota 20. (25) Invece, le condizioni di ammissibilita` di quelle «atipiche» sono, come e` noto, scandite dall’art. 189 c.p.p. (26) Ex artt. 314-315 c.p.p. (27) Cfr. ancora, retro, note 12 e 19. (28) Nella suindicata pronunzia, si sottolinea come – anche a voler ragionare in termini civilistici (con riferimento all’art. 2712 c.c.) – la possibilita` di utilizzare validamente in sede civile le «riproduzioni» e le «registrazioni» acquisite o formate in un altro processo (penale o civile che sia) sarebbe pur sempre subordinata al fatto che esse, in tale diverso processo, siano state assunte, al di la` di qualsiasi «distinguo» piu` o meno sofisticato, «nel rispetto e con le garanzie previste dalla legge processuale». (29) Al riguardo, secondo la pronunzia del 2008 sul caso Racco, «...la ritenuta preminenza dell’esigenza di salvaguardia di tali diritti comporta perfino, sotto il profilo del merito, la rinuncia da parte dello Stato all’esercizio della sua potesta` punitiva ove quei diritti non siano salvaguardati secondo norma...».
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15 Cost.) – sarebbe comunque tale, da imporre inderogabilmente, in qualsiasi ipotesi di loro inosservanza, la totale «espunzione» dal processo dei risultati delle intercettazioni illegittime e la loro «assoluta» inutilizzabilita` in qualsiasi altro tipo di processo (o di giudizio), trattandosi di elementi probatori da destinarsi ad una loro materiale e definitiva «distruzione» (30). Il Supremo Collegio, nel caso Cagnazzo, si propone di sviluppare ulteriormente, pur con talune difformi precisazioni, l’assunto conclusivo cui esso, nel pronunziarsi sul caso Racco, era pervenuto nel 2008. Il punto di partenza – a mio avviso, ineccepibile (31) – e` il forte richiamo di quei principi cardinali, che la Corte costituzionale, a partire dal 1973, ebbe modo di enunciare con estrema chiarezza, occupandosi proprio delle intercettazioni (sia pur alla luce della disciplina previgente) (32). L’insieme delle necessarie garanzie, di ordine tecnico (33) e di natura giuridica (34), che, nel contesto degli artt. 14-15
(30) In proposito, la suindicata pronunzia trae spunto dal nuovo art. 240 c.p.p. (cfr. anche supra, nota 20), parlando quindi di «eliminazione irreversibile da ogni protocollo giudiziario» dei dati probatori derivanti da quelle illegittime intercettazioni. (31) Si tratta, d’altronde, del medesimo riferimento, che ho avuto modo di porre al centro della mia trattazione sul tema, nel vol. Le prove civili, cit., 72-86. (32) Cfr., soprattutto, Corte cost. 6 aprile 1973, n. 34, in Foro it. 1973, I, 956, la quale ebbe a dichiarare non in contrasto con gli artt. 15 e 24 Cost. l’art. 226, 4º comma, del c.p.p. del 1930 (cosı` integrato dalla l. 18 giugno 1955, n. 517). Fu proprio tale pronunzia – su cui si tornera` piu` avanti (nel § 3) – ad ispirare il legislatore ordinario, il quale, abrogando il cit. 4º comma dell’art. 226, provvide ad elaborare un sensibile miglioramento della disciplina in materia, sia nell’ottica delle norme incriminatrici (cfr. retro, nota 21), sia a livello processuale, introducendo nel c.p.p., con la cit. l. 8 aprile 1974, n. 98, i nuovi artt. 226 bis/sexies (fra i quali spiccava l’art. 226 quinquies, recante la rubrica Divieto di utilizzazione delle intercettazioni illecite: «a pena di nullita` insanabile e da rilevare d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento non si puo` tener conto delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge od eseguite in difformita` dalle prescrizioni in essa stabilite, nonche´ delle notizie o immagini ottenute nei modi di cui all’art. 615 bis del codice penale»). Per la riaffermazione di analoghi principi, nel medesimo settore, cfr. ancora Corte cost. 21 maggio 1975, n. 120, in Foro it. 1975, I, 1305-1307 (a proposito degli artt. 226, 4º comma, 304 quater e 339 c.p.p., nel testo antecedente alla cit. l. n. 98/1974, nonche´ in relazione al nuovo art. 226 quinquies, ritenuto operante anche per intercettazioni illecitamente assunte prima, alla stregua dell’art. 8 della l. ult. cit.). (33) Secondo la cit. sent. n. 34/1973, tali garanzie – in aggiunta all’esigenza inderogabile dell’adeguata motivazione del provvedimento giudiziale autorizzativo – «...attengono alla predisposizione anche materiale dei servizi tecnici necessari per le intercettazioni telefoniche, in modo che l’autorita` giudiziaria possa esercitare anche di fatto il controllo necessario ad assicurare che si proceda alle intercettazioni autorizzate, solo a queste e solo nei limiti dell’autorizzazione...». La stessa Corte, a tal riguardo, dopo di aver riconosciuto al legislatore un «ampio margine di discrezionalita` nell’organizzazione del servizio», sentı` il dovere di «formulare l’auspicio» per successivi ed «opportuni interventi legislativi», «idonei ad attuare anche sul piano tecnico le condizioni necessarie all’effettivo controllo» di cui sopra. (34) Esse, sempre in base alla cit. pronunzia, dal canto loro «...attengono al controllo sulla
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Cost., tutelano la delicata ed «invasiva» esecuzione di qualsiasi forma di intercettazione (non soltanto telefonica od audiovisiva) delle comunicazioni e dei comportamenti interpersonali privati, si traduce inderogabilmente – secondo la stessa Corte – in precise ed univoche conseguenze «sanzionatorie» (35), capaci di elidere in radice l’utilizzabilita` probatoria dei risultati di intercettazioni costituzionalmente «illecite», in quanto «assolutamente inidonee a produrre alcun effetto» (36), in virtu` del principio per il quale «attivita` compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per se´ a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attivita` costituzionalmente illegittime abbia subito» (37). I corollari che – a detta del Supremo Collegio, nel caso de quo – scaturiscono da siffatte premesse sono molteplici e convergenti. In primo luogo, proprio la coessenzialita` di quelle garanzie di ordine tecnico, cui si accennava poc’anzi, imporrebbe di considerare come «non estranea» (ma, anzi, pienamente connaturata e funzionale) ai requisiti minimi di «legalita`», delineati nell’art. 15 Cost., anche «la previsione normativa che privilegia, ai fini della effettuazione delle operazioni di intercettazione, la utilizzazione degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica» (38). In altre parole, non soltanto la sus-
legittimita` del decreto di autorizzazione ed ai limiti entro i quali il materiale raccolto attraverso le intercettazioni sia utilizzabile nel processo...». Secondo la Corte, in ogni caso, non sarebbe necessario che le garanzie in questione «siano puntualmente poste nel testo normativo che disciplina le intercettazioni», ben potendo essere rinvenute «anche in altre norme ed anche nei principi generali che disciplinano le attivita` processuali». (35) Siano esse rappresentate da una sanzione tradizionale di nullita` insanabile – come voleva l’art. 226 quinquies del c.p.p. previgente – oppure in un’altra sanzione (piu` moderna) di inutilizzabilita`, che comunque imponga di ritenere «come inesistenti», e quindi radicalmente prive di qualsiasi «effetto probatorio», le intercettazioni ordinate e/o eseguite in contrasto con le menzionate garanzie (cosı`, ad es., ancora Corte cost., sent. n. 120/1975, cit., in Foro it. 1975, I, 1307). (36) Sono parole tratte ancora dalla motivazione di Corte cost., sent. n. 120/1975, cit., in Foro it. 1975, I, 1305-1307. (37) A siffatto importante principio si sono, via via richiamate, anche nell’interpretazione della vigente disciplina, altre non meno significative pronunzie. Si vedano, in particolare: sull’art. 270, 1º comma, c.p.p., e sui limiti di utilizzabilita` dei risultati di intercettazioni telefoniche in altri procedimenti, Corte cost. 23 luglio 1991, n. 366, in Foro it. 1992, I, 3257-3265, con commento di G.G. De Gregorio, Diritti inviolabili dell’uomo e limiti probatori nel processo penale, 3257-3263, nonche´ in Corriere giur. 1991, 1093-m, con nota di A. Giarda, ed in Giust. pen. 1992, I, 35; a proposito dei c.d. «tabulati telefonici», in relazione all’art. 266 c.p.p., Corte cost. 11 marzo 1993, n. 81, ivi 1993, I, 2132-2135. Su queste ultime pronunzie si tornera` anche infra, nel § 3. (38) Cfr., oggi, il cit. art. 268, 3º comma, in relazione all’art. 271, 1º comma, c.p.p.; nonche´, nella disciplina del c.p.p. previgente, l’art. 226 quater, 1º-2º comma, gia` aggiunto dall’art. 5 della l. n. 98/1974 e poi modificato dall’art. 8 del d.l. 21 marzo 1978, n. 59, conv. in l. 19 maggio 1978, n. 191. Le locuzioni e le frasi riportate fra virgolette nel testo possono leggersi in Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, 50-51.
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sistenza di un provvedimento motivato dell’autorita` giudiziaria, ma pure «le modalita` esecutive delle operazioni di un mezzo destinato a «limitare» un diritto fondamentale» dell’individuo concorrebbero, in pari misura, ad attuare il precetto costituzionale e, quindi, ad integrare quei requisiti minimi, che esso prescrive. In secondo luogo, la nuova sanzione dell’«inutilizzabilita`», rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (39), la quale – sostituitasi alla «nullita` insanabile» della disciplina processuale previgente (40), propria semmai dell’intercettazione intesa come atto processuale in se´, ma non certo adatta ad esprimere correttamente l’inammissibilita` e la radicale irrilevanza degli elementi probatori da essa derivati – si inserirebbe nell’ambito di determinati divieti di utilizzazione, generali o speciali, che sono sanciti dalla legge processuale e come tali, al di la` di qualsiasi rapporto fra genus e species, sono destinati ad estendersi a tutti i casi di «prova vietata dalla legge» (41). Nel medesimo contesto, tale nuova sanzione – nel collegare, a guisa di un ideale «filo rosso» (42), la pronunzia costituzionale n. 34 del 1973, gli interventi legislativi del 1974 sul vecchio codice e le cospicue novita` sistematiche, da cui ha tratto origine il c.p.p. del 1988 – si inserirebbe in «un regime normativo che esclude in via generale l’utilizzabilita` delle prove acquisite in violazione di uno specifico divieto probatorio», ponendosi cosı` in una inderogabile correlazione biunivoca con l’esistenza di qualsiasi divieto probatorio (sia esso generale oppure speciale), la cui configurabilita` non potrebbe mai prescindere dalla contestuale presenza di quella stessa sanzione (43). Se, dunque, e` vero che ad ogni possibile divieto deve necessariamente corrispondere la stessa unitaria sanzione di inutilizzabilita`, e` altrettanto vero che l’accertata inutilizzabilita` di determinate prove, assunte o formate in contrasto con un qualsiasi divieto probatorio, non potrebbe mai reputarsi utilizzabile in un procedimento «diverso» da quello nel quale l’illegittimita` si sia concretizzata, giacche´, laddove cosı` non fosse, la prova gia` dichiarata «inutilizzabile», in quanto vietata per la tutela di preminenti valori di rango costituzionale, subirebbe, sia pure altrove, una sorta di «reviviscenza» inconcepibile e surrettiziamente elusiva di quel medesimo divieto. Infine – cosı` argomenta e conclude la Corte di cassazione, nella pronunzia sul caso Cagnazzo – posto che la logica dell’«inutilizzabilita`» probatoria non puo` dirsi «interna» ed esclusiva del solo processo penale, in cui si siano riscontrate l’illegittimita` o l’illiceita` degli atti di acquisizione e/o di formazione della
(39) Cfr. ancora l’art. 191 c.p.p. (40) Cfr. l’art. 226 quinquies del previgente c.p.p. (41) Su questi rilievi motivazionali, cfr. ancora Guida dir., n. 19, 8 marzo 2010, 51-52. (42) Ibid., loc. cit. (43) La pronunzia in esame, non a caso, qui richiama un passo specifico della Relazione ministeriale sul progetto preliminare del nuovo c.p.p. (in Gazz. uff., Suppl. ord. n. 2 al n. 250 del 24 ottobre 1988, Parte prima, 61): «anche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l’inutilizzabilita` puo` desumersi dall’art. 191 comma 1 la` dove siano configurabili veri e propri divieti probatori» o sussistano, in ogni caso, previsioni di testuale «inutilizzabilita`».
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prova, non avrebbe senso alcuno riproporre, qui, il noto «distinguo», non sempre perspicuo, fra inutilizzabilita` «patologica» ed inutilizzabilita` «fisiologica», la cui invocabilita` (piu` o meno discussa) e` razionalmente percepibile in un altro contesto (44), ne´ parrebbe tantomeno decisivo il riferimento alla nozione di «illegalita`» della prova, enunciata (come si e` visto, per altri scopi) nel nuovo art. 240, 2º comma, c.p.p. (45) e fonte di indubbie perplessita` sistematiche (46). Parrebbe, semmai, piu` opportuno distinguere, con maggiore coerenza, fra una inutilizzabilita` «assoluta» ed una inutilizzabilita` «relativa», non senza dimenticare, pero`, che la prova vietata in se´ – qual e` l’intercettazione dichiarata inutilizzabile in blocco e in toto dall’art. 271 c.p.p. (47) – e` da reputarsi comunque «inutilizzabile» tout court, «...senza aggettivi, limiti o deroghe di sorta, che ne consentano un qualsivoglia ‘recupero’, sia pure in ambiti e a fini diversi da quelli del processo penale» di merito (tantomeno, dunque, nel procedimento, pur separato e autonomo, in cui si accerta la pericolosita` sociale e si applicano le corrispondenti misure di prevenzione) (48). 3. – Nel condividere sostanzialmente le conclusioni cui e` pervenuta, nel caso Cagnazzo, la Suprema Corte, credo valga la pena di porre a fuoco con maggior precisione, sul piano sistematico, i confini delle categorie probatorie qui, talvolta per mere finalita` descrittive, accostate l’una all’altra, nell’intento di correlarle, in termini processuali, all’ineluttabilita` di determinate conseguenze sanzionatorie. Parlare di prova «illegale» (49), in un contesto normativo nel quale e` oggi prevista e codificata come genus (accanto ai singoli divieti di utilizzazione, catalogabili come species) (50) la categoria-base delle prove «illegittimamente acquisi-
(44) Si veda, al riguardo, infra, il § 3. (45) Cfr., retro, testo e note 20 e 30. In proposito, la pronunzia sul caso Cagnazzo (in Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, 55-56) non manca di sottolineare come il procedimento di distruzione delle intercettazioni «illegali», previsto dal nuovo art. 240 c.p.p., si riferisca – in linea con quanto gia` dispone l’art. 271, 3º comma – alle ipotesi in cui «...i supporti e gli atti siano stati custoditi in quanto corpo di reato»; sicche´ l’eliminazione «fisica» delle intercettazioni illegittime, in quanto compiute anche soltanto in violazione del cit. art. 268, 3º comma, rimarrebbe l’epilogo del tutto normale, mentre la deroga alla distruzione, prevista nel cit. art. 240 per le intercettazioni «illegali», varrebbe unicamente laddove queste ultime di per se´ costituiscano, appunto, «corpo del reato». (46) Parla giustamente di una nozione atecnica e di una categoria non giuridica, in cui confluirebbe a rigore sia l’attivita` propriamente «illecita», sia l’attivita` meramente «illegittima», Filippi, sub art. 271, in Giarda, Spangher (a cura di), Cod. proc. pen. commentato, loc. cit., 2812. (47) E quindi, a fortiori anche l’intercettazione autorizzata ed eseguita in violazione delle modalita` disciplinate dall’art. 268, 3º comma, a proposito dell’eccezionale e derogatorio impiego di mezzi e di impianti extra moenia. (48) Cfr., ancora, la motivazione della pronunzia sul caso Cagnazzo, in Guida dir., n. 19, 8 maggio 2010, cit., 52-53, 54-55. (49) Richiamo, sul punto, ancora una volta il cit. art. 240 c.p.p. (50) Uno fra questi, appunto, e` quello che riguarda le intercettazioni (art. 271 c.p.p.).
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te» (51), significa introdurre e postulare un concetto ambivalente che, ben potendo porsi quale alternativa equipollente a quest’ultima (o, se si preferisce, alla ipotizzabile categoria, non meno ampia e generale, delle prove «illegittime» tout court), rischia di ingenerare confusione, al pari di quanto accadeva nella disciplina previgente con la nozione di «intercettazione illecita» (52). A tal proposito, se e` vero che talvolta si proponga anche oggi di considerare, a rigore, come «illecite» (53) le prove acquisite od assunte con atti posti in essere in violazione di specifiche norme penali (e, quindi, con la commissione di taluni reati tipici) (54), e` altrettanto vero che – nel silenzio di quelle norme (55) – l’eventuale «inutilizzabilita`» processuale di siffatte prove debba essere forzatamente (ed opinabilmente) ricavata, per via interpretativa (56), da una sorta di fictio juris, identificabile nella postulata esistenza di corrispondenti «divieti probatori», implicitamente sottesi alle stesse norme incriminatrici (57).
(51) Cfr. il cit. art. 191 c.p.p. (52) Si riveda, nel c.p.p. del 1930, dopo le riforme del 1974, il cit. art. 226 quinquies, ove il concetto menzionato nel testo veniva collegato ad una sanzione di «nullita` insanabile e da rilevare d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento», da applicarsi alle intercettazioni effettuate «fuori dei casi consentiti dalla legge od eseguite in difformita` dalle prescrizioni in essa stabilite...». Sulle molteplici ragioni di insoddisfazione e di inadeguatezza, causate dall’adozione dello schema della «nullita` insanabile» nel settore del diritto probatorio, trattandosi di categoria «riservata alla violazione delle forme degli atti processuali» e quindi non estensibile alla diversa fattispecie delle «prove vietate» (ovvero acquisite contra legem, in violazione di peculiari divieti), si rileggano le chiare considerazioni svolte dalla Relazione ministeriale al progetto preliminare del c.p.p. del 1988, in Gazz. uff., Suppl. ord. n. 2, cit., 61. (53) Come ho avuto modo di analizzare ed argomentare, a suo tempo, negli studi citati, infra, nella nota 62, la terminologia in voga nelle esperienze di lingua inglese considera unitariamente, senza alcuna suddistinzione, il fenomeno delle prove illegally (ovvero unlawfully) obtained, mentre la terminologia nordamericana e` piu` precisa, per ovvie ragioni, nel ricondurre a peculiari constitutional privileges (quali sono quelli derivanti dagli Emendamenti I, IV, V e XIV alla Costituzione federale del 1787) la c.d. improperly obtained evidence (sul punto, ad es., per ulteriori approfondimenti e rilievi, cfr. E.W. Cleary ed a., McCormick on Evidence3, West Publishing Co., St. Paul, Minn. 1984, 444-539). (54) Si pensi, appunto, nel c.p., dopo le riforme introdotte dalla l. 8 aprile 1974, n. 98, e dalla l. 23 dicembre 1993, n. 547, alla vigente disciplina dei delitti contro l’inviolabilita` del domicilio (artt. 614-615, 615-bis / 615-quinquies) e dei delitti contro l’inviolabilita` dei segreti (artt. 616-617, 617-bis / 617-sexies, 618-622, 623-bis). (55) Nessuna delle previsioni, menzionate nella nota precedente, fa cenno alcuno a sanzioni processuali di «inutilizzabilita`», eventualmente applicabili ai risultati probatori conseguiti dalla commissione di quei reati. (56) Con ogni intuitiva difficolta`, correlata ai limiti tracciati dall’art. 14 disp. prelim. c.c., a proposito dell’interpretazione delle «leggi penali» e di «quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi». (57) A differenza di quanto accade nel diritto civile, ove altre categorie concettuali (ad es., quelle della «contrarieta` a norme imperative» o della «illiceita`» di determinati requisiti negoziali: art. 1418, 1º-3º comma, c.c.) consentono di configurare, anche in corrispondenza di determinate
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Non mi pare, poi, che si possano trarre indicazioni piu` precise dalla, non meno controversa, distinzione fra l’inutilizzabilita` c.d. «patologica» e quella «fisiologica», che pure il Supremo Collegio, nella decisione sul caso Cagnazzo, tende in parte a svalutare (o comunque a non considerare decisiva). Siffatta distinzione, di evidente matrice giurisprudenziale, risente dell’esigenza di chiarire, in modo peculiare, quali elementi probatori siano utilizzabili, oppure no, a seguito dell’opzione volontaristica espressa dalle parti (o dal solo imputato), in taluni procedimenti speciali alternativi (e, soprattutto, nel giudizio abbreviato, ex artt. 438-443 c.p.p.). Delle due fattispecie contemplate dalla predetta distinzione, la seconda sarebbe «funzionale» ai «peculiari connotati del processo accusatorio», in base a cui «il giudice non puo` utilizzare ai fini della deliberazione» decisoria «prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento», pur se assunte secundum legem nelle fasi precedenti (58); di conseguenza, il vizio corrispondente verrebbe validamente neutralizzato dalla «scelta negoziale», abdicativa e dispositiva, formulata dalle parti legittimate, facendo «assurgere a dignita` di prova», in quei medesimi procedimenti alternativi, anche «gli atti di indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale» (59). La prima fattispecie, per contro, riguarderebbe gli atti probatori assunti contra legem, «il cui impiego e` vietato im modo assoluto per essere la relativa assunzione avvenuta in contrasto radicale» con la disciplina che li regola; si tratterebbe, in sostanza, di una figura «estrema e residuale», sottratta al potere dispositivo delle parti, e quindi operante a pieno titolo anche in quei procedimenti alternativi, ogni qual volta l’acquisizione o l’assunzione di quelle stesse prove sia avvenuta in forme contrastanti con i principi fondamentali dell’ordina-
norme penali, ipotesi di «nullita`» virtuale (o, per cosı` dire, sistemica), nel diritto processuale vige l’opposto principio della «tassativita`», il quale – tanto per le nullita` formali (con talune limitate deroghe: artt. 156-158 c.p.c., artt. 177-180 c.p.p.), quanto per gli altri vizi tipici degli atti processuali (ad es.: inammissibilita` o improcedibilita`) e per la sanzione probatoria tipica dell’«inutilizzabilita`» – esige pur sempre la sussistenza di un’esplicita previsione normativa, generale o speciale, non surrogabile per implicito da alcuna movenza ermeneutica integrativa. (58) Si vedano, sul punto: l’art. 111, commi 4º-5º, Cost., nonche´, nel c.p.p., l’art. 526, commi 1 e 1-bis, in relazione ai divieti di lettura, stabiliti dall’art. 514, al di fuori delle ipotesi previste negli artt. 511-513. (59) Da tale scelta sarebbe, dunque, paralizzata – cosı` sottolinea, nella motivazione (da cui sono tratte le frasi fra virgolette, supra nel testo), Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro, cit., in Giur. it. 2000, 2122, con commento di Berni, Nuovi scenari per il giudizio abbreviato, cit. – «l’operativita` dell’ordinario regime d’impermeabilita` della fase dibattimentale agli elementi di prova raccolti nella fase procedimentale delle indagini preliminari». Nel contesto di tale regime probatorio «negoziato», sarebbero percio` irrilevanti e non opponibili nei predetti procedimenti, ad es., le ipotesi di inutilizzabilita` «relativa», sancite per il solo dibattimento dall’art. 350, 7º comma (con riguardo alle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla p.g., salva restando l’invocabilita` dell’art. 503, 3º comma), dall’art. 360, 5º comma (con riguardo all’accertamento tecnico non ripetibile, eseguito dal p.m. al di fuori delle condizioni ivi previste), o dall’art. 403, commi 1 ed 1bis (con riferimento alle risultanze dell’incidente probatorio cui non abbia partecipato il difensore dell’indagato).
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mento (60), o comunque in forme di per se´ capaci di pregiudicare «in modo grave e non superabile» (ne´ tantomeno riparabile) il diritto di difesa dell’indagato o dell’imputato (61). Mi pare, invece, che taluni limitati spunti possano semmai trarsi – peraltro, in termini puramente descrittivi ed oggettivamente confermativi – dalla menzionata distinzione fra inutilizzabilita` «assoluta» (in cui confluirebbero anche le predette ipotesi di inutilizzabilita` c.d. «patologica») ed inutilizzabilita` «relativa» (identificabile nei limitati casi di inutilizzabilita` c.d. «fisiologica»). La prima fattispecie, invero, corrisponde in tutto e per tutto alla moderna categoria delle prove c.d. «incostituzionali» (62), che le stesse tradizioni storiche degli ordinamenti di lingua inglese (ed, in particolare, quelle del sistema giuridico statunitense) riconducono ad una violazione di garanzie e di diritti inviolabili dell’individuo, aventi riscontro – anche per implicito e, quindi, senza la necessaria intermediazione di alcuna norma processuale ordinaria, che provveda ad enunciare corrispondenti divieti probatori – in constitutional sanctions, direttamente ricavabili dall’applicazione di norme di tipo super-primario (63). Che siffatta categoria rappresenti, ormai, un punto fermo pure nel nostro ordinamento – in cui la diretta ricavabilita` di corrispondenti divieti probatori dalle norme costituzionali a tutela dei «diritti inviolabili dell’uomo» (soprattutto, nell’ottica dell’art. 2, dai cit. artt. 14-15-16 Cost.) la rende sicuramente operante anche in quei processi (ad es., civile, amministrativo e tributario), nei quali manchi una previsione generale assimilabile all’art. 191 c.p.p. – e` stato piu` volte affermato e ribadito dalla Corte costituzionale. Si e` sottolineato, infatti, che, pur in assenza di «specifiche norme processuali», la protezione costituzionale dei beni fondamentali della segretezza e della privacy delle comunicazioni interpersonali sia tale, da imporsi di per se´, mediante corrispondenti (ed impliciti) divieti probatori, in qualsiasi tipo di processo, per effetto di previsioni direttamente precettive e vincolanti (64).
(60) A tal proposito, si ricordi che nel contesto di siffatti principi vengono inserite, soprattutto, le regole garantistiche enunciate dall’art. 15 Cost., le quali – secondo lo stesso indirizzo giurisprudenziale smentito dalle Sezioni unite nel caso Cagnazzo (cfr., ad es., ancora Cass. 25 ottobre 2007, n. 1161, in Dir. pen. e proc. 2009, 90-m, con nota di Beltrani, Intercettazioni inutilizzabili e procedimento di prevenzione, cit.) – intaccherebbero «in modo sostanziale» la validita` delle prove acquisite mediante intercettazione, a differenza dell’ipotesi in cui sussista un mero vizio motivazionale nel provvedimento autorizzativo, ex artt. 268, 3º comma, e 271, 1º comma, c.p.p. (61) In questi termini, ad es., con riferimento esemplificativo all’ipotesi radicale di una confessione estorta dalla p.g., cfr. Cass. 21 gennaio 2006, Gatti, in Foro it. 2008, II, 242-244, con nota di F. Gandini. (62) Sul tema, mi permetto, per brevita`, di rinviare ai miei studi: Il problema delle prove illecite nell’esperienza angloamericana e germanica, in Pubblicazioni della Universita` di Pavia, Studi nelle Scienze giuridiche e sociali, vol. XXXIX, Pavia 1967, 259-372; Repressione del crimine ed incostituzionalita` dei mezzi di prova, in Riv. dir. proc. 1972, 589-618. (63) Ma lo stesso fenomeno si riscontra anche negli ordinamenti di lingua tedesca. Per altri spunti e rilievi, cfr. ancora il mio vol. Le prove civili, cit., 72-86. (64) Cfr., al riguardo, a proposito dei tabulati telefonici, i cui limiti di utilizzabilita` non so-
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Quali sono, allora, i principali corollari di questa essenziale categoria probatoria, riferita alle peculiarita` tecnico-giuridiche delle intercettazioni? E` presto detto. Anzitutto, i divieti probatori sottesi alle garanzie costituzionali dei diritti di liberta` individuale (ex artt. 14-15), come si e` precisato poc’anzi (65), sono in grado di operare direttamente con effetti preclusivi, senza alcun particolare espediente ermeneutico (di tipo estensivo od analogico), anche nei confronti di altre situazioni di peculiare «intrusione» nella sfera di riservatezza privata (o, se si preferisce, nella c.d. «intimita` domiciliare»), le quali siano bensı` lesive di quei fondamentali diritti, ma non siano comunque riconducibili entro la disciplina normativa ordinaria, dettata per le intercettazioni in senso proprio dagli artt. 266-271 c.p.p. Quei medesimi divieti vengono, dunque, a condizionare a priori la possibilita` di trarre da siffatte situazioni elementi probatori da utilizzarsi eventualmente nel processo penale come «prove atipiche», ex art. 189 st. cod. (66). In secondo luogo, l’incidenza diretta di quei divieti costituzionali si traduce nella necessita` di interpretare e di applicare, in coerenza con i medesimi, le singole norme della disciplina ordinaria, considerando come omnicomprensivi ed unitariamente operanti (per cosı` dire, ad ampio raggio) nel processo penale, a prescindere dalle singole sue fasi o dai tipi (alternativi o speciali) di procedimento o di sub-procedimento, sia il divieto generale, enunciato nell’art. 191 c.p.p. (67), sia i divieti
no «coperti» dalla previsione dell’art. 266 c.p.p., Corte cost. 11 marzo 1993, n. 81, cit., in Foro it. 1993, I, 2132-2135, Nella motivazione, fra l’altro, si legge che il livello minimo di garanzie, assicurato dall’art. 15 Cost., si impone come parametro generale di validita` anche per «la tutela relativa alla riservatezza dei dati di identificazione dei soggetti, del tempo e del luogo della comunicazione», pur se esso non si sia finora tradotto in «specifiche norme processuali», dato che – come ha riconosciuto la stessa Corte nella pronunzia n. 34 del 1973 (cfr. retro) – non possono «validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che siano stati acquisiti attraverso attivita` compiute in violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell’uomo o del cittadino» (ibid., 2135). (65) Cfr., ancora – per il caso dei tabulati telefonici, contenenti «l’indicazione dei riferimenti soggettivi, temporali e spaziali delle comunicazioni telefoniche intercorse», e come tali non assoggettabili direttamente alla disciplina delle intercettazioni – quanto si e` rilevato supra nella nota 63. (66) Si pensi alle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare ovvero in luogo «riservato» (qual e` il c.d. prive´ di locali pubblici o comunque aperti al pubblico). Sul punto (con riferimento a Corte cost. 24 aprile 2002, n. 135, in Foro it. 2004, I, 390394, in Giust. pen. 2002, I, 199, e in Rep. Foro it. 2002, voce Intercettazione di conversazioni, n. 26, sugli artt. 266-271 c.p.p.), cfr., ad es., Cass., sez. un., 28 luglio 2006, n. 267695, Prisco, in Rep. Foro it. 2006, voce Prova penale, n. 60, e, per esteso, in Guida dir., n. 33, 26 agosto 2006, 51-59, con commento di A. Cisterna, I filmati nel prive´ di un locale pubblico possono rientrare tra le prove atipiche, 60-66. In tale pronunzia, fra l’altro, si sottolinea come il cit. art. 189 presupponga logicamente la «formazione lecita della prova» e solo in tale caso la renda ammissibile, pur con le condizioni ulteriori ivi menzionate. (67) Cio` vale, particolarmente, laddove le attivita` di intercettazione, da reputarsi costituzio-
l’inutilizzabilita` «assoluta» delle prove «incostituzionali»
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specifici di utilizzazione, enunciati nel cit. art. 271 st. cod. Il che, per di piu`, significa rendere efficaci questi ultimi, grazie al loro supporto costituzionale, come divieti sempre «assoluti» (e non mai «relativi») di utilizzazione, invocabili senza alcuna precostituita limitazione e con la medesima forza preclusiva in qualsiasi procedimento o processo, comunque diverso da quello penale (68). In terzo luogo, il suindicato carattere «assoluto» della sanzione di inutilizzabilita` comporta ed esige che dalla conclamata illegittimita` delle operazioni di intercettazione di conversazioni o di comunicazioni, tradottesi in una qualsiasi delle ipotesi contemplate dall’art. 271 c.p.p., scaturisca – in armonia con i principi scaturiti dalle tradizioni storiche dei sistemi di lingua inglese (69), che ripudiano in radice il brocardo «conservativo» male captum bene retentum – l’inutilizzabilita` probatoria derivata di tutte le cose «rappresentative» (cioe`, di quella categoria che, nella terminologia di lingua inglese, viene cumulativamente denominata real evidence), la cui materiale apprensione, al di fuori del sequestro del vero e proprio «corpo del reato» (come atto dovuto), sia stata resa possibile da un’intercettazione «incostituzionale» (70). Infine – last but not least, in questo particolare momento storico (71) – le pre-
nalmente illegittime, interferiscano con altri divieti di utilizzazione o di prova, esplicitamente enunciati in norme diverse del processo penale. Si pensi, ad es., alle possibili ipotesi di intercettazione di colloqui oralmente svoltisi fra la p.g. ed i suoi «confidenti» o di colloqui fra la stessa p.g. e persone indagate, che rendano spontaneamente dichiarazioni indizianti, con riferimento agli artt. 63, 64, 3º comma, e 195, 4º comma, c.p.p. Al riguardo, si vedano, ad es., i principi affermati da: Cass., sez. un., 28 maggio 2003, Torcasio, cit., in Rep. Foro it. 2003, voce Misure cautelari personali, n. 123, voce Prova penale, nn. 33-34, e voce Testimonianza penale, nn. 39-40; e Cass., sez. II, 7 novembre 2007, n. 46023, ivi, 2009, voce Testimonianza penale, nn. 28-29, e, per esteso, in Cass. pen. 2009 2988, con commento di A.P. Poggio, In tema di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria avente ad oggetto dichiarazioni spontanee di soggetti non indiziati, 2993. (68) Per quanto riguarda l’operativita` dei predetti divieti di utilizzabilita`, connessi alla violazione delle piu` volte ricordate garanzie costituzionali (ex artt. 2, 14 e 15 Cost.), mi permetto di rinviare, ancora, alla mia opera Le prove civili, cit., 72-86. (69) Si pensi, soprattutto, alla ben nota «Fruit of the Poisonous Tree» Doctrine ed alle correlate teorie volte a limitare gli effetti «distruttivi» della «incostituzionalita`» della prova (c.d. «Attenuation of the Taint», «Good Faith» Doctrine, e cosı` via). Cfr., ad es., per ulteriori riferimenti in argomento, Cleary ed altri, McCormick on Evidence, cit., 498-506, 507-509. (70) I principi in esame appaiono ben piu` stringenti e marcati, nel rapporto strumentale fra perquisizione illegittima e sequestro che ne sia conseguito. Si vedano, sui termini del lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia, ad es.: da un lato, Cass., sez. V, 22 settembre 1995, Cavarero, in Rep. Foro it. 1996, voce Sequestro penale, n. 16, e voce Guardia di finanza, n. 5, nonche´, per esteso, in Cass. pen. 1996, 1545, con mio commento Perquisizione illegittima ed inutilizzabilita` derivata delle prove acquisite con il susseguente sequestro, 1547; dall’altro, Cass., sez. un., 27 marzo 1996, Sala, in Rep. Foro it. 1996, voce Prova penale, n. 20, e voce Sequestro penale, n. 15, nonche´, per esteso, in Foro it. 1996, II, 397, e in Dir. pen. e proc. 1996, 1122, con commento di O, Lupacchini, Se e come utilizzare una prova illecitamente ritrovata, 1122. (71) Nel quale, occorre sottolineare con fermezza, in attesa di una prossima (e tanto con-
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dette garanzie costituzionali e i divieti di utilizzazione probatoria, ad esse sottesi, impongono in ogni caso di interpretare e di applicare con estremo rigore le norme ordinarie che, per un verso, sanzionano ogni possibile violazione del segreto istruttorio, a tutto danno di soggetti addirittura estranei alle indagini od ai procedimenti penali di riferimento (72), e, per altro verso, limitano fortemente l’utilizzabilita` probatoria (o, se vogliamo, l’esportabilita`) dei risultati di determinate intercettazioni, nell’ambito di procedimenti diversi da quello in cui esse siano state primariamente autorizzate ed eseguite (73). Luigi Paolo Comoglio
troversa) riforma della disciplina delle intercettazioni, sembra dominare la corsa sfrenata dei mass media verso la divulgazione ad ogni costo di notizie, tratte (non si sa mai come) da intercettazioni pur coperte da segreto istruttorio, nel nome di un diritto di cronaca e di critica, spesso abusato, perlopiu` a danno di soggetti nemmeno coinvolti nei procedimenti penali cui quelle stesse intercettazioni afferiscono. (72) Si vedano, al riguardo, gli artt. 114, 115, 116 e 329 c.p.p. Ma non si dimentichino, sul medesimo tema, le precise indicazioni date ante litteram, con notevole enfasi ed autorita`, dalla stessa Corte costituzionale nel citato leading case deciso con la sentenza n. 34 del 1973, alla stregua della disciplina previgente (artt. 226 bis/sexies c.p.p. del 1930). Nella motivazione di tale pronunzia, fra l’altro, si afferma quanto segue: «...sebbene sia auspicabile che la legge predisponga un compiuto sistema – anche a garanzia di tutte le parti in causa – per l’eliminazione del materiale non pertinente, la legge processuale e` gia` ispirata e dominata dal principio (connaturale alla finalita` stessa del processo) secondo il quale non puo` essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il giudizio...»; «...l’applicazione del suddetto principio non solo garantisce la segretezza di tutte quelle comunicazioni telefoniche dell’imputato che non siano rilevanti ai fini del relativo processo, ma garantisce altresı` la segretezza delle comunicazioni non pertinenti a quel processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l’apparecchio telefonico sottoposto a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con questo...»; «...la Corte ritiene che il rigoroso rispetto di questo principio sia essenziale per la puntuale osservanza dell’art. 2 e dell’art. 15 Cost.: violerebbe gravemente entrambe le norme costituzionali un sistema che, senza soddisfare gli interessi di giustizia, in funzione dei quali e` consentita la limitazione della liberta`e della segretezza delle comunicazioni, autorizzasse la divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo...» (il corsivo e` aggiunto). (73) Si considerino, specialmente, l’art. 270, commi 1-3, c.p.p. ed i principi piu` volte affermati, in proposito dalla Corte costituzionale (cfr. in particolare, sul 1º comma della norma, Corte cost. 24 febbraio 1994, n. 63, in Rep. Foro it. 1994, voce Intercettazione di conversazioni, nn. 2223, nonche´, per esteso, in Foro it. 1994, I, 2355; ed ancora Corte cost. 23 luglio 1991, n. 366, cit., ivi 1992, I, 32573265, con commento di De Gregorio, Diritti inviolabili dell’uomo e limiti probatori nel processo penale, cit., 3257-3263, nonche´ in Rep. Foro it. 1992, voce ult. cit., nn. 11, 17.
NOTE IN TEMA DI PROVA SCIENTIFICA NEL PROCESSO PENALE (*)
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il paradosso della prova scientifica. – 3. La prova scientifica nuova o controversa e di elevata specializzazione e la «cultura di criteri». – 4. Cattivi scienziati e contromisure. – 5. Tendenze giurisprudenziali sulla valutazione della prova scientifica. – 6. La l. 30 giugno 2009, n. 85: la banca dati nazionale del DNA alla luce delle coordinate europee. – 7. (Segue) La disciplina interna. – 8. (Segue) Le modifiche al codice di procedura penale.
1. – Possiamo senz’altro muovere dall’affermazione, direi scontata, che anche nel nostro Paese il processo penale e` ormai largamente visitato dalla scienza: lo testimoniano le numerose ipotesi in cui metodologie scientifiche sempre piu` raffinate consentono di pervenire all’accertamento del fatto nonche´ di riaprire casi rimasti ancora insoluti perche´ risalenti ad epoche ove l’impatto della scienza sul sistema probatorio penale era ben minore. (1) La dottrina processualcivilistica (V. Denti) che per prima si e` occupata in modo organico della materia ha ritenuto che in tema di «scientificita`» della prova si debba adottare, tra i vari significati del termine «prova», quello di «risultato di prova», costituito dalle valutazioni cui il giudice perviene circa l’esistenza o l’inesistenza del fatto da provare: in altre parole, il punto focale della «scientificita`» della prova sarebbe legato alla formazione del libero convincimento del giudice, per descrivere i casi nei quali il giudizio di inferenza probatoria, posto alla base dell’accertamento del fatto, implica per il giudice medesimo l’impiego di conoscenze che vanno al di la` di quelle ascrivibili all’uomo medio. In realta`, una tale concezione, che pare ricollegarsi all’antico inquadramento della perizia come mezzo esclusivamente valutativo, va oggi allargata in modo da includere i multiformi profili della prova scientifica. Del resto, innegabili indicazioni del superamento di una simile ricostruzione si possono trarre dalla tipologia degli incarichi conferiti all’esperto, il quale, ai sensi dell’art. 220, comma 1º, c.p.p. (concernente il perito e, in via mediata, il consulente tecnico), deve «svolgere in-
(*) Il testo riproduce, con alcuni adattamenti, la relazione introduttiva al Seminario «Prova scientifica e processo penale», svolta ad Alessandria il 24 marzo 2010 presso la Facolta` di Giurisprudenza (il Seminario, organizzato da chi scrive, si e` articolato in piu` incontri, con la partecipazione del prof. F. Caprioli, dell’avv. M. Boccassi, del gen. L. Garofano, del prof. C. Torre e del dott. C. Robino, del cons. A. Nappi).
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dagini o acquisire dati o valutazioni», impiegando «specifiche competenze»: e proprio prendendo le mosse dal dato normativo, la dottrina (O. Dominioni) ha individuato i vari momenti in cui le risorse scientifiche si innestano nel sistema probatorio. Infatti, «svolgere indagini» comporta cercare dati di conoscenza di un fatto che soltanto un tecnico e` in grado di individuare (pensiamo all’esperto il quale riesce a recuperare da un apparato informatico dati che si presuppone siano stati cancellati ma hanno invece lasciato tracce che appunto solo le tecniche specialistiche sono in grado di cogliere); «acquisire dati» rimanda a dati che studi specialistici hanno tratto da determinati fenomeni analizzati in modo sistematico; «fare valutazioni» sottintende i variegati compiti che possono venire assegnati all’esperto: individuare leggi tecnico-scientifiche «valide ad inferire un fatto da un altro», lasciando alle parti e al giudice il compito di porre in essere una tale inferenza; attuare egli stesso l’inferenza, valendosi di «dati fattuali gia` introdotti nel processo» mediante altri mezzi di prova, come la testimonianza o le prove documentali, o di dati rinvenuti tramite una propria indagine o estrapolati dal patrimonio delle sue conoscenze scientifiche; svolgere l’inferenza sul piano ipotetico, cioe` muovendo da «dati fattuali solo postulati». Alla luce di queste molteplici variabili, si e` formulata la nozione di prova scientifica, facendo riferimento a «mezzi di prova nei quali si usa uno strumento scientifico-tecnico che richiede specifiche competenze e quindi l’intervento di un esperto» (O. Dominioni). Va inoltre posto in luce che sarebbe piu` corretto parlare non tanto di prova scientifica quanto di prove scientifiche, dal momento che ogni scienza possiede i suoi concetti generali e i suoi criteri di validita` e non e` possibile unificare in modo omogeneo tutti i paradigmi delle varie scienze (M. Taruffo): ne consegue che nel processo penale fanno il loro ingresso vari tipi di scienza e spesso lo strumento tecnico-scientifico serve per la ricerca e la formazione della prova. Ed e` proprio di queste tipologie di prove scientifiche che si intende occupare il Seminario che oggi introduciamo. Gli esempi non mancano: si pensi allo Stub impiegato per ricercare i residui di polvere da sparo al fine di stabilire se una persona abbia fatto uso di armi da fuoco, al Luminol usato per l’individuazione delle tracce di sangue, alla Bloodstain Pattern Analysis (BPA), che dalla quantita`, morfologia e distribuzione delle macchie di sangue consente di ricavare induttivamente varie informazioni riguardanti la posizione dell’autore e della vittima, le modalita` del fatto, la natura dell’arma e cosı` via, alla stilometria, cioe` alla tecnica di misurazione qualitativa dello stile letterario di una persona per l’attribuzione ad essa di una dichiarazione scritta o orale, al metodo spettrografico di riconoscimento vocale (voiceprint), alla simulazione del fatto al computer e alle tecniche di recupero di dati cancellati dalla memoria del sistema informatico. Un posto a se´ spetta oggi nel nostro ordinamento al test del DNA, per ottenere l’identificazione genetica. Come meglio vedremo nella seconda parte di questa introduzione, la l. 30 giugno 2009, n. 85, con cui l’Italia ha aderito al Trattato di Pru¨m, ha istituito la banca dati nazionale del DNA e il relativo laboratorio centrale: da questo punto di vista, vengono in gioco sia il prelievo di campioni biologici da determinate categorie di soggetti, per la tipizzazione del profilo del DNA (art. 9, l. n. 85 del 2009), sia la tipizzazione di profili del DNA da reperti biologici
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trovati sulla scena del crimine o comunque su cose pertinenti al reato (art. 10, l. n. 85 del 2009). La medesima legge ha introdotto nel codice di rito penale una specifica disciplina, relativa alla perizia che richiede il compimento di atti idonei ad incidere sulla liberta` personale (art. 224-bis c.p.p., richiamato dall’art. 359-bis c.p.p., per il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi nelle indagini preliminari, e dall’art. 392, comma 2º, c.p.p., come ulteriore caso di incidente probatorio). Si tratta, in presenza di determinate condizioni, del prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA, qualora non vi sia il consenso della persona da sottoporre all’esame del perito. Dalle brevi considerazioni esposte emergono, in via di prima approssimazione, almeno due conseguenze rilevanti. La prima e` costituita dalla constatazione che il prepotente ruolo assunto dalla scienza nel processo comporta il progressivo contrarsi del bagaglio di conoscenze dell’uomo medio, che un tempo forniva linfa alle regole di inferenza da utilizzare nel ragionamento probatorio: la dottrina ha sottolineato con preoccupazione le dimensioni del fenomeno, in quanto il sempre maggiore divario fra conoscenze comuni e conoscenze specialistiche comporta il rischio di un gap valutativo dell’organo giudicante. Il giudice, in sostanza, si vedrebbe sottratte delle competenze valutative che dovrebbero invece spettargli: in quest’ottica, dunque, diventa imprescindibile ricorrere a criteri per stabilire quali discipline possiedano la patente di autentica scientificita`, allontanando cosı` il pericolo della c.d. scienza spazzatura. La seconda conseguenza si collega alla natura di strumento per la ricerca e la formazione della prova che la prova scientifica puo` rivestire nel caso concreto: evenienza, quest’ultima, nella quale va circondata da garanzie che devono coprire le varie fasi del procedimento probatorio di cui essa diventi protagonista. 2. – Non c’e` dubbio che i profili piu` stimolanti del dibattito sulla prova scientifica si colleghino al paradosso che la innerva: in altre parole, quali siano le vie per garantire l’affidabilita` e l’attendibilita` della prova scientifica utilizzata nel processo e come il giudice e le parti possano esercitare un reale controllo su un’attivita` probatoria che l’esperto ha posto in essere impiegando conoscenze ad essi estranee (O. Dominioni). Si sovrappongono, a questo proposito, il problema della giustificazione razionale delle decisioni del giudice penale e il problema della responsabilita` del giudicante (F. Caprioli): il giudice, affidandosi alla scienza, sfugge alla propria responsabilita` e il processo compie passi indietro, ritornando, mutatis mutandis, alle simbologie dei riti ordalici (F. Focardi). Ad evitare simili derive, vanno attentamente perimetrati i canali attraverso cui la cattiva scienza potrebbe insinuarsi nel processo: mi limito ad enunciarli, perche´ verranno approfonditi nel prossimo incontro del Seminario. La prima breccia puo` venire aperta dalla cattiva scienza, la quale impiega nel processo strumenti tecnico-scientifici che in se´ e per se´, cioe` indipendentemente dall’applicazione buona o cattiva nel caso concreto, non sono in grado di garantire un sufficiente livello di attendibilita` e di affidabilita`. Ma anche la buona scienza si puo` trasformare in una cattiva maestra: sia quando si tratta di una buona scienza applicata male, cioe` applicata concretamente da cattivi scienziati
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(si puo` addurre l’esempio dello scienziato corrotto, che falsifica gli esiti di un esame autoptico); sia quando una buona scienza, applicata bene in sede processuale, viene utilizzata in modo improprio dal giudice nella decisione. In quest’ultima prospettiva, vengono in rilievo soprattutto le situazioni in cui il giudice utilizza modelli decisionali di tipo probabilistico e, in particolare, la c.d. prova statistica: si tratta di modelli che non devono venire recepiti in modo acritico, ma verificati calandoli nella globalita` degli elementi di prova disponibili, per stabilire «se, nel caso concreto, non sia stata l’eventualita` meno frequente a realizzarsi» (F. Caprioli), visto che la colpevolezza dell’imputato va provata «al di la` di ogni ragionevole dubbio». Non e` mio compito approfondire le tematiche ora indicate; mi limitero` dunque a sottolinearne alcuni aspetti essenziali. 3. – Il primo profilo delicato e` costituito dalla prova scientifica nuova o controversa e di elevata specializzazione (O. Dominioni): da quest’angolo visuale, la prova scientifica puo` presentarsi come nuova nel campo scientifico (perche´ non ancora sottoposta a un «significativo vaglio» da parte della comunita` di esperti del settore) o nel solo campo giudiziario (lo strumento, pur verificato dalla comunita` scientifica, non ha avuto applicazione giudiziaria o e` stato applicato in misura non rilevante, con la conseguenza che non si sono ancora formati parametri di controllo stabilizzati). Anche la prova scientifica controversa puo` rivestire tale natura nei due campi: nel campo scientifico, uno strumento e` controverso quando la sua validita` sia stata oggetto di giudizi opposti, o comunque sensibilmente divergenti, ovvero quando, dopo essere stato validato, venga nuovamente posto in discussione; tuttavia, uno strumento scientifico non e` controverso se, nell’altalena di verifiche, conferme e smentite, si ponga come sufficientemente accreditato e affidabile presso la comunita` scientifica di riferimento. Nel campo giudiziario, lo strumento scientifico e` controverso quando, sebbene cristallizzato, allo stato delle conoscenze, in ambito scientifico, trova invece applicazioni difformi di una certa consistenza nella concreta realta` giudiziaria. Di fronte alla prova scientifica nuova o controversa e di elevata specializzazione si manifesta in tutta la sua nettezza il paradosso del giudice inesperto che si trova a dovere controllare l’operato dell’esperto. Parrebbe un paradosso senza uscita, nel senso che, se il giudice e le parti non hanno a propria disposizione strumenti di controllo proprio perche´ la prova scientifica e` nuova o controversa ed e` di elevata specializzazione, tale prova non dovrebbe venire ammessa nel processo in quanto non si possono utilizzare «apparati conoscitivi» non controllabili (O. Dominioni). In realta`, la via per uscire dal paradosso sta nell’elaborazione di criteri che il giudice deve impiegare nella sua opera di controllo: infatti, il giudice non deve possedere le nozioni e le tecniche che sono appannaggio dello scienziato, ma solo disporre di «schemi razionali che gli consentano di stabilire il valore della prova scientifica ai fini dell’accertamento del fatto» (M. Taruffo; v. pure O. Dominioni). Le esperienze di altri Paesi vanno in questa direzione: mi riferisco alla ormai risalente sentenza Daubert (1993), in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, superando la pregressa decisione Frye (1923) emessa dalla Circuit Court del
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distretto di Columbia – dove era stata individuata una regola di esclusione in mancanza di un’accettazione generale della prova scientifica – ha fissato una serie di criteri, muovendo dal seguente assunto. Di fronte a una prova scientifica nuova, il giudice non deve limitarsi semplicemente a verificare se essa sia o no generalmente accettata nella comunita` scientifica di riferimento, ma deve valutare l’affidabilita` dei metodi e delle procedure adottati dall’esperto. Tale valutazione va condotta sulla base di criteri, elencati, peraltro a titolo esemplicativo, nella stessa sentenza Daubert, quali il grado di controllabilita` e falsificabilita` del metodo scientifico; il margine di errore conosciuto o conoscibile; la presenza di una revisione critica da parte della comunita` di esperti, essendo stata la teoria o la tecnica divulgata mediante pubblicazioni scientifiche o altri mezzi; la rilevanza diretta e specifica delle conoscenze acquisibili rispetto ai fatti di causa. Anche i giudici italiani dovrebbero vagliare il grado di affidabilita` della prova scientifica sulla base di criteri analoghi a quelli elencati nel caso Daubert: si tratta, in sostanza, di costruire una «cultura di criteri», che il giudice puo` trarre dagli orientamenti giurisprudenziali, dalla letteratura giuridica, dalla Forensic Science, dagli stessi ambiti scientifici nei quali gli studiosi elaborano i parametri per validare un nuovo strumento o principio (O. Dominioni). Questa «cultura di criteri» non chiede al giudice di diventare scienziato, ma di attrezzarsi per valutare il livello di attendibilita` scientifica della nuova tecnica probatoria adottata. A questo punto si innesta il secondo profilo, anch’esso di estrema importanza. Fermo restando – e ritornero` brevemente sul punto – che il controllo di affidabilita` dello strumento scientifico va senz’altro effettuato in sede di valutazione della prova, ci si domanda se l’uso della «cultura di criteri» possa venire anticipato al momento dell’ammissione della prova. Vi sono casi, infatti, nei quali la valutazione anticipata e` possibile perche´ il giudice conosce lo strumento tecnico che verra` adottato (F. Caprioli): si portano gli esempi degli accertamenti tecnici irripetibili effettuati nel corso delle indagini di cui si intendano acquisire i risultati in dibattimento ovvero della perizia e dell’esperimento giudiziale dei quali si possano identificare a monte, con sicurezza, le modalita` attuative. Mi limito a ricordare che sono state prospettate due vie da seguire nel caso in cui lo strumento scientifico sia nuovo o controverso. Secondo una tesi si applicherebbe l’art. 189 c.p.p. (che fissa condizioni rigorose per l’ammissione delle prove atipiche), mediante il quale il legislatore del 1988 mirava – come emerge dalla Relazione al progetto preliminare – a «evitare eccessive restrizioni ai fini dell’accertamento della verita`, tenuto conto del continuo sviluppo tecnologico che estende le frontiere dell’investigazione, senza mettere in pericolo le garanzie difensive». Lo si applicherebbe, tuttavia, in via analogica alla prova scientifica nuova o controversa, perche´ le tecniche di accertamento in questione – ad esempio, la stilometria o la simulazione del fatto al computer – non sono prove atipiche bensı` modalita` di espletamento di prove tipiche, quali la perizia o l’esperimento giudiziale, e tali tecniche non possono venire ingabbiate dallo strumento legislativo, in quanto derivano dal mutare e dal progredire degli studi, con risultati costantemente in fieri (O. Dominioni). Alla tesi ora illustrata si obietta che l’art. 189 c.p.p. non opera al proprio interno alcuna distinzione e dunque sarebbe applicabile, ad esempio, altresı` per va-
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gliare le concrete modalita` di effettuazione dell’esame autoptico o dell’accertamento dell’infermita` mentale (F. Focardi; nonche´ F. Caprioli): ed infatti altra dottrina (G. Ubertis) riconduce a differenti norme codicistiche la funzione di orientare il vaglio ammissivo sull’attendibilita` dello strumento scientifico. Vengono in gioco, in proposito, l’art. 190 c.p.p., nel senso che la prova non autenticamente scientifica sarebbe manifestamente irrilevante, e gli artt. 220, 225 e 233 c.p.p., in quanto il perito e il consulente tecnico, i quali si servano di una cattiva scienza, non sarebbero forniti delle competenze scientifiche richieste per la loro nomina. 4. – Qualche rilievo su un ulteriore ostacolo che il giudice penale puo` trovarsi di fronte nel momento in cui deve valutare se il perito o il consulente tecnico abbia applicato in modo corretto la sua scienza, in se´ e per se´ buona: e` un compito irto di difficolta`, e nel tentare di assolverlo il giudice si puo` scoprire disarmato, risultando inefficaci allo scopo i parametri che normalmente usa per valutare l’attendibilita` del testimone, cioe` la credibilita` intrinseca del dichiarante e «il grado di concordanza di deposizioni divergenti con altri elementi della narrazione delle parti». Di solito, infatti, l’esperto possiede caratteristiche di credibilita` e i normali indici utilizzati per stabilirla «potrebbero essere fuorvianti»; inoltre, e` difficile «determinare la concordanza della testimonianza dell’esperto con altre prove», perche´ «i dati scientifici si possono raramente incorporare nelle narrazioni dei testimoni», e dunque costituiscono un tema di prova a se´ (M. Damasˇka). Per superare queste difficolta`, la dottrina ritiene che, da un lato, vadano adottate contromisure di carattere preventivo e, dall’altro, vadano impiegate al massimo grado le potenzialita` insite nel metodo del contraddittorio consacrato a livello costituzionale. Sul primo versante, vengono in gioco innanzitutto i criteri di scelta del perito: secondo le linee guida elaborate nel 2008 dall’ISISC (Istituto superiore internazionale di scienze criminali, con sede a Siracusa), il giudice, al momento del conferimento dell’incarico al perito, non deve limitarsi a verificare l’esistenza della sua specializzazione (in specie in medicina legale), ma deve altresı` vagliarne la «specifica qualificazione» in rapporto «all’oggetto dell’accertamento», ricavandola dalle precedenti esperienze di natura professionale, didattica e giudiziaria, dalle pubblicazioni su riviste autorevoli e dalle citazioni dei suoi scritti in studi qualificati del settore di competenza, dall’aggiornamento professionale. Inoltre, lo standard professionale dei laboratori che l’esperto utilizza deve risultare elevato. Sul secondo versante, legato all’impiego del contraddittorio adattato alle caratteristiche della prova scientifica, la nostra normativa e` sicuramente lacunosa: ad esempio, sulla scena del crimine spesso vengono compiuti accertamenti senza che sia tutelato il diritto di difesa di un indagato ancora allo stato virtuale. Da questo punto di vista, le garanzie consistono nell’adozione di stringenti protocolli operativi concernenti sia le condizioni in cui vengono impiegate le tecniche di accertamento, ad evitare contaminazioni esterne, sia la repertazione e la conservazione dei materiali analizzati. A cio` andrebbe aggiunta una forma di documentazione particolare dell’attivita` investigativa condotta con metodo scientifico, come la videoregistrazione integrale, in modo da potere almeno consentire in un secondo momento il contraddittorio sulla prova (F. Caprioli).
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Residua la difficolta` di comunicazione tra linguaggio scientifico e linguaggio giuridico: sotto quest’angolo visuale, il giudice dovra` esercitare, gia` al momento dell’ammissione della prova scientifica, un controllo particolarmente incisivo che gli consentira` la migliore formulazione dei quesiti, evitando quelli ambigui o che, inopinatamente, comportino la soluzione di problemi giuridici (C. Brusco). Anche su questo punto si sono pronunciate le linee guida elaborate nel 2008 dall’ISISC, osservando che la formulazione dei quesiti dovra` venire espressa in modo che «l’esperto fornisca al giudice dati e valutazioni che attengono esclusivamente alla propria disciplina in base alle relative ed autonome categorie concettuali», cosı` da evitare che, a causa di una formulazione ambigua, egli sia portato a «superare i confini della propria competenza tecnico-scientifica, esprimendo valutazioni giuridiche di esclusiva pertinenza del giudice». 5. – Alcune considerazioni possono poi venire spese con riguardo allo stato dell’arte della giurisprudenza in tema di valutazione della prova scientifica: se si escludono alcune isolate pronunce di legittimita` e di merito riguardanti la perizia fonica per il riconoscimento della voce, risalenti ai primi anni novanta, si puo` osservare che la prova scientifica di nuova tipologia e` venuta alla ribalta in alcuni noti casi giudiziari degli ultimi anni. Esempio tipico e` costituito dal caso Cogne, nel cui ambito la corte di cassazione, confermando la sentenza della corte di assise di appello di Torino, si e` dovuta esprimere, per la prima volta, sull’affidabilita` della Bloodstain Pattern Analysis (BPA), cioe` quella tecnica che consente di ottenere informazioni sulle modalita` di svolgimento del fatto attraverso l’analisi delle macchie di sangue presenti sulla scena del crimine, in rapporto alla loro quantita`, morfologia e distribuzione. La dottrina ritiene che anche il giudice italiano, nel compiere la suddetta valutazione, debba avvalersi dei criteri elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina statunitense: dunque, sia di quelli elencati, in via esemplificativa, dalla sentenza Daubert, sia di altri, proposti nel 1993 da M.A. Farley. Tra questi ultimi si annoverano, ad esempio, l’eventuale impiego che dello specifico strumento scientifico sia gia` stato operato in ambito giudiziario o extra-giudiziario; gli elementi di novita` rispetto a tecniche precedenti ormai collaudate, in quanto le modifiche non incisive richiedono un livello di verifica meno intenso; il margine di soggettivita` nella lettura dei dati, poiche´ la presenza di criteri oggettivi e standardizzati aumenta l’affidabilita`; la chiarezza e la semplicita` con cui la tecnica puo` essere descritta dall’esperto e compresa dal giudice (e dalla giuria); la disponibilita` di altri esperti a testare e valutare la tecnica impiegata; la cura generale con cui le indagini sono condotte (C. Brusco). Nel caso Cogne i giudici di merito hanno semplicemente considerato la tecnica in questione come una buona scienza, prendendo atto della sperimentazione applicativa di detto metodo nei paesi anglosassoni e in Germania e indicando la letteratura in argomento: sebbene non sia richiesto al giudice italiano di esprimersi e motivare su ciascuno dei molteplici criteri prima menzionati, e` da condividere l’opinione dottrinale (F. Caprioli) secondo cui la BPA e` stata sottoposta «a un sindacato alquanto sommario». Peraltro, la corte di cassazione ha ritenuto che il giu-
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dice di merito abbia sostanzialmente rispettato «i rigorosi criteri di validazione della prova scientifica» elaborati dalla giurisprudenza americana ed aventi valore solamente orientativo per l’autorita` giudiziaria italiana, attribuendo particolare rilievo, probabilmente, al fatto che vi sia stata «una analitica disamina e confutazione dei numerosi rilievi dei consulenti tecnici di tutte le parti, senza pretermettere di considerare le possibili variabili in grado di influenzare il risultato di prova» nel caso specifico. Dalla sentenza della corte di cassazione emerge poi l’attenzione all’aspetto della corretta applicazione della buona scienza nel processo: in primis, viene ritenuto molto importante il possesso di «comprovate referenze» e di una «particolare competenza nella specifica disciplina» riconosciuto al perito; in secondo luogo, viene sottolineato che il perito d’ufficio e i consulenti di parte «hanno discusso e concordato i protocolli da adottare per le indagini in questione», non potendosi pretendere che, una volta «doverosamente verificato l’accreditamento della BPA in sede scientifica e nella prassi investigativa, i giudici di merito procedessero anche personalmente a testare quei protocolli, postulanti il possesso di cognizioni specialistiche». Infine, la corte di cassazione ha negato che in tema di BPA si dovesse applicare l’art. 189 c.p.p., riconducendo senz’altro l’indagine fondata su questa tecnica al genus della perizia, in quanto «la peculiarita` dell’oggetto degli accertamenti» non va confusa «con l’atipicita` del mezzo di prova». Secondo la dottrina e` sicuramente importante la scelta dell’esperto, sebbene l’attendibilita` della prova scientifica non possa venire collegata esclusivamente o prevalentemente al prestigio dell’esperto stesso: la prova va comunque vagliata dal giudice sia perche´ l’errore umano e` sempre possibile sia perche´, nel caso di consulenti tecnici di parte, «puo` prevalere la volonta` di far accettare dai giudici la tesi favorevole alla parte che assistono» (C. Brusco). Inoltre, tra i parametri indicati nella sentenza Daubert, particolare rilievo dovrebbe rivestire il margine di errore: infatti, l’errore, che puo` venire ricondotto a varie cause, non sempre e` eliminabile (si porta l’esempio, quanto alla scienza medica, dei c.d. falsi positivi e falsi negativi), ed e` comunque chiaro come un metodo scientifico inficiabile da un margine di errore alto finisca con escludere la validita` della prova ottenuta con simile metodo, tranne che nell’evenienza concreta «esistano condizioni che rendono impossibile o estremamente improbabile quel tipo di errore» (C. Brusco). 6. – Come anticipato nella premessa, con la l. n. 85 del 2009 e` stata istituita anche nel nostro Paese, sia pur con grande ritardo, la banca dati nazionale del DNA ad uso forense: la svolta e` legata all’adesione al Trattato di Pru¨m (1), ove si prevede
(1) Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Pru¨m, v. la decisione 2008/615/GAI del Consiglio, del 23 giugno 2008, sul potenziamento della cooperazione transfrontaliera, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalita` transfrontaliera (in Gazz. uff. un. eur. 2008, n. L 210, 1 ss.), adottata allo scopo di «incorporare la sostanza delle disposizioni» contenute nel suddetto Trattato
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la possibilita` di uno scambio diretto, fra i Paesi aderenti, dei rispettivi DNA databases, essendo ovvio che l’Italia dovesse dotarsi di tale database. Intendiamoci: prima della l. n. 85 del 2009, sussistevano in concreto databases «artigianali sottratti ad ogni serio controllo» (G. Gennari) e le cronache hanno documentato l’esistenza di un archivio non ufficiale di profili del DNA a disposizione del R.I.S. di Parma, dove l’Autorita` Garante della privacy ha svolto un’ispezione. In quest’ottica, la legge che disciplina la raccolta e la conservazione dei profili genetici dovrebbe, pur con i limiti che verranno evidenziati, offrire quantomeno maggiori garanzie di trasparenza. Il primo aspetto da cui muovere e` costituito dai riflessi che la gestione del dato genetico puo` determinare sul diritto alla privacy, inteso non solo come tutela dall’intrusione nella sfera corporea del soggetto passivo (per prelevare il materiale biologico necessario si usa di solito un tampone salivare), ma anche, e piu` specificamente, come diritto al controllo di ogni informazione riguardante la propria identita` personale. Questa seconda garanzia riveste primaria importanza perche´ il DNA fornisce uno spettro di informazioni amplissimo, che concerne non solo il sesso e le condizioni attuali di salute dell’individuo, ma altresı` «relazioni familiari, caratteristiche somatiche, predisposizione a malattie destinate a manifestarsi in futuro»; inoltre, il numero di marcatori utilizzati a fini forensi e` in continua crescita, con il risultato di ampliare ancora il novero di informazioni ricavabili dal DNA (G. Gennari). Sul piano europeo, d’altro canto, e` da tempo alta l’attenzione a profili del genere: secondo una prima Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (R [87] 15, del 17 settembre 1987) (2), sull’utilizzo dei dati a carattere personale nel settore di polizia, la raccolta di dati personali, di qualunque natura, deve essere limitata a quanto strettamente necessario per la prevenzione di un pericolo concreto o per la repressione di reati specifici, salve le eccezioni, a loro volta specifiche, stabilite dalle legislazioni nazionali; anche la conservazione dei dati deve essere limitata a quanto strettamente necessario per consentire alle forze di polizia lo svolgimento dei compiti che la legge attribuisce ad esse nel quadro del diritto interno e internazionale; infine, i dati devono essere cancellati se non piu` necessari allo scopo per il quale erano stati raccolti. In una successiva Raccomandazione (R [92] 1, del 10 febbraio 1992) (3), sull’utilizzazione delle analisi del DNA nell’ambito del sistema giudiziario penale, si tratteggiano le linee guida da seguire nella raccolta del materiale biologico e nell’uso delle tecniche di indagine genetica. Muovendo dall’assunto che l’impiego di de-
nel quadro giuridico dell’Unione europea (con particolare riguardo ai profili del DNA v. la Sezione 1 del Capo 2). Per l’attuazione cfr. inoltre la decisione 2008/616/GAI del Consiglio, del 23 giugno 2008, ivi, 12 ss. (2) Il testo e` leggibile in S. Buzzelli, O. Mazza (a cura di), Codice di procedura penale europea, Milano 2005, 693 ss. (3) Il testo e` consultabile in S. Buzzelli, O. Mazza (a cura di), Codice di procedura penale europea, cit., 1070 ss.
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terminate tecnologie implica il rischio della lesione di alcuni principi fondamentali (come la dignita` dell’individuo, il rispetto dell’integrita` fisica, il diritto di difesa e il principio di proporzionalita`), la cui tutela deve invece venire assicurata, la Raccomandazione chiarisce che i campioni biologici e le informazioni da essi ricavate non possono venire utilizzati per scopi diversi dalle investigazioni e dalla repressione dei reati (fatto salvo il diritto della persona sottoposta al prelievo di ottenere informazioni in proposito) e che, qualora l’utilizzo appaia necessario a fini statistici o di ricerca, i dati devono diventare anonimi. Il prelievo di campioni biologici deve avvenire esclusivamente nei casi e modi stabiliti dalla legge nazionale e i campioni dovrebbero venire distrutti dopo la pronuncia della decisione finale nel procedimento nel corso del quale erano stati prelevati, a meno che la conservazione sia necessaria per finalita` direttamente collegate a quelle in vista delle quali si era effettuato il prelievo. Di regola, i risultati delle analisi del DNA e le informazioni che ne derivano dovrebbero essere cancellati quando la loro conservazione non e` piu` necessaria in rapporto allo scopo per cui sono stati utilizzati: tuttavia, la conservazione e` possibile in caso di condanna per gravi delitti contro la vita, l’integrita` e la sicurezza delle persone (stabilendone i tempi precisi) e quando il reperto biologico sia stato rinvenuto sulla scena del crimine e non sia collegato a un soggetto specifico. In tempi piu` recenti (4), va poi ricordata la decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 27 novembre 2008 (2008/977/GAI), relativa alla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (5), dove, nel considerando n. 11, si ha riguardo al bilanciamento fra le legittime attivita` dell’autorita` giudiziaria e della polizia, che non devono venire compromesse, e la necessita` di istituire norme sulla legalita` del trattamento dei dati personali, per garantire che le informazioni scambiate «siano state trattate in maniera legale e conformemente ai principi fondamentali in materia di qualita` dei dati». Inoltre, l’art. 6, riferito a particolari categorie di dati, stabilisce che il trattamen-
(4) Da considerare altresı` le Risoluzioni del Consiglio dell’Unione europea del 9 giugno 1997 (in Gazz. uff. com. eur. 1997, n. C 193, 2 ss.) e del 25 luglio 2001 (ivi 2001, n. C 187, 1 ss.), entrambe sullo scambio dei risultati delle analisi del DNA. Nella prima si stabilisce che lo scambio puo` concernere solo dati relativi a parti non codificanti della molecola del DNA, tali cioe` da non fornire informazioni su specifiche caratteristiche ereditarie; nella seconda si esortano gli Stati membri a utilizzare dei marcatori comuni del DNA (elencati nell’allegato), che appunto non contengono informazioni su specifiche caratteristiche ereditarie. (5) Pubblicata in Gazz. uff. un. eur. 2008, n. L 350, 60 ss. Si tratta di una decisione quadro frutto, come accade quasi sempre, di compromesso, che si applica solo ai dati oggetto di trasmissione e di scambio tra Stati membri e non concerne i dati trattati in ambito nazionale; il considerando n. 39 lascia impregiudicate le disposizioni di protezione dei dati che disciplinano il trasferimento automatizzato fra Stati membri di profili del DNA, a norma della decisione 2008/615/ GAI del Consiglio, del 23 giugno 2008 (su cui v. supra, nota 1). Con l’approvazione del Trattato di Lisbona (1º dicembre 2009) e la conseguente abolizione della suddivisione in «pilastri», la protezione dei dati personali viene estesa a tutti i settori di attivita` dell’Unione: nel settore della cooperazione giudiziaria e di polizia dovranno pertanto venire adottate regole di protezione dei dati ispirate al rispetto dei principi gia` da tempo riconosciuti nell’ambito dell’ex «primo pilastro».
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to di dati rivelanti l’origine razziale o etnica oppure relativi alla salute, come puo` avvenire con i dati genetici (il considerando n. 32 si riferisce, del resto, a un trattamento «con tecnologie, procedure o meccanismi nuovi», che, «per portata o per tipo, comporti rischi specifici per i diritti e le liberta` fondamentali»), e` ammesso «soltanto se strettamente necessario e se la legislazione nazionale prevede adeguate garanzie». Infine, per la portata generale delle enunciazioni in essa contenute, va menzionata la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, S. and Marper v. The United Kingdom, del 4 dicembre 2008 (F. Casasole; Giulia Tiberi). Questo l’antefatto: il signor S. e` un minore arrestato all’eta` di undici anni per tentata rapina, il cui DNA viene prelevato e immesso nella banca dati; egli viene poi assolto. Il signor Marper e` un adulto, arrestato con l’accusa di maltrattamenti alla sua compagna: anche il suo DNA confluisce nella banca dati, ma successivamente il procedimento viene dismesso, perche´ la coppia si e` riconciliata. Pur non essendosi i due procedimenti conclusi con l’affermazione di responsabilita`, i dati genetici di queste due persone continuano a essere conservati nel NDNAD (National DNA Database): gli interessati, percorsi inutilmente tutti i gradi della giustizia inglese, si rivolgono alla Corte europea. La Corte europea afferma che il concetto di vita privata impiegato nell’art. 8 c.e.d.u., cui si richiamano i due ricorrenti, non puo` venire definito in modo esaustivo ed abbraccia molteplici aspetti dell’identita` personale e sociale di una persona. Quanto ai campioni biologici, la Corte osserva che, data la natura e la quantita` di informazioni personali in essi contenute, la loro conservazione interferisce di per se´ con il diritto al rispetto della vita privata. Ma anche il profilo del DNA presente nella banca dati costituisce un dato personale protetto dall’art. 8 c.e.d.u., in quanto contiene «una quantita` notevole di dati personali unici» e il loro trattamento automatizzato consente alle autorita` «di andare ben al di la` di una identificazione neutrale», fornendo in specie un mezzo per individuare relazioni genetiche fra le persone (familial searching). Questa conclusione – sottolinea la Corte – non e` intaccata dal fatto che, «essendo l’informazione espressa in forma codificata, e` comprensibile solo con l’uso di tecnologia informatica e puo` essere interpretata soltanto da un numero limitato di persone». Operata la suddetta premessa, la Corte ritiene che «la natura incondizionata e indiscriminata del potere di conservazione» dei profili genetici di persone sospettate, ma non riconosciute responsabili di una condotta illecita, non riesce a raggiungere «un giusto bilanciamento fra i concorrenti interessi pubblici e privati» e che lo Stato convenuto ha superato ogni accettabile margine di apprezzamento. In sostanza, la conservazione de qua costituisce «una interferenza sproporzionata» nel diritto al rispetto della vita privata «e non puo` essere considerata necessaria in una societa` democratica». 7. – Alla luce delle coordinate stabilite a livello europeo, e in specie dell’interpretazione dell’art. 8 c.e.d.u. offerta dalla Corte di Strasburgo, possiamo velocemente passare in rassegna gli aspetti problematici che emergono dalla disciplina interna sulla banca dati del DNA.
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L’art. 5, l. n. 85 del 2009 prevede l’istituzione della banca dati nazionale del DNA, presso il Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, e del laboratorio centrale, presso il Ministero della giustizia, Dipartimento della Amministrazione penitenziaria. Il laboratorio centrale ha il compito di tipizzazione, cioe` di estrarre il profilo del DNA dal campione biologico prelevato dai soggetti elencati nell’art. 9, commi 1º e 2º, l. n. 85 del 2009 (6), per poi trasmetterlo alla banca dati, in forma di file elettronico (artt. 8, comma 1º, lett. a, e 9, comma 6º, l. n. 85 del 2009). Da questo punto di vista, il laboratorio centrale costituisce la principale fonte di approvvigionamento della banca dati; va peraltro sottolineato che il laboratorio centrale provvede anche alla conservazione dei campioni biologici (art. 8, comma 1º, lett. b, l. n. 85 del 2009) (7) dai quali sono tipizzati i profili del DNA (con la finalita` di impiegare nuove tecniche o standard di analisi frutto dell’avanzamento delle conoscenze scientifiche). La banca dati – come vedremo fra breve – gestisce invece, ai soli fini identificativi, il raffronto dei profili del DNA, raccolti mediante i canali di trasmissione elencati dall’art. 7, l. n. 85 del 2009. Come e` stato posto in luce (G. Gennari), c’e` dunque «una sostanziale differenza qualitativa» tra i dati conservati nella banca nazionale e quelli presenti nel laboratorio centrale, perche´ il profilo identificativo inserito nella banca dati «contiene le sole informazioni ottenibili dalla analisi dei marker concretamente utilizzati» (nella nostra disciplina, ai sensi dell’art. 11, comma 3º, l. n. 85 del 2009, i sistemi di analisi sono applicati «esclusivamente alle sequenze del DNA che non
(6) Il comma 1º si riferisce alle seguenti categorie: a) i soggetti ai quali sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari; b) i soggetti arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto; c) i soggetti detenuti o internati a seguito di sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo; d) i soggetti ai quali sia applicata, in via provvisoria o definitiva, una misura di sicurezza detentiva. Ai sensi del comma 2º, il prelievo di campioni biologici puo` essere effettuato «esclusivamente se si procede nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 per delitti, non colposi, per i quali e` consentito l’arresto facoltativo in flagranza» e comunque non puo` essere effettuato se si procede per i reati elencati dallo stesso comma 2º, alle lett. a-h. Nel caso di arresto in flagranza o di fermo, il prelievo e` effettuato dopo la convalida (art. 9, comma 3º). Il prelievo di campioni di mucosa del cavo orale viene effettuato a cura del personale specificamente addestrato delle Forze di polizia o di personale sanitario ausiliario di polizia giudiziaria (art. 9, comma 4º), nel rispetto della dignita`, del decoro e della riservatezza di chi vi e` sottoposto, e delle operazioni di prelievo viene redatto verbale (art. 9, comma 5º). (7) Perlomeno a regime: infatti, in attesa dei regolamenti attuativi (art. 16, l. n. 85 del 2009), fino all’istituzione e al funzionamento del laboratorio centrale, e comunque entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge (14 luglio 2009), il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria puo` stipulare convenzioni non rinnovabili, e di durata tale da non superare il termine di tre anni a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, con istituzioni di elevata specializzazione, per l’esecuzione, anche presso laboratori esterni che rispondano ai requisiti di cui all’art. 11, l. n. 85 del 2009, delle attivita` di cui all’art. 8, comma 1º, lett. a, cioe` solo quelle relative alla tipizzazione del profilo del DNA dei soggetti indicati nell’art. 9, commi 1º e 2º (art. 17, comma 3º, lett. a, l. n. 85 del 2009).
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consentono la identificazione delle patologie da cui puo` essere affetto l’interessato»), mentre il campione biologico prelevato e` «una fonte potenzialmente infinita di informazioni personali» sul patrimonio genetico. Passando alla banca dati nazionale del DNA, l’art. 7, l. n. 85 del 2009 ne disciplina l’attivita`: da un lato, la banca dati funziona da collettore di profili del DNA; dall’altro, li raffronta a fini identificativi. Sul primo versante, la banca dati raccoglie i seguenti profili: a) i profili del DNA dei soggetti di cui all’art. 9, commi 1º e 2º; b) i profili relativi a reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali; c) i profili del DNA di persone scomparse o loro consanguinei, di cadaveri e resti cadaverici non identificati. Limitando l’analisi – per quanto interessa in questa sede – alle prime due categorie di profili, si tratta, quanto alla prima categoria, dei profili tipizzati dal laboratorio centrale – di cui abbiamo gia` parlato – e ricavati dal «campione biologico», cioe` dalla «quantita` di sostanza biologica prelevata» (art. 6, comma 1º, lett. c, l. n. 85 del 2009) dal cavo orale delle persone elencate nell’art. 9, commi 1º e 2º. Con riferimento alla seconda categoria di profili, viene in rilievo la nozione di «reperto biologico», cioe` il «materiale biologico acquisito sulla scena del delitto o comunque su cose pertinenti al reato» (art. 6, comma 1º, lett. d, l. n. 85 del 2009): questi reperti non passano dal laboratorio centrale, ma vengono analizzati, per la tipizzazione dei profili del DNA, «a cura dei laboratori delle Forze di polizia o di altre istituzioni di elevata specializzazione»; se, nel corso del procedimento penale, sono appunto tipizzati tali profili «a mezzo di accertamento tecnico, consulenza tecnica o perizia, l’autorita` giudiziaria procedente dispone la loro trasmissione alla banca dati nazionale del DNA, per la raccolta e i confronti» (art. 10, comma 1º, l. n. 85 del 2009) (8). Qualche rilievo richiede una sorta di eterogenesi dei fini insita nella disciplina della seconda categoria di profili del DNA: l’idea ispiratrice del legislatore era senz’altro quella di raccogliere nella banca dati altresı` profili, diversi da quelli ottenuti dal soggetto nei cui confronti vengono svolte le indagini, per i quali non v’e` attribuzione di identita`. Proprio attraverso il raffronto fra possibili sospetti il cui profilo e` tipizzato e le c.d. tracce mute, si puo` infatti arrivare ad un’attribuzione soggettiva del profilo genetico tipizzato dal reperto biologico rinvenuto sulla scena del crimine. Tuttavia, vista la definizione di reperto biologico, non e` da escludere che possano pervenire alla banca dati dei «profili con una paternita` definita e riferibili a soggetti del tutto estranei al reato, se non addirittura vittime dello stesso» (G. Gennari). Si pensi al caso di una violenza sessuale, in cui dall’analisi degli indumenti intimi e dei vestiti della vittima potra` venire rilevata la presenza di un profilo genetico misto, cioe` riferibile in parte all’aggressore e in parte alla vittima, e dunque
(8) Se non sono state effettuate le analisi di cui all’art. 10, comma 1º, l. n. 85 del 2009, «dopo il passaggio in giudicato della sentenza ovvero in seguito all’emanazione del decreto di archiviazione», il pubblico ministero competente ex art. 655, comma 1º, c.p.p. «puo` chiedere al giudice dell’esecuzione di ordinare la trasmissione dei reperti ad un laboratorio delle Forze di polizia ovvero di altre istituzioni di elevata specializzazione per la tipizzazione dei profili e la successiva trasmissione degli stessi alla banca dati nazionale del DNA» (art. 10, comma 2º).
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andra` condotta un’analisi differenziale, che portera` a individuare il profilo genetico della persona offesa. Ma un discorso analogo si puo` ripetere per qualsiasi altro delitto: i reperti biologici analizzati, inizialmente anonimi, potrebbero, nel corso delle indagini, condurre all’identificazione di una persona assolutamente estranea all’ambito dei sospettati. Da questo punto di vista, la presenza nella banca dati del profilo di soggetti non sospettati di alcun reato striderebbe con il principio del bilanciamento fra sicurezza e privacy affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si aggiunga che la stessa scena del crimine potrebbe risultare contaminata, sia in modo involontario (con tracce lasciate da terzi estranei al delitto, come il mozzicone di sigaretta caduto a un investigatore) sia volontario (lo stesso autore del reato potrebbe trasportare deliberatamente materiale genetico di altra persona sul luogo del crimine) (C. Fanuele); in molti casi poi il DNA estratto da tracce consente di tipizzare solo una parte del patrimonio genetico di una persona ed allora si dovrebbe accertare che la corrispondenza con i dati genetici dell’indagato non sia casualmente dovuta alla circostanza che «il test sia riuscito ad evidenziare solamente taluni caratteri genetici della persona e, tra questi, quelli piu` ripetitivi nella popolazione di appartenenza» (L. D’Auria). Particolari garanzie devono poi venire assicurate per i luoghi dove i reperti sono conservati (ad esempio, tali luoghi devono essere attrezzati in modo da preservare la temperatura di refrigerazione in caso di prolungato black out elettrico) (C. Brusco). Venendo ora all’attivita` di raffronto dei profili contenuti nella banca dati, essa puo` portare – grosso modo – ad ottenere quattro tipologie di risultati proficui (G. Gennari; v. anche C. Fanuele): a) puo` verificarsi una corrispondenza (match) (9) tra un nuovo profilo proveniente da una scena del crimine e il profilo di un soggetto inserito nel database: in tal caso, si ha in tempi brevi un potenziale sospettato; b) puo` verificarsi una corrispondenza tra un nuovo profilo soggettivo e il profilo proveniente dalla scena di un crimine risalente e ancora insoluto, il c.d. cold case: qui si trova un potenziale sospettato a molta distanza di tempo dalla commissione del reato; c) puo` verificarsi una corrispondenza tra un nuovo profilo proveniente da una scena del crimine e un profilo proveniente da una scena del crimine risalente:
(9) In determinate realta` (ad esempio, quella inglese) si usa la tecnica del familial searching, basata sul fatto che ogni persona ha un patrimonio genetico formato dalla combinazione di meta` del patrimonio genetico della madre e di meta` di quello del padre. Invece di cercare la piena corrispondenza tra il profilo proveniente dalla scena del crimine e quello di un soggetto inserito nella banca dati, si cercano corrispondenze parziali, che possono fare emergere un possibile vincolo di parentela tra l’autore del fatto e colui o coloro il cui profilo si trova nella banca dati. Si tratta di un metodo che presenta varie perplessita` di natura etica, perche´, da un lato, «rende virtualmente presenti, all’interno della banca dati, soggetti che non sono in essa legittimamente inclusi e che non godono neppure delle garanzie e procedure di tutela evidentemente riservate solo a coloro che sono ufficialmente inseriti nel registro genetico» e, dall’altro, attraverso la presenza nel database di un membro della famiglia biologica, potenzialmente puo` violare la privacy dell’intero gruppo familiare (G. Gennari).
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in questa ipotesi non si arriva a una immediata identificazione di un sospettato, ma il risultato potrebbe tornare utile in futuro per l’individuazione del colpevole, sfruttando il rapporto fra i vari delitti; d) puo` verificarsi una corrispondenza tra due profili personali, inseriti in momenti diversi, anche sotto diverso nome. In tale evenienza, il raffronto puo` condurre ad individuare il responsabile di piu` reati, magari rivelando la presenza di alias e consentendo di stabilire l’esatta identita` anagrafica della persona in questione. Come si e` detto, con riguardo alle prime due tipologie di risultati utili la conseguenza e` di individuare solo un potenziale sospettato: in altri termini, ci si trova in possesso di un’informazione che verra` poi impiegata per lo sviluppo delle indagini e che non e` detto porti all’accertamento dell’effettiva responsabilita` della persona identificata grazie al raffronto fra i profili del DNA. D’altro canto, la banca dati puo` consentire di scagionare persone sospettate sulla base di altri elementi indizianti o dimostrare l’innocenza di persone gia` condannate (G. Gennari). Rimangono da esaminare le disposizioni relative alla conservazione dei campioni biologici, dei reperti biologici e dei profili del DNA da essi tipizzati. Il nostro legislatore ha disciplinato nell’art. 13, l. n. 85 del 2009 la cancellazione dei dati relativi ai profili tipizzati del DNA dalla banca dati centrale e la distruzione dei campioni biologici usati per la tipizzazione e conservati nel laboratorio centrale ovvero, attualmente, presso laboratori diversi da quello centrale. Innanzitutto, ai sensi del comma 1º del suddetto art. 13, la cancellazione dei profili del DNA acquisiti ai sensi dell’art. 9, l. n. 85 del 2009 (cioe` dai soggetti ivi elencati e ristretti nella propria liberta` personale) e la distruzione dei relativi campioni biologici sono disposte ex officio a seguito di assoluzione definitiva perche´ il fatto non sussiste, perche´ l’imputato non lo ha commesso, perche´ il fatto non costituisce reato o perche´ il fatto non e` previsto dalla legge come reato. Sono pertanto escluse le sentenze di proscioglimento per altri motivi, cosı` come le sentenze di non luogo a procedere e i provvedimenti di archiviazione. Sempre d’ufficio si procede alla cancellazione del profilo e alla distruzione del relativo campione biologico quando le operazioni di prelievo sono state compiute in violazione delle disposizioni previste dall’art. 9, l. n. 85 del 2009 (art. 13, comma 3º, l. n. 85 del 2009) (10). In ogni altro caso, il profilo del DNA resta inserito nella banca dati nazionale per i tempi stabiliti nel regolamento di attuazione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, e comunque non oltre quaranta anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato l’inserimento, mentre il campione biologico e` conservato nel laboratorio centrale per i tempi stabiliti nel regolamento di attuazione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali, e comunque non oltre
(10) Secondo l’art. 13, comma 2º, l. n. 85 del 2009, a seguito di identificazione di cadavere o di resti cadaverici, nonche´ del ritrovamento di persona scomparsa, e` disposta d’ufficio la cancellazione dei profili del DNA acquisiti ai sensi dell’art. 7, comma 1º, lett. c, e la distruzione dei relativi campioni biologici.
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venti anni dall’ultima circostanza che ne ha determinato il prelievo (art. 13, comma 4º, l. n. 85 del 2009). Il termine massimo di conservazione si pone in contrasto sia con la Raccomandazione (R [92] 1 del 10 febbraio 1992) sull’utilizzazione delle analisi del DNA nell’ambito del sistema giudiziario penale, sia con la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, S. and Marper v. The United Kingdom, del 4 dicembre 2008, da cui emerge il principio che i dati genetici devono essere conservati per un periodo di tempo proporzionato alle finalita` che hanno portato alla loro tipizzazione; inoltre, sarebbe stato opportuno prevedere la facolta` dell’interessato di chiedere la cancellazione dei suoi dati genetici (C. Fanuele). Va considerato, d’altro canto, che mentre il profilo genetico non consente, di per se´, di risalire ad altre informazioni personali, dal campione biologico possono essere ottenute informazioni utilizzabili al di fuori del campo penale (ad esempio, in campo civile, per il test di paternita`): il rischio potrebbe essere quello di una «gestione centralizzata, anche se temporanea, di campioni biologici» (C. Fanuele), con i connessi profili di protezione, ai quali la legge n. 85 del 2009 dedica l’art. 12, ove si stabilisce la disciplina sul trattamento dei dati, sull’accesso ai medesimi e sulla tracciabilita` dei campioni (11). Residua il problema della conservazione dei reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali e dei profili del DNA da essi tipizzati e inoltrati alla banca dati nazionale del DNA, come prescrive l’art. 10, comma 1º, l. n. 85 del 2009. L’art. 13, l. n. 85 del 2009 non menziona in modo espresso la categoria dei reperti biologici, ma in dottrina (P. Felicioni) si ritiene possibile ricomprenderla nella locuzione «in ogni altro caso», utilizzata nell’art. 13, comma 4º, l. n. 85 del 2009, con la conseguenza che i reperti biologici rimarrebbero conservati nei laboratori che li hanno analizzati e i profili genetici da essi tipizzati resterebbero inseriti nella banca dati secondo le cadenze temporali indicate in tale comma. Si tratta, tuttavia, di un’evidente forzatura della lettera della legge: mancando ogni richiamo ai profili del DNA tipizzati da reperti biologici (artt. 7, comma 1º, lett. b, e 10, l. n. 85 del 2009), la locuzione de qua non puo` che riguardare i dati e i campioni acquisiti ai sensi degli artt. 7, comma 1º, lett. c, e 9, l. n. 85 del 2009, al di fuori dei casi – contemplati appunto nei primi tre commi dell’art. 13, l. n. 85 del 2009 – in cui la cancellazione dei profili del DNA e la distruzione dei relativi campioni biologici avviene d’ufficio.
(11) In particolare, ai sensi dell’art. 12, comma 1º, l. n. 85 del 2009, i profili del DNA e i relativi campioni «non contengono le informazioni che consentono l’identificazione diretta del soggetto cui sono riferiti»: per determinare l’associazione con l’identita` della persona dovra` cioe` venire messa in atto «una serie di procedure e di sicurezze», e, innanzitutto, la protezione dei dati dovra` evitare il rischio di intrusione da parte di programmi pericolosi e l’accesso abusivo di hackers (G. Lago). I commi successivi dell’art. 12 riguardano l’accesso ai dati e i soggetti legittimati, le modalita` del trattamento e dell’accesso, la tracciabilita` dei dati e dei campioni, il personale autorizzato a trattare e ad accedere, l’obbligo del segreto per il personale addetto alla banca dati nazionale del DNA e al laboratorio centrale.
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8. – L’ultima tematica da affrontare – sia pure soltanto per linee generali – riguarda le innovazioni apportate dalla l. n. 85 del 2009 al corpus del codice e alle relative norme di attuazione. Va prima rammentato che gia` il legislatore del 2005 (d.l. 27 luglio 2005, n. 144, conv. con l. 31 luglio 2005, n. 155) si era occupato del prelievo coattivo di materiale biologico, attribuendo alla polizia giudiziaria il potere di effettuare il prelievo coattivo di capelli o di saliva a fini di identificazione dell’indagato, quando mancasse il consenso di quest’ultimo (art. 349, comma 2bis, c.p.p.), ovvero il prelievo di materiale biologico dall’indagato o da terze persone nel corso degli accertamenti urgenti (art. 354, comma 3º, periodo secondo, c.p.p.). La l. n. 85 del 2009 ha operato su vari fronti: da una parte, ha soppresso l’ultimo periodo del comma 3º dell’art. 354 c.p.p., dall’altra ha attribuito al giudice il potere di disporre la perizia coattiva in dibattimento (art. 224-bis c.p.p.) o in sede di incidente probatorio (art. 392, comma 2º, c.p.p.). Inoltre, ha previsto che durante le indagini preliminari, quando devono venire eseguite le operazioni di cui all’art. 224-bis c.p.p. e non vi e` il consenso della persona interessata, il pubblico ministero chieda l’autorizzazione al giudice per le indagini preliminari, salvi i casi di urgenza, nei quali la parte pubblica dispone lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato, poi soggetto a convalida ad opera del giudice (art. 359-bis c.p.p.). L’art. 224-bis c.p.p., che costituisce il fulcro dell’intera disciplina, colma la lacuna normativa venutasi a creare dopo la nota pronuncia costituzionale in tema di prelievo ematico coattivo (Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238), con cui era stato dichiarato illegittimo l’art. 224, comma 2º, c.p.p., nella parte in cui «consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla liberta personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei ‘casi’ e nei ‘modi’ dalla legge». Come risulta dalla stessa rubrica («Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla liberta` personale»), l’art. 224-bis c.p.p. prevede che, quando si procede «per un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni e negli altri casi espressamente previsti dalla legge», se per eseguire la perizia «e` necessario compiere atti idonei ad incidere sulla liberta` personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici» (12), e non vi e`
(12) Quanto agli «accertamenti medici», la dottrina (P. Felicioni) ha giustamente osservato come l’indeterminatezza dell’espressione puo` legittimare una gamma assai ampia di attivita`, che va «dalle tecniche di percezione visiva alla somministrazione di sostanze, fino all’introduzione di strumenti all’interno del corpo dell’individuo»; sarebbe stato meglio che il legislatore avesse specificato la natura di questi accertamenti, viste anche le incertezze giurisprudenziali circa la radiografia o l’ecografia in rapporto a reati concernenti gli stupefacenti (talora ricondotte al genus della perquisizione personale, talora a quello della ispezione personale), nel caso in cui vi sia fondato motivo di ritenere che il soggetto abbia ingerito ovuli contenenti droga.
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il consenso (13) della persona da sottoporre all’esame del perito, «il giudice, anche d’ufficio, ne dispone con ordinanza motivata l’esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti» (comma 1º). L’ordinanza (che, a pena di nullita`, ha uno specifico contenuto informativo elencato nel comma 2º) (14) va notificata all’interessato, all’imputato e al suo difensore nonche´ alla persona offesa (15) almeno tre giorni prima di quello stabilito per eseguire le operazioni peritali (comma 3º) (16). Guardando alla disciplina con specifico riferimento al prelievo di campioni biologici per la determinazione del profilo del DNA, vanno sottolineati – senza entrare in particolari approfondimenti – almeno due profili. Innanzitutto, il giudice, in presenza dei requisiti di legge, dispone la perizia coattiva solo se «risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti»: la locuzione e` stata interpretata nel senso che il giudice non dovrebbe disporre tale perizia se il campione biologico e` stato ottenuto per altre vie, senza peraltro ledere i diritti fondamentali della persona (C. Gabrielli), e del resto, gia` prima della l. n. 85 del 2009, la giurisprudenza ha ritenuto che se il campione biologico viene raccolto quando e` ormai staccato dal corpo umano (ad esempio, sequestrando il bicchiere o il mozzicone di sigaretta su cui si trova la saliva, o l’indumento macchiato di sangue), non viene in gioco la tutela della liberta` personale. Tuttavia, alla locuzione, nella sua genericita`, e` attribuibile anche un altro significato, che si collega ai soggetti sui quali la perizia puo` venire eseguita: infatti, la perizia coattiva puo` essere effettuata sia sull’imputato sia su altri soggetti; e l’imputato, a fini difensivi, potrebbe chiedere la perizia su altri soggetti attraverso lo strumento dell’incidente probatorio. Ora, rilievi problematici concernono proprio la perizia coattiva eseguita su persone non indagate o imputate; e` vero che sia la persona offesa sia il soggetto terzo possono avere interesse – per ragioni diverse – a consentire al prelievo di campioni biologici, ma, con specifico riferimento ai terzi estranei, si e` prospettato il rischio di uno screening genetico di massa (F. Casasole; C. Fanuele; C. Gabrielli): si pensi al caso di un omicidio com-
(13) A norma dell’art. 72-ter norme att. c.p.p., nel verbale delle operazioni di prelievo di campioni biologici o dell’effettuazione di accertamenti medici e` fatta espressa menzione del consenso eventualmente prestato dalla persona sottoposta all’esame. (14) In particolare, l’ordinanza (comma 2º, lett. d) deve contenere «l’avviso della facolta` di farsi assistere da un difensore o da persona di fiducia»; ai sensi del comma 7º, l’atto «e` nullo se la persona sottoposta al prelievo o agli accertamenti non e` assistita dal difensore nominato». (15) Per la possibilita` di accompagnamento coattivo v. art. 224-bis, comma 6º, c.p.p. (16) L’art. 224-bis c.p.p. precisa poi, al comma 4º, che non possono «in alcun caso essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge o che possono mettere in pericolo la vita, l’integrita` fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entita`». Ai sensi del comma 5º, le operazioni peritali «sono comunque eseguite nel rispetto della dignita` e del pudore di chi vi e` sottoposto» e in ogni caso, «a parita` di risultati, sono prescelte le tecniche meno invasive». Per quanto concerne il prelievo di campioni biologici e gli accertamenti medici su minori e su persone incapaci o interdette, v. art. 72-bis norme att. c.p.p.
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messo in un appartamento o in un albergo, evenienze nelle quali potrebbero venire sottoposte a perizia coattiva tutte le persone abitanti in quello stabile o ospiti in quell’albergo, anche se non sospettate o non testimoni del fatto. In secondo luogo, la disciplina potrebbe condurre all’impiego della tecnica del familial searching: con riguardo al prelievo coattivo su prossimi congiunti consanguinei dell’imputato (ad esempio, nel caso in cui l’indagato/imputato sia latitante, per accertare la compatibilita` genetica rispetto ai reperti biologici rinvenuti sulla scena del crimine, si potrebbe ricorrere al prelievo di campioni biologici da consanguinei, per la tipizzazione del DNA), si e` posta in luce la contraddittorieta` di un sistema che, da un lato, riconosce al prossimo congiunto la facolta` di astenersi dal fornire informazioni (artt. 351 e 362 c.p.p.) o dal deporre (art. 199 c.p.p.) e, dall’altro, lo costringe a subire il prelievo coattivo di materiale biologico, da cui potrebbero derivare ripercussioni negative per l’indagato/imputato (C. Brusco; C. Fanuele). Probabilmente, dunque, sarebbe stato opportuno introdurre una norma ad hoc per disciplinare i casi e i modi di una perizia coattiva su persone diverse dall’imputato (C. Fanuele; contra P. Felicioni). Per quanto concerne la fase ammissiva, il legislatore, qualificando il prelievo coattivo finalizzato alla tipizzazione del profilo genetico come perizia, ha risolto alla radice il problema del parametro di riferimento, da individuare senz’altro nell’art. 190 c.p.p.: il contraddittorio si attuera` in sede dibattimentale ai sensi dell’art. 493 c.p.p. e il giudice decidera` sull’ammissione della prova a norma dell’art. 495, comma 1º, c.p.p., che richiama appunto l’art. 190 c.p.p. Con riguardo al momento dell’assunzione, il contraddittorio verra` attuato nelle varie fasi dell’esame del perito, e potra` vertere – come si e` gia` detto per la prova scientifica in genere – sulla competenza del perito e sulle modalita` tecniche utilizzate nel prelievo e nell’estrazione del profilo, anche per controllare che non si siano verificate contaminazioni al momento del prelievo stesso o che la non corretta conservazione del campione biologico abbia falsato la tipizzazione del profilo genetico. Dal punto di vista della valutazione del giudice, l’attivita` argomentativa delle parti potrebbe tendere a porre in luce alcuni limiti relativi all’efficacia probatoria della perizia genetica: ad esempio, mettendo in risalto cause, attinenti al procedimento di formazione della prova, che ne diminuiscono l’affidabilita` (la mancata informazione sulle modalita` operative e sui protocolli utilizzati per prelevare e conservare i campioni biologici, nonche´ sul metodo impiegato per tipizzare il profilo genetico; la modesta competenza dell’esperto). Problemi specifici concernono poi il raffronto tra il DNA ottenuto con la perizia genetica e il profilo di DNA ricavato dalle tracce biologiche rinvenute sulla scena del delitto: il giudice deve tenere conto della possibilita` di errore dovuto a tracce contaminate o di scarsa quantita` e della facilita` con cui tali tracce possono venire spostate da un luogo ad un altro (C. Brusco); e` necessario, pertanto, che l’esperto indichi il margine di errore e l’eventuale esistenza di un’ipotesi alternativa a quella di identificazione (C. Fanuele). Infine, qualche rilievo sulla regolamentazione, incompleta (P. Felicioni), del destino dei campioni biologici e dei profili genetici contemplati dall’art. 224-bis c.p.p. (cui fanno rinvio gli artt. 359-bis e 392, comma 2º, c.p.p.): l’art. 72-quater norme att. c.p.p. prevede, al comma 1º, che all’esito della perizia su campioni bio-
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logici, ai sensi dell’art. 224-bis c.p.p. (ma, deve intendersi, anche dell’art. 392, comma 2º, c.p.p.), il giudice dispone l’immediata distruzione del campione, a meno che ritenga la conservazione assolutamente indispensabile. Se opta per la prima alternativa, «la distruzione e` effettuata a cura del perito il quale ha proceduto alla relativa analisi, che ne redige verbale da allegare agli atti»: se ne puo` evincere che il campione biologico sia conservato presso il laboratorio in cui e` avvenuta la tipizzazione del profilo del DNA. Il comma 2º del medesimo articolo precisa che dopo la definizione del procedimento con decreto di archiviazione (ma si dovrebbe correggere il lapsus normativo, intendendo provvedimento di archiviazione) o dopo che e` stata pronunciata sentenza non piu` soggetta ad impugnazione (comprensiva dunque anche della sentenza di non luogo procedere, argomentando a contrario dall’art. 13, comma 1º, l. n. 85 del 2009), la cancelleria procede, in ogni caso e senza ritardo, alla distruzione dei campioni biologici prelevati ai sensi degli artt. 224-bis e 359bis c.p.p. Insomma, il legislatore non si e` pronunciato sulla sorte dei profili del DNA tipizzati dai campioni biologici prelevati ai sensi degli artt. 224-bis, 359-bis e 392, comma 2º, c.p.p. (17): poiche´, come abbiamo visto, questi profili non entrano nella banca dati nazionale del DNA, si deve concludere che rimangano in banche dati diverse da quest’ultima, le quali, dunque, continuano ad esistere come databases non ufficiali. Situazione che non puo` non destare perplessita`. Marta Bargis Professore ordinario nell’Universita` del Piemonte Orientale
(17) E neppure sulla sorte del materiale biologico e dei profili genetici da esso tipizzati nella situazione disciplinata dall’art. 349, comma 2-bis, c.p.p.
UNA PROPOSTA PER SEMPLIFICARE IL SISTEMA DELLE IMPUGNAZIONI DELLA SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE (*)
Sommario: 1. La costituzionalita` del sistema di critica della sentenza di non luogo a procedere. – 2. I limiti del vigente sistema di critica: a) il sovraccarico del ricorso in cassazione. – 3. (Segue): l’opportunita` di ripristinare l’appello. – 4. b) Le aporie della disciplina della revoca. – 5. (Segue): verso un’unica fattispecie di revoca. (1)
1. – La disciplina delle impugnazioni e` fra le piu` delicate dal punto di vista del rispetto della Costituzione. Essa ha il difficile compito di bilanciare in modo equilibrato fondamentali principi in gioco nel processo penale: accertamento dei fatti, diritto di difesa, efficienza. Questa e` la ragione per cui solo in rari casi un dato assetto delle impugnazioni puo` dirsi radicalmente incostituzionale. Nella maggior parte delle situazioni le scelte legislative in materia si collocano nell’area della maggiore o minore ragionevolezza: uno spazio dove non sono consentite demarcazioni nette, ma solo giudizi di valore; qui qualunque opzione e` destinata a suscitare reazioni opposte negli interpreti, a seconda delle rispettive preferenze assiologiche. Il sistema di critica della sentenza di non luogo a procedere non si sottrae a queste considerazioni. Senz’altro l’impugnazione di questa decisione pregiudica la difesa, perche´ potrebbe comportare una riapertura del processo a carico del prosciolto. Stride, inoltre, con la ragionevole durata, in quanto comporta l’impiego di ulteriori tempi e risorse. Allo stesso tempo, pero`, nella visione del pubblico ministero convinto della colpevolezza dell’imputato la pronuncia del non luogo a procedere e` nociva tanto quanto quella del proscioglimento dibattimentale. Al fine di distinguere in modo netto cio` che in questa materia e` imposto dalla Costituzione e cio` che rientra nell’arbitrio del legislatore ordinario, appare utile prospettare un duplice indicatore di legittimita` della relativa disciplina. a) Affinche´ la disciplina sia costituzionalmente ortodossa la legge deve assicurare un mezzo di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ad in-
(*) Testo, con integrazioni e con l’aggiunta di note, della relazione svolta il 7 maggio 2010 a Padova nell’ambito del P.r.i.n. 2007 «Le impugnazioni penali nel prisma del giusto processo», coordinato dal prof. Renzo Orlandi.
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dagini invariate: finalizzato, cioe`, a denunciare gli errori di valutazione degli atti di indagine presentati in udienza preliminare. In mancanza di un rimedio del genere risulterebbe violato il principio di parita` delle parti stabilito dall’art. 111, comma 2º, Cost. Riferito alle impugnazioni, quest’ultimo richiede che accusa e difesa abbiano la possibilita` di sottoporre ad una revisione nel merito le decisioni che le vedono totalmente soccombenti (1). E sotto questo profilo la sentenza di non luogo a procedere va equiparata alla condanna dibattimentale; non, invece, al decreto che dispone il giudizio, decisione interlocutoria e, come tale, giustamente non impugnabile (2). b) La legge deve anche apprestare un mezzo di impugnazione mirato ad ottenere una rimozione della sentenza di non luogo a procedere sulla base di atti di indagine nuovi rispetto a quelli presentati in udienza preliminare. In assenza di tale ulteriore facolta` il pubblico ministero non avrebbe nessuna possibilita` di domandare l’instaurazione del processo in forza di elementi a carico la cui idoneita` a sostenere l’accusa in dibattimento non e` stata mai vagliata, venendo meno al suo dovere di agire fissato dall’art. 112 Cost. (3). Da queste considerazioni discende una prima conclusione: sarebbe illegittimo unicamente un assetto che eliminasse entrambe le tipologie di impugnazione. Era pertanto conforme alla Costituzione il regime originariamente previsto dal codice, fondato sulla possibilita` di proporre l’appello e il ricorso in cassazione, mezzi di critica ad indagini invariate, e la revoca, finalizzata a prospettare il novum. Lo e` – come ha riconosciuto la Corte costituzionale (4) – quello l’attuale, modificato dalla l. n. 46 del 2006, che contempla solo piu` il ricorso in cassazione e la revoca (5). Non si potrebbe obiettare che solo l’appello consentirebbe un pieno riesame
(1) Cosı` Corte cost., 24 gennaio 2007, n. 26, § 4 s. del considerato in diritto, e 10 luglio 2007 n. 320, § 4 s. del considerato in diritto, le quali hanno ripristinato il potere a favore del pubblico ministero di proporre l’appello, rispettivamente, nei confronti del proscioglimento dibattimentale e del proscioglimento pronunciato a seguito di giudizio abbreviato, in precedenza eliminato dalla l. 20 febbraio 2006 n. 46. (2) Cfr. M. Bargis, La corte costituzionale salva l’inappellabilita`della sentenza di non luogo a procedere, in Giur. cost. 2009, p. 3090 s. (3) Sulla correlazione tra la previsione della revoca e l’obbligatorieta` dell’azione penale v. H. Belluta, «Giusto processo» e certezza del proscioglimento: divagazioni sulla revoca del non luogo a procedere, in L. Cuocolo, L. Luparia, Valori costituzionali e nuove politiche del diritto, Matelica 2007, p. 34 s. (4) Si veda Corte cost., 16 luglio 2009 n. 242, § 4 s. del considerato in diritto. Nello stesso senso la sentenza 27 gennaio 2010 n. 33. In dottrina cfr. E.M. Catalano, Udienza preliminare: conclusione e formazione dei fascicoli, in Aa.Vv., Trattato di procedura penale, dir. da G. Spangher, vol. III, Torino 2009, p. 974 s.; A. Guardiano, I nuovi standards valutativi e gli epiloghi decisori nell’udienza preliminare, in A. Gaito, La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la ‘‘legge pecorella’’, Torino 2006, p. 63 s. Ritiene, invece, incostituzionale la disciplina vigente per lesione del principio di obbligatorieta` dell’azione penale V. Grevi, Appello del pubblico ministero e obbligatorieta` dell’azione penale, in Cass. pen. 2007, p. 1419 s. (5) Avevano auspicato tale modifica E. Amodio, Processo penale, diritto europeo e com-
una proposta per semplificare il sistema delle impugnazioni ...
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del merito della decisione. L’appello va ritenuto costituzionalmente imposto in rapporto al proscioglimento dibattimentale, qualora esso sia previsto per la condanna (6). Non, invece, in rapporto al proscioglimento in udienza preliminare: proprio la presenza della revoca assicura una compiuta rivisitazione degli atti di indagine gia` presentati, anche se da svolgere unitamente all’esame degli atti nuovi (7). 2. – La circostanza che il vigente assetto dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere sia conforme alla Costituzione non significa anche che sia il migliore tra quelli possibili. Gli si possono rivolgere, al contrario, alcune critiche. Una riguarda proprio la scelta, operata dalla l. n. 46/2006, di individuare il ricorso in cassazione quale mezzo di impugnazione della decisione ad indagini invariate. Dal punto di vista strutturale non vi sono sostanziali differenze tra l’appello e il ricorso in cassazione esperibili nei confronti della sentenza di non luogo a procedere. Come in cassazione, in appello non era possibile un’integrazione (artt. 421 bis e 422 c.p.p.) o una rinnovazione (art. 603 c.p.p.) del materiale conoscitivo (8). Al pari della Corte d’appello, inoltre, ora la cassazione puo` prendere visione degli atti di indagine per valutare l’operato del giudice dell’udienza preliminare, in quanto e` caduto il vincolo testuale in precedenza imposto dall’art. 606, comma 1º, lett. e, c.p.p. L’aspetto censurabile dell’attuale disciplina sta nel fatto che la sostituzione del giudice di appello con la cassazione non e` senza costi per l’efficacia del controllo e l’efficienza del sistema. La prima risulta pregiudicata poiche´, come dimostra anche l’esperienza dei ricorsi nei confronti delle sentenze dibattimentali, quando la cassazione ha il potere di sindacare l’accertamento dei fatti operato nella decisione impugnata sceglie con assoluta discrezionalita` se esercitarlo o no. Lo si evince chiaramente dalla casistica, dalla quale emerge un atteggiamento ondivago da parte della Suprema Corte. A volte questa si rifiuta categoricamente di considerare le valutazioni del giu-
mon law, Milano 2003, p. 175 e G. Spangher, Sistema delle impugnazioni penali e durata ragionevole del processo, in Corriere giur. 2002, p. 1262. (6) Si veda Corte cost. n. 26 del 2007, § 6.1. del considerato in diritto, la quale, anche per questo motivo, non ha ritenuto sufficiente la possibilita` per il pubblico ministero di impugnare il proscioglimento dibattimentale con il solo ricorso in cassazione. Va peraltro aggiunto che, proprio per questa ragione, se era incostituzionale per violazione della parita` delle parti la disciplina dei mezzi di critica delle decisioni dibattimentali introdotta dalla l. n. 46 del 2006, lo e` anche quella attuale; l’imputato condannato per la prima volta in appello ha unicamente il ricorso in cassazione, e quindi non fruisce del pieno riesame del merito che solo l’appello potrebbe garantire: v. P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, 2a ed., Bologna 2007, p. 204 s. (7) Cosı` sempre Corte cost. n. 242 del 2009, § 4 del considerato in diritto. (8) Cfr. M. Daniele, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, Torino 2005, p. 139.
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dice dell’udienza preliminare, affermando che l’unica verifica che le sarebbe consentita riguarderebbe la «riconoscibilita`» del criterio prognostico adottato (9). Con il che il controllo risulta, nella sostanza, abolito: una prognosi e` ‘‘riconoscibile’’ come tale per il solo fatto di essere stata compiuta, indipendentemente dalla sua validita`. Altre volte la cassazione non rinuncia al controllo. In tali occasioni essa tende ad affermare che il giudice avrebbe commesso l’errore di riesaminare nel merito gli elementi addotti dall’accusa, giungendo ad una «vera e propria sentenza di assoluzione» e sostituendosi, «in modo surrettizio, alla valutazione del tribunale» (10). Ma si tratta di formule di stile che coprono la vera motivazione dell’annullamento: il fatto che la cassazione non condivida la prognosi di insostenibilita` dell’accusa in dibattimento formulata dal giudice dell’udienza preliminare. E in questi casi la cassazione esercita un compito che sarebbe piu` proficuamente svolto dalla Corte d’appello, il giudice che ha il compito istituzionale di riesaminare la ricostruzione storica operata in primo grado (11). La promozione del ricorso in cassazione ad unico mezzo di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere ad indagini invariate pregiudica anche l’efficienza del sistema. Cio` e` dovuto a quello che, stando all’opinione dominante (12), dovrebbe essere l’esito del ricorso quando la cassazione ritiene ingiustificato il proscioglimento in udienza preliminare: non la pronuncia diretta del rinvio a giudizio, come era invece consentito alla Corte d’appello, ma l’annullamento con rinvio, con le complicazioni che quest’ultima soluzione produce (13). La Corte costituzionale risolve il problema affermando che «l’effetto negativo indotto dalla eventuale regressione del procedimento» determinata dall’annullamento con rinvio della sentenza verrebbe «comunque compensato, in termini di ri-
(9) Cfr., tra le molte, Cass. 11 maggio 2010, n. 20838; Cass. 14 aprile 2010, n. 18811; Cass. 18 marzo 2010, n. 15364. In alternativa, ma con identico esito, Cass. 6 maggio 2010, secondo cui l’annullamento si giustificherebbe solo quando gli elementi d’accusa fossero dotati di un’«efficacia ‘‘scardinante’’ dell’impianto motivazionale». (10) Cass. 22 gennaio 2010, n. 7821. Per analoghe decisioni di annullamento con rinvio di sentenze di non luogo a procedere v. Cass. 3 dicembre 2009, n. 7587; Cass. 27 ottobre 2009, n. 43301; Cass. 20 maggio 2009, n. 27651; Cass. 21 aprile 2009, n. 20360; Cass. 9 aprile 2009, n. 29915; Cass. 24 febbraio 2009, n. 10772; Cass. 29 gennaio 2009, n. 7105. (11) In questo senso v. F. Cordero, Un’arma contro due, in questa Rivista 2006, p. 809; F. Lattanzi, Una legge improvvida, in Aa.Vv., Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, a cura di M. Bargis e F. Caprioli, Torino 2007, p. 494. In giurisprudenza v. Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 25695, § 8. (12) Cfr. F. Lattanzi, Una legge improvvida, cit., p. 494. V. anche H. Belluta, Ripensamenti sulla «giustiziabilita`» della sentenza di non luogo a procedere, in Aa.Vv., Impugnazioni, cit., p. 147 s.; G. Garuti, Mezzi di critica e strumenti di controllo della sentenza di non luogo a procedere, in Aa.Vv., Novita` su impugnazioni e regole di giudizio, a cura di A. Scalfati, Milano 2006, p. 81. In giurisprudenza cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 25695, § 7. (13) Cfr. M. Bargis, La corte costituzionale, cit., p. 3096 s.
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duzione complessiva dei tempi necessari alla celebrazione del processo, dalla eliminazione del secondo grado di giudizio» (14). Non si comprende, pero`, come una tale compensazione vi possa essere. Il carico di lavoro – le impugnazioni contro le sentenze di non luogo a procedere ad indagini invariate – resta il medesimo: solo che esso ora e` addossato ad un unico organo, la cassazione, mentre prima era ripartito tra le varie Corti d’appello. La natura prognostica del giudizio in udienza preliminare, inoltre, fa supporre che la cassazione accolga piu` frequentemente i ricorsi nei confronti delle sentenze di non luogo a procedere di quanto avvenga per quelli nei confronti dei proscioglimenti dibattimentali. Per annullare i secondi servono prove concrete in grado di originare un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato. Per annullare le prime, invece, e` sufficiente un’ipotesi: basta postulare che il quadro conoscitivo subira` una variazione in dibattimento. E piu` annullamenti significa piu` giudizi di rinvio, con un incremento complessivo delle attivita` procedimentali. I pericoli per l’efficienza del sistema sono aumentati anche perche´ l’art. 428, comma 2º, c.p.p., in seguito alle modifiche operate dalla l. n. 46 del 2006, ha attribuito la facolta` di ricorrere in cassazione alla persona offesa costituitasi parte civile (15). Considerato che in sede civile la sentenza di non luogo a procedere non determina nessun vincolo (16), e` chiaro che questo tipo di impugnazione mira unicamente ad ottenere l’instaurazione del dibattimento e la punizione dell’imputato (17): un superfluo sdoppiamento dell’accusa che pregiudica la ragionevole durata (18). 3. – Per rimediare al sovraccarico del ricorso in cassazione e` indispensabile un nuovo intervento del legislatore. L’ideale sarebbe sostituire il ricorso con l’appello (19). Ma e` una modifica che richiederebbe anche una riforma dell’art. 111 comma 7 Cost.: il ricorso in cassazione andrebbe reso obbligatorio solo in rapporto ai provvedimenti in materia di
(14) Corte cost., 16 luglio 2009, n. 242. (15) La previsione non opera nei confronti del danneggiato che, pur costituitosi parte civile, non sia al contempo persona offesa: cfr. Cass. 16 aprile 2009, n. 37114. In senso contrario v. Cass. 22 febbraio 2008, n. 12902. (16) Gli artt. 652 e 654 c.p.p attribuiscono un’efficacia extrapenale solo al proscioglimento «pronunciato in seguito a dibattimento». (17) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 25695, § 3. Analogamente, v. R. Bricchetti, Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, in Aa.Vv., Il nuovo regime delle impugnazioni, a cura di L. Filippi, Padova 2007, p. 129. (18) Giustamente criticano sotto questo profilo l’art. 428 comma 2 c.p.p. H. Belluta, Ripensamenti, cit., p. 134 s., e G. Garuti, Mezzi di critica, cit., p. 74 s. (19) Si ritiene di mutare opinione rispetto a quanto sostenuto in M. Daniele, Profili sistematici, cit., p. 127 s., in cui era stata accolta l’idea dell’abrogazione dell’appello. Cfr. anche M. Bargis, La corte costituzionale, cit., p. 3098 s., nonche´ il d.d.l. C 2095, presentato il 22 gennaio 2009.
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liberta` personale, nell’ambito dei quali la sentenza di non luogo a procedere non rientra (20). A Costituzione immutata la soluzione potrebbe essere quella indicata dal progetto Riccio di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice di procedura penale: reintrodurre l’appello e limitare il ricorso in cassazione alla sola violazione di legge (21), cioe` unicamente per denunciare l’inosservanza delle norme penali sostanziali e delle norme processuali previste a pena di invalidita` (22). L’appello andrebbe reintrodotto sia per il pubblico ministero che per l’imputato: e` ragionevole che quest’ultimo tenti di salvaguardare la propria onorabilita` quando il proscioglimento non e` pienamente favorevole (23). Non garantirebbe questa possibilita` la soppressione della distinzione tra le formule di proscioglimento in udienza preliminare, cosı` come suggerito da taluni (24): le vere ragioni del proscioglimento risulterebbero comunque dalla motivazione della sentenza. La posizione dell’offeso costituitosi parte civile, per contro, e`, come si diceva, tale da non giustificare l’attribuzione del potere di ricorrere in cassazione, e i termini del discorso non mutano per l’appello. Restando invariata la disciplina vigente, esiste una soluzione in grado di incrementare l’efficienza del sistema, sia pure in misura minore: ritenere che la cassazione, accogliendo il ricorso, possa pronunciare direttamente il decreto che dispone il giudizio in base all’art. 620, comma 1º, lett. l, c.p.p., in modo da evitare l’allungamento dei tempi causato dal giudizio di rinvio (25). Si e` obiettato che in questo modo si affiderebbe alla cassazione una «valutazione discrezionale di merito» che non rientrerebbe tra i suoi compiti (26). Si deve replicare che un vaglio di questo tipo sta gia` alla base della decisione di annullare la sentenza di non luogo a procedere. Se si vuole evitare che la cassazione sindachi
(20) In questo senso v. l’art. 12 d.d.l. cost. S 1935, presentato il 15 dicembre 2009. (21) Cfr. la direttiva 66.7 del progetto, in cui si prevede l’«appellabilita` della sentenza; decisione della Corte d’appello, salvo che emetta decreto che dispone il giudizio, con sentenza ricorribile per cassazione solo per violazione di legge» (il testo del progetto e` consultabile in www.giustizia.it). (22) Non prevede questa limitazione, per converso, il progetto Dalia di riforma del codice di procedura penale, il cui art. 470 reintroduce l’appello del non luogo a procedere senza al contempo limitare il ricorso in cassazione: cfr. Aa.Vv., Verso un nuovo processo penale, a cura di A. Pennisi, Milano 2008, p. 408. Dello stesso tenore il d.d.l. C 658, presentato il 30 aprile 2008. (23) Cfr. M. Bargis, La corte costituzionale, cit., p. 3092; V. Grevi, Appello, cit., p. 1421. Tale interesse e` stato considerato decisivo da Corte cost., 31 marzo 2008 n. 85, § 5.1. s. del considerato in diritto, ai fini del ripristino dell’appello nei confronti del proscioglimento dibattimentale anche a favore dell’imputato. (24) E` la soluzione proposta da G. Spangher, Sistema delle impugnazioni, cit., p. 1262. V. pure V. Maffeo, L’udienza preliminare, Padova 2008, p. 230 s.; F. Morelli, Le formule di proscioglimento. Uno studio introduttivo, Torino 2010, p. 372 s.; G. Pecorella, Formule di proscioglimento e «giusto processo», in Leg. pen. 2005, p. 652. (25) In questo senso v. M. Daniele, Profili sistematici, cit., p. 145 s. (26) Cosı` G. Garuti, Mezzi di critica, cit., p. 81.
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nel merito la prognosi operata dal giudice dell’udienza preliminare l’unica via e` sottrarle il potere di controllare la correttezza della motivazione della sentenza. 4. – Un secondo ordine di critiche riguarda la disciplina della revoca. Stando all’art. 435, comma 1º, c.p.p., il pubblico ministero e` tenuto a domandare, insieme alla revoca, la riapertura delle indagini se le nuove fonti di prova sono «ancora da acquisire», e il rinvio a giudizio se sono «gia` state acquisite». Dalla prima prescrizione si induce che, in assenza della revoca, le indagini nei confronti della medesima imputazione sono vietate. Ma allora come e` possibile che vengano acquisite nuove fonti di prova nei confronti del prosciolto, integrando l’ipotesi di revoca contemplata dalla seconda prescrizione? L’unica risposta logica al quesito e` considerare «gia` acquisite» le nuove fonti di prova pervenute al pubblico ministero nel corso di indagini relative ad altre imputazioni, scoperte casualmente oppure offerte spontaneamente da terzi o dallo stesso prosciolto (27). Il problema, pero`, e` che il divieto di riprendere le indagini in ordine alla medesima imputazione e` irragionevole dal punto di vista delle esigenze dell’accusa. Esso impedisce a quest’ultima di rimediare alle incompletezze delle indagini tali da emergere solo in seguito alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. Niente impone, in casi del genere, il blocco delle investigazioni, se non la trasposizione dello schema concettuale che stava alla base della disciplina della riapertura dell’istruzione prevista dal codice del 1930: la necessita` di ottenere l’autorizzazione di un giudice per ricominciare un’attivita` volta a formare prove direttamente utilizzabili in giudizio (28). Ne´ si puo` dire che il divieto di indagare, nella realta` operativa, sia sempre rigorosamente rispettato. Non e` difficile eluderlo: e` sufficiente aprire un procedimento in rapporto ad un reato simile a quello oggetto del proscioglimento, per poi reperire ‘‘casualmente’’ prove concernenti l’imputazione originaria; oppure rintracciare nuovi elementi a carico nell’ambito di eventuali procedimenti relativi ad un coimputato o ad un altro reato commesso dal prosciolto (29). La disciplina della revoca appare, al contrario, eccessivamente sbilanciata a favore dell’accusa nella parte in cui consente di impugnare in cassazione l’ordinanza di rigetto della revoca per violazione di norme sostanziali, mancata assunzione di una controprova decisiva e vizio di motivazione (artt. 437 e 606, comma 1º lett. b, d, e, c.p.p.) (30). Tale previsione rischia anche di dilatare i tempi, con-
(27) V. G. Spangher, Commento all’art. 435, in Aa.Vv., Commento al nuovo codice di procedura penale, coord. da M. Chiavario, vol. IV, Torino 1990, p. 750. In giurisprudenza cfr., per tutte, Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 8, § 3. (28) Si veda F. Cordero, Procedura penale, 8a ed., Milano 2006, p. 979 s. (29) Ad esempio, sollecitando i testimoni nell’ambito di un procedimento nei confronti di un coimputato a riferire in ordine alla responsabilita` del prosciolto: G.i.p. Trib. Arezzo, 7 gennaio 2009, in www.dejure.it, il quale ha, in questo caso, giustamente respinto la richiesta di revoca. (30) Cfr. A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, 10a ed., Milano 2007, p. 444, nt.
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siderato che la cassazione potrebbe, a sua volta, annullare con rinvio la decisione impugnata (31). 5. – Considerato che la distinzione tra le nuove fonti di prova gia` acquisite ed ancora da acquisire si presta ad una facile elusione, il legislatore dovrebbe eliminarla, prevedendo un’unica fattispecie di revoca. E` ipotizzabile una revoca finalizzata esclusivamente alla riapertura delle indagini, sulla base della possibilita` di acquisire fonti di prova futuribili? Questa strada e` sconsigliabile, poiche´ ne risulterebbe una disciplina analoga a quella della riapertura delle indagini a seguito dell’archiviazione. Il parametro dell’«esigenza di svolgere nuove investigazioni», fissato a tale riguardo dall’art. 414 c.p.p., ha una portata precettiva quasi nulla. E` vero che per ottemperarvi non basta addurre un vizio logico nella valutazione delle indagini gia` svolte sulla quale il provvedimento di archiviazione si e` basato (32). Lo integra, pero`, la mera individuazione di lacune nell’attivita` compiuta, un’eventualita` sempre prospettabile anche in rapporto alle indagini piu` complete (33). La riapertura delle indagini a seguito di archiviazione e` perlopiu` un atto dovuto (34), proprio perche´ si fonda su una prognosi ex ante, in quanto tale difficilmente controllabile («e` plausibile che dalle nuove indagini risulteranno elementi a carico»). L’opzione preferibile e` congegnare la revoca come un istituto finalizzato unicamente ad ottenere il rinvio a giudizio. Vale a dire che, una volta pronunciata la sentenza di non luogo a procedere, dovrebbe essere possibile continuare a svolgere le indagini in ordine alla medesima imputazione. Non si potrebbe ritenerla una soluzione non dogmaticamente ortodossa. E` vero che comporterebbe una regressione alla fase delle indagini dopo la consumazione dell’azione penale determinata dalla raggiunta esecutivita` della sentenza di non luogo a procedere. Ma il codice contempla gia` tale eventualita` in rapporto alla difesa, la quale, stando all’art. 327 bis, comma 2º, c.p.p. (35), puo` andare alla ricerca
209, che considera tale prescrizione il frutto di una svista del legislatore. Per un’applicazione cfr. Cass., 4 marzo 2008, n. 19481. (31) Si pensi a questa inutilmente lunga sequenza procedimentale: indagini in rapporto ad un omicidio colposo commesso il 15 novembre 2002 – sentenza di non luogo a procedere pronunciata il 29 novembre 2005 – richiesta di revoca rigettata dal giudice dell’udienza preliminare – ricorso in cassazione contro l’ordinanza di rigetto – annullamento con rinvio da parte della cassazione – nuovo rigetto della revoca in sede di rinvio da parte di G.i.p. Trib. Arezzo, 7 gennaio 2009, cit. (32) Cfr. R.E. Kostoris, voce Riapertura delle indagini, in Enc. dir., vol. XL, Milano 1989, p. 353. In giurisprudenza v. Cass., sez. un., 22 marzo 2000, n. 9, § 11. (33) Sull’esilita` del presupposto fissato dall’art. 414 c.p.p. v. F. Caprioli, Archiviazione della notizia di reato e successivo esercizio dell’azione penale, in Riv. it. dir. proc. pen. 1995, p. 1381 s. (34) Cfr. F. Cordero, Procedura, cit., p. 433 s. (35) Le indagini difensive possono essere svolte «per promuovere il giudizio di revisione».
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di nuove prove per domandare la revisione del giudicato di condanna in ordine allo stesso fatto oggetto della decisione (36). Nulla vieta che un analogo potere sia conferito all’accusa per tentare di rimuovere il proscioglimento in udienza preliminare, introducendo al contempo l’obbligo di concludere le indagini e di domandare la revoca entro un congruo termine dalla inoppugnabilita` della sentenza (37). Quest’ultima previsione non influirebbe sulla natura di impugnazione straordinaria della revoca: anche il ricorso straordinario in cassazione per errore di fatto e` soggetto ad un termine, previsto dall’art. 625 bis, comma 2º, c.p.p. Si colmerebbe altresı` una delle lacune del sistema vigente: l’assenza di un’esplicita sanzione in rapporto alle indagini eventualmente svolte prima che la sentenza di non luogo a procedere sia revocata. In giurisprudenza si tende ad affermare che qualunque richiesta basata su indagini compiute prima della revoca dovrebbe essere respinta tramite una pronuncia di improcedibilita`: una volta divenuta definitiva la sentenza di non luogo a procedere, si verserebbe in una situazione analoga a quella successiva alla pronuncia di una decisione dibattimentale irrevocabile (38). Ma tale soluzione si rivela problematica qualora le nuove indagini giustifichino una misura cautelare a carico del prosciolto: operando il divieto di procedere, la misura cautelare non potrebbe essere irrogata se non a seguito della revoca (39). E la revoca richiede un’udienza in camera di consiglio della quale il prosciolto va previamente avvisato, con il rischio di vanificare l’efficacia della misura. La questione non sorgerebbe legittimando formalmente cio` che gia` si fa nella realta`: continuare a svolgere le indagini in rapporto allo stesso fatto anche prima della revoca. Per meglio razionalizzare la disciplina sarebbe opportuno, in aggiunta alla modifica proposta, eliminare il ricorso in cassazione nei confronti della decisione di rigetto della revoca previsto dall’art. 437 c.p.p. Tale facolta`, che innalza in modo sproporzionato il livello di tutela delle ragioni dell’accusa, non puo` ritenersi imposta dal vigente art. 111, comma 7º, Cost.: il provvedimento con cui la revoca viene respinta e` un’ordinanza che non ha ad oggetto la liberta` personale. Marcello Daniele Professore associato nell’Universita` di Padova
(36) Si veda Cass., sez. un., 26 settembre 2001, n. 624, § 11.4. Cfr. pure Cass. 8 aprile 2008, n. 16798. (37) A favore della previsione di un termine finale per domandare la revoca v. H. Belluta, «Giusto processo», cit., p. 36 s. (38) E` la via indicata da Corte cost. 19 gennaio 1995, n. 27, e percorsa, in particolare, da Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 8, § 2.1. (39) Cfr. sempre Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 8, § 2.1.
LA NON CONTESTAZIONE NEL NUOVO ART. 115 C.P.C.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Cenni storici. – 3. La non contestazione nell’ordinamento italiano moderno. – 4. Il fondamentale, ma non condivisibile, arreˆt delle Sezioni Unite nel 2002. – 5. La breve e non rimpianta esperienza del rito societario. – 6. La collocazione del principio nel corpo dell’art. 115. – 7. Nel rito ordinario a cognizione piena le parti adempiono all’onere di specifica contestazione con la terza memoria ex art. 183, comma 6º, c.p.c. – 8. I problemi applicativi della non contestazione nei riti speciali e in quelli sommarii (cautelari e non cautelari). – 9. Brevi cenni sulla portata della non contestazione nelle cause che vertono su diritti indisponibili e per i contratti per i quali sia richiesta la forma scritta. – 10. Necessita` che si affermi un nuovo stylus curiae rationalis.
1. – La non contestazione nel processo civile e` tema da far «tremar le vene e i polsi», tanto sfuggente risulta sul piano teorico come su quello pratico. Lo si puo` avvicinare da poliedrici punti di vista: storico-sistematico, comparatistico, epistemico, giuspositivistico. Profili tutti finemente indagati in un noto lavoro monografico, la cui ampiezza di riferimenti storici, dottrinali, giurisprudenziali, comparatistici e di diritto positivo esime dall’affrontarli nuovamente funditus (1). Ci concentreremo dunque sugli incerti orizzonti schiusi dal nuovo art. 115 c.p.c., al cui primo comma e` stato aggiunto un inciso, tanto icastico e perentorio quanto generico e infido per chi debba trarne le conseguenze pratiche sul modus operandi delle parti e del giudice nei procedimenti civili. Non pare inutile, peraltro, far precedere la disamina del novellato art. 115 da breve excursus storico sul tema della non contestazione e sul suo atteggiarsi nell’arco dei secoli e in alcuni modelli processuali, credendo che cio` possa contribuire a gettar luce su un istituto cosı` delicato e, nondimeno, necessario per ogni processo che aspiri a concludersi in tempi ragionevoli. 2. – I fatti non controversi inter partes, in materia di diritti disponibili, debbono essere posti dal giudice a fondamento della decisione. Trattasi di constatazione a tal punto scontata da riuscir degna di Monsieur de La Palice: nessun processo
(1) Ci riferiamo alla monografia di Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano 1995.
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ne´ alcun giudice civile hanno interesse ad accertare, per puro vezzo epistemico, se i fatti pacifici tra le parti siano in realta` difformi dal vero. Lo faranno soltanto allorche´ superiori interessi dell’ordinamento esigano tale accertamento, come avviene, ad es., nel campo dei diritti indisponibili sempre, s’intende, entro i limiti di iniziativa probatoria posti al giudice dalla disciplina processuale vigente. Si potra` anche censurare codesta forma «negoziata» di accertamento della verita` in materia di diritti disponibili (2); resta pero` il fatto che ai sistemi giuridici interessa, anzitutto e fondamentalmente, salvaguardare la pace sociale, che´ la lite tra privati deve concludersi sı` nel miglior modo, cioe` attribuendo la situazione soggettiva sostanziale se e a chi effettivamente essa spetti, ma anche nel minor tempo, senza indugiare in accertamenti della verita` fini a se stessi e non funzionali allo scopo precipuo d’ogni ordinamento che imponga il divieto di autotutela: interest rei publicae ut sit finis litium (3). E` dunque del tutto naturale che si ricorra a metodi di semplificazione della decisione nelle controversie iure privatorum attraverso meccanismi di vario genere, costituenti fenotipi del principio di non contestazione. Principio questo ab antiquo insito in ogni processo, sol che si pensi che la litiscontestatio era il momento centrale nel processo romano per legis actiones: un momento necessariamente negoziato e bilaterale, da cui scaturivano la determinazione della materia del contendere e la susseguente fase apud iudicem per la decisione sui fatti controversi. L’omessa partecipazione di Numerio Negidio, il proverbiale reus, alla litiscontestatio costituiva, nella legis actio sacramento in rem, derelictio del bene in contesa; mentre nella legis actio sacramento in personam, era valutata quale indefensio rispetto alla pretesa avanzata dall’attore, cui conseguivano misure coercitive (quali la missio in bona e l’addictio) volte a indurre il convenuto a partecipare al giudizio, ma implicanti, al postutto, il conseguimento dell’utilita` perseguita da Aulo Agerio, l’attore per antonomasia. Si pensi, ancora, all’antico sistema dell’accusatio germanica, in cui era il reus a doversi discolpare dall’accusa, giusta il principio per cui onus probandi incumbit ei qui negat: regola di giudizio paradossale ai nostri dı`, eppure antropologicamente conforme ai mores e all’ethos di quelle comunita`, connotati da profonda fede nella veridicita` delle affermazioni dei consociati, sı` da far luogo a una sorta di praesumptio iuris tantum da cui l’accusato poteva liberarsi solo affrontando la prova ordalica preceduta, secondo l’uso, dal Beweisurteil emesso dagli Urteilsfinder, gli scabini del villaggio, che chiudeva la prima fase del processo, fissando il Beweislast, cioe` la prova che l’accusato era tenuto a sostenere (4). Un Beweislast che si risolveva, in
(2) V., in particolare, Taruffo, Verita` negoziata?, in Accordi di parte e processo, Numero speciale della Riv. trim. dir. proc. civ. 2008, 69 ss., ora anche in Id., La semplice verita`. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bologna 2009, 122 ss. (3) Cfr., autorevolmente, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni, Padova 2009, 190. (4) Cfr. Pertile, Storia del diritto italiano, 2a ed. curata da Del Giudice, Torino 1896-1902, I, 319. Sull’accusatio germanica in confronto all’actio romana non si puo` omettere di menzionare il celebre saggio di Chiovenda, Romanesimo e germanesimo nel processo civile, in Saggi di di-
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effetti e nella gran parte dei casi, in praesumptio iuris et de iure o, meglio, Dei et de Deo (coincidendo lo ius con la volonta` divina), che´ la prova liberatoria poteva giungere soltanto all’esito dell’ordalia, quale epifania del giudizio di Dio. Il convenuto, se non si presentava nel giorno stabilito a contestare l’accusa rivoltagli dall’accusator sotto giuramento (‘‘Interpellator primum juret, quod, se sciente, nihil aliud nisi verissimam et justam rationem exquirat’’) (5), dimostrava con cio` di non possedere prove a discolpa e, implicitamente, riconosceva come fondata la domanda avversaria, negligendo il dovere di purgazione (Reinigungspflicht) e di contestazione (Einlassungszwang) che l’accusa aveva fatto sorgere a suo carico e che consisteva nell’onere di contestare davanti al giudice la verita` delle affermazioni della controparte, con tecnica da cui sarebbero germinate le positiones del processo romano-canonico, nonche´ il Wahrheitspflicht (dovere di verita`) e il Versa¨umnisurteil (sentenza contumaciale), che ancor oggi si trovano nei processi di impronta germanica (v. il § 138 ZPO sull’Erkla¨rungspflicht u¨ber Tatsachen e sul Wahrheitspflicht e i §§ 331 ss. ZPO sul Versa¨umnisurteil) (6). Ancorche´ il processo romano-canonico nel periodo medievale conosca ibridismi per gli influssi germanici, in particolare attraverso la contumacia de respondendo, e utilizzi soprattutto la tecnica delle positiones e della mancata risposta ad esse quale ficta confessio che sollevava l’attore dall’onere probatorio sui
ritto processuale civile, I, Roma 1930, rist. anastatica, Milano 1993, 197 s.; v. anche Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Del Giudice (diretto da), Storia del diritto italiano, III, Francoforte-Firenze 1969, I, 724 ss.; Campitelli, voce Processo civile (diritto intermedio), in Enc. dir., XXXVI, Milano 1987, 90 s.; nonche´, di recente, Chizzini, Anticam exquirite matrem. Romanesimo e germanesimo alle fonti del giusto processo civile, in Il giusto processo civ. 2006, 131 ss. Sul Beweisurteil v., in particolare, Bethmann-Hollweg, Der Civilprocess des gemeinen Rechts in geschichtlicher Entwicklung, IV, Bonn 1872, 28 ss.; Planck, Die Lehre von dem Beweisurtheil, Go¨ttingen 1848, 33 ss. e 47 ss. (5) V., su queste formule, Meyer-Homburg, Beweis und Wahrscheinlichkeit nach a¨lteren deutschen Recht, Marburg 1921, 92 ss.; Chiovenda, La condanna nelle spese giudiziali, Roma 1935, 98 e 120 ss.; Salvioli, op. cit., I, 240 ss.; Lo¨ning, Der Reinigungseid bei Ungerichtsklagen im deutschen Mittelalter, Heidelberg 1880, 302 ss. (6) Sul Reinigungspflicht v. Siegel, Geschichte des deutschen Gerichtsverfahrens, Giessen 1857, 167; Conrad, Deutsche Rechtsgeschichte, I, Karlsruhe 1962, 30. Sull’origine delle positiones cfr. Chiovenda, Romanesimo, cit., 201 s.; Id., Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Saggi, cit., I, 367; Liebman, Sul riconoscimento della domanda, gia` in Studi di diritto processuale in onore di G. Chovenda, Napoli 1927, 459 ss. e in Problemi del processo civile, Morano Editore, s.d., 183 ss.; Micheli, L’onere della prova, rist. Padova 1966, 37 in nota; Salvioli, op. cit., I, 316; Pertile, op. cit., II, 70 ss. Sulla mancata contestazione quale ficta confessio cfr. Stadler, in Musielak, Kommentar zur Zivilprozessordung, Mu¨nchen 2009, sub § 138 Abs. 3, nn. 12 ss.; Peters, in Mu¨nchener Kommentar zur Zivilprozessordnung, Mu¨nchen 2008, sub § 138, nn. 23 ss. Sul Versa¨umnisverfahren cfr. Rosenberg, Schwab, Gottwald, Zivilprozessrecht, Mu¨nchen 2004, 703 ss.; Grunsky, in Stein, Jonas, Kommentar zur Zivilprozessordnung, V, Tu¨bingen 2006, 123 ss. Un magnifico e artistico excerptum di accusatio germanico more si trova in Wagner, Go¨tterda¨mmerung, II, 4.
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fatti non contestati dal convenuto (7), con la previsione del procedimento sommario nella celeberrima Clementina Saepe del 1306 (8) la necessita` della litiscontestatio venne meno e, con questa, il correlato onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda secondo il metodo delle positiones, la cui applicazione era affidata alla discrezionalita` del giudice (9). Si tornava, cosı`, al sistema adottato in epoca tardo-romana, nella cognitio extra ordinem e poi nel processo giustinianeo, in cui la lite veniva giudicata non secundum praesentes, bensı` secundum meliorem causam, restando sia la contumacia sia il silenzio del convenuto del tutto indifferenti ai fini del decidere. S’ebbe, insomma, una ficta litis contestatio (Fiktion der Litiskontestation und der Einlassung), giusta il principio giustinianeo onde «lis enim tunc videtur contestata, cum iudex per narrationem negotii causam audire coeperit» (C. 3, 9, 1; v. anche C. 3, 19, 2) (10). Ferma la ricordata divergenza dei sistemi germanici nel trattamento della contumacia e del dovere di rispondere secondo verita`, le conseguenze ultime dell’innesto del procedimento sommario sul corpo del processo romano-canonico, passando attraverso l’Ordonnance civile del 1667, giunsero sino al Code Napole´on del 1806, il cui art. 150 disponeva che il giudice potesse porre a base della decisione le allegazioni della parte presente, solo «si elles se trouvent justes et bien ve´rifie´es», senza che la contumacia o la mancata contestazione del convenuto rivestisse alcun peso. 3. – Nel c.p.c unitario del 1865, ancorche´ l’art. 150 del Code Napole´on non fosse stato riprodotto, era scontato che il mero silenzio non contribuisse in alcun
(7) Ideo positiones inventae sunt, ut per eas partes relevatur ab onere probationum: cosı` Durante, Speculum iudiciale, II, 2, Augustae Taurinorum, ed. 1578, de positionibus. Sul tema e sullo specifico onere del convenuto di prendere posizione sulle affermazioni dell’attore secondo lo schema tripartito del sic, del non e del dubium v. soprattutto Castellari, Delle posizioni nella procedura comune italiana, in Glu¨ck, Commentario alle Pandette, trad. it., Milano 1903, XI, spec. 77 ss. (8) Su cui v. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli 1933, I, 213 ss.; Id., Le forme, cit., 366 s.; Scarselli, La condanna con riserva, Milano 1989, 59 ss.; nonche´ l’ancor oggi imprescindibile Briegleb, Einleitung in die Theorie der summarischen Processe, Leipzig 1859, spec. 27 ss. (9) Per un eloquente esempio sul modo di funzionare delle positiones v. le Costituzioni sabaude 1723, in Picardi, Giuliani (a cura di), Testi e documenti per la storia del processo, Milano 2002, Titolo XIV Delle Posizioni, 59 ss., nonche´, seppur con maggiore sintesi, il Codice estense 1771, in Picardi, Giuliani (a cura di), Testi e documenti per la storia del processo, Milano 2001, Titolo XIX Delle Posizioni, 117 ss. (10) Cfr. Bu¨low, Civilprocessualische Fiktionen und Wahrheiten, in Arch. Civ. Praxis, 62 (1879), 11 ss.; Wach, Der italienische Arrestprozess, Leipzig 1868, Neudruck Aalen 1973, 183 e 196; Goldschmidt, Der Prozess als Rechtslage, Berlin 1925, 98 ss.; Wetzell, System des ordentlichen Zivilprozesses, Leipzig 1878, Neudruck Aalen 1969, 618; nonche´, nella dottrina italiana, Giannozzi, La contumacia nel processo civile, Milano 1963, 54 s. e Carratta, op. cit., 61 ss.
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modo a provare i fatti dedotti dalla controparte (11). La ficta confessio poteva sgorgare soltanto dalla mancata risposta della parte personalmente sui capitoli deferitigli per interrogatorio (art. 218, cpv., c.p.c. 1865) e anche in tal caso, nonostante la lettera della norma facesse pensare a un automatismo decisorio («quando la parte non comparisca, o ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo»), si tendeva ad attenuarne la portata, valutando la confessione tacita nel contesto di ogni altra prova acquisita al giudizio (12). Esattamente come avviene ora, nel vigente art. 232 c.p.c., che non contempla piu`, neppure ex littera, alcuna ficta confessio (13). In alcuni progetti di riforma del c.p.c. avanzati tra le due guerre (eponimi Chiovenda, Mortara e Carnelutti) si contemplavano oneri di specifica contestazione e procedimenti contumaciali variamente disciplinati (14). In nessuno di essi, conviene notare sin d’ora, la non contestazione veniva ricondotta alla determinazione del thema decidendum e al principio dispositivo in senso sostanziale, bensı` semplicemente alla prova dei fatti rilevanti, concorrendo alla formazione del convincimento del giudice insieme alle altre prove acquisite al giudizio. Nel c.p.c. del 1940 nulla di tutto cio` fu previsto: ne´ un onere di specifica contestazione, sanzionato da preclusioni irreversibili, ne´ un procedimento contumaciale d’ordine generale. Era dunque naturale che nei primi decenni postbellici si protraessero gli orientamenti maturati sotto il codice pregresso: occorreva un’ammissione esplicita o quantomeno implicita, in ragione di argomentazioni inconciliabili
(11) V. Relazione Pisanelli, §§ 214 ss., in Codice di procedura civile del Regno d’Italia 1865, in Picardi, Giuliani (a cura di), Testi e documenti per la storia del processo, Milano 2004, 103 ss. In dottrina v. Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario italiano, II, Torino 1902, 657 ss. Contro la communis opinio si levava soltanto la possente voce di Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano 1905, 567, il quale osservava che «il concetto, assunto dogmaticamente nel nostro codice come nel francese, che il silenzio significhi opposizione, ossia tacita contestazione sui fatti, non e` davvero meritevole di adesione». (12) V. Mattirolo, op. cit., II, 687 s., anche in nota, e Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I, Torino, rist. 1927, 749; Id., Intorno al valore probatorio della confessione tacita o presunta, in Giur. it. 1903, I, 1, 1160 s.; Mortara, Commentario cit., III, 577 ss.; Pescatore, La logica del diritto. Frammenti di dottrina e giurisprudenza, Torino 1863, 152 ss. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli 1923, rist. 1965, 750, dal canto suo riteneva che la ficta confessio producesse una preclusione alla prova di fatti incompatibili con quelli dedotti mediante un interrogatorio regolarmente deferito e rimasto privo di risposta. (13) V., per tutte, Cass. 20 aprile 2006, n. 9254. (14) V. Chiovenda, in Saggi di diritto processuale civile, II, Roma 1931, 64 s. e 121, §§ 84 e 85 della Relazione e artt. 20 e 21 del Progetto; Mortara, Per il nuovo codice della procedura civile. Riflessioni e proposte, in Giur. it. 1923, IV, 145, art. 49 e artt. 212 ss.; e Carnelutti, Progetto del codice di procedura civile, I, Padova, 1926, art. 305. Altri richiami ai progetti di riforma del c.p.c. del 1865 e del 1940, soprattutto in tema di trattamento della contumacia, in De Vita, Non contestazione (principio di), in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento*****, Torino 2010, 836 s., anche in nota.
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con la contestazione dei fatti allegati dall’altra parte (15). V’era per giunta la piena facolta` di contestarli tardivamente, senza preclusioni di sorta (16). La riforma del 1973 sul rito del lavoro modifico` il quadro normativo, introducendo un sistema di preclusioni anche istruttorie che mal si concilia con la reversibilita` della non contestazione fino allora patrocinata dall’opinione dominante. E la riforma del 1990, che previde anche pel rito ordinario una serie di barriere preclusive, immutava i valori sottostanti e le coordinate di riferimento, preparando il terreno alla svolta che sarebbe sopravvenuta nel 2002, con il fondamentale arreˆt delle Sezioni Unite di cui subito appresso diremo. Nonostante gli ampii sforzi ricostruttivi della dottrina (17), i dati normativi apparivano troppo vaghi e incerti, vere animulae vagulae blandulae, affinche´ potesse affermarsi con sicurezza l’esistenza nel nostro ordinamento di un generale onere di specifica contestazione, gravante su ciascuna parte. L’art. 167 c.p.c. discorreva, bensı`, della necessita` per il convenuto di «prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda» e l’art. 416, per il rito del lavoro, vi aggiungeva un importante inciso («in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione»), che pur tuttavia il conditor del 1990 non aveva inteso riprodurre nel testo dell’art. 167; ma era anche vero che a quest’onere non si accompagnavano esplicite decadenze, a differenza di quanto era sancito per domande riconvenzionali, eccezioni in senso stretto e istanze di chiamata in causa dei terzi nonche´, nel rito del lavoro, per i mezzi di prova (18); con l’ulteriore problema che l’onere di contestazione, per sua natura concernente tutte le parti del giudizio (a pena, in contrario, di
(15) V., nell’imperio del c.p.c. del 1865, Chiovenda, Principii cit., 749 («le semplici deduzioni di fatto non contestate non si hanno senz’altro per ammesse»); nonche´ lo stesso Mortara, Manuale della procedura civile, I, Torino 1906, 353, il quale, pur dirigendo severi strali critici alla disciplina prescelta dal conditor legum (v., in particolare, Id., Commentario cit., III, 567: «dinanzi al magistrato si va non per tacere ma bensı` per parlare, per far conoscere le proprie ragioni e i torti dell’avversario con dichiarazioni precise, positive e pertinenti alla lite»), e` costretto a riconoscere che, de lege in illo tempore lata, «il silenzio in generale, per le nostre leggi, non prova nulla, ne´ da` arbitrio al magistrato per indurne argomento pro e contro in qualsiasi controversia relativa ai fatti». (16) V. Andrioli, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 1973, 513; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano 1984, 143; nonche´ in giurisprudenza, tra molte, Cass. 15 aprile 1988, n. 2979; Cass. 9 gennaio 2002, n. 185; Cass. 12 agosto 2000, n. 10758. (17) Ci riferiamo sempre allo scritto monografico di Carratta, op. cit., spec. 262 ss. e 267 ss. V. anche Ciaccia Cavallari, La contestazione nel processo civile, II, Milano 1993, 87 ss., che nondimeno conclude per l’inesistenza nel nostro sistema processuale (ante novella del 2009) di un principio generale di non contestazione. (18) E d’altronde, sarebbe arduo per l’interprete forgiare motu proprio decadenze traendole dal sistema o ricostruendole per analogia, ostandovi il divieto di cui all’art. 14 prel.: v., in tal senso, Cass. 7 settembre 1993, n. 9382. Con cio` non s’intende misconoscere che le preclusioni siano connaturate allo svolgersi del procedimento, il quale a un certo punto deve pur chiudere la fase assertiva e probatoria, al fine di decidere la controversia (v., in luogo di molti, Andrioli, voce Preclusione (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., XIII, Torino 1966, 568), bensı` rendere avvertiti gli
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irragionevole disparita` delle armi), veniva in quelle norme riferito al solo convenuto, mentre l’attore ne passava indenne. 4. – La Suprema Corte trasse il destro da un contrasto di indirizzi sul (per vero assai piu` circoscritto) problema degli effetti della mancata contestazione dei conteggi in controversia tra lavoratore e datore di lavoro, per fissare principii dogmatici in tema di non contestazione, con intervento nomofilattico di quell’autentica «giurisprudenza normativa» che si va delineando sempre piu` nello scenario contemporaneo, anche in materia di regole processuali, a onta di quel che ancor oggi prescrive l’art. 12, c. 1, prel (19). Parliamo del leading case di Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761 (20) che, peraltro, non poche successive pronunce delle sezioni semplici tennero in completo non cale o non condivisero affatto (21). Un dictum, tuttavia, che in nessun modo puo` essere condiviso, ancorche´ l’impostazione (oltremodo) dogmatica della Suprema Corte risalga addirittura a Carnelutti (22). Non persuade in particolare, la dicotomia fondamentale che la Suprema Corte traccia tra non contestazione dei fatti principali (dai quali discendono immediatamente gli effetti giuridici previsti dalla legge) e non contestazione dei fatti secondarii (che hanno una funzione soltanto probatoria e dai quali si desume, con procedimento logico induttivo, l’esistenza dei fatti principali). Secondo le Sezioni Unite, la non contestazione dei fatti principali partecipa della stessa natura del potere di allegazione e costituisce manifestazione del principio dispositivo in senso sostanziale: essa, pertanto, soggiace alle medesime preclusioni previste per la determinazione del tema del decidere, che dipende in pari misura dalle allegazioni
interpreti sulle cautele da adottare ogniqualvolta non si rinvengano nei testi di legge esplicite decadenze. (19) Per un quadro d’insieme su questi sviluppi v., da ultimo, Bove, Il principio di ragionevole durata del processo come canone interpretativo delle norme processuali nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli 2010; v. inoltre Caponi, Dalfino, Proto Pisani, Scarselli, In difesa delle norme processuali, in Foro it. 2010, I, 1794 ss. Il nuovo verbo della Cassazione sulla giurisprudenza normativa quale autonoma fonte del diritto puo` leggersi ex professo in Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in Foro it. 2010, I, 141 (v. spec. 146 s.), con nota critica di Di Ciommo. (20) In Corriere giur. 2003, 1335, con nota di M. Fabiani; in Foro it. 2002, I, 2019, con nota di Cea; in Foro it. 2003, I, 604, con nota critica di Proto Pisani; in Dir. giur. 2002, 78 ss., con nota di Rascio. V. successivamente anche Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, in Foro it. 2005, I, 1135, con nota di E. Fabiani. Una pregevole sintesi delle varie rationes decidendi e delle reazioni dottrinali alla sentenza si rinviene in Zuffi, Commento all’art. 115, in Consolo, De Cristofaro (a cura di), La riforma del 2009, Milano 2009, 78 ss. (21) V., ad es., Cass., 3 maggio 2007, n. 10182, in Riv. dir. proc. 2008, 559, con nota di De Santis, dove ampia illustrazione della divisio giurisprudenziale. L’ultima giurisprudenza ante novella andava, pero`, consolidandosi sulla linea tracciata dalle sezioni unite nel 2002: v. Cass. 27 febbraio 2008, n. 5191, Cass. 21 maggio 2008, n. 13079 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399; App. Milano 12 ottobre 2009, in Giur. it. 2010, 609. (22) Carnelutti, La prova civile, Venezia 1911, rist. Milano 1992, 18 ss.; v. successivamente Verde, Prova (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, 613 ss.
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delle parti e dall’estensione delle relative contestazioni. Chiusa la fase processuale destinata alla fissazione del thema decidendum, la non contestazione dei fatti principali non e` piu` reversibile ne´ il giudice potrebbe tener conto di prove contrarie al fatto principale non contestato che dovessero emergere dall’istruttoria. Si avrebbe, insomma, una sorta di «verita` negoziata», insindacabile per il giudice e irrevocabile per le parti stesse, a meno che – aggiungiamo noi – non sia affetta da vizii di formazione (errore di fatto o violenza: cfr. l’art. 2732 c.c.), peraltro difficilmente prospettabili per un’attivita` omissiva dei difensori qual e` la non contestazione nel suo estrinsecarsi in seno al processo. Viceversa, la non contestazione dei fatti secondarii, aventi rilievo meramente istruttorio, sempre secondo le Sezioni Unite e` provvisoria e revocabile in ogni tempo, poiche´ si e` fuori del dominio esclusivo dell’autonomia delle parti ed e` pur sempre necessario un controllo probatorio, nel cui ambito il comportamento tenuto dalle parti puo` essere utilizzato dal giudice soltanto come argomento di prova ex art. 116, comma 2º. L’errore fondamentale del leading case teste´ ricordato consiste nell’aver dato corpo giurisprudenziale al dogma della non contestazione dei fatti principali quale riflesso del principio dispositivo in senso sostanziale, di cui le parti detengono il monopolio. Sol che si rifletta un poco, la non contestazione e` mera tecnica di economia processuale, che trova fondamento nell’autoresponsabilita` delle parti e attiene alla prova dei fatti: questi, se non controversi, escono dal thema probandum e determinano una relevatio ab onere probandi, che ne rende superflua la dimostrazione, a prescindere dal carattere principale o secondario di essi (23). La non contestazione e` implicita Parteibeweisaussage, id est tacita responsio in funzione probatoria, che nulla ha da spartire con il principio dispositivo in senso sostanziale (24). Si e` giustamente notato come la tesi dogmatica fatta propria dalle Sezioni Unite confonda due fenomeni che e` utile tenere distinti: da un lato l’allegazione tout court, che consiste soltanto nella formulazione di enunciati linguistici, di carattere ipotetico, intorno all’esistenza di determinati fatti; dall’altro lato, la loro qualificazione giuridica mediante riconduzione a una fattispecie legale, che determina il prodursi di effetti giuridici nel contesto della formulazione della domanda (25). A contare, insomma, e` il contesto in cui i fatti vengono dedotti: se e` quello degli
(23) V., in critica a Cass., sez. un., 761/2002, Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione, in Foro it. 2003, I, 608; Cea, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Il giusto processo civile 2006, 202; M. Fabiani, Il valore probatorio della non contestazione del fatto allegato, in Corriere giur. 2003, 1345. (24) Per questa terminologia cfr. Schima, Gemeinsames und Verschiedenes im O¨sterreichischen und Italienischen Zivilprozess, in Studi Redenti, Milano 1951, 342. (25) Taruffo, La semplice verita`, cit., 126, richiamandosi all’insegnamento di Searle, Mind, language and society. Philosophy in the real world, New York 1999, 140 ss. e 148. Consolo, Spiegazioni, cit., III, 190, puntualmente nota che «il fatto non contestato non e` un fatto da considerare provato, ma un fatto che puo` essere posto a base della decisione ancorche´ non provato (e cosı` solo se non smentito sicuramente dalle risultanze di altre prove raccolte) in quanto verosimilmente esistente» (corsivo dell’A.).
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atti introduttivi, lı` si esplica e viene in rilievo il principio dispositivo in senso sostanziale, perche´ in quel contesto le allegazioni in fatto vengono correlate a effetti giuridici. Viceversa, al fine di stabilirne l’esistenza, non e` possibile assegnare un diverso statuto ai fatti principali o a quelli secondarii: tutti concorrono, con diverse gradazioni di rilevanza logica rispetto alla fattispecie legale, a provare l’esistenza o meno della situazione sostanziale dedotta in giudizio. Essi valgono, come direbbe Searle, quali fatti bruti (26), che necessitano normalmente di essere provati, a meno che la parte controinteressata non li contesti: in tal caso le prove non servono piu` e non occorre ne´ dedurle ne´ ammetterle ne´, tanto meno, assumerle (27). 5. – La breve vita del non compianto ne´ rimpianto rito societario (A 1º gennaio 2004 – 4 luglio 2009), ex se e complessivamente infelice, esime dal considerare funditus due poco fortunate norme che si leggevano nel d.lgs. n. 5 del 2003. L’art. 13, c. 2, introduceva una forma di procedimento contumaciale, il cui esito dipendeva non gia` dall’omessa costituzione del convenuto, bensı` dalla tardiva notifica della comparsa di risposta e dalla successiva, rapida e pronta richiesta dell’attore di fissare udienza per la discussione, donde il giudice aveva il potere-dovere di ritenere non contestati i fatti dedotti dall’attore e di decidere sulla domanda in base alla sua «concludenza», espressione questa mutuata alla lettera dalla Schlu¨ssigkeit del Versa¨umnisverfahren tedesco (ma quivi inserita in altro, ben piu` articolato, contesto). Il giudice, se ancor nutriva dubbi in cuor suo, poteva rifugiarsi nel desueto riparo del giuramento suppletorio, deferito d’ufficio al medesimo attore per dare conforto alla semiplena probatio scaturente dalla ficta confessio poc’anzi descritta. La norma pero`, prima ancora dell’abrogazione dell’intero rito societario, cadde sotto la scure della Consulta (28), non soltanto per eccesso di delega, ma anche per una strana sorta di contrarieta` alla tradizione giuridica nostrana che, per discendenza romano-canonica e dipoi francese, suol riservare alla contumacia un trattamento di favore, ravvisando in essa una ficta litiscontestatio anziche´ una ficta confessio, quasi che il legislatore non possa, re melius perpensa, mutare indirizzo e trattare il contumace qual mostra d’essere, cioe` un soggetto che disprezza l’autorita` costituita (la parola deriva da contemnere), conformandosi alfine a molti degli ordinamenti d’Oltralpe, che ben conoscono condanne contumaciali (29).
(26) Searle, La costruzione della realta` sociale, trad. it. Milano 1996, 37. (27) In Francia si segue pragmaticamente la c.d. the´orie du fait constant, per cui «le fait est a` prouver s’il est conteste´»: cfr. Le Bars, La the´orie du fait constant, in JCP 1999, I, 178 ss.; Cadiet, Jeuland, Droit judiciaire prive´, Paris 2004, 397 s. Ulteriori riferimenti in Sassani, L’onere della contestazione, in Il giusto processo civile 2010, 406 ss., che parla giustamente di benefit of assumption in relazione ai fatti non specificamente contestati. (28) Corte cost., 12 ottobre 2007, n. 340, in Foro it. 2008, I, 721, con nota critica di Briguglio; in Corriere giur. 2008, 331, con nota di De Cristofaro; in Nuova giur. civ. 2008, I, 387, con nota di Comoglio; in Giusto processo civ. 2008, 169 (m), con nota adesiva di Monteleone; in Riv. dir. proc. 2008, 517, con nota critica di Sassani e Auletta. (29) V. ad es., il default judgment inglese di cui alla Part 12 delle Civil Procedure Rules,
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L’art. 10, c. 2 bis, innestato sul corpo del rito societario per resipiscente sussulto, testualmente stabiliva che «la notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza rende pacifici i fatti allegati dalle parti ed in precedenza non specificamente contestati». La «tagliola» determinata ex abrupto dalla notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, in quell’«ordalia modernizzata» ch’era l’abrogato rito societario (30), produceva la fissazione dei fatti non specificamente contestati. Sennonche´, dopo l’usualmente prolisso e iterativo scambio di atti difensivi che infestava la fase absque iudice, lasciata al libero sfogo dei litiganti e malamente ispirata al processo anglosassone, passati alla fase apud iudicem a seguito di notificazione dell’istanza di fissazione dell’udienza, questi difficilmente riusciva a orientarsi nel gran cumulo di citazioni, comparse, repliche, dupliche, tripliche e via dicendo (davvero degna del processo descritto dal giudice Bridoye di rabelaisiana memoria), per estrapolarne i nudi fatti non contestati inter partes, senza alcuno schematismo redazionale di plurimi atti, che per lo piu` rispondono all’indistinta logica del caos e al metodo del «non so come». Sicche´ la norma, al cospetto di siffatto modello processuale, non poteva che restare lettera morta, fonte esclusiva di accese dispute tra litigatores «miniaturisti» (i quali, leggendo riga per riga gli scritti avversarii, rilevavano il difetto di specifica contestazione di quanto essi avevano addotto a pag 24, riga 13, della terza replica, nel contesto peraltro di argomentazioni giuridiche, fattuali e valutative variamente frammiste e mescolate tra loro) e, al postutto, soggetta alla sensibilita` applicativa del singolo giudice. 6. – Giunge ora il nuovo testo dell’art. 115, c. 1, interamente riscritto ma la cui portata innovativa si situa nell’ultima parte, cioe` nel potere-dovere del giudice di porre a fondamento della decisione non soltanto le prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero e, nei casi previsti dalla legge, quelle disponibili d’ufficio, ma anche (diremmo, innanzitutto) «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita». Al di la` dell’inelegante scelta avverbiale (tratta da un participio passato, anziche´ dall’aggettivo) e della constatazione, di pura esegesi, che la norma non introduce alcun procedimento contumaciale nel nostro ordinamento, riferendosi esclusivamente alla parte costituita (dal che si ricava, quasi per paradosso, un implicito invito a restare contumaci, piuttosto che partecipare al giudizio quando si abbia ben poco da dire e da contestare: in caso di contumacia del convenuto, l’onere probatorio gravante sull’attore resta intatto, senza sconti di alcun genere (31)), la pur discutibile collocazione del principio di non contestazione nella norma rubricata «disponibilita` delle prove» sgombra definitivamente il campo dall’equivoco in cui erano cadute le Sezioni Unite: la non contestazione non partecipa
quello statunitense alla Rule 55 delle Federal Rules of Civil Procedure e il Versa¨umnisverfahren tedesco di cui ai §§ 331 ss. della ZPO. (30) L’espressione e` di Chiarloni, Riflessioni minime sul nuovo processo societario, in Giur. it. 2004, 684. (31) Sull’ingiusto privilegio del contumace v. Balena, in Balena, Caponi, Chizzini, Menchini, La riforma della giustizia civile, Torino 2009, 37; Sassani, op. cit., 426 ss.
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affatto della natura delle allegazioni e non concorre alla determinazione del thema decidendum ne´ tollera artificiose distinzioni tra fatti principali e fatti secondarii; essa e` semplice strumento di economia processuale, che consente di risolvere la quaestio facti senza necessita` di far luogo a istruzione probatoria sui fatti non specificamente contestati. La novella, insomma, possiede se non altro una portata semantica negativa, poiche´ priva di base la ricostruzione, a dir cosı`, «dicotomica» delle Sezioni Unite, restituendo la non contestazione a quel che essa e` e determina: una semplice relevatio ab onere probandi, con cui il fatto non specificamente contestato viene espunto dal novero dei fatti bisognosi di prova e deve essere utilizzato dal giudice al fine di risolvere la quaestio facti, nella valutazione complessiva di tutte le prove acquisite (32). Le note positive, pero`, finiscono qui, dacche´ la genericita` del sintagma e` assolutamente infelice e par destinata a partorire problemi maggiori di quelli che il conditor si era proposto di risolvere. L’art. 115 e` per lo piu` considerato espressione, sia pure storicamente e sistematicamente imperfetta, del fondamentale principio di disponibilita` delle prove (o principio dispositivo in senso processuale), che riserva di regola alle parti la deduzione in giudizio dei mezzi di prova, salvi i casi previsti dalla legge. Una norma di per se´ vuota di contenuti, dal momento che i poteri delle parti e del giudice in tema di iniziative istruttorie semplicemente discendono dalle regole dettate dal legislatore per ciascun mezzo di prova. Alcuni hanno severamente criticato la collocazione stessa del principio di non contestazione nel primo comma dell’art. 115, perche´ questa norma disciplina la prova dei fatti, non la formazione del thema probandum cui attiene la non contestazione, la quale avrebbe trovato miglior sede semmai nel secondo comma dell’art. 115, poiche´ i fatti contestati in modo generico sarebbero assimilabili a quelli notorii siccome, al pari di questi, non bisognosi di prova (33). Altri l’hanno difesa, ritenendo che la non contestazione vada utilizzata non come metodo di fissazione formale dei fatti, bensı` come comportamento processuale significativo e rilevante sul piano probatorio e di cui il giudice e` tenuto a valersi assieme agli altri mezzi di prova (34). A ben guardare, se si rievoca il noto brocardo onde iudex secundum
(32) V. in tal senso anche Sassani, op. cit., 411 s. Diversamente De Vita, voce cit., 848 ss. e Fornaciari, Il contraddittorio a seguito di un rilievo ufficioso e la non contestazione (nel piu` generale contesto della problematica concernente allegazione, rilievo e prova), in www.judicium.it 2010, spec. § 10. (33) V. soprattutto E.F. Ricci, Ancora novita` (non tutte importanti, non tutte pregevoli) sul processo civile, in Riv. dir. proc. 2008, 1361; Punzi, Novita` legislative e ulteriori proposte di riforma in materia di processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2008, 1198; Bove, in Bove-Santi, Il nuovo processo civile tra modifiche attuate e riforme in atto, Matelica 2009, 44; Boccagna, in Aa.Vv., Le norme sul processo civile nella legge per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitivita`, Napoli 2009, 55. (34) V., in particolare, Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in Il giusto processo civile 2009, 776 ss.; Id., in Balena, Caponi, Chizzini, Menchini, op. cit., 35; Sassani, op. cit., 410 ss., nonche´ M. Fabiani, Il nuovo volto della trattazione e dell’istruttoria, in Corriere
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allegata et probata iudicare debet, non secundum conscientiam di cui l’art. 115 costituisce un pallido e sfocato riflesso (35), la collocazione del principio di non contestazione nell’alveo di tale norma non fa che riaffermare l’idea chiave di ogni processo: cioe` che il giudice forma il proprio convincimento sui fatti esclusivamente nel contesto processuale, attraverso gli strumenti e le regole proprie di questo ed entro il suo temenos, il suo hortus conclusus (36). La collocazione del principio di non contestazione non ha, pertanto, che una valenza negativa e persino banale: e` mera riaffermazione della natura lato sensu probatoria della non contestazione, che rientra nell’ampio spettro della discrezionalita` giudiziale in materia di prove, secondo i generali criterii del prudente apprezzamento e dell’intime conviction di ciascun giudice sul caso singolo, sino al possibile utilizzo della regola sussidiaria di giudizio sull’onere della prova onde evitare il non liquet (37). Sotto questo profilo, il principio di non contestazione ben avrebbe potuto vedere ingresso, piu` declamatorio che effettuale, persino nell’art. 116, c. 1, c.p.c. o nell’art. 2697 c.c., restando al giudice serbato il potere-dovere di tener conto di tutti gli elementi di prova che contribuiscano alla formazione del suo convincimento, ivi inclusi i fatti non specificamente contestati, che rendono superfluo in apicibus ogni acquisizione istruttoria e inapplicabile la regola sussidiaria dell’onere della prova. Anche l’effetto di relevatio ab onere probandi, determinato dalla non contestazione dei fatti allegati dall’avversario, lascia intatto il potere del giudice di valutare, sulla base degli elementi raccolti in giudizio, se gli enunciati linguistici formulati da ciascuna parte corrispondano alla realta` (38). Sicche´ la previsione di un cosı` scontato principio nel testo dell’art. 115, c. 1, piuttosto che altrove, non merita d’essere enfatizzata piu` di tanto, se non per la portata precipuamente negativa e confutatoria degli erronei indirizzi della Suprema Corte gia` descritti e criticati, enunciando la norma un Ordnungsbegriff. 7. – Prescindendo dunque dal dibattito, di sapore eminentemente classificato-
giur. 2009, 1170; Santangeli, La non contestazione come prova liberamente valutabile, in www.judicium.it 2010, §§ 2 e 3. (35) Su questo v. No¨rr, Zur Stellung des Richters im gelehrten Prozess der Fru¨hzeit: Iudex secundum alligata non secundum conscientiam iudicat, Mu¨nchen 1967, 17 ss. e, da ultimo, Pico´ i Junoy, Iudex iudicare debet secundum allegata et probata, non secundum conscientiam: storia della erronea citazione di un brocardo nella dottrina tedesca e italiana, in Riv. dir. proc. 2007, 1497 ss. (36) Cfr. Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2008, 950 ss. (37) Cfr. anche Sassani, op. cit., 412, che ravvisa una relazione stretta tra il tema della non contestazione e quello dell’onere della prova e, sulla scia di Rosenberg, Die Beweislast, Mu¨nchen-Berlin 1965, 166 ss. e, soprattutto, di Hellwig, System des deutschen Zivilprozessrechts, I, Leipzig 1912, spec. § 156, distingue l’abstrakte Beweislast dal konkrete Beweislast, la cui area si determina per effetto della non contestazione di alcuni fatti. (38) V. Carratta, op. cit., 267, 282; Sassani, op. cit., 413 s.
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rio, sulla collocazione topografica del principio in esame, va subito soggiunto che la riscrittura dell’art. 115 rischia di essere inutile e dannosa, aprendo spazii eccessivi a una discrezionalita` giudiziale senza confini e non razionalizzabile a priori. Essa appare inutile, perche´ un’enunciazione cosı` vaga e generica del potere-dovere del giudice di tener conto anche dei fatti non contestati, tanto in sede di ammissione quanto (a fortiori) in sede di valutazione delle prove, e` semplicemente ovvia. E` altresı` dannosa, perche´ l’avverbio «specificatamente», senza alcuna indicazione sul modo e sui termini in cui la contestazione ha da svolgersi in seno al processo, lascia al singolo giudice un potere discrezionale incontrollabile, che rischia di sconfinare nell’arbitrio, senza guide sicure nell’utilizzo di uno strumento lato sensu probatorio per sua natura sottratto a criterii applicativi predicabili ex ante (39). E` questo, percio`, lo sforzo di razionalizzazione che dottrina e giurisprudenza sono chiamate a compiere con tutta urgenza, viste anche le prime applicazioni che vanno facendosi dell’art. 115, c. 1, volte a consentire al giudice di far presto, in ossequio all’ormai invalsa direttiva efficientista promanante dall’uso creativo che la Suprema Corte va facendo del principio di ragionevole durata (principio che l’art. 111, c. 2, Cost. riserva ex littera alla legge, non alle corti, neppure supreme) (40). Ben avrebbe dovuto il conditor del 2009 spendere qualche breviloquente parola su tempi e modi della specifica contestazione, nonche´ introdurre finalmente
(39) Si e` sottolineato che una predeterminazione legale dei meccanismi della non contestazione rientra tra le garanzie minime di un giusto processo civile: cfr. Comoglio, Etica e tecnica del «giusto processo», Torino 2004, 411; Reali, La non contestazione nel giusto processo civile, in Il giusto processo civile 2006, 246. (40) V., ad es., Trib. Piacenza, 4 giugno 2009, in Resp. civ. prev. 2009, 2501 ss., con nota adesiva di Buffone; Id., 2 febbraio 2010, in www.ilcaso.it, nonche´ Trib. Catanzaro, 30 ottobre 2009, in Giur. it. 2010, 1667 ss., con nota adesiva di Frus. Anche lo sfuocato obiter dictum di Cass. 10 novembre 2010, n. 22837, pur affermando che la non contestazione esonera la parte dall’onere probatorio, utilizza tale tecnica non in relazione a un fatto storicamente determinato, bensı` (e addirittura) per fondare una ricostruzione causale ipotetica, per di piu` riferibile al solo danneggiato e di natura psichica (il grave pericolo per la salute della donna, se fosse stata debitamente informata della grave malformazione del feto, sı` da risolversi per l’interruzione della gravidanza). Si vuole qui applicare la non contestazione a cio` che non le pertiene affatto: la ricostruzione di nessi causali ipotetici, in base a leggi scientifiche o a massime d’esperienza intorno a fatti che, oltretutto, appartengono esclusivamente alla sfera del danneggiato e non sono comuni all’altra parte. Inoltre, si afferma apoditticamente la necessita` di una contestazione tempestiva di un’allegazione implicita (cioe` che la donna avrebbe interrotto la gravidanza, se fosse stata informata della grave malformazione fetale), senza precisare ne´ il quando ne´ il quomodo per operarla. In realta` e a ben guardare, nel caso deciso non v’era alcun bisogno di richiamare l’onere di specifica e tempestiva contestazione, che´ la Suprema Corte non fa che applicare il principio che disciplina la ricostruzione eziologica nel campo della responsabilita` civile, dicendo cioe` che, se la donna fosse stata correttamente informata della grave patologia prenatale, sarebbe stato «piu` probabile che non» che vi fosse grave pericolo per la sua salute psichica, sı` da legittimarla a interrompere la gravidanza anche dopo il terzo mese. La non contestazione insomma, nel caso di specie, e` una superfetazione, impropriamente adoprata per valutazioni causali e fatti non comuni alle parti.
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un modello generale di procedimento contumaciale, qual conosciuto da molti altri ordinamenti europei (41). E` inevitabile, dunque, che si tenda in prima battuta a riprodurre acriticamente l’orientamento dicotomico inaugurato nel 2002 dalle Sezioni Unite (42). Sennonche´, come dovrebbe risultare ormai chiaro, l’applicazione della tecnica della non contestazione non tollera distinzioni tra fatti principali e fatti secondarii: essa attiene esclusivamente alla prova dei fatti, recte alla formazione del thema probandum, mentre nulla ha da spartire con il principio dispositivo in senso sostanziale e con la determinazione dell’oggetto del processo, come risulta ora, sine ullo dubio, dal nuovo art. 115 (43). La contestazione specifica deve cadere sui fatti, anche se posti a base di questioni processuali (nur prozessual erhebliche Tatsachen) (44), non sulle interpretazioni ne´ sui giudizii di valore ne´, tanto meno, sulle qualificazioni giuridiche. I fatti addotti debbono essere riferibili alla parte nei cui confronti vengono allegati e rientrare nella sua sfera di conoscibilita`. La parte dovra` fornire la sua versione dei fatti ovvero motivatamente rispondere di non saperne alcunche´, mentre il grado di specificita` della contestazione non potra` che correlarsi ed essere proporzionato al contenuto descrittivo delle deduzioni avversarie, senza parametri prestabiliti (analogamente alla specificita` dei motivi di appello, che necessariamente si correla alla motivazione della sentenza impugnata) (45). Nei processi litisconsortili, bastera` la contestazione specifica d’una sola parte per rendere il fatto bisognevole di prova (46). Il problema e` semmai quello di esigere dagli atti difensivi una schematicita` tale da consentire alle controparti e al giudice l’agevole identificazione dei fatti allegati e di quelli non controversi o contestati in modo assolutamente generico. Una schematicita` normalmente estranea agli atti introduttivi della lite italico more, nei quali vengono variamente mescolate e profuse allegazioni in fatto, argomentazioni induttive e ricostruttive, giudizii di valore e qualificazioni giuridiche, senza veruna clarte´. Occorrerebbe che si affermasse un nuovo stylus curiae, in cui i fatti vengano elencati
(41) Si veda, exempli gratia, l’articolato proposto da Proto Pisani, Per un nuovo codice di procedura civile, in Foro it. 2009, V, 1 ss. e, in particolare, gli articoli 0.13, 2.1, 2.7, 2.16, 2.17 e 2.18. V. anche l’art. 23 d.d.l. delega Vaccarella per la riforma del, approvato dal Consiglio dei Ministri del 24 ottobre 2003. (42) Alle conclusioni delle Sezioni Unite del 2002 aderisce, ci pare, De Vita, voce cit., 848 ss. (43) Cfr. anche Balena, in Balena, Caponi, Chizzini, Menchini, La riforma cit., 34 s. V. anche Rascio, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e percio`da rinfoltire, in Corr. giur. 2010, 1246. (44) Cfr. Rimmelspacher, Zur Pru¨fung von Amts wegen im Zivilprozess, Go¨ttingen 1966, 149 ss.; Peters, Der sogenannte Freibeweis im Zivilprozess, Ko¨ln-Berlin 1962, 77 ss. Cfr. anche De Vita, voce cit., 857 s. (45) Cfr., tra molte, Cass. 19 febbraio 2009, n. 4068. Sul nostro tema v. Balena, op. ult. cit., 36 e Sassani, op. cit., 420 ss., nonche´ A.D. De Santis, Sul concetto di ‘‘non inequivocabilita`’’ della non contestazione, in questa Rivista 2008, 560 ss. (46) V. De Vita, voce cit., 853 ss.
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e numerati in una parte a se´ dell’atto difensivo, affinche´ le altre parti possano prendere posizione sulle circostanze ad esse riferibili, senza doverle ricercare riga per riga, entro una miscellanea variarum rerum di proteiformi scritti difensivi. Il tutto a pena di impossibilita` per il giudice di utilizzare lo strumento della non contestazione onde formare il proprio motivato convincimento sui fatti di causa (47). Se si riflette sull’efficacia lato sensu probatoria della non contestazione e sulla sua appartenenza al novero dei mezzi mediante i quali il giudice forma il proprio convincimento, senza necessita` di far luogo a istruttoria sui fatti non specificamente contestati, il momento in cui meglio potra` e dovra` esplicarsi la specifica e reciproca contestazione delle parti sui fatti addotti dall’avversario cadra` in coincidenza con le terze memorie di cui all’art. 183, c. 6, che rispondono alle deduzioni istrut-
(47) V. gia` la Clementina Saepe del 1306 in Briegleb, op. cit., 27. In forza del § 138 ZPO e in ossequio al Wahrheitspflicht e al Vollsta¨ndigkeitspflicht ivi imposti, le parti sono tenute ad allegare e a contestare specificamente tutti i fatti, principali e secondari, che in buona fede ritengano conformi o non conformi al vero: in caso di contestazione omessa o generica si produrra` una ficta confessio (cfr. Olzen, Die Wahrheitspflicht der Parteien im Zivilprozess, ZZP (98) 1985, 403; Bernhardt, Wahrheitspflicht und Gesta¨ndnis im Zivilprozessrecht, JZ 1963, 245 ss.; nonche´, classicamente, Lent, Wahrheitspflicht der Partei im Zivilprozess, JW 1933, 2674 ss. e la monografia di Hippel, Wahrheitspflicht und Aufkla¨rungspflicht der Parteien im Zivilprozess, Frankfurt am Main 1939, passim). Si pensi anche ai pleadings anglosassoni, volti a identificare fin dall’inizio del processo i fatti effettivamente controversi, sia pure con modalita` talora improntate a un pedestre formalismo (cfr. sul tema gia` Jacob, The Present Importance of Pleadings, in The Reform of Civil Procedural Law and Other Essays in Civil Procedure, London 1982, 243 ss.; Taruffo, Diritto processuale civile nei paesi anglosassoni, Dig. disc. priv., sez. civ., VI, Torino 1990, § 14; e, in chiave storica, Giuliani, Dalla litis contestatio al pleading-system (riflessioni sui fondamenti del processo comune europeo), in Riv. dir. proc. 1993, 954 ss.). Dopo la Woolf Reform, entrata in vigore dal 1999, il ruolo dei pleadings e` stato vieppiu` accentuato e rafforzato in funzione probatoria attraverso statements of truth, severamente sanzionati mediante contempt of court in caso di consapevole falsita` delle allegazioni: cfr., per tutti, Passanante, La riforma del processo civile inglese: principi generali e fase introduttiva, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 2000, § 11 e v., ad es., la Part 16 delle CPR sugli Statements of Case e la Part 22 sugli Statements of Truth. Per gli Stati Uniti v. le rules 8 e 10 delle Federal Rules of Civil Procedure, che impongono sintesi, schematicita` e chiarezza tanto nelle allegazioni quanto nelle specifiche contestazioni. Un importante utilizzo della tecnica della non contestazione si ha nel judgment on the pleadings, emanabile ai sensi della Rule 12(c) delle Federal Rules statunitensi, allorche´ i fatti non siano contestati, nonche´ soprattutto nel summary judgment, disciplinato dalla Rule 56 (sui quali v., sinteticamente, Taruffo, voce ult.cit., § 18). La LEC spagnola del 2000, all’art. 399, 3º co., prescrive all’attore di allegare e narrare i fatti, nell’atto introduttivo, «de forma ordenada y clara con objeto de facilitar su admisio´n o negacio´n por el demandado a contestar», con il correlativo onere di contestazione a carico del convenuto, potendo il tribunale, ex art. 405, 2º co., «considerar el silencio o las respuestas evasivas como admisio´n tacita de los hechos que le sean prejudiciales». V. gia`, peraltro e seguendo lo schema delle positiones tipiche dell’ordo iudiciarius, gli artt. 548, 549 e 690 LEC 1881. V. ora anche l’art. 3, 2º co., del d.lgs. 104/2010 (codice del processo amministrativo), secondo cui «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica».
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torie delle rispettive controparti, secondo un ordine improntato ad articula – in ossequio a tradizionale usus fori, che origina dal sistema delle positiones di impronta romano-canonica – e come si conviene affinche´ le altre parti e il giudice stesso possano, rispettivamente, prendere posizione e pronunciarsi sui mezzi di prova da assumere nel processo (48). Ciascuna parte, nella terza memoria ex art. 183, comma 6º, dovra` dunque aver cura non solo di argomentare l’irrilevanza o l’inammissibilita` delle istanze istruttorie dedotte ex adverso, come soleva avvenire sinora, ma anche esprimersi sulla verita` o falsita` degli assunti avversarii, con specifica contestazione dei fatti allegati, se e in quanto a lei riferibili. Il che non equivale, s’intende, a introdurre un surrettizio Wahrheitspflicht nel nostro sistema, bensı` piu` semplicemente un onere per le parti inteso a far conoscere le proprie ragioni e i torti dell’avversario, con dichiarazioni precise e pertinenti alla lite, di contenuto positivo o negativo delle allegazioni in fatto ordinatamente articolate dalla controparte (49). Una soluzione di tal fatta avrebbe il pregio di esigere una precisa risposta a confutazione dei nudi fatti articolati dalle altre parti in funzione probatoria, conformemente alla natura della non contestazione (oggidı` ribadita dal novellato art. 115), per di piu` entro un termine comune a tutte le parti, senza disparita` d’armi o asimmetrie di alcun genere, come s’avrebbe se si imponesse la specifica contestazione al solo convenuto e sin dal primo atto difensivo, sotto pena di preclusione, valorizzando norme tutto sommato anodine, poiche´ prive di specifica sanzione processuale, e unilaterali, poiche´ riferite al solo convenuto, quali sono l’art. 167, c. 1, l’art. 416, c. 3, e ora anche l’art. 702 bis, c. 4. Quanto all’attore, la prima memoria ex art. 183, c. 6, pare inadatta a ospitare la specifica contestazione dei fatti allegati dal convenuto nella comparsa di risposta, che´ essa dovrebbe servire soltanto a mettere a punto l’oggetto sostanziale del processo, attivita` questa che nulla ha da spartire con la finalita` lato sensu probatoria dell’onere di specifica contestazione (50). Ancor meno potrebbe astringersi l’attore a contestare specificamente le deduzioni in fatto del convenuto gia` nella prima udienza, dacche´ il verbale e` certamente inidoneo a recepire articolate controdeduzioni (v. l’art. 126). Se e` vero che si rischia, in tal modo, di appesantire il materiale di fatto introdotto dalle parti nel processo, vero e` anche che la non contestazione e` strumento di
(48) Cfr. anche Cea, La modifica dell’art. 115 e le nuove frontiere del principio della non contestazione, in Foro it. 2009, V, 268 ss., § 3.4. (49) Cfr. Mortara, Commentario cit., III, 568. (50) Consolo, Spiegazioni, cit., III, Il processo di primo grado, cit., 190 s. (v. anche Id., I nuovi art. 180-183 e 184, in Corriere giur. 2007, 1616), Briguglio, Le novita` sul processo ordinario di cognizione nell’ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile, in Giust. civ. 2009, § 4 (cui pare aderire Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed. aggiornata da F. Danovi, Milano 2009, 203, anche in nota) e Santageli, op. cit., § 3, ritengono invece che la contestazione debba intervenire al piu` tardi nella prima memoria ex art. 183. In egual senso M. Fabiani, op. cit., 1172 e De Vita, voce cit., 850. Al contrario, secondo Balena, op. cit., 776 ss., la non contestazione costituisce un comportamento rilevante solo sul piano probatorio.
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economia processuale soprattutto per il giudice, che potra` fare a meno di assumere prove costituende sui fatti non specificamente contestati. A valle delle deduzioni istruttorie di parte e delle inerenti contestazioni e repliche – nonche´ a seguito di apposita udienza, nella quale potranno essere chiariti i fatti davvero non controversi, a scanso d’ogni possibile equivoco, fissando altresı` il calendario dell’istruttoria ai sensi del novellato art. 81 bis disp. att. – il giudice potra` cogliere appieno il frutto dell’omessa o generica contestazione, procedendo a migliore e piu` accurata selezione dei mezzi di prova che occorre assumere, poiche´ vertenti su circostanze rilevanti e specificamente contestate. Peraltro, la riconduzione della non contestazione all’alveo dei fenomeni lato sensu probatorii non significa che essa sia in qualunque tempo reversibile ad nutum. La parte che non ha contestato un fatto almeno nell’ultima memoria ex art. 183, comma 6º, dovra` giustificare il successivo revirement, fornendone persuasiva spiegazione che, se non convincente, non impedira` al giudice di porre a fondamento della decisione quel fatto, ove non smentito da altre risultanze istruttorie. Soltanto una causa non imputabile, nel senso voluto dall’art. 153, consentira` a chi non abbia contestato nei termini di far marcia indietro, con l’onere altresı` di provare che il fatto anteriormente dato per pacifico, in realta`, non esiste: sicche´ la contestazione omessa o generica determina, ancor piu` che relevatio ab onere probandi, una sorta di praesumptio iuris tantum di esistenza del fatto tardivamente, o genericamente contestato (51). Per esigenze di pari trattamento, di fronte a codesti eccezionali casi di ammissibilita` di una contestazione tardiva, i termini per deduzioni istruttorie dovranno riaprirsi anche per la parte cui la mancata o generica contestazione abbia anteriormente giovato. Percio`, trascorso l’ultimo termine ex art. 183, comma 6º, non si potra` contestare per la prima volta un fatto antecedentemente non controverso, ma si avra` l’onere di addurre argomenti che spieghino perche´ un certo fatto non potesse ritenersi pacifico ovvero che l’esistenza di quel fatto, sia pure non contestato, era in realta` smentita da una prova contraria acquisita al processo. In appello nuove prove non potranno di regola entrare (v. l’art. 345) ne´ prove contrarie a fatti in precedenza non contestati potrebbero di per se´ venire addotte ex novo, se non spiegando le ragioni della pregressa non contestazione e mostrando altresı` l’indispensabilita` del nuovo mezzo richiesto ovvero che la parte ne era decaduta per causa non imputabile. 8. – La non contestazione, quale principio generale posto nel libro primo del c.p.c., riguarda non solo tutte le parti del processo, ma anche ogni forma di proce-
(51) Sulla linea interpretativa qui proposta si collocano Proto Pisani, Note sull’appello civile, in Foro it. 2008, I, 257 ss. e Cea, La tecnica, cit., 219 s. e v. anche Cass., 7 aprile 2009, n. 8389. Diversamente, Consolo, Spiegazioni, cit., III, 190 s., ritiene che la non contestazione possa essere revocata sino alla seconda memoria, mai nella terza; De Vita, voce loc. cit., esclude ogni possibile revoca. All’opposto, secondo Balena, in Balena, Caponi, Chizzini, Menchini, La riforma, cit., 37, la contestazione puo` utilmente intervenire in qualunque momento del giudizio di merito, con il divieto peraltro di cagionare ritardi attraverso nuove attivita` difensive (arg. ex art. 294, u.c.); in egual senso Reali, op. cit., 239 ss. e Sassani, op. cit., 425.
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dimento giurisdizionale, a cognizione piena (con rito ordinario o speciale) o sommaria (cautelare e non cautelare), in pubblica udienza come in camera di consiglio. Variera`, ovviamente, il regime della non contestazione, per adattarlo al modulo processuale volta a volta adoprato. Cosı`, nel rito laburistico come in quello locatizio, se al convenuto e` richiesto sin dalla memoria difensiva di prendere specifica posizione, non limitata a una generica contestazione, sui fatti dedotti dal ricorrente con finalita` probatorie (art. 416, c. 3), appare difficile onerare l’attore di una contestazione specifica e istantanea in prima udienza rispetto ai fatti affermati dal convenuto nella memoria difensiva (come, viceversa, ritengono le Sezioni Unite nell’arreˆt del 2002, quanto meno in relazione ai fatti principali), non essendo praticabile una dettagliata contestazione puramente orale in prima udienza, consegnata a verbalizzazioni necessariamente sintetiche, salvo dotarsi di metodi di videoregistrazione dell’udienza, come avviene in Spagna. Piu` ragionevolmente, la non contestazione dell’attore rispetto ai fatti addotti dal convenuto potra` emergere dall’interrogatorio libero delle parti, che in questo modulo processuale laburistico (e locatizio) ancora ha da svolgersi obbligatoriamente. La non contestazione, come tecnica contemplata generaliter dall’art. 115, comma 1º, e` destinata a operare anche nei procedimenti semplificati e sommarii, nonche´ in quelli camerali, con notevoli cautele pero` e con attenuazioni determinate dall’assenza, in siffatti procedimenti, di preclusioni istruttorie. Anche se i procedimenti sommarii, cautelari e non cautelari, non precludono normalmente il successivo ingresso a nuovi mezzi di prova (cfr., ad es., il nuovo art. 702 quater), la non contestazione non e` di per se´ incompatibile con le forme semplificate loro proprie (52). Nondimeno, del fatto assunto dal primo giudice come non contestato potra` essere dimostrata l’inesistenza anche attraverso nuovi mezzi di prova dedotti per la prima volta in seconde cure, senza preclusioni istruttorie. Talune cautele si debbono adottare anche quando il procedimento, nel suo inizio, abbia struttura oppositiva (si pensi, ad es., alle opposizioni a decreto ingiuntivo o a precetto o a sanzione amministrativa ex lege n. 689 del 1981): qui, poiche´ l’opponente e` convenuto in senso sostanziale o debitore, il suo onere di specifica contestazione si esplichera` proporzionalmente al contenuto di atti, quali il ricorso monitorio o il precetto o l’ordinanza amministrativa di ingiunzione, per loro natura oltremodo sintetici. Parimente, specie in riti eccessivamente concentrati come quello del lavoro o di opposizione a sanzioni amministrative, non si potra` non dare agio alle parti, e specialmente all’opponente, di controdedurre, contestare e articolare anche nuovi mezzi di
(52) Cfr., sia pur dubitativamente, Olivieri, Il procedimento di primo grado, in Chiarloni (a cura di), Il procedimento sommario di cognizione, in Giur. it. 2010, 731 ss.; nonche´, con rapido cenno, Dittrich, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc. 2009, 1584; Ferri, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc. 2010, 99; Bina, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc. 2010, 124; Guaglione, Il nuovo processo sommario di cognizione, Roma 2009, 265. Per un caso di non contestazione in un procedimento cautelare d’urgenza ex art. 700 v. Trib. Catanzaro, 30 ottobre 2009, cit.
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prova o produrre nuovi documenti, allorche´ le difese svolte nella memoria di costituzione dalla parte opposta, attrice in senso sostanziale, implichino uno sviluppo fattuale e argomentativo tale da esigere ulteriori, specifiche controdeduzioni (53). 9. – E` appena il caso di ricordare che la non contestazione puo` anche da sola fondare la soluzione della quaestio facti solo nel campo dei diritti disponibili: essa, in ogni caso, non genera alcun vincolo per il giudice, che´ il fatto non contestato puo` trovare smentita in altre risultanze di causa di cui si dovra` tener conto (54). Nell’ambito dei diritti indisponibili, invece, la non contestazione concorrera` con gli altri mezzi di prova a formare il convincimento del giudice, ma non bastera` da sola a fondare la sua decisione (55). Va soggiunto, sol per completezza, che la non contestazione puo` anche fornire prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad probationem tantum, la quale non impedisce alle parti di darne per pacifica in giudizio l’esistenza, pur in difetto di documento scritto. Certamente il giudice dovra` essere particolarmente cauto nell’individuare la non contestazione idonea a dar prova di un contratto che, normalmente, dovrebbe provarsi per iscritto (si pensi all’assicurazione o alla transazione): in questi casi, insomma, ci si dovra` trovare al cospetto di una non contestazione assolutamente univoca. Ad analoga conclusione, per ovvie ragioni, non puo` pervenirsi quando la forma sia imposta ad substantiam actus, non potendo un comportamento endoprocessuale delle parti tener luogo della forma richiesta per la validita` stessa dell’atto (56). 10. – La non contestazione e`, insomma, fenomeno troppo delicato e sfuggente per abbandonarlo alla discrezionalita` del singolo giudice, con il rischio che venga adoprata quale comoda via per eliminare la fatica dell’istruttoria e la responsabilita` del decidere. Ordinamenti piu` di noi e da secoli adusi all’utilizzo di tale strumento impongono con esattezza, non di rado connotata da pedanteria, l’elencazione dei fatti e la contrapposta specifica contestazione d’ognuno di essi, sia pure con il rischio, che gia` Mortara rinveniva nel Regolamento giuseppino del 1781, di un «gretto formalismo», quando si imponga ai procuratori «l’obbligo di una serie interminabile di negazioni», che´ potrebbe convertirsi in ammissione tacita «ogni accidentale dimenticanza o distrazione del difensore, o perfino del copista» (57). Il primo a esser del tutto generico e finanche ellittico e` stato il legislatore stes-
(53) Eadem ratio e` a base di Corte cost., 24 luglio 2007, n. 321, in Foro it. 2008, I, 1063, con nota di Poli e in Riv. dir. proc. 2008, 808, con nota di Delle Donne e di Gradi. (54) Proto Pisani, Allegazione dei fatti e principio di non contestazione nel processo civile, in Foro it. 2003, I, 606; Carratta, op. cit., 328 ss.; Taruffo, La semplice verita`, cit., 133 s. (55) V. Balena, La pseudo-riforma cit., 776 ss.; Briguglio, op. cit., § 4; M. Fabiani, op. cit., 1171; Cea, La tecnica cit., 203 s.; cfr. anche Rascio, Note brevi sul ‘‘principio di non contestazione’’ (a margine di un’importante sentenza), in Dir. e giur. 2002, 87. (56) V. Cea, op. ult. cit., 220; Trib. Piacenza, 2 febbraio 2010, cit. (57) Mortara, Manuale della procedura civile, Torino 1929, 394 s.
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so nel dettare il nuovo testo dell’art. 115, che abbandona all’interprete l’intero onere di rinvenire una coerente ed equilibrata disciplina della non contestazione. A questa non puo` che preludere un nuovo stylus curiae, che veda la semplificazione schematica degli atti e la corrispondente possibilita`, anzitutto, per le controparti di prender posizione su fatti ordinatamente articolati e, poi, per il giudice di identificare con chiarezza quelli non bisognevoli di prova perche´ non specificamente contestati, ad instar dei pleadings anglosassoni. A siffatta semplificazione, in iure quo utimur e nel rito ordinario di cognizione, rispondono le memorie istruttorie ex art. 183, comma 6º, n. 2 alle quali le altre parti potranno replicare con la terza e ultima memoria, seguendo altrettale schematico ordine, contestando e specificamente confutando le avversarie allegazioni in fatto, quali definitivamente prospettate quoad probationem, cioe` nel contesto in cui la non contestazione piu` esattamente si situa. E` questo, a ben vedere, un metodo che evoca le positiones della tradizione processuale romano-canonica, redatte per articula ai quali si contrappongono specifiche responsiones, merce´ una sorta di reciproco interpello delle parti sui fatti rilevanti: l’omessa o generica responsio della controparte ad alcuni articula sollevera` in tal modo il ponens dall’onere di provare i fatti addotti, conformemente alla funzione propria, sin dalle remote origini, delle positiones. L’onere di specifica contestazione costituirebbe, in tal modo, un’estrinsecazione di quell’ars opponendi et respondendi che meglio garantisce la dialettica tra le parti su un piano di reciprocita` e di eguaglianza. Essa appartiene naturaliter all’ordo probationum, sia pure latamente inteso, poiche´ assume significato e rilevanza nel contesto probatorio del processo civile, quale metodo di ricerca della verita` probabile mediante esercizio di phronesis dialogica (58). Meglio avrebbe fatto il legislatore a introdurre, oltre ad un vero procedimento contumaciale di applicazione generalizzata, una forma di interpello tra procuratori su fatti specificamente articolati (59) e a restituire a nuova vita la ficta confessio a seguito di mancata risposta della parte all’interrogatorio formale deferitole, intervenendo sul testo dell’art. 232. Si sarebbe in tal modo rispettato l’ordine isonomico di un processo che voglia davvero chiamarsi «giusto», perche´ basato su migliori e piu` precise simmetrie, appieno coerenti con il principio di parita` delle armi. Norme come l’art. 167, comma 1º, o l’art. 416, u.c., pur sopravvissute all’introduzione della non contestazione nel corpo dell’art. 115 quale principio generale del nostro pro-
(58) Cfr. Giuliani, voce Prova in genere (filosofia del diritto), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, 518 ss.; Id., L’ordo judiciarius medioevale (riflessioni su un modello puro di ordine isonomico), in Riv. dir. proc. 1988, 598 ss.; Picardi, Audiatur et altera pars – Le matrici storico-culturali del contraddittorio, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 7 ss.; Id., La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano 2007, 233 ss. Sotto tale profilo il malgoverno della tecnica della non contestazione da parte del giudice del merito e` censurabile in Cassazione soltanto per vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c. (v. pero`, Santangeli, op. cit., § 10, che ammette la censurabilita` anche ex art. 360, n. 4, c.p.c. per error in procedendo). (59) Come pure era stato proposto da Balena, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verita`, in Giust. proc. civ. 2006, 56.
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cesso, ed anzi testualmente riprese dall’art. 702 bis, comma 4º, mostrano ancora di ispirarsi a un ordine asimmetrico, per nulla rispettoso della paritas partium. In un contesto moderno e autenticamente europeo si deve, dunque, auspicare lo spontaneo sorgere, attraverso un confronto dialogico tra studiosi e operatori del processo civile, di un nuovo stylus curiae rationalis, plasticamente e agilmente perfettibile: esso, quale frutto maturo di riflessioni polifoniche, come soleva dirsi dell’ordo iudiciarius medievale, non potrebbe venire sovvertito neppure «dal Papa o dall’Imperatore», a pena di rendersi responsabili di una perversio ordinis, contraria ai canoni di ragione e del tutto incompatibile con i principii del giusto processo civile. Alberto Tedoldi Professore aggregato nell’Universita` di Milano
STORIA E CULTURA DEL PROCESSO
UN IDIOMA CORIACEO: L’ITALIANO DEL PROCESSO CIVILE (*)
1. – In un convegno sui mutamenti che l’italiano giuridico sta subendo sulla spinta di lingue straniere (e naturalmente si pensa soprattutto all’inglese), chi e` chiamato a parlarne con riguardo al linguaggio del processo civile ha motivo di trovarsi in imbarazzo, perche´ i mutamenti di questo tipo, relativamente a questo nostro particolare idioma, non sembrano abbondanti ne´ molto significativi. Cio` potrebbe sembrare strano, dato che i nomi stessi che designano in via alternativa la disciplina normativa del processo civile ovvero la nostra materia come oggetto di studio – procedura civile, diritto processuale civile – sono entrambi di matrice straniera. Procedura civile e` una denominazione francese, proce´dure civile, acquisita all’italiano giuridico solo all’epoca delle codificazioni preunitarie (qualche volta nella forma ibrida di processura, come nel codice parmense di Maria Luigia). Prima si parlava di practica, o praxis, o si utilizzavano in vario modo il sostantivo iudicium o l’aggettivo iudiciarius, come attributo di processus, o piu` anticamente di ordo. Quanto a diritto processuale civile, si tratta, come e` noto, della traduzione letterale di Zivilprozessrecht, ed e` un prodotto emblematico del fascino esercitato dalla dottrina processualistica di lingua tedesca del diciannovesimo secolo su quella italiana, da Chiovenda in poi (1). Le due denominazioni sono comunque sopravvissute fino ad oggi, connotando approcci diversi alla disciplina del processo: esegetico e orientato alla pratica quello della procedura civile, sistematico e dogmatico quello del diritto processuale civile. E non sarebbe nemmeno pensabile la sostituzione di queste espressioni con quelle corrispondenti inglesi, dato che civil procedure o procedural law sono a loro volta francesismi, o magari italianismi, che hanno sostituito solo in anni abbastanza recenti la parola practice (a sua volta di origine latina), in concomitanza
(*) E` il testo di una relazione tenuta il 1º ottobre 2010 all’Accademia della Crusca, in un convegno di linguisti e giuristi sul tema L’italiano giuridico che cambia. (1) Cfr. S. Satta, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1964, e poi in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, 100 ss.
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con l’attribuzione di dignita` accademica a una materia per l’addietro ritenuta appunto esclusivamente pratica (2). 2. – Nel processo civile, o con riferimento al processo civile, e` inevitabile che si parli, o si scriva, di due cose diverse: del merito della controversia, oppure del processo come tale, cioe`, come dicono gli addetti ai lavori, del rito. Nel primo ambito, i mutamenti dell’italiano per influssi forestieri certamente ci sono, ma riguardano la lingua del diritto privato, o piu` in generale del diritto sostanziale. E cosı` anche in sede contenziosa capita naturalmente che si parli, quando e` necessario, di franchising, di lease-back, di mobbing, di closing, di outsourcing, di opzioni put e call, e via dicendo. Ma questa appunto e` la res in iudicium deducta. Le cose stanno diversamente quando si parla o si scrive di nozioni e questioni processuali in senso stretto. Qui sarebbe allora opportuno, mi sembra, distinguere sommariamente tra almeno quattro tipi di «italiano processuale»: il linguaggio del legislatore, quello della dottrina, quello degli scritti difensivi e delle sentenze, e quello parlato dagli avvocati, soprattutto tra di loro. Mi limitero`, peraltro, a qualche rilievo sul lessico e sulla morfologia, tralasciando i piu` impegnativi profili sintattici. Tutti questi tipi di italiano processuale (civile) sono a mio avviso abbastanza impermeabili alle influenze straniere, ma in misura e con modalita` diverse. 3. – Partendo per cosı` dire dal basso, cominciamo con l’italiano giuridico «processuale» parlato dagli avvocati: con il quale posso dire di avere qualche familiarita`, dopo quasi mezzo secolo di esercizio della professione forense. Qui gli influssi della lingua inglese mi sembrano davvero trascurabili, tanto piu` se paragonati, ancora una volta, a quelli relativi all’italiano giuridico «sostanziale». Ed infatti: si sa che gli avvocati dei grandi studi associati internazionali, che si occupano prevalentemente di diritto dell’impresa o della finanza, e, come spesso dicono con sussiego, di M&A (Mergers and Acquisitions), sono quotidianamente impegnati, beninteso non da soli ma in team, in qualche meeting, o conference call, o nella stesura dell’ennesimo draft di uno Shareholders’ Agreement, e implementano tutto quello che gli passa per le mani. Ma non accade mai, mi sembra, che gli avvocati che si occupano artigianalmente del contenzioso, cioe` (per definirli a loro insaputa con un termine inglese) i litigators, chiamino hearing l’udienza alla quale dovranno assistere il giorno dopo, o brief la comparsa che stanno scrivendo, o «circostanziale» la prova presuntiva. Se mai, il desiderio di apparire agli occhi dei profani come iniziati a riti mi-
(2) Un prodotto tipico di questa evoluzione e`, gia` nel titolo, il volume di Neil Andrews, Principles of Civil Procedure, London 1994. Ma v. gia` il classico saggio storico-comparatistico di R.W. Millar, The Formative Principles of Civil Procedure, in Illinois law rev., XVIII, 1923, e poi in A History of Continental Civil Procedure, a cura di A. Engelmann et al., Boston 1927, 3 ss.
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steriosi e formule esoteriche si manifesta, in questi avvocati, con l’adozione di un gergo ricco di sigle, di numeri e di quelli che i linguisti chiamano, credo, deverbali. Si parla di CTU e di CTP (consulente tecnico d’ufficio e di parte); di ATP (accertamento tecnico preventivo); oppure si decide di «andare a pc» (precisazione delle conclusioni). E poi: «abbiamo dovuto notificare con il 143»; «facciamo un 309»; «mi hanno rovinato le vacanze con un 700 a ferragosto» (3). Quanto ai deverbali, proliferano – oltre naturalmente alle notifiche – le relate e il soddisfo, e posso giurare di avere sentito parlare, in una discussione davanti alla Corte di cassazione, di deliba (in luogo di delibazione), a proposito del riconoscimento di una sentenza straniera. Di inglese comunque nessuna traccia, come del resto e` logico, non avendo di solito i nostri litigators occasioni di contatto con le nozioni e le situazioni del contenzioso anglosassone. Non fa eccezione la sigla ADR, dato che per gli avvocati italiani non significa alternative dispute resolution (metodi alternativi di risoluzione delle controversie), ma continua a voler dire «a domanda risponde», come si legge abitualmente nei nostri verbali (4). 4. – Vediamo ora come scrivono di cose processuali i nostri avvocati nelle loro memorie e i nostri giudici nei loro provvedimenti. Qui l’italiano giuridico «processuale», volendosi ripulire e nobilitare, da un lato tende ad allinearsi ai modelli piu` generali del «burocratese» (gia` largamente e autorevolmente studiati ed esecrati, nonche´ periodicamente oggetto di «gride» governative e programmi di riabilitazione) (5); dall’altro si arricchisce ulteriormente, rispetto al parlato, di arcaismi e neologismi specificamente forensi e giudiziari, e di espressioni latine. Parole usate diffusamente nel foro, ma comuni al linguaggio della pubblica amministrazione, sono per esempio: prosieguo; pedissequo; ottemperare; ripetere (nel senso di: «chiedere in restituzione»). Ma piu` in generale si puo` dire che anche nella prosa degli avvocati e dei giudici rivive quel mondo incantato e surreale, immaginato dai burocrati, dove nessuno fa niente ma tutti «provvedono a fare»; nessuno va da nessuna parte ma tutti «si recano»; nessuno presta soldi ma qualcuno li «eroga»; nessuno mangia, ma tutti «consumano» alimenti di vario genere. Molte altre espressioni sono invece specificamente forensi e giudiziarie. Il processo non si inizia, ma si radica oppure si incardina, con la evocazione in giudizio del convenuto, come se si trattasse del fantasma di Napoleone; l’esecuzione forzata si svolge in odio al debitore esecutato; contro le sentenze sfavorevoli si pro-
(3) Cfr. M. Fabiani, La lingua italiana nella redazione degli atti giudiziari, in Studi in onore di Modestino Acone, Napoli 2010, 901 ss., 908, nota 39. (4) In proposito, ampiamente, P. Bellucci, A onor del vero. Fondamenti di linguistica giudiziaria, Torino 2002, 112 ss. (5) Si vedano il Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, Libreria dello Stato, 1993, e il Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, a cura di A. Fioritto, Bologna 1997, entrambi patrocinati dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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pongono gravami e si formulano accorate doglianze: il piu` delle volte disattese dai giudici delle impugnazioni. Chi fa le spese di questa sciagurata retorica e` soprattutto l’avversario di chi scrive, che si definisce (parlando di se´ stesso in terza persona, come Giulio Cesare) il comparente o il deducente: dato che le tesi della controparte, o meglio ancora i suoi assunti, sono sempre destituiti di fondamento, privi di pregio, gratuiti, inconferenti, pretestuosi, apodittici, ultronei e defatigatorii. Mentre le sue enunciazioni di fatto sono per lo piu` fantasiose o inveritiere (eufemismi per non dire false) e quelle di diritto sono asserite o pretese: «la pretesa invalidita` del contratto», «l’asserita prescrizione del credito». Con l’orrendo seguito degli avverbi asseritamente e pretesamente (che peraltro – potremmo dire per consolarci – corrispondono all’inglese allegedly). Quanto alle istanze rivolte dalla controparte al giudice, esse sono inesorabilmente inammissibili, improcedibili, irrituali o addirittura irritue (forse derivato inconsapevolmente per assonanza da irrigue). Gli avvocati emiliani aggiungono per prudenza: «o come meglio», che e` una riedizione sintetica dell’antica clausula salutaris. Conseguentemente, l’accoglimento anche solo parziale di quelle istanze e` sempre un’ipotesi denegata, o non creduta, che comunque lascia sopravvivere qualche difesa subordinata, o gradata, del comparente. Poi, naturalmente, c’e` una profusione di «latino processuale», retaggio della tradizionale formazione umanistica dei nostri avvocati e dei nostri magistrati (6). In ogni domanda, prima della vocatio in ius, devono essere individuati il petitum e la causa petendi; qualsiasi provvedimento cautelare presuppone il fumus boni iuris e il periculum in mora; la mutatio libelli non e` ammessa, ma l’emendatio e` guardata con indulgenza; nelle cause per risarcimento dei danni c’e` il giudizio sull’an debeatur e quello sul quantum debeatur, ovvero, piu` brevemente, sull’an e sul quantum; in appello lo ius novorum subisce varie limitazioni. Ogni atto difensivo deve concludersi con la mitica formula prudenziale salvis iuribus, talvolta italianizzata con salvezze illimitate (7). Ancora una volta assenti, invece, o rarissime, le parole straniere. Solo qualche avvocato eccezionalmente colto parla del re´virement della giurisprudenza della Corte Suprema, magari rispetto a un leading case, o accusa di forum shopping l’avversario che ha proposto la causa dinanzi a un giudice di dubbia competenza ma a lui piu` gradito. 5. – Questo attaccamento degli avvocati a un bagaglio lessicale cosı` artificioso e cosı` desueto e`, a mio avviso, giustificato dalla natura rituale e ludica del processo, che, come tutti i riti e tutti i giochi, esige una terminologia costante, sintetica e univoca: la stessa esigenza che, per fare un esempio storico, e` stata all’origine della
(6) Si veda l’ampia rassegna di I. Bellina, Salvis iuribus. Il latino degli avvocati, Torino 1992: per la procedura civile, in particolare, 123 ss. (7) M. Fabiani, op. cit., 710, nota 52.
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lunga e tenace sopravvivenza, in Inghilterra, del c.d. law-french, il francese deformato degli avvocati e dei giudici britannici, oggetto qualche anno fa di una raffinata indagine monografica, comprensiva di glossario, di John H. Baker (8). Per gli avvocati del contenzioso, il loro sgraziato linguaggio e` una sorta di armatura, o di cassetta degli attrezzi, con cui essi difendono la propria identita` socioculturale (9) e la propria funzione tipica, che e` infatti quella di «tradurre» in un idioma per l’appunto sintetico e univoco, e almeno parzialmente formalizzato, le «narrazioni» che hanno raccolto, in termini piu` prolissi, variegati e sconnessi, dalla voce dei clienti, o dalle carte che questi hanno rovesciato sulla loro scrivania. Il che poi significa, in ultima analisi, trasportare i conflitti dalla loro dimensione reale a un piano artificiale e metaforico: che e` gia` di per se´ un modo per risolverli, o almeno per esorcizzarli. Quanto ai giudici, sul linguaggio delle sentenze sono stati scritti come si sa numerosi e importanti saggi (10): esso mi sembra pero` meritevole di attenzione specifica soprattutto sotto il profilo sintattico e piu` in generale retorico. Mentre il lessico e la morfologia sono molto simili, se non identici (per esempio, molti giudici abusano del verbo appalesarsi, e la Corte di cassazione dell’aggettivo ontologico) a quelli degli avvocati. E del resto questa coincidenza e` imposta, potremmo dire, dal principio della c.d. corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: come illustra mirabilmente Rabelais nell’episodio di Pantagruel giudice, che, dopo avere pazientemente ascoltato le arringhe in puro stile nonsense dei due gentiluomini parigini in lite, pronuncia la propria sentenza nel medesimo incomprensibile idioma, riscuotendo il plauso generale (11). 6. – Alla tendenziale chiusura del nostro linguaggio forense e giudiziario agli influssi stranieri contribuisce forse anche un altro fattore piu` banale, o meno nobile, che e` la insufficiente conoscenza delle lingue da parte degli «operatori del processo», per lo piu` privi, come si e` detto, delle esperienze transnazionali tipiche dei business lawyers. Mi e` capitato spesso di dire ai miei studenti che la cultura media o anche superiore italiana sembra essere passata gradualmente dalla mediocre conoscenza del francese all’ignoranza dell’inglese, con il quale pure tutti ostentano grande familiarita`, compresi gli studenti che agli esami parlano degli effetti degli atti processuali che operano ex tanc e di quelli che operano soltanto ex nanc. Una malinconica conseguenza di questa situazione e` che, nel processo civile, si ponga molto frequentemente il problema della traduzione dei documenti, prodot-
(8) J.H. Baker, Manual of Law French, 2a ed., Aldershot 1990. (9) Sul conservatorismo del linguaggio giuridico, in generale, cfr. B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Torino 2001, 153 ss., spec. 177 ss. (10) Per i riferimenti v. le note di M. Fabiani, op. cit.. Adde il saggio di L. Mossini, La lingua delle sentenze, in Un equivoco piano di studi, Milano 1979, 65 ss. (11) V. i capitoli X-XIII del Pantagruel, e B. Cavallone, «Comme vous aultres, Messieurs» (Franc¸ois Rabelais teorico del processo e del giudizio), in questa Rivista 2008, 433 ss.
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ti dalle parti come mezzi di prova, anche quando sono scritti in francese o in inglese: nonostante che la conoscenza del francese fosse addirittura presunta nei pubblici funzionari, fino a pochi decenni addietro, per esempio dalle leggi tributarie degli anni ’20 (12), rimaste in vigore fino ai primi anni ’70; e che l’inglese sia ormai la lingua di tutti i rapporti commerciali e contrattuali transnazionali. La necessita` della traduzione naturalmente determina costi non indifferenti, in termini sia di tempo che di denaro: tanto piu` quando capita che il giudice, per non dichiarare ufficialmente le proprie insufficienti capacita` linguistiche (procedendo allora, se mai, alla nomina di un traduttore ai sensi dell’art. 123 c.p.c.), interpreti l’art. 122 («in tutto il processo e` prescritto l’uso della lingua italiana»), nel senso che la stessa produzione dei documenti stranieri sia inammissibile se non accompagnata da una «traduzione asseverata»: interpretazione assurda, dato che la norma ovviamente si riferisce agli atti processuali, non certo ai documenti formati prima e fuori del processo (13). Qui sarebbe poco incoraggiante un raffronto con cio` che accade nei Tribunali della vicina Svizzera: dove gli atti processuali sono redatti nella lingua del foro cantonale, ma le altre due lingue confederali sono usate telles quelles nelle citazioni di dottrina e di giurisprudenza, e nessuno di solito si preoccupa di tradurre i documenti scritti in inglese. E d’altra parte questo naturale poliglottismo elvetico non esclude affatto la sopravvivenza di espressioni squisitamente regionali. E cosı` per esempio in italiano processuale ticinese (14) la sentenza non passa ma cresce in giudicato (che e` poi un germanismo: in Rechtskraft erwachsen); ai testimoni si fanno domande completive; le spese processuali sono le ripetibili; il sostantivo ricorso partorisce lo strano aggettivo ricorsuale. 7. – Per l’italiano giuridico della dottrina del processo civile il tema degli influssi stranieri si pone in termini un po’ diversi. Premesso che un linguaggio tipico della dottrina processualcivilistica come tale probabilmente non esiste, mi sembra che si debba riconoscere ai cultori della nostra disciplina, in generale, la capacita` di scrivere con eleganza e accuratezza. Credo che cio` sia dovuto soprattutto all’esempio dei grandi maestri della materia. Chiovenda, che in gioventu` aveva pubblicato poesie non indecorose di stampo carducciano (15), aveva una prosa scientifica brillante, che lasciava trasparire
(12) L’art. 78, r.d. 30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di registro) prescriveva che «ove l’atto non sia scritto in lingua italiana, non e` registrato se non vi si unisca una versione italiana fatta da un perito traduttore iscritto presso il tribunale... E` fatta eccezione per gli atti scritti all’estero in lingua francese». (13) Su questa problematica credo sia ancora attuale quanto dicevo in Discrezionalita` del giudice civile nella nomina del traduttore e dell’interprete, in questa Rivista 1968, 271 ss. (14) Una breve rassegna di espressioni giuridiche ticinesi si trova in S. Savoia, E. Vitale, Lo Svizzionario. Splendori, miserie e segreti della lingua italiana in Svizzera, 3a ed., Bellinzona 2008, 27 ss. (15) Cfr. F. Auletta, Giuseppe Chiovenda poeta, in Giusto proc. civ. 2007, 739 ss., e in
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una passione anche estetica per la teoria del processo («questa oralita`, cosı` bella e ragionevole...»). Carnelutti, protagonista delle aule giudiziarie italiane per un sessantennio, aveva una scrittura fiammeggiante, ricca di metafore icastiche (come quando diceva che il processo penale e` piu` nobile del civile, perche´ l’uno si occupa dell’essere, l’altro dell’avere). Satta come si sa era un grande letterato, autore tra l’altro di uno dei maggiori romanzi italiani del Novecento. Lo stile del mio maestro Liebman, del quale mi e` capitato di parlare e scrivere qualche anno fa (16), in occasione del centenario dalla nascita, possedeva alcuni dei caratteri «calviniani» della buona letteratura, come la leggerezza, la velocita` e l’esattezza. Ma soprattutto, credo, fu l’italiano brillante e raffinato di Piero Calamandrei, a sua volta oratore memorabile e letterato notevolissimo, a costituire un modello per le successive generazioni di processualisti. Ed e` un modello particolarmente significativo per quanto ora ci interessa, perche´ Calamandrei, pur nutrito di cultura storica e politica francese (si pensi alla sua monumentale opera sulla Cassazione) e di cultura giuridica tedesca (basterebbe leggere certi suoi scritti «minori» come i due dedicati alle impervie dottrine di Goldschmidt), rimase sempre impermeabile, forse anche perche´ toscano e orgoglioso di esserlo, agli influssi di quelle culture sotto il profilo specificamente linguistico. Citava naturalmente gli scrittori francesi e quelli tedeschi nelle lingue originali, ma la sua prosa rimase sempre inflessibilmente fiorentina. L’importanza di questo modello fu probabilmente rafforzata, credo anche di poter dire, dal ruolo determinante che Calamandrei ebbe nella stesura del codice di procedura civile del 1940, a cominciare dalla paternita` esclusiva della Relazione ministeriale al codice, solo firmata da Dino Grandi (17), che meriterebbe di essere inclusa nelle antologie scolastiche, indipendentemente dai suoi contenuti teorici e programmatici. 8. – Le successive generazioni di processualisti, fino ad oggi, mostrano un’apprezzabile propensione alla comparazione, e dunque alla citazione di testi normativi e dottrinali di Paesi e lingue diversi: naturalmente con qualche variante rispetto ai maestri. I riferimenti alla cultura germanica sono certamente diminuiti, circoscrivendosi per lo piu` ai grandi scrittori del diciannovesimo e dell’inizio del ventesimo secolo (i cui insegnamenti sono stati metabolizzati dalla dottrina italiana forse ancor piu` che dagli studiosi tedeschi di oggi). Il francese rimane, ma con riferimento all’evoluzione della normativa del processo civile piu` che alla dottrina. In compenso l’attenzione dei processualisti italiani si e` rivolta abbastanza
precedenza B. Cavallone, Quell’agave sfiorita. Poesie giovanili di Giuseppe Chiovenda in Il nuovo Raccoglitore, 24 marzo 1985, n. 54, suppl. a La Gazzetta di Parma. (16) B. Cavallone, Lo «stile» di Enrico Tullio Liebman, in Enrico Tullio Liebman oggi, Milano 2004, 119 ss. (17) Cfr. le fondamentali indagini di Franco Cipriani: Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, Napoli 1992, 13 ss.; Id., La relazione al Re scritta da Calamandrei e firmata da Grandi, in Piero Calamandrei e la procedura civile, 2a ed., Napoli 2009, 141 ss.
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intensamente, negli ultimi decenni, anche ai sistemi processuali anglo-americani e alla relativa dottrina, meno familiari alle generazioni precedenti non solo per la lontananza storico-politica e culturale di quei sistemi dal nostro, ma anche per la scarsa o del tutto assente conoscenza dell’inglese presso i grandi maestri della disciplina. Ora le cose sono naturalmente cambiate, e le nozioni e gli istituti del processo anglosassone sono ben noti a buona parte della nostra dottrina, che ne trae spunti significativi, sia dal punto di vista teorico che nelle eterne discussioni sulla riforma del processo civile. Mi sembra pero` di poter dire che questo fenomeno continua ad appartenere al piano comparatistico, senza effetti rilevanti sugli usi linguistici. Voglio dire che i nostri processualisti usano termini processuali inglesi soltanto per riferirsi alle pertinenti nozioni o istituti dei processi anglo-americani, ma non capita mai, o capita molto raramente (come nel caso, lo abbiamo visto, degli avvocati, quali per lo piu` sono, del resto, i teorici del processo), che essi chiamino pleadings le allegazioni o le eccezioni o le c.d. memorie del 183, o discovery l’esibizione dei documenti, o affidavit, che poi e` latino, la testimonianza scritta. Ne´ potrebbero farlo, perche´ si tratta di cose diverse, connesse solo da parentele di vario grado. E l’esempio inglese non e` finora riuscito nemmeno a ricondurre a una denominazione comune la giurisdizione e la competenza, che noi continuiamo a considerare (direbbe la Cassazione) cose ontologicamente diverse. Tutt’al piu` si e` introdotto il neologismo, di suono pero` aulico, competenza giurisdizionale, con riguardo ai rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, ovvero tra giurisdizione italiana e giurisdizione straniera. Questa scarsa permeabilita` dell’italiano processuale agli influssi stranieri anche a livello dottrinale e` forse rafforzata, poi, dalla posizione privilegiata che la dottrina processual-civilistica italiana ha occupato dai primi decenni del ventesimo secolo in questo settore degli studi giuridici, succedendo a quella precedente di lingua tedesca e raccogliendone, come gia` si e` detto, la grande lezione. Una delle manifestazioni di questa posizione di privilegio e` l’influenza che l’italiano processuale civile ha esercitato ed esercita sugli usi linguistici degli studiosi spagnoli, portoghesi e soprattutto di quelli ibero-americani, vero e vivacissimo esercito di aficionados del Derecho procesal, o del Direito processual, che vede nella dottrina italiana un costante punto di riferimento. 9. – Quanto sia resistente e poco permeabile l’italiano del processo civile, lo si puo` vedere infine – e vengo cosı` a dire del linguaggio del legislatore – considerando qualcuno dei testi normativi di origine comunitaria o di ispirazione straniera emanati in anni recenti. Partiamo dalla legislazione comunitaria. Nel Regolamento CE n. 1896/2006, che istituisce il «procedimento europeo di ingiunzione di pagamento» a tutela dei crediti c.d. transfrontalieri, effettivamente si trova qualche termine non del tutto consueto nelle nostre leggi processuali, ma non mi sembra che vi si possa riconoscere un’univoca tendenza all’imitazione o all’adozione di usi linguistici stranieri. Per esempio: all’art. 5 e altrove si parla di giudice d’origine per designare
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l’organo giudiziario che ha emesso l’ingiunzione, e potrebbe essere, credo, tanto un anglismo quanto un francesismo. All’art. 7, in compenso, si parla di «circostanze invocate a base del credito», che e` vecchio lessico forense italiano. Ed e` anzi singolare che anche il testo inglese lo abbia fatto proprio, usando la parola invoked, che in inglese giuridico mi sembra anomala. All’art. 9 troviamo una domanda irricevibile, laddove, in italiano processuale, si direbbe inammissibile, o eventualmente improcedibile. Si tratta di un francesismo (irre´cevable), al quale non aderisce il testo inglese, che usa inadmissible. Agli artt. 11 e 12 le condizioni per la pronuncia dell’ingiunzione possono essere soddisfatte oppure non soddisfatte: espressione insolita in italiano, che pero` non si capisce bene di dove derivi, dato che il testo inglese dice met o not met, e il testo francese re´unies o pas re´unies. Troppo poco, comunque, perche´ vi si possa cogliere il segno di un mutamento significativo del linguaggio delle nostre leggi processuali. Ancor meno un siffatto orientamento si potrebbe vedere nell’edizione italiana del Regolamento CE n. 861 del 29 gennaio 2007, istitutivo di un «procedimento europeo per le controversie di modesta entita`» (si intende, transfrontaliere), che pure e` successivo solo di poche settimane a quello sull’ingiunzione europea. Qui gia` nel titolo ritorna l’italiano processuale piu` aulico. «Controversie di modesta entita`» e` un endecasillabo tronco (il testo inglese e quello francese hanno definizioni piu` brevi e sobrie: small claims e petits litiges). Inoltre e` tipico dell’italiano «ufficiale», mi sembra, riferire l’aggettivo a un secondo sostantivo astratto anziche´ direttamente a quello che si vuole qualificare: «di modesta entita`» invece che «modeste». Ma e` interessante proprio questo aggettivo: non piccola o minima o ridotta, ma per l’appunto modesta, un understatement eufemistico, scelto forse per non offendere quelli che litigano per poche centinaia di euro. Dopo di che, il testo stesso del Regolamento esibisce caratteri oggettivamente italianizzanti, sia nel linguaggio che nel contenuto. Basterebbe considerare la disciplina del procedimento, descritta in perfetto burocratese negli articoli 4 e 5, e il suo farraginoso sviluppo attraverso un diluvio di adempimenti formali e di moduli. 10. – Considerazioni in qualche modo analoghe possono farsi per la disciplina della class action, come si sa non comunitaria ma di ispirazione americana, introdotta in Italia con il nuovo art. 140 bis del c.d. codice del consumo. La rilevanza teorica dell’innovazione e il clamore mediatico che l’ha accompagnata potrebbero far pensare che essa sia stata terreno fertile per l’uso, da parte del nostro legislatore processuale, di lemmi anglosassoni o di vistosi anglismi. Ma non e` cosı`. Innanzitutto, quando l’istituto e` stato introdotto con la l. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), esso portava il nome aulico di «azione collettiva risarcitoria»: dodici sillabe invece delle tre dell’originale. Mentre l’espressione «azione di classe» e` stata introdotta nella rubrica e nel testo dell’articolo solo con la l. 23 luglio 2009, n. 99. Per il resto, comunque, il linguaggio delle norme, anche dopo le ultime e pur significative modificazioni del loro contenuto, rimane un classico ed elaborato italiano processuale. Si veda ad esempio il comma 3: «I consumatori e utenti che intendano avva-
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lersi della tutela di cui al presente articolo aderiscono all’azione di classe, senza ministero di difensore. L’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo (...)»; o il comma 9, che contiene la disciplina di quella che nel processo americano e` la certification della classe, e pero` non usa questo termine, ne´ una sua riconoscibile traduzione, ma esprime il concetto con un contorto periodo che potrebbe essere stato tratto da una legge di cento anni fa. Analogamente, nessuna norma parla di opt-in o di opt-out, o comunque usa il verbo optare o il sostantivo opzione. Si parla invece sempre di adesione, e si fa «salva l’azione individuale dei soggetti che non aderiscono all’azione collettiva» (comma 14): il che tra l’altro mostra come la vera class action sia estranea alla mentalita` del nostro legislatore, che continua a pensarla come un vasto litisconsorzio attivo. Solo un cenno, infine, al recentissimo d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che, in attuazione dell’art. 60 della legge delega n. 69 del 2009 in materia di ulteriori (ennesime) riforme della giustizia civile, e della precedente direttiva comunitaria n. 52 del 2008, disciplina la c.d. mediazione come metodo alternativo di risoluzione delle controversie. Anche qui la rubrica legis e` eloquente: «Mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali». Per definire un nuovo strumento agile e informale di risoluzione delle liti, si adotta un titolo aulico e lunghissimo. Dal punto di vista linguistico, infatti, di nuovo qui c’e` soltanto l’uso della parola mediazione con un significato diverso da quello per noi tradizionale. La mediazione, nel nostro codice civile, e` un contratto tipico, e il mediatore, ai sensi dell’art. 1754 c.c., e` «colui che mette in relazione due o piu` parti per la conclusione di un affare». Secondo il glossario contenuto nell’articolo 1 della nuova legge, invece, la mediazione e` «l’attivita`, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o piu` soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa». Come si vede, dunque, si vuol parlare qui di mediation (tipica ADR dei Paesi anglosassoni), e la traduzione letterale del termine da` luogo a un fenomeno analogo a quello, ben noto, della transazione, che, intesa come traduzione letterale di transaction, designa qualunque negozio giuridico di contenuto patrimoniale e non il contratto tipico previsto dagli articoli 1965 e ss. del codice civile (18). Per il resto, il contenuto della nuova legge e` soltanto la descrizione, in italiano giuridico ufficiale, di uno strumento di conciliazione delle controversie, piu` elaborato e di applicazione piu` ampia rispetto a quelli preesistenti. In conclusione, come dicevo all’inizio, l’italiano del processo civile sembra piu` coriaceo, nel resistere all’influsso di lingue straniere, di altri tipi di italiano giuridico.
(18) V. sub voce il Glossario d’emergenza, in calce a Falsi amici e trappole linguistiche. Termini contrattuali anglofoni e difficolta` di traduzione, a cura di S. Ferreri, Torino 2010, 263.
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Se ne potrebbe trarre la conferma che, tra le istituzioni del diritto, quelle processuali, come rileva Oscar G. Chase, sono le piu` saldamente legate alla cultura di un popolo (19). Dunque, verosimilmente, anche alla sua lingua. Bruno Cavallone
(19) O.G. Chase, Law, Culture and Ritual. Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New York 2005, passim.
DIBATTITI ` NEL PROCESSO CIVILE: LA RICERCA DELLA VERITA PROFILI EVOLUTIVI IN TEMA DI PROVA TESTIMONIALE, CONSULENZA TECNICA E FATTO NOTORIO
Sommario: 1. La polemica tra «verifobici» e «cultori della verita`»: un approccio esegetico al problema della ricerca della verita` nel processo civile. – 2. La ricerca della verita` e la prova testimoniale: l’indagine sulla credibilita` del teste. – 3. Segue: le modalita` di assunzione dei testimoni. – 4. Segue: la necessita` di una riforma delle modalita` di assunzione della prova testimoniale. – 5. La consulenza tecnica e la sua acquisita centralita`. – 6. Segue: consulenza, prove direttamente acquisite e preclusioni processuali. – 7. Il fatto notorio e le notizie raccolte in via informatica. – 8. Conclusioni.
1. – Un recente libro di Michele Taruffo (1), la vivace replica di Bruno Cavallone (2) e la successiva «controreplica» dello stesso Taruffo (3), hanno rinfocolato la polemica, che evidentemente covava sotto la cenere, tra i «cultori della verita`» processuale e i «verifobici» (come si autodefinisce scherzosamente Cavallone). La contrapposizione opererebbe tra coloro che ritengono essere la ricerca della verita` storica nel processo l’obiettivo unico e finale dell’istruzione probatoria, che patirebbe solo limiti ristrettissimi in ossequio a principi superiori (uno per tutti, il divieto della tortura) e coloro che invece ritengono che il processo sia sempre e comunque un fenomeno giuridico, retto da un sistema normativo che inevitabilmente condizionera` la sua attitudine al raggiungimento della verita` dei fatti. Si tranquillizzi il lettore: chi scrive non ha l’ambizione di riprendere il dibattito, i cui termini sono compiutamente (e verrebbe da dire definitivamente) delineati nei contributi citati (4). D’altro canto, non si puo` tacere la sensazione che la con-
(1) Taruffo, La semplice verita`. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari 2009, passim. (2) Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in questa Rivista 2010, 1 e ss. (3) Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in questa Rivista, 2010, 995. (4) E, ovviamente, in quelli che li hanno preceduti, tra i quali occorre citare almeno Caval-
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trapposizione tra «verifobici» e «amanti della verita`» si risolva in un dibattito ove ciascuno dei contendenti e` destinato a rimanere saldamente ancorato sulle proprie posizioni, a causa di una forma di implicito parallasse tra le rispettive tesi. Cavallone adotta, nelle sue analisi, la forma mentis dello storico e del giurista positivo (due direzioni d’indagine, che spesso tendono a coincidere); Taruffo (e i suoi illustri predecessori, da Bentham in poi) partono invece da una opzione di valore, ovvero che il processo non puo` essere giusto se non attinge a risultati veri. In altre parole, l’uno parla dell’«essere» del processo, mentre il suo contradditore si occupa del suo «dover essere». D’altro canto, che i due maestri operino su piani almeno in parte diversi si vede bene anche da un significativo indizio: Taruffo, quando si occupa delle norme positive in materia di prove nel sistema processuale civile italiano, per lo piu` ne addita l’inadeguatezza, e ne propone l’abrogazione o la modifica; Cavallone, al contrario, cita quelle stesse norme preoccupandosi della loro interpretazione, e difendendone talora (non sempre) la ratio. E` pero` evidente che chi voglia occuparsi del sistema positivo deve abbandonare la visione massimalista di cio` che «deve essere», per confrontarsi con le norme positive quali esse sono: in questo senso, il giurista positivo e`, vorrei dire per forza (e almeno sino a quando le norme sui limiti probatori non vengano dichiarate incostituzionali, o abrogate da un illuminato legislatore), «cavalloniano», non potendosi permettere il lusso di essere «taruffiano» (o, ancora prima, «benthamiano»). Confrontarsi con l’esegesi delle norme sulle prove vigenti non significa pero` ascriversi d’ufficio all’ipotetico manipolo dei «verifobici» o, peggio ancora, degli irrazionalisti: manipolo per vero nel quale il primo illustre assente e` proprio Bruno Cavallone. Si deve infatti consentire con Taruffo che in un sistema costituzionale, come quello italiano ispirato alle regole delle democrazie occidentali, la ricerca della verita` nell’ambito del processo e` un valore primario, che deve informare di se´ le regole del procedimento probatorio; ed e` dunque necessario verificare se ed in che limiti tale obiettivo possa essere attinto facendo uso delle vigenti regole del processo civile. Come vedremo, tale prospettiva minimalistica consente di verificare come il sistema delle prove, pur rimanendo formalmente immutato (nessuna modifica di rilievo essendo intervenuta in materia nel codice di rito o in quello civile dalla data della loro promulgazione), ha subı`to in realta` modificazioni significative, e pure non sempre colte in tutte le loro implicazioni dalla dottrina; e che nel contempo alcune regole, sull’opportunita` delle quali nessuno sembra dubitare, sono divenute obsolete, per non dire palesemente irrazionali. Ci occuperemo qui di tre istituti, che hanno nell’ambito dell’istruzione probatoria una importanza centrale, ovvero la prova testimoniale, limitatamente alle sue
lone, Il giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, passim, nonche´ Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano 1992, passim.
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modalita` d’assunzione, la consulenza tecnica e il fatto notorio: ma anche altri istituti del diritto delle prove hanno conosciuto analoghi mutamenti, talvolta propiziati anche da novelle legislative (si pensi al documento informatico). 2. – La prova testimoniale e` sempre stata, per ovvie ragioni, il banco di prova di ogni sistema probatorio. Parlare di prova testimoniale significa parlare del «principio di oralita`», di chiovendiana memoria: ma quel principio appare oggi assai fane´, essendo stato per lo piu` accantonato dalla dottrina recente, e ormai anche dal legislatore. Non e` certo possibile riprendere qui un discorso sul tema, inevitabilmente assai ampio e in relazione al quale ho tentato in altro luogo di esporre compiutamente le mie idee (5). Bastera` qui rammentare che secondo Chiovenda (e poi Cappelletti, che del pensiero del Maestro di Premosello fu sul tema illustre epigono) (6) l’oralita` processuale mostrerebbe tutta la sua utilita` proprio nell’ambito dell’assunzione delle prove costituende, mentre residuale ne sarebbe l’utilita` e l’efficacia nella trattazione e nella discussione della causa, ove la forma scritta sarebbe quella piu` consona. Piu` esattamente, l’oralita`, con i noti corollari dell’immediatezza del contatto tra il giudice e il deponente (parte o teste che sia), permetterebbe al giudice di poter meglio valutare le dichiarazioni informative/rappresentative, grazie alla valorizzazione delle fonti di informazione non verbali desunte dal comportamento del soggetto esaminato, quali p.es. l’agitazione motoria, la sudorazione, il tono della voce, il rossore del viso, il tremito delle mani e cosı` via. Sorprende per vero (e induce a qualche considerazione sugli ignorati benefici dell’interdisciplinarieta`) che consimili osservazioni non siano state per tempo messe a confronto con gli esiti delle statistiche sperimentali, che a partire dal celebre libro di Musatti sulla psicologia della testimonianza del 1923, con prefazione di Carnelutti (7), confermano sempre e senza eccezioni che tali indici metate-
(5) Dittrich, I limiti soggettivi della prova testimoniale, Milano 2000, 483 e ss. (6) Chiovenda, Lo stato attuale del processo civile in Italia e il progetto Orlando di riforme processuali, in Riv. dir. civ. 1910, 35 e ss., poi anche in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma 1931, 412 (ma si vedano anche dello stesso A. la Relazione sul progetto di riforma del procedimento elaborato dalla commissione del dopoguerra, Napoli 1921, ora in Saggi di diritto processuale civile, Roma 1931, vol. II, 12 e ss; L’oralita`e la prova, in questa Rivista 1924, I, 5 e ss., ripubblicato con il titolo Sul rapporto fra le forme del procedimento e la funzione della prova (l’oralita` e la prova), in Saggi, cit., II, 197 e ss.; il riferimento a Cappelletti opera invece alla sua celebre monografia dal titolo La testimonianza della parte, Milano 1962, I, 181. Sia Cappelletti sia Taruffo si rifanno espressamente a quella corrente di pensiero che si rifa` a Bentham, Traite´ des preuves judiciaires, ouvrage extrait des manuscrits par Et. Dumont, Paris 1823, 239 e ss. (7) Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza, con prefazione di Francesco Carnelutti, Padova 1931, ristampa Milano 1991. Per una panoramica del tema si vedano, in lingua italiana, De Cataldo Neuburger, Psicologia della testimonianza e prova testimoniale, con presentazione di Franco Cordero, Milano 1988, passim; De Leo, Scali, Caso, La testimonianza: proble-
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stuali sono altamente inaffidabili, e tali da portare ad esiti sovrapponibili ad una decisione presa a caso. In realta`, la piu` recente ricerca scientifica non nega che la menzogna possa cagionare alterazioni fisiologiche, ma giunge alla conclusione che il suo rilevamento ed utilizzazione richiede personale specialistico e apparecchiature assai complesse (e` il caso della c.d. «macchina della verita`»), il cui utilizzo nel processo civile non e` neanche ipotizzabile e che implica comunque un elevato margine d’errore. Queste considerazioni sono perfettamente note, sia pure a livello intuitivo, alla pratica forense, che giustamente ha totalmente ignorato la velleitaria disposizione dell’art. 207 ultimo comma c.p.c., secondo il quale «il giudice, quando lo ritiene opportuno, nel riportare le dichiarazioni descrive il contegno della parte e del testimone»: norma questa in cui e` facile vedere un riflesso del significato «naif» dell’oralita` processuale (8). Ne consegue che l’unico possibile ed effettivo controllo sulla credibilita` e veridicita` della deposizione di un teste si puo` effettuare, realisticamente, sul contenuto della sua deposizione, che dovra` essere internamente non contraddittorio ed essere inoltre coerente con le altre risultanze processuali, siano esse desunte da documenti o da altri mezzi istruttori. Riprendendo quanto ho gia` avuto piu` ampiamente modo di esporre in altra sede, questo non significa che all’oralita` processuale non debba assegnarsi comunque un importante ruolo nell’istruzione probatoria civile: che anzi, se non erriamo, proprio l’aver «depurato» il concetto dal suo significato piu` «naif» ne permette una razionalizzazione e un utilizzo in linea con i dati normativi e con la effettiva struttura del processo. Eliminando dal significato concreto dell’oralita` l’utilizzabilita` di indici «meta testuali», l’attenzione deve concentrarsi sul contenuto della dichiarazione, che e` e rimane il vero ed unico oggetto di valutazione della prova testimoniale. La credibilita` del dictum del teste potra` allora essere efficacemente vagliata solo mediante una analisi sulla coerenza delle dichiarazioni rese dal teste stesso: coerenza interna, ovvero mancanza di contraddizioni all’interno della medesima deposizione; coerenza esterna, ovvero compatibilita` delle dichiarazioni rese con altri elementi di fatto acquisiti al processo, e dunque con altre testimonianze, o documenti, o ricostruzioni di luoghi, ecc. In tanto tale valutazione di coerenza sara` possibile e proficua quanto maggiore sara` il materiale disponibile per la comparazione, e dunque quanto piu` sara` articolata, se non addirittura ridondante, la dichiarazione testimoniale. E allora questa appare essere la funzione specifica dell’orali-
mi, metodi e strumenti nella valutazione dei testimoni, Bologna 2005, passim; da ultimo si puo` vedere, per una panoramica del tema e per una aggiornata bibliografia sintetica, Mazzoni, Si puo` credere a un testimone?, Bologna 2010, passim. (8) Sull’art. 252 c.c. si vedano Andrioli, Commento al codice di procedura civile, vol. II, III ed., Napoli 1960 (ristampa anastatica del 1956), 207 Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano 1966, 274. Piu` di recente si puo` vedere Mazzeo, sub art. 252, in Codice di procedura civile a cura di N. Picardi, Milano 2008, 1312; Montanari, sub art. 252, in Codice di procedura civile commentato diretto da C. Consolo, IV ed., Milano 2010, 2547.
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ta`: solo nell’immediatezza del rapporto tra istruttore e teste e` infatti possibile ottenere quella ricchezza di informazioni che costituisce il nucleo essenziale per la valutazione della credibilita` della deposizione. Da qui una serie di corollari, e cioe` che laddove sia stata acquisita e correttamente verbalizzata la deposizione del testimone, non e` indispensabile, per godere dei vantaggi dell’«oralita`» cosı` riconsiderata, ne´ la concentrazione del processo in poche udienze tra loro ravvicinate, ne´ l’identita` dell’istruttore con il decidente. Fondamentali divengono invece le modalita` di escussione del teste (dove mezzo principe e` e rimane la cross examination di derivazione anglosassone) e soprattutto le modalita` di verbalizzazione delle deposizioni. 3. – Occorre allora verificare se le concrete modalita` ex positivo jure dettate per l’assunzione dei testimoni nel rito civile ordinario siano o meno coerenti con i dati di fatto teste´ enunciati. Il solo porre il problema assume un significato provocatorio, dato che e` difficile immaginare un sistema per l’assunzione delle prove testimoniali piu` incongruente allo scopo di quello oggi disciplinato dagli artt. 244 e ss. c.p.c. e piu` totalmente incoerente con la pretesa esigenza di «accertare la verita`». Come e` noto, secondo l’art. 244 c.p.c., «la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata». Su tali capitoli poi si svolge il giudizio di ammissibilita` e rilevanza previsto in via generale dall’art. 184 settimo comma c.p.c. In virtu` dell’art. 253 c.p.c., «il giudice istruttore interroga il testimone sui fatti intorno ai quali e` chiamato a deporre. Puo` altresı` rivolgergli, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti medesimi. E` vietato alle parti e al pubblico ministero di interrogare direttamente i testimoni». Molto si dovrebbe dire sulla «capitolazione» delle domande e sul relativo giudizio di ammissione. La giurisprudenza e`, sul punto, severa. In primo luogo, e` pacifico che il giudice istruttore debba effettuare un vaglio effettivo sulla specificita` e sulla rilevanza del singolo capitolo, non potendosi ovviare ex post, in sede di ammissione, con le «domande a chiarimento» previste dall’art. 253 c.p.c. (9); la mancata o inesatta capitolazione provoca l’inammissibilita`
(9) Si veda per esempio Cass. 31 gennaio 2007, n. 2201, secondo la quale «La disposizione dell’art. 244 c.c., con la quale e` imposto alla parte di specificare i fatti da dedurre a prova in articoli separati, ha il duplice scopo di consentire all’avversario di formulare i capitoli di prova contraria indicando i propri testimoni e di dare modo al giudice di valutare se la prova richiesta sia concludente e pertinente; specie in relazione a tale ultimo scopo, la norma in questione deve considerarsi di carattere cogente, sicche´ la sua inosservanza, da parte di chi propone la prova, determina l’inammissibilita` del mezzo istruttorio che, ove erroneamente ammesso ed espletato, non potra` essere tenuto in considerazione dal giudice»; nello stesso senso Cass. 27 marzo 2007, n. 7508. Ne´ l’insufficiente articolazione del capitolo potra` essere emendata in fase di assunzione del-
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del quesito e della relativa istanza di prova, quand’anche, come spesso accadra`, il giudice sia perfettamente in grado di comprendere dagli atti di causa l’oggetto della prova stessa (10). Si dice, in giurisprudenza, che la capitolazione risponderebbe all’esigenza di assicurare il contraddittorio e di mettere la controparte in grado di dedurre prova contraria: ma si tratta di una massima tralatizia ed ormai priva di senso, atteso che oggi la delimitazione dei fatti contestati e` demandata alle prime due memorie previste dall’art. 183 sesto comma c.p.c. o, se queste mancano, all’attivita` svolta dalle parti con gli atti introduttivi e all’udienza di trattazione. D’altro canto, e` giurisprudenza costante che l’obbligo di deduzione della prova per articoli separati e specifici non trovi applicazione nel processo del lavoro (11), ove pero` non consta
la prova: «L’indagine del giudice di merito, sui requisiti di specificita` e rilevanza dei capitoli formulati dalla parte istante, va condotta non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma anche in correlazione all’adeguatezza fattuale e temporale delle circostanze articolate, con l’avvertenza che la facolta` del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c., di natura esclusivamente integrativa, non puo` tradursi in un’inammissibile sanatoria della genericita` e delle deficienze dell’articolazione probatoria» cosı` Cass. 12 febbraio 2008, n. 3280, conf. Cass. 29 settembre 1995, n. 10272; solo apparentemente meno severa e` Cass. 19 maggio 2006, n. 11844, secondo la quale «La disposizione dell’art. 244 c.p.c. sulla necessita` di un’indicazione specifica dei fatti da provare per testimoni non va intesa in modo rigorosamente formalistico, ma in relazione all’oggetto della prova, cosicche´, qualora questa riguardi un comportamento o un’attivita` che si frazioni in circostanze molteplici, e` sufficiente la precisazione della natura di detto comportamento o di detta attivita`, in modo da permettere alla controparte di contrastarne la prova attraverso la deduzione e l’accertamento di attivita` o comportamenti di carattere diverso, spettando peraltro al difensore e al giudice, durante l’esperimento del mezzo istruttorio, una volta che i fatti siano stati indicati nei loro estremi essenziali, l’eventuale individuazione dei dettagli» (nello stesso senso cfr. Cass. 28 agosto 2003, n. 12642; Cass. 3 ottobre 1995, n. 10272); sottolinea poi l’impossibilita` di integrare i capitoli di prova con le domande a chiarimento Cass. 27 febbraio 1990, n. 1312. E` pur vero pero` che le nullita` connesse all’errata formulazione del capitolo di prova sono sanate, qualora il capitolo stesso venga ammesso e non vi sia tempestiva eccezione della controparte: cosı` Cass. 18 luglio 2008, n. 19942. (10) Il codice di rito abrogato prevedeva anch’esso che «i fatti che si vogliono provare per mezzo di testimoni devono essere dedotti specificatamente per articoli separati» (art. 229), ma in dottrina ci si affrettava a chiarire che «e` pacifico in dottrina e in giurisprudenza che, quando l’oggetto della prova testimoniale sia chiaro e sicuro, per modo che ne derivi la possibilita` della controprova e sia chiara l’influenza della materia, la mancanza di articolazione non induce nullita`»: cosı` Lessona, Trattato delle prove in materia civile, vol. IV, Firenze 1916, 265. (11) Si vedano, tra le altre pronunce, Cass. 21 marzo 2003, n. 4180, in Giur. it. 2004, I, 516, che ha enunciato il seguente principio di diritto: «La norma enunciata dall’art. 244 c.p.c. secondo cui la prova testimoniale deve essere dedotta con indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna persona deve essere interrogata, va coniugata con quella enunciata dall’art. 421 c.p.c., nella consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimita` sui poteri officiosi del giudice del lavoro, nonche´ con quella dell’art. 420 c.p.c. sulla funzione integrativa del libero interrogatorio, sicche´, quando i fatti materiali siano compiutamente enunciati nel ricorso introduttivo del giudizio, il giudice non puo` rigettare la richiesta di prova testimoniale,
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che cio` comporti alcuna violazione, neanche nella prassi, del diritto del contraddittorio (o al fantomatico «diritto alla prova», che ha immeritatamente assunto un posto di rilievo nell’empireo dei principi generali del diritto processuale). Ma la capitolazione si espone poi ad un ulteriore grave inconveniente, e cioe` che il teste viene di regola a conoscenza con largo anticipo delle domande che gli verranno rivolte, potendo cosı` (di regola, con la «collaborazione» del difensore di una delle parti) adeguatamente prepararsi la risposta, con un chiaro nocumento alla sua spontaneita`: problema questo la cui percezione e` (se non erro) del tutto assente nella dottrina italiana, quasi a suggello dell’indifferenza in merito al problema di un esito veritiero della deposizione. Le modalita` di assunzione poi si prestano ad essere trasposte in pie´ce teatrali degne del miglior Jonesco. Tralasciamo l’assoluta assenza di una qualche formalita`, che sottolinei l’importanza civile della prestazione della testimonianza: sembra un dettaglio, ma la solennita` della deposizione costituisce un rafforzamento non secondario dell’obbligo di dire la verita` (12). Piuttosto, occorre concentrarsi sull’effettiva modalita` di assunzione, che assumiamo sia condotta dal giudice. In primo luogo, il giudice legge al teste il quesito gia` ammesso, dal quale, come abbiamo visto, non puo`, se non marginalmente, eccedere; le risposte sono verbalizzate per sintesi, su dettatura diretta del giudice, in un gergo che, per dirla con Cavallone, «nessuno parla e pochi intendono» (13); a tale attivita` di «traduzione» il teste, di regola, non prende parte; di piu`, spesso accade che su cio` che deve venire per sintesi verbalizzato si apra un dibattito tra avvocati e giudice, al quale il teste assiste, spiazzato da quella discussione che avviene alla sua presenza su cio` che egli (ancora presente!) ha detto. Se poi, per ventura, la deposizione fosse particolarmente articolata (e dunque piu` «pregiata», per cosı` dire, dal punto di vista della sua possibile utilita` probatoria), essa verra` sempre ri-
e conseguentemente la domanda, sol perche´ i fatti non sono capitolati a norma dell’art. 244 c.p.c.»; conforme anche Cass. 17 aprile 2003, n. 6214. In dottrina sul punto si veda Tarzia, Manuale del processo del lavoro, V ed., Milano 2008, 166. (12) Pur doverosamente apprezzando la ratio liberale che ha animato la Corte Costituzionale nella pronuncia delle due sentenze Corte cost. 10 ottobre 1979, n. 117 e Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149, con le quali si e` sostituita l’originaria formula del giuramento contenuta nell’art. 251 c.p.c. con l’anodina dichiarazione: «Consapevole della responsabilita` morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verita` e a non nascondere nulla di quanto e` a mia conoscenza», chi scrive non puo` tacere il rimpianto per il piu` solenne ed impegnativo giuramento, previsto originariamente dal codice. Occorrerebbe poi riflettere sulla drammatica differenza che corre tra la testimonianza come e` immaginata dal pubblico cinematografico e televisivo (cioe` la larga maggioranza dei potenziali testi) in contrapposizione con lo squallore degli uffici dei giudici istruttori, dove di regola sono assunte le deposizioni, non solo senza alcuna formalita`, ma, vorrebbe dirsi, anche senza alcuna «forma», intesa come dignita` nella prestazione di un ufficio civile da parte del privato, al cospetto dell’autorita` giudiziaria. (13) Si veda in proposito Cavallone, voce Processo verbale nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XV, Torino 1997, 299 e ss.
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dotta e riassunta a verbale, perdendo ogni efficacia descrittiva e sacrificando tutti quei dettagli, che pure potrebbero avere una loro utilita` nella valutazione della credibilita` ed affidabilita` della testimonianza. Infine, se uno dei difensori desidera fare una domanda, ammesso che essa sia «a chiarimento» e che passi il vaglio di ammissibilita`, dovra` chiedere al giudice che la ponga al teste: difficile immaginare un sistema piu` inutilmente barocco e inefficace; ed il confronto con il sistema della cross examination e` impietoso sotto tutti i profili. Inutile poi aggiungere che di «controinterrogatorio» non e` neanche possibile parlare, se non nella forma della deduzione del medesimo teste «a prova contraria», su capitoli dedotti dalla parte che non ha indicato il teste: formalita` questa, se possibile, ancor piu` difficile da comprendere razionalmente. Il sistema fondato su «articoli separati» ha condotto ad uno stilus curiae che articola i singoli facta probanda in domande, alle quali deve essere di regola possibile rispondere con una semplice affermazione o negazione. Ovviamente, alla domanda «Vero che il tal fatto e` accaduto?» il teste e` indotto a rispondere, laconicamente, con un «e` vero», subito tradotto in un piu` burocratico «confermo la circostanza di cui al capitolo». Su tali deposizioni, come sopra si e` chiarito, non e` possibile effettuare alcun serio vaglio di credibilita` (14). Desta sorpresa che un sistema siffatto possa ancora sopravvivere in un periodo storico nel quale sofisticati sistemi di videoregistrazione sono ormai incorporati anche nei piu` economici computer; d’altro canto, basta spostarsi in Spagna per constatare come ivi le udienze sono sempre videoregistrate e che la registrazione cosı` effettuata sostituisce integralmente la verbalizzazione (15). 4. – Sarebbe ingenuo pensare che un siffatto, arcaico, sistema di assunzione
(14) Critiche consimili, per quanto forse meno severe, si possono leggere in Taruffo, voce Prova testimoniale, in Enc. del diritto, vol. XXXVII, Milano 1988, 752; secondo Comoglio (Le prove civili, III ed., Torino 2010), invece, «la tecnica della c.d. capitolazione (od articolazione)... assolve naturalmente anche una funzione garantistica di primaria importanza, consentendo alla parte, nei cui confronti la prova sia dedotta, di difendersi con adeguate possibilita` di controdeduzione e di controprova» (corsivi dell’A.). (15) E` interessante osservare che in Spagna l’assunzione della prova testimoniale fosse regolata del vecchio testo della Ley de Enjuiciamiento Civil in termini analoghi a quelli dell’odierno codice di rito italiano. In proposito la dottrina ha rilevato che «En numerosas ocasiones, se habı´a puesto en evidencia el sistema decimono´nico del interrogatorio escrito, ası´como tambie´n se habia denunciado la corruptela a que habı´a dado lugar en el foro, lo que fomento´ el descre´dito de este medio de prueba y provoco´ que, incluso, las partes llegaran a prescindir de e´l por la inutilidad de su pra´ctica»: cosı` Rodrı´guez Tirado, El interrogatorio de testigo en la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, Madrid 2003, 86 e ss. A questo testo si rinvia anche per gli opportuni riferimenti alla dottrina spagnola.
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della prova orale abbia potuto sopravvivere, sostanzialmente immutato, sino ai giorni nostri senza uno specifico motivo. La realta` e` che questo sistema puo` funzionare con costi, diretti e indiretti, ridottissimi; seguendo una ineluttabile legge economica, anche i relativi risultati non possono che essere modesti. Ridotti sono in primo luogo gli investimenti necessari per la procedura di assunzione: nessuno strumento informatico; nessun cancelliere verbalizzante, sopperendo all’uopo giudice ed avvocati; addirittura nessun costo di carta, dato che, di regola, anche i fogli «uso bollo» sono graziosamente forniti dai difensori. Ma soprattutto ridotto e` il tempo necessario per l’assunzione della prova. Ammessi capitoli e testi (spesso, sia detto per amore di verita`, in maniera assai sbrigativa) la successiva escussione della prova richiede solo il tempo della lettura del capitolo e della relativa (assai sintetica) verbalizzazione; l’assenza di un vero interrogatorio e di un controinterrogatorio, che puo` spaziare anche su temi non direttamente collegati al factum probandum e su circostanza indirette e «collaterali», finalizzate alla verifica della credibilita` del teste, riduce drasticamente i tempi che giudice e difensori dovranno dedicare all’assunzione della prova. Non solo. Mentre l’assunzione di un teste con le forme della cross examination richiede una accurata preparazione in capo agli avvocati e al giudice, chiamato a dirigere tale complesso procedimento, la lettura del capitolo gia` approvato e la relativa, spesso notarile (nel senso deteriore del termine) verbalizzazione richiede un ben minore impegno preventivo. Non e` infatti infrequente che all’udienza fissata per l’assunzione della prova partecipino difensori e (spiace dirlo) anche giudici privi di conoscenza degli atti di causa: il che non deve sorprendere, dato che le possibilita` che da tale mezzo di prova possano derivare esiti inaspettati e` in realta` residuale. Non stupisce allora (e in fondo non scandalizza troppo) che in alcune sedi giudiziarie sia d’uso l’assunzione del teste ad opera dei difensori delle parti senza la presenza del giudice: prassi certo esecrabile e contra legem, ma che pure si e` potuta talvolta radicare proprio a causa della percepita inadeguatezza del sistema di assunzione della prova a svolgere una effettiva funzione di ricerca della verita`. E` in un siffatto contesto che e` germinato il nuovo istituto della testimonianza scritta, di cui all’art. 257 bis c.p.c. Faro` a me stesso e al lettore la grazia di non parlarne (d’altra parte, gia` moltissimi sono i contributi dedicati a tale innovazione), dato che si tratta di un istituto nato morto, avendone condizionato il legislatore l’ammissibilita` all’accordo delle parti. Il suo significato politico pero` e` chiaro, ed in fondo paradossalmente condivisibile: se la testimonianza civile «ordinaria» deve essere quella, che ho teste´ descritto, tanto vale acquisire la scienza del terzo su modulo ministeriale (16), pronto all’uso, senza utilizzare il farsesco procedimento descritto dagli artt. 244 e ss. c.p.c.
(16) La testimonianza scritta introdotta all’art. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp. att. c.p.c. dall’art. 46, comma ottavo, della L. 18 giugno 2009, n. 69, pare essere la definitiva consacrazione
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In definitiva, mi sembra che le norme, che regolano le modalita` di assunzione della prova per testi, possano mettere d’accordo «verifobici» ed amanti della verita`: siamo in presenza di norme obsolete, che meritano una radicale revisione, sia con l’introduzione di una ben regolata cross examination, sia con modalita` di videoregistrazione e verbalizzazione su supporto magnetico. Si tratta in fondo di innovazioni modeste, anche sotto il profilo economico, ma che certamente potrebbero rendere alla prova testimoniale una efficacia ed una «immediatezza», che attualmente questo mezzo di prova ha radicalmente perso. 5. – La consulenza tecnica e` oggi, come e` stato anche da altri rilevato, al centro del fenomeno probatorio per due distinti motivi. In primo luogo, sono regole tecniche, nel senso di specialistiche e quindi di non facilmente intelligibili da non specialisti, che sempre di piu` innervano le fattispecie oggetto della valutazione del giudice: e si pensi, per fare qualche esempio, a tutte le cause su diritti di invenzioni industriali, o su vizi delle costruzioni edilizie, o sulle regole tecniche di formazione di un bilancio, e cosı` via. In questi casi, si puo` dire che e` la stessa fattispecie ad essere un prodotto della regola tecnica. In secondo luogo, le tecniche di indagine oggi disponibili restringono il potere valutativo del giudice, i cui confini sono sempre piu` erosi. Accade cosı` che fenomeni, olim valutabili solo tramite le classiche prove costituende, o addirittura tramite l’utilizzo delle massime di esperienza, sono oggi indagabili tramite strumenti scientifici, ai quali il giudice e` di fatto obbligato a rivolgersi: si pensi alla prova della paternita` tramite l’analisi del DNA, ma anche ad una comunissima perizia grafica, ad una perizia dinamica sulle modalita` di un incidente stradale, alle valutazioni psicologiche della personalita` del coniuge ai fini dell’affidamento dei figli: tutte ipotesi queste che cento anni fa sarebbero state rimesse alla valutazione del giudicante, eventualmente mediata da concludenti prove testimoniali (17). Il problema e` che la consulenza diviene, di fronte ad un giudice non specializzato, una vera e propria prova legale; e assai poco servono le perizie di parte, che soffriranno, dal punto di vista del giudice, della medesima strutturale inintelligibilita`. La risposta a tale nuovo genere di problemi, che fortemente condiziona la
della burocratica ottusita` del sistema di assunzione della prova testimoniale. Ed infatti, come e` noto, «la testimonianza scritta e` resa su di un modello conforme al modello approvato con decreto del Ministro della giustizia, che individua anche le istruzioni per la sua compilazione» (art. 103 bis disp. att. c.p.c.): modello scritto che e` stato infatti approvato con decreto del Ministro della Giustizia 17 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 49 del 1 marzo 2010. (17) La letteratura in ordine alla prova scientifica con particolare riferimento alla consulenza tecnica e` assai ampia. Per una prima ricognizione si puo` vedere Comoglio, L’utilizzazione processuale del sapere extragiuridico nella prospettiva comparatistica, in questa Rivista 2005, 1145 e ss.; prima ancora, si puo` rinviare al classico studio di Denti, Scientificita` della prova e libera valutazione del giudice, in questa Rivista 1972, 414; Lombardo, Prova scientifica e osservanza del contraddittorio nel processo civile, in questa Rivista, 2005, 1093.
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stessa idoneita` del giudizio a rendere una risposta giusta, si pone pero` fuori dal perimetro classico del diritto delle prove, ed e` inevitabilmente ordinamentale, passando per la creazione di giudici dotati di una specializzazione anche tecnica (18). Gli strumenti per raggiungere tale obiettivo sono di varia natura e si pongono su livelli diversi. In primo luogo vi sono le sezioni specializzate espressamente previste dalla legge, che talvolta prevede anche l’allargamento a membri tecnici: ecco allora che accanto alle sezioni specializzate agrarie e ai giudici delle acque (ancora retaggio di specializzazioni arcaiche) abbiamo il nuovo giudice specializzato in materia di proprieta` industriale e intellettuale, sia pur non allargato a membri tecnici; e ancora i giudici «esperti» del tribunale dei minori, gli esperti negli uffici del giudice di sorveglianza, e cosı` via. Un secondo livello d’intervento e` invece assicurato dalla corretta applicazione del sistema tabellare, oggi disciplinato in via generale dall’art. 7 bis della legge di ordinamento giudiziario (R.d. 30 gennaio 1941, n. 12, cosı` come modificato, in parte qua, dall’art. 3 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 449 e successive modificazioni). Il Consiglio Superiore della magistratura, nelle Circolari regolano tale materia, si e` fatto carico di tale esigenza, favorendo, ove possibile, la creazione di sezioni dotate di specializzazioni specifiche (19). Ovviamente, tale genere di risposte sara` sempre, per forza di cose, parziale, non potendosi immaginare una magistratura onnisciente. Infine, occorrerebbe forse rivalutare l’art. 197 c.p.c., in virtu` del quale il consulente puo` essere convocato «ad assistere alla discussione davanti al collegio e ad esprimere il suo parere in camera di consiglio in presenza delle parti, le quali possono chiarire e svolgere le loro ragioni per mezzo dei difensori»: norma questa che
(18) E` questa una prospettiva non certo nuova nella storia del diritto: per un accenno in questo senso si veda Denti, op. cit., 424, che cita nel diritto romano classico l’attribuzione delle funzioni di judex ad un arbiter dotato di conoscenze specializzate, citando in proposito il lavoro di Visky, La prova per esperti nel processo civile romano, in Studi senesi 1968, 23 e ss.; Lombardo, op. cit., 1093. (19) Si legge nella Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2006-2007 quanto segue: «19.3. Negli uffici di medie e grandi dimensioni va favorito, oltre alla naturale ripartizione tra il settore civile e quello penale, l’affinamento di competenze specialistiche per materie omogenee e predeterminate. – In particolare, la costituzione di sezioni specializzate appare il modello organizzativo piu` congruo in relazione alle materie caratterizzate dalla necessita`, per il giudicante, di acquisire conoscenze non strettamente giuridiche ma comunque rilevanti per la comprensione delle controversie (quali, ad esempio, la materie della famiglia, del lavoro, delle procedure concorsuali, delle societa` e delle successioni o, nel settore penale, dell’ambiente, edilizia e pubblica amministrazione, del diritto finanziario e societario) ovvero per le controversie regolate da riti o adempimenti specifici, di opportuna concentrazione presso una sola struttura di cancelleria (quali, ad esempio, la materia delle esecuzioni e la materia delle locazioni). Dovra` comunque essere preferita la realizzazione di sezioni che accorpino materie in base ad aree omogenee. – La ripartizione del lavoro tra le sezioni penali deve tendenzialmente evitare la concentrazione della trattazione dei processi in materia di criminalita` organizzata.
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permetterebbe, presumibilmente, un maggior approfondimento critico del giudicante del thema probandum, nell’ambito di in una effettiva ed efficace oralita` processuale. 6. – Ma la consulenza tecnica assume viepiu` una ulteriore funzione, che merita di essere segnalata. E` a tutti nota la differenza teorica tra consulente tecnico «percipiente» e consulente tecnico «deducente», ove solo il primo avrebbe un contatto diretto con le fonti di prova, mentre il secondo, in ipotesi, si limiterebbe a fornire una interpretazione dei dati probatori gia` aliunde acquisiti nel processo. Ancora, e` osservazione ricorrente quella che il consulente dell’ufficio dovrebbe svolgere la sua attivita` esclusivamente sulle fonti di prova gia` acquisite nel processo, producendosi altrimenti una violazione del principio dell’onere della prova. Questi essendo i principi, sembrerebbe facile addivenire alla conclusione che l’attivita` del consulente sarebbe viziata laddove si fondasse su fonti di prova non acquisite al processo entro i termini preclusivi oggi scanditi per il primo grado del processo dall’art. 183 c.p.c. e, per il secondo grado, dall’art. 345 c.p.c. Il panorama giurisprudenziale e` pero` piu` frastagliato e difficile da ricondurre ad unita`. Sono infatti numerose le sentenze che ammettono espressamente la possibilita` che il consulente acquisisca legittimamente ogni elemento necessario per rispondere ai quesiti, anche se non risulti da documenti prodotti dalle parti; gli effetti di tali affermazioni vengono poi almeno in apparenza circoscritte, affermandosi che il consulente non puo` legittimamente introdurre nel processo fatti principali, e che tale potere trovi la sua giustificazione nella natura tecnica dei fatti in tal modo acquisiti (20). D’altra parte, non e` mancato chi in dottrina ha ipotizzato la
(20) Si veda Cass. 14 febbraio 2006, n. 3191: «E` consentito derogare al limite costituito dal divieto di compiere indagini esplorative quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa avvenire soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche; in questo caso il C.T.U. puo` anche acquisire ogni elemento necessario per rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti che, essendo posti direttamente a fondamento di domande o eccezioni, debbano essere necessariamente provate dalle parti»; conf. Cass. 20 giugno 1996, n. 5718; Cass. 15 ottobre 2003, n. 15448; Cass. 6 giugno 2003, n. 9060; con riferimento ai documenti si e` poi statuito che «E` poi senz’altro vero che l’indagine del c.t.u. non puo` essere finalizzata alla acquisizione di prove che la parte aveva l’onere di produrre, ma a tali limiti e` comunque consentito derogare quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto sia possibile solamente con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, cosı` come e` consentito al c.t.u. acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, allorche´ si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati da queste»: Cass. 15 aprile 2002, n. 5422. Tale orientamento era ancor piu` liberale prima dell’introduzione delle preclusioni istruttorie nel processo civile ad opera della L. 353/1990: si veda per esempio la seguente massi-
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possibilita` da parte del giudice di disporre una consulenza tecnica, nella sua species di accertamento giudiziale dei fatti, sulla base della sola loro rilevanza ed indipendentemente dall’assolvimento, ad opera delle parti, dell’onere della prova loro spettante (21). Non e` difficile avvedersi dell’inevitabile contrasto tra un siffatto orientamento giurisprudenziale e il correlato insegnamento di chi ritiene invalicabile a nuovi elementi di prova la soglia delle preclusioni endoprocessuali, al di fuori dell’ipotesi della rimessione in termini. Ed infatti non e` mancato chi, con rigore, ha ritenuto tali orientamenti giurisprudenziali non condivisibili, e dunque affetta da nullita` quella consulenza tecnica che si fondasse su elementi non ritualmente e tempestivamente acquisiti in causa (22). La questione e` pero` piu` complessa, e merita un qualche approfondimento. Considerato che il consulente e`, per l’appunto, un ausiliare del giudice, non e` probabilmente fuori di luogo ritenere che egli partecipi, in certo modo, dei poteri istruttori ufficiosi che a lui sono riconosciuti dall’ordinamento. Tra questi poteri, in particolare, risalta il potere del giudice di ordinare l’ispezione «alle parti e ai terzi... sulla loro persona o sulle cose in loro possesso» (art. 118 c.p.c.): potere questo della cui latitudine si discute in dottrina, arrivando da parte di alcuni a ritenere che esso possa estendersi anche ai documenti (23), quantomeno a quelli aventi una natura «pubblica» (24); inoltre, occorre rammentare che numerose sono le ipotesi in
ma «Il consulente tecnico d’ufficio, quando svolge le indagini da solo, puo` compiere, anche senza espressa autorizzazione, tutti gli accertamenti (la cui valutazioni e` rimessa al giudice del merito) che siano collegati con l’oggetto della consulenza, assumendo notizie ed informazioni presso terzi»: Cass. 22 ottobre 1982, n. 5511; conf., tra le altre, Cass. 20 dicembre 1982, n. 7054; Cass. 28 giugno 1979, n. 3616; Cass. 23 marzo 1988, n. 2543; Cass. 7 novembre 1989, n. 4644; Cass. 7 novembre 1987, n. 8256. (21) Cosı` infatti Lombardo, Prova scientifica e osservanza del contraddittorio nel processo civile, in questa Rivista 2005, 1112, sulla scorta, mi sembra, di una concezione dell’onere della prova qualificata come sola regola di giudizio, che mi sembra pero` discutibile. (22) Lineare e tranchant e`, in questo senso, l’opinione di Fabiani, Preclusioni istruttorie e onere della prova nelle consulenze tecniche in tema di revocatoria fallimentare, nota a Tribunale Milano, 12 marzo 2002 (ord.), in Giur. it. 2002, II, 265. In giurisprudenza, per un esempio di decisione restrittiva, si veda Tribunale Trani, Sezione di Andria, 7 giugno 2005, in Giur. it. 2006, I, 96 con nota polemica di Socci, Le preclusioni alle produzioni documentali nel processo civile dopo le Sezioni unite. Il CTU e le produzioni documentali. In tema si veda inoltre Appello Bari, 18 maggio 2006, in Il giusto processo civile 2006, 227, con nota di Laudisa, Preclusioni e ricerca della verita`. (23) Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, Milano 2003, 77 e ss. Tale A. giunge d’altra parte a ritenere che «a fronte di questa fondamentale prescrizione d’ordine generale (ovvero della necessita` dell’istanza di parte – n.d.r.) e` sempre piu` in via d’espansione l’area dei casi in cui al giudice e` riconosciuti il potere di ordinare d’ufficio l’esibizione in giudizio di cose o documenti. Al punto che, oggi, pare legittimo dubitare che la regola sia effettivamente ancora l’istanza di parte e l’eccezione il potere ufficioso» (Id., op. cit., 60). (24) Cavallone, Le iniziative probatorie del giudice: limiti e fondamento. Ispezione giudi-
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cui il giudice civile e` legittimato comunque all’acquisizione di documenti, a cominciare dalla comunicazione e soprattutto dalla esibizione delle scritture contabili soggette a registrazione, prevista dall’art. 2711 c.c (25).; e, ancora, che tali poteri sono stati ricondotti, almeno in parte, alla categoria dell’ispezione del factum notorium permanentis. Se si inquadra il problema in questo piu` ampio contesto, e si aggiunge la pur ovvia constatazione che il consulente, in virtu` della sua peculiare preparazione e degli strumenti di cui puo` avere la disponibilita`, e` in grado di percepire circostanze di fatto diverse ed ulteriori rispetto a quelle percepibili de plano dalle parti e dal giudice stesso, si giunge nella maggior parte dei casi a giustificare, mi sembra, l’ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti dalla giurisprudenza al consulente tecnico; parimenti, proprio la natura officiosa dell’esibizione puo` rendere ragione della possibilita` riconosciuta al consulente di introdurre nuovi elementi di prova pur dopo l’avverarsi delle preclusioni istruttorie a carico delle parti. In realta` pero`, la vera giustificazione dell’esercizio di tale potere da parte dei nostri giudici e` probabilmente un’altra. Come e` noto, il nostro processo civile e` un processo dispositivo non solo per quanto attiene alle allegazioni dei fatti, ma anche, almeno in linea di principio, per quanto attiene alla disponibilita` delle prove: ed e` stato messo adeguatamente in luce come tale caratteristica nasca dalla assenza, in capo al giudice civile, di poteri di istruzione cd. «primaria», ovvero della disponibilita` materiale delle informazioni, che rientrano invece nella cognizione privata delle parti (26). Il consulente tecnico d’ufficio svolge in realta` un ruolo, che spesso richiama alla memoria attivita` d’indagini proprie della fase delle indagini preliminari nel processo penale: e` insomma lo strumento con il quale il giudice riesce a superare il diaframma tra gli atti di causa e la realta` materiale, che di regola egli puo` conoscere solo in virtu` della mediazione delle parti. Si capisce bene che il mandato al
ziale e consulenza tecnica, in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, 224; Id., voce Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in Digesto discipline privatistiche, sez. civ., vol. VII, Torino 1991, 664 e ss.; sul tema si veda inoltre La China, voce Esibizione delle prove, in Enc. giuridica Treccani, vol. XIII, Roma 1989, 2; Id., voce Esibizione delle prove (diritto processuale civile), in Enc. del diritto, vol. XV, Milano 1966, 706; Id., L’esibizione delle prove nel processo civile, Milano 1960, 220 e ss. (25) Possiamo qui prescindere dai ristretti limiti in cui e` applicabile l’istituto dell’esame contabile, previsto dall’art. 198 c.p.c., ove, come e` noto, il consulente nominato dal giudice puo` esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa ma solo previo consenso di tutte le parti. Bastera` qui rammentare che, secondo la dottrina, non solo «e` certo... il carattere speciale ed eccezionale di siffatta regolamentazione, da applicarsi quindi stricto jure non oltre i casi e i tempi in essa considerati» ma anche che «l’istituto implica la costante ricorrenza di una vera e propria controversia di natura contabile, nella quale il giudice reputi necessario far sottoporre ad esame tecnico documenti e registri»: cosı` Comoglio, Le prove civili, cit., 883; sul tema si veda inoltre Lo Moro, L’esame contabile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1977, 205 e ss. (26) Cavallone, Le iniziative probatorie del giudice, cit., 179 e ss.
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consulente non possa essere esplorativo, essendo altrimenti a rischio l’imparzialita` stessa dalla fase istruttoria; ma altrettanto bene si comprende l’anelito del giudice di uscire talvolta dalla torre di cristallo, nel quale l’operare congiunto del principio dispositivo e delle preclusioni istruttorie lo pongono (27). L’utilizzo della consulenza con estensione a elementi di fatto e di prova non acquisiti al processo per iniziativa delle parti e` cosı` oggi, nel nostro processo civile, quanto di piu` vicino esista all’esercizio di poteri ufficiosi del giudice civile in materia di prove, con riferimento non solo alla valutazione, ma anche alla ricerca della prova stessa; in ossequio pero` alla natura privata di tale processo, tale potere ispettivo trova un limite nella natura delle prove ispezionabili. I cultori del regime delle preclusioni hanno, ovviamente, ottimi motivi per dolersi di un siffatto regime, ove si consideri che in tal modo al consulente del giudice viene permesso cio` che alle parti e` ormai precluso; ed e` certo, che laddove il consulente rinvenga ed utilizzi informazioni non gia` presenti negli atti di causa, le parti dovranno essere legittimate a controdedurre. Cio` detto, pero`, devo dire che non riesco a dolermi di tale orientamento della giurisprudenza. Il «principio di preclusione» (28) non deve essere apprezzato in se´, quanto in relazione ai risultati ai quali permette di pervenire, che si possono riassumere in un piu` ordinato scandirsi delle fasi processuali ed in una maggior responsabilizzazione delle parti; ma e` anche vero che il costo di regole siffatte (che Ta-
(27) D’altro canto, lo stesso Cavallone (da ultimo in Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, in questa Rivista, 861) prende atto della tendenza talvolta ineluttabile del giudice di «ricercare sua sponte nella realta` extraprocessuale le informazioni rilevanti per la verifica dei themata probanda», ponendosi il problema, tutt’altro che secondario, delle concrete modalita` d’ingresso di tali informazioni nel processo, nel rispetto del contraddittorio e dell’imparzialita` della funzione giudiziale. (28) Non e` questo il luogo per ripercorrere l’iter storico del cd. principio di preclusione nella nostra dottrina, a cominciare dal ruolo fondamentale che a tale principio riconobbe Chiovenda, nell’ambito del sistema dell’oralita` processuale (si vedano, tra le altre opere, Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, in Riv. it. sc. giur. 1933, 3 e ss., ed ora in Saggi di diritto processuale civile, III vol., ristampa 1993, 231 e ss.; Id., Principi di diritto processuale civile, Napoli 1936, 478. Per un critica al principio di preclusione in quanto tale si vedano le acute pagine di Attardi, voce Preclusione (principio di), in Enc. del diritto, vol. XXXIV, Milano 1985, 893 e ss.; per una panoramica degli orientamenti in tema si veda inoltre Proto Pisani-Tombari, voce Preclusioni, in Enc. giuridica Treccani, XXIII vol., 1990, 1 e ss. D’altra parte, a chi oggi sembra ipostatizzare il principio di preclusione, astraendo dalla sua finalita` che e` semplicemente quella di conferire al processo un ordine procedimentale, mi pare debbano essere rammentate le lucide parole di Allorio, Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, in Commentario al c.c. diretto da Allorio, vol. I, Torino 1973, CXIII: «Abbiamo altrove posto un dilemma, al quale non ci sembra che si sia saputo rispondere: una delle due: o l’iniziativa processuale tardiva e` infondata, e in questo caso non sfuggira` alla sorte che le spetta: quella di essere rigettata; oppure essa ha fondamento, e in tal caso il respingerla perche´ fu affacciata troppo tardi alla ribalta del processo equivarrebbe, semplicemente, a dar torto a chi ha ragione, il che non ci sembra che corrisponda precisamente alle finalita` cui il processo e` indirizzato».
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ruffo certamente definirebbe «antiepistemologiche») e`, ne´ piu` ne´ meno, l’impossibilita` di tener conto di fatti rilevanti per la decisione, che siano introdotti dopo lo scadere dei termini perentori. In tali ipotesi mi sembra che riconoscere una certa liberta` d’azione ad iniziative istruttorie ex officio (cosı` come anche, mi sembrerebbe, ad una piu` largheggiante applicazione dell’istituto della rimessione in termini, oggi divenuto di generale applicazione grazie alla sua mutata collocazione geografica) (29) non solo non turbi il corretto funzionamento del processo, ma ne migliori l’attitudine ad una decisione «giusta». 7. – Come si e` sopra rammentato, e come e` d’altra parte ben noto, il monopolio tendenziale delle parti sulle prove deriva assai piu` dall’impossibilita`, per il giudicante, di acquisire elementi di prova senza violare il divieto di utilizzazione della propria scienza privata, che non dall’esistenza di norme che gli conferiscano, in maggiore o minore misura, poteri istruttori ufficiosi. Il limite dell’utilizzo delle cognizioni private del giudice e` cosı` di regola confinato nell’ambito dei cd. fatti notori, ovvero in quelle «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» (art. 115 c.p.c.), con l’ulteriore specificazione che «il giudice non puo` ricevere private informazioni sulle cause pendenti davanti a se´, ne´ puo` ricevere memorie se non per mezzo della cancelleria» (art. 97 disp. att. c.p.c.) (30). La tecnologia moderna, che ha inciso cosı` profondamente, come abbiamo visto, sulla funzione della «prova scientifica», provocando cosı` una sorta di «allontanamento» del giudice dalla prova, ha prodotto pero`, quasi come un effetto paradosso, un fenomeno diametralmente opposto, che potremmo definire come l’avvicinamento del giudice alla prova. Mi riferisco, ovviamente, ad Internet, e piu` in generale alla disponibilita` di fonti di prova sottratte al controllo delle parti. Oggi chiunque puo` attingere in maniera incontrollabile ad una messe di informazioni sempre piu` numerose e capillari. Listini prezzi, regolamenti, caratteristiche
(29) Come e` noto, l’art. 45, diciannovesimo comma, della L. 18 giugno 2009, n. 69, ha abrogato l’art. 184 bis c.p.c., trasferendone il contenuto nel nuovo secondo comma dell’art. 153 c.p.c.; si e` cosı` inteso chiarire la natura generale dell’istituto della rimessione in termini al fine di evitare interpretazioni, gia` talvolta affacciatesi in giurisprudenza, tese a limite l’applicazione alla sola fase di trattazione del processo di primo grado. (30) La dottrina formatasi a commento del concetto di «fatto notorio» e` assai ampia, pur se per buona parte risalente. Per una prima panoramica di veda Carnelutti, Massime d’esperienza e fatti notori, in Riv. dir. proc. 1959, 639 Cavallone, I poteri istruttori del giudice, in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, 137; Id., Il divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, cit., 861; De Stefano, voce Fatto notorio, XVI vol., in Enc. dir., Milano 1967, 999 e ss.; Grasso, Dei poteri del giudice, in Commentario al c.p.c. diretto da Allorio, vol. II, Torino 1973, 1298; Taruffo, Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Riv. dir. proc. 1967, 438 e ss. e, si licet, Dittrich, Appunti per uno studio del fatto notorio giudiziale, in Studi in onore di Giuseppe Tarzia, Milano 2005, vol. I, 819 e ss.
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tecniche di beni, condizioni climatiche, dati statistici, morfologia di un determinato territorio, compagini sociali, bilanci, intestazioni catastali: tutto e` alla portata di «click» di un «mouse». E siamo solo agli inizi: Internet, nella sua configurazione attuale, e` un fenomeno che ha avuto il suo inizio negli anni settanta, e che tutt’ora conosce una evoluzione rapidissima. Le implicazioni di una tale inedita disponibilita` di informazioni sulla formazione del giudizio di fatto sono enormi e per buona parte inesplorate. Si pensi al solo fatto che tramite lo strumento informatico il giudice, almeno per eventi di una qualche dimensione, puo` trarre non solo prove di fatti allegati, ma anche venire a conoscenza di fatti non allegati: e questo tramite una fonte che puo` somministrare addirittura prove in senso lato confessorie, qualora l’origine informatica dell’informazione sia riconducibile ad una delle parti del processo. E` la nozione stessa di fatto notorio che entra qui in gioco e che deve essere integralmente ripensata. E non sono percorribili scorciatoie: non e` immaginabile un divieto efficace per il giudice di consultare Internet; non lo si puo` ricusare, qualora cio` abbia fatto, a meno di rendere l’istituto delle incompatibilita` ancora piu` ampio, di quanto una certa nouvelle vague dottrinale gia` oggi pretenderebbe; ne´, ancora, si puo` ignorare il fenomeno, farisaicamente affermando che il giudice dovra` giudicare come se non avesse avuto cognizione di quel fatto, ottenuto non dalle parti, ma dalla «rete». La verita` e` che qui, prima ancora del principio dispositivo in materia probatoria, viene inevitabilmente messo in discussione lo stesso onere dell’allegazione dei fatti rilevanti e il correlato divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice, con una potenziale eversione dei principi fondamentali del processo civile. A ben vedere, ci troviamo qui di fronte ad una concezione del fatto notorio, che, ancora una volta, i commentatori medioevali avevano presente, e cioe` del fatto notorio inteso non come «notorieta` esterna al processo», quanto come «fatto indubitabilmente noto al giudice», tale da cagionare in capo a lui un convincimento non rimuovibile; si tratta allora di una categoria che, quanto a natura e trattamento processuale, puo` forse assimilarsi a quella Gerichtskundigkeit (ovvero fatto notorio giudiziale) di cui chi scrive ha recentemente sostenuto (per vero, senza troppa fortuna) la perdurante esistenza all’interno del processo civile (31).
(31) Dittrich, Il fatto notorio giudiziale, cit., 819. La identificazione di tale categoria si deve in particolare a Stein, Das private Wissen des Richters, Leipzig 1893, rist. anastatica Aalen 1969, 157. La dottrina italiana e` pero` ad oggi compatta nel negare ingresso a tale categoria di notorio nel diritto positivo: cfr. Vaccarella, Quaedam sunt notoria judici tantum et non aliis..., nota a Cass. S.U. 18 luglio 1989, n. 3374, in Giust. civ. 1989, I, 2549. Tale tentativo ricostruttivo e` stato ritenuto peraltro infondato da Cavallone, Il divieto di scienza privata del giudice, cit., 861, con argomenti (come di consueto, sviluppati con lucidita` e profondita` di pensiero) ai quali non e` possibile replicare in questa sede: bastera` per ora osservare che C. non nega che determinati fatti «giudizialmente noti» possano di fatto entrare nella valutazione del giudice in altro processo, ponendosi piuttosto il problema di come tali prove possano essere poi essere validamente utilizzate all’interno del processo ad quem; egli giunge cosı` a negare che cio` possa avvenire, qualora la fon-
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In siffatta situazione, mi sembra che, almeno come prima approssimazione, tre siano le direttive, che devono essere fornite all’interprete. In primo luogo, deve rimanere acquisito che l’allegazione dei fatti principali rimane nella disponibilita` delle parti: qui il problema non e` di prove, ma di disponibilita` del diritto sostanziale; in secondo luogo, mi sembra che sara` difficile negare ingresso alla prova dei fatti secondari, venuti a conoscenza dal magistrato tramite la rete ed acquisiti in forma documentale; in terzo luogo, e` chiaro che, laddove cio` capiti, il giudice dovra` provocare il contraddittorio dando alle parti la possibilita` di contro dedurre, in ossequio al diritto di difesa ed in applicazione dell’art. 183, settimo comma, c.p.c. 8. – Un tratto accomuna le sparse notazioni qui raccolte: l’evoluzione che si e` tratteggiata e` sempre piu` condizionata, in positivo o in negativo, dall’impressionante evoluzione che la scienza e la tecnica hanno conosciuto in questi decenni. La prova testimoniale assunta per capitoli e verbalizzata per sunto poteva avere un senso pratico nell’ottocento, ma e` anacronistica (a dir poco) in un’epoca in cui la videoregistrazione e` alla portata di chiunque, e a maggior ragione dovrebbe esserlo dell’organizzazione statale della giustizia. L’elevato contenuto tecnico di molte liti allontana il giudice dalla fonte di prova, che sempre piu` spesso apparira` a lui come sostanzialmente inintelligibile; nel contempo pero` quello stesso giudice rivendica a se´, quasi a compensare tale deficienza, un piu` lato potere acquisitivo, con un utilizzo talvolta disinvolto della consulenza tecnica in sostanziale elusione delle (troppo?) severe barriere preclusive che informano il nostro processo civile. Infine, la diffusione sempre piu` capillare della «rete» rende sempre piu` prossimo il giudicante alla realta`, ponendo nuove sfide ai cultori del diritto processuale. La soluzione di questi problemi e`, ancora una volta, affidata al diritto delle prove, alla sua interpretazione positiva e alla sua pratica applicazione. In definitiva, questa episodica rassegna mi sembra confermi come l’istruzione probatoria sia, alla fine, pur sempre un fenomeno giuridico e non meramente fattuale. Le norme di rito (e non solo quelle probatorie: penso per esempio alle regole di preclusione) inevitabilmente condizionano l’attitudine del processo al raggiungimento della verita`: con esse il giurista positivo e` chiamato a confrontarsi, rimanendo consapevole che la ricerca della vertia` non e` l’unico valore, di cui il legislatore e l’interprete sono chiamati a farsi carico. Lotario Dittrich Professore ordinario nell’Universita` di Trieste
te materiale di prova non venga acquisita e su di essa non si verifichi il contraddittorio tra le parti. Cio` facendo pero`, mi sembra, si viene ad ammettere sia l’esistenza di tal possibile fonte di prova, sia la sua utilizzabilita`, sia pure a seguito di acquisizione e di «purgazione» in forza del provocato contraddittorio, in una prospettiva che sostanzialmente coincide con quella che avevo ritenuto a suo tempo di proporre.
ATTUALITA` LEGISLATIVA
LA NUOVA MEDIAZIONE «OBBLIGATORIA» E IL PROCESSO OGGETTIVAMENTE E SOGGETTIVAMENTE COMPLESSO
Sommario: 1. Premessa. Posizione del problema. – 2. Il tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ipotesi di cumulo di domande nel processo tra due parti. – 3. (Segue) Pluralita` di domande proposte dall’attore nei confronti del convenuto. – 4. (Segue) La domanda riconvenzionale. – 5. (Segue) La domanda di accertamento incidentale. – 6. Il tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ipotesi di cumulo di domande nel processo con pluralita` di parti. – 7. (Segue) Cumulo di domande nel processo litisconsortile ab origine. – 8. (Segue) Cumulo di domande nell’ipotesi di intervento volontario in causa. – 9. (Segue) Cumulo di domande nell’ipotesi di chiamata in causa. – 10. Il tentativo obbligatorio di conciliazione nell’ipotesi di cumulo di domande strutturate in forma condizionale.
1. – Con il d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 60 della legge n. 69 del 18 giugno 2009, e` stata introdotta nel nostro ordinamento una compiuta disciplina della mediazione e della conciliazione in materia civile e commerciale attinente a diritti disponibili (1).
(1) La materia ha suscitato notevole interesse. Tra i numerosi scritti, che si sono occupati del contenuto della legge delega e del decreto legislativo, si segnalano, senza alcuna ambizione di completezza: Aa.Vv., La giustizia civile alla prova della mediazione (a proposito del d.leg. 4 marzo 2010 n. 28), in Foro it. 2010, V, c. 89 ss. (I. Quadro generale, ad opera di R. Caponi, c. 89 ss.; II. La mediazione tra processo e conflitto, ad opera di G. Armone e P. Porreca, c. 95 ss.; III. Mediazione, conciliazione e rapporti con il processo, ad opera di D. Dalfino, c. 101 ss.); M. Bove, La riforma in materia di conciliazione tra delega e decreto legislativo, in Riv. dir. proc. 2010, p. 343 ss.; G. Buffone, Mediazione e conciliazione, Milano 2010; G. Canale, Il decreto legislativo in materia di mediazione, in Riv. dir. proc. 2010, p. 616 ss.; A. Castagnola, F. Delfini (a cura di), La mediazione nelle controversie civili e commerciali. Commentario al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, Padova 2010; S. Chiarloni, Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo di attuazione della delega in materia di mediazione ex art. 60 legge n. 69/ 2009, in www.ilcaso.it; D. Dalfino, Dalla conciliazione societaria alla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, in www.judicium.it; F. Delfini, La me-
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Alla novita` normativa e` sottesa l’idea della composizione delle controversie attraverso l’utilizzo di strumenti alternativi alla giurisdizione, in funzione deflattiva del contenzioso che occupa gli uffici giudiziari (2). La mediazione e` definita dal legislatore, all’art. 1 del d.lgs. n. 28, come «l’attivita`, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o piu` soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa». Si tratta dunque di un’attivita` di diritto privato, funzionale al raggiungimento di un accordo negoziale (3).
diazione per la conciliazione delle controversie civili e commerciali ed il ruolo dell’Avvocatura, in Riv. dir. priv. 2010, p. 25 ss.; L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in Riv. dir. proc. 2010, p. 575 ss.; E. Fabiani, M. Leo, Prime riflessioni sulla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali» di cui al d.lgs. n. 28/2010, in Riv. notariato 2010, p. 893 ss.; M. Fabiani, Profili critici del rapporto fra mediazione e processo, in www.judicium.it; G. Finocchiaro, Dal 2011 si parte con il tentativo obbligatorio, in Guida dir. 2010, fasc. 12, p. 60; G. Monteleone, La mediazione «forzata», in Giust. proc. civ. 2010, p. 21 ss.; B. Sassani, F. Santagada (a cura di), Mediazione e conciliazione nel nuovo processo civile, Roma 2010; G. Scarselli, La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno, in www.judicium.it; F.P. Luiso, La delega in materia di mediazione e conciliazione, in Riv. dir. proc. 2009, p. 1257 ss.; C. Punzi, Mediazione e conciliazione, in Riv. dir. proc. 2009, p. 845 ss.; D. Borghesi, Conciliazione, norme inderogabili e diritti indisponibili, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2009, p. 121 ss. (2) Invero l’auspicio e` che lo strumento ideato dalla normativa in commento si affranchi dall’essere concepito come mezzo per porre rimedio all’eccessivo carico dei ruoli dei giudici civili e si affermi come autonomo metodo di composizione di conflitti, sviluppando la tendenza a tutelare quelle situazioni giuridiche che rischiano di non trovare piena ed adeguata protezione nel processo. Riteniamo che solo passando per tale consapevolezza il procedimento di mediazione possa ritagliarsi un ruolo adeguato nel nostro ordinamento, posto che non crediamo nell’esistenza di una relazione diretta tra l’inefficienza del sistema giudiziario ed il successo della mediazione. Cfr. in proposito G. Canale, Il decreto legislativo in materia di mediazione, cit., p. 617; A. Castagnola, sub art. 2, in A. Castagnola, F. Delfini (a cura di), La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 20 e 21; S. Chiarloni, Prime riflessioni sullo schema di decreto legislativo di attuazione della delega in materia di mediazione ex art. 60 legge n. 69/2009, cit., p. 3; M.F. Ghirga, Strumenti alternativi di risoluzione della lite: fuga dal processo o dal diritto? (Riflessioni sulla mediazione in occasione della pubblicazione della direttiva 2008/52/CE), in Riv. dir. proc. 2009, p. 369; M.P. Fuiano, La conciliazione obbligatoria stragiudiziale tra esigenze di deflazione e dubbi di legittimita`, in Giust. proc. civ. 2008, p. 755 e 756; F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2004, p. 1205 e 1206; G. Trisorio Liuzzi, La conciliazione obbligatoria e l’arbitrato nelle controversie di lavoro privato, in Riv. dir. proc. 2001, p. 950; E. Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, p. 331 s.; M. Taruffo, Adeguamenti delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1999, p. 783. (3) Adottando una precisa scelta terminologica, lo stesso legislatore definisce il risultato del procedimento di mediazione come «conciliazione»: secondo lo stesso art. 1 del d.lgs. la con-
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All’univocita` della definizione non corrisponde un’unica tipologia di mediazione, poiche´ il d.lgs. n. 28 ne contempla tre varianti: la mediazione «volontaria» o «facoltativa», che puo` svolgersi su iniziativa spontanea delle parti indipendentemente dalla pendenza di un processo; la mediazione «sollecitata» o «delegata», che, pur sempre volontaria, presuppone l’adesione delle parti all’invito rivolto loro dal giudice nel corso di un processo; e infine la mediazione «obbligatoria», che e` imposta dalla legge a pena di improcedibilita` della domanda giudiziale. E` quest’ultima la variante, alla quale vogliamo dedicare la nostra attenzione in questa sede, per vagliare alcuni profili problematici della relazione tra il procedimento di mediazione ed il processo. La norma, alla quale fare riferimento, e` contenuta nell’art. 5, 1º comma, del d.lgs. n. 28/2010, che per determinate materie espressamente indicate subordina il corretto esercizio del diritto della parte ad agire in giudizio al previo esperimento del procedimento di mediazione. Il secondo periodo del menzionato 1º comma dell’art. 5 dispone appunto che «l’esperimento del procedimento di mediazione e` condizione di procedibilita` della domanda giudiziale». Il legislatore ha dunque individuato nell’art. 5 la fonte, alla quale guardare per ricostruire la disciplina dei rapporti tra il procedimento di mediazione e il processo civile, concernente la medesima controversia oggetto del tentativo di conciliazione. L’ambito di applicazione della norma, specificato elencando le «materie» oggetto di controversia condizionate dalla necessita` del previo esperimento del tentativo di conciliazione, risulta ampio, posto che la scelta delle cause, per le quali il ricorso alla mediazione e` reso obbligatorio, e` frutto di una valutazione meramente discrezionale e di politica legislativa, con la quale si e` optato per coinvolgere una vasta serie di rapporti giuridici non collegati tra loro da alcun nesso: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e
ciliazione e` infatti «la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione». Nessuno dubita del fatto che tale risultato del procedimento di mediazione sia un atto di autonomia privata avente natura negoziale. Si vedano in proposito M. Andreoni e S. Romano, sub art. 11, in A. Castagnola, F. Delfini (a cura di), La mediazione nelle controversie civili e commerciali, cit., p. 180, 181 e 184. E gia` prima dell’introduzione del d.lgs. n. 28: F. De Santis, La conciliazione in materia societaria. Fondamenti negoziali, contrafforti pubblicistici e riflessi sul processo ordinario, in Giur. it. 2004, p. 449; M. Di Rocco, A. Santi, La conciliazione. Profili teorici ed analisi degli aspetti normativi e procedurali del metodo conciliativo, Milano 2003, p. 96 s.; C. Punzi, voce Conciliazione e tentativo di conciliazione, in Enc. dir., Aggiornamento IV, Milano 2000, p. 327 s.; A. Rossi, voce Conciliazione. I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., VIII, Roma 1988, p. 2; A. Briguglio, voce Conciliazione giudiziale, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., III, Torino 1988, p. 242; F. Lancellotti, voce Conciliazione delle parti, in Enc. dir., VIII, Milano 1961, p. 412 s.; G. De Stefano, Contributo alla dottrina del componimento processuale, Milano 1959, p. 10 s.; E.T. Liebman, Risoluzione convenzionale del processo, in Riv. dir. proc. 1932, p. 267 s.
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natanti, da responsabilita` medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicita`, contratti assicurativi, bancari e finanziari (4). La vastita` della portata dell’innovazione rende interessante l’indagine sulle dinamiche, che involgono il processo oggettivamente e soggettivamente complesso, vertente sulle controversie, per le quali l’esperimento del procedimento di mediazione e` appunto condizione di procedibilita` della domanda giudiziale. Intendiamo occuparci dunque delle seguenti fattispecie legate all’operativita` della disciplina della mediazione «obbligatoria»: la proposizione di un cumulo di domande nel processo pendente tra due parti; la proposizione di un cumulo di domande nel processo con pluralita` di parti (5). Posto che la norma contenuta nel citato secondo periodo del 1º comma dell’art. 5 prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione sia in generale «condizione di procedibilita` della domanda giudiziale», e non solo dunque della domanda giudiziale che introduce il giudizio, si pone il problema di verificare se a processo gia` in corso sia comunque necessario esperire il procedimento di mediazione prima di introdurre una nuova domanda o prima di rivolgere una domanda nei confronti di parti, che non hanno partecipato al procedimento di mediazione (6). Il medesimo problema legato alla necessita` di esperire il tentativo di conciliazione della controversia oggetto di nuova domanda si e` posto ed e` stato affrontato
(4) Si percepisce a primo acchito come tale eterogenea elencazione possa essere fonte di numerosi problemi interpretativi. La norma deve essere adeguatamente interpretata nelle singole fattispecie, al fine di evitare che la portata della mediazione obbligatoria sia estesa al punto tale da consentire di dubitare della ragionevolezza stessa del sistema. Si vedano i rilevi sul punto di L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, cit., p. 583 e 584, e D. Dalfino, Dalla conciliazione societaria alla «mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, cit., p. 4. (5) Affine a tale fattispecie e` la problematica, che tenteremo di non trascurare, legata all’ipotesi nella quale, sebbene il processo non sia propriamente oggettivamente complesso, il procedimento di mediazione si sia svolto solo nei confronti di alcuni dei soggetti, che prendono poi parte al giudizio. (6) In termini piu` generali potremmo dire che il problema in esame verte sulla sussistenza della necessita` di esperire previamente il tentativo di conciliazione tutte le volte che nel corso del processo gia` pendente siano proposte in via di riconvenzione «controdomande» nei confronti di una parte, accogliendosi una nozione lata di «riconvenzione», nella quale siano comprese tutte le domande proposte dal convenuto nei confronti dell’attore, dal convenuto nei confronti di un altro convenuto, ovvero da un terzo interveniente o da un terzo chiamato nei confronti dell’attore o del convenuto. In questo senso G. Tarzia, C.E. Balbi, voce Riconvenzione (diritto processuale civile), in Enc. dir., XL, Milano 1989, p. 670. In senso terminologico parzialmente diverso C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino 2010, I, p. 231, che tende ad escludere dall’ampio genere delle riconvenzionali «le domande che si aggiungono nel corso del processo a quella originaria, ma che sono dirette nei confronti di soggetti terzi, e cioe` di soggetti che non sono ancora parti del processo».
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nell’ambito delle controversie di lavoro, in relazione alla condizione di procedibilita` prevista dall’abrogato art. 412bis (7), e per le controversie in materia di contratti agrari, relativamente al tentativo di conciliazione di cui all’art. 46 l. 3 maggio 1982 n. 203 (8). Come detto, il presente lavoro si propone di affrontare il problema tenendo in considerazione due aspetti: la proposizione nel medesimo processo di ulteriori domande al fianco della domanda principale; e la proposizione nel medesimo processo di domande rivolte nei confronti di soggetti, che non hanno partecipato al procedimento di mediazione previamente esperito. In particolare, poi, in relazione alle ipotesi di processo oggettivamente complesso, e non necessariamente soggettivamente complesso, a delimitazione delle riflessioni che andremo a svolgere, fissiamo il seguente postulato, dal quale partire per sviluppare il ragionamento: che la domanda principale verta su una delle controversie assoggettate alla condizione di procedibilita` e sia stata correttamente introdotta nel processo, a seguito del previo esperimento del procedimento di mediazione; e ipotizziamo dunque che a tale domanda principale si affianchi una domanda nuova, sempre relativa ad una delle materie indicate nell’elenco del 1º comma dell’art. 5, e non preceduta dal tentativo di conciliazione. 2. – L’esame delle problematiche individuate prende le mosse dall’indagine nell’ambito del processo solo oggettivamente, e non soggettivamente, complesso. Vengono qui in rilievo le ipotesi di cumulo di domande nel processo tra due sole parti; e in relazione a tali ipotesi e` nostra intenzione soffermarci sulle seguenti fattispecie: la proposizione di un cumulo di domande da parte dell’attore nei confronti del convenuto, concernenti controversie assoggettate al disposto del 1º comma del menzionato art. 5 e non precedute dal tentativo di conciliazione; la proposizione da parte del convenuto di una domanda riconvenzionale, anch’essa concer-
(7) L’articolo e` stato abrogato dall’art. 31 della l. 4 novembre 2010 n. 183. Appare quantomeno curioso che sia stata eliminata la condizione di procedibilita` della domanda nel rito del lavoro proprio nel momento in cui il medesimo legislatore ha concepito l’esperimento del procedimento di mediazione obbligatorio in un nuovo vasto ambito di controversie civili e commerciali. (8) Tra gli altri, affrontano tale problematica nell’ambito del processo del lavoro o delle controversie agrarie: G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5a ed., Milano 2008, p. 46; A. Ronco, Costituzionalita` (e inopportunita`) del tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale nelle controversie di lavoro, in Giur. it. 2001, p. 1094; F.P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in Riv. it. dir. lav. 1999, p. 377; R. Vaccarella, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull’arbitrato in materia di lavoro, in Argom. dir. lav. 1998, p. 715; P. Nappi, Tutela giurisdizionale e contratti agrari, Milano 1994, p. 360 s.; D. Borghesi, Il tentativo di conciliazione e l’arbitrato nei licenziamenti, in F. Carinci (a cura di), La disciplina dei licenziamenti, I, Napoli 1991, p. 234; A. Proto Pisani, Note in tema di conciliazione obbligatoria e di arbitrato nella nuova disciplina dei licenziamenti individuali (art. 5, l. 11 maggio 1990, n. 108), in Foro it. 1990, V, c. 506.
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nente una delle controversie, per le quali la mediazione e` obbligatoria, senza il previo esperimento del procedimento di mediazione; la proposizione da parte dell’attore o del convenuto di una domanda di accertamento incidentale. Ci accingiamo alla disamina delle tematiche, presupponendo che vi siano due parti in lite e che tra le stesse sia gia` stato esperito un procedimento di mediazione senza esito: abbiamo gia` in precedenza dichiarato di voler affrontare l’indagine, nel campo di applicazione della mediazione obbligatoria, partendo dall’idea che la domanda principale sia stata correttamente introdotta nel processo, dopo aver soddisfatto la condizione di procedibilita`, e che a tale domanda principale si sia affiancata una domanda nuova, non preceduta invece dal tentativo di conciliazione (9). E` bene tener presente che, per valutare se effettivamente la domanda nuova sia stata assoggettata al tentativo di conciliazione, non e` possibile limitarsi ad un esame meramente formale delle istanze, che hanno dato avvio al procedimento di mediazione. A nostro avviso non e` infatti necessario che la domanda in discorso, introdotta nel successivo processo al fianco della domanda principale, sia stata oggetto di apposita istanza di mediazione formulata ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 28/ 2010, apparendo sufficiente che nell’ambito del procedimento di mediazione gia` pendente siano stati in qualunque forma introdotti ed esplicitati l’oggetto e le ragioni della pretesa contenuta nella nuova domanda, e che la stessa pretesa emerga dal contenuto del processo verbale formato a norma dell’art. 11 del medesimo d.lgs. n. 28. Tale scelta interpretativa pare poter discendere da una lettura sistematica del procedimento di mediazione, concepito dal legislatore come scevro da solennita` formali (10). Prima di addentrarci nell’analisi di ciascuna fattispecie occorre svolgere un’ulteriore considerazione preliminare: se la parte non ha inteso partecipare al procedimento di mediazione o, partecipando, non ha introdotto in tale procedimento l’oggetto e le ragioni della propria pretesa, impedendo cosı` l’individuazione dell’ambito di applicazione della mediazione obbligatoria, prevedere il necessario esperimento di un nuovo procedimento di mediazione su una nuova pretesa significherebbe attribuire alla parte il potere di utilizzare l’istituto della mediazione a fini meramente dilatori (11).
(9) Al di la` delle questioni legate ai vincoli di connessione tra le diverse domande, sulle quali si tornera` nel prosieguo, ci sembra di dover affermare infatti che, qualora nessun tentativo di conciliazione sia mai stato svolto tra le parti prima dell’instaurazione del giudizio, e la materia del contendere della nuova domanda introdotta nel processo imponga il rispetto del disposto dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, non sia possibile reperire alcun appiglio interpretativo per sottrarre tale domanda alla condizione di procedibilita`. (10) Si pensi all’assenza di specifiche regole di competenza; al disposto dell’art. 3, 3º comma, del d.lgs. n. 28, a tenore del quale «gli atti del procedimento di mediazione non sono soggetti a formalita`»; ed ancora, alla previsione contenuta nel 2º comma dell’art. 8 del medesimo d.lgs., secondo la quale «il procedimento si svolge senza formalita`...». (11) Il giudice infatti non puo` limitarsi a dichiarare improcedibile la domanda relativa alla nuova pretesa, posto che, sebbene il procedimento di mediazione come condizione di procedibi-
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3. – Cio` premesso, veniamo ora all’esame della prima delle questioni sopra indicate. L’ipotesi e` quella della proposizione da parte dell’attore di una pluralita` di domande nei confronti del convenuto, che, sebbene riconducibili all’ambito di applicazione della mediazione obbligatoria, non siano state tutte assoggettate al previo esperimento del tentativo di conciliazione. La fattispecie rientra nella previsione dell’art. 104 c.p.c., che consente espressamente all’attore di cumulare piu` domande nei confronti della parte convenuta. Ai fini che qui interessano, deve tuttavia tenersi distinta la fattispecie di cumulo oggettivo unilaterale di domande connesse da quella di cumulo oggettivo unilaterale di domande non connesse. Se infatti in entrambi i casi alla previsione della facolta` dell’attore di proporre contestualmente piu` domande e` sottesa l’idea di realizzare il principio di economia processuale, solo al cumulo della prima specie invece e` correlata l’esigenza di garantire un coordinamento decisorio sulle distinte domande, essenziale per il rispetto della connessione oggettiva esistente (12). Dalle considerazioni di cui sopra discende che nell’ipotesi di cumulo di domande non altrimenti connesse, se una delle cause avesse implicato il preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, e non e` stata fatta oggetto del procedimento di mediazione, non si possono evitare le conseguenze previste dall’art. 5, 1º comma, d.lgs. n. 28/2010 per effetto del rilievo della eccezione di improcedibilita`. La mera esigenza di economia processuale, che assiste la fattispecie di cumulo in discorso, cosı` come non e` in grado di evitare la separazione delle cause, espressamente prevista dal 2º comma dell’art. 104 c.p.c., cede rispetto alla previsione della condizione di procedibilita` di cui al menzionato 1º comma dell’art. 5. La soluzione piu` appagante pare pertanto quella di separare i giudizi introdotti dall’attore con le domande cumulate e non connesse, e non quella di rinviare il processo oggettivamente complesso all’udienza fissata dopo la scadenza del termine previsto per la durata del procedimento di mediazione. Per contro, il quesito se il tentativo di conciliazione, se obbligatorio, costituisca condizione di procedibilita` di tutte le domande proposte nel processo in caso di cumulo di cause oggettivamente connesse sembra meritare una risposta negativa. In questo caso infatti non dovrebbe potersi optare per la separazione dei giudizi, per non frustrare la fondamentale esigenza di garantire il coordinamento delle de-
lita` della domanda giudiziale costituisca una questione processuale preliminare impediente del potere del giudice di arrivare ad una decisione sul merito, il mancato rispetto dell’adempimento pregiudiziale comunque non compromette irrimediabilmente il successivo giudizio, potendosi la parte avvalere del meccanismo di sanatoria di cui all’art. 5, 1º comma, d.lgs. n. 28/2010, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda. L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, cit., p. 585 e 586 teme una censura di costituzionalita` della norma se non si interpreta nel senso «di ritenere che il tentativo obbligatorio si ponga come condizione di procedibilita` della domanda giudiziale che introduce il processo, mentre tutte le domande successive, che possono sorgere all’interno del processo stesso, non siano soggette a tale onere». (12) Si veda in proposito C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, p. 304.
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cisioni sulle cause connesse (13). E prevedere il necessario esperimento del procedimento di mediazione significherebbe rinviare la trattazione dell’intero processo alla scadenza del termine previsto per la durata del tentativo di conciliazione (14). In altri termini, nel caso di domande tra loro connesse per oggetto e titolo, proposte dall’attore nei confronti del convenuto, delle quali almeno una sia gia` stata oggetto di un procedimento di mediazione, ci pare convincente l’idea che sia inutilmente lesiva del principio di ragionevole durata del processo la previsione della necessita` di un ulteriore procedimento di mediazione tra due parti, che hanno gia` affidato alla sede processuale la regolamentazione dei loro rapporti controversi (15). In fondo l’oggetto del procedimento di mediazione e l’oggetto del successivo giudizio non devono essere perfettamente sovrapponibili: se le parti non hanno raggiunto la conciliazione su una determinata controversia, non ha senso imporre loro di ripetere la mediazione su un’altra controversia oggettivamente connessa alla prima (16). In questa ipotesi l’attore potra` dunque validamente proporre nei confronti del convenuto una ulteriore domanda relativa ad una controversia assoggettata alla mediazione obbligatoria, senza previamente esperire il tentativo di conciliazione. 4. – Passiamo ora ad esaminare le questioni relative alla procedibilita` della domanda riconvenzionale relativa ad una delle controversie indicate nel 1º comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, proposta dal convenuto senza che sia stato previamente svolto il procedimento di mediazione.
(13) Il cumulo di domande oggettivamente connesse per il titolo o per l’oggetto e` frutto di un legame che ha fondamento sostanziale e non solo processuale, posto che riguarda i diritti fatti valere dalle parti con le domande cumulate, prima ancora delle domande stesse. In questi termini C. Consolo, op. cit., p. 306. (14) Vero e` che nell’ipotesi che stiamo esaminando l’attore stesso avrebbe scatenato gli effetti del condizionamento previsto dall’art. 5 del d.lgs. n. 28/2010; tuttavia l’interpretazione della norma deve essere fondata su premesse e argomentazioni suscettibili di applicazione, che sia in grado di andare oltre il singolo caso concreto. (15) Non e` realistico pensare che le parti, dopo aver avviato un giudizio a seguito del fallimento di un tentativo di conciliazione, possano riuscire a mediare una lite connessa a quella per la quale pende appunto il giudizio. (16) Per quanto concerne la non necessaria coincidenza tra l’oggetto del procedimento di mediazione e l’oggetto del successivo giudizio, bisogna considerare che nel corso della mediazione possono emergere ed essere trattate nuove questioni, frutto di richieste delle parti ulteriori rispetto a quelle formulate con l’istanza di avvio del procedimento, non necessariamente confinate nell’ambito delle controversie, per le quali e` stato obbligatoriamente instaurato il procedimento stesso. Se il tentativo di conciliazione fallisce, nel successivo giudizio, per valutare l’avveramento della condizione di procedibilita` della domanda, sara` sufficiente verificare che il procedimento di mediazione abbia avuto ad oggetto la controversia, per la quale e` previsto il condizionamento, restando del tutto irrilevante, salvo eventualmente che ai fini previsti dall’art. 13 del d.lgs. n. 28/2010, se abbia avuto ad oggetto anche ulteriori controversie esistenti tra le parti.
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Il tenore letterale della norma in discorso, come detto in precedenza, non sembra consentire di escludere la necessita` dell’esperimento del tentativo di conciliazione, ove la domanda introdotta in via riconvenzionale verta su una delle materie indicate (17). La dottrina avverte tuttavia il pericolo legato alle conseguenze di un’interpretazione rigorosa della disposizione, per la lesione che subirebbe il principio della ragionevole durata del processo (18). Sebbene valga la considerazione che la domanda del convenuto, assoggettata a mediazione obbligatoria, se introdotta in un giudizio diverso e non in via ricon-
(17) Nel contesto del processo del lavoro F.P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, cit., p. 386, riteneva che, da un punto di vista strettamente oggettivo, l’obbligatorieta` del tentativo di conciliazione riguardasse qualunque domanda, comunque proposta, sulla scorta della considerazione che «se le domande proposte in corso di causa fossero esentate dal tentativo, allora dovremmo ritenere a fortiori che non avrebbe senso la correlazione fra oggetto del tentativo e oggetto della domanda proposta con il ricorso introduttivo. Sarebbe sufficiente proporre istanza di conciliazione semplicemente asserendo che fra le parti vi e` un generico disaccordo». Erano pure inclini a ritenere che la proposizione di una domanda riconvenzionale fosse soggetta al preliminare esperimento del tentativo di conciliazione, nella vigenza dell’art. 412 bis c.p.c., A. Tedoldi, Appunti sul processo del lavoro, in Giur. it. 2001, p. 1541; L. De Angelis, Riforme della giustizia del lavoro: condizionamento della giurisdizione e accertamento pregiudiziale sui contratti collettivi dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in M. Taruffo (a cura di), Le riforme della giustizia civile, Torino 2000, p. 667; C. Cecchella, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro privato e pubblico, in Mass. Giur. lav. 1999, p. 452; F. Collia, Tentativo obbligatorio di conciliazione e provvedimento cautelare, in Lav. nella giur. 1999, p. 857. E in giurisprudenza: Cass., sez. un., 21 luglio 2009, n. 16910, in Guida dir. 2009, fasc. 37, p. 30; Cass., sez. III, 14 novembre 2008, n. 27255, in Giur. it. 2009, 1719; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436, in Foro it. 2010, I, c. 240; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816, in Mass. Giur. lav. 2008, p. 110; Cass., sez. III, 26 maggio 2005, n. 11192, in Guida dir. 2005, fasc. 27, p. 64. Anche i giudici di legittimita`, pronunciatisi nell’ambito delle liti concernenti i contratti agrari, ritengono che l’onere del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione di cui all’art. 46 della legge 3 maggio 1982, n. 203 sussista a carico del convenuto, che propone una domanda in via riconvenzionale, per il solo fatto che egli sottopone al giudice una domanda relativa ad una controversia agraria. Si vedano Cass., sez. III, 14 luglio 2003, n. 10993, in Arch. civ. 2004, p. 653; Cass., sez. III, 24 giugno 2003, n. 10017, ivi, p. 511; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613, in Giust. civ. 2000, I, p. 829. (18) Cfr. L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, cit., p. 585. In relazione alle controversie di lavoro avevano gia` segnalato che l’imposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione comporta un ingiustificato allungamento dei tempi processuali, in contrasto con la previsione dell’art. 111, 2º comma, Cost., N. Rascio, Controversie di lavoro e domanda riconvenzionale: contro l’obbligatorieta`del tentativo di conciliazione stragiudiziale, in Giur. it. 2003, p. 81; A. Manna, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nella riforma degli artt. 410 e segg. c.p.c., tra deflazione e legislazione (occulta) di sostegno, in Riv. crit. dir. lav. 1998, p. 525.
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venzionale, ricadrebbe nell’ambito di applicazione della condizione di procedibilita`, si osserva tuttavia che nella fattispecie si debba contemperare il rispetto del dettato normativo con l’esigenza, propria dell’ermeneutica giuridica, di interpretare la norma in guisa da conferirle una concreta utilita` pratica (19). Nel valutare nella fattispecie la dinamica del rapporto processuale pendente tra due sole parti pare opportuno osservare dal punto di vista del bilanciamento dei contrapposti interessi che, se si ritiene procedibile la domanda riconvenzionale proposta senza esperire il tentativo di conciliazione, non si consente al convenuto di acquisire alcun sostanziale vantaggio e non vengono eluse le finalita` deflattive sottese alla previsione dell’obbligatorieta` del tentativo di conciliazione; viceversa, se si impone il rinvio del processo in conseguenza del condizionamento della domanda riconvenzionale, si provoca uno svantaggio all’attore, che ha gia` investito il giudice con la propria richiesta di tutela e attende una decisione sulla propria domanda il piu` rapidamente possibile (20). Certo non appaga la soluzione al problema, che passa dall’idea della non obbligatorieta` da parte del convenuto di promuovere il tentativo di conciliazione concernente la domanda riconvenzionale, sol perche´ le parti sono le medesime del procedimento di mediazione gia` promosso dall’attore. Appare tuttavia con-
(19) Contro l’applicabilita` del tentativo di conciliazione in materia di lavoro alle domande riconvenzionali, ammettendosene l’immediata procedibilita`: G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, 5a ed., cit., p. 46; G. Della Pietra, Domande in corso di causa e tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale, Dir. e giur. 2003, p. 406; N. Rascio, Controversie di lavoro e domanda riconvenzionale: contro l’obbligatorieta` del tentativo di conciliazione stragiudiziale, cit., p. 78; R. Tiscini, Brevi ritorni sull’incompatibilita` tra tentativo obbligatorio di conciliazione e domande proposte in corso di causa, in Giur. merito 2003, p. 1394; Id., Le domande in corso di causa nelle controversie di lavoro alla prova del tentativo obbligatorio di conciliazione, in Giust. civ. 2000, I, p. 910; Id., in G.C. Perone, B. Sassani (a cura di), Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Il decreto legislativo n. 80 del 1998, Padova 1999, p. 47; D. Borghesi, La giurisdizione del pubblico impiego privatizzato, Padova 2002, p. 210; G. Trisorio Liuzzi, La conciliazione obbligatoria e l’arbitrato nelle controversie di lavoro privato, cit., p. 989; C. Punzi, voce Conciliazione e tentativo di conciliazione, cit., p. 333; F. Bianchi D’Urso, sub art. 69, in La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Nuove leggi civ. comm. 1999, p. 1480. In questo senso si era pronunciata anche la giurisprudenza di merito prevalente. Si vedano Trib. Ivrea 22 dicembre 2004, in Giur. it. 2005, p. 1684; Trib. Torino 3 luglio 2002, in Giur. piem. 2003, p. 365; Trib. Taranto 18 aprile 2002, in Giur. it. 2003, p. 78; in Giur. merito 2003, p. 1394; e in Dir e giur. 2003, p. 406; Trib. Milano 10 febbraio 2001, in Lav. nella giur. 2001, 997; Trib. Forlı` 11 maggio 2000, in Lav. nella giur. 2000, p. 979; Trib. Campobasso 8 ottobre 1999, in Giust. civ. 2000, I, p. 909, che tuttavia fa riferimento non ad una domanda bensı` ad un’eccezione riconvenzionale. (20) Cfr. L. della Pietra, R. Sdino, sub artt. 36-39, in La riforma dell’organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, cit., p. 1560; R. Tiscini, in G.C. Perone, B. Sassani (a cura di), Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, cit., p. 4.
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vincente la visione secondo la quale, una volta trasferito innanzi ad un giudice il conflitto tra le due parti, non abbia senso subordinare l’esame del merito della domanda riconvenzionale al previo esperimento di un nuovo tentativo di conciliazione tra le stesse (21). Soccorrono in proposito le riflessioni gia` esposte in precedenza con riferimento all’ipotesi di pluralita` di domande proposte dall’attore: non appare logico obbligare il convenuto, che vuole proporre una domanda riconvenzionale, a promuovere il procedimento di mediazione, posto che il rapporto giuridico si svolge nel contesto di una situazione di litigiosita` ormai irreversibile (22). Anche nella fattispecie che stiamo qui esaminando dovrebbe comunque valutarsi se la domanda riconvenzionale sia legata alla domanda principale da un nesso di connessione, ammesso che, indipendentemente dalla previsione dell’art. 36 c.p.c., si ritengano ammissibili domande riconvenzionali, che non dipendano «dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che gia` appartiene alla causa come mezzo di eccezione» (23). Mentre nell’ipotesi di domanda riconvenzionale connessa alla domanda principale la previsione della necessita` di un ulteriore procedimento di mediazione tra le parti risulterebbe lesiva dell’esigenza di garantire il coordinamento delle decisioni sulle cause connesse, oltre che del principio di ragionevole durata del processo, sarebbe invece ipotizzabile la separazione della domanda principale dalla riconvenzionale non connessa, al fine di imporre al convenuto il rispetto della previsione dell’art. 5, 1º comma, d.lgs. n. 28/2010 (24).
(21) Tutte le volte che il giudizio, nel quale e` proposta la domanda riconvenzionale, e` stato preceduto da un procedimento di mediazione tra le stesse parti, il convenuto, che non ha assoggettato alla mediazione stessa le proprie pretese, introdotte poi nel processo in via riconvenzionale appunto, ha di fatto implicitamente espresso la volonta` di non voler concludere alcun accordo conciliativo (salva l’ipotesi residuale, nella quale il fatto costitutivo della domanda riconvenzionale sia sorto successivamente all’esperimento del procedimento di mediazione) nell’ambito di un procedimento, che per sua natura dovrebbe essere volto a far emergere tutti i conflitti esistenti tra le parti. (22) Cfr. in proposito S. Chiarloni, Brevi note sulla conciliazione stragiudiziale (e contro l’obbligatorieta` del tentativo), in Giur. it. 2000, p. 211. Avvertono che il tentativo di conciliazione costituisce un ostacolo ad una celere ed ordinata articolazione del processo M. De Cristofaro, F. Murino, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, 4ª ed., Milano 2010, tomo III, p. 2367. (23) Sul problema dell’ammissibilita` delle domande riconvenzionali non connesse si vedano C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., I, p. 239 e 240; E. Vullo, voce Riconvenzione, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XVIII, Torino 1998, p. 539 ss.; Id., La domanda riconvenzionale, Milano 1995, p. 274 ss.; G. Tarzia, C.E. Balbi, voce Riconvenzione (diritto processuale civile), cit., p. 672 ss.; M. Dini, La domanda riconvenzionale nel diritto processuale civile (art. 36 cod. proc. civ.), Milano 1978, p. 143 ss. (24) Una simile conclusione pare si possa ricavare in via interpretativa dalla decisione della Cass., sez. III, 1 dicembre 1999, n. 13359, in Giust. civ. 2000, I, p. 696, che in tema di contratti agrari afferma: «l’obbligo del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, di cui all’art.
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Anche in questa ipotesi, cosı` come in quella di cumulo oggettivo unilaterale di domande non connesse, a nostro avviso, una mera esigenza di economia processuale non potrebbe imporsi sulla previsione della condizione di procedibilita`, nei termini in precedenza descritti, posto che lo stesso art. 36 c.p.c. limita la previsione della trattazione e decisione simultanea della domanda principale e della domanda riconvenzionale solo ai casi di connessione particolarmente stretta. 5. – Concludiamo l’esame delle fattispecie di cumulo di domande nel processo tra due parti, soffermandoci brevemente sull’ipotesi di domanda di accertamento incidentale, concernente una controversia assoggettata alla mediazione obbligatoria, che sia proposta nel processo instaurato a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione esperito tra le parti. La norma di riferimento, l’art. 34 c.p.c., nel consentire che, a seguito della domanda di parte, le questioni pregiudiziali di merito siano decise e non solo conosciute, prevede che la nuova domanda determini l’estensione dell’oggetto del giudizio. A nostro avviso, per quel che qui rileva, questa ipotesi non dovrebbe dare luogo a particolari problematiche, posto che per definizione la domanda di accertamento incidentale verte su rapporti, che rappresentano dei passaggi logici necessari per la decisione sulla domanda principale (25). Il particolare vincolo di connessione, che lega tale domanda di accertamento alla domanda principale, consente di ritenere superabile il condizionamento previsto dal 1º comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010. Se l’estensione dell’oggetto del procedimento di mediazione si valuta in concreto, al di la` di vincoli di forma, la controversia oggetto della domanda di accertamento incidentale rientra sempre nella materia del contendere sottoposta al mediatore investito del tentativo di conciliazione della domanda principale. Nel processo infatti il diritto o la situazione giuridica oggetto della domanda di accertamento incidentale sono sempre gia` dedotti nella materia della lite; e la formulazione della domanda non comporta che il dovere del giudice di «decidere» cio` che comunque dovrebbe «conoscere» (26).
46 legge 3 maggio 1982 n. 203, non e` necessario con riferimento alla domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, quando tale domanda, per essere fondata sui medesimi fatti dedotti in giudizio dall’attore, non ampli l’oggetto del giudizio». (25) Sul tema si rinvia a S. Recchioni, Pregiudizialita`processuale e dipendenza sostanziale nella cognizione civile, Padova 1999; V. Denti, voce Questioni pregiudiziali, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XVI, Torino 1997, p. 158 ss.; L. Montesano, Questioni e cause pregiudiziali nella cognizione ordinaria del codice di procedura civile, in Riv. dir. proc. 1988, p. 299 ss.; E. Garbagnati, voce Questioni pregiudiziali (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXXVIII, Milano 1987, p. 69 ss.; F. Menestrina, La pregiudiciale nel processo civile, Milano (rist.) 1963, p. 33 ss.; S. Satta, voce Accertamento incidentale, in Enc. dir., I, Milano 1958, p. 243 ss.; F. Carnelutti, In tema di accertamento incidentale, in Riv. dir. proc. civ. 1943, II, p. 17 ss. (26) In questi termini C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., I, p. 235.
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Nel richiamare le considerazioni gia` svolte in precedenza, che, a nostro avviso, impongono in questa materia un’intepretazione scevra da formalismi ed attenta invece all’equo bilanciamento degli interessi delle parti e della giustizia in generale, si deve anche in questa fattispecie valutare come non rivesta alcuna utilita` l’imposizione alle parti di un nuovo procedimento di mediazione su una controversia «pregiudiziale» rispetto a quella gia` oggetto del tentativo di conciliazione fallito. 6. – Le conclusioni sin qui raggiunte costituiscono ora la premessa, in base alla quale procedere all’esame delle questioni concernenti il rapporto fra la mediazione obbligatoria e le fattispecie di cumulo di domande nei giudizi con pluralita` di parti. In effetti, in relazione alla previsione dell’obbligatorieta` del tentativo di conciliazione, pare opportuno domandarsi se l’esperimento del procedimento di mediazione tra solo alcune delle parti, poi coinvolte nel successivo processo, sia sufficiente a ritenere soddisfatta la condizione di procedibilita` della domanda, oppure se in queste ipotesi la domanda giudiziale proposta da un soggetto o nei confronti di un soggetto, che non ha preso parte alla mediazione, si debba considerare viziata, per il mancato rispetto della disposizione contenuta nel 1º comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010. Si prenderanno in considerazione, in particolare, le ipotesi di processo litisconsortile ab origine, di intervento in causa e di chiamata in causa. 7. – Come noto, nel processo litisconsortile, tale sin dal suo inizio, il giudizio assume una struttura pluralistica, per effetto delle domande proposte dall’attore nei confronti di piu` convenuti, ovvero da piu` attori nei confronti di uno o piu` convenuti (27). Vanno tenute distinte le ipotesi di litisconsorzio necessario da quelle di litisconsorzio facoltativo, poiche´ a differenza di queste ultime le prime presuppongono che vi sia un processo solo soggettivamente complesso, vertente su un’unica causa (28). Il profilo problematico nelle ipotesi di litisconsorzio necessario attiene all’eventuale svolgimento del procedimento di mediazione nei confronti solo di alcune delle parti. In questo caso, qualora non si raggiunga la conciliazione e venga instaurato il giudizio, non sembra rivesta alcun significato pratico la scelta di interpretare il 1º comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010 nel senso di imporre l’esperimento di un nuovo procedimento di mediazione alla presenza di tutti i litisconsorti neces-
(27) Si vedano sull’argomento: L. Zanuttigh, voce Litisconsorzio, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XI, Torino 1994, p. 40 ss.; S. Menchini, Il processo litisconsortile, I, Milano 1993; G. Costantino, voce Litisconsorzio, in Enc. giur., XIX, Roma 1988; G. Tarzia, Connessione di cause e simultaneus processus, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1988, p. 397 ss.; G. Fabbrini, voce Litisconsorzio, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974, p. 810 ss.; E. Redenti, Il giudizio civile con pluralita` di parti, Milano 1962. (28) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, p. 312.
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sari, posto che, per avere successo il tentativo di conciliazione, il verbale di accordo deve essere espressione della volonta` di tutte le parti. Nella fattispecie tale risultato e` escluso in radice, per il fatto che gia` alcuni dei litisconsorti hanno sottoposto la lite, soggettivamente inscindibile ai sensi dell’art. 102 c.p.c., alla decisione di un giudice. Diversamente, nelle ipotesi di litisconsorzio facoltativo si verifica un vero e proprio cumulo di domande. L’art. 103 c.p.c. prevede che piu` cause possano essere introdotte in un unico processo simultaneo, pur restando perfettamente autonome tra loro (29): la norma dispone infatti che le domande possano essere connesse «per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono», o che si possa comunque realizzare il cumulo «quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni». Nelle ipotesi di vera e propria connessione dunque, nelle quali esiste un particolare legame tra le domande, ragioni di opportunita` impongono di evitare ancora una volta la scissione del cumulo realizzato, perche´ la decisione delle diverse cause esige statuizioni omogenee e conformi. Nelle altre ipotesi invece, conosciute come fattispecie di litisconsorzio per connessione cosı` detta «impropria», poiche´ la decisione delle domande cumulate dipende solo dalla soluzione di identiche questioni, le cause non hanno alcun elemento identificatorio comune. Per quel che riguarda le problematiche che ci siamo proposti di affrontare, pertanto, non e` ipotizzabile nelle fattispecie di litisconsorzio per connessione impropria che lo svolgimento del procedimento di mediazione per solo alcune delle cause possa consentire di ritenere soddisfatta la condizione di procedibilita` nell’ambito del processo cumulativo: deve dunque prevalere l’esigenza dello scioglimento del cumulo, ai sensi del 2º comma dell’art. 103 c.p.c., per consentire l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Al contrario, nelle fattispecie di litisconsorzio per connessione propria sembrerebbe ragionevole ritenere sufficiente l’espletamento del procedimento di mediazione nei confronti di alcune delle parti, ai fini del soddisfacimento dell’intento sottostante al disposto dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010. Tuttavia, come gia` evidenziato in precedenza, il dato letterale della norma appena citata sembrerebbe non consentire di concludere nel senso che la domanda proposta dal litisconsorte o nei confronti del litisconsorte, che non ha preso parte al procedimento di mediazione, non debba essere assoggettata alla condizione di procedibilita` in discorso. A superamento di una rigorosa attuazione del dettato normativo, riprendendo la proposta interpretativa formulata con riferimento al processo solo oggettivamente complesso, potrebbe affermarsi anche in questa fattispecie l’idea che il procedi-
(29) Salve le ipotesi di litisconsorzio cosı` detto «unitario», che si verifica allorquando tra le domande dei litisconsorti intercorre una connessione sia per il titolo sia per l’oggetto. Si rinvia per una approfondita disamina delle fattispecie a G. Tarzia, Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano 1972.
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mento di mediazione si ponga come condizione di procedibilita` della sola domanda che introduce il giudizio, se le domande che sorgono all’interno del processo gia` in corso sono legate ad essa da una connessione tale per cui lo svolgimento del simultaneus processus non solo si pone a garanzia dell’esigenza di economia dei giudizi ma risulta funzionale alla necessita` che vi sia un coordinamento tra le decisioni sulle domande cumulate (30). A nostro avviso, una tale soluzione dovrebbe essere accolta, per contenere i tempi di durata del processo, non ostante il rilievo di una differenza rispetto alle ipotesi di cumulo di domande tra due sole parti, che potrebbe rendere piu` fragili le conclusioni raggiunte nella presente fattispecie: il principio affermato, che consente di sottrarre all’ambito di applicazione della condizione di procedibilita` la domanda cumulata, si accompagna, nella lite che coinvolge due sole parti, comunque al fatto che un procedimento di mediazione e` gia` stato esperito tra quelle stesse parti; mentre nel caso di litisconsorzio facoltativo in esame non sarebbe stato gia` esperito alcun procedimento di mediazione, nel quale abbia preso parte anche il litisconsorte, divenuto tale solo nel giudizio successivamente instaurato. 8. – Passiamo ora ad esaminare l’ipotesi, nella quale a seguito dell’intervento volontario di un terzo si venga a creare un giudizio soggettivamente ed oggettivamente complesso (31). La problematica che ci prefiggiamo di affrontare riguarda la sussistenza dell’obbligo del terzo interveniente, che introduca nel processo una domanda relativa ad una delle controversie assoggettate a mediazione obbligatoria, di promuovere il tentativo di conciliazione prima di poter validamente agire (32). A differenza dell’ipotesi precedentemente esaminata, assumiamo nelle fattispecie che il processo non fosse gia` soggettivamente complesso e che il terzo spenda un intervento volontario, proponendo una domanda volta a far valere un proprio diritto e ad estendere l’oggetto del giudizio: se tale domanda viene formulata dal terzo interveniente in confronto di tutte le parti, parliamo di intervento classica-
(30) Si pensi alle frequenti ipotesi di litisconsorzio facoltativo passivo, nelle quali le cause cumulate siano connesse per l’oggetto e siano anche tra loro dipendenti l’una dall’altra, come ad esempio nel caso di domande di condanna proposte dall’attore nei confronti del debitore principale e del fideiussore: il diritto di credito dell’attore nei confronti del fideiussore esiste se esiste il diritto di credito nei confronti del debitore principale. Ne parla C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, p. 324 ss., per evidenziare come «la differenza di trattamento tra casi di connessione molto forte e casi di connessione piu` blanda... sia da ricercare nel modo in cui sono collegati i rapporti giuridici sul piano sostanziale» (p. 326). (31) In relazione alle controversie in materia di lavoro cfr. M. De Cristofaro, A. Stropparo, sub art. 412 bis, in C. Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, cit., tomo II, p. 1388. (32) Resta escluso dunque dall’esame l’intervento volontario adesivo dipendente, disciplinato dal 2º comma dell’art. 105 c.p.c.
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mente definito «principale»; se viene proposta nei confronti di alcune delle parti ci riferiamo invece all’intervento tradizionalmente definito «litisconsortile» o «adesivo autonomo» (33). Con l’intervento litisconsortile si realizza, a posteriori, una situazione processuale analoga a quella del litisconsorzio facoltativo attivo, che abbiamo esaminato in precedenza: all’interveniente e` consentito introdurre nel processo la domanda, che avrebbe potuto proporre dall’origine contestualmente a quella dell’attore, purche´ il diritto che vuole far valere sia connesso per il titolo, per l’oggetto o per entrambi a quello dedotto nella controversia tra le altre parti. Le stesse ragioni che ci hanno condotto a ritenere sufficiente, nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo, l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione da parte di solo uno degli attori, affinche´ possa ritenersi soddisfatta la condizione di procedibilita` della domanda prevista dal 1º comma dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, valgono in questo caso: dovrebbe pertanto concludersi nel senso di ritenere non assoggettata alla mediazione obbligatoria la domanda contenuta nell’atto di intervento volontario litisconsortile, se esiste una connessione tale per cui lo svolgimento del simultaneus processus risponde al principio di economia processuale ed e` volto ad evitare la pronuncia di decisioni non coordinate sulle domande cumulate. Diversamente, nelle fattispecie di intervento principale quelle ragioni non trovano spazio, posto che in queste ipotesi di cumulo di domande il terzo fa valere nei confronti di tutte le altre parti un diritto incompatibile con quello gia` oggetto di controversia (34). E` infatti pacifico che il terzo, che si afferma appunto titolare di un rapporto incompatibile, non subisce alcun pregiudizio dalla decisione che definisce il giudizio tra le altre parti e non e` soggetto agli effetti di tale decisione, neppure qualora questa sia assistita dalla stabilita` propria della cosa giudicata (35). Ci pare di poter affermare dunque che in questa ipotesi, laddove la domanda portata dall’intervento verta su una controversia assoggettata alla mediazione obbligatoria, per poter far valere il proprio diritto in contestazione con i diritti di tutte le altre parti del processo, il terzo debba previamente esperire il tentativo di conciliazione. Sebbene il terzo interveniente si affermi titolare di un diritto oggettivamente connesso con quello gia` fatto valere nel processo, la situazione di incompatibilita` sussistente tra tali diritti non consente di invocare ragioni utili al superamento del
(33) Per una ricognizione delle fattispecie di intervento, si vedano: A. Chizzini, voce Intervento in causa, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., X, Torino 1993, p. 112 ss.; G. Costantino, voce Intervento nel processo, in Enc. giur., XVII, Roma 1989; S. Costa, voce Intervento (dir. proc. civ.). I. Intervento in causa: a) Diritto processuale civile, in Enc. dir., XXII, Milano 1972, p. 461 ss. (34) Sull’intervento principale si vedano, per tutti, C. Cavallini, I poteri dell’interventore principale nel processo di cognizione, Padova 1998; S. Menchini, voce Pretendenti (Lite tra), in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XIV, Torino 1996, p. 306 ss. (35) Cfr. C. Punzi, Il processo civile, 2a ed., Torino 2010, I, p. 339; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale, 5a ed., Napoli 2006, p. 374.
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condizionamento imposto alla domanda: sul piano sostanziale della definizione dei rapporti tra le parti resta del tutto indifferente rispetto alla posizione del terzo che le altre parti abbiano gia` vanamente esperito un tentativo di conciliazione; mentre nelle ipotesi di cumulo litisconsortile, originario o sopravvenuto per effetto dell’intervento, e` opportuno considerare che almeno uno dei litisconsorti ha gia` preso parte al procedimento di mediazione svoltosi senza successo. 9. – Veniamo infine ad occuparci delle ipotesi di chiamata in causa, per verificare ancora una volta se, nell’ambito delle controversie assoggettate alla mediazione obbligatoria, la parte che voglia far partecipare un terzo al giudizio debba previamente esperire il tentativo di conciliazione nei confronti del terzo stesso, al fine di evitare una dichiarazione di improcedibilita` della domanda. Nel disciplinare l’intervento ad istanza di parte l’art. 106 c.p.c. prevede due distinte fattispecie: la chiamata del terzo per comunanza di causa e la chiamata del terzo in garanzia (36). Senza poter approfondire in questa sede il discorso concernente la chiamata per comunanza di causa, ai fini che qui rilevano, e` bene tener presente che la nozione di causa comune possa essere estesa sino a ricomprendere le medesime ipotesi di liti, che possono essere introdotte nel processo con un intervento volontario sia principale sia litisconsortile: l’art. 106 c.p.c., in estrema sintesi, consente la chiamata in causa del terzo pretendente, come pure di colui che avrebbe potuto esperire intervento litisconsortile (37). La risposta al quesito che abbiamo posto deve dunque essere coerente alle conclusioni emerse dall’esame del cumulo di domande nelle precedenti ipotesi di processo litisconsortile e di intervento in causa. Il necessario esperimento del procedimento di mediazione dovrebbe allora trovare spazio nell’ipotesi di chiamata del terzo che vanti un diritto incompatibile con quello gia` oggetto di causa; potrebbe invece essere superato il condizionamento imposto alla domanda giudiziale nel caso di chiamata di colui, che avrebbe potuto esperire intervento litisconsortile, in ragione dell’eventuale particolare rapporto di connessione posto a fondamento del cumulo di domande, volto ad assistere non solo un interesse di economia e concentrazione delle attivita` processuali, ma anche ad evitare un possibile contrasto tra le decisioni. Analoghe considerazioni dovrebbero essere formulate nell’altra ipotesi di intervento ad istanza di parte: la chiamata di terzo in garanzia (38).
(36) Sulla chiamata in causa in generale si vedano G. Fabbrini, Intervento coatto ad istanza di parte e pregiudizialita`, in Scritti giuridici, I, Milano 1989, p. 181 ss.; G. Lombardi, Chiamata in causa e litisdenuntiatio, in Riv. dir. proc. 1988, p. 214 ss. (37) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, p. 359 e 360. (38) Su tale tipologia di chiamata in causa si vedano B. Gambineri, Garanzia e processo, Milano 2002; A.A. Romano, Sulla dubbia utilita`della nozione di garanzia impropria e su alcune conseguenze del suo impiego, in Riv. dir. proc. 1999, p. 930 ss.; G. Costantino, voce Garanzia (chiamata in), in Dig. it., disc. priv., sez. civ., VIII, Torino 1992, p. 596 ss.; S. La China, La chia-
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Aderendo all’impostazione della dottrina e della giurisprudenza, in questa ipotesi appare necessario tenere distinta la fattispecie di garanzia cosı` detta «propria» da quella di garanzia cosı` detta «impropria», posto che, a differenza della prima, quest’ultima non si fonda sullo stesso rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, ma deriva da un collegamento di mero fatto, senza che tra le domande sussista alcuna connessione per titolo (39). Solo nel caso di domanda di garanzia propria sara` pertanto possibile ritenere non necessario il previo esperimento del procedimento di mediazione, in virtu` del particolare nesso di dipendenza, che lega tale domanda alla causa principale. Non pare in effetti che possa costituire l’oggetto di un accordo di conciliazione il rapporto di garanzia, se e` oggetto di controversia innanzi al giudice il rapporto principale condizionante (40). 10. – Prima di concludere, un breve cenno di approfondimento deve essere dedicato all’ipotesi, nella quale la domanda, assoggettata alla condizione di procedibilita` prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28/2010, sia proposta senza previamente esperire il tentativo di conciliazione e sia cumulata in forma condizionale rispetto alla domanda introduttiva del giudizio o ad altra domanda oggetto del processo, di modo che il giudice sia chiamato al suo esame solo dopo l’accoglimento o il rigetto della domanda principale (41). La iniziale carenza di decidibilita` nel merito della domanda condizionata, che sia assoggettata anche alla condizione di procedibilita`, non consente di sottrarla al rilievo della improcedibilita`, di cui al citato art. 5, posto che non e` prevista nel nostro sistema la necessita` di verificare sin dall’inizio del processo la effettiva trattabilita` nel merito di tutte le domande pendenti, ivi comprese quelle strutturate in forma condizionale (42). Non assume dunque rilevanza il fatto che la domanda sia proposta in via condizionata: se si riterra` operante il condizionamento previsto dalla mediazione ob-
mata in garanzia, Milano 1962; G. Tarzia, Sulla nozione di garanzia impropria, in Giur. it. 1956, I, 2, c. 323 ss. (39) C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., II, p. 373, rileva coma «a ben vedere, cio` che si fa valere nei confronti del terzo chiamato non e` il diritto ad essere tenuto indenne dalle perdite che potranno essere cagionate dalla soccombenza ma e` la domanda di vedere riconosciuto ed attuato un determinato diritto, il quale ha un collegamento solo di tipo occasionale e di mero fatto col diritto oggetto originario del processo e con la decisione di esso». (40) Per ampi rilievi sul nesso di condizionamento tra la domanda principale e quella di garanzia propria si veda C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, Padova 1985, vol. I, Struttura e funzione, p. 280 ss. (41) Per la ricostruzione della struttura e della tipologia del cumulo condizionale si veda, per tutti, C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, cit., vol. I, cit., p. 262 ss. (42) Si vedano ancora i rilievi di C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, cit., vol. II, Il procedimento, p. 648 e 649, nell’ambito delle riflessioni concernenti l’ammissibilita` di una strutturazione condizionale con cumulo di cause nel processo del lavoro.
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bligatoria, la controversia oggetto della domanda condizionata dovra` essere previamente assoggettata all’esperimento del procedimento di mediazione (43). Giuseppe Battaglia Assegnista di ricerca nell’Universita` di Milano-Bicocca
(43) Nell’ambito delle controversie di lavoro ritenevano che lo svolgimento del tentativo di conciliazione fosse necessario anche in caso di domande condizionate F.P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, cit., p. 386 ss.; D. Borghesi, Il tentativo di conciliazione e l’arbitrato nei licenziamenti, cit., p. 234; A. Proto Pisani, Note in tema di conciliazione obbligatoria e di arbitrato nella nuova disciplina dei licenziamenti individuali (art. 5, l. 11 maggio 1990, n. 108), cit., c. 507 e 508.
NOTIZIE
IL XXII CONVEGNO NAZIONALE DELL’ASSOCIAZIONE TRA GLI STUDIOSI DEL PROCESSO PENALE «G. D. PISAPIA»
Si e` svolto a Bergamo, dal 24 al 26 settembre 2010, il XXII Convegno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale «G. D. Pisapia»: incentrato su «i tempi irragionevoli della giustizia penale», un tema cruciale per la stessa credibilita` della giustizia penale. Dopo i saluti delle autorita` locali, e le relazioni introduttive di Ennio Amodio, Presidente dell’Associazione, e di Francesco Tagliarini, il convegno si e` strutturato in tre sessioni. La prima, dedicata a «la delimitazione dell’input e i tempi del procedimento» e presieduta da Mario Chiavario, ha visto le relazioni di Claudia Cesari, di Enrico Marzaduri e di Giulio Ubertis, focalizzate rispettivamente sui meccanismi di deflazione processuale e sulle possibilita` di incrementarne l’uso, sui rapporti tra il giudice per le indagini preliminari e i tempi delle investigazioni e sulla disciplina della prescrizione. Le relazioni della seconda sessione, dal titolo «la semplificazione soggettiva ed oggettiva del processo», presieduta da Giuseppe Riccio, sono state svolte da Angelo Pennisi, da Mariano Menna e da Agostino De Caro: il primo si e` occupato degli effetti sui tempi processuali della presenza delle parti eventuali, il secondo dei procedimenti incidentali e dei maxiprocessi e il terzo delle problematiche inerenti all’avviso di conclusione delle indagini preliminari e all’udienza preliminare. Dopo una serie di interventi non programmati si e` tenuta la terza ed ultima sessione del Convegno, intitolata «i cardini della speditezza processuale» e presieduta da Gustavo Pansini. La relazione di Vincenzo Garofoli ha avuto ad oggetto i poteri probatori delle parti, quella di Renzo Orlandi i riti speciali e le prospettive di una loro rimeditazione, e quella di Luca Marafioti la disciplina del ricorso in cassazione. Ha chiuso il Convegno la relazione di sintesi di Angelo Giarda, il quale ha ripercorso e rielaborato le questioni trattate senza trascurarne le implicazioni nella prassi e i raccordi con la disciplina sovranazionale. Al termine del Convegno l’Associazione tra gli studiosi del processo penale ha approvato un documento che contiene alcune proposte di riforma volte a fronteggiare le problematiche emerse. Marcello Daniele
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Roberta Aprati, La notizia di reato nella dinamica del procedimento penale, Jovene, Napoli 2010, pp. 345. Il volume che si segnala costituisce, sotto il codice vigente, il primo tentativo di ricostruire in una prospettiva monografica il tema della notitia criminis, privilegiando un approccio critico-problematico, non disgiunto da alcune riflessioni de iure condendo. La prima parte dell’opera e` dedicata alla individuazione dei requisiti essenziali della notizia di reato. L’indagine spazia dall’analisi delle notizie di reato qualificate alle notizie non qualificate, dagli anonimi ai colloqui investigativi della polizia giudiziaria, dalle intercettazioni preventive alla sentenza di fallimento. Il tutto inquadrato all’interno dei poteri attualmente assegnati al pubblico ministero ed alla polizia giudiziaria ai fini della «scoperta» delle notizie di reato (il «prendere notizia dei reati» ex art. 330 c.p.p.), ma esaminato anche alla luce della prospettiva radicale, coltivata dal disegno di legge Alfano (n. 1440/S), finalizzata ad attribuire alla sola polizia il compito di ricercare ed individuare le stesse: una soluzione pragmaticamente fitta di incognite, e, per di piu`, costituzionalmente sospetta (artt. 3, 109 Cost.). Il lavoro prosegue con l’esame del profilo inerente all’iscrizione delle notizie di reato nell’apposito registro, focalizzandosi sulla nota querelle giurisprudenziale relativa al controllo del giudice sulla tempestivita` di tale adempimento, e, piu` in generale, sulle distorsioni applicative legate alla «gestione» della notizia di reato. E in questa prospettiva viene stigmatizzata la prassi, invalsa in alcune procure, volta a «sostituire» in corso di indagine le notizie precedentemente iscritte, con la conseguente elusione dei termini investigativi rigorosamente predeterminati dalla legge. Non mancano, peraltro, alcune riflessioni sui problemi sottesi alle c.d. «iscrizioni a catena» e all’accesso dei privati al registro delle notizie di reato. La seconda parte del volume, infine, e` dedicata all’esame dei controlli giurisdizionali sulla notizia di reato e dei diversi ambiti di utilizzazione di quest’ultima: autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni di comunicazioni, proroga delle indagini, procedimento di archiviazione, contesti processuali (udienza preliminare, patteggiamento, giudizio abbreviato, dibattimento) (Pier Paolo Paulesu).
Bruno Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Giappichelli, Torino 2010, pp. X-416. Il bel volume che qui si segnala colpisce fin dall’accattivante copertina raffi-
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gurante la riproduzione di una stampa di Daumier, in cui alcuni huissiers de justice con indosso delle tube e con lo sguardo severo, si stringono, come intorno alla preda in una partita di caccia, intorno al debitore a capo scoperto e con il viso sgomento, per notificargli un atto giudiziario, probabilmente un precetto. Difficilmente avrebbe potuto essere scelta un’immagine piu` appropriata per introdurre il tema della «esecuzione civile». Il titolo dell’opera ne rivela immediatamente il maggior pregio, costituito, piu` ancora che dalla completezza degli argomenti trattati (sono, tra l’altro, esaminate sia l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, sia la nuova attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, di cui, rispettivamente, agli artt. 2932 c.c. e 614-bis c.p.c.), dalla costante e continua attenzione agli aspetti e all’efficacia sostanziali degli atti del processo di esecuzione forzata. Articolato in nove capitoli, che coprono integralmente la complessa materia, il Manuale – offrendo, oltre ad una chiara esposizione degli istituti come riformati da ultimo dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, una penetrante analisi della giurisprudenza su molte delle questioni applicative – e` di sicuro interesse non soltanto per gli studenti, ma anche per gli operatori del diritto (principalmente giudici ed avvocati, nonche´ notai e commercialisti cui possono essere delegate le operazioni di vendita), chiamati ad usare nella concretezza della prassi le relative disposizioni (Giuseppe Finocchiaro). Luigi Paolo Comoglio, Le prove civili, 3a ed., UTET, Torino 2010, pp. XVII-935. Come rilevava Giuseppe Tarzia, che ha recensito la prima (1998) e la seconda (2004) edizione dell’opera dedicata da Luigi Paolo Comoglio al diritto probatorio, il volume Le prove civili costituisce uno strumento indispensabile «per lo studioso come per l’operatore pratico del processo» (in questa Rivista 2005, p. 1183). La terza edizione del 2010 e` ulteriormente arricchita e rivisitata, tanto che sarebbe riduttivo descriverla come un aggiornamento delle precedenti alla luce delle riforme del processo degli anni 2005, 2006 e 2009. L’a., infatti, si e` fatto carico di trattare non solo le ricadute delle novita` normative, che direttamente o indirettamente hanno interessato il diritto delle prove, con la profondita` e la completezza che caratterizzano l’intera opera (il che gia` sarebbe stato sforzo non da poco); ma ha riletto l’intero sistema del diritto probatorio alla luce dell’evoluzione del diritto processuale nel suo insieme confrontandosi non solo con gli interventi del legislatore (italiano e straniero), ma anche con l’abbondante elaborazione della giurisprudenza e della dottrina degli ultimi anni – italiana, straniera, processualcivilistica, costituzionalistica, civilistica, processualpenalistica, amministrativistica, tributaristica e industrialistica –, come mostra la ricchezza delle note a pie` di pagina (ingenerosamente definita dall’a. nella Premessa come «sovrabbondanza»). Premesso pertanto che la rivisitazione compiuta da Luigi Paolo Comoglio concerne l’intera opera nel testo e nelle note, si segnalano, senza pretesa di completezza, quanto alla Parte I, gli ampi paragrafi dedicati alla non contestazione e alla prova scientifica (Capitolo I), agli standard di prova, al sistema delle preclu-
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sioni e delle decadenze nel processo ordinario di cognizione dopo le riforme del 2005 e del 2009, alla consulenza tecnica preventiva ai fini della conciliazione della lite, alle novita` in materia di prove alla luce della complessiva riforma dell’arbitrato dovuta al d. lgs n. 40/2006 (Capitolo II). Nella Parte II, l’a. ha in particolare arricchito il Capitolo II, intitolato Oneri probatori e realta` processuale, con nuovi paragrafi relativi ai problemi che la regola dell’onere della prova solleva nei processi amministrativo e tributario, nonche´ nel processo civile in materie specifiche (clausole vessatorie, azioni ed impugnazioni contrattuali ed azioni risarcitorie individuali e collettive). Per quel che concerne la Parte III, vanno segnalati i rilievi di Luigi Paolo Comoglio sul concetto di «prova scritta» nel procedimento speciale di ingiunzione (Capitolo I), e sull’illiceita` o incostituzionalita` della prova (Capitolo III); nonche´ il nuovo Capitolo IV dedicato al documento informatico. Nella Parte IV spiccano non solo le pagine riservate all’analisi, anche in chiave comparatistica, della disciplina della testimonianza scritta – ora prevista dagli artt. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp. att. – ma anche quelle in cui viene trattato il tema dell’audizione dei minori. Quanto infine alla Parte V, meritano particolare attenzione l’ampia e approfondita disamina della disciplina del diritto probatorio in materia di proprieta` industriale e intellettuale, alla luce delle riforme intervenute in questi settori nel 2005 e nel 2006; e la trattazione della disciplina della consulenza tecnica, quale risulta dopo le novita` introdotte dalla l. n. 69/2009 (Elena Marinucci).
Elena Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, CEDAM, Padova 2009, pp. XII-280. Come spiegano i direttori della collana nella presentazione, con questo volume prende vita la pubblicazione di una nuova serie della Collana di studi Impresa – Societa` – Fallimento, fondata nel 1980 da Angelo Bonsignori e Giuseppe Ragusa Maggiore. Il proposito di questa nuova serie e` quello di «costituire uno strumento di qualita` per un approccio teorico e pratico alle problematiche apertesi con le riforme del terzo millennio su queste complicate discipline». L’opera, come emerge chiaramente dal titolo, ha come oggetto lo studio approfondito degli accordi di ristrutturazione, introdotti con la riforma del 2005, e successivamente modificati ad opera del d.lgs. n. 169/2007. Dopo un primo capitolo, nel quale si esaminano le finalita` del nuovo istituto e le ragioni che hanno indotto il legislatore della riforma a prevederlo; si passa, nel secondo capitolo, ad analizzarne la natura, ponendone in rilievo la struttura unitaria, da un lato, e l’autonomia rispetto al concordato preventivo, dall’altro, rappresentando l’accordo di ristrutturazione una soluzione alternativa per l’imprenditore in crisi proprio rispetto a questo diverso istituto. Sempre nel secondo capitolo vengono illustrati i presupposti e il contenuto degli accordi di ristrutturazione, le modalita` di formazione dei medesimi, gli adempimenti formali necessari per la loro presentazione e, infine, il trattamento riservato ai creditori che ne rimangono estra-
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nei. Il terzo e il quarto capitolo dell’opera sono dedicati rispettivamente a chiarire in maniera puntuale la disciplina del procedimento previsto dall’art. 182 bis l. fall., e ad illustrarne gli effetti, ponendosi in rilievo le differenze fra accordi omologati ed accordi non omologati ed affrontandosi anche il problema – risolto qui negativamente – dell’applicabilita` dell’art. 184 l. fall. (norma prevista per il concordato e che ne dispone l’obbligatorieta` per tutti i creditori anteriori all’avvio della procedura) agli accordi omologati. Nel terzo capitolo viene affrontato altresı` un ulteriore grave problema: quello derivante dal (solo recentemente superato) silenzio della legge sul trattamento dei crediti sorti in funzione dell’esecuzione dell’accordo omologato, nell’eventualita` di un successivo fallimento. Ebbene, l’autrice sul punto, con grande lucidita` e chiarezza, sulla base del presupposto che «gli accordi di ristrutturazione si inquadrano nell’ambito dei procedimenti concorsuali», gia` invoca l’applicazione dell’art. 111, ultimo comma, l. fall., che qualifica prededucibili anche i crediti sorti in «occasione e funzione» delle procedure concorsuali, in tal modo anticipando quanto successivamente il legislatore ha disposto con l’introduzione nuovo art. 182 quater l. fall., avvenuta per opera dell’art. 48 d.l. 31 maggio 2010, n. 78. Questa soluzione, peraltro, sia ad avviso dell’autrice, sia oramai de iure condito, non sembra prospettabile quando si tratti di accordi stragiudiziali non omologati. A questo diverso tipo di accordi, ai loro effetti, e ai rapporti con un eventuale successivo fallimento sono infine dedicati gli ultimi due capitoli dell’opera, che si conclude con un’ampia trattazione del problema degli effetti degli accordi stragiudiziali non omologati per i coobbligati e i fideiussori (Michelle Vanzetti).
Lucio Lanfranchi, Costituzione e procedure concorsuali, Giappichelli, Torino 2010, pp. XII-265. Le procedure concorsuali, nella loro qualita` di procedimenti esecutivi collettivi regolati dalla legge, non possono ovviamente non tenere conto del dettato costituzionale; e nella ricca opera qui segnalata viene compiuta una attenta disamina di tutte le procedure concorsuali alla luce della Costituzione, e della sua interpretazione ad opera del Giudice delle leggi. Dopo un’ampia introduzione, le prime procedure ad essere sottoposte ad esame – nel Capitolo primo – sono quelle disciplinate dalla legge fallimentare nella sua versione del 1942, vale a dire l’amministrazione controllata (ora abrogata), il concordato preventivo nella sua vecchia veste, il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa. Segue, nel Capitolo secondo, l’esame della legge Prodi del 1979, ove viene compiutamente illustrato quello che dall’Autore e` definito l’«uso alternativo» che ne e` stato fatto: vale a dire l’utilizzazione della procedura come strumento di conservazione e risanamento, in contrasto con quella che secondo l’Autore sarebbe la vera natura liquidatoria e satisfattiva della procedura (che non sarebbe stata altro che una forma di liquidazione coatta amministrativa qualificata). Alla nuova versione della amministrazione straordinaria delle grandi imprese
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in stato di insolvenza, nelle due varianti rispettivamente disciplinate dal d.lgs. 270/ 99 e dalla legge Marzano, sono dedicati il Capitolo terzo e parte del Capitolo quarto (ove l’autore esamina in particolare i rapporti tra legge Marzano e principi costituzionali, tra i quali il giusto processo); ed una parte di quest’ultimo e` dedicata invece al nuovo concordato preventivo nella versione modificata dalla mini-riforma del 2005, nonche´ ai piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d, ed agli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182 bis della legge fallimentare. Infine, l’ultimo capitolo si occupa della riforma organica delle procedure concorsuali che ha avuto luogo nel 2006, e del decreto correttivo che ad essa ha fatto seguito nel 2007; e nell’ambito di questo capitolo particolare interesse riveste la trattazione relativa all’esdebitazione, della quale viene messa seriamente in dubbio la conformita` ai precetti costituzionali riguardanti il riconoscimento e la garanzia dei diritti (Angelo Castagnola).
Mauro Rubino Sammartano, Il diritto dell’arbitrato. Disciplina comune e regimi speciali, 6a ed., CEDAM, Padova 2010, 2 tomi, pp. XLII-1895. Rispetto alla precedente edizione dell’opera (5a ed., Padova 2006), che avevo gia` recensito sulle pagine di questa Rivista (anno 2007, p. 729 s.), il Diritto dell’arbitrato di Rubino Sammartano si presenta aggiornato con gli sviluppi dottrinali e giurisprudenziali successivi alla riforma attuata con il d.lgs. n. 40 del 2006, nonche´ significativamente arricchito con alcuni contributi, a cura di vari collaboratori, in materia di arbitrati speciali. Le prime quattro parti del trattato di Rubino Sammartano sono dedicate, rispettivamente, ai principi generali (nel cui esame l’a. ha modo di prendere posizione sui principali problemi teorici dell’arbitrato), alla disciplina dell’arbitrato interno (dalla cui esposizione emerge l’esperienza dell’a. come arbitro in procedimenti internazionali), all’arbitrato estero e al riconoscimento dei lodi stranieri, nonche´ alle prospettive e al futuro del fenomeno arbitrale (dove l’a suggerisce di valorizzare, de jure condendo, l’arbitrato di appello, istituto gia` conosciuto dal codice di rito del 1865, della cui ammissibilita` oggi si discute: v. il mio Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. II, p. 277 s.). Come di consueto, l’ampia esposizione della materia procede secondo il metodo casistico, ormai caro all’a., tipico dei sistemi di common law basati sullo studio dei casi giurisprudenziali (cosı`, ad esempio, la nota Cass., sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, in questa Rivista 2001, p. 254 ss., con nota di E.F. Ricci, con la quale la Suprema Corte ha dato vita alla c.d. «svolta negoziale» dell’arbitrato, e` indicata come Cinisello Balsamo, dal nome di una delle parti del giudizio). Nella quinta ed ultima parte, che costituisce una importante novita` del volume, sono infine presenti i saggi individuali dedicati alle controversie in materia di responsabilita` extracontrattuale (E. Bella), all’arbitrato per le controversie societarie (F. Corsi), all’arbitrato in materia di lavoro (C. Savanco), all’arbitrato in materia di contratti pubblici (A. Buonfrate), all’arbitrato per le controversie condominiali e
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in materia di locazione (M. de Tilla), all’arbitrato in materia di rapporti patrimoniali della famiglia (F. Danovi), all’arbitrato in materia di proprieta` industriale (A. Frignani), al rapporto fra arbitrato e procedure di insolvenza (G. Cabras), alle controversie con i consumatori (T. Galletto), all’arbitrato nel settore bancario (R. Ferretti), alle domande di nullita` nell’arbitrato (C. Cecchella), alla giustizia sportiva (L. Fumagalli), all’arbitrato telematico (L. Guadalupi), all’arbitrato amministrato presso la Consob (T. Mancini) e, infine, all’arbitrato nel mercato dell’arte (M. Rubino Sammartano). Anche per i suddetti approfondimenti, l’opera recensita – dotata di un’appendice con i principali testi legislativi e con pratiche tavole sinottiche delle riforme del 1994 e del 2006 – si presenta quindi di grande utilita` per gli studiosi e per gli operatori del diritto (Carmine Punzi).
Silvio Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto all’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Cedam, Milano 2010, pp. X-311. Il volume di Silvio Sau e` incentrato su due fondamentali garanzie processuali: il diritto dell’accusato alloglotta alla traduzione degli atti, disciplinato dagli artt. 143 s. c.p.p., e i diritti delle minoranze linguistiche, che trovano il loro fulcro normativo nell’art. 109, comma 2º, c.p.p. Entrambe le tematiche presentano rilevanti implicazioni costituzionali e sovranazionali, e l’a. le affronta in una chiave interdisciplinare. L’analisi giuridica e` preceduta dalla ricognizione di alcune nozioni tratte dalla teoria della comunicazione e dalla filosofia del linguaggio, indispensabili per una compiuta comprensione dei problemi affrontati. Ne´ manca una digressione storica sulla figura dell’interprete nel processo penale, utile per inquadrare le successive evoluzioni legislative in questa materia. Ne deriva un quadro d’insieme che non si limita a ricostruire la disciplina vigente, ma ne sottolinea i limiti genetici e funzionali, e ne esplora le possibili modifiche nell’ottica di allineare maggiormente la normativa ai vincoli costituzionali e alle indicazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La prospettiva e` di rendere effettivo il diritto alla piena comprensione linguistica degli atti processuali, superando le incongruenze e i limiti dell’attuale assetto legislativo (Marcello Daniele).
Giuliano Scarselli (a cura di), Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, ESI, Napoli 2010, 5-328. Inserito nella collana Quaderni de «Il giusto processo civile», il volume contiene gli atti del convegno svoltosi a Siena il 23-24 novembre 2007. Esso si apre con un ricordo personale del curatore sulla figura del compianto Franco Cipriani, del quale nel corso dello stesso incontro di studio era stato presentato il lavoro monografico «Piero Calamandrei e la procedura civile». L’opera e` suddivisa in due parti: nella prima sono contenute le relazioni svolte da: Giuliano Scarselli, che ha posto ad oggetto della sua indagine e come base di riflessione la constatazione
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che tutte le piu` recenti riforme processuali hanno aumentato i poteri del giudice e ridotto quelli delle parti; Andrea Proto Pisani, il quale si e` occupato della crisi del processo civile a cognizione piena, imputabile in minima parte a problemi di tecnica processuale, dipendendo innanzitutto da problemi ordinamentali e organizzativi, e ha tratteggiato le linee di una sua possibile riforma idonea ad assorbire i molti riti speciali oggi esistenti; Giampiero Balena, concentratosi sull’impugnazione incidentale tardiva; Beatrice Ficcarelli che, sulla base della recente esperienza comparatistica, ha suggerito di valorizzare i poteri del giudice al fine di modellare il procedimento sulle controversie in ragione delle loro peculiarita`; Raffaele Frasca, sul nuovo terzo comma dell’art. 384 c.p.c. e sul potere di rilevazione di questioni d’ufficio; Francesco Paolo Luiso sul disegno Mastella; Ilaria Pagni, sui poteri del giudice nel processo societario; Remo Caponi, che trattando degli accordi processuali, ha auspicato una maggiore incidenza dell’autonomia privata nella conformazione della vicenda processuale nei limiti in cui cio` non ostacoli l’efficienza del processo rispetto allo scopo della giusta composizione della controversia. La seconda parte, nella quale ritorna la figura di Pietro Calamandrei, contiene le relazioni svolte da: Nicolo` Trocker, che alla luce dei suoi insegnamenti, ha trattato delle recenti riforme processuali europee per indicarne le linee evolutive e i valori di riferimento; Giulio Cianferotti, che ha ripercorso i rapporti tra Bracci e Calamandrei; Augusto Chizzini, il quale si e` dedicato soprattutto alle opinioni che Calamandrei diede del pensiero di James Goldschmidt, prima e dopo la grande tragedia. Essa si conclude con la relazione di Franco Cipriani, che si e` interrogato sul perche´ Calamandrei abbia scritto un libro a favore della Cassazione unica e della soppressione delle cassazioni regionali, quando il suo maestro Lessona aveva invece proposto, in un progetto redatto con il guardasigilli Gianturco, di dichiarare la Cassazione teoricamente unica, ma divisa in cinque sezioni regionali. Chiudono il volume delle mirabili pagine di Calamandrei, ricordate sempre da Cipriani, in difesa della sopravvivenza dell’Universita` di Siena rispetto al proposito manifestato dal governo nel 1923 di riordinare le universita` italiane, quanto mai attuali (Maria Francesca Ghirga).
C.H. van Rhee e Alan Uzelac (a cura di), Enforcement and Enforceability. Tradition and reform, Intersentia Antwerp, Oxford-Portland 2010, pp. XXXIII331. Il volume nasce quale raccolta delle relazioni presentate alla quarta «Public and Private Justice Course and Conference» intitolata «Enforcement, Enforceability and Effectiveness of Legal Protection», tenutasi a Dubrovnik nell’ultima settimana di maggio 2009. Il tema e` il processo esecutivo e in particolare lo scopo e` quello di una ricerca di diritto comparato, tenuto conto delle recenti riforme che in una pluralita` di giurisdizioni europee hanno caratterizzato l’esecuzione in anni recenti. Gia` dall’introduzione, ad opera dei curatori, si desume che oggetto di studio e` l’esecuzione civile, tuttavia un accenno al diritto penale e in particolare all’esecu-
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zione civile nel processo penale si rinviene nello scritto del norvegese J. T. Johnsen. Dall’interessante lettura dei diversi saggi si desume che l’obiettivo dei curatori dell’opera e dei diversi autori e` quello di analizzare sia l’esecuzione ed il processo esecutivo dal punto di vista europeo transnazionale (nella prima parte dell’opera si collocano i contributi di M. Freudenthal, che si occupa della tendenza all’armonizzazione in questo contesto; di X.E. Kramer, che dedica il suo saggio all’evoluzione della disciplina comunitaria ed all’implementazione della stessa in Germania, in Olanda e nel Regno Unito; di B. Hess, che, invece, analizza le diverse strutture del processo esecutivo di J. Uitdehaag, il cui saggio affronta la tematica dell’esecuzione nei Balcani Occidentali e la compatibilita` della disciplina ivi vigente rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; di A. Uzelac, che dedica il suo studio alla privatizzazione del processo esecutivo e all’impatto che la stessa ha sul sistema della giustizia civile e sugli utenti della medesima; di N. Betetto, il cui scritto si occupa della implementazione della disciplina comunitaria in Slovenia; di M. Chardon, che riferisce in merito alle attivita`, normative e non, poste in essere da varie istituzioni e commissioni quali il Comitato dei Ministri degli Stati Membri del Consiglio d’Europa e la CEPEJ, in materia di esecuzione, e si pone il problema di come adeguare i diversi sistemi agli standard comuni) sia la disciplina domestica dei diversi Paesi (nella seconda parte si collocano i contributi di N. Andrews e R. Turner, dedicato al Regno Unito; di M. Chardon, dedicato alla legislazione e alla prassi in sede esecutiva, nonche´ al training degli ufficiali giudiziari, in Francia; di C.H. van Rhee, che affronta il tema dell’evoluzione storica dell’Huissier de Justice nei Paesi Bassi; di A.W. Jongbloed che si occupa del Court Bailiffs Act olandese; di E. Silvestri, il cui saggio e` dedicato alla situazione italiana; di V. Yarkov e V. Abolonin, che si occupano della Russia; di V. Babunski sulla situazione in Macedonia e di N. Pajic che affronta il tema del processo esecutivo negli Stati Uniti) sia alcune tematiche specifiche quali i metodi alternativi rispetto all’esecuzione (ad essi e` dedicato il saggio di R. Verkerk), l’esecuzione degli accordi di mediazione (se ne occupa lo scritto di R. Jagtenberg e A. de Roo), l’esecuzione dei provvedimenti che riguardano la prole (il tema e` oggetto del saggio di B. Resˇetar che delinea la situazione nell’ordinamento croato senza tuttavia tralasciare la comparazione tra questo ordinamento ed altri, quali quello tedesco, svedese, inglese e italiano), il civil arrest (che viene considerato nella sua dimensione letteraria ma anche quale efficace strumento coercitivo nello scritto di B. Assink, M. Dekkers, N. Pepels e F. Fernhout), l’esecuzione delle pretese civilistiche in sede penale, tema al quale e` dedicato il gia` citato saggio di T. Johsen, nonche´ le tariffe e il rilievo delle stesse ai fini di una valutazione economica del processo esecutivo (J. Marston). Al di la` della elencazione dettagliata dei saggi ivi contenuti, l’interesse del volume e` da cogliersi non solo nell’approccio comparatistico ad un tema finora considerato eminentemente domestico, ma anche nella peculiare struttura della trattazione, nell’ambito della quale si fondano considerazioni storiche, teoriche di ampio respiro, ma anche elementi utili per valutare l’attivita` degli operatori dell’esecuzione civile nei diversi ordinamenti (Francesca Ferrari).
GIURISPRUDENZA
Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 18 giugno 2010, n. 14699 Pres. Carbone – Rel. Mazziotti Di Celso Nuova Ferramenta eredi Teia Elio s.n.c. c. F. Castiglione
In caso di morte della parte, l’atto di impugnazione della sentenza deve essere notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso e` avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza anche incolpevole dell’evento (massima non ufficiale) (1). In caso di morte della parte, e` valida la notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi anche in forma collettiva ed impersonale nell’ultimo domicilio del defunto (massima non ufficiale) (2). Solo in caso di morte della parte che abbia notificato la sentenza, e` valida la notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi anche in forma collettiva ed impersonale nel luogo del domicilio eletto di cui all’art. 330 c.p.c. (massima non ufficiale) (3). (Omissis). – Motivi della decisione. – L’ordinanza a seguito della quale la causa e` stata assegnata a queste Sezioni Unite richiama nei seguenti termini la giurisprudenza di questa Corte: – Primo orientamento. La previsione di cui al secondo comma dell’art. 330 c.p.c. (possibilita` di notifica dell’impugnazione collettivamente e impersonalmente agli eredi in uno dei luoghi indicati nel primo comma) si estende anche ai casi di morte della parte vittoriosa prima della notifica della sentenza da impugnare o di mancanza di notifica della stessa. La notifica se effettuata presso il domicilio del defunto – e non presso il difensore costituito in appello – e` nulla ma sanabile per effetto della costituzione di uno dei coeredi. – Secondo orientamento. La notifica impersonale e collettiva agli eredi e` consentita, ai sensi del secondo comma dell’art. 330 c.p.c., solo in caso di morte della parte successiva alla notifica della sentenza (con la conseguenza per alcune pronunzie, di sanatoria a seguito di costituzione dell’intimato). – Terzo orientamento. La notifica impersonale e collettiva agli eredi e` consentita in tutti i casi di morte della parte dopo l’udienza di discussione e a prescindere dalla notifica del-
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la sentenza, ma non in forza del secondo comma dell’art. 330 c.p.c., bensı` degli artt. 286 e 328, secondo comma, c.p.c., sicche´ va eseguita nell’ultimo domicilio del defunto. Il quadro normativo di riferimento e` il seguente: – art. 286 c.p.c., in base al quale la notifica della sentenza nel caso di decesso della parte dopo la chiusura della discussione puo` essere effettuata collettivamente e impersonalmente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto (tale notifica puo` essere effettuata anche personalmente ai singoli eredi); – art. 328 c.p.c., che si limita a disciplinare la decorrenza dei termini per l’impugnazione nel caso di morte della parte, senza occuparsi del destinatario; – art. 330 c.p.c., secondo cui la notifica dell’impugnazione, nel caso di morte della parte dopo la notifica della sentenza, va effettuata agli eredi collettivamente e impersonalmente nei luoghi indicati nel primo comma (presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio). La notifica va effettuata personalmente agli eredi nel caso di mancata dichiarazione di residenza o di elezione di domicilio e, in ogni caso, dopo un anno dalla sentenza se l’impugnazione e` ancora ammessa. Va innanzitutto osservato che le Sezioni Unite di questa Corte, componendo un contrasto tra le sezioni semplici in tema di impugnazione proposta dopo la morte della parte, con la sentenza 16 dicembre 2009, n. 26279, hanno affermato il seguente principio: l’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi indipendentemente sia dal momento in cui il decesso e` avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non vi e` luogo all’applicazione dell’art. 291 c.p.c. Le Sezioni Unite sono pervenute a tale conclusione dopo aver riportato e analizzato i precedenti (in parte contrastanti) orientamenti giurisprudenziale e dopo aver, all’esito dell’esame di detti precedenti, affermato tra l’altro che: – l’irrilevanza dell’elemento morte non dichiarato ne´ notificato opera solo con riferimento alla fase in cui si verifica; il successivo grado del giudizio si deve quindi instaurare tra i soggetti effettivamente legittimati; – l’art. 286 c.p.c. attiene alla notificazione non dell’atto di impugnazione ma della sentenza, notificazione che puo` essere effettuata collettivamente ed impersonalmente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto o agli eredi singolarmente e personalmente; – l’atto di impugnazione deve in ogni caso essere indirizzato agli eredi indipendentemente dal momento nel quale il decesso della parte e` avvenuto. Dai detti principi discende logicamente la conferma di quello affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza 19 dicembre 1996, n. 11394 – e, poi, in parte, con la sentenza 28 luglio 2005, n. 15822 – secondo cui la perdita della capacita` di stare in giudizio, anche quando non sia dichiarata in giudizio dal procuratore costituito, ovvero si verifichi dopo che la causa sia stata trattenuta in decisione, fa venir meno la legittimazione della parte originaria per il successivo grado di giudizio; ne consegue che legittimata attivamente e passivamente alla notifica della sentenza e alla proposizione del gravame e` soltanto la persona in capo alla quale,
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per effetto di uno degli eventi di cui all’art. 299 c.p.c., si e` trasferita la capacita` di stare in giudizio. In particolare venuto meno il rapporto di mandato tra la parte deceduta ed il legale – non essendo ipotizzabile alcuna ultrattivita` di detto mandato al di fuori del grado in cui e` stato conferito – la notificazione si puo` ritenere effettuata da procuratore munito di rappresentanza tecnica solo se e` stata fatta dal detto legale su mandato degli eredi della parte deceduta succeduti nel giudizio. Pertanto, in caso di morte della parte, avvenuta dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado e prima della notifica della stessa, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, questa va instaurata e deve svolgersi da e contro i soggetti che siano parti sostanziali attualmente interessate alla controversia ed al processo. Va altresı` aggiunto che la questione relativa ai limiti della possibilita` della notifica dell’atto di impugnazione collettiva ed impersonale agli eredi non ha formato oggetto di particolare e significativa attenzione da parte della dottrina. Detta questione e` stata risolta nel secondo orientamento giurisprudenziale richiamato nell’ordinanza di rimessione – e sopra riportato – nel senso dell’eccezionalita` di tale modalita` di notifica consentita solo nell’ipotesi disciplinata dal secondo comma dell’art. 330 c.p.c., ossia nel caso in cui la morte della parte sia avvenuta dopo la notificazione della sentenza (sentenze 4 aprile 2001, n. 4990; 13 giugno 2000, n. 8046; 9 agosto 1966, n. 7311; 1 ottobre 1994, n. 7953; 27 dicembre 1991, n. 13931). Perno principale di detto orientamento giurisprudenziale e` costituito dal rilievo che nel giudizio di impugnazione la vocatio in ius deve essere rivolta al soggetto, specificamente individuato, al quale compete di partecipare al giudizio stesso, per cui, trattandosi di una pluralita` di soggetti, l’atto di impugnazione deve essere diretto a ciascuno di essi individualmente e personalmente. Il primo (e maggioritario oltre che sorretto da diffuse ad analitiche argomentazioni) orientamento giurisprudenziale sopra indicato e riportato nell’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite ritiene invece che la possibilita` di notifica dell’atto di impugnazione agli eredi in forma collettiva ed impersonale prevista dal secondo comma dell’art. 330 c.p.c. – in uno dei luoghi di cui al primo comma – deve estendersi anche nell’ipotesi di morte della parte prima della notifica della sentenza da impugnare: la notifica, ove venga effettuata presso il domicilio del defunto, e` nulla ma sanabile per effetto della costituzione di uno dei coeredi (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 1 gennaio 1975, n. 55; 5 luglio 1976, n. 2497; 4 agosto 1977, n. 3505; 19 gennaio 1991, n. 525. Vanno in particolare richiamate le seguenti sentenze: – 20 febbraio 1967, n. 427, secondo cui l’applicazione del secondo comma dell’art. 330 c.p.c. va estesa «anche al caso in cui la morte della parte si sia verificata successivamente alla pubblicazione di sentenza non notificata: trattasi peraltro di interpretazione estensiva non gia` analogica della norma di rito»; – 15 settembre 1970, n. 1444, per la quale «e` valida, a norma dell’art. 330 c.p.c., primo cpv. in relazione all’articolo 330, secondo comma dello stesso codice, la notifica dell’impugnazione eseguita agli eredi della parte vittoriosa collettivamente e impersonalmente nei luoghi previsti dal citato art. 330 anche se l’evento della morte di questa si sia verificato prima della notifica della sentenza impu-
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gnata». Secondo la detta sentenza la ratio della norma e` quella di «agevolare l’esercizio dell’impugnazione attraverso quella forma di notifica appunto impersonale e collettiva»; – 28 luglio 1975, n. 2916, con la quale si e` affermato il principio secondo cui nonostante l’apparente restrizione letterale del disposto di cui al secondo comma dell’art. 330 c.p.c. alla sola ipotesi di decesso avvenuto dopo la notificazione della sentenza che si intende impugnare, la facolta` di notificazione collettiva ed impersonale agli eredi della parte defunta sussiste e deve intendersi pure ammessa, per identita` della ratio e per difetto di un esplicito divieto, anche nel caso in cui l’evento della morte colpisca la parte originaria prima della notificazione della sentenza che si intende impugnare e quando la notificazione della sentenza non sia stata mai effettuata, ed anche quando, essendo mancata la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio ad opera della parte poi defunta (per essere questa rimasta contumace) la notificazione dell’impugnazione avrebbe dovuto, necessariamente, essere effettuata nell’ultimo suo domicilio reale (identico principio e` stato affermato con la successiva sentenza 26 maggio 1999, n. 5113); – 9 luglio 1992, n. 8347, contenente una vasta e complessa motivazione in base alla quale al quesito in esame e` stata data risposta nel senso della possibilita` di notifica collettiva ed impersonale agli eredi della parte deceduta presso il procuratore costituito di detta parte posto che «il riferimento, presente nel secondo comma, all’avvenuta notificazione della sentenza trova attendibile spiegazione nel fatto che il primo comma, cui il secondo rinvia, considera anzitutto il domicilio eletto e la residenza dichiarata nell’atto di notificazione della sentenza, e cioe` luoghi che presuppongono avvenuta tale notificazione, senza tuttavia che questa assuma carattere di indefettibilita`, anche nel caso di altre localizzazioni che sono ugualmente previste dal primo comma e non la presuppongono (come appunto la localizzazione presso il procuratore costituito nel precedente grado). Una diversa interpretazione (che escluda l’applicabilita` del citato secondo comma quando la parte vittoriosa sia deceduta senza aver notificato la sentenza) non solo non appare confortata da plausibili ragioni sistematiche, ma contrasta con il risultato desumibile da una piu` complessiva lettura, che tenga conto anche dell’art. 328 c.p.c.»; – 6 febbraio 2007, n. 2598, con la quale e` stato dedicato all’argomento considerevole spazio ed estesa trattazione contenente complessa e articolata motivazione utilizzando per l’interpretazione delle norme coinvolte il criterio letterale (espressione «defunta dopo la notifica della sentenza») e quello logico e teleologico (esclusiva funzione della norma di favorire l’esercizio del diritto di impugnazione, esentando la parte che deve esercitarlo dall’effettuare ricerche per individuare gli eredi) con la conseguente affermazione che la notifica impersonale e collettiva agli eredi della parte defunta e` consentita tanto nel caso in cui il decesso della parte sia avvenuto dopo la notificazione della sentenza, quanto nel caso in cui sia avvenuto prima. Va rilevato che gli argomenti sviluppati nella sentenza da ultimo citata sono stati in parte richiamati e ribaditi nella sentenza 4 luglio 2007, n. 15123, alla quale ha fatto riferimento l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite ravvisan-
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do in tale pronuncia un terzo orientamento giurisprudenziale – con il mutamento relativo al luogo di notifica agli eredi della parte defunta dopo l’udienza di discussione e a prescindere dalla notifica della sentenza (sempre collettivamente e impersonalmente e sempre rimanendo salva la possibilita` della notifica personale ai singoli eredi) luogo non piu` individuato in uno di quelli di cui al primo comma dell’art. 330 c.p.c., ma in quello del domicilio del defunto e cio` in virtu` dell’applicazione degli articoli 286, primo comma, (che richiama il secondo comma dell’art. 303 c.p.c.) e 328 c.p.c. (norme alle quali aveva fatto riferimento la precedente sentenza 9 luglio 1992, n. 8347, sopra riportata e quella successiva n. 11394/96 dello stesso estensore). Con la detta sentenza e` stato affermato il seguente principio di diritto: le due previsioni degli artt. 286 c.p.c. e 328, secondo comma, c.p.c., per un’evidente esigenza di parita` di trattamento tra chi vuole provocare il decorso del termine breve di impugnazione attraverso la notificazione della sentenza e chi deve esercitare l’impugnazione, implicano che la regola della possibilita` della notificazione agli eredi collettivamente ed impersonalmente debba valere anche per chi esercita il diritto di impugnazione. Ne consegue che, in caso di morte della parte dopo la chiusura dell’istruzione e, quindi, anche quando la parte muoia dopo la pubblicazione della sentenza, l’impugnazione, anche in assenza di notificazione della sentenza, puo` essere notificata oltre che personalmente agli eredi, anche agli eredi collettivamente e impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto, restando escluso che tale possibilita` sia incompatibile con il fatto che un’espressa previsione per il caso di morte della parte sia dettata dal comma secondo dell’art. 330 c.p.c., poiche´ questa norma ha solo la funzione di porre una disciplina particolare per il solo caso in cui la sentenza sia notificata e la morte avvenga dopo di essa. Tale particolarita` concerne il profilo del luogo di notificazione che si identifica nei luoghi risultanti dal comma primo della norma ed appare giustificata dalla circostanza che l’impugnazione in tal caso viene esercitata in relazione ad un’attivita`, quella di notificazione della sentenza, eseguita da poco tempo dalla parte defunta, onde, se essa all’atto della stessa aveva dichiarato la residenza o eletto domicilio oppure, non avendolo fatto, era difesa da procuratore presso il quale era domiciliata, appare giustificato che la notificazione collettiva ed impersonale possa farsi in quei luoghi, piuttosto che nell’ultimo domicilio del defunto stesso. La sentenza e` pervenuta alle riportate conclusioni all’esito di un ben delineato percorso logico-argomentativo – coerente ed ineccepibile – seguito alla luce di molteplici, accurati e rigorosi argomenti basati essenzialmente su un’interpretazione coordinata della lettera e della ratio degli articoli 286, 328 e 330 c.p.c. In particolare e` opportuno riportare alcuni importanti snodi centrali della motivazione della sentenza in esame da condividere e da far propri. ... Ritiene il Collegio ... di intendere restrittivamente il secondo comma dell’art. 330 c.p.c., cioe` come relativo al solo caso di decesso della parte dopo la notificazione della sentenza. ... Rispetto a tale disciplina generale il caso dell’art. 330 c.p.c., comma secondo, costituisce non tanto un’eccezione, bensı` una previsione del tutto aggiuntiva. ... Vi e` poi il gia` ricordato art. 328 c.p.c., il quale, per il caso in cui la morte
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della parte si sia verificata dopo la notificazione della sentenza (eseguita che sia dal defunto o dalla controparte) e, quindi, penda il termine breve, di cui all’art. 325 c.p.c., dispone nella sostanza che esso diventi irrilevante, salvo che venga effettuata una nuova notificazione (comma primo). Nel comma secondo la norma prevede, poi, che tale notificazione possa essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto e faccia decorrere un nuovo termine breve. Anche tale previsione, la` dove consente la notificazione agli eredi collettivamente ed impersonalmente con il verbo «puo`», una volta messa in relazione con la previsione generale della necessita` della rinnovazione ai fini del decorso di un nuovo termine breve, consente di ritenere che la possibilita` che ne e` oggetto si aggiunga ad una regola di rinnovazione che sarebbe sempre riferibile agli eredi del defunto, seppure nominatim. ... Interessa ... sottolineare che le due previsioni dell’art. 286 c.p.c. e art. 328 c.p.c., secondo comma, per un’evidente esigenza di parita` di trattamento tra chi vuole provocare il decorso del termine breve di impugnazione attraverso la notificazione della sentenza e chi deve esercitare l’impugnazione, implicano che la regola della possibilita` della notificazione agli eredi collettivamente ed impersonalmente debba valere anche per chi esercita il diritto di impugnazione. Costui, se deve notificare agli eredi della parte defunta, puo` certamente notificare individuandoli singulatim, ma deve avere la possibilita` di notificare collettivamente ed impersonalmente nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto. Ed infatti, se e` giustificata la grave conseguenza del decorso del termine breve e, quindi, del possibile passaggio in giudicato della sentenza per effetto di una notificazione impersonale e collettiva, purche´ effettuata in quel luogo, altrettanto giustificato e` che, proprio per evitare quella conseguenza, il diritto di impugnazione possa essere esercitato verso gli eredi impersonalmente e collettivamente. ... Raggiunta tale conclusione, se ne puo` trarre un’implicazione ai fini dell’esatto ambito di applicazione della norma dell’art. 330 c.p.c., comma secondo. Essa e` nel senso che questa norma detta una disciplina particolare per il solo caso in cui la sentenza sia notificata e la morte avvenga dopo di essa. La particolarita` concerne il profilo del luogo, atteso che qui non si fa riferimento all’ultimo domicilio del defunto, ma ai luoghi risultanti dal primo comma della norma. La differenza risiede, evidentemente, nella circostanza che, l’impugnazione viene esercitata in relazione ad un’attivita`, quella di notificazione della sentenza, eseguita da poco tempo dalla parte defunta, onde, se essa all’atto della stessa aveva dichiarato la residenza o eletto domicilio oppure, non avendolo fatto, era difesa da procuratore presso il quale era domiciliata, appare giustificato che la notificazione collettiva ed impersonale possa farsi in quei luoghi, piuttosto che nell’ultimo domicilio. Ritengono queste Sezioni Unite che debba essere seguito l’indirizzo segnato dalla detta sentenza 15123/2007 sorretta da convincente motivazione (in parte riportata) con la quale l’esegesi delle norme coinvolte e` stata condotta coordinando il dato letterale con quello teleologico mediante una lettura globale e sistematica della normativa di riferimento tenendo conto delle esigenze fondamentali: di agevolare e rendere piu` sollecito il diritto di impugnativa; di tutelare il diritto di difesa;
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di garantire il rispetto del principio del contraddittorio; di contemperare – in modo corretto e coerente – i contrapposti interessi in gioco. Va in proposito evidenziato che la citazione collettiva ed impersonale, rispetto a quella personale di ciascun erede, comporta un’evidente facilitazione per l’impugnante, consentendogli di proseguire nel giudizio senza individuare personalmente gli eredi della parte defunta: spetta a chi ha la qualita` di erede renderla palese costituendosi nel giudizio instaurato dall’impugnante. Va precisato che tale facilitazione e` giustificata logicamente dall’esigenza di evitare all’impugnante di effettuare lunghe e complesse indagini volte all’esatta individuazione degli eredi. Peraltro l’individuazione del luogo di notifica nell’ultimo domicilio del defunto – che coincide con il luogo di apertura della successione – fornisce adeguata assicurazione in ordine alla probabilita` che gli eredi vengano a conoscenza della proposta impugnazione: cio` impedisce una possibile lesione del diritto di difesa dei successori della parte deceduta i quali potrebbero non essere a conoscenza delle notificazioni effettuate al procuratore del de cuius e, quindi, potrebbero risentire gli effetti di una decisione ad essi pregiudizievole ove non informati dal procuratore della effettuata impugnazione. Va infine segnalato che questa Corte con la recente sentenza 15 maggio 2009, n. 11315, ha affermato che qualora la parte non abbia dichiarato la residenza o eletto domicilio per il giudizio, essendo rimasta contumace o essendosi costituita personalmente senza dichiarare la residenza o eleggere domicilio, la notificazione dell’impugnazione va effettuata personalmente, ai sensi dell’art. 330, ultimo comma, c.p.c., e quindi, in caso di decesso, la notifica agli eredi non puo` essere effettuata collettivamente ed impersonalmente, ma va eseguita nominatim, ai sensi degli artt. 137 e ss. del c.p.c., indipendentemente dall’avvenuta notifica della sentenza e dalla circostanza che la morte della parte sia avvenuta prima o dopo tale notifica. Il riportato principio – come risulta evidente – non si pone in contrasto con quello affermato con la piu` volte citata sentenza 15123/2007 che non si riferisce alla fattispecie nella quale la parte defunta sia rimasta contumace in primo grado con conseguente necessita` di notifica dell’atto di appello personalmente ai singoli eredi. Occorre a questo punto occuparsi della problematica relativa alla possibilita` di sanatoria del vizio della notifica ed al riguardo va notato che la giurisprudenza di legittimita` e` essenzialmente e prevalentemente nel senso della possibilita` della sanatoria ex tunc quando il vizio riguarda il luogo di notificazione e della esclusione di tale possibilita` quando il vizio si riferisce all’individuazione del soggetto passivo dell’impugnazione con conseguente violazione del principio del contraddittorio e difetto della vocatio in ius. In alcune pronunzie si e` affermato che e` nulla ed insanabile la notifica dell’impugnazione effettuata impersonalmente e collettivamente e non singolarmente. Nella specie non e` ravvisabile alcuna delle ipotesi di nullita` insanabile trattandosi di notifica che, effettuata collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta, il Collegio – avendo prestato adesione al terzo orientamento giurisprudenziale richiamato nell’ordinanza di rimessione e di cui alla sentenza
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15123/2007 – ritiene errata solo con riferimento al luogo della notifica (presso uno dei luoghi di cui al primo comma dell’art. 330 c.p.c. e non presso il domicilio del defunto) con sanatoria della conseguente nullita` a seguito della costituzione dell’erede della parte defunta. I quesiti che la fattispecie in esame pone vanno pertanto risolti enunciando il seguente principio con il quale viene tenuto fermo e ribadito quello sopra riportato ed affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza 16 dicembre 2009, n. 26279: l’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa (o parzialmente vittoriosa) deve essere rivolto agli eredi indipendentemente sia dal momento in cui il decesso e` avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; detta notifica – che puo` sempre essere effettuata personalmente ai singoli eredi – puo` anche essere rivolta agli eredi in forma collettiva ed impersonale purche´ entro l’anno dalla pubblicazione della sentenza (comprensivo dell’eventuale periodo di sospensione feriale): a) nell’ultimo domicilio della parte defunta; b) ovvero, nel solo caso di notifica della sentenza ad opera della parte deceduta dopo la notifica, nei luoghi di cui al primo comma dell’art. 330 c.p.c. In definitiva in base a quanto precede puo` concludersi che: a) la notifica del ricorso effettuata impersonalmente e collettivamente agli eredi del defunto avvocato Franco Castiglione (parte vittoriosa del giudizio d’appello) presso il procuratore domiciliatario del de cuius costituito nel giudizio di secondo grado e` nulla in quanto non eseguita nel domicilio del defunto; b) la detta nullita` e` stata sanata dalla costituzione dell’erede della parte defunta Andrea Castiglione. (Omissis).
(1-2-3) Nuovo intervento delle Sezioni Unite sulle lacunose norme che regolano il processo in caso di morte di una delle parti. 1. – La giurisprudenza di legittimita` ha piu` volte denunciato la carenza dell’impianto normativo in materia di interruzione, soprattutto per quanto riguarda i momenti di trasmigrazione del giudizio da un grado all’altro del processo (1). Al riguardo si registrano di recente piu` interventi delle Sezioni Unite, chiamate a comporre il contrasto giurisprudenziale sorto su diversi aspetti di questa lacunosa disciplina (2). Con la sentenza che si annota esse continuano in questa loro opera, ne-
(1) Cfr. piu` di recente Cass. sez. un. 8 febbraio 2010, n. 2714, in Riv. dir. proc. 2010, 1158 ss., annotata da M.F. Ghirga, Le Sezioni Unite si pronunciano sul difficile equilibrio tra diritto di difesa e aspirazione al giudicato in materia di interruzione, che si associa in cio` alla dottrina, per la quale v. da ultimo G.P. Califano, Le vicende anormali del processo, in Aa.Vv., Le norme sul processo civile nella legge sullo sviluppo economico la semplificazione e la competitivita`, Jovene, Napoli 2009, 57, che ha denunciato la mancata occasione, offerta dalla piu` recente legge n. 69 del 2009, per colmare le numerose lacune in materia. (2) Oltre alla sentenza sopra citata, – che si e` pronunciata sulla decorrenza del termine breve di impugnazione, nel caso di morte del difensore della parte dopo l’udienza di precisazione
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cessitata dall’assenza di dati normativi certi ed inequivoci, dati dei quali viene condotta una stringente esegesi che tiene conto di esigenze fondamentali del sistema processuale: quella «di rendere piu` sollecito il diritto di impugnativa; di tutelare il diritto di difesa; di garantire il rispetto del principio del contraddittorio; di contemperare in modo corretto e coerente – i contrapposti interessi in gioco» (3). Si tratta allora di vedere se l’attivita` ermeneutica compiuta dalle Sezioni Unite risulti convincente in funzione degli obbiettivi perseguiti e delle soluzioni prospettate. 2. – A tal fine ci pare miglior cosa cominciare con il ricordare quali siano state le soluzioni offerte dalla Sezioni Unite per comporre i contrasti giurisprudenziali denunciati dall’ordinanza di rimessione della seconda sezione civile della Corte di cassazione (4). Il primo quesito sul quale le Sezioni Unite si sono pronunciate, come presupposto del loro successivo ragionamento, attiene all’individuazione dei soggetti ai quali deve essere rivolto e notificato l’atto di impugnazione della sentenza in caso di morte della parte vittoriosa. Confermando un loro recente insegnamento (5), esse hanno identificato tali soggetti negli eredi del de cuius, indipendentemente dal momento in cui il decesso e` avvenuto, e dalla ignoranza incolpevole dell’evento da parte del soccombente. Cio` premesso, il contrasto relativo alle modalita` con le quali procedere a tale notifica e` stato risolto dalle Sezioni Unite nel senso della possibilita` di notificare l’atto di impugnazione agli eredi impersonalmente e collettivamente. Quanto, invece, al luogo di notificazione dell’atto di impugnazione agli eredi impersonalmente e collettivamente, esso e` stato individuato nell’ultimo domicilio del defunto, sulla base della ricostruzione dell’esatto ambito di applicazione dell’art. 330, 2º comma c.p.c., norma che detta una disciplina particolare per il solo caso in cui la sentenza sia stata notificata dalla parte che successivamente muoia. Infine, e con riferimento alle problematiche relative alla possibilita` di sanatoria del vizio della notifica, le Sezioni Unite hanno rilevato come la giurisprudenza di legittimita` si sia essenzialmente e prevalentemente pronunciata nel senso della
delle conclusioni ma prima dell’udienza di discussione della causa, facendolo decorrere dalla notifica personale della sentenza alla parte rimasta priva di difensore, senza che assuma rilievo la mancata conoscenza incolpevole dell’evento interruttivo verificatosi ai danni della parte stessa –, giova segnalare anche Cass., sez. un., 16 dicembre 2009, n. 26279, che, ripresa dalla sentenza qui in commento, individua, nel caso di morte della parte vittoriosa, negli eredi i soggetti ai quali rivolgere e notificare l’atto di impugnazione, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso e` avvenuto, sia dall’eventuale ignoranza dell’evento anche se incolpevole, da parte del soccombente, ed esclude l’applicazione dell’art. 291 c.p.c. nel caso in cui l’impugnazione sia proposta nei confronti del defunto. (3) Come si legge nella stessa sentenza. (4) Si tratta dell’ordinanza 14 maggio 2009, n. 11176. (5) V. Cass., sez. un., 16 dicembre 2009, n. 26279, sopra citata.
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possibilita` della sanatoria ex tunc quando il vizio riguarda il luogo di notificazione, e dell’esclusione di tale possibilita` quando il vizio si riferisce all’individuazione del soggetto passivo dell’impugnazione, con conseguente violazione del diritto del contraddittorio e della difesa. 3. – Sul tema delle impugnazioni proposte dopo la morte di una parte erano emersi nella giurisprudenza di legittimita` diversi orientamenti spiegabili con l’assenza di una disciplina che regoli la fattispecie, che secondo le Sezioni Unite (6) non e` contenuta in alcuna delle norme nelle quali di volta in volta e` stata ravvisata (7). La lacuna viene allora colmata facendo ricorso ai principi generali e quindi a
(6) Nella sentenza di cui alla nota precedente. (7) Esse citano al riguardo le prime loro decisioni adottate con le sentenze 21 febbraio 1984, n. 1228, 1229 e 1230, che si possono leggere in Foro it. 1984, I, 664, annotate da A. Proto Pisani e in Giust. civ. 1985, I, 169, con nota critica di A. Finocchiaro, L’intervento delle sez. un. non dissipa le ombre sugli effetti, dopo la chiusura della discussione, degli eventi menomativi o esclusivi della capacita` della parte verificatasi in precedenza e non comunicati ne´ notificati dal suo procuratore, che cosı` riassume i principi dalle stesse formulati: «– la notificazione della sentenza fatta al procuratore della parte defunta o divenuta incapace e` idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione anche nei confronti degli eredi della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace (sent. n. 1230 del 1984); – il procuratore, ove gli sia stata conferita procura ad litem valida anche per gli ulteriori gradi del giudizio, e` legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte che, pur deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo, ancora in vita (sent. n. 1229 del 1984); – e` valida la notificazione dell’atto di impugnazione effettuata presso il procuratore della parte deceduta o divenuta incapace, pur se la parte notificante abbia avuto aliunde conoscenza dell’evento (sent. n. 1228 del 1984)». Cass., sez. un., 21 febbraio 1984, n. 1228, e` pubblicata anche in Giur. it. 1985, I, 1, 39 ss. con nota critica di M. Montanari, Rilievi critici intorno ad uno schema di sistemazione globale dell’incidenza degli eventi ex art. 299 c.p.c., il quale osserva che «se tutti i dati normativi da cui e` possibile ricavare la disciplina effettuale degli eventi ex art. 299 verificatisi nello stadio processuale ricompresso tra la chiusura dell’udienza di discussione e la notificazione dell’atto di impugnativa, convergono nel riconoscere la legittimazione esclusiva a compiere e ricevere i diversi atti pertinenti a questa specifica fase a coloro cui compete di proseguire il giudizio», a tale principio dovra` conformarsi per evitare disarmonie sistematiche e dubbi di costituzionalita` «la disciplina dell’incidenza dei medesimi eventi in quanto determinatisi nel corso del giudizio ma non notificati, ne´ dichiarati». Le Sezioni Unite ricordano poi come la questione sia stata dalle stesse nuovamente affrontata con la sentenza 19 dicembre 1996, n. 11394, che si puo` leggere in Foro it. 1997, I, 2544 ss., con nota di R. Caponi e in Nuova giur. civ. comm. 1997, I, 925 ss., con nota di C. Gamba, Morte o perdita della capacita`della parte, intervenuta tra il primo e il secondo grado di giudizio, nella quale hanno innanzitutto premesso che la questione non poteva essere risolta alla luce dei criteri dell’ultrattivita` del mandato al procuratore costituito e della non automaticita` dell’interruzione ex art. 300 c.p.c., che opererebbero solo se uno degli eventi previsti nell’art. 299 c.p.c. si verifica nell’intervallo di tempo tra la costituzione della parte e la chiusura dell’udienza di discussione, bensı` in forza dell’art. 328 c.p.c., il quale esprimerebbe «la volonta` del sistema che l’impugnazione sia proposta da e contro i soggetti reali del rapporto». Infine esse citano la sentenza 28 luglio 2005, n. 15783, pubblicata in Foro it. 2006, I 131 ss., con note di P.C. Ruggieri,
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quello fondamentale del rispetto del contraddittorio, che conterrebbe in se´ anche quello di «giusta parte», tale non potendosi considerare la persona non piu` in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori. La soluzione prospettata e` stata adottata anche nella sentenza qui in commento e per questo merita un piu` attento esame critico, che in questa sede non puo` che essere solo abbozzato. Sono proprio gli assunti dai quali muovono le Sezioni Unite a non convincere nel ribaltare il loro precedente insegnamento. Innanzitutto non persuade della sentenza del 2005 (8) il ricondurre «in assenza di specifica regolamentazione» la procura ad litem alla normativa civilistica sulla rappresentanza e sul mandato, che avrebbe carattere generale rispetto a quella processualistica, con la conseguenza che la morte del mandante ai sensi dell’art. 1722, n. 4) c.c.
Eventi interrruttivi del processo e notificazione di atti di impugnazione alle parti legittimate: l’attesa svolta delle sezioni unite, e di R. Caponi, In tema di autonomia e certezza nella disciplina del processo civile, e in Giur. it. 2006, 87 ss., nella quale le Sezioni unite sono tornate a pronunciarsi sull’annosa questione dei soggetti legittimati a ricevere le notificazioni delle impugnazioni allorquando si sia verificato un evento interruttivo che non sia stato dichiarato in udienza, ne´ notificato alle altre parti, con riferimento specifico al caso del raggiungimento della maggiore eta` del soggetto che stava in giudizio rappresentato dai genitori esercenti la patria potesta`. Esse hanno ribadito che l’atto di impugnazione, come pure la sentenza emessa al termine del primo grado di giudizio, devono essere notificati ai soggetti reali della nuova situazione sostanziale prodotta dal verificarsi dell’evento interruttivo. Un principio generale, questo, che viene ricavato dall’art. 328 c.p.c., 1º comma, quale «norma cardine del sistema» e dalla sua armonizzazione con quanto disposto negli artt. 286 c.p.c. e 300 c.p.c. In esso andrebbe colta la volonta` del legislatore di «adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, ed operante tanto nel caso di evento verificatosi dopo la sentenza, che in quello di evento intervenuto durante la fase attiva e non dichiarato ne´ notificato, con piena parificazione degli effetti delle due fattispecie». In questa ricostruzione sistematica non vi sarebbe spazio per opzioni interpretative volte a subordinare il dovere di indirizzare l’impugnazione al soggetto subentrato alla parte colpita dall’evento all’avvenuta conoscenza o alla conoscibilita` dello stesso. Peraltro e come si e` anticipato nel testo, nel loro piu` recente pronunciamento, le Sezioni Unite hanno rilevato, invece, che «la disciplina dell’impugnazione della sentenza nel caso di morte o di perdita o acquisto della capacita` di stare in giudizio della parte non e` direttamente contenuta in alcuna delle norme nelle quali di volta in volta e` stata ravvisata» nei precedenti sopra citati. Non nell’art. 300 c.p.c., che non e` in grado di estendere la «stabilizzazione» della posizione della parte e l’ultrattivita` del mandato oltre il grado di giudizio nel quale l’evento si e` verificato; non nell’art. 286 c.p.c., il quale attiene alla notificazione della sentenza e non dell’impugnazione e che nel prevedere come facolta` quella di effettuare la notifica agli eredi collettivamente e impersonalmente, rimanda, come possibilita` alternativa, alla notifica effettuata sempre agli eredi, ma singolarmente e personalmente, e da cui dunque non puo` trarsi alcun argomento a favore dell’ultrattivita` del mandato con efficacia temporale illimitata, anche nei gradi di giudizio successivi; non nell’art. 328 c.p.c., che nulla dice a proposito di chi debba essere il destinatario dell’impugnazione; non nell’art. 330 c.p.c., il quale anzi presuppone che l’atto di impugnazione debba essere in ogni caso indirizzato agli eredi e a loro notificato indipendentemente dal momento in cui il decesso della parte e` avvenuto. (8) Vedila citata alla nota precedente.
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estinguerebbe il mandato. Non persuade perche´ non e` vero che non vi sia una regolamentazione della fattispecie in questione nelle norme processuali che, anzi, proprio per questo, ovvero perche´ dettata in considerazione delle esigenze del giudizio, segue un sua propria ratio che e` quella di garantire la funzionalita` del processo (9). In quest’ottica certamente preferibile e` il precedente insegnamento, risalente al 1984, quando le Sezioni Unite (10) avevano affermato che nel caso in cui il procuratore ometta di dichiarare l’evento menomativo che abbia colpito la parte da lui rappresentata, «la posizione giuridica di questa resta stabilizzata rispetto alle altre parti e al giudice, quale persona ancora esistente o ancora capace, nella fase attiva in corso del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza, dopo la pubblicazione della sentenza, e di riattivazione a seguito e per effetto della proposizione di impugnazione. Posizione giuridica cosı` stabilizzata che si modifichera`, nei confronti delle parti e del giudice, divenendo efficace nel processo l’avvenuta morte o perdita di capacita` della parte se, nella successiva fase di impugnazione, si costituiranno gli eredi della parte defunta od il rappresentante legale della parte divenuta incapace, o se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura ad litem valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiarera` in udienza o notifichera` alle altre parti il verificatosi evento». E nel precedente insegnamento delle Sezioni Unite sarebbe proprio questa stabilizzazione della posizione giuridica della parte a comportare l’ultrattivita` della procura ad litem (11). Qui forse e` possibile cogliere un’inversione logica, nel senso che e` la disciplina contenuta nell’art. 300 c.p.c., nell’attribuire un potere discrezionale al difensore di dichiarare o meno l’evento interruttivo, che consente, in assenza di tale dichiarazione, la stabilizzazione della parte nei cui confronti si svolgera` il processo, fermo restando che gli effetti del provvedimento si produrranno in capo al successore o al soggetto divenuto incapace. Ora, sembra che questa soluzione interpretativa sia da preferire in quanto tu-
(9) Proprio considerando lo scenario nel quale viene ad operare il difensore e quindi il processo con le sue esigenze, si spiegano alcune norme che lo riguardano, come quella posta dall’art. 85 c.p.c., la quale stabilisce che la revoca e la rinuncia alla procura non hanno effetto nei confronti dell’altra parte fino a quando non sia avvenuta la sostituzione dello stesso. In questo caso avremo un soggetto che esercita nel processo lo ius postulandi a favore di una parte che gli ha revocato la procura, situazione non dissimile da quella in cui il difensore continua a stare in giudizio per un soggetto deceduto. Nel primo caso si vuole tutelare la controparte, garantendole la continuita` del contraddittorio tecnico senza che accadimenti che riguardino la sfera dei rapporti interni tra il legale e la parte dallo stesso assistita possano avere rilievo nel processo. Nel secondo e` sempre il contraddittorio ad essere tutelato, sia con riferimento ai soggetti che subentreranno nella posizione processuale della parte venuta meno, sia nei confronti della controparte che evita un’automatica interruzione del processo quando la stessa non sia necessaria. (10) Con le sentenze citate a nota (7). (11) Per R. Caponi, In tema di autonomia, cit., 139, l’ultrattivita` del mandato ad litem non sarebbe un’arbitraria deviazione dalla normativa civilistica, ma una regola giurisprudenziale che risponde all’autonomia del diritto processuale civile, pragmaticamente elaborata tenendo conto delle esigenze di funzionalita` del processo civile.
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tela sia i successori della parte che ha subito l’evento menomativo, che vedono garantita la continuita` della loro difesa e che non sono comunque pregiudicati, potendo in ogni caso rivalersi nei confronti del difensore del de cuius sul piano dei rapporti interni (12) e quindi su quello del diritto sostanziale, sia la controparte che non subisce oneri causati dall’evento verificatosi nell’altrui sfera giuridica. Diversamente accadrebbe se si consolidasse il piu` recente insegnamento delle Sezioni Unite, in quanto esse onerano la parte che voglia impugnare o notificare la sentenza del compito di appurare se l’evento interruttivo abbia colpito la parte avversa tra un grado e l’altro del giudizio o se, non essendo stato dichiarato ne´ notificato in corso di causa, si sia pero` verificato in una fase attiva (13). C’e` da chiedersi se questa sia davvero la soluzione imposta dal rispetto del principio del contraddittorio, come affermano le Sezioni Unite. A noi non pare in considerazione del fatto che nel processo si realizza un contraddittorio che per sua natura si manifesta attraverso l’operato del difensore, del quale proprio l’art. 300 c.p.c. assicura la presenza e la continuita` del mandato. Mentre non ci sembra che si possa porre nel caso di specie un problema di «giuste parti», se non solo dal punto di vista formale, come parti degli atti processuli (14). Ed infatti
(12) Per A. Cavalaglio, voce Interruzione del processo di cognizione nel diritto processuale civile, in Dig. IV disc. priv. sez. civ, X, UTET, Torino 1993, 90, il procuratore e` esposto ad una personale responsabilita` nei confronti della parte sostanziale, qualora dall’omessa dichiarazione della morte o del fatto esclusivo della capacita` di stare in giudizio sia derivata a questa un pregiudizio, tenuto conto che la sentenza deliberata al termine di un processo che avrebbe potuto essere interrotto e` comunque produttiva di effetti. Anche A. Saletti, voce Interruzione del processo, in Enc. giur. Treccani, XVII, Roma 1989, 7, osserva che «naturalmente e` onere del difensore seguire le istruzioni del successore della parte colpita dall’evento interruttivo o di chi ha acquistato la legittimazione formale, relativamente all’opportunita` o meno di rendere noto il fatto interruttivo; cio` peraltro riguarda solo i rapporti interni tra parte e difensore, con la conseguenza che, se il difensore omette di dichiarare l’evento interruttivo per propria determinazione, il processo prosegue validamente nei confronti delle parti originarie, spiegando la sua efficacia vincolante rispetto agli eventuali successori». (13) C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni della sentenza, Giappichelli, Torino 2010, 115, con riferimento alla giurisprudenza piu` recente della cassazione, afferma che sembra eccessivo imporre alla controparte di impugnare nei confronti del successore, dovendosi considerare valida la notificazione dell’impugnazione al procuratore della parte defunta. Per P.C. Ruggieri, Eventi interruttivi del processo, cit., 135, l’attribuzione di una posizione deteriore ad una parte, a vantaggio dell’altra, se pure consistente nella mera imposizione di oneri ulteriori, potrebbe essere legittimamente giustificata solo in virtu` di una comparazione di valori tutelati a livello costituzionale, che deve essere effettuata a monte dal legislatore, e non gia` in sede di interpretazione. L’autrice aveva gia` auspicato l’intervento del legislatore nella nota critica Capacita` della parte, eventi modificativi ed impugnazione della sentenza, in Foro it. 2005, I, 1551. (14) Anche nel caso di parte divenuta incapace nel corso del giudizio, non vi sarebbe comunque un problema di legittimatio ad causam, restando la stessa titolare attiva o passiva dell’azione esercitata nel processo e quindi destinataria degli effetti della decisione, ma di legittimatio ad processum. In altri termini nel caso di specie si verificherebbe un sopravvenuto difetto di rap-
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l’espressione utilizzata dalle Sezioni Unite rimanda al concetto di legittimazione ad agire e quindi di titolarita` attiva e passiva dell’azione, la quale sembrerebbe presupporre che, per il verificarsi della successione nel processo, sia necessaria anche la successione nel diritto controverso (15). Cosı` non crediamo che sia, come del resto opina la dottrina alla quale aderiamo, che ritiene sufficiente il «venir meno della parte» perche´ si verifichi il sub – ingresso del successore nella sua posizione processuale (16). Cio` che interessa all’ordinamento e` infatti ricostituire la bilateralita` del processo al fine di consentire che lo stesso si possa concludere con una decisione, evitando l’estinzione in caso di morte di una delle parti. Lo scopo e` raggiunto individuando nel successore universale colui che proseguira` o nei confronti del
presentanza. Se cosı` e` allora si tratta di capire quale sia il trattamento riservato allo stesso dal legislatore nel corso del processo. Fermo restando infatti che, tra i primi adempimenti che deve compiere il giudice istruttore vi e` la verifica di un possibile difetto di rappresentanza al sensi dell’art. 182 c.p.c., con assegnazione di un termine per la costituzione della persona alla quale la stessa spetta, e conseguente sanatoria, c’e` da chiedersi cosa accada se tale difetto sopravvenga nel corso del processo. Anche in questo caso la disciplina non puo` che essere quella contenuta nell’art. 300 c.p.c., che autorizza il difensore del soggetto divenuto incapace a stare in giudizio per il suo rappresentante, che potra` sempre regolarizzare il difetto costituendosi volontariamente, risultato questo che potra` ottenere anche la controparte citandolo in giudizio. (15) Cosı`: E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova 1979, 163 s.; S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano 1966, 412 s.; De Marini, La successione nel diritto controverso, Roma 1953, 2; A. Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del codice di procedura civile diretto da E. Allorio, Torino 1973, I, 2, 1211 s.; R. Marengo, voce Successione nel processo, in Enc. del dir., XLIII, Milano 1990, 1393 ss.; D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, Giappichelli, Torino 2002, 56, da ultimo, sulla scorta dei risultati raggiunti dalla dottrina civilistica, ricorda che la morte della persona fisica, se costituisce la causa immediata del distacco, della perdita dei diritti e degli obblighi da parte di un titolare, rappresenta pero` soltanto un prius rispetto al perfezionarsi della successione. «In cio` sta il significato dell’affermazione secondo cui, ai fini della successione nel processo, al «venir meno» della parte deve accompagnarsi la contestuale, anche se non immediata successione a titolo universale». Ed infatti tra la morte e il sub – ingresso nella qualita` di erede esiste uno iato voluto dall’ordinamento a tutela del chiamato, il quale deve poter scegliere se accettare o meno l’eredita`, acquistando il titolo di erede; solo a seguito dell’esercizio di tale diritto da parte del chiamato si perfeziona il ciclo della successione, con la conseguenza che la morte e il sub-ingresso dell’erede in universum ius rappresentano due momenti logicamente e giuridicamente distinti. (16) Cfr. F.P. Luiso, «Venire meno» della parte e successione nel processo, in Riv. dir. proc. 1983, 204 ss., spec. 207, per il quale l’art. 110 c.p.c. non richiede affatto che si abbia anche una successione a titolo universale nel diritto controverso. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Giappichelli, Torino 2010, 422, afferma che l’art. 110 c.p.c. disciplina la situazione che viene a crearsi quando viene meno una delle parti del processo, vi si ricolleghi o meno una vicenda di successione nel diritto su cui si controverte nel processo pendente. Anche per N. Picardi, Manuale del processo civile, Giuffre`, Milano 2006, la successione ex art. 110 c.p.c. e` fenomeno distinto dalla successione a titolo universale nel rapporto giuridico sostanziale dedotto nel processo. Dello stesso autore v. anche La successione processuale, Milano 1964, passim.
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quale sara` proseguito il giudizio, in considerazione della completezza del nostro sistema successorio, il quale garantisce che alla morte di una persona vi sia sempre la possibilita` di individuarne uno ex art. 586 c.c. (17). Del resto e` la stessa giurisprudenza a ritenere che nell’ipotesi di successione nel processo ex art. 110 c.p.c. sussista litisconsorzio necessario per ragioni processuali tra i coeredi del defunto, indipendentemente dalla trasmissione all’uno o all’altro della titolarita` del bene oggetto della domanda giudiziale (18). Dunque non sembra del tutto corretta l’affermazione per la quale l’impugnazione «va instaurata e deve svolgersi da e contro i soggetti che siano parti sostanziali attualmente interessate alla controversia ed al processo», se non riferendola genericamente agli eredi nel loro complesso e quindi prescindendo del tutto dall’effettiva successione nel diritto oggetto della lite. Del resto, il soccombente che rivolge l’impugnativa agli eredi non e` affatto onerato dell’esatta individuazione del soggetto interessato sul piano sostanziale all’esito della lite, quale successore nel diritto controverso. 4. – Cio` e` tanto piu` vero che le Sezioni Unite hanno ritenuto, pur in assenza di un dato normativo certo, che l’atto di impugnazione possa essere notificato agli eredi non nominatim, ma collettivamente e impersonalmente (19); con il che si agevola il soccombente, non solo esonerandolo dalla necessita` di svolgere lunghe e complesse ricerche dirette all’esatta individuazione dei successori, ma evitandogli altresı` di indicare il soggetto che e` realmente interessato sul piano sostanziale, essendo subentrato a tutti gli effetti nelle posizioni del de cuius (20). A tale soluzione le Sezioni Unite giungono attraverso una lettura sistematica del dato normativo che si condivide – fermo restando quanto si e` detto sul pre-
(17) Norma che, in mancanza di altri successibili, stabilisce che l’eredita` si devolve allo Stato e che l’acquisto non necessita di accettazione. (18) Cfr.: Cass. 18 ottobre 2001, n. 12740, in Giur. it. 2002, 925 ss. con nota di D. Turroni, «Inattivita` qualificata» ed estinzione del processo; Cass. 18 maggio 2000, n. 6480, in Foro it. 2001, 820 ss., annotata da R. Caponi, In tema di interruzione del processo civile; Cass. 25 agosto 1986, n. 5169, in Riv. dir. proc. 1987, 1015 ss., commentata criticamente da R. Martino, Brevi note in tema di istituzione di erede «ex re certa» e successione nel processo. Per G. Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli 1979, 404 ss., si avrebbe invece un caso di litisconsorzio unitario quando il processo sia riassunto nei confronti di tutti gli eredi della parte defunta in corso di causa. Piu` di recente v. Cass. 19 gennaio 2007, n. 1202 e Cass. 30 gennaio 2006, n. 1887. (19) Le Sezioni Unite denunciano la scarsa attenzione da parte della dottrina in merito alla questione relativa ai limiti della possibilita` della notifica dell’atto di impugnazione collettiva ed impersonale agli eredi. (20) Affermano al riguardo le Sezioni Unite: «va in proposito evidenziato che la citazione collettiva ed impersonale, rispetto a quella personale di ciascun erede, comporta un’evidente facilitazione per l’impugnante consentendogli di proseguire nel giudizio senza individuare personalmente gli eredi della parte defunta: spetta a chi ha la qualita` di erede renderla palese costituendosi nel giudizio instaurato dall’impugnante».
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supposto della stessa – laddove e` condotta alla luce dei principi generali (21), tra i quali pero`, occorre segnalare criticamente, viene omesso il richiamo a quello che ci pare il piu` pertinente nel caso di specie, ovvero la parita` delle armi. Ed infatti l’esegesi delle norme coinvolte, l’art. 286 c.p.c. e l’art. 328, 2º comma, c.p.c., porta le Sezioni Unite ad affermare che vi e` un’evidente esigenza di parita` di trattamento tra chi vuole provocare il decorso del termine breve di impugnazione attraverso la notificazione della sentenza e chi deve esercitare l’impugnazione, esigenza che implica che la regola della possibilita` della notificazione agli eredi collettivamente ed impersonalmente possa valere anche per chi assuma l’iniziativa impugnatoria (22). 5. – Identificati i soggetti a cui rivolgere l’atto di impugnazione e le modalita` con le quali procedere alla sua notificazione, le Sezioni Unite si sono occupate dell’individuazione del luogo presso il quale effettuare la stessa, luogo che non puo` che essere quello dell’ultimo domicilio del defunto. Convincenti al riguardo ci paiono le argomentazioni utilizzate: sia quella di ordine esegetico, che fa leva sulla particolarita` della disciplina contenuta nell’art. 330 c.p.c., sia quella che muove dall’esigenza di evitare la violazione del diritto di difesa. La norma codicistica si spiegherebbe infatti in considerazione della fattispecie prevista: quella in cui la parte interessata abbia provveduto a notificare alla controparte la sentenza, al fine di far decorrere il termine breve per l’impugnazione, e abbia in tale atto dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, o non avendolo fatto, sia difesa dal procuratore presso il quale era domiciliata, e poi muoia. In questo caso, e solo in questo, si giustifica la previsione che l’atto di impugnazione, che segue un’attivita` da poco compiuta dalla parte poi deceduta, possa essere notificato collettivamente e impersonalmente agli eredi in quei luoghi. D’altra parte, l’individuazione del luogo presso il quale effettuare la notificazione dell’atto di impugnazione in quello dell’ultimo domicilio del defunto, che tra l’altro coincide con il luogo di apertura della successione, secondo le Sezioni Unite fornisce adeguata assicurazione in ordine alla probabilita` che gli eredi ne vengano a conoscenza. La soluzione prospettata consente, secondo la sentenza in commento, di evitare una possibile lesione del diritto di difesa dei successori della parte deceduta, i quali potrebbero non essere a conoscenza delle notificazioni effettuate al procuratore del de cuius.
(21) Vengono invocati il principio del contraddittorio, quello della difesa e l’esigenza di contemperare i contrapposti interessi in gioco. (22) Osservano al riguardo le Sezioni Unite che «se e` giustificata la grave conseguenza del decorso del termine breve e, quindi, del possibile passaggio in giudicato della sentenza per effetto di una notifica impersonale e collettiva», purche´ effettuata nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto, «altrettanto giustificato e` che, proprio per evitare quella conseguenza, il diritto di impugnazione possa essere esercitato verso gli eredi impersonalmente e collettivamente».
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6. – Infine, qual’e` la sorte di un atto di impugnazione notificato agli eredi impersonalmente e collettivamente non nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto? Malgrado la giurisprudenza di legittimita` sia piuttosto severa nel giudicare i vizi di notificazione dell’atto di impugnazione, spinta dall’obiettivo di facilitare il consolidarsi della decisione in funzione della ragionevole durata del processo (23), quando trattasi di vizio che attiene al luogo della notificazione, essa manifesta una minore rigidita`. Cosı` nel caso di specie le Sezioni Unite hanno ritenuto che non fosse ravvisabile alcuna ipotesi di nullita` insanabile, potendosi superare l’errore compiuto con riferimento al luogo della notifica, a seguito della costituzione dell’erede della parte defunta, soluzione questa certamente condivisibile sulla base pero` delle premesse del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite che, come detto, non si condividono e che se fossero diverse porterebbero a tutt’altra soluzione. Maria Francesca Ghirga Professore ordinario nell’Universita` dell’Insubria
(23) Vedila da ultimo commentata da M. Bove, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Esi, Napoli 2010, 31 ss.
Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4059 Pres. Vittoria – Rel. Mazziotti di Celso MGL Fashion S.r.l. c. SGI S.a.s. di Bartolucci Franco & C.
L’effetto traslativo della proprieta` del bene in conseguenza della pronuncia di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita si produce solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza (massima non ufficiale) (1). L’esecutivita` provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita e` limitata ai capi della decisione compatibili con la produzione dell’effetto traslativo del bene in un momento successivo e non si estende ai capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta interdipendenza con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale (massima non ufficiale) (2). L’esecutivita` provvisoria ai sensi dell’art. 282 c.p.c. della sentenza di accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita non puo` essere riconosciuta al capo decisorio relativo alla condanna al rilascio dell’immobile (massima non ufficiale) (3). (Omissis). – Con il primo motivo di ricorso la societa` MGL denuncia violazione degli artt. 282 e 474 c.p.c. e art. 2932 c.c. assumendo l’erroneita` della sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato immediatamente esecutive le sentenze ex art. 2932 c.c. limitatamente alle statuizioni di condanna in esse contenute, dimenticando che integra il concetto di «condanna» anche quella implicitamente contenuta nell’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. proposta dal promissario acquirente e diretta al trasferimento del bene in suo favore, sicche´ il promittente venditore, per l’effetto della pronuncia del trasferimento, e` «obbligato al rilascio del bene». In altri termini, la Corte di appello ha omesso di considerare che la statuizione di trasferimento del bene, contenuta nella sentenza costitutiva prevista dall’art. 2932 c.c., implica una vera e propria «condanna» del promittente venditore ad un «facere», alla stessa stregua della condanna del proprietario del fondo servente a consentire l’esercizio della servitu` coattiva di passaggio (come statuito con la sentenza n. 1619 del 2005 della 3 sez. della Corte di cassazione): infatti, nel caso di condanna implicita, l’esigenza di esecuzione della sentenza deriva dalla stessa funzione che il titolo e` destinato a svolgere. Pertanto, in applicazione di tale principio, vertendosi in tema di sentenza costitutiva, la funzione della stessa e` da intendersi caratterizzata da un’esigenza di
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esecuzione, che non avrebbe potuto trovare altra alternativa se non nel ritenere che la sentenza contenesse – per la struttura del diritto sostanziale azionato – una condanna implicita al rilascio del bene, previa, naturalmente, la pronuncia di trasferimento dell’immobile stesso. Evidenzia al riguardo la ricorrente che gli effetti consequenziali all’esecuzione di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. si presentano assolutamente reversibili, ben potendosi, in caso di riforma di tale pronuncia, ripristinare la pregressa situazione, con la restituzione, anch’essa attuabile nelle forme dell’esecuzione forzata, dell’immobile oggetto del contratto preliminare, trasferito al promissario acquirente dopo l’emanazione sentenza di cui al citato art. 2932 c.c. La societa` MGL censura l’impugnata pronuncia anche con riferimento al discutibile richiamo dei principi espressi con la sentenza della S.C. n. 18512 del 2007 intervenuta sull’argomento con la quale non era stata operata alcuna distinzione tra il promittente venditore – cui era stata riconosciuta la possibilita` di agire immediatamente per il recupero del prezzo della vendita (possibilita` prevista anche nella sentenza oggetto di ricorso) – e il promissario acquirente, titolare del diritto di conseguire il rilascio dell’immobile compravenduto, quale diretta ed immediata conseguenza – pur se implicita – della pronuncia di trasferimento dell’immobile contenuta nella sentenza emessa ai sensi del piu` volte menzionato art. 2932 c.c. Da cio` si sarebbe dovuto inferire che, in concreto, una volta ottenuta siffatta sentenza costitutiva, la tutela accordata al promissario acquirente sarebbe rimasta monca ove non fossero stati apprestati adeguati strumenti per consentirgli l’esercizio immediato dei diritto di proprieta` e, tra questi strumenti, particolare rilievo avrebbe dovuto assumere l’istituto della provvisoria esecutivita` ex art. 282 c.p.c., per la sua attitudine ad assicurare l’anticipazione dell’efficacia propria del giudicato, volta ad evitare che la durata del processo possa pregiudicare l’attore vittorioso in primo grado. Del resto proprio in considerazione di questa esigenza pratica, sottesa al richiamato istituto dell’esecuzione provvisoria disciplinata dal citato art. 282 c.p.c., si era ritenuto da parte della piu` avveduta dottrina, di poterne estendere l’applicazione anche al di fuori dei tradizionali confini della tutela condannatoria, con la conseguenza che anche le sentenze costitutive potrebbero beneficiare della indicata provvisoria esecutorieta`. La corte di appello ha in definitiva errato nel ritenere che la pubblicazione della sentenza n. 357 del 2005 adottata in primo grado dal Tribunale di Isernia non avesse esplicato effetti giuridici tra la S.G.I. e la T. Diversamente opinando, invece, al cospetto della immediata e completa esecutivita` della sentenza di primo grado emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c., il giudice del gravame avrebbe dovuto ritenere il contratto di locazione stipulato dalla S.G.I., oramai non piu` proprietaria, risolto di diritto, con rutti i derivanti effetti del caso, anche in ordine al pagamento dei canoni, non piu` dovuti alla S.G.I., bensı` alla riconosciuta proprietaria T.R., sin dalla data in cui era stata pubblicata la predetta sentenza del Tribunale di Isernia con la quale era stato trasferito l’immobile oggetto del contratto di locazione in questione. Con riguardo al primo complesso motivo la ricorrente ha formulato i seguenti quesiti di diritto:
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– «se sia conforme all’ordinamento l’affermata non esecutivita` ex art. 282 c.p.c. del capo di trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza resa ai sensi dell’art. 2932 c.c., ove la domanda di esecuzione in forma specifica diretta al trasferimento del bene sia stata proposta dal promissario acquirente»; – «se sia conforme all’ordinamento la non ravvisata condanna implicita al rilascio dell’immobile, in danno del promittente venditore, immediatamente eseguibile nelle forme dell’espropriazione forzata, nella sentenza resa ai sensi dell’art. 2932 c.c. nella parte che dispone il trasferimento dell’immobile, ove la domanda di esecuzione in forma specifica diretta al trasferimento del bene sia stata proposta dal promissario acquirente». Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione del principio di ragionevolezza e/o di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge di cui all’art. 3 Cost. e/o del principio della parita` delle parti nel processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2 e/o del principio di effettivita` della tutela giurisdizionale di cui all’art. 111 Cost. e/o del principio dell’azionabilita` dei propri diritti e dell’effettivita` delle garanzie processuali di cui all’art. 24 Cost. Deduce la ricorrente che, ragionando nel solco tracciato dall’impugnata sentenza e nella piena consapevolezza dell’assenza di tutela immediata per il promissario acquirente, un soggetto puo` stipulare un preliminare di compravendita e sottrarsi alla stipula del definitivo per, poi, ritardare quanto piu` a lungo possibile la consegna del bene, attraverso la proposizione dei rimedi impugnatori esperibili avverso la sentenza che decide sull’azione ex art. 2932 c.c., intrapresa dal promissario acquirente dopo la mancata stipula del contratto definitivo di vendita: e tutto cio` nonostante che egli possa, ancor prima del passaggio in giudicato di tale sentenza, aver ottenuto (o aver agito per ottenere) l’intero prezzo della vendita. Di qui l’innegabile esigenza di riconoscere, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., contrariamente a quanto operato dalla Corte di appello (che non si e` posta affatto la problematica degli effetti devastanti derivanti dall’applicazione del criterio del «doppio binario di tutela»), una sollecita tutela al promissario acquirente, sottoposto al piu` che concreto rischio di dover attendere lunghissimi anni per conseguire l’immobile, malgrado abbia potuto corrispondere interamente il residuo del prezzo. senza che possa fungere da ostacolo, al riconoscimento in discorso, la questione della reversibilita` (comunque sicura) degli effetti in caso di caducazione della sentenza di primo o secondo grado. Si deve pertanto escludere che alla sentenza decisa ex art. 2932 c.c. si possa attribuire (come l’impugnata sentenza ha stabilito), sul piano del diritto sostanziale, un’efficacia limitata ai soli profili obbligatori, senza estendersi a quello reale. Ne consegue che deve essere necessario, sotto ogni angolazione, giuridica e sociale, consentire, a ciascuna parte, di potersi avvalere della generale regola della immediata esecutivita` delle sentenze di primo grado di cui all’art. 282 c.p.c., pur se pronunciate ex art. 2932 c.c., sin dal loro deposito, in aderenza al diritto vigente, necessariamente condizionata, ma per entrambe le parti, dall’accettazione del rischio dell’attendibilita` della prima o della seconda pronuncia. Con riguardo al secondo proposto motivo, quindi, e` stato formulato il seguente quesito di diritto: «se sia conforme al principio di ragionevolezza e/o di uguaglianza dei citta-
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dini di fronte alla legge di cui all’art. 3 Cost. e/o del principio della parita` delle parti nel processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2 e/o del principio di effettivita` della tutela giurisdizionale di cui all’art. 111 Cost. e/o del principio dell’azionabilita` dei propri diritti e dell’effettivita` delle garanzie processuali di cui all’art. 24 Cost., in tema di sentenza pronunciata ex art. 2932 c.c., la riconosciuta immediata esecutivita` ex art. 282 c.p.c. al diritto del promittente venditore di esigere il prezzo della vendita e l’affermato differimento, al momento del passaggio in giudicato di tale sentenza, del trasferimento del diritto di proprieta` del promissario acquirente e dell’esercizio delle facolta` a questi spettanti». Le dette numerose censure possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza riguardando tutte, quale piu` quale meno, sia pur sotto aspetti e profili diversi, le stesse collegate questioni – ritenute di particolare importanza e per il cui esame il ricorso e` stato assegnato a queste Sezioni Unite – che possono essere cosı` sintetizzate: dicano le Sezioni unite se sia riconoscibile l’esecutivita` provvisoria, ex art. 282 c.p.c., del capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza di primo grado resa ai sensi dell’art. 2932 c.c. e, inoltre, se possa ravvisarsi, tenendo conto anche dei principi di ragionevole e di tutela del diritto di azione, previsti rispettivamente dagli artt. 3 e 24 Cost., l’esecutivita` provvisoria della condanna implicita al rilascio dell’immobile, in danno del promittente venditore, scaturente dalla suddetta sentenza nella parte in cui dispone il trasferimento dell’immobile, ove la domanda di esecuzione in forma specifica diretta all’ottenimento di una statuizione produttiva degli effetti del contratto definitivo di compravendita non concluso sia stata proposta dal promissario acquirente. Ai detti quesiti va data risposta negativa cosı` come ritenuto dalla sentenza impugnata dalla MGL per cui i primi due motivi di ricorso devono essere rigettati. Occorre osservare che – con riferimento alla peculiarita` dell’azione personale e non reale prevista dall’art. 2932 c.c. e della sua correlata sentenza – questa Corte ha ripetutamente affermato che la detta sentenza ha natura costituitiva e spiega la sua efficacia solo con decorrenza «ex nunc» al momento del suo passaggio in giudicato, con conseguente necessita` della sussistenza delle condizioni dell’azione al momento dell’intervento della pronuncia. In particolare questa Corte in proposito ha avuto modo di affermare i seguenti principi: – nell’ipotesi in cui la sentenza emessa ai sensi dell’art. 2932 c.c. imponga all’acquirente di versare il prezzo della compravendita, l’obbligo diviene attuale al momento del passaggio in giudicato della sentenza che trasferisce il bene o allo spirare del termine ulteriore da essa eventualmente stabilito (sentenza 16/1/2006 n. 690); – la pronuncia ex art. 2932 c.c. produce gli effetti del contratto di compravendita non concluso soltanto dal momento del suo passaggio in giudicato (sentenza 2/ 12/2005 n. 26233); – ai fini della sospensione necessaria del giudizio di cui all’art. 295 c.p.c., e` indispensabile la esistenza di un rapporto di pregiudizialita` giuridica che ricorre nel solo caso in cui la definizione di una controversia costituisca, rispetto all’altra, un
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indispensabile antecedente logico-giuridico. Non ricorre il detto rapporto di pregiudizialita` necessaria nel caso di una controversia relativa ad uno sfratto per morosita` e quella attinente all’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare di compravendita stipulato tra locatore e conduttore. Infatti, attesa la natura costitutiva della sentenza che dispone il trasferimento coattivo, destinata a produrre effetti solo alla data del passaggio in giudicato della relativa pronuncia, permanendo nelle more l’obbligo di corrispondere il canone al locatore, gli esiti del giudizio instaurato con la domanda di adempimento del contratto preliminare non possono interferire con quelli del procedimento di sfratto per morosita` (ordinanza 3/8/2005 n. 16216); – poiche´ nel caso di contratto preliminare di compravendita l’effetto traslativo e` determinato soltanto dal contratto definitivo, sicche´ la ricorrenza dei requisiti di forma e sostanza necessari ai fini della validita` del contratto traslativo non possono che fare riferimento alla legge vigente al momento della stipula di questo, la sopravvenienza, rispetto al momento di formazione del preliminare, della disposizione di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 18, comma 2, con cui il legislatore aveva allora sancito il divieto di lottizzazione abusiva, opera non come causa di nullita` del contratto preliminare bensı` come impossibilita` oggettiva di concludere il contratto definitivo, e precludendo la stipulazione di questo, e` ugualmente di impedimento all’emissione della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., che allo stesso si sostituisce (sentenza 21/2/2008 n. 4522); – la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento de passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilita` della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale (sentenza 6/4/2009 n. 8250); – in tema di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare, l’art. 2932 c.c. consente l’emanazione di una sentenza che abbia gli effetti del contratto non concluso soltanto «qualora sia possibile», situazione che non si verifica se, prima che la pronuncia abbia acquistato piena efficacia esecutiva, il promittente venditore perde la proprieta` del bene (sentenza 10/3/2006 n. 5162); – la domanda di reintegra nel possesso di un bene e` proponibile anche nei confronti del promissario acquirente di questo che abbia ottenuto la sentenza di cui all’art. 2932 c.c., purche´ non passata in giudicato. Invero tale sentenza essendo costitutiva ed avendo efficacia ex nunc, solo con il passaggio in giudicato produce gli effetti del contratto preliminare e trasferisce la proprieta` del bene, sicche´ sino a tale data il promittente venditore e` proprietario e possessore (sentenza 10/3/1999 n. 2522); – poiche´ nel caso di contratto preliminare di compravendita l’effetto traslativo e` determinato soltanto dal contratto definitivo, sicche´ la ricorrenza dei requisiti di forma e sostanza necessari ai fini della validita` del contratto traslativo non possono che fare riferimento alla legge vigente al momento della stipula di questo, la sopravvenienza, rispetto al momento di formazione del preliminare, della disposizione di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 18, comma 2, con cui il legislatore
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aveva allora sancito il divieto di lottizzazione abusiva, opera non come causa di nullita` del contratto preliminare bensı` come impossibilita` oggettiva di concludere il contratto definitivo, e precludendo la stipulazione di questo, e` ugualmente di impedimento all’emissione della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., che allo stesso si sostituisce (sentenza 21/2/2008 n. 4522). Pertanto, secondo il riportato orientamento giurisprudenziale, le sentenze emesse ex art. 2932 c.c. non possono conoscere un’efficacia esecutiva anticipata rispetto al momento della formazione del giudicato perche´ l’effetto traslativo della compravendita e` condizionato dall’irretrattabilita` della pronuncia con la quale viene determinato l’effetto sostitutivo del contratto definitivo non stipulato. Un mutamento di indirizzo si e` pero` avuto con la sentenza 3/9/2007 n. 18512 (piu` volte richiamata dalla ricorrente a sostegno della propria tesi) con la quale e` stato affermato il principio secondo cui nel caso di pronuncia della sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 c.c., le statuizioni di condanna consequenziali, dispositive dell’adempimento delle prestazioni a carico delle parti tra le quali la sentenza determina la conclusione del contratto, sono da ritenere immediatamente esecutive ai sensi dell’art. 282 c.p.c., di modo che qualora l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c. sia stata proposta dal promittente venditore, la statuizione di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo e` da considerare immediatamente esecutiva. In particolare nella citata sentenza si afferma testualmente che «in relazione alla sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 2932 c.c., la legge non prevede alcunche´ che possa giustificare l’esclusione della immediata esecutivita` delle statuizioni condannatorie consequenziali alla statuizione di accertamento del modo di essere dell’ordinamento in relazione alla vicenda dedotta nel senso della sussistenza delle condizioni che avrebbero dovuto giustificare la conclusione del contratto in adempimento del contratto preliminare con la prestazione dei relativi consensi, e, quindi, all’ulteriore statuizione, in via consequenziale, degli effetti costitutivi del vincolo contrattuale, che di tale consenso tengono luogo. Cio`, sia per quanto attiene all’ipotesi che si tratti di statuizioni a favore del promissario acquirente, sia – come nella specie – quando si tratti di statuizioni a favore del promissario venditore». La detta innovativa sentenza – rispetto al riportato costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte – e` stata variamente commentata in dottrina. Alcuni autori hanno analizzato le implicazioni della menzionata sentenza sotto il profilo del diritto sostanziale sottolineandone gli aspetti discutibili in rapporto alla specifica tematica del preliminare di compravendita inadempiuto rilevando che la parziale anticipazione degli effetti obbligatori ricollegabili alla pronuncia giudiziale determina l’alterazione del sinallagma contrattuale e concludendo che rispetto alla sentenza ex art. 2932 c.c. – in tema di contratto preliminare di compravendita – non vi e` spazio per ipotizzare un’immediata efficacia delle statuizioni propriamente costitutive con conseguente impossibilita` di un’esecuzione coattiva anticipata delle obbligazioni derivanti da dette statuizioni. Secondo questo orientamento dottrinale critico, aderendo alla decisione in questione al regolamento di interessi in cui l’obbligo di pagare il prezzo e` contestuale al trasferimento di proprieta` ed al conseguente passaggio dei rischi, se ne sostituirebbe un altro in cui l’effetto reale viene
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differito fino al passaggio in giudicato della sentenza mentre l’attuazione immediata degli obblighi di pagamento del prezzo e di consegna del bene assegnerebbe all’esecuzione provvisoria una funzione anche cautelare che non le sarebbe propria. Peraltro il problema non consiste nello stabilire se l’accertamento della pretesa azionata per addivenire alla modificazione della realta` giuridica abbia un rilievo a qualche effetto per l’ordinamento prima del giudicato, quanto nell’accertare se quella rilevanza porti in se` anche quella capacita` di innovare la realta` giuridica nelle relazioni interprivate in cui l’efficacia costitutiva si concreta. La rilevanza giuridica, sul terreno sostanziale, della sentenza costitutiva di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. ancora assoggettabile ad impugnazione puo` valere solo a radicare in capo all’attore un’aspettativa in ordine alla modificazione della realta` giuridica verificabile esclusivamente con il passaggio in giudicato della sentenza. Non e` poi pertinente il richiamo operato nella sentenza alle pronunce con le quali e` stata riconosciuta l’esecutivita` del capo concernente le spese della sentenza costitutiva posto che la pronuncia sulle spese costituisce una statuizione a se` stante e non autenticamente accessoria. Altri autori, invece, si sono allineati alla sentenza in esame rilevando che l’art. 282 c.p.c. va interpretato nel senso che, venga esercitata un’azione di condanna o esperita un’azione costitutiva, e` possibile utilizzare la sentenza come titolo esecutivo se all’accoglimento della domanda si accompagni, come complemento della protezione sostanziale richiesta, una statuizione condannatoria, fatte salve le disposizioni ostative previste dalla legge. Pertanto e` consentita l’immediata esecutivita` delle statuizioni condannatorie consequenziali alla statuizione di accertamento del diritto alla conclusione del contratto definitivo non sussistendo alcuna norma che escluda tale esecutivita` con riferimento alla sentenza pronunciata ex art. 2932 c.c. Altra parte della dottrina – dopo aver posto in evidenza che le relazioni che si pongono reciprocamente tra capi di condanna e capi costitutivi non sono omogenee nelle diverse fattispecie – rileva che nell’ipotesi di azione ex art. 2932 c.c. non ci si trova in presenza di reciproche pronunce di condanna in quanto l’attore deve offrire la prestazione alla quale e` tenuto per cui questa non viene fatta oggetto di una pronuncia di condanna, ma viene dedotta quale condizione dell’effetto traslativo della proprieta`: ne consegue che si fa luogo solo alla condanna alla consegna o al rilascio del bene o al pagamento del prezzo e, in ogni caso, rimane l’impossibilita` della produzione immediata dell’effetto traslativo della proprieta` sino al passaggio in giudicato della sentenza. Puo` quindi verificarsi un’alterazione del sinallagma contrattuale o, comunque, della reciprocita` delle attribuzioni che conseguono alla decisione. Proprio il caso esaminato nella sentenza di questa Corte n. 18512/2007 costituisce un esempio di questa alterazione della corrispettivita` delle obbligazioni ove agisca il promittente venditore e si abbia condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo senza che questi possa contare sul contemporaneo trasferimento della proprieta` a suo favore. Tanto rilevato, con riferimento agli orientamenti dottrinali successivi alla piu` volte richiamata sentenza 18512/2007, va evidenziato che i principi affermati nella detta sentenza non hanno trovato successiva conferma nella giurisprudenza di le-
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gittimita` la quale e` rimasta nel complesso ferma nel propendere per la soluzione negativa in ordine all’ammissibilita` della provvisoria esecutivita` delle sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. In particolare, con la pronuncia 6 aprile 2009 n. 8250, questa Corte ha ribadito e confermato che la sentenza che dispone l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce i propri effetti solo dal momento del passaggio in giudicato; ne consegue che, quando detta sentenza abbia subordinato l’effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo, l’obbligo di pagamento in capo al promissario acquirente non diventa attuale prima dell’irretrattabilita` della pronuncia giudiziale, essendo tale pagamento la prestazione corrispettiva destinata ad attuare il sinallagma contrattuale. Queste Sezioni Unite, tenuto conto del descritto complesso quadro dottrinale e giurisprudenziale, ritengono di dover dare continuita` al prevalente orientamento ravvisabile nella giurisprudenza di legittimita` e di condividere sostanzialmente molti degli argomenti sviluppati dalla dottrina maggioritaria, sopra riportati, a sostegno della tesi secondo cui, nel caso di preliminare di compravendita e di pronuncia ex art. 2932 c.c. l’effetto traslativo della proprieta` del bene si produce solo con l’irretroattivita` della sentenza che determina l’effetto sostitutivo del contratto definitivo. La sentenza di primo grado di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non puo` pertanto produrre, prima del passaggio in giudicato, proprio quegli effetti del contratto definitivo che e` destinato a surrogare: non e` possibile dare esecuzione ad obblighi che sul piano sostanziale non sono ancora sorti. Da cio` la conseguente impossibilita` di scissione, nelle sentenze ex art. 2932 c.c. in tema di contratto preliminare di compravendita, tra capi costitutivi principali e capi condannatori consequenziali, con riferimento specifico a quelli cc.dd. sinallagmatici le cui relative statuizioni fanno parte integrante della pronuncia costitutiva nel suo complesso. Va precisato che la possibilita` di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto volta a volta a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto accessivo condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta «corrispettiva» del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva. Cosı`, ad esempio, nel caso di condanna del promissario acquirente al pagamento del prezzo della vendita, non e` possibile riconoscere effetti esecutivi a tale condanna altrimenti si verrebbe a spezzare il nesso tra il trasferimento della proprieta` derivante in virtu` della pronuncia costitutiva ed il pagamento del prezzo della vendita. L’effetto traslativo della proprieta` del bene si produce solo con l’irretrattabilita` della sentenza per cui e` da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verificherebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentireb-
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be alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprieta` del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprieta`. Possono quindi ritenersi anticipabili i soli effetti esecutivi dei capi che sono compatibili con la produzione dell’effetto costitutivo in un momento temporale successivo, ossia all’atto del passaggio in giudicato del capo di sentenza propriamente costitutivo. Cosı` la condanna al pagamento delle spese processuali contenuta nella sentenza che accoglie la domanda. La provvisoria esecutivita` non puo` invece riguardare quei capi condannatori che si collocano in un rapporto di stretta sinallagmaticita` con i capi costitutivi relativi alla modificazione giuridica sostanziale. La soluzione adottata – che non e` riferita al tipo di sentenza costitutiva, ma alla sentenza pronunziata su contratto preliminare di compravendita – non si pone in contrasto con «i parametri della ragionevole durata del processo – di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – e del principio della azionabilita` dei diritti di cui all’art. 24 Cost.» posto che, come precisato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza 232 del 2004, «il preteso incentivo a proporre appelli dilatori e la possibilita` di subire opposizioni all’esecuzione in caso di esercizio dell’azione esecutiva costituiscono, a tutto concedere alla loro plausibilita`, inconvenienti di mero fatto e non certamente indici della violazione delle invocate norme costituzionali». Da quanto precede deriva che correttamente la corte di appello, nella decisione impugnata, ha escluso la ravvisabilita` di effetti traslativi immediati alla sentenza del tribunale di Isernia 28 maggio 2005 n. 357 – di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. proposta da T.R. nei confronti della societa` SGI – potendosi produrre tali effetti solo dopo il passaggio in giudicato di detta sentenza. Le ragioni per escludere che la situazione di fatto debba poter essere adeguata a quella di diritto, accertata da sentenza non passata in giudicato, affondano nella stessa scelta delle parti di differire ad un accordo successivo il trasferimento della proprieta`, accordo successivo che puo` essere surrogato dalla sentenza che deve pero` avere i caratteri della irretrattabilita`. Ha quindi errato la conduttrice societa` MGL ad accogliere (prima del passaggio in giudicato della citata sentenza del tribunale di Isernia 357/2005) le richieste avanzate nei suoi confronti dalla T. volte ad ottenere il pagamento dei canoni di locazione, la risoluzione del rapporto di locazione e il rilascio dell’immobile locato e cio` perche´ al momento di tali richieste – come al momento della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado nonche´ alla data della sentenza impugnata – il rapporto di locazione tra la locatrice SGI e la conduttrice MGL era ancora in corso permanendo in capo alla SGI il diritto di proprieta` ed il possesso dell’immobile oggetto del contratto di locazione in questione. In definitiva i motivi di ricorso in esame devono essere rigettati in quanto – al contrario di quanto sostenuto dalla societa` ricorrente – la sentenza impugnata e` conforme al seguente principio di diritto: non e` riconoscibile l’esecutivita` provvisoria, ex art. 282 c.p.c., del capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza di primo gra-
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do resa ai sensi dell’art. 2932 c.c, ne´ e` ravvisabile l’esecutivita` provvisoria della condanna implicita al rilascio dell’immobile, in danno del promittente venditore, scaturente dalla suddetta sentenza nella parte in cui dispone il trasferimento dell’immobile producendosi l’effetto traslativo della proprieta` del bene solo dal momento del passaggio in giudicato di detta sentenza con la contemporanea acquisizione al patrimonio del soggetto destinatario della pronuncia. (Omissis).
(1-3) Un passo indietro nella direzione della tutela giurisdizionale effettiva: la condanna accessoria ad una pronuncia costitutiva non e` provvisoriamente esecutiva. 1. – Le Sezioni Unite, con la sentenza 22 febbraio 2010, n. 4594, smentiscono il recente ed innovativo indirizzo interpretativo inaugurato da Cass. 3 settembre 2007, n. 18512 (1) in tema di immediata esecutivita` della sentenza di primo grado che accoglie una domanda ex art. 2932 c.c. di adempimento del contratto preliminare di compravendita ineseguito, proposta dal promittente venditore, limitatamente al capo di condanna del promissorio acquirente al pagamento del prezzo di acquisto. In quella occasione, la Suprema Corte aveva formulato importanti affermazioni di principio, suscettibili di ulteriori sviluppi: era stata infatti valorizzata l’innovazione ispiratrice della modifica dell’art. 282 c.p.c. e riconosciuta l’immediata esecutivita` di tutte le sentenze di condanna – salvo vi siano fondati motivi in contrario o la legge non disponga diversamente – giungendo a negare fondamento alla tesi tradizionale secondo cui le sentenze costitutive sono prive di effetti fino al passaggio in giudicato, proprio perche´ le stesse possono sorreggere effetti esecutivi conseguenti. Preso atto di questo primo ed importante passo nella direzione dell’effettivita` della tutela dei diritti di modificazione giuridica, nei commenti era stato posto in rilievo che la ritenuta immediata esecutivita` dei soli capi condannatori della sentenza e non di quelli costitutivi, avrebbe prodotto una rilevante alterazione della situazione sostanziale dedotta in giudizio. Infatti, la reciprocita` delle attribuzioni che derivano dalla sentenza che tiene luogo del contratto non concluso dalle parti, fa sı` che il promissario acquirente sia soggetto all’azione esecutiva per l’immediato pagamento del prezzo, mentre il trasferimento della proprieta` del bene a proprio favore resta sospeso fino al passaggio in giudicato della sentenza (2).
(1) La sentenza e` pubblicata in Riv. dir. proc. 2008, 1095 con mia nota adesiva, L’esecutivita` della sentenza costitutiva e` limitata ai soli capi di condanna accessori? (2) Questo aspetto e` stato messo in luce da Guizzi, Inadempimento a preliminare di compravendita ed effetti della sentenza di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non ancora coperta dal giudicato: un equilibrio difficile, in Corriere giur. 2008, 353, in nota alla stessa Cass.
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Il tema cosı` posto dalla sentenza n. 18512 del 2007 era quindi suscettibile di condurre auspicabilmente a compiere un ulteriore passo avanti, nel senso dell’immediata efficacia della stessa pronuncia costitutiva. Del resto gia` da lungo tempo da piu` parti la dottrina ha addotto molteplici e sostanziosi argomenti a sostegno di tale opinione (3), che si contrappongono all’impostazione tradizionale che invece viene giustificata con motivazioni di carattere sistematico e prevalentemente astratto. In sintesi (4): – l’art. 2908 c.c. non tratta espressamente del momento in cui si producono gli effetti costitutivi della sentenza, a differenza dell’art. 2909 c.c. che invece riferisce l’irretrattabilita` della pronuncia dichiarativa al giudicato formale; – manca quindi una disciplina generale, che non sembra possibile ricavare neppure dall’esame delle disposizioni speciali che l’ordinamento offre per alcune particolari fattispecie di efficacia immediata di pronunce costitutive, talvolta nella sede propria della disciplina sostanziale, talaltra in quella della disciplina processuale (5); – non sembra che il tempo di produzione degli effetti delle pronunce costitutive rappresenti sempre un tema di diritto sostanziale (6), tale da impedire di prospettare una regola o principio generale, da applicare in assenza di una specifica disciplina, sul terreno del diritto processuale;
3 settembre 2007, n. 18512. L’autore – che dichiaratamente offre le considerazioni di un giusprivatista che si addentra nel campo proprio degli studiosi del diritto processuale – sottolinea come, aderendo alla decisione della Cassazione, al regolamento di interessi in cui l’obbligo di pagare il prezzo e` contestuale al trasferimento della proprieta` ed al conseguente passaggio dei rischi, se ne sostituirebbe un altro (che sarebbe assimilabile alla compravendita obbligatoria) in cui l’effetto reale viene differito fino al passaggio in giudicato della sentenza, mentre l’attuazione immediata degli obblighi di pagamento del prezzo e consegna del bene assegnerebbe all’esecuzione provvisoria una funzione anche cautelare che non le sarebbe propria. (3) In tal senso l’orientamento che non puo` dirsi certamente minoritario: cfr. tra altri S. Satta, Commentario del codice di procedura civile, II, 1, Milano 1960, 348; G. Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano 1991, 187; L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino 1994, 241 s.; F. Carpi, Esecutorieta`(dir. proc. civ.), in Enc. giur., XV, Roma 1995; C. Ferri, Lezioni sul processo civile, Bologna 2006, 586 ss., 640 ss.; F. Marelli, L’esecutivita`della sentenza costitutiva, cit., 1109 ss.; G. Verde, Profili del processo civile, II, Napoli 2008, 217; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 2009, 206; G. Impagnatiello, La provvisoria esecuzione e l’inibitoria nel processo civile, Milano 2010, 320 ss., spec. 333 ss. (4) Per piu` articolato discorso, con ulteriori citazioni ed opinioni conformi, mi permetto di rinviare al mio L’esecutivita` della sentenza costitutiva, cit. (5) Cfr. in proposito S. Chiarloni, Art. 282 c.p.c., in Nuove leggi civ. comm. 1992, 159, il quale sottolinea la pluralita` dei riferimenti e criteri utili al fine dell’individuazione della regola applicabile nel caso specifico; in riferimento ad un tema specifico cfr. C. Ferri, G. Finocchiaro, Per la sentenza che annulla delibere societarie invalide efficacia immediata senza attendere il giudicato, in Guida dir. 2009, fasc. 22, 106. (6) Si vedano i rilievi di G. Verde, Profili del processo civile, loc. cit., il quale riferisce le regole dettate esplicitamente dal legislatore a scelte di carattere sostanziale.
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– da tale punto di vista, la centralita` che il legislatore della Novella del 1990, con la radicale modifica dell’art. 282 c.p.c., ha voluto attribuire al processo di primo grado, con l’obiettivo di garantire una tutela piu` celere ai diritti e di deflazionare l’appello, non sembra consentire alcuna distinzione tra sentenze di condanna o costitutive, posto che anche queste ultime producono effetti che si possono anticipare (7); – non si puo` quindi escludere l’applicazione dell’art. 282 c.p.c. alle pronunce costitutive, per il solo fatto che la disposizione tratti della esecutivita` della sentenza e cio` anche a motivo del fatto che il legislatore non e` univoco nell’impiegare le categorie di esecutivita` o efficacia della decisione, quando si tratti di pronunce costitutive; – l’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 282 c.p.c. e 2908 c.c. deve condurre a riconoscere l’immediata efficacia della sentenza costitutiva: vengono in rilievo le garanzie costituzionali di effettivita` della tutela e di ragionevolezza dei tempi necessari per ottenere un provvedimento efficace, principi la cui importanza e` stata accresciuta a seguito della riformulazione dell’art. 111 Cost. in tema di c.d. giusto processo (8). I tempi erano quindi senz’altro maturi e tutti gli argomenti idonei erano sul terreno per una svolta decisiva su di un tema centrale della tutela dei diritti. 2. – Le Sezioni Unite si sono espressamente confrontate con il tema della pos-
(7) Come rilevato da G. Tarzia, Lineamenti del nuovo processo di cognizione, cit., 187. (8) Su questo aspetto, cfr. F. Carpi, Esecutorieta`, cit., 2; G. Impagnatiello, Sentenze costitutive, condanne accessorie e provvisoria esecutivita`, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2005, 751, spec. 781. La giurisprudenza della Cassazione si e` dimostrata sensibile al tema della ragionevole durata del processo, adottando interpretazioni anche fortemente innovative rispetto a propri consolidati orientamenti, in coerenza con l’attuazione della garanzia costituzionale: in proposito cfr. recentemente le pronunce di Cass., sez. un., 15 dicembre 2008, n. 29290, in Foro it. 2009, I, 3104 con nota di R. Caponi, Ragionevole durata del processo e obsolescenza di regole legislative (la pronuncia ha ritenuto valida la notifica dell’impugnazione eseguita mediante consegna di una sola copia all’unico difensore costituito in rappresentanza di piu` parti, facendo applicazione dell’art. 170, secondo comma, c.p.c. e capovolgendo cosı` l’indirizzo consolidatosi a partire da Cass., sez. un., 10 ottobre 1997, n. 9859, impiegando il principio di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.); Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883 e Cass., sez. un., 18 dicembre 2008, n. 29523, in Corr. giur. 2009, 381 con nota di R. Caponi, Quando un principio limita una regola (ragionevole durata del processo e rilevabilita` del difetto di giurisdizione); Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, in questa Rivista 2009, 1016 con nota di G. Guarnieri, Rito del lavoro: re´vire´ment delle s.u. in tema di notifica del ricorso in appello e in opposizione al decreto ingiuntivo (in materia di appello nel rito del lavoro, le sez. un. hanno statuito che la mancata o inesistente notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza non e` suscettibile di rinnovazione o sanatoria alcuna e determina l’inammissibilita` dell’appello, anche a motivo del fatto che la concessione di un termine alla parte che non ha adempiuto all’obbligo di notifica comporterebbe una dilazione del processo tale da porsi in contrasto con i principi costituzionali di celere svolgimento del processo).
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sibile scissione degli effetti della sentenza in conseguenza dell’esecutivita` del solo capo di condanna, tale da determinare una disarmonia rispetto al rapporto tra le prestazioni corrispettive sul piano della situazione sostanziale. La soluzione e` stata tuttavia diametralmente opposta a quella auspicata: invece di sviluppare in prospettiva evolutiva i fecondi spunti offerti da Cass. n. 18512 del 2007 – recependo le argomentazioni offerte dalla dottrina, nel senso di riconoscere immediata efficacia anche ai capi costitutivi della sentenza – le Sezioni Unite si sono limitate a richiamare e riprodurre in motivazione una nutrita serie di massime tratte da propri precedenti nel solco dell’orientamento tradizionale, secondo cui l’effetto traslativo della proprieta` si produce solo con il passaggio in giudicato della sentenza che surroga il contratto che le parti avrebbero dovuto concludere in adempimento del preliminare (9). Da cio` hanno poi fatto discendere l’impossibilita` di scindere i capi costitutivi principali dai capi condannatori consequenziali e dipendenti, in quanto sul terreno dell’oggetto sostanziale della domanda dedotta in giudizio i relativi effetti sono legati da un vero e proprio nesso sinallagmatico, che non e` possibile sciogliere sotto il profilo della provvisoria esecutivita` degli uni e non degli altri. Cosı` facendo le Sezioni Unite hanno omesso di prendere in considerazione tutte le ragioni che la dottrina ha ormai da tempo offerto e sviluppato su piu` fronti, al fine del superamento di un’interpretazione oggi non piu` sostenibile, in quanto irragionevolmente ed immotivatamente limitativa della tutela effettiva e tempestiva che l’ordinamento deve offrire a tutte le categorie di situazioni sostanziali, inclusi i diritti potestativi di modificazione giuridica. La decisione appare assai deludente perche´ rappresenta indubbiamente «un passo indietro» sulla strada che la stessa Cassazione aveva iniziato a tracciare nella direzione indicata ed auspicata, ritraendosi di fronte alla prospettiva di enunciare un principio forse percepito come eccessivamente innovativo nell’evoluzione della propria giurisprudenza. Per parte mia non posso che ribadire e riaffermare convinzioni ed opinioni gia` espresse (10), confidando che le Sezioni Unite in una prossima occasione siano disponibili a confrontarsi con le tesi ormai prevalenti in dottrina, rivedendo e superando finalmente un orientamento che non appare piu` sostenibile, soprattutto alla luce dei principi e delle garanzie costituzionali di effettivita` della tutela giurisdizionale. 3. – Ben diverso l’atteggiamento della giurisprudenza di merito, che e` sempre stata piu` incline a riconoscere l’immediata efficacia della sentenza, anche con riferimento a pronunce di carattere costitutivo (11). In proposito si deve segnalare una
(9) Tra queste anche Cass. 6 aprile 2009, n. 8250, in Contratti 2009, 827, che aveva riaperto il contrasto nella giurisprudenza della Corte, riaffermando l’orientamento tradizionale e ponendosi in contrasto rispetto al revirement operato dalla Cass. n. 18512 del 2007. (10) Cfr. ancora quanto sostenuto in L’esecutivita` della sentenza costitutiva, cit. (11) V. in materia di risoluzione e rescissione di contratti e di conseguenti condanne alle restituzioni App. Bari 19 giugno 2003 ed App. Bari 16 maggio 2003, oltre a Trib. Catania 10
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recentissima decisione del Giudice del registro delle imprese di Milano, in consapevole dissenso proprio rispetto alla decisione qui criticata delle Sezioni Unite (12). Il Giudice, richiamandosi agli orientamenti dottrinali sopra richiamati, e` giunto a riconoscere immediata efficacia anche alla tutela di mero accertamento (13): nella specie si trattava di immediata iscrizione nel registro delle imprese di un lodo arbitrale dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 825 c.p.c. (14) ed impugnato per nullita` (quindi non ancora passato in giudicato) il quale aveva accertato il regolare esercizio di un’opzione per l’acquisto di una partecipazione nel capitale di una societa` a responsabilita` limitata e conseguentemente l’intervenuto trasferimento delle quote. 4. – In conclusione si puo` solo fare un rapido cenno alla proposta interpretativa offerta da un’autorevole dottrina, che ha invece approvato la «correzione» che le Sezioni Unite hanno prontamente segnato riallineando la giurisprudenza della Cassazione ai suoi tradizionali insegnamenti (15). Si tratta della prospettata applicazione alla fattispecie della disciplina delle misure coercitive, in funzione dell’adempimento di obbligazioni di fare infungibile o di non fare, di cui all’art. 614-bis c.p.c. Viene ipotizzato un possibile concorso di domande, in via cumulata e non alternativa, nel senso di proporre, accanto alla domanda ex art. 2932 c.c., anche una domanda di condanna alla stipulazione del con-
luglio 2003 in materia di divisione e di condanna a corrispondere conguagli e rilascio dei beni, tutte in Foro it. 2004, I, 1913. Cfr. anche Trib. Monza 17 agosto 2001, consultabile sulla banca dati Jurisdata, in tema di condanna nelle spese, ma con motivazione piu` ampia, relativa a tutti gli effetti della sentenza. (12) Si tratta di Trib. Milano 25 ottobre 2010 (giudice del registro delle imprese, dott.ssa Riva Crugnola), inedita, la quale prende le distanze dalla sentenza qui in commento, ritenendone l’insegnamento limitato alla fattispecie dell’azione ex art. 2932 c.c. per l’adempimento del contratto preliminare di compravendita. Il Tribunale afferma che «in un contesto di interpretazione costituzionalmente orientata secondo i parametri ex artt. 3 e 111 Cost. la negazione di qualsiasi efficacia «provvisoria» per le pronunce di accertamento e/o costitutive si risolva in una deteriore diminuzione di tutela per la parte vittoriosa in primo grado, diminuzione che non pare adeguatamente giustificata, ne´ in riferimento alla generale portata degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., di per se´ riferibili anche agli accertamenti sottostanti alle pronunce di condanna, ne´ al tradizionale richiamo ai termini letterali «efficacia esecutiva» e «esecuzione» utilizzati dal legislatore in particolare nell’art. 283 c.p.c., termini la cui valenza di riferimento esclusivo alle sole sentenze suscettibili di esecuzione forzata (e, quindi, di riferimento esclusivo alle sole sentenze di condanna) e` stata autorevolmente negata da orientamenti dottrinali». (13) Nello stesso senso in dottrina cfr. recentemente Impagnatiello, La provvisoria esecuzione, cit., 303. (14) Si puo` rilevare incidentalmente che proprio l’art. 825 c.p.c. prevede che il lodo dichiarato esecutivo (cosı` come la sentenza avente il medesimo contenuto) e` titolo per la trascrizione o annotazione, quindi in relazione ad effetti non certamente condannatori ma evidentemente dichiarativi di diritti. (15) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Torino 2010, 70.
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tratto definitivo, che potrebbe quindi essere assistita dalla condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di inadempimento. Accolte entrambe le domande, la misura coercitiva potrebbe indurre il convenuto soccombente alla stipulazione del contratto definitivo e risolverebbe cosı` il bisogno (o il difetto) di tutela immediata della parte vittoriosa. A parte la considerazione che la misura coercitiva patrimoniale non sarebbe efficace quando la parte soccombente non fosse solvibile o non avesse da temere la condanna pecuniaria, a me tutto cio` sembra comunque una notevole complicazione rispetto alla ben piu` lineare situazione per cui alla pronuncia costitutiva sia riconosciuta un’immediata efficacia, prima del passaggio in giudicato della sentenza. Ed infatti lo stesso Autore e` costretto a prospettare che il contratto definitivo stipulato dal soccombente in pendenza delle impugnazioni dovrebbe essere considerato implicitamente e risolutivamente condizionato alla riforma della sentenza, oppure ipotizzare la proposizione di una domanda implicita in appello per l’annullamento del contratto per vizio del consenso, prospettando si tratti di violenza morale. Cosı` tuttavia – non volendo accettare che la sentenza costitutiva possa produrre immediatamente i propri effetti – si trasferiscono sul piano dell’attuazione con mezzi negoziali del comando contenuto nella sentenza (con notevoli incertezze applicative) le conseguenze di necessaria rimessione in pristino della situazione di diritto in caso di accoglimento delle impugnazioni. Fabio Marelli Professore associato nell’Universita` di Pavia
Corte di Cassazione, sez. II civ., sentenza 20 gennaio 2010, n. 936 Pres. Schettino – Rel. Piccialli Ente morale Maria SS. della Pieta` c. Soc. Mackie Designs Italy
L’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di avere eseguito l’opera conformemente al contratto e alla regola dell’arte (massima non ufficiale) (1). (Omissis). – Con il primo motivo di ricorso si deduce erronea o falsa applicazione degli artt. 1667, 1668, 1453 e 2697 c.c., censurandosi l’affermazione di principio posta a base della decisione impugnata, in narrativa riferita, secondo la quale l’onere della prova dell’inesatto adempimento sarebbe stato a carico della parte che l’aveva dedotto. Premesso che la garanzia ex artt. 1667 e 1668 c.c. in materia di appalto costituisce un’applicazione della comune responsabilita` contrattuale per inadempimento o inesatto adempimento, differenziata dall’ordinario regime solo dalle particolari disposizioni attinenti ai termini di contestazione e decadenza, si richiama il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 30 ottobre 2001 n. 13533, in tema di riparto dell’onere probatorio, secondo il quale anche nel caso in cui sia dedotto l’inesatto adempimento di un’obbligazione, il creditore della prestazione, oltre a provare la fonte del rapporto, puo` limitarsi alla semplice deduzione dell’inesattezza dell’adempimento, mentre l’onere di provare il contrario grava sul debitore. Da tale principio i giudici di merito si sarebbero erroneamente discostati, affermando che nella fattispecie non vi sarebbe la prova delle dedotte mancanze di qualita` dell’opera appaltata, pur senza affermare che vi fosse la prova dell’idoneita` dell’impianto. La censura e` fondata. Con la pronunzia come sopra richiamata le Sezioni Unite di questa Corte, risolvendo un contrasto da tempo insorto nella giurisprudenza di legittimita`, in ordine al riparto dell’onere probatorio in tema di inadempimento delle obbligazioni, hanno affermato i principi a termini dei quali «...il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto e` gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa... ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di ina-
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dempimento ex art. 1460 c.c. Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sara` sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessoria, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformita` quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento». Dall’ultima parte della riportata massima, nella quale si compendia il dettato delle Sezioni Unite – da cui questo collegio non ravvisa motivi per doversi discostare – si ricava un principio generale di chiara evidenza, secondo il quale, allorquando siano provati la fonte dell’obbligazione ed il fatto storico dell’avvenuto adempimento e si controverta soltanto in ordine all’esattezza di quest’ultimo, spettera` al debitore della prestazione, quale che ne sia la posizione processuale, provare l’esattezza dell’adempimento, al fine dell’accoglimento della propria domanda o eccezione. Tali principi non possono ritenersi inapplicabili, come sostenuto dalle controricorrenti, in materia di appalto, le cui disposizioni speciali attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c. (nella specie non e` in discussione la tempestivita` della denunzia dei vizi, richiesta dall’u.c. anche nel caso di eccezione d’inadempimento), senza tuttavia derogare alla regola generale, che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, comportante che «l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto ha l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte» (v. Cass., II sez., 13 febbraio 2008 n. 3472). Nel caso di specie, dunque, in cui la parte attrice aveva agito per ottenere l’adempimento dell’obbligazione di pagamento e quella convenuta appellante aveva opposto la risoluzione del contratto, per inadempimento della sinallagmatica prestazione dovuta dalla controparte (richiesta che la corte di merito, dopo aver disatteso la deduzione di una clausola risolutiva espressa ha ritenuto ammissibile ex art. 345 c.p.c., solo in via di eccezione riconvenzionale: v. pag. 12 u.p. della sentenza impugnata), erroneamente i giudici di appello, in un contesto nel quale erano incontroverse la sussistenza dell’obbligazione degli appaltatori e la sola consegna dell’opera, ma controversa l’idoneita` di questa all’uso convenuto, hanno ritenuto la committente gravata dall’onere di provare la sussistenza dei difetti della stessa, senza tener conto che la committente aveva rifiutato di adempiere la propria controprestazione, avvalendosi della facolta` di cui all’art. 1667 c.c., u.c. (disposizione analoga a quella, di carattere generale, prevista dall’art. 1460 c.c.), a seguito dell’esito negativo del collaudo. A tal ultimo proposito, pur non potendosi accogliere il terzo motivo di ricorso, nel quale si censura il mancato riconoscimento da parte della corte di merito del carattere vincolante per ambo le parti della verifica compiuta dal direttore dei lavori, non deducendo il mezzo d’impugnazione sufficienti elementi per superare le argomentazioni al riguardo esposte in sentenza, circa la non imparzialita` del direttore dei lavori (che non risulta, ne´ viene dedottole nominativamente designato da
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ambo le parti) e la non espressa previsione che il relativo giudizio avrebbe precluso ogni possibilita` di successiva contestazione, fondati devono invece ritenersi le obiezioni contenute nel secondo motivo, nel quale si evidenzia come in ogni caso, tale negativo collaudo, idoneo ex art. 1665 c.c. ad evitare l’accettazione dell’opera da parte dell’ente committente, avrebbe quanto meno comportato l’onere a carico delle appaltatrici di provare l’esattezza del proprio adempimento. I successivi motivi, tutti attinenti a subordinati profili di merito, restano assorbiti. La sentenza impugnata va conseguentemente cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio per nuovo esame ad altra corte di merito, che si designa, in ragione di vicinanza, in quella di (Omissis).
(1) Anche in materia di appalto spetta all’obbligato provare l’esattezza del proprio adempimento. 1. – Nella sentenza che si annota la Cassazione estende il principio in ordine al riparto dell’onere probatorio in tema di inadempimento delle obbligazioni, gia` raggiunto dalle Sezioni Unite con l’importante pronuncia del 30 ottobre 2001, n. 13533 (1), al contratto d’appalto. Come noto, con la suddetta decisione, i giudici di legittimita` hanno risolto (almeno cosı` parrebbe) la dibattuta questione – oggetto di un annoso contrasto giurisprudenziale – della distribuzione dell’onere della prova nei giudizi di risoluzione per inadempimento (2), nel senso che il creditore (sia che agisca per la risoluzione contrattuale che per il risarcimento del danno, oppure per l’adempimento) deve soltanto provare la fonte, negoziale o legale, del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre incombe sul debitore l’onere di provare l’avvenuto adempimento (3). Eguale criterio di riparto dell’onere della prova viene esteso al caso in
(1) Questa sentenza e` stata diffusamente pubblicata ed annotata dalla dottrina. La si legga, fra i vari contributi, in Corriere giur. 2001, 1565, con nota di V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in I contratti 2002, 113, con nota di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova; in Foro it. 2002, I, 769, con nota di P. Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e l’arte del rammendo; in Nuova giur. civ. comm. 2002, I, 349, con nota di B. Meoli, Risoluzione per inadempimento ed onere della prova. (2) In generale sull’inadempimento del contratto e i sui rimedi v., da ultimo, P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano 2010. (3) Dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimita`, e` pacifica sul punto. Medesimo criterio del riparto dell’onere probatorio viene esteso all’ipotesi in cui il debitore convenuto si avvalga dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiche´ il debitore eccipiente si limitera` ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovra` dimostrare il proprio adempimento
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cui sia dedotto non l’inadempimento totale dell’obbligazione, bensı` il suo inesatto adempimento: al creditore istante sara` infatti sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (si precisa, per violazione di doveri accessori, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza o per difformita` quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto ed, in codesta ipotesi, esatto adempimento. 2. – Per comprendere al meglio l’attuale orientamento della Suprema Corte al fine anche di valutare la correttezza della soluzione raggiunta, nello specifico, nel provvedimento in epigrafe, occorre brevemente ricostruire il complesso e contrastato iter interpretativo, che aveva determinato il preesistente contrasto giurisprudenziale. Secondo un primo (ed in passato maggioritario) orientamento il regime probatorio si diversificava a seconda dell’oggetto specifico della domanda. All’uopo si riteneva necessario distinguere l’ipotesi in cui il creditore chiedeva l’adempimento da quella in cui domandava la risoluzione del contratto. Nel primo caso, infatti, si considerava sufficiente che il creditore-attore provasse il titolo costituente la fonte del diritto preteso, vale a dire l’esistenza del contratto e, quindi, dell’obbligo addotto come inadempiuto; nel secondo, di contro, si reputava che il creditore-attore fosse tenuto a provare anche il fatto legittimante la risoluzione, vale a dire l’inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali lo stesso assume giuridica rilevanza, spettando al debitore-convenuto l’onere di provare di essere esente da colpa solo quando l’attore avesse per l’appunto provato il fatto costitutivo dell’inadempimento (4). A sostegno di questa tesi si indicavano le seguenti osservazioni. In primis, che le azioni disciplinate nell’art. 1453 c.c. (adempimento, risoluzione e risarcimento del danno) sono profondamente diverse sotto il profilo dell’oggetto: nell’azione di adempimento il fatto costitutivo e` rappresentato dal titolo, con la conseguenza che la prova gravante sul creditore, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2697,
(oppure la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Cfr. Cass., 26 gennaio 2007, in Giust. civ. 2007, I, 2121; Cass., 1º aprile 2004, n. 6395, ivi 2005, I, 448; nella giurisprudenza di merito, v. App. Palermo, 27 gennaio 2009, n. 93, in Guida dir. 2009, 15, 67; Trib. Nola, 27 gennaio 2009, in Redazione Giuffre´ 2009; Trib. Roma, 2 settembre 2009, n. 17877, ibidem; Trib. Torino, 17 aprile 2008, n. 2901, in Guida dir. 2008, 31, 84; Trib. Torino, 15 giugno 2007, in Foro pad. 2007, I, 239, con nota di S. Casciaro; Trib. Milano, 12 novembre 2007, n. 12223, in Giustizia a Milano 2007, 12, 82; Trib. Salerno, 6 settembre 2007, n. 2014, in Il merito 2008, 12; Giudice di pace Milano, 16 settembre 2009, in Guida dir. 2009, 50, 66. Un’unica eccezione all’affermato principio viene dalla Suprema Corte ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni negative, ove sia dedotta la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell’inadempimento e` sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento. (4) In questo senso v., ex plurimis, Cass., 29 gennaio 1993, in Corriere giur. 1993, 568, con nota di V. Mariconda, Risoluzione per inadempimento ed onere della prova, a cui si rinvia per ulteriori ed ampi riferimenti giurisprudenziali.
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1º comma, c.c., deve essere circoscritta a tale elemento; al contrario, la domanda di risoluzione si basa su due elementi, rappresentati dal titolo, fonte convenzionale o legale dell’obbligazione, nonche´ dall’inadempimento dell’obbligo. Pertanto, trattandosi di fatti costitutivi del diritto fatto valere, la prova imposta al creditore deve riguardarli entrambi. In secondo luogo, si sottolineava l’irrilevanza che l’inadempimento, oggetto della prova, potesse essere costituito da un fatto negativo, richiamando a tal proposito il costante convincimento giusta il quale i fatti negativi possono essere provati tramite la prova di fatti positivi contrari (5). A questa tesi si contrapponeva un altro indirizzo (in passato minoritario, avallato dalle Sezioni Unite del 2001) che difendeva la sostanziale identita` del regime probatorio con riferimento a tutte le domande previste dall’art. 1453 c.c., le quali avrebbero tutte in comune l’elemento costitutivo fondamentale del mancato adempimento, sicche´ la parte che le propone in giudizio ha esclusivamente l’onere di provare l’esistenza del titolo (unitamente, ma solo laddove previsto, al termine di scadenza), incombendo invece sulla controparte l’onere della prova del fatto estintivo dell’obbligazione, vale a dire di avere adempiuto alla stessa (6). La predetta soluzione veniva cosı` argomentata: dalla ratio dell’art. 2697 c.c., che richiede all’attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova dei fatti modificativi od estintivi del diritto stesso, si ricava il principio della c.d. presunzione di persistenza del diritto, il quale comporta che il credito si deve, in via presuntiva, sempre considerare ancora esistente e, quindi, inadempiuto. Tale presunzione puo` essere superata solo allorche´ il debitore convenuto dimostri il fatto positivo dell’avvenuto adempimento (7). Inoltre, l’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non solamente in quella in cui egli chiede l’adempimento), con il corrispettivo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, e` conforme al principio di riferibilita` o di vicinanza della prova, che riparte l’onere probatorio tenendo conto in concreto dell’effettiva possibilita` di ciascuna delle due parti in lite di provare i fatti e le circostanze ricadenti nelle rispettive aree di disponibilita`. Siffatto principio deriva dalla stessa garanzia costituzionale di cui gode il diritto di agire in giudizio a tutela delle
(5) In questo senso Cass., 1º aprile 2009, n. 7962, in Guida dir. 2009, 21, 77; Cass., 11 gennaio 2007, n. 384, ivi 2007, 15, 56; Cass., 10 novembre 2005, n. 21831, in Giur. it. 2006, 747; Cass., 13 dicembre 2004, n. 23229, in Foro it. 2006, I, 3123; Cass., 13 febbraio 1998, n. 1557, in Giur. it. 1998, 2261; Cass., 20 maggio 1993, n. 5744, in Giust. civ. 1993, I, 2668. Nella giurisprudenza di merito cfr., fra le ultime, Trib. Ivrea, 4 luglio 2007, n. 94, in Redazione Giuffre` 2007. (6) Conf. Cass., 27 marzo 1998, n. 3232, in Corriere giur. 1998, 784, con nota di V. Mariconda, Tutela del credito e onere della prova: la Cassazione e` a una svolta?, ove richiami ad ulteriori precedenti conformi. Per approfondimenti sia sull’indirizzo piu` risalente sia su quest’ultimo, andatosi via via consolidando, si rinvia a L. P. Comoglio, Le prove civili, 3a ed., Torino 2010, 275 s. (7) In argomento cfr. Tribunale Roma, 25 marzo 2002, in Redazione Giuffre` 2005.
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proprie posizioni soggettive, il quale impone di non interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l’esercizio (8). Ad avallo di questa posizione si associano altresı` motivi pratici di «omogenizzazione» del sistema. Si afferma, infatti, che appare irrazionale che vi sia, di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito (l’esistenza dell’obbligazione contrattuale e il diritto ad ottenere l’adempimento), una diversa disciplina dell’onere della prova, solo perche´ il creditore sceglie di chiedere il risarcimento in danaro del danno determinato dall’inadempimento in luogo dell’adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (pretesa quest’ultima diretta a realizzare gli stessi effetti dell’adempimento) (9). Le Sezioni Unite, sposando codesto orientamento, riprendono proprio queste considerazioni e sottolineano come sia necessaria una lettura ermeneutica delle norme basata su canoni di ragionevolezza e razionalita`. Ora, nella specie, l’osservanza di detti canoni rende imprescindibile rintracciare nei rimedi previsti dall’art. 1453 c.c., i quali rappresentano tutti quanti strumenti di tutela del diritto del creditore, «un criterio di massima caratterizzato, nel maggior grado possibile, da omogeneita`». Alla luce di tali argomentazioni, i giudici della nomofilachia pervengono alla regola teste´ enunciata: tanto nei giudizi di condanna all’esecuzione quanto in quelli di risoluzione, al creditore spetta solo la dimostrazione del titolo costitutivo del proprio credito. Viceversa, l’onere di provare il fatto estintivo dello stesso, vale a dire l’adempimento, incombe sul debitore. Ne consegue che, in mancanza del raggiungimento di detta prova, la domanda di condanna, di risoluzione o di risarcimento dell’attore dovra` senz’altro (con l’ovvia precisazione che ne ricorrano i presupposti di legge) essere accolta. E la medesima regola e` espressamente qualificata come applicabile anche all’ipotesi di non perfetto adempimento, ove spetterebbe sempre al debitore dimostrare di aver esattamente adempiuto. 3. – L’analisi delle suddette opposte posizioni, impostesi in giurisprudenza, puo` dirsi compiuta solo a condizione di non arrestarsi alla semplice lettura delle massime ufficiali delle decisioni, prestando, altresı`, attenzione alle singole e specifiche fattispecie sottostanti (10). Orbene, seguendo questa metodologia e` agevole rendersi conto di come, in realta`, l’effettiva portata del contrasto giurisprudenziale sia ben piu` limitata di quanto appaia prima facie. Se, infatti, si esaminano i provvedimenti giurisdizionali in relazione al caso concreto deciso si puo` verificare come la «stragrande maggioranza di sentenze che enunciavano il principio della differenziazione dell’onere probatorio nel caso di domanda di adempimento e di domanda di risoluzione riguardano ipotesi non di mancata prestazione ma di adem-
(8) Cosı` Cass., 11 maggio 2009, n. 10744, in Guida dir. 2009, 31, 74. Richiama espressamente, a tal proposito, l’art. 24 cost.: Cass., luglio 2008, n. 20484, in Guida dir. 2008, 39, 74. (9) In questi termini, in motivazione, Cass., 7 febbraio 1996, n. 973, in Giur. it. 1997, I, 1, 367. (10) Sulla necessita` di procedere alla verifica delle singole fattispecie cfr. anche P. Pardolesi, nota a Cass., 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it. 2001, I, 2504.
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pimento inesatto e spesso si riferivano a casi nei quali non esisteva alcuna incertezza sul fatto dell’inadempimento» (11). Oltre a cio`, gia` in passato nella «vigenza» dell’indirizzo maggioritario, all’epoca definito «costante e consolidato», rispetto a concrete ipotesi in cui il creditore richiedeva la risoluzione del contratto o il risarcimento del danno, si davano pronunce secondo le quali lo stesso attore-creditore era tenuto a provare soltanto l’esistenza del titolo e non l’inadempimento del debitore (12). Tant’e` che, in proposito, un’autorevole dottrina si esprime in termini di «un contrasto di massime» piuttosto che di «un contrasto di orientamenti» (13). Un ulteriore dato significativo emerge dalla lettura integrale delle decisioni: sia le sentenze aderenti al primo indirizzo, quello piu` risalente, sia quelle espressione dell’indirizzo riformatore erano, a ben vedere, concordi nell’affermare che in caso di allegazione di vizi o di mancanza di qualita` (ovvero in tutti i casi di lamentato inesatto adempimento) l’onere della prova seguisse quello di allegazione, gravando, l’uno come l’altro, sul creditore (14). Il dictum delle Sezioni Unite, dunque, se in tema di onere della prova rispetto alle tutele di cui art. 1453 c.c. ha composto un contrasto giurisprudenziale sia pur, per le ragioni sopra esposte, piu` apparente che reale, sotto il diverso profilo dell’azione di inesatto adempimento, ha introdotto una regola assolutamente inedita in giurisprudenza; regola a cui le decisioni piu` recenti paiono essersi uniformate (15). 4. – La dottrina, dal canto suo, e` da sempre unanime nel ritenere che il creditore, allorche´ richieda l’adempimento, abbia esclusivamente l’onere di provare in giudizio il fatto costitutivo del credito (16). Allo stesso modo vi e` pressoche´ uniformita` di posizioni circa la ripartizione dell’onus probandi in ipotesi di lamentata
(11) Come sottolinea V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, cit., 1569, 1570, a cui si rinvia per un’attenta verifica dei singoli casi in relazione agli astratti principi di diritto contenuti nelle massime della Cassazione. (12) V., ad esempio, Cass., 17 aprile 1970, n. 1109, in Foro it. 1970, I, 1911. (13) Cosı` G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Commentario al codice civile, fondato da P. Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, 2a ed., Milano 2006, 426, 427. (14) Sul punto cfr. ancora V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, cit., 1570, il quale afferma: «l’indirizzo tradizionale esprimeva questa conclusione con una massima non aderente ai casi, vestiva cioe` l’effettiva ratio decidendi con espressioni genericamente riferite all’onere della prova gravante sul creditore che chiede la risoluzione; l’indirizzo di segno contrario, nel formulare il corretto principio dell’identita` dell’onere probatorio gravante sul creditore aveva pero` cura di escludere dall’ambito di detta regola i casi di lamentata inesattezza dell’adempimento». (15) Conf., Cass., 1º aprile 2010, n. 7993, in Guida dir. 2010, 29, 64; Cass., 27 settembre 2007, n. 20326, ivi 2007, 47, 63; nella giurisprudenza di merito v., in senso consonante, Trib. Bolzano, 1º aprile 2008, in Redazione Giuffre´ 2009; App. Milano, 17 gennaio 2005, in Giur. merito 2006, 2662. Contra pero` Trib. Monza, 1º marzo 2004, in Giur. merito 2004, 1388. (16) Cfr., per tutti, G. A. Micheli, L’onere della prova, Padova, ristampa 1966, 440.
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inesattezza della prestazione: se il creditore non nega il fatto dell’adempimento, bensı` la corrispondenza di esso alla prestazione dovuta, spetta a lui dimostrare che il debitore ha imperfettamente adempiuto (17). Anche se, invero, vi e` chi, in proposito, ha ritenuto che «non sembra dubbio che tale circostanza debba seguire la sorte del fatto principale a cui si accompagna: cosı`, qualora si agisca per l’adempimento, sara` il convenuto a dover provare l’esatto adempimento; qualora si agisca per la risoluzione e/o per il risarcimento dei danni, sara` l’attore a dover provare che l’adempimento e` stato inesatto» (18). Maggiori dubbi (e forti contrasti) si rinvengono, di contro, rispetto al regime probatorio delle domande di risoluzione del contratto o di risarcimento del danno in luogo della prestazione. Alcuni studiosi sostengono, infatti, che anche in questi casi (esattamente come nella domanda di adempimento) sarebbe sufficiente per il creditore dare la sola dimostrazione del proprio titolo, non dovendo egli fornire la prova dell’inadempimento della controparte (19). Si e` in proposito osservato come il diritto alternativo di chiedere l’adempimento o la risoluzione e` attribuito dall’art. 1453 c.c. al contraente fedele al contratto sulla base del medesimo presupposto, onde le due azioni non possono essere soggette a diversi regimi di prova (20). Secondo un diverso orientamento, invece, non ci puo` essere un’identita` nell’onere della prova nel caso di domanda di risoluzione e di domanda di adempimento, in quanto ad imporre un regime differenziato sono gli stessi (e differenti) fatti costitutivi posti a base delle singole azioni. Pertanto chi agisce per la risoluzione, al contrario di chi agisce per la manutenzione del contratto, deve provare anche l’inadempimento dell’altra parte, dal quale nasce l’effetto risolutivo (21). Non e` dunque da escludere che le Sezioni Unite siano state indotte a pronunciarsi sospinte piu` dal vivo (e tutt’ora aperto) dibattito dottrinale piuttosto che da un effettivo contrasto in seno alla propria giurisprudenza (22). 5. – La sentenza in commento espressamente richiama i principi di diritto fatti
(17) In questi termini L. Mengoni, voce Responsabilita`contrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, Milano 1988, 1097. (18) Cosı` G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli 1974, 429. (19) Conf. G. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano 1942, 439; M. De Cristofaro, Mancata o inesatta prestazione e onere probatorio, in Riv. dir. civ. 1994, 601 ss.; L. Mengoni, voce Responsabilita`contrattuale (dir. vig.), cit., 1096 s.; R. Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ. 1957, 406, nota n. 26. (20) L. Mengoni, voce Responsabilita` contrattuale (dir. vig.), cit., 1097. (21) V. Andrioli, voce Prova (dir. proc. civ.), in Noviss. dig. it., XIV, Torino 1967, 295; G. A. Micheli, L’onere della prova, cit., 438 s.; Id., In tema di onere della prova dell’inadempimento, in Giur. it. 1960, I, 1, 1417 ss.; G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, cit., 424 ss.; Id., voce Prova (dir. proc. civ..), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, 642; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, cit., 427 ss. (22) Per una considerazione consonante v. G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, cit., 427.
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propri delle Sezioni Unite del 2001, rispetto ai quali dichiara espressamente che «il collegio non ravvisa motivi per doversi discostare». Gia` nel principio di diritto, tuttavia, si presentano profili di dubbio. Innanzitutto, non e` agevole comprendere che cosa intenda la Suprema Corte allorche´ afferma che spetta comunque al creditore provare la fonte dell’obbligazione nonche´ «il fatto storico dell’avvenuto adempimento». Infatti delle due l’una: o tale espressione viene utilizzata come sinonimo di «mera allegazione da parte del creditore dell’inesatto adempimento della controparte», oppure, se sul creditore si fa gravare una effettiva prova di avvenuto adempimento (la quale comunque, propriamente intesa, non pare logicamente possibile laddove si controverta su vizi o difetti la cui esistenza in se´ e per se´ esclude si possa ragionare in termini di avvenuto adempimento), si richiede un qualcosa di diverso rispetto a quanto espresso nell’orientamento giurisprudenziale a cui si asserisce di aderire in toto. Inoltre, non contribuisce alla chiarezza interpretativa il fatto che l’ufficio massimario della Cassazione continui a formulare, come fa anche nella specie, principi di diritto facendo esclusivo e generale riferimento «al debitore della prestazione». Cio` in quanto e` di tutta evidenza come, nei contratti a prestazioni corrispettive, entrambe le parti siano al contempo debitori (rispetto alla prestazione a cui sono tenuti) e creditori (rispetto alla prestazione che devono ricevere). Ma oltre a queste considerazioni di carattere formale e` sotto il profilo dell’iter logico-argomentativo, che la decisione in esame, sebbene raggiunga nel caso concreto una soluzione condivisibile nel risultato, non convince. Come noto, l’art. 1312 del codice civile del 1865, modellato sull’art. 1315 del Code Napole´on, espressamente sanciva: «chi domanda l’esecuzione di un’obbligazione deve provarla, e chi pretende di esserne liberato, deve dal suo canto provare il pagamento o il fatto che ha prodotto l’estinzione della sua obbligazione». Il legislatore del 1942, di contro, ha adottato, nella formulazione dell’art. 2697 c.c., una disciplina generale circa la distribuzione dell’onere della prova, senza distinguere in relazione alle singole fattispecie sostanziali. Ai fini della risoluzione del problema probatorio in questione occorre dunque fare riferimento tanto alle norme specifiche in tema di inadempimento del contratto (segnatamente agli artt. 1218 e 1453 c.c.), quanto a quei principi generali, che sia pur non espressamente codificati, devono considerarsi immanenti al nostro sistema processuale. L’art. 1218 c.c., nel definire la responsabilita` del debitore, non distingue fra inadempimento ed inesatto adempimento. Quanto all’art. 1453 c.c., esso, nel momento in cui attribuisce alla parte non inadempiente la scelta fra le varie domande ivi contemplate, sembra porle sullo stesso piano, assoggettandole tutte ai medesimi presupposti, anche in tema di onere probatorio. Occorre altresı` considerare non tanto il c. d. principio della persistenza del diritto (23), la cui applicazione nell’ambito obbligatorio non e` affatto pacifi-
(23) Principio elaborato da M. C. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, 2a ed., in
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ca (24), quanto piuttosto il principio di miglior attitudine o di vicinanza alla prova, in virtu` del quale l’onere probatorio, in deroga alla norma di cui all’art. 2697 c.c., viene posto a carico della parte piu` prossima alla fonte di prova. Tale criterio, come riconosce anche la giurisprudenza (25), deve sempre essere rispettato, imponendosi quale unico canone ermeneutico che garantisca il diritto costituzionale delle parti ad un facile accesso alla prova. La soluzione alle questioni poste va dunque ricercata nelle norme sopraindicate, interpretate alla luce di detto criterio. Ora, nelle azioni di adempimento, risoluzione e risarcimento per inadempimento totale della controparte, chi si trova nella posizione piu` favorevole ai fini probatori e` il debitore, il quale e` in possesso degli elementi utili a paralizzare la pretesa dell’attore. Infatti egli, di norma, quando ha adempiuto, e` senz’altro anche in possesso di una quietanza o di altro documento idoneo al medesimo scopo. Il creditore, di contro, si troverebbe di fronte alla difficile prova di un fatto negativo (vale a dire non aver ricevuto la prestazione) (26). Nelle azioni de quibus e` dunque ragionevole addossare l’onere della prova al debitore. Se pero` dall’ipotesi di inadempimento totale si passa ad esaminare quella che viene in rilievo nella specie, cioe` di inesatto adempimento, gli stessi argomenti portano ad una conclusione diametralmente opposta a quella fatta propria dalla sentenza in commento (che si conforma alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2001). Si consideri, difatti, come il creditore, quando contesta l’esattezza dell’adempimento, alleghi a fondamento della propria domanda specifiche ed ulteriori circostanze rispetto alla mera esistenza del titolo, rappresentate dalla difformita` qualitativa o quantitativa della prestazione ricevuta rispetto a quella pattuita. Siffatta circostanza riveste valore costitutivo della pretesa azionata (quale elemento della causa petendi) e, come tale, concretizza un thema probandum a carico del creditore stesso. Ne consegue che la distinzione fra inadempimento totale e inesatto adempimento (anche se, si riconosce, piu` agevole in via teorica che pratica) non puo` dir-
Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma 1979, 175, il quale afferma che, per quanto attiene ai crediti, la presunzione di persistenza del diritto oltre il termine di scadenza implica di per se´ presunzione di inadempimento; presunzione che sposta sul debitore l’onere della prova dell’avvenuto adempimento. L. Mengoni, voce Responsabilita` contrattuale (dir. vig.), cit., 1095, si richiama al medesimo principio, ma nei seguenti termini: «principio probatorio di equivalenza tra l’effetto dell’acquisto del diritto e la titolarita` attuale del medesimo». (24) Sollevano, ad esempio, perplessita` e critiche su detto principio M. De Cristofaro, Mancata o inesatta prestazione e onere probatorio, cit., 582 ss.; S. Patti, Prove. Disposizioni generali, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma 1987, 118 s. (25) V. supra par. 2, nota n. 8. (26) Sulla regola negativa non sunt probanda e per approfondimenti sulle modalita` di prova del fatto negativo si rinvia allo studio di M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, III, t. 2, sez. 1, Milano 1992, 115 ss.
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si affatto «artificiosa» (27), poiche´ fondata su aspetti strutturali della domanda giudiziale. Inoltre, proprio sotto il profilo del rispetto del principio di vicinanza alla prova, in questo caso e` il creditore a trovarsi, in linea generale, nella miglior posizione per dimostrare l’inesattezza dell’adempimento (28). Egli infatti, in linea generale, ha la disponibilita` fisica della res o dell’opus. Se poi si pensa che i vizi o i difetti possono emergere anche in un momento successivo all’esecuzione della prestazione, quando il bene non e` piu` nella sfera di controllo del debitore (29), l’accollo al creditore dell’onere di provare l’inesattezza dell’adempimento trova ulteriore giustificazione. Un riscontro confermativo si ritrova in alcuni specifici settori. Ad esempio, rispetto al contratto di compravendita e` pacifico che incomba sul compratore l’onere della prova dell’esistenza dei vizi (l’art. 1490 c.c.) (30). Ancora: proprio con riguardo al contratto d’appalto, l’art. 1667 c.c. e` stato ritenuto sufficientemente univoco nell’indicare nel committente la parte gravata dall’onere di dare la prova dei vizi e dei difetti lamentati (31). Nella decisione che si annota, invece, la Cassazione afferma che la norma in questione, non costituisce una disciplina speciale ed esaustiva in tema di difformita` o vizi dell’opera appaltata, ma contenendo solo specifiche disposizioni
(27) Come appunto la definiscono le Sezioni Unite nella decisione del 2001 laddove affermano: «la diversa consistenza dell’inadempimento totale e dell’inadempimento inesatto non puo` giustificare il diverso regime probatorio. In entrambi i casi il creditore deduce che l’altro contraente non e` stato fedele al contratto. Non e` ragionevole ritenere sufficiente l’allegazione per l’inadempimento totale (massima espressione di infedelta` al contratto) e pretendere dal creditore la prova del fatto negativo dell’inesattezza, se e` dedotto soltanto un inadempimento inesatto o parziale (piu` ridotta manifestazione di infedelta` al contratto)». (28) Conf. U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova; cit., 120; V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, cit., 1576 ss.; G. Villa, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalita` economica, in Riv. dir. civ. 2002, II, 728 s. (29) In argomento cfr. G. M. Uda, La prova del pagamento, in Aa.Vv., Trattato delle obbligazioni. I. La struttura e l’adempimento, La liberazione del debitore, t. V, a cura di M. Maggiolo e M. Talamanca, Padova 2010, 518. (30) Come ricorda Cass., 12 giugno 2007, n. 13695, in Mass. Giust. civ. 2007, 1166. (31) In questo senso pare orientata la dottrina maggioritaria. Cfr. U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova, cit., 120; M. De Cristofaro, Mancata o inesatta prestazione e onere probatorio, cit., 594, testo e nota 116 per ulteriori riferimento bibliografici. La giurisprudenza, dal canto suo, pare operare la seguente distinzione: incombe sul committente l’onere probatorio in ordine alla sussistenza dei vizi dedotti a fondamento della domanda di risoluzione del contratto di appalto (Cass., 15 marzo 2004, n. 5250, in Giust. civ. 2005, 5, I, 1366). Mentre compete all’appaltatore, che richiede il pagamento del corrispettivo, l’onere di provare di aver esattamente adempiuto e, quindi, di aver eseguito l’opera in modo conforme al contratto o alle regole dell’arte (Cass., 13 febbraio 2008 n. 3472, in Mass. Giust. civ. 2008, 220; contra la piu` risalente Cass., 8 gennaio 1981, n. 163, ivi 1981, 61).
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volte a prevedere termini decadenziali piu` ristretti di quelli ordinari, non deroga alla regola generale, che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive. Da qui trae la conferma del principio giusta il quale «spetta al debitore della prestazione – quale che ne sia la posizione processuale – provare l’esattezza dell’adempimento, al fine dell’accoglimento della propria domanda o eccezione». Le considerazioni che precedono, tuttavia, hanno dimostrato come si debba diffidare dal fissare un unico criterio probatorio per le strutturalmente diverse fattispecie di inadempimento totale e di inesatto adempimento. Le esigenze di omogeneita` del regime probatorio e di semplicita` su cui si e` «attestata» la giurisprudenza (32) non possono prescindere dalla diversita` delle situazioni. In questo senso, come gia` evidenziato, il miglior criterio a cui fare riferimento pare essere quello di vicinanza o possibilita` di fornire la prova: esso, infatti, e` dotato di un’intrinseca elasticita`, atta a garantire il rispetto del diritto costituzionale alla prova di fronte alle molteplici ed eterogenee ipotesi che possono venire in essere nella realta`. Se cio` vale in linea generale, nei casi di inadempimento e di inesatto adempimento in materia di obbligazioni contrattuali, e` pur vero che per quanto concerne il contratto d’appalto, il legislatore italiano ha espressamente contemplato una disposizione – che invero in altri ordinamenti assume valore generale (33) – dalla quale si puo` evincere un preciso momento che segna lo spostamento dell’onere probatorio fra le parti: l’art. 1667 c.c., in precedenza richiamato. Detta norma sancisce che dopo la verifica positiva dell’opera (cosı` come quando il committente, alla consegna, la riceve senza riserve), la stessa si considera accettata. Orbene, da cio` si puo` far derivare l’accollo al committente dell’onere della prova della incompletezza o difformita` dell’opus. Di contro, in mancanza di accettazione, espressa o tacita, la prova di aver esattamente adempiuto incombera` sull’appaltatore. Tale riparto probatorio pare, del resto, essere in sintonia con il principio di vicinanza alla prova, che da qui trova ulteriore conferma. Il risultato della decisione pare dunque condivisibile: nella specie il collaudo – sia pur effettuato, come pattiziamente concordato fra le parti, dal direttore dei lavori indicato dal committente e non, come preferibile, da un soggetto terzo – era risultato negativo. Cio` costituiva senz’altro circostanza idonea ad evitare, ex art. 1665 c.c., l’accettazione dell’opera da parte dell’ente committente. Correttamente dunque la Suprema Corte ha addossato l’onere della prova dell’esatto adempimen-
(32) «L’eccesso di distinzioni di tipo concettuale e formale e` sicuramente fonte di difficolta` per gli operatori pratici del diritto, le cui esigenze di certezza meritano di essere tenute nella dovuta considerazione», cosı` espressamente, in motivazione, Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit. (33) Si consideri, ad esempio, il § 363 BGB («Beweislast bei Annahme als Erfu¨llung») ai sensi del quale se il creditore accetta la prestazione quale adempimento dovra` lui stesso dimostrarne la difformita` rispetto al dovuto.
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to sull’appaltatore; ma alla medesima conclusione si poteva giungere sulla base di tale semplice rilievo, senza richiamarsi ad astratti (e di per se´ criticabili) principi massime di diritto che non si adattano alla realta` delle fattispecie sottese. Chiara Spaccapelo Ricercatore nell’Universita` di Milano
Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 22 febbraio 2010, n. 4062 Pres. Vittoria – Rel. Forte Cooperativa edilizia Santa Barbara, s.r.l. c. P.C.
L’iscrizione della cancellazione della societa` di capitali o di persone nel registro delle imprese determina la perdita della capacita`e della legittimazione processuale (massima non ufficiale) (1). (Omissis). – Fino alla riforma organica della disciplina delle societa` di capitali e cooperative di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, era stata unanime la scelta ermeneutica dei giudici di legittimita` di ritenere la cancellazione dal registro delle imprese della iscrizione di una societa` commerciale, di persone o di capitali, mera pubblicita` dichiarativa, che non produceva l’estinzione della societa` stessa, in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa, per cui permaneva la legittimazione processuale di essa e il processo gia` iniziato proseguiva nei confronti o su iniziativa delle persone che gia` la rappresentavano in giudizio o dei soci, anche con riferimento alle fasi di impugnazione (con le gia` citate Cass. n. 646/07, 12114/06, 7972/00, 3221/99, cfr. pure Cass. 21 agosto 2004 n. 16500, 28 maggio 2004 n. 10324, 20 ottobre 2003 n. 15691, 2 agosto 2001 n. 10555, 1 luglio 2000 n. 8842, 15 giugno 1999 n. 5941, 20 ottobre 1998 n. 10380, 16 novembre 1996 n. 10065, tra altre) ovvero negli eventuali procedimenti di esecuzione, relativi ai medesimi rapporti accertati con sentenza costituente titolo esecutivo a base dei crediti da esigere (Cass. 8 agosto 1964 n. 2273). Dal punto di vista formale, la Relazione al libro del lavoro del codice civile, sul neo istituito registro delle imprese (nn. 98 e ss.), afferma che lo stesso (art. 2188 e ss. c.c. modificati dalla citata L. 29 dicembre 1993, n. 580, istitutiva del registro di cui sopra presso le Camere di commercio, sotto la vigilanza del giudice delegato) ha avuto lo scopo «di attuare un sistema completo ed organico di pubblicita` legale, idoneo a portare a conoscenza del pubblico l’organizzazione dell’impresa, le sue vicende e le sue trasformazioni» (n. 99). Chiarisce la relazione che l’«iscrizione ha normalmente efficacia dichiarativa. Eccezionalmente, e solo in quanto la legge espressamente lo dichiari, come avviene ad es. per la costituzione delle societa` per azioni, delle societa` in accomandita per azioni, delle societa` a responsabilita` limitata e delle cooperative, la iscrizione ha efficacia costitutiva» (n. 100), e crea la presunzione juris et de iure «che i fatti iscritti siano noti a tutti» (n. 100). Il rilievo di regola solo dichiarativo della pubblicita` attuata con l’iscrizione nel registro delle imprese e` riaffermato nell’art. 2193 c.c., per il quale le iscrizioni delle
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vicende societarie rendono opponibili le stesse ai terzi; il regime speciale di pubblicita` vuole tutelare la esigenza dei terzi, in specie dei creditori sociali, di conoscere le vicende dell’impresa collettiva e accertare da esse sia la capienza del patrimonio sociale per la responsabilita` della societa` per i debiti di essa che la eventuale estensione di detta responsabilita` ai soci, con riferimento alle societa` che svolgono attivita` di impresa e si qualificano commerciali, di cui ai capi 3º e ss. del Titolo 5º del Libro 5º del c.c. (art. 2200), siano esse di persone e prive di personalita` giuridica (s.n.c. ed s.a.s.) o persone giuridiche (s.p.a., in accomandita p.a., s.r.l. e cooperative ex art. 2325 c.c., art. 2518 c.c. e ss.). Le iscrizioni nel citato registro riguardano vicende della impresa collettiva, dalla nascita alla cessazione delle sue attivita` che determina l’estinzione della societa`, fino alla quale e` esclusa ogni responsabilita` dei soci per le societa` persone giuridiche, il cui patrimonio e` totalmente autonomo rispetto a quelli dei soci, costituendo la personalita` il limite e la misura della capacita` di essere titolare e di gestire i beni conferiti all’impresa collettiva, sussistendo comunque una capacita` giuridica delle societa` iscritte ritenute «soggetti» di diritto diversi e distinti dai soci, anche quando non vi sia la personalita` giuridica. Iscritta la cancellazione dell’iscrizione delle societa` (artt. 2191 e 2192 c.c.), su istanza dei liquidatori o di ufficio, viene comunque meno la opponibilita` delle vicende dell’impresa collettiva ai terzi, anche se questa puo` conservare una soggettivita` limitata e per singoli atti, non diversa da quella delle societa` semplici o di fatto (art. 2297 c.c.). In tale contesto normativo anteriore alla riforma del 2003 delle societa` di capitali, pienamente giustificato era l’indirizzo ermeneutico giurisprudenziale, sostanzialmente unanime in sede di legittimita`, favorevole alla prosecuzione della capacita` giuridica e della soggettivita` delle societa` commerciali, anche dopo la cancellazione della iscrizione nel registro delle imprese e dopo il loro scioglimento e la successiva liquidazione del patrimonio sociale. Tale posizione, oltre a rispettare la natura dichiarativa della pubblicita`, garantiva il ceto creditorio con l’affermazione del permanere di una soggettivita` attenuata e di una limitata prosecuzione della capacita` processuale della societa` la cui iscrizione era stata cancellata (su tale tipo di soggettivita` cfr., in particolare, Cass. 15 giugno 1999 n. 5941 e 13 luglio 1995 n. 7650), consentendosi l’assoggettamento di tale societa` alla procedura fallimentare anche successivamente all’anno dalla c.d. «formalita`» della cancellazione dell’iscrizione a sua volta iscritta, delle societa` commerciali di persone (art. 2312 c.c.) e di quelle per azioni (art. 2456 c.c.), cosı` semplificando il recupero dei crediti, senza costringere i loro titolari ad agire contro una pluralita` di soci, con le incertezze conseguenti, gia` in rapporto alla loro individuazione, pur a riconoscere loro una posizione poziore rispetto a quella dei creditori particolari dei soci. Mentre di regola i creditori della societa`, per il principio di responsabilita` patrimoniale (art. 2740 c.c.), possono rifarsi sul patrimonio di essa finche´ e` in vita, essi, dopo l’estinzione, non possono che soddisfarsi sui singoli soci, con prelazione sui creditori personali dei soci stessi (art. 2280 c.c., applicabile ai sensi del previgente art. 2452 c.c., comma 1, anche alle societa` di capitali e per l’art. 2297 c.c., a quelle commerciali di persone, per le quali e` prevista la previa escussione del
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patrimonio sociale ex art. 2268 c.c.), essendo comunque meno garantiti per la soddisfazione dei loro diritti. La posizione giurisprudenziale esposta, costituente ius receptum, era stata criticata da quasi tutta la dottrina, in base alla lettera del combinato disposto dei gia` vigenti artt. 2312, 2324 e 2456 c.c., norme per le quali, «dopo la cancellazione» delle iscrizioni, sia delle societa` di persone che di quelle di capitali, «i creditori sociali possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci» delle societa` in nome collettivo e di quelli accomandatari delle s.a.s., illimitatamente e nei confronti dei soci delle societa` persone giuridiche in proporzione alla rispettiva quota di riparto per questa parte cosı` come con l’attuale art. 2495 c.c., (giacche´ la novella del 2003 per le societa` con personalita` giuridica ha lasciato in sostanza immutata la previgente disciplina). Peraltro la mancata espressa previsione, nella previgente normativa, di una estinzione della societa` con personalita` giuridica e di una perdita della capacita` giuridica e della soggettivita` delle societa` commerciali di persone, quale effetto della cancellazione della iscrizione della societa`, a sua volta iscritta nel registro, e la previsione dell’azione dei creditori sociali anche contro i liquidatori se vi e` loro colpa nell’inadempimento e non quali successori dell’impresa collettiva estinta ma per responsabilita` extracontrattuale, sono state due circostanze che in diritto hanno concorso a formare il richiamato indirizzo ermeneutico dei giudici di legittimita`, che, in rapporto al previgente art. 2456 c.c., per la natura dichiarativa della pubblicita` anche in ordine agli atti di scioglimento e di messa in liquidazione della societa`, affermavano correttamente che, nella scansione degli eventi relativi alla vita della societa` resi pubblici, non la cancellazione ma solo la cessazione di ogni attivita` imprenditoriale (art. 2195 c.c.) determinava la estinzione della societa`. Quest’ultima non era una vicenda resa opponibile ai terzi con la pubblicita` della cancellazione, da sola inidonea a produrre l’effetto estintivo, con la conseguenza che, in caso di sopravvenienze attive o passive della societa` stessa e della pendenza di processi nei quali essa era parte, alla stessa doveva riconoscersi una limitata soggettivita` e capacita` giuridica, come societa` semplice o di fatto (art. 2268 c.c.), per legittimarla a proseguire il processo. (Omissis). 3.5. Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: «L’art. 2495 c.c., comma 2, come modificato dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, e` norma innovativa e ultrattiva, che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di societa` di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione, in conseguenza dell’indicata pubblicita` e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire e riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci, dopo l’entrata in vigore della norma, con le novita` previste agli effetti processuali per le notifiche intraannuali di dette citazioni, in applicazione degli artt. 10 e 11 preleggi, e dell’art. 73 Cost., u.c. Il citato articolo, incidendo nel sistema, impone una modifica del diverso e unanime pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimita` fondato sulla
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natura all’epoca non costitutiva della iscrizione della cancellazione che invece dal 1 gennaio 2004 estingue di certo le societa` di capitali nei sensi indicati. Dalla stessa data per le societa` di persone, esclusa l’efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, impossibile in difetto di analoga efficacia della loro iscrizione, per ragioni logiche e di sistema, puo` affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicita` della cessazione dell’attivita` dell’impresa collettiva, opponibile dal 1 luglio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ai sensi degli artt. 2312 e 2324 c.c., norme in base alle quali si giunge ad una presunzione del venir meno della capacita` e legittimazione di esse, operante negli stessi limiti temporali indicati, anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse societa` sono parti, in attuazione di una lettura costituzionalmente orientata delle norme relative a tale tipo di societa` da leggere in parallelo ai nuovi effetti costituivi della cancellazione delle societa` di capitali per la novella. La natura costitutiva riconosciuta per legge a decorrere dal 1 gennaio 2004, degli effetti delle cancellazioni gia` iscritte e di quelle future per le societa` di capitali che con esse si estinguono, comporta, anche per quelle di persone, che, a garanzia della parita` di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di societa`, si abbia una vicenda estintiva analoga con la fine della vita di queste contestuale alla pubblicita`, che resta dichiarativa degli effetti da desumere dall’insieme delle norme pregresse e di quelle novellate, che, per analogia iuris determinano una interpretazione nuova della disciplina pregressa delle societa` di persone. Per queste ultime, come la loro iscrizione nel registro delle imprese ha natura dichiarativa, anche la fine della loro legittimazione e soggettivita` e` soggetta a pubblicita` della stessa natura, desumendosi l’estinzione di esse dagli effetti della novella dell’art. 2495 c.c., sull’intero titolo 5º del Libro quinto del codice civile dopo la riforma parziale di esso, ed e` l’evento sostanziale che la cancellazione rende opponibile ai terzi (art. 2193 c.c.) negli stessi limiti temporali indicati per la perdita della personalita` delle societa` oggetto di riforma». La scelta di risoluzione del contrasto nel senso dell’effetto estintivo della societa` cooperativa, a seguito della cancellazione anche anteriore alla vigenza del d.lgs. n. 6 del 2003, sia pure al momento dell’entrata in vigore di essa (1 gennaio 2004), comporta che la Cooperativa Santa Barbara, cancellata il (omissis) su sua domanda del (omissis), dalla data della cancellazione e` da ritenere estinta e priva di legittimazione sostanziale e processuale e che per tale motivo ad essa e` stato negato dal giudice del merito la sua legittimazione al procedimento esecutivo. Cio` comporta che la Cooperativa edilizia ricorrente come non era soggetto di diritto allorche´ ha resistito alle opposizioni proposte dal P. nel 2007 sin dal settembre 2004 e mancava quindi di legittimazione a resistere in quella sede, tale era anche al momento di proposizione del presente ricorso per cassazione, perche´ persona giuridica ormai estinta ad ogni effetto di legge dalla data dell’iscrizione della cancellazione dal settembre precedente, che ha per legge comportato la contestuale estinzione della societa`, evento che, se si fosse dichiarato o comunicato dal difensore nel corso del giudizio di merito ne avrebbe determinato l’interruzione. Pertanto il ricorso per cassazione deve dichiararsi inammissibile, mancando di legittimazione a proporlo la ormai inesistente Cooperativa Santa Barbara (Omissis).
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(1) Le conseguenze processuali della cancellazione della societa` dal registro delle imprese. 1. – La sentenza, che qui si annota, fa parte di un trittico di pronunce depositate lo stesso giorno attraverso le quali le Sezioni Unite hanno cristallizzato alcuni principi sugli effetti dell’iscrizione della cancellazione della societa` nel registro delle imprese (1). Alcuni dei principi affermati sono innovativi; altri meno, in quanto piu` direttamente deducibili dalla legge, come modificata dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. In ogni caso, i principi individuati dalla Suprema Corte sono destinati ad incidere in modo rilevante sulla materia, costituendo una svolta importante nel dibattito relativo alla problematica sulla cancellazione della societa` dal registro delle imprese, atteso che l’effetto estintivo conseguente alla cancellazione e` una conseguenza che ormai appartiene al diritto positivo e, con le pronunce sopra indicate, pare destinato a divenire jus receptum (2). Occorre rilevare, poi, che la soluzione adottata dalla sentenza in commento, pur caldeggiata dalla dottrina, appare in contrasto con la giurisprudenza formatasi nel vigore della precedente formulazione legislativa (3). Il primo dei principi affermati riguarda gli effetti estintivi derivanti dall’iscrizione della cancellazione della societa` nel registro delle imprese, cio` indipendente-
(1) Le altre sentenze, identiche nell’affermazione del complesso principio di diritto v. § 3.5 della motivazione, sono: la n. 4060, pubblicata su Giur. it. 2010, con nota di R. Wiegmann, La difficile estinzione delle societa`; e la n. 4061, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, p. 541 ss., con nota di M. De Acutis, Le Sezioni Unite e il comma 2º dell’art. 1495 cod. civ., ovvero tra obiter dicta e contrasti (forse) soltanto apparenti, ivi, p. 260 ss. Si e` scelto di pubblicare la n. 4062 perche´, tra le tre, e` l’unica che afferma l’estinzione della societa` per dedurne conseguenze processuali. Quest’ultima sentenza e` stata pubblicata, altresı`, in Corriere giur. 2010, p. 1006, con nota di Pedoja M., Fine della «immortalita`»: per le Sezioni Unite la cancellazione della societa` dal registro delle imprese determina la sua estinzione; in Soc. 2010, p. 1004 ss., con nota di commento di D. Dalfino. (2) Cfr. Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8426, in Fall. 2010, p. 1401 che, ai fini della dichiarazione di fallimento, nel riconoscere che la societa` si estingue in seguito alla cancellazione dal registro delle imprese, ammette, tuttavia, che la cancellazione disposta dall’art. 2191 c.c. possa essere illegittima e quindi revocata. (3) Per una ricostruzione dello stato del problema precedente la nota sentenza della Corte cost. 21 luglio 2000, n. 319, che ha incrinato un granitico orientamento giurisprudenziale, sia consentito di rinviare a D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, Torino 2002, p. 76 ss. Per un successivo resoconto, oltre agli aa. indicati nella nota n. 1, cfr. F. Santagada, Fusione e cancellazione di societa` e vicende del processo, in Giust. proc. civ. 2010, parte II, p. 591 ss.; C. Conedera, La rilevanza dell’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese alla luce delle modifiche intervenute nell’art. 2495 cod. civ. e l’applicabilita` dell’art. 10 legge fallimentare alle societa` di fatto, in Dir. fall. 2008, II, p. 246 ss. e l’ordinanza di rimessione alle SS.UU. del 15 settembre 2009, n. 19804, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, p. 396 ss., con nota di D. Sega, La cancellazione della societa` dal registro delle imprese comporta la sua «irreversibile» estinzione?, p. 401 ss.
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mente dalla sopravvivenza di rapporti giuridici facenti capo alla societa`. L’effetto estintivo, come si diceva, e` ormai pacifico per le societa` di capitali, discendendo dall’incipit della nuova formulazione dell’art. 2495, comma 2º, c.c. («Ferma restando l’estinzione della societa`»); mentre tale conclusione appare meno lineare per le societa` di persone, su cui la legge tace. Sul punto, la sentenza in commento, argomentando sulla «necessita` di garantire la parita` di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di societa`», non esita applicare la regola fissata per le societa` di capitali anche alle societa` di persone (4). Il secondo dei principi affermati risolve un problema di «diritto transitorio» ed afferma che il giorno dell’entrata in vigore della riforma delle societa` (di cui al d.lgs. n. 6/2003) costituisce il momento rilevante per la produzione dell’effetto estintivo anche per le societa` cancellate in un momento antecedente. In sintesi, la regola: per le societa` cancellate dopo il 1º gennaio 2004, l’effetto estintivo decorre dal giorno dell’iscrizione della cancellazione; per le societa` cancellate prima di tale momento, l’effetto estintivo decorre dal 1º gennaio 2004. Cio` perche´, rileva la Corte, la novella non ha natura interpretativa e ricognitiva della previgente disciplina, ne´ e` espressamente prevista come retroattiva. 2. – Sulle conseguenze processuali dell’estinzione della societa` poco o nulla si dice: la sentenza annotata fa discendere dall’estinzione della societa` la perdita della legittimazione (sostanziale) e della capacita` processuale ed aggiunge (in modo assertivo) che se l’evento fosse stato «dichiarato o comunicato dal difensore nel corso del giudizio di merito ne avrebbe determinato l’interruzione». Il punto merita, pertanto, di essere approfondito (5) sia con riferimento ai processi «futuri», cioe` quelli iniziati dopo l’estinzione della societa`, sia con riferimento ai processi pendenti nel momento in cui la societa` si estingue. La struttura tradizionale dell’argomentazione e` la medesima per entrambe le fattispecie sopra menzionate e trae automaticamente le conseguenze processuali da valutazioni di diritto sostanziale circa l’esistenza della societa`. Spesso, poi, come nel caso della sentenza qui annotata, si confondono i profili della capacita` processuale con quelli della capacita` di essere parte; cioe` i profili della capacita` di agire, con quelli della capacita` giuridica. In ogni caso, il punto e` sempre lo stesso: se la societa` si estingue, allora il processo non puo` che risentire di un tale evento verificatosi sul piano sostanziale; se continua ad esistere, il ruolo della societa` come «parte» non subisce variazioni rilevanti (il processo pendente continuera` nei confronti delle parti originarie senza che operino, di regola, i meccanismi interruttivi). Questa struttura argomentativa e` stata utilizzata per risolvere l’analogo proble-
(4) Il principio e` affermato nella sentenza n. 4060 e riproposto, come obiter dictum, nella nostra sentenza e nella n. 4061 che riguardano, tuttavia, delle societa` di capitali. (5) In dottrina, si sono occupati esplicitamente delle conseguenza processuali dell’estinzione della societa`, annotando la nostra sentenza: M. Pedoja, op. ult. cit.; D. Dalfino, Commento, cit.; C. Glendi, Cancellazione della societa`, attivita`impositiva e processo tributario, in Riv. giur. trib. 2010, p. 749. Cfr., altresı`, F. Santagada, op. ult. loc. cit.
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ma dei processi in cui e` parte una societa` che, in pendenza della lite, si e` fusa con un’altra (6). Alla luce della disposizione contenuta nell’art. 2504 bis, comma 1º, c.c. (nella formulazione derivante dal d.lgs. n. 6/2003) e mutando l’orientamento precedentemente consolidatosi nel vigore delle norme ante riforma del diritto societario (7), si e` arrivati a configurare la fusione come una vicenda evolutiva-modificativa della societa` e, di conseguenza, si e` concluso per l’inapplicabilita` dell’istituto dell’interruzione, che sarebbe giustificato solamente in presenza di una vicenda estintivo-successoria (8). Come e` stato sottolineato da Edoardo Ricci, tuttavia, la questione appare piu` complessa (9): se le premesse del ragionamento ben possono essere fondate su basi sostanziali, l’argomentazione non puo` non tenere conto delle esigenze di effettivita` della tutela giurisdizionale dei diritti. In questa prospettiva, non e` necessario postulare l’assenza di un fenomeno estintivo-successorio per escludere l’applicabilita` delle norme sull’interruzione del processo: il diritto processuale puo`, infatti, permettersi di trattare come estinto un soggetto esistente, oppure come esistente un soggetto che il diritto sostanziale considera estinto (10). Cio` in modo del tutto autonomo dalle valutazioni del diritto sostanziale che, in questi casi, hanno lo scopo di contemperare le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, con quelle di tutela dei creditori sociali (11). Quest’ultima lezione convince maggiormente, perche´ e` l’unica che impone all’interprete una valutazione di effettivita` dello strumento processuale, consentendo il contemperamento di tutti gli interessi in gioco (sostanziali e processuali). 3. – In questa prospettiva, occorre analizzare i processi «futuri», cioe` quelli
(6) Cfr., sul punto, F. Santagada, op. ult. cit., parte I, pp. 277-301 e parte II, pp. 577-590; oltre ai commenti a Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637 e Cass., 23 giugno 2006, n. 14526, in Riv. dir. proc. 2008, p. 177 ss. di E.F. Ricci, Gli effetti della fusione della societa` sui processi pendenti, ivi, p. 179 ss.; C. Consolo, Bram Stoker e la non interruzione per fusione ed «estinzione» societaria (a proposito di gradazioni sull’«immortalita`»), ivi, p. 189; V. Colesanti, Noterelle in tema di fusione societaria e interruzione del processo, in Banca 2006, p. 491 e Id., Ancora in tema di fusioni societarie ed interruzione del processo, in Riv. dir. proc. 2007, p. 375 ss.; D. Dalfino, Sulla inidoneita`interruttiva della fusione societaria (e sull’effetto successorio che ad essa si accompagna, ivi, p. 91 ss. (7) Cfr., per tutti, F. Santagada, op. ult. cit., p. 282 ss. (8) C. Consolo, op. ult. cit., p. 190 ss., in tale prospettiva, rifiuta di inquadrare la vicenda della fusione per incorporazione come una vicenda «estintivo-successoria», bensı` come una «evoluzione delle imprese coinvolte» e desume l’inapplicabilita` delle regole sulla interruzione del processo. Colesanti, opp. ultt. citt., svolge le proprie argomentazioni sulla base del solo dato sostanziale, ritenendo che tutte le volte in cui l’evento interruttivo e` «entrato nel processo», il processo non puo` non tenerne conto, Id., Ancora in tema di fusioni societarie, cit., p. 381. (9) E. F. Ricci, op. cit., p. 181. (10) In senso contrario, si vedano la critiche di V. Colesanti, Ancora in tema di fusioni societarie ed interruzione del processo, cit., p. 380 ss. e F. Stantagada, op. cit., p. 587 ss. (11) Sottolinea questa ratio della legge sostanziale, C. Glendi, op. cit.
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iniziati dopo l’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese (e, quindi, dopo l’estinzione della societa`), contro la societa` ancorche´ cancellata. Con l’avvertenza che i processi di tale specie non costituiscono una rarita`, atteso che vi rientrano anche i processi instaurati dopo il 1º gennaio 2004 nei confronti della societa` cancellata, confidando sulla pregressa giurisprudenza che riteneva la societa` esistente finche´ esistevano dei rapporti giuridici. Bene, il destino di tali processi appare segnato verso una pronuncia in rito, non potendo produrre la sentenza alcun effetto di merito opponibile agli ex soci. Cio` e` conseguenza automatica di chi ritiene che l’estinzione della societa` comporti sempre l’estinzione della «capacita` di essere parte» (12); ma anche seguendo l’altra impostazione sopra indicata, le conclusioni non possono essere differenti, non sussistendo, nel caso di specie, alcun interesse meritevole di tutela a fronte dell’effetto conseguente all’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese. Si e` suggerito, per rimediare a tale grave sanzione, di applicare la sanatoria ex art. 164 c.p.c., con effetto retroattivo, costituendo la citazione della societa` estinta un vizio attinente la vocatio in ius, mentre il diritto controverso sarebbe ben individuato (13). La soluzione, tuttavia, desta qualche perplessita`, atteso che la proposizione di una domanda nei confronti di un soggetto estinto, pare difficilmente inquadrabile come una errata indicazione del convenuto: il convenuto e` ben individuato, ma difetta della cosiddetta «capacita` di essere parte», in quanto estinto. 4. – Per i processi pendenti, la questione appare un poco piu` complessa, dovendosi valutare se, in seguito all’estinzione della societa`, si assista ad un fenomeno successorio e, di conseguenza, individuare quali sono i soggetti destinati a proseguire il processo pendente; risolto questo problema in senso affermativo, occorre verificare se, e in che limiti, siano applicabili le norme sull’interruzione del processo. Una prima opinione nega che l’estinzione della societa` determini una qualsivoglia successione nei confronti degli ex soci e dei liquidatori (14): dall’estinzione della societa`, secondo tale impostazione, nascono delle azioni nuove nei confronti dei soci e dei liquidatori, azioni riconducibili all’arricchimento senza causa o all’indebito arricchimento. Cio` perche´ la nuova ratio della norma, orientata a preferire la
(12) Cosı`, F. P. Luiso, Diritto processuale civile, 4a ed., Milano 2007, vol. I, p. 194 e vol. II, p. 241; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, tomo II, Padova 2008, p. 14 ss.; R. Weigmann, op. cit., che parla di «capacita` processuale»; Conedera C., op. cit., § 8. (13) M. Pedoja, op. cit., p. 1021. La norma, secondo la giurisprudenza, trova invece applicazione tutte le volte in cui l’estinzione si verifica quando pendono i termini per l’appello, atteso che l’evento interruttivo riguarda, in questo caso, ex art. 328 c.p.c., i termini per l’impugnazione, non il processo. Cfr. Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Cass. 12 novembre 2004, n. 21550. (14) C. Glendi, op. cit.; F. Carnelutti, In tema di estinzione delle societa` commerciali, in Foro it. 1940, IV, p. 25 ss.; G. Minervini, La fattispecie estintiva delle societa`per azioni e il problema della cc.dd. sopravvenienze, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1952, p. 1009 ss., che distingue tra passivita` note e non note. In giurisprudenza, App. Napoli, 28 maggio 2008, in Giur. merito 2009, 2480; Id., 6 maggio 2005, in Impresa 2006, 1782.
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certezza dei rapporti alla tutela dei creditori sociali, deve trovare attuazione anche sul piano processuale tramite la sanzione dell’inammissibilita` dei processi futuri incardinati nei confronti di soggetti inesistenti, o la definizione in rito dei processi pendenti (15). La tesi non convince: sono ragioni afferenti la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi che portano a rifiutare un’interpretazione che conduca ad una chiusura in rito del processo pendente (16). La cancellazione di una societa`, mentre pende un processo, costituisce una condotta quantomeno colposa dei liquidatori e, comunque, non addebitabile alla controparte. Sotto altro aspetto, anche le diverse ricostruzioni della nuova azione nei confronti degli ex soci in termini di arricchimento senza causa o indebito arricchimento sono fondate su argomenti piuttosto deboli. In primo luogo, si consideri che una tale ricostruzione (al pari di qualsiasi altra che voglia affermare l’autonomia dell’azione ex art. 2495, comma 2º, c.c.) crea problemi con riguardo alle sopravvenienze attive; che una condizione delle azioni che sorgono da fatti quasi-contrattuali e` l’assenza di una «causa», mentre l’attribuzione patrimoniale agli ex soci appare sorretta da una «causa» legittima; e, infine, che le azioni siffatte mal si conciliano con la responsabilita` illimitata dell’ex socio di societa` di persone (17). In secondo luogo, pur prendendo atto della poverta` del dettato normativo, non pare potersi ragionevolmente revocare in dubbio che si sia in presenza di un fenomeno successorio. Le norme di legge, in questo caso, sembrano legare le due situazioni giuridiche attraverso un nesso di dipendenza in cui: la seconda nasce in quanto si estingue la prima; e la seconda esiste in quanto esiste la prima (18). Non si rinviene, infatti, nel testo dell’art. 2495, comma 2º, c.c., e in quello dell’art. 2312, comma 2º, c.c., alcun elemento da cui puo` desumersi che i fatti costitutivi del diritto vantato dai creditori nei confronti degli ex soci siano diversi da quelli su cui si fonda l’azione nei confronti della societa`. Qualificata la fattispecie come un fenomeno successorio, occorre individuare chi e` il soggetto che puo` proseguire il processo. Allo scopo vi provvedono le norme di cui agli artt. 110 e 111 c.p.c., la cui funzione e` normalmente ricondotta a quella di ristabilire la necessaria bilateralita` del processo. Cosı`, se si ritiene che
(15) Tranchant e` il pensiero di Glendi C., op. cit.: «Viene meno la legittimazione attiva e passiva, perde ogni effetto la procura ai difensori, non vi e` interruzione del processo, che postula l’esistenza di un fenomeno successorio a titolo universale, non v’e` spazio per l’applicabilita` dell’art. 111 c.p.c., mancando il presupposto di una successione a titolo particolare, nel diritto controverso o meno. L’atto introduttivo del giudizio proposto da soggetto giuridicamente inesistente e` tamquam non esset, si tratti di citazione o di ricorso, in appello o per cassazione. Non v’era, o e` venuto meno, il soggetto, e risulta del pari carente anche l’oggetto del giudizio». (16) Per una diversa critica, cfr. F. Santagada, op. cit., p. 595. (17) Cfr., per i dettagli, M. Speranzin, Recenti sentenze in tema di estinzione di societa`: osservazioni critiche, in Giur. comm. 2000, p. 281 ss. (18) R. Nicolo`, voce Successione nei diritti, in Noviss. dig. it., vol. XVIII, Torino 1970, p. 608.
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gli ex soci debbano essere considerati dei successori a titolo universale (19), il processo prosegue nei confronti di questi ultimi, ai sensi dell’art. 110 c.p.c. Se, di contro, si ritiene che la successione degli ex soci sia a titolo particolare (20), il problema appare piu` serio poiche´, come si e` sottolineato, l’art. 111 c.p.c. non e` idoneo a disciplinare compiutamente la fattispecie. Allora si dovra` ritenere che il processo venga eccezionalmente proseguito dal successore a titolo particolare (21); oppure che il processo debba essere proseguito dalla societa` estinta che, in via del tutto eccezionale, mantiene la propria capacita` di essere parte nel giudizio pendente, nonostante perda la capacita` giuridica sostanziale (22). 5. – Infine, occorre verificare se al fenomeno successorio sopra descritto consegua l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 299 c.p.c. Da un lato, si ritiene che l’applicazione dell’art. 110 c.p.c. determini, comunque, l’interruzione del processo, qualora l’evento interruttivo sia dichiarato dal difensore della societa` (23); cio`, anche alla luce del richiamo all’art. 303 c.p.c., effettuato dall’art. 2495, comma 2º, c.c., che deporrebbe in favore dell’applicabilita` delle norme degli artt. 299 ss. c.p.c. (24). Sotto altro aspetto, qualora si configurasse la successione tra la societa` e gli ex soci come una successione a titolo particolare, l’applicazione parziale dell’art. 111 c.p.c. escluderebbe l’interruzione del processo pendente (25). Quest’ultima tesi, pero`, non convince: sia sul piano sostanziale, poiche´ inidonea a giustificare le eventuali sopravvenienze attive (26); sia sul piano processuale, per ragioni di tutela dei
(19) M. Speranzin, op. cit., p. 305; R. Weigmann, op. cit., che parla di accollo ex lege. F. Santagada, op. cit., p. 597. Contra, obiettando che la societa` non ha successori a titolo universale, v. Pedoja, op. cit., p. 1020. (20) A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2002, p. 387; D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, Torino 2002, p. 392. (21) Cfr. D. Dalfino, Commento, cit., p. 1014, M. Pedoja, op. cit., 1020; in giurisprudenza, Trib. Torino 5 settembre 2008, in Giur. merito 2009, p. 1578. Cfr., altresı`, Mirone, Cancellazione delle societa` dal registro delle imprese. Sopravvenienze attive e passive. Estinzione, in Riv. soc. 1968, p. 526 ss., per una ricostruzione in termini di successione a titolo particolare nell’azione di ripetizione dell’indebito, non del diritto controverso; con la conseguenza che, in tale ipotesi, il processo proseguirebbe nei confronti degli ex soci, ma con un oggetto diverso. (22) D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, cit., p. 393. (23) F. Santagada, op. cit., p. 596; C. Conedera, op. cit., p. 265; Trib. Como 18 maggio 2007, in Giur. comm. 2008, II, p. 700 ss. In generale, cfr. D. Dalfino, La successione tra enti nel processo, cit., p. 168 ss. (24) M. Porzio, La cancellazione, in P. Abbadessa, G. B. Portale, Il nuovo diritto delle societa`, vol. IV, Torino 2007, p. 93. In relazione alle modalita` di notificazione della riassunzione, F. Santagada, op. cit., p. 602, ritiene si debba interpretare l’art. 303, comma 2º, c.p.c. in senso estensivo ed ammettere la notificazione della riassunzione agli ex soci impersonalmente e collettivamente presso la sede della societa`. (25) Cfr. D. Dalfino, Commento, ult. loc. cit.; M. Pedoja, op. cit., 1020. (26) Cfr., per i dettagli, M. Speranzin, op. cit., § 5.
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successori, ai quali deve essere garantita la possibilita` di partecipare al processo destinato a concludersi con un provvedimento a loro opponibile. Pur riconoscendo che la tesi anzidetta tenta di eliminare gli inconvenienti che gravano sulla parte che subisce gli effetti di una cancellazione-estinzione illegittima (27), tale soluzione pare risultare troppo gravosa per gli ex soci che potrebbero anche non essere a conoscenza del processo pendente e che si troverebbero a dover subire gli effetti pregiudizievoli di una sentenza formatasi in un processo in cui non hanno avuto la possibilita` di partecipare. A quest’ordine di critiche si espone, altresı`, la tesi che afferma l’inapplicabilita` delle norme sull’interruzione del processo alle ipotesi in cui il «venir meno» della parte e` un fatto volontario (28), atteso che l’esclusione di un qualsivoglia effetto interruttivo contrasta con le possibilita` di difesa del successore (29). Non si rinvengono, quindi, nel caso concreto, degli elementi che possano giustificare l’inapplicabilita` dell’art. 299 c.p.c. La disciplina sostanziale, sul punto, non e` di aiuto (manca, infatti, una norma come quella dell’art. 2504 bis c.c. in cui si stabilisce che la societa` risultante dalla fusione prosegue i rapporti processuali); e la comparazione degli interessi (30) non consente di far prevalere quello della parte che «subisce» un’estinzione, su quello degli ex soci (che, a differenza della societa` risultante dalla fusione, non sono parte del processo) ad una garanzia effettiva del contraddittorio (31). Massimiliano Bina Dottore di ricerca
(27) Cfr. D. Dalfino, Commento, ult. loc. cit. (28) Cfr. D. Dalfino, Commento, ult. loc. cit., e, piu` in generale, ritengono che l’interruzione si applichi solamente in presenza di fatti involontari: C. Punzi, L’interruzione del processo, cit., p. 24, 182; A. Finocchiaro, voce Interruzione del processo (dir. proc. civ.), cit., p. 428. (29) Cfr. A. Saletti, voce Interruzione del processo, in Enc. giur., Roma 1989, vol. XVII, p. 6 in relazione alla cancellazione volontaria dall’albo del procuratore. (30) Come E. F. Ricci, op. cit., 186, ritiene opportuno si debba procedere. (31) Punzi C., L’interruzione del processo, Milano 1963, p. 26 ss., 182; A. Cavalaglio, voce Interruzione del processo di cognizione nel diritto processuale civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. X, Torino 1999, p. 76; A. Finocchiaro, voce Interruzione del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. XXII, Milano 1972, p. 428 ss.; A. Saletti, op. cit., p. 1.
Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 9 settembre 2010, n. 19246 Pres. Carbone – Rel. Salme` C.G. c. Bancapulia S.p.A.
Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la riduzione a meta` del termine di costituzione dell’opponente consegue automaticamente alla dimidazione dei termini a comparire prevista dall’art. 645 c.p.c. (1). (Omissis). – Motivi della decisione. (Omissis). – 2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come sara` in seguito precisato, e` opportuno procedere a una puntualizzazione. A parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte e` stata costante nell’affermare che quando l’opponente si sia avvalso della facolta` di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione e` automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla meta` del termine di costituzione ordinario (Omissis). Piu` recentemente, nell’ambito di tale orientamento, si e` ulteriormente precisato che l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009). Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l’orientamento ora richiamato non e` privo della necessaria base normativa. Se, infatti, e` vero che nella formulazione originaria del codice del ’42, l’art. 645, comma 2º prevedeva la riduzione a meta` dei termini di «costituzione», mentre nell’attuale formulazione della disposizione la riduzione a meta` si riferisce solo ai termini di «comparizione», dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a meta` dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza della introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa. Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previ-
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gente, sia significativo della volonta` di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165 c.p.c., comma 1, che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non puo` certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalita` e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua. Ne´ appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all’art. 163 bis c.p.c., comma 2º, nella quale l’abbreviazione dei termini e` conseguenza dell’accertamento da parte del giudice della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall’attore, e di quella di cui all’art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento e` compiuto (non dalla parte, come sostiene l’ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall’altro, nell’opportunita` di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell’attore. Essendo pacifica la sussistenza dell’esigenza di sollecita trattazione dell’opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che sussiste anche l’esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarita` del giudizio di opposizione che, come e` noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della opposizione il completo esame del rapporto giuridico controverso, e non il semplice controllo della legittimita` della pronuncia del decreto d’ingiunzione. E` anche pacifico che, a differenza dalle qualita` formali, le posizioni dell’opponente e dell’opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e di attore in senso sostanziale. Ora, se e` vero che l’opposto ha avuto tutto il tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove, prodotte o richieste, dall’opponente, l’opposto ha necessita` di valutarle per apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l’esigenza di avere a disposizione i documenti sui quali si fonda l’opposizione nel piu` breve tempo possibile, per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio. Cio` che e` indubbio e` che certamente la necessita` di sollecita trattazione dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla riduzione a meta` dei termini di costituzione dell’opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell’opposto, che invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell’opposizione e cioe` dieci giorni prima dell’udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell’art. 166 c.p.c.), ma tale opportunita` di assecondare «l’euritmia del sistema» (Corte cost. n. 18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento. 3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall’ordinanza della prima sezione
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civile, ha osservato che la lettera dell’art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell’opposizione e non dipenda invece dalla volonta` dell’opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c. In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilita` dell’opposizione, ha gia` portato a introdurre nell’orientamento tradizionale, basato sulla facoltativita` della concessione da parte dell’opponente di un termine a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall’affermazione dell’irrilevanza della volonta` dell’opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore. Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla meta` in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico e` conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a meta`. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facolta` dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3º. D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volonta` dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che puo` discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3º (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008). Ne´ potrebbe indurre a diverse conclusioni l’osservazione che, se si ritiene irrilevante la volonta` dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell’art. 24 Cost., come potrebbe desumersi da Corte cost. n. 18/2008. Infatti, l’effetto legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, dipendente dal solo fatto della proposizione dell’opposizione, e` pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non puo` non conoscere quali sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa. Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo e` successiva alla elaborazione della linea difensiva che si e` gia` tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attivita` materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l’opposto non e` chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessita` di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall’opponente per formulare la propria risposta. (Omissis).
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(1) Passata la tempesta: note (parzialmente) critiche in ordine al recente intervento delle Sezioni Unite sull’art. 645 cpv. del codice di rito. 1. – La notorieta` della sentenza in epigrafe e` gia` tale nel momento in cui ci si accinge a stendere queste brevi osservazioni che e` appena il caso di ricordare il contesto che vi ha dato occasione. Con ordinanza depositata in data 12 novembre 2008, la Sezione Prima aveva sollecitato le Sezioni Unite a rimeditare il consolidato orientamento della Corte di cassazione secondo il quale, in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, la dimidiazione del termine di costituzione del debitore opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione al creditore opposto di un termine a comparire inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c., essendo del tutto irrilevante che la concessione di quest’ultimo termine dipenda da una scelta consapevole o da un errore di calcolo dell’opponente stesso (1). La Prima Sezione, vedendo chiusa la strada dell’incidente di legittimita` costituzionale (2), aveva rilevato diversi aspetti problematici del richiamato orientamento, concludendo nella sostanza per l’ingiustificabilita` e l’irragionevolezza del dimezzamento del termine di costituzione dell’opponente, quale effetto automatico dell’assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello ordinario. Ebbene, le Sezioni Unite, non solo e non tanto hanno riaffermato l’orientamento tralatizio ma – travalicando i limiti della questione loro sottoposta – hanno opinato nel senso che la riduzione a meta` del termine di costituzione dell’opponente consegue automaticamente alla circostanza stessa della proposizione dell’opposizione, avendo interpretato l’art. 645, comma 2º, c.p.c. nel senso che i termini a comparire sono ridotti a meta` in ogni caso di opposizione: con cio` offrendo la gia` famosa (o famigerata) «puntualizzazione» che, in realta`, innova profondamente il precedente orientamento. Si tratta quindi di un overruling: si puo` discutere se si sia stato esternato tramite un mero obiter dictum (3) o una piu` degna «ratio decidendi non necessaria» (4), cosı` come si puo` discutere se la Corte di cassazione possa legittimamente o opportunamente esercitare con tali modalita` la sua funzione nomofilattica, ma di certo e` difficile dubitare della capacita` persuasiva della pronuncia in epigrafe, soprattutto perche´ resa dalle Sezioni Unite all’esito della sollecitazione da parte di una sezione semplice (5). E si
(1) Orientamento riconosciuto quale «diritto vivente» da Corte cost. 22 luglio 2009, n. 230. (2) In motivazione, la Sezione Prima rileva infatti che la Corte costituzionale, con ordinanza n. 18 del 2008, ha (come in altre occasioni) ritenuto tale orientamento non contrastante con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. (3) Come ha osservato R. Caponi, Overruling in materia processuale e garanzie costituzionali (in margine a Cass. n. 19246 del 2010), in www.judicium.it 2010, 1. (4) Come ha precisato A. Briguglio, L’overruling delle Sezioni Unite sul termine di costituzione a decreto ingiuntivo; ed il suo (ovvio e speriamo universalmente condiviso) antidoto, in www.juidicium.it 2010, 6. (5) V. tuttavia Trib. Roma 3 novembre 2010, n. 21464, ined., che ha liquidato la pronuncia in commento limitandosi a rilevare, da un parte, che «l’affermazione contenuta nella sentenza del-
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tratta di un overruling dagli effetti potenzialmente devastanti sul contenzioso pendente, giacche´ e` noto che la tardiva costituzione dell’opponente e` assimilata alla sua mancata costituzione nei termini, con conseguenti improcedibilita` dell’opposizione e definitivita` del decreto ingiuntivo. 2. – Ecco perche´ la sentenza in commento ha sollevato immediatamente due ordini di problemi, il primo dei quali, di contingente emergenza, relativo all’efficacia dell’overruling – retrospective o prospective – e ai rimedi per evitare la falcidia per improcedibilita` delle opposizioni in corso; l’altro afferente alla correttezza della soluzione interpretativa proposta dalle Sezioni Unite. Quanto al primo ordine di problemi, in dottrina e in giurisprudenza si e` gia` osservato che il famigerato overruling non potrebbe avere efficacia retroattiva e che l’improcedibilita` delle opposizioni dovrebbe essere direttamente negata sulla base del principio tempus regit actum o, meglio, tempus regit processum (6), se non tramite l’istituto della rimessione in termini (7), dovendosi peraltro considerare solo quale extrema ratio l’invocazione di interventi legislativi che atrofizzino il fisiologico dialogo tra gli operatori del diritto in merito all’interpretazione delle norme di rito (8). In ogni caso, il richiamato overruling delle Sezioni Unite parrebbe applicabile solo alle opposizio-
la Corte e` da considerare piu` un obiter dictum che un vero e proprio approdo ad un orientamento interpretativo diverso da quello tradizionalmente seguito, al quale la Corte, nella motivazione della sentenza, dichiara peraltro di voler continuare ad aderire»; dall’altra, che «il giudizio in esame e` stato introdotto in epoca ben anteriore rispetto alla sentenza citata ed un’applicazione generalizzata delle novita` interpretative, che comunque emergono dalla sentenza, oltre che non condivisibile in astratto sarebbe anche in concreto ingiusta e lesiva dei diritti delle parti che avrebbero in tal modo irrimediabilmente perduto il diritto ad un esame nel merito della controversia». (6) R. Caponi, Overruling, cit., 8; Id., Tempus regit processum, Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in Riv. dir. proc. 2006, 449; Trib. Varese, 8 ottobre 2010, in www.altalex.it; Trib. Milano, sez. dist. Rho, 15 ottobre 2010 e Trib. Milano, 15 novembre 2010 in www.consiglionazionaleforense.it. Conf. Trib. Sant’Angelo dei Lombardi, 20 ottobre 2010 n. 625, in www.altalex.it. (7) A. Briguglio, L’overruling, cit., 12 ss. e Trib. Torino, 11 ottobre 2010, Trib. Pavia, 14 ottobre 2010, Trib. Marsala, 20 ottobre 2010 in www.altalex.it sulla scorta delle note Cass. 17 giugno 2010, n. 14627 e 2 luglio 2010, n. 15812. (8) Interventi ad esempio reclamati dal C.N.F. (v. comunicati stampa del 6 del 14 ottobre 2010, in www.consiglionazionaleforense.it) e gia` formalizzati con due disegni di legge, uno del seguente tenore: «L’articolo 165, primo comma, del codice di procedura civile, si interpreta nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’articolo 163 bis, primo comma, del medesimo codice» (d.d.l. n. 2386 Senato); l’altro volto a sopprimere nell’art. 645, comma 2º, c.p.c. le parole «ma i termini di comparizione sono ridotti a meta`» (d.d.l. n. 2380 Senato). A quest’ultimo riguardo e` opportuno tuttavia segnalare che il C.N.F. aveva invocato un intervento finalizzato piuttosto a chiarire che la riduzione dei termini di comparizione prevista nell’art. 645, comma 2º, c.p.c. non riguarda i termini di costituzione.
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ni notificate dopo la pubblicazione della sentenza in epigrafe, giacche´ urterebbe con i canoni del giusto processo la possibilita` che le regole del gioco siano mutate dall’alto a partita iniziata e che uno dei contendenti possa soccombere solo in ragione di tale mutamento (9). 3. – Sgombrato il campo dal transitorio timore di un’improvvisa defalcazione dei ruoli per improcedibilita` delle opposizioni in corso, rimane tuttavia da comprendere (piu` serenamente) se l’overruling in parola sia pro futuro condivisibile. E, a tal fine, e` sotto gli occhi di tutti che le principali questioni da affrontare siano due: a) se la dimidiazione dei termini di comparizione per l’opposto prevista dall’art. 645, comma 2º, c.p.c. derivi dall’esercizio di una facolta` dell’opponente o direttamente dalla legge; b) se tale dimidiazione dei termini di comparizione riguardi, determini o quanto meno giustifichi anche la dimidiazione dei termini di costituzione delle parti. 4. – In ordine alla prima questione, va ricordato che l’art. 645, cpv., c.p.c. stabilisce espressamente che «in seguito all’opposizione il giudizio si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adı`to, ma i termini a comparire sono ridotti a meta`». La lettera della norma e` senza dubbio chiara ed utilizza una locuzione tutt’altro che inconsueta nel nostro sistema, se si considera che il dimezzamento dei termini di comparizione e` previsto per il rito innanzi al Giudice di Pace, all’art. 318, comma 2º, c.p.c. (cosı` come in passato per il rito pretorile) rispetto al quale non v’e` dubbio che il dimezzamento operi ex lege. Ebbene, anche in relazione all’art. 645, comma 2º, c.p.c. la littera legis dovrebbe significare (semplicemente) che, nel procedimento d’ingiunzione, l’opponente deve garantire all’opposto termini liberi a comparire non inferiori a quarantacinque giorni. Nulla di piu`. Il condizionale e` tuttavia d’obbligo e la questione (apparentemente semplice) si complica, giacche´ la norma in parola e` il risultato delle modifiche apportate dall’art. 13 d.P.R. 17 ottobre 1950 n. 857, che – al fine di coordinare la disposizione originaria con il meccanismo della citazione a udienza fissa, poco prima introdotta dalla Novella del ’50 – ha sostituito la locuzione «termini di costituzione» con quella «termini di comparizione». Nel sistema previgente la dimidiazione dei termini di costituzione derivava senza dubbio dalla legge e aveva un effetto acceleratorio sul procedimento – conformemente alla specialita` del rito, che a fronte di un provvedimento ingiuntivo, emesso inaudita altera parte all’esito di un giudizio sommario, dovrebbe sollecitamente favorirne la definitivita` o l’annullamento a seguito di un giudizio a cognizione piena – poiche´ l’udienza veniva fissata dal presidente del tribunale, in una con la designazione del giudice istruttore, dopo la scadenza dei termini di costituzione decorrenti per entrambe le parti dalla noti-
(9) E` in questo senso l’autorevole opinione del Direttore del Massimario della Corte di cassazione: v. M.R. Morelli, Ingiustificato l’allarme sui decreti ingiuntivi: termini dimezzati solo per le nuove opposizioni, in Guida al dir. 2010, fasc. 44, 12.
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fica della citazione (10). Nel nuovo sistema i termini di costituzione non hanno invece (ed ovviamente) la stessa rilevanza ai fini del piu` o meno sollecito svolgimento del processo, in quanto l’udienza e` fissata direttamente dall’attore o dal convenuto che si avvalga della facolta` di chiederne l’anticipazione. Il coordinamento con il nuovo sistema era dunque necessario, e a questo pare essersi espressamente limitato il legislatore (11). Ma si tratta appunto di coordinamento, che se, da un lato, non ha inteso eliminare la speditezza del rito monitorio, dall’altro non giustifica confusione tra vecchio e nuovo sistema, ne´ tra termini di comparizione e termini di costituzione (12). Ora, nel nuovo sistema la funzione acceleratoria del dimezzamento dei termini di comparizione e` ovviamente meno evidente di quella svolta dalla dimidiazione dei termini di costituzione ante Novella del ’50, ma non puo` essere solo per questo negata (13). Infatti, la dimidiazione ex lege dei termini a comparire riduce la possibilita` che l’opponente ne faccia un utilizzo dilatorio quando si trovi a contrastare un decreto ingiuntivo non provvisoriamente esecutivo, visto che l’opposto ha la possibilita` di richiedere l’anticipazione dell’udienza ex art. 163 bis, comma 3º, c.p.c. gia` se i termini a comparire effettivamente concessigli eccedano i quarantacinque giorni e di ottenere in occasione dell’udienza stessa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo in pendenza di opposizione ex art. 648 c.p.c. D’altra parte, il debitore opponente, in caso di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, puo` concretamente assegnare all’opposto i termini ordinari dimezzati e, nelle cause di pronta spedizione, puo` richiederne un ulteriore dimezzamento ex art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. (14), con la possibilita` di ottenere eventualmente in udienza la sospensione ex art. 649 c.p.c. della provvisoria esecuzione. In ogni caso, la minore efficacia acceleratoria della dimidiazione dei termini di comparizione e` circostanza non decisiva a cospetto della espressa previsione normativa: «i termini di comparizione sono ridotti a meta`». E che non vi sia alcuna facolta` di scelta al riguardo risulta proprio da tale formula legislativa: i termini di comparizione «sono ridotti a meta`» e non, ad esempio, «possono essere ridotti» o «abbreviati fino alla meta`» (15). Cio` non esclude naturalmente la possibilita` che l’opponente possa in concreto assegnare termini di comparizione piu` ampi, trattan-
(10) Cfr. F. Cipriani, La trappola che non c’e` (ma che funziona: a proposito del termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo), in Giust. proc. civ. 2008, 919 ss. (11) V. Relazione del Ministro Guardasigilli richiamata dalla sentenza in commento: «con l’art. 13 del decreto s’introduce una lieve modificazione nel secondo comma dell’art. 645 del codice, come necessaria conseguenza della citazione a udienza fissa». (12) Come vorrebbe F. Carnelutti, Decadenza dall’opposizione all’ingiunzione, in Riv. dir. proc. 1950, I, 220 ss. (13) Rilevano la funzione acceleratoria del dimezzamento dei termini di comparizione prevista dall’art. 645, comma 2º, c.p.c., V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli 1964, 3a ed. riv., 71; E. Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, Milano 1991, 151. (14) Cfr. Cass. 28 aprile 1995 n. 4719, in Corr. giur. 1995, 682, con nota di V. Carbone; Cass. 3 luglio 2008, n. 18203, in Giust. proc. civ. 2009, 541 ss., con nota di G. Trisorio Liuzzi. (15) Il legislatore mostra di utilizzare consapevolmente tali distinte formule: cfr., appunto,
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dosi appunto di termini dilatori minimi (16), ma questa e` un’eventualita` gia` prevista in relazione ai termini ordinari, cui corrisponde il rimedio dell’art. 163 bis, comma 3º, c.p.c. Alla luce delle precedenti osservazioni, possono trarsi le prime parziali conclusioni: i) l’art. 645, comma 2º, c.p.c. prevede la riduzione alla meta`, nel senso di dimidiazione (e non di abbreviazione fino alla meta`) dei termini di comparizione per il creditore opposto; ii) il dimezzamento dei termini di comparizione e` stabilito ope legis e non deriva dall’esercizio di qualche pretesa facolta` da parte dell’opponente (17); iii) cio` comporta che al termine minimo a comparire ordinario di novanta giorni si sostituisce il termine dilatorio minimo di quarantacinque giorni; iv) tale termine puo` essere ulteriormente ridotto o dimezzato ai sensi dell’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c.; v) il meccanismo di cui all’art. 163 bis, comma 3º, c.p.c. trova applicazione gia` quando il termine a comparire concretamente assegnato dall’opponente ecceda i quarantacinque giorni (18). 5. – Chiarito che l’art. 645, comma 2º, c.p.c. dispone ope legis la dimidiazione dei termini ordinari di comparizione, occorre ora verificare se tale dimidiazione riguardi, determini o quanto meno giustifichi anche la dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente. Come si e` gia` osservato, l’art. 645, comma 2º, c.p.c. si occupa solo dei termini di comparizione e dal suo stretto ambito normativo non puo` farsi direttamente discendere anche la dimidiazione dei termini di costituzione del debitore opponente. Ne´, a differenza di quanto sostenuto dalle Sezioni Unite, possono trarsi significative indicazioni dai lavori preparatori (19). E tanto meno puo` affermarsi, come fanno ancora le Sezioni Unite, che la modifica testuale
artt. 645, comma 2º e 318, comma 2º, da una parte, e 163 bis, comma 2º, c.p.c., dall’altra. Cfr. anche art. 2, comma 2º e 3º, d.lgs. n. 5/2003 (rito societario, ora abrogato). (16) S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano 1968, IV, I, 83; L. Bianchi D’Espinosa, Termini di costituzione, cancellazione dal ruolo, riassunzione del processo, in Riv. dir. proc. 1955, II, 125. (17) Cfr. E. Garbagnati, I procedimenti d’ingiunzione e per convalida di sfratto, Milano 1979, 165 ss.; Id., Il procedimento d’ingiunzione, cit., 152; E. Dalmotto Sui termini di costituzione in opposizione a decreto ingiuntivo: dimidiare sempre, in Nuova giur. civ. comm. 1998, I, 710 ss.; R. Caponi, Overruling, cit., 10. (18) Le Sezioni Unite hanno quindi risolto correttamente la prima questione – ritenendo che «i termini a comparire siano ridotti a meta` in ogni caso di opposizione» – anche se sembrano incorrere ancora in un minimo di confusione ove precisano che «qualora, tuttavia, l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facolta` dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, comma 3º, c.p.c.». Infatti, dovrebbe ormai risultare evidente che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo i termini a comparire sono ex lege dimezzati rispetto a quelli ordinari e che il meccanismo di cui all’art. 163 bis, comma 3º, c.p.c. puo` essere utilizzato gia` quando il termine in concreto assegnato dall’opponente ecceda i quarantacinque giorni. (19) L. Bianchi D’Espinosa, Termini di costituzione, cit., 126; R. Caponi, Sul termine di costituzione nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo (artt. 645, 647 c.p.c.), in Corr. giur.
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dell’art. 645, comma 2º, c.p.c. non avrebbe inteso «ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a meta` dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente», in quanto tale modifica si e` limitata a coordinare la norma con l’introduzione del sistema della citazione a udienza fissa e dei relativi termini a comparire, sistema che ha comportato ex se l’assoluto ridimensionamento (anzi, un vero e proprio annullamento) della rilevanza dei termini di costituzione in ordine al piu` o meno sollecito svolgimento del processo (20). Quindi, se dalla norma in parola puo` ricavarsi con certezza il dimezzamento ope legis dei termini di comparizione dell’opposto, non altrettanto puo` dirsi per il dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente e delle parti in genere. Rimane allora da verificare se tale dimezzamento possa ritenersi determinato o quanto meno giustificato dalla dimidiazione dei termini di comparizione. Le Sezioni Unite perseguono tale obiettivo seguendo la tesi di Garbagnati, in ordine ad un preteso principio di adeguamento dei termini di costituzione ai termini di comparizione, enunciato dagli artt. 165-166 c.p.c. con riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. (21) e volto, secondo quanto affermano le stesse Sezioni Unite, a «rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione»; principio che sarebbe nel nostro caso applicabile in quanto nella fattispecie di cui all’art. 645, comma 2º cosı` come in quella di cui all’art. 163 bis, comma 2º, sarebbe identica (proseguono ancora le Sezioni Unite) «la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall’altro, nell’opportunita` di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell’attore». Anche a tal riguardo, la pronuncia in epigrafe non puo` essere tuttavia condivisa. Invero, la dottrina ha gia` puntualmente rilevato che la dimidiazione dei termini di costituzione ai sensi degli artt. 165-166 c.p.c. e` prevista expressis verbis in relazione all’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c., che e` norma eccezionale, ove la dimidiazione dei termini di comparizione ha struttura e funzione diversa da quella prevista dall’art. 645, comma 2º, c.p.c. (22), con la quale anzi e`
2006, 727 ss., spec. 729; Id., Overruling, cit., 13 s.; F. Cipriani, La trappola che non c’e`, cit., 919 ss. (20) E anche al fine di ottenere una piu` sollecita designazione del giudice istruttore cui l’opponente possa eventualmente richiedere ex art. 649 c.p.c. – prima dell’udienza – la sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo concessa a norma dell’art. 642 c.p.c.: infatti, come noto, la disposizione di cui l’art. 168 bis, comma 2º, c.p.c. («la designazione del giudice istruttore deve in ogni caso avvenire non oltre il secondo giorno successivo alla costituzione della parte piu` diligente») trova scarsa applicazione nella prassi e non e` prevista a pena di qualche sanzione. (21) E. Garbagnati, Il procedimento di ingiunzione, cit., 170. (22) C.E. Balbi, Improcedibilita` dell’opposizione a decreto ingiuntivo, diritto alla difesa e inadeguatezza del termine di costituzione del debitore opponente, in Giur. it. 1998, 2086, ss.; R. Caponi, Sul termine di costituzione, cit., 730 s.; N. Andreozzi, Sulle conseguenze della riduzione dei termini di comparizione dell’opposizione a decreto di ingiunzione, in Giur. it. 2008, 955 ss.;
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proprio per questo cumulabile (23). Senza dimenticare che mentre nella fattispecie legale di cui all’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. la riduzione o la dimidiazione dei termini ordinari di comparizione e` concretamente disposta dal presidente del tribunale, nella fattispecie di cui all’art. 645, comma 2º, c.p.c. i termini ordinari di comparizione potrebbero non essere concretamente dimezzati e l’udienza differita (come accade non di rado) ai sensi dell’art. 168 bis, comma 5º, c.p.c. Tuttavia, pur volendo negare che l’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. sia una norma eccezionale – e anche volendo ritenere che il silenzio dell’art. 645, comma 2º c.p.c. non sia indicativo, al fine di escludere la dimidiazione dei termini di costituzione dell’opponente –, non sembra comunque che la soluzione interpretativa proposta nella sentenza in epigrafe possa essere accolta. Infatti, anche seguendo l’errata prospettiva delle Sezioni Unite, la pretesa «esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti» – estrapolata dal combinato disposto degli artt. 163 bis, comma 2º, c.p.c. e 165166 c.p.c. – se e` pienamente ragionevole (anzi, imprescindibile) in relazione alle posizioni e alle necessita` difensive dell’attore e del convenuto (tali in senso sia formale sia sostanziale), nonche´ al contesto processuale cui si riferisce (fase di iniziativa dell’attore), rischia di divenire non solo superflua (24) ma anche irragionevole, ove applicata al giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, nel quale: i) l’attore e il convenuto sono tali in senso formale, ma le relative posizioni ed esigenze difensive sono sostanzialmente invertite; ii) il contesto processuale non e` assimilabile alla fase che segue l’iniziativa dell’attore (che nel procedimento d’ingiunzione si avvia con il deposito del ricorso ex art. 633 c.p.c.) ma va piuttosto equiparata alla fase successiva alla replica del convenuto, che nel rito ordinario si apre con il deposito della comparsa di risposta entro i termini e con le decadenze di cui agli artt. 166-167 c.p.c. (25). E se nel rito ordinario l’attore, a fronte della comparsa di risposta, ha di regola a disposizione non piu`di venti giorni per concepire e formalizzare
F. Cipriani, La trappola che non c’e`, cit., 922, proprio in relazione alla tesi di Garbagnati, osserva che «l’art. 165 non si riferisce a ogni caso di abbreviazione dei termini a comparire, ma solo a quella disposta dal presidente a norma dell’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c., che in verita` non prevede sic et simpliciter la dimidiazione dei termini, ma la possibilita` di abbreviarli sino alla meta`. Quindi, la lettera dell’art. 165 non autorizza a pensare che la norma si riferisca anche all’ipotesi di cui all’art. 645, comma 2º, c.p.c.». (23) Cass. 28 aprile 1995, n. 4719, cit., nella cui motivazione si legge: «la contemporanea applicabilita` dell’art. 645, comma 2º e dell’art. 163 bis, comma 2º c.p.c. e` resa possibile dalla diversita` di ragioni giustificatrici che sorreggono le due distinte riduzioni dei termini: la prima genericamente ed astrattamente riconnessa alla peculiarita` della fattispecie processuale di opposizione all’ingiunzione, in cui, com’e` noto, entrambe le parti hanno gia` avuto modo di presentare i propri argomenti difensivi e non vi e` piu` ragione di differire l’istruzione della causa, la seconda dipendente da concrete e specifiche ragioni di urgenza emergenti dalle peculiarita` del caso e da valutarsi di volta in volta dal giudice». (24) Se si considera, come detto, che nella prassi la prima udienza subisce spesso il differimento di cui all’art. 168 bis, comma 5º, c.p.c. (25) Infatti, altro non e`, nella sostanza, l’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo.
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le sue contro-mosse in udienza, non pare esservi una significativa ragione (26) per cui il creditore opposto (attore in senso sostanziale) debba godere di almeno trenta giorni (27) – in luogo di almeno quindici, senz’altro congrui considerata la specialita` del rito – per replicare all’atto di opposizione del debitore. Peraltro, che la pretesa esigenza di bilanciare le posizioni delle parti si traduca in realta` in un irragionevole squilibrio in favore del creditore opposto e` tanto piu` evidente se si considera che il sacrificio richiesto al debitore ingiunto e` in fondo motivato dal rilievo che «il dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento»: ma di tale efficacia acceleratoria, come si e` visto, non v’e` piu` alcuna traccia nell’attuale sistema. 6. – In base alle considerazioni sopra svolte, puo` dunque concludersi che la sentenza in epigrafe va senz’altro condivisa ove afferma che, in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, i termini ordinari di comparizione sono sempre ex lege dimidiati (28), mentre tale pronuncia non dovrebbe essere omologata laddove ha concluso anche per l’automatica dimidiazione dei termini di costituzione (29), che, invece, rimangono quelli ordinari previsti dagli artt. 165-166 c.p.c., salvo il dimezzamento conseguente all’applicazione del’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. (30). Un ulteriore ripensamento della questione da parte della Suprema Corte sarebbe dunque auspicabile.
(26) Considerato che – utilizzando ancora una volta le parole delle Sezioni Unite – «la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attivita` materiale»: cio` non solo per l’opponente, ma evidentemente anche per l’opposto. (27) Invero, come spiega efficacemente A. Briguglio, L’overruling, cit., 3 (che pero`, allo stato, conclude per la probabile ragionevolezza del dimezzamento dei termini di costituzione delle parti, a fronte dell’assegnazione concreta all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario) se X e` il termine normale a comparire e X – 10 – 20 e` lo spazio effettivo per la predisposizione della comparsa di risposta nel rito ordinario, la soluzione interpretativa proposta dalle Sezioni Unite comporterebbe sempre un X: 2 – 5 – 10 per la predisposizione della comparsa di risposta da parte del creditore opposto, in luogo di un X: 2 – 10 – 20, ove i termini di costituzione non si ritenessero automaticamente dimezzati. (28) La dimidiazione dei termini di comparizione prevista dall’art. 645, comma 2º, c.p.c., come visto, puo` affiancarsi a quella prevista dall’art. 163 bis comma 2º, c.p.c., nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al tribunale, e a quella prevista dall’art. 318, comma 2º, c.p.c. nel giudizio di opposizione innanzi al giudice di pace, rispetto al quale pare tuttavia doversi escludere l’applicabilita` dell’art. 163 bis, comma 2º, c.p.c. (cfr. Cass. 18 luglio 2008, n. 19987). (29) Deve dunque ritenersi corretta Cass. 10 gennaio 1955, n. 8, in Riv. dir. proc. 1955, II, 85 ss. – richiamata anche dalla sentenza in commento – che, tuttavia, ragiona erroneamente, come la giurisprudenza successiva, nella prospettiva secondo cui l’art. 645, comma 2º, c.p.c. attribuirebbe all’opponente la «facolta` (...) di assegnare all’opposto per la comparizione un termine piu` breve (fino alla meta`) di quello ordinario». (30) Invece, seguendo l’orientamento delle Sezioni Unite, dalla riduzione ad un quarto dei
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Nel frattempo, visto che gli inconvenienti derivanti dall’automatico dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente agitano non poco la classe forense, anche in relazione alle opposizioni notificate dopo la pubblicazione della sentenza in commento, occorre soffermarsi sulle circostanze o i rimedi che possano ridimensionarne, nell’immediato e pro futuro, la portata. Innanzitutto, la rilevanza di tali inconvenienti va minimizzata, in quanto le difficolta` e le incertezze che di solito possono incontrarsi nel perfezionamento della notificazione della citazione, nel procedimento d’ingiunzione sono semplificate dalla circostanza che l’opposizione deve essere notificata al ricorrente per decreto ingiuntivo nei luoghi di cui all’art. 638 c.p.c. Inoltre, il momento di perfezionamento di tale notifica nei confronti dell’opponente e` quello ormai generalmente individuato nella consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (31). Sulla base di tali premesse e nell’immediato, ad esempio: ) non va dimenticato che la Corte costituzionale, con sentenza del 2 aprile 2004 n. 107 (32), ha riconosciuto dignita` alla facolta` per l’opponente – invalsa nella prassi, ma ancora controversa nella giurisprudenza di legittimita` (33) – di costituirsi in giudizio sin dal giorno di richiesta della notifica dell’atto introduttivo, depositandone in cancelleria, per l’iscrizione a ruolo, una copia semplice priva della relazione di notificazione (la c.d. velina); ß) se la notifica dell’opposizione – dopo tale modalita` di costituzione – non va a buon fine per circostanze non imputabili all’istante, non vanno trascurati i recenti arresti della Suprema Corte di cassazione circa la facolta` (e l’onere) di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, ai fini del rispetto del termine perentorio e con effetto a partire dalla data iniziale di attivazione di tale procedimento, sempreche´ la ripresa del medesimo intervenga entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (34); c) allo stesso modo, va rammentata la facolta` di rinnovare la notifica secondo il modulo e nel termine previsto per l’opposizione tardiva di cui all’art.
termini di comparizione deriverebbe il doppio dimezzamento del termine di costituzione dell’opponente, che finirebbe col ridursi a due soli giorni (Cass. 3 luglio 2008, n. 18203, cit.). Mentre, il cumulo dei dimezzamenti ex artt. 318, comma 2º, c.p.c. e 645, comma 2º, innanzi al giudice di pace, non influisce in ogni caso sui termini di costituzione, la quale puo` essere perfezionata direttamente in udienza (cfr. art. 319, comma 1º, c.p.c.). (31) Secondo il noto e generale principio di sufficienza delle formalita` che non sfuggono alla disponibilita` del notificante, piu` volte affermato dalla Corte costituzionale ed espressamente accolto dal legislatore almeno con riguardo alle notifiche a mezzo del servizio postale. (32) V. anche Corte cost. 22 luglio 2009, n. 230; Corte cost. 12 aprile 2005, n. 154. (33) Infatti, in relazione all’analoga situazione del giudizio di appello, alle sentenze che riconoscono la validita` della costituzione dell’appellante tramite velina (cfr., da ultimo, Cass. 19 maggio 2009, n. 11569) si oppongono ancora oggi pronunce che, in tale ipotesi, concludono per l’improcedibilita` del gravame (Cass. 1º luglio 2008, n. 18009; Cass. 4 gennaio 2010, n. 10). (34) Cass., sez. un., 24 luglio 2009 n. 17352; Cass. 15 aprile 2010, n. 9046.
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650 c.p.c. (35); d) se poi la notifica tempestivamente eseguita, a fronte della mancata costituzione dell’opposto, risulti affetta da nullita` rilevata ex officio in prima udienza, non sembra potersi escludere la possibilita` di rinnovazione ex art. 291 c.p.c. (36); e) infine, in caso di tardiva costituzione dell’opponente, deve rammentarsi che la giurisprudenza ammette la proposizione di altra opposizione ove i termini di cui all’art. 641, comma 1º, c.p.c. non siano scaduti (37). Invece, in prospettiva, le possibilita` di rimediare all’irragionevole ed automatica strettezza dei termini di costituzione dell’opponente non passano solo per l’auspicabile ripensamento della Corte di cassazione ma anche attraverso l’invocabile rimeditazione (38) di questioni di legittimita` costituzionale prevalentemente respinte dal Giudice delle leggi sulla base dell’assunto che «e` lo stesso opponente a porre le premesse per la sua costituzione nel termine ridotto, avvalendosi della facolta` di dimidiare il termine di comparizione del debitore ingiunto» (39). Facolta` di cui non v’e` mai stata traccia nel diritto positivo ed oggi, a quanto pare, anche nel diritto vivente. Cosı` come non v’e` traccia di una valida ragione che giustifichi la dimidiazione dei termini di costituzione. Emanuele Ruggeri Dottore di ricerca
(35) Cass., sez. un., 4 maggio 2006 n. 10216. (36) Cass. 8 giugno 2004, n. 10825; Cass. 12 luglio 2000, n. 9233; Cass. 30 giugno 1998, n. 6410; Cass. 26 febbraio 1990, n. 1442; Cass. 18 gennaio 1990, n. 234. (37) Possibilita` ammessa da Cort. cost. 6 febbraio 2002, n. 18 e poi riconosciuta da Cass. 1º dicembre 2004, n. 22502 e dalla giurisprudenza di legittimita` successiva (v., da ultimo, Cass. 23 ottobre 2008, n. 25621). (38) Invece strumentalmente negata dalle Sezioni Unite nella sentenza in epigrafe. (39) Corte cost. 8 febbraio 2008, n. 18; Corte cost., 12 aprile 2005, n. 154; Corte cost. 23 giugno 2000, n. 239.
Corte di Cassazione, sez. II civ., sentenza 22 gennaio 2010, n. 2723 Pres. Elefante – Rel. Giusti Agresta Ada e altri c. Agresta Franco e altri
In conformita`al principio di ragionevole durata del processo, non deve essere concesso termine per eseguire la notificazione dell’impugnazione ai litisconsorti necessari ai sensi dell’art. 331 c.p.c., qualora l’impugnazione debba essere rigettata perche´ palesemente infondata nel merito (massima non ufficiale) (1). (Omissis). – Motivi della decisione. – Preliminarmente, va respinta l’istanza dei ricorrenti, formulata con la memoria illustrativa depositata in prossimita` dell’udienza, volta ad ottenere un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Eliseo Agresta e di Alberina Carmela Lovaglio, avendo l’originaria notificazione del ricorso nei loro confronti avuto esito negativo. E` bensı` vero che nella specie (giudizio di scioglimento di comunione) si versa in un caso di litisconsorzio necessario, anche nel grado di impugnazione, per cui sarebbe indispensabile l’impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti; con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari Eliseo Agresta e ad Alberina Carmela Lovaglio, a cui il ricorso non e` stato in precedenza notificato (per inesistenza materiale o giuridica della notifica stessa). Sennonche´, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle liberta` fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attivita` processuali e formalita` superflue perche´ non giustificate dalla struttura dialettica del processo, e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione del processo in condizioni di parita` (art. 111, secondo comma, Cost.) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale e` destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass., Sez. III, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. III, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. III, 23 dicembre 2009, n. 27129). In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi sub 3) prima facie infondato, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti to-
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talmente vittoriose nei gradi di merito, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettivita` dei diritti processuali delle parti. (Omissis).
(1) Note sulla «sollecita» e «sostanziale» definizione del giudizio alla luce del principio di ragionevole durata del processo e del nuovo art. 360 bis, comma 2º, c.p.c. 1. – Questa sentenza della Cassazione e` tra quelle che, lungi dall’arginare la trionfale ascesa del giusto processo, fornisce, quantomeno, un interessante spunto di riflessione per inquadrare le relazioni tra le diverse componenti giuridiche del due process (1). Nel caso in esame, concernente uno scioglimento di comunione (giudizio nel quale, come e` ben noto e come la Corte non manca di sottolineare, si realizza un litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102 c.p.c. anche nelle fasi di gravame) i giudici di legittimita` hanno ritenuto non necessario disporre il termine per integrare il contraddittorio (2) ai sensi dell’art. 331 c.p.c. nei confronti dei vincitori (in entrambi i gradi precedenti) non costituiti, termine appunto chiesto dal ricorrente, rilevando che, anche nel caso in cui tale termine fosse stato disposto, il ricorso sarebbe comunque andato incontro ad un sicuro rigetto, perche´ palesemente infondato in merito. Il ragionamento fatto dalla Suprema Corte appare chiaro: nessuna difesa degli assenti, nell’interesse dei quali doveva essere ricostituito il contraddittorio, avrebbe potuto portare loro un vantaggio maggiore di quello che essi effettivamente hanno avuto, ossia il rigetto per infondatezza del ricorso. Per dirla sempre con le parole della Cassazione, sentenza n. 26373/2008 (in merito ad una situazione simile (3))
(1) La l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, in Gazz. uff. 1999, n. 300, com’e` noto, ha modificato l’art. 111 Cost., introducendo, tra l’altro, un nuovo primo e secondo comma che recitano «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita`, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». (2) Sul contraddittorio v., in particolare, G. Martinetto, voce Contraddittorio, in Noviss. dig. it., vol. IV, Torino 1968, 569 ss.; F. Carnelutti, Limiti del Principio del Contraddittorio, in Riv. dir. proc. 1959, 641 ss.; V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc. 1975, 577 ss.; L.P. Comoglio, voce Contraddittorio, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., vol. IV, Torino 1989, 1 ss.; Id., voce Contraddittorio (principio del) (diritto processuale civile), in Enc. giur., vol. VIII, Roma 1997, 1 ss.; A. Gentili, Contraddittorio e giusta decisione nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2009, 745 ss. (3) Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, in versione integrale in Foro it. Rep. 2008, voce Diritti civili e politici, 178. In questo caso, il Supremo Collegio non ha ritenuto di concedere termine per la notificazione del ricorso ad una delle due parti totalmente vittoriose nel merito, rilevata la inammissibilita` e/o improcedibilita` del ricorso. Per il commento, v. A. Didone, Le Sezio-
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alla quale quella in nota si conforma, la parte nei confronti della quale non era stata notificata l’impugnazione non subisce «un effettivo e concreto pregiudizio (giuridicamente rilevante)», posto che «la sua eventuale partecipazione ad un processo dall’esito scontato non potrebbe apportare alcun utile contributo ai fini della giustizia della decisione». E` appena il caso di rilevare che un’idea simile deve aver portato alla scrittura del comma 5º dell’art. 95 del nuovo Codice del processo amministrativo. L’art. 95 (rubricato «Parti nel giudizio di impugnazione»), 5º comma, recita infatti: « Il Consiglio di Stato, se riconosce che l’impugnazione e` manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata puo` non ordinare l’integrazione del contraddittorio, quando l’impugnazione di altre parti e` preclusa o esclusa». 2. – Condivisibilmente (4) e facendo un ulteriore passo rispetto alla pronuncia appena citata, il Collegio ha deciso di respingere la richiesta di integrazione del contraddittorio in base ad una valutazione prognostica di infondatezza del ricorso, esercitando un potere che si basa su una lettura sistematica di norme processuali, lettura che si irradia dai principi di economia dei mezzi processuali (5) e di ragionevole durata del procedimento (6). In motivazione, infatti, si legge «occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (...) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attivita` processuali e formalita` superflue».
ni Unite e la ragionevole durata del «giusto» processo, in Giur. it. 2009, 669 ss.; L.P. Comoglio, Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice?, in Riv. dir. proc. 2009, 6, 1686 ss. (4) In senso favorevole a soluzioni simili adottate precedentemente dal Supremo Collegio, v. L.P. Comoglio, op. ult. cit., 1699, il quale afferma: «non mi sorprende affatto (ed, anzi, e` motivo di compiacimento) che la giurisprudenza oggi sappia tradurre non soltanto in astratti (e descrittivi) postulati di principio, sia pur ‘eticamente’ orientati verso l’attuazione piena di valori fondanti del giusto processo, ma anche in concreto provvedimenti lato sensu sanzionatori le indicazioni gia` ab origine presenti in norme-guida del c.p.c.». Si veda anche F. De Santis, La ragionevole durata, l’applicazione della norma processuale e la rimessione in termini: «percorsi» per un processo d’inizio secolo, in Riv. dir. proc. 2009, 4, 876 ss. (5) Sul quale v. l’essenziale L.P. Comoglio, Il principio di economia processuale, voll. I e II, Padova 1980-1982. (6) Al principio di ragionevole durata del procedimento ha fatto storicamente riferimento, prima della normativa nazionale, quella dei sistemi di integrazione regionale del diritto. Il riferimento e`, naturalmente, alla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta` Fondamentali, nei suoi artt. 6 e 13, richiamati dalla stessa Cassazione in motivazione. L’Italia ha dato attuazione all’art. 13 con la l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), prevedendo un indennizzo in caso di violazione del termine, da valutare, ai sensi dell’art. 2, comma 2º, rispetto alla «complessita` del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento».
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Tali principi, cosı`, non solo si palesano come entita` giuridiche immanenti al sistema positivo ma operano concretamente come bussole nell’interpretazione delle norme positive. Ed anzi, come autorevolmente affermato, il canone della ragionevole durata «appartiene allo strumentario ormai consolidato» della Corte, che lo userebbe soprattutto con due intenti: uno nomofilattico ed uno, non opportunamente, costituzionale (7) (basti qui ricordare, in questo secondo senso, la ormai celebre sez. un. n. 24883/2008, con la quale, nel piu` ampio rispetto del principio della ragionevole durata, il Collegio ha praticamente riscritto l’art. 37 c.p.c. (8)). Nella sentenza in commento, le norme positive interpretate alla luce dei principi sopra citati sono l’art. 175 c.p.c., che impone al giudice di esercitare tutti i poteri intesi al piu` sollecito e leale svolgimento del giudizio; e l’art. 127 c.p.c., che da` potere al giudice di fare quanto sia necessario affinche´ la trattazione avvenga in modo ordinato e proficuo. D’altra parte, non sembra essere un caso che proprio l’art. 175, comma 1º, c.p.c., sia stato oggetto di recente interesse da parte del legislatore, il quale probabilmente si era ispirato ai nuovi orientamenti giurisprudenziali. La disposizione, infatti, risultava modificata, in modo da dare consistenza normativa anche all’interno del codice di rito alla ragionevole durata, nella bozza di riforma del codice di rito del 2007 (9), anche se poi essa e` rimasta inalterata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69 (10). Ma, proprio in riferimento al principio di ragionevole durata del processo, vi e` di piu`. Esso non e` solo un canone interpretativo, ma viene ormai consacrato dagli ultimi arresti della Suprema Corte quale diritto soggettivo della parte (11) (la cui fattispecie costitutiva andrebbe individuata dell’art. 6, § 1, conv. eur. dir. uomo (12) azionabile attraverso i rimedi forniti dalla legge Pinto) ed e` destinato sempre piu` ad interagire, nel telaio del nostro processo civile, con altri importanti principi, ricavandosi una posizione di crescente importanza.
(7) Cosı` F. De Santis, op. cit., 877, 879. (8) Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, in Giust. civ. 2009, I, 47 ss. con nota di F. Nappi; in Foro it. 2009, 1, 806 ss., con nota di R. Poli; in Corriere giur. 2009, 372 ss., con nota di R. Caponi; in Giusto processo civ. 2009, 263 ss., con nota di G. Basilico. V., per un commento nello stesso senso del nostro testo, R. Vaccarella, Rilevabilita` del difetto di giurisdizione e translatio iudicii, in Giur. it. 2009, 406 ss. (9) Ci riferiamo alla bozza di riforma del Ministro della Giustizia Mastella che prevedeva di integrare il comma primo dell’art. 175 c.p.c. in questo modo: «il giudice assicura la ragionevole durata del processo ed esercita tutti i poteri intesi a consentirne il piu` sollecito e leale svolgimento». (10) La legge, recante «Disposizione per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita`, nonche´ in materia di processo civile», e` stata pubblicata in Gazzetta ufficiale il 19 giugno 2009. (11) Cosı` rendendosi autonomo, in realta`, anche dal principio di economia dei mezzi giuridici, principio che, nonostante le sue molte facce, difficilmente puo` sperare di assurgere a diritto della parte, perche´ dettato soprattutto nell’interesse del celere ed efficiente svolgimento del processo. (12) Cosı` L.P. Comoglio, Abuso dei diritti, cit., 1693-1694.
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3. – E` interessante rilevare come il tema della sentenza dettata inter pauciores, per motivi di economia processuale e ragionevole durata, si intrecci anche con il leit motiv dell’ordine d’esame delle questioni nel processo. Secondo un orientamento consolidato, seppur ultimamente «scricchiolante», basato su una rigida interpretazione dell’art. 276, comma 2º, c.p.c., il giudice deve controllare, prima di decidere il merito della controversia (merito che, secondo alcuni, dovrebbe essere deciso, a sua volta, secondo una prefissata progressione logico-giuridica), che sussistano i requisiti stabiliti dalla legge processuale perche´ il processo possa dirsi validamente iniziato e possa validamente continuare (13). In altri termini, alcune questioni, definite pregiudiziali di rito, condizionerebbero il proseguimento del giudizio, nel senso che il giudice, rilevata la carenza di un presupposto di correttezza (quantomeno formale) del procedimento, dovrebbe arrestare la sua attivita` nel caso in cui questo requisito non possa sopravvenire, ovvero disporre che venga sanato tale vizio di procedimento (a maggior ragione quando questo venga rilevato dalla parte). L’ordine d’esame delle questioni, cosı` inteso, viene ritenuto, inoltre, sempre vincolante. Applicando questo impianto logico alla fattispecie in commento, il giudice (14), una volta rilevata la correttezza della richiesta di parte ricorrente (poiche´, come si legge nella sentenza, viene accertata la «inesistenza materiale o giuridica della notifica stessa»), avrebbe dovuto disporre il termine ex art. 331 c.p.c. al fine di poter arrivare, nel contraddittorio tra le parti, a pronunciarsi sul merito del ricorso, essendo il contraddittorio, a voler essere riduttivi, quantomeno un presupposto
(13) In questo senso, in fattispecie simile, v. G. Costantino, in commento a Cass., 28 marzo 2006, n. 7079, in Foro it. 2006, 2778, per il quale «la legittimazione ad agire e a contraddire, quale e` appunto la questione relativa alla necessita` del litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102, comma 1º, c.p.c., e` una questione pregiudiziale di rito; essa deve essere affrontata prima ed indipendentemente dal merito». Piu` in generale sul tema dell’ordine delle questioni, ex plurimis, M. Fornaciari, Presupposti processuali e giudizio di merito. L’ordine di esame delle questioni nel processo, Torino 1996, nota (27) per i riferimenti bibliografici; G. Chiovenda, Principii di diritto processuale, Napoli 1923, 92 ss., 96 ss.; V. Andrioli, In tema di ordine nell’esame delle deduzioni nel processo civile, in Foro it. 1934, I, 78 ss.; E.T. Liebman, Figure e forme della rimessione della causa al collegio, in Riv. dir. proc. 1951, 299 ss.; F. Chicco, La prescrizione e l’ordine delle questioni, in Foro pad. 1967, I, 269 ss.; G.B. Origoni Della Croce, Precedenza della questione di giurisdizione rispetto a quella della competenza o della seconda rispetto alla prima?, in Riv. dir. civ. 1978, 697 ss.; C. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, vol. I, Padova 1985, 114 ss., 127 ss.; Id., Il cumulo condizionale di domande, vol. II, Padova 1985, 812. In giurisprudenza, cfr. Cass. 23 Gennaio 2009, n. 1696, in Foro it. Rep. 2009, voce Esecuzione in generale, 17; Cass. 13 aprile 1994, n. 3429, in Arch. Civ. 1994, 879; Cass. 21 gennaio 1992, n. 675, in Rass. giur. en. elett. 1993, 686; Cass. 23 giugno 1982, n. 3831, in Foro it. Rep. 1982, voce Danni civili, 112; Cass. 12 dicembre 1972, n. 3577, in Foro it. 1973, I, 1121; Cass. 30 maggio 1957, n. 1179, in Foro it. 1957, 1860. (14) Si ricorda, per completezza, che l’art. 276, comma 2º, c.p.c., e` applicabile al giudizio di Cassazione in forza del rinvio fatto dall’art. 380 c.p.c.
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di validita` del procedimento. Tutto cio` avrebbe inevitabilmente portato ad una dilatazione dei tempi processuali necessaria al fine degli adempimenti di notifica. Tale dilazione in presenza di un risultato gia` conosciuto, perche´ gia` esaminato, non avrebbe preservato l’equita` della pronuncia ma, secondo il Supremo Collegio, si sarebbe tradotta in un pregiudizio, non solo per i vincitori nei gradi di merito, futuri vincitori anche in Cassazione, per i quali la fine della lite sarebbe stata procrastinata piu` in la` nel tempo; ma anche per il ricorrente-futuro soccombente, poiche´ sarebbe stato piu` alto l’ammontare della liquidazione delle spese di lite per il giudizio dinanzi ai supremi giudicanti. Bene ha fatto, allora, il Collegio ad analizzare prima il merito e, una volta rilevata la infondatezza della domanda – infondatezza, peraltro, generosamente motivata dalla Suprema Corte (15) – a non concedere un termine per l’integrazione del contraddittorio, tutto questo evidentemente ad ordine delle questioni «invertito» (16). Lungi dal sembrare illogica o addirittura irrispettosa del sacrosanto diritto al contraddittorio (17), l’idea che il giudice possa dar rilievo all’ordine imposto dal caso singolo, effettuando un bilanciamento degli interessi concretamente in gioco al fine della piu` celere e giusta tutela, deve inevitabilmente abbracciare tutto, contraddittorio tra le parti incluso. Contraddittorio che, se costituisce l’unico metodo per raggiungere una decisione «dinamicamente» corretta, allo stesso modo non si configura quale presupposto indispensabile per una decisione che sia anche «staticamente» corretta (18).
(15) Per L.P. Comoglio, Abuso dei diritti, cit., 1687, soprattutto nota (2), in questi casi il giudice non dovrebbe essere tenuto a motivare: «in base all’ordine logico-giuridico delle questioni di rito discusse in sentenza, la Corte avrebbe potuto limitarsi a dichiarare ‘assorbito’ sic et simpliciter, senza bisogno di alcuna particolare motivazione, l’esame dell’istanza di concessione di un termine per la notificazione del ricorso ad un’altra parte ‘necessaria’ del giudizio di merito (ivi totalmente vittoriosa), ai sensi dell’art. 331 c.p.c, data ‘l’assorbente’ pregiudizialita` (preclusiva, come tale, di qualsiasi altro rilievo) della questione di inammissibilita` del ricorso, idonea da se´ sola a definire il giudizio di legittimita`». (16) Per altro verso, il Supremo Collegio e` attento anche nel rispettare l’ordine in cui le questioni gia` trattate e risolte debbano essere deliberate e motivate, ordine che a nostro modesto parere, e` l’unico ordine veramente vincolante in forza del combinato disposto dell’art. 276, comma 2º, c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. Nello stesso senso, F. Lancellotti, voce Sentenza civile, in Noviss. dig. it., vol. XVI, Torino 1969, 1124. (17) A tal proposito, emblematico e` l’incipit dello studio di A. De Pauli, La struttura della decisione rispetto all’ordine delle questioni, svolto in occasione dell’incontro organizzato dal CSM in data 20 febbraio 2009 e consultabile su www.appinter.csm.it/incontri/vis_relaz_inc.php?&ri=MTcyMTY%3D, che riportiamo «La rilevanza degli aspetti strutturali della decisione (e conseguentemente dell’ordine di trattazione delle questioni) va apprezzata con doveroso riguardo al sistema generale, che vede il processo civile ben scandito nel suo progredire secondo i principi di conservazione, conseguimento dello scopo ed economicita`, (...) nel (tendenziale) rispetto dei canoni costituzionali di giustizia (giusto processo e quindi giusta decisione) e di ragionevole durata. Il tutto nel rispetto assoluto del contraddittorio». (18) Non puo` essere questa la sede per sviscerare, come meriterebbe, il tema della necessita`
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In altri termini, nonostante l’ormai indiscussa importanza della parita` delle armi tra i litiganti, si fa strada sempre piu` la convinzione che il contraddittorio che il giudice e` chiamato a garantire sia quello sostanziale, effettivo. Quando, invece, si imbocchi la via del formalismo processuale, il contraddittorio e` destinato a cedere il passo. E, nel caso in commento, a cederlo a favore del diritto alla ragionevole durata, il quale, svettando ormai come il nuovo indice di misura per una piu` utile, sollecita, pronta, giusta tutela (19) (cosı` nei precedenti citati dalla Cassazione in motivazione: le sentenze nn. 26373/2008 (20), 15895/2009 (21), 18410/2009 (22), 27123/2009 (23)), informa di se´ la struttura stessa del giudizio, «vestendo» il singolo caso dell’ordine decisorio che piu` gli si addice. 4. – Prima di procedere sommessamente a qualche battuta finale, ci sia permesso di avventurarci (senza pero` levare l’a´ncora) in qualche considerazione su quello che potrebbe essere il rinnovato rapporto, non solo tra regole processuali e principi del giusto processo (rapporto questo che si puo` dire gia` disegnato dalla sentenza in commento e dai precedenti richiamati), ma anche tra tali principi stessi alla luce dell’ormai celebre «filtro» del ricorso per cassazione, considerando che, come visto, tali principi potrebbero anche esprimere esigenze fra loro contrastanti. Com’e` noto, la l. n. 69/2009, all’art. 47, ha abrogato l’art. 366-bis c.p.c, in materia di inammissibilita` del ricorso per cassazione, e ha introdotto (al suo posto?) l’art. 360 bis, collocandolo stavolta in esordio della disciplina del giudizio in cassazione. La disposizione aggiunge due ulteriori ipotesi di inammissibilita` rispetto a quelle ricavabili dall’art. 366 c.p.c. Naturalmente, la sentenza in commento nulla dice perche´ nulla avrebbe potuto dire ratione temporis in merito. Eppure le considerazioni svolte dalla Suprema Corte sui principi del giusto processo, hanno quasi il sapore di coraggiose prove tecniche su una cosı` plasmabile materia destinata a creare non pochi problemi ai giudici di legittimita`, soprattutto a quelli assegnati all’apposita sezione stralcio indicata al novellato primo comma dell’art. 376 c.p.c. (24).
processuale, otre che sostanziale, del contraddittorio ed il conseguente dibattito tra quanti sostengono che il contraddittorio sia l’unica via processuale che assicuri la bonta` della decisione e quanti, invece, ritengono che la giustizia del decisum dipenda da fattori intrinseci alla decisione stessa. Sul punto, da ultimo, si rinvia a A. Gentili, op. cit. (19) Secondo S. Chiarloni, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2008, 142, «il diritto d’azione dei cittadini risulta vulnerato se il sistema non garantisce una ‘durata ragionevole’ dei processi». (20) Cass., sez. un., 3 novembre 2008, n. 26373, cit. supra nota (3). (21) Cass. 7 luglio 2009, n. 15895, in Foro it. Rep. 2009, voce Cassazione Civile, n. 162. (22) Cass. 19 agosto 2009, n. 18410, in Foro it. Rep. 2009, voce Diritti civili e politici, n. 137. (23) Inedita. (24) Per una prognosi sulla difficolta` di tale compito, interessante perche´ fatta proprio da un Consigliere di Cassazione, v. R. Rordorf, Nuove norme in tema di motivazione e di ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc. 2010, 134, 143-145. La «Sezione filtro» operera` in linea di conti-
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Tralasciando il motivo enucleato al n. 1 dell’art. 360 bis, comma 1º, c.p.c. (25), l’attenzione in queste poche righe si concentrera` sul motivo di inammissibilita` di cui al n. 2, in base al quale il ricorso e` inammissibile «quando e` manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo». Tanti sono gia` i dubbi sollevati da attenta dottrina (26) – dubbi che in questa sede possono solo accennarsi – in merito alla formulazione e alle potenzialita` applicative dell’articolo in esame, il quale dovrebbe essere letto solo in chiave sperimentale (sic...!), come prodromico ad ulteriori sviluppi normativi, ma dal valore altamente simbolico (27). Intanto, una prima critica all’art. 360 bis c.p.c., complessivamente inteso, puo` essere mossa per il tentativo di introdurre una nuova categoria di inammissibilita` dovuta a manifesta infondatezza (28). Un piu` duro colpo alla bonta` della disposizione e` inferto, senza dubbio, dalla
nuita` con quella che era la «Struttura per l’esame preliminare dei ricorsi», ufficio del quale la Cassazione si era dotata in seguito all’inserimento dei motivi di manifesta inammissibilita` o infondatezza di cui all’art. 366 bis c.p.c. L’attuale Sezione filtro o stralcio e` composta, in ossequio alle novellate disposizioni del codice di rito, e all’art. 67 bis ord. giud., da magistrati appartenenti alle diverse sezioni semplici. Questo connotato strutturale e organizzativo assicura alla sezione un elevato grado di preparazione anche settoriale: ogni giudice della sezione filtro e` infatti chiamato ad analizzare ricorsi sulle stesse materie oggetto di esame della sezione di appartenenza. Davanti alla Sezione filtro, peraltro, pendono gia` ricorsi ai quali e` ratione temporis applicabile la nuova disciplina e, il 6 settembre 2009 con un’ordinanza la Cassazione si e` per la prima volta occupata del filtro. Per un primo commento, v. F.P. Luiso, La prima pronuncia della Cassazione c.d. filtro, consultabile su www.judicium.it. (25) Il n. 1 dell’articolo citato afferma che il ricorso e` inammissibile «quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa». L’introduzione del filtro si completa con le modifiche agli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c. e l’introduzione dell’art. 67 bis ord. giud., delineando cosı` non solo gli aspetti contenutistici ma anche quelli procedimentali. (26) Si rinvia, senza pretese di completezza, a A. Briguglio, Ecco il «filtro»! (l’ultima riforma del giudizio in Cassazione), in Riv. dir. proc. 2009, 5, 1275 ss.; F. Carpi, Il tormentato filtro in Cassazione, in Corriere giur. 2009, 11, 1443 ss.; A. Carratta, Il «filtro» al ricorso per cassazione fra dubbi di costituzionalita` e salvaguardia del controllo di legittimita`, in Giur. it. 2009, 1563 ss.; C. Consolo, Una buona ‘‘novella’’ al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di la` della sola dimensione processuale, in Corriere giur. 2009, 6, 737 ss.; A. Didone, Note minime sul quesito di diritto ex art. 366-bis c.p.c. e sul nuovo «filtro» in Cassazione, in Corriere giur. 2009, 6, 847 ss.; G. Raiti, Brevi note sul «filtro» in Cassazione secondo la legge di riforma al codice di rito civile 18 giugno 2009, n. 69, in Riv. dir. proc. 2009, 6, 1601 ss.; L. Salvaneschi, La riduzione del tempo del processo nella nuova riforma dei primi due libri del codice di rito, in Riv. dir. proc. 2009, 6, 1506 ss. (27) Cosı` C. Consolo, op. ult. cit., 440, che peraltro rinvia alle considerazioni di A. Briguglio, op. ult. cit. (28) Cosı` R. Rordorf, op. cit., 141; L. Salvaneschi, op. cit., 1580. Come e` stato notato, proprio R. Rordorf, op. loc. ult. cit., la questione non e` meramente terminologica: si pensi che, ai
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(nociva o benefica (29), a seconda delle personali convinzioni in tema di poteri del giudice) vaghezza del concetto «violazione dei principi del giusto processo». Ebbene, quali dovrebbero essere queste violazioni o, rectius, tutte le violazioni delle norme processuali lamentabili in Cassazione sarebbero allo stesso tempo violazione di tali principi? In base ai primi commenti degli addetti ai lavori, la disposizione dovrebbe riferirsi al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. (e quindi ai vizi determinanti la nullita` della sentenza o del procedimento) (30), configurando, cosı`, la categoria dei gravi errores in procedendo da sanzionare, come si e` visto, con l’inammissibilita` anziche´ con l’infondatezza (31). Questa possibile distinzione tra errores piu` gravi ed errores meno gravi non risolve, comunque, il problema di stabilire se, come detto, tutte le violazioni della legge processuale implichino automaticamente una violazione dei principi del giusto processo (32). Se cosı` fosse, evidentemente «la norma mostrerebbe una certa intrinseca superficialita`» (33), determinando solo la trasformazione di ipotesi di rigetto del ricorso in ipotesi di inammissibilita`. Diversamente opinando, il rischio che si corre e` che, anziche´ «filtrare» i ricorsi, il nuovo art. 360 bis, n. 2, c.p.c. limiti la proponibilita` delle censure di cui all’art. 360, comma 1º, n. 4 c.p.c., con conseguente disapplicazione delle norme processuali che non abbiano dignita` di veicolare i principi del giusto processo. Dal canto nostro, quindi, ci auguriamo che la norma passi alla storia piu` per la sua superficialita` che non per la sua forza sovversiva del sistema processuale. In effetti, lungi dal rivelarsi una pozione dall’immediato effetto deflattivo del contenzioso che obera la Corte, il «filtro» impegnera` non poco la Cassazione, che dovra`, prima di poterlo usare, stabilirne le linee essenziali (in maniera piu` incisiva, si spera, rispetto a quanto fatto nell’ordinanza citata), avventurandosi, almeno, per
sensi dell’art. 334 c.p.c., la pronuncia di inammissibilita` del ricorso principale, infatti, diversamente da quella di rigetto, travolge con se´ il ricorso incidentale tardivamente proposto. (29) A. Briguglio, op. cit., 1276, parla di «carattere taumaturgico ovvero diabolico del filtro». (30) Per completezza, sia detto che maggiori incertezze desta la possibilita` di applicare il filtro alle censure di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., e cioe` ai vizi (e, di nuovo, quali vizi?) di motivazione del provvedimento impugnato. Per parte della dottrina, tutti i vizi della motivazione rientrerebbero tra quelli la cui violazione comporterebbe una lesione all’equo processo, poiche´ la motivazione del provvedimento giurisdizionale e` decisamente uno degli elementi che rende «giusto» un processo. Altri autori, partendo dalla distinzione tra difetto relativo e difetto assoluto di motivazione, considerano solo il secondo riconducibile agli error in procedendo e quindi suscettibile di essere ricompreso nell’art. 360 bis, comma 2º, n. 2. Per un approfondimento, si vedano gli autori citati supra, nota (26). (31) Cosı` F. Carpi, op. cit., 1446; L. Salvaneschi, op. cit., 1581. (32) In questo senso A. Briguglio, op. cit., 1287, nell’ambito, pero`, di una particolare ricostruzione del n. 2 dell’art. 360 bis c.p.c. come una norma di chiusura per i casi «non riconducibili o scomodamente» ai motivi di cui al n. 1 dello stesso articolo. (33) F. Raiti, op. cit., 1609. Interpretata in questo senso, la norma sarebbe riduttiva anche per R. Rordorf, op. cit., 142, ma sicuramente piu` chiara.
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quanto riguardo l’art. 360 bis, n. 2, c.p.c., su un territorio seducente ma, fino a qualche anno fa, inesplorato, e cioe` il territorio del bilanciamento tra principi storicamente riservato alla Consulta, la quale, si aggiunga incidentalmente, potrebbe anche non pensarla allo stesso modo della Suprema Corte (34). Un ulteriore campo di battaglia nella guerra tra le Corti? Non ce lo auguriamo, soprattutto alla luce del fatto che la Suprema Corte, in questo clima di instabilita` degli strumenti processuali forniti dal legislatore (35) e d’insufficienza di risorse (36), continua eroicamente – sperando che l’eroe di riferimento non sia Don Chisciotte – a consacrare il processo civile come uno «strumento» e ad affermare l’idea che il «giusto processo ha direttamente a che fare con la giustizia del suo risultato» (37). Giuseppina Fanelli Dottorando di ricerca nell’Universita` di Roma «La Sapienza»
(34) Sempre riferendoci al contrasto tra il principio del contraddittorio ed il principio della ragionevole durata che ci ha occupato, si puo` ricordare un recente arresto nel quale i Giudici delle leggi hanno affermato che «il principio di ragionevole durata del processo non puo` comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali che in esso sono coinvolti». Cosı`, Corte cost., ord., 19 novembre 2002, n. 458. Per un accenno al conflitto tra la ragionevole durata e il profilo dei rimedi contro i provvedimenti del giudice, si veda S. La China, op. cit., 1121-1122, che si pone il problema «di fino a che punto sia ragionevole, e da che punto diventi irragionevole, il regime delle contestazioni, rimedii, opposizioni, impugnazioni dei provvedimenti di giudice, posto che ogni impugnazione (inteso il termine qui in senso lato ed onnicomprensivo dei varii accennati strumenti) e` sı` una garanzia ma e` anche un allungamento dei tempi del processo, con il paradossale effetto che da garanzia oggettiva a favore di ambedue i contendenti, a ciascuno dei quali puo` ahime` capitare di averne bisogno, si puo` convertire spesso in garanzia per uno e in perdita di garanzia per l’altro». (35) Evidentemente, tutto questo parlare di filtro, evoca uno scenario quasi favolistico non solo per noi, ma anche per A. Briguglio, op. cit., 1279. L’a., infatti, figurandosi la possibilita` che il filtro non sia soddisfacente al pari di quanto non lo sono stati i quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., dipinge il legislatore come un’apprendista stregone, aggiungendo, pero`, che l’aggravante del caso stia nel fatto che «gli esperimenti e catena ed in frenetica successione riguardano niente meno che la Corte di Cassazione». (36) Si ricordi che, stando ai dati indicati nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2009 del Primo Presidente, il numero dei magistrati di cassazione e` 357 in organico, dei quali coperti nel 2009 effettivamente 267, con ben 90 vacanze. Spicca per positivita` solo il rendimento di ciascun singolo Consigliere (nel 2009 sono pervenuti alla Corte 28.418 ricorsi in materia civile, e ne sono stati definiti complessivamente 31.257). (37) Cosı` S. Chiarloni, op. cit., 145, per il quale «il processo e` giusto nella misura in cui sia strutturato in modo da garantire, nei limiti del possibile, la giustizia del risultato».
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OSSERVATORIO SULLA CORTE COSTITUZIONALE (PROCESSO CIVILE: 1º NOVEMBRE – 31 DICEMBRE 2010) (*)
Sommario: 1. Norme investite da ordinanze di rimessione giunte alla Corte. – 2. Questioni dichiarate inammissibili. (1)
1. – Sono giunte alla Corte ordinanze di rimessione aventi ad oggetto le seguenti norme: – artt. 149 e 150 d. lgs. 7 settembre 2005 n. 209 (c.d. codice delle assicurazioni private) e 9 d.p.r. 18 luglio 2006 n. 254 (contenente il regolamento del risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, ai sensi dello stesso art. 150 d. lgs. n. 209/2005 cit.), nella parte in cui tali norme introducono un irragionevole favor per le societa` di assicurazioni a svantaggio del consumatore, il quale, al fine di evitare le spese per l’assistenza legale, non risarcibili, dovra` sottostare alle condizioni offerte dalla propria compagnia assicurativa, senza preventiva tutela, e nella parte in cui risultano altresı` esclusi gli onorari legali per l’attivita` stragiudiziale, per contrarieta` agli artt. 3, 24 e 76 Cost. (Giudice di Pace Cagliari 6 febbraio 2008, in Gazz. uff. 10 novembre 2010, n. 45); – art. 2, comma 212º, l. 23 dicembre 2009 n. 191 (contenente disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), nella parte in cui prevede l’obbligo del pagamento del contributo unificato in caso di proposizione di ricorso al Giudice di Pace contro verbali comminanti sanzioni amministrative, per contrarieta` agli artt. 3 e 24 Cost. (Giudice di Pace Fermo 22 aprile 2010, in Gazz. uff. 17 novembre 2010, n. 46); – artt. 138 e 139, comma 2º, c.p.c., nella parte in cui non dispongono di presidi analoghi a quelli previsti per la notificazione a mezzo posta, per contrarieta` agli artt. 3 e 24 Cost. (Trib. Nocera Inferiore 8 luglio 2009, in Gazz. uff. 17 novembre 2010, n. 46); – art. 499, comma 1º, c.p.c., nella parte in cui autorizza l’intervento nell’esecuzione forzata solo di coloro che, nei confronti del debitore, oltre ad avere un cre-
(*) Questa rubrica tiene conto delle Gazzette Ufficiali pubblicate nel periodo indicato, salve deroghe eccezionali.
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dito fondato su titolo esecutivo, abbiano eseguito un sequestro sui beni pignorati oppure vantino un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante dai pubblici registri oppure siano titolari di un credito pecuniario risultante dalle scritture contabili ex art. 2214 c.c., per contrarieta` agli artt. 3, 24 e 111 Cost. (Trib. Napoli – Sezione distaccata di Pozzuoli 15 luglio 2009, in Gazz. uff. 15 dicembre 2010, n. 50). 2. – Con ordinanza n. 322 del 3 – 11 novembre 2010 (Gazz. uff. 17 novembre 2010, n. 46) la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione sollevata da Trib. Cagliari il 28 novembre 2009 avente ad oggetto l’illegittimita` costituzionale, in relazione agli artt. 3, 24 e 111, comma 1º e comma 2º, Cost., degli artt. 709, comma 4º, e 709-ter c.p.c., nella parte in cui tali norme non consentono di sottoporre a reclamo davanti al tribunale, in composizione collegiale, le ordinanze del giudice istruttore in materia di revoca o modifica dei provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente del tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art. 708, comma 3º, c.p.c. La questione e` stata dichiarata inammissibile per omessa verifica della possibilita` di un’interpretazione costituzionalmente conforme (essendosi formato in giurisprudenza un orientamento, che afferma, come auspicato dal rimettente, la reclamabilita` dei provvedimenti emessi dal giudice istruttore nei processi de quibus, mediante il rimedio del rito cautelare uniforme ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c.). Con ordinanza n. 336 del 15 – 24 novembre 2010 (Gazz. uff. 1º dicembre 2010, n. 48) la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione sollevata da Trib. S. Maria Capua Vetere il 22 ottobre 2009 avente ad oggetto l’illegittimita` costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost., degli artt. 1, comma 3º, e 19, lett. b), l. 24 dicembre 1969 n. 990 (in materia di assicurazione obbligatoria della responsabilita` civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, la prima norma in particolare come modificata dal d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, convertito in l. 26 febbraio 1977 n. 39), nella parte in cui tali norme, nel loro combinato disposto, non estendono il diritto all’indennizzo dei danni subı`ti dalla circolazione illegale di un veicolo non assicurato, oltre che ai trasportati contro la propria volonta`, anche ai trasportati che siano inconsapevoli della circolazione illegale del veicolo stesso. La questione e` stata dichiarata inammissibile, a prescindere dal fatto che le norme denunciate sono state nel frattempo abrogate dal d. lgs. 7 settembre 2005 n. 209 (essendo le norme stesse comunque applicabili al caso di specie ratione temporis), per inesistenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. Con ordinanza n. 363 del 13 – 17 dicembre 2010 (Gazz. uff. 22 dicembre 2010, n. 51) la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni sollevate dal Presidente della Sezione specializzata agraria del Trib. Ancona il 18 aprile 2009 aventi ad oggetto l’illegittimita` costituzionale, in relazione agli artt. 2, 3, 24 e 97 Cost., dell’art. 669-terdecies c.p.c., nella parte in cui tale norma non contempla espressamente la reclamabilita` dell’ordinanza cautelare emessa dalla Sezione agraria specializzata del Tribunale e non attribuisce tale potesta` cautelare al Presidente della Sezione stessa, e dell’art. 26, comma 3º, l. 11 febbraio 1971 n. 11 (con-
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tenente la disciplina dell’affitto dei fondi rustici, ove non ritenuto implicitamente abrogato per contrasto con gli artt. 669-sexies, comma 1º e comma 2º, 669-terdecies e quaterdecies c.p.c. Le questioni sono state dichiarate inammissibili per mancanza di descrizione della fattispecie sottoposta al vaglio del rimettente nel giudizio a quo, e comunque anche perche´ premature e puramente ipotetiche. Niccolo` Nisivoccia Avvocato in Milano
OSSERVATORIO SULLE SEZIONI UNITE CIVILI (PROCESSO CIVILE: 1º OTTOBRE-30 NOVEMBRE 2010)
Sommario: 1. Avvocato. – 2. Giurisdizione. – 3. Giurisdizione civile e amministrativa. – 4. Opposizione a sanzione amministrativa. – 5. Tribunale regionale delle acque pubbliche. – 6. Tribunale superiore delle acque pubbliche. 1. – (8 novembre 2010, n. 22623 – Pres. Vittoria, Rel. Botta) La controversia concerne l’impugnazione innanzi al Consiglio nazionale forense del provvedimento con il quale il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Siena deliberava negativamente sulla domanda di iscrizione all’albo presentata da un’insegnante elementare, nonostante questa avesse compiuto il periodo della prescritta pratica forense e superato la prova orale degli esami di avvocato. La ragione del rigetto della domanda di iscrizione era indicata nella circostanza che «l’attivita` di insegnante elementare, retribuita con stipendio a carico del bilancio dello Stato, non e` compresa tra le eccezioni di cui all’art. 3, comma 4º, lett. a), r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578». Il Consiglio nazionale forense rigettava il ricorso e l’interessata ricorreva per cassazione. Le Sezioni unite fanno riferimento alla sentenza Corte costituzionale 21 novembre 2006, n. 390, secondo cui l’eccezione al regime di incompatibilita` stabilita dall’art. 3, comma 4º, lett. a), deve essere considerata «alla luce del principio costituzionale della liberta`dall’insegnamento (art. 33 Cost.), dal quale discende che il rapporto di impiego (ed il vincolo di subordinazione da esso derivante), come non puo` incidere sull’insegnamento (che costituisce la prestazione lavorativa), cosı`, ed a fortiori, non puo` incidere sulla liberta`richiesta dall’esercizio della professione forense». Alla luce della ratio della norma, secondo la Corte di cassazione, appare piuttosto evidente la irragionevolezza di circoscrivere l’eccezione ai soli docenti universitari e agli insegnanti degli istituti secondari, escludendo gli insegnanti elementari, i quali godono della medesima «liberta` di insegnamento» ed esercitano una identica funzione, come emerge immediatamente dal d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, che tratta unitariamente, nel quadro dell’istruzione obbligatoria, scuola elementare e scuola media. La prima, «nell’ambito dell’istruzione obbligatoria, concorre alla formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversita` individuali, sociali e culturali... e si propone lo sviluppo della personalita` del fanciullo promuovendone la prima alfabetizzazione culturale» (art. 118); la seconda, «concorre a promuovere la formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e favorisce l’orientamento dei giovani ai fini della scelta dell’attivita` successiva» (art. 161). La funzione docente e`, anch’essa, espressione di una scelta legislativa che non distingue scuola elementare e scuola media, affermando
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che «la funzione docente e` intesa come esplicazione essenziale dell’attivita` di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalita`». Unitariamente, infine, e` trattato il reclutamento del personale docente, che, per essere impiegato nella scuola elementare, deve essere in possesso di un diploma di laurea (art. 3, l. 19 novembre 1990, n. 341, art. 1, l. 20 maggio 1982, n. 270). L’irragionevolezza dell’esclusione degli insegnanti elementari dall’area di eccezione all’incompatibilita` generale con la professione forense, ad avviso dei giudici, puo` peraltro trovare un possibile rimedio per via interpretativa nonostante l’indiscutibile carattere eccezionale della norma di cui all’art. 3, comma 4º, lett. a) r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, carattere che, pur precludendone un’interpretazione analogica, ne consente tuttavia una interpretazione estensiva. Nel caso di specie si tratta non di stabilire una nuova eccezione alla «regola», bensı` di esplicitare quanto e` gia` individuabile nel contenuto della norma in coerenza con l’identita` di quanto espressamente previsto. Tanto piu` cio` sembra ammissibile, in quanto nella fattispecie, mediante l’interpretazione estensiva, e` possibile dare una lettura costituzionalmente orientata della norma, che, altrimenti, sembrerebbe disporre una discriminazione «irragionevole» e per questo in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza. In tal modo la Corte supera l’eccezione di illegittimita` costituzionale dell’art. 3, comma 4º, lett. a) r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578. 2. – (8 novembre 2010, n. 22626 – Pres. Vittoria, Rel. Macioce) I proprietari di aree site nel comune di Brindisi e da questi occupate e trasformate per la realizzazione di un PEEP, sul rilievo della esistenza di aree residue non coinvolte nell’espropriazione, chiesero al comune di procedere alla loro acquisizione ex art. 23, l. 25 giugno 1865, n. 2359 ed impugnarono innanzi al Tar il diniego frapposto dal comune, chiedendo l’annullamento del diniego ed il risarcimento del danno correlato al valore dei suoli relitti. Il Tar Lecce ha accolto l’impugnazione, ordinando al Comune di procedere alla chiesta acquisizione delle aree, con il correlato indennizzo. La sentenza e` stata gravata dal comune di Brindisi solo per la parte relativa al merito. Il Consiglio di Stato, premesso che oggetto della decisione era solo il diniego di procedere alla acquisizione ex art. 23, l. 25 giugno 1865, n. 2359 e che ne restavano escluse tutte le questioni risarcitorie afferenti altre aree, ha considerato come fosse esatto il rilievo del comune per il quale non sussistevano le condizioni per considerare le aree non espropriate come relitti inutilizzabili o come fondi svuotati di utilita` ed ha pertanto rigettato il ricorso iniziale. Per la cassazione di tale decisione hanno proposto ricorso i privati, facendo valere, per la prima volta, la questione di giurisdizione. Le Sezioni unite rilevano prima facie che la cognizione del motivo afferente la giurisdizione, l’unico prospettabile in questa sede, essendo sottratti alla cognizione ex art. 362, comma 1º, c.p.c. anche i vizi attingenti i principi regolatori del giusto processo ascritti alla decisione del giudice speciale, e` irrimediabilmente preclusa. Le Sezioni unite, nel solco della nota pronunzia del 9 ottobre 2008, n. 24883, hanno precisato (Cass., sez. un., 11 febbraio 2010, n. 3200 e Cass., sez. un., 25 giugno 2009, n. 14889) che sorge preclusione all’esame da parte delle Sezioni unite della questione di giurisdizione se la parte poi ricorren-
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te in cassazione non abbia proposto specificamente appello principale od incidentale avverso la decisione implicitamente affermativa della potestas judicandi adottata dal primo giudice. Secondo i ricorrenti non sarebbe maturata preclusione rispetto al rilievo del difetto di giurisdizione, perche´ essi non avevano ragione di appellare nel merito la sentenza del Tar che aveva accolto il profilo principale del loro petitum. I giudici ritengono che questa tesi non merita diffusa confutazione, essendo frutto di evidente confusione tra interesse ad appellare per il merito ed interesse ad appellare, anche in via incidentale, per la giurisdizione pur essendo vittoriosi nel merito (e quando si intenda esercitare uno jus poenitendi rispetto alla propria scelta del giudice). I giudici hanno poi affrontato un secondo profilo, quello riguardante il quesito di diritto. Il requisito ratione temporis applicabile anche nei riguardi delle sentenze dei giudici speciali non risulta formulato con specificita` e pertinenza rispetto alla decisione del Consiglio di Stato. Nella fattispecie le relative formule si risolvono nella mera esposizione della tesi astratta e conclusiva per la quale la giurisdizione del giudice civile sarebbe evidente e non preclusa, mentre non risulta alcun cenno alla concreta fattispecie. 3. – (7 ottobre 2010, n. 20782 – Pres. Vittoria, Rel. Tirelli) Un soggetto ha convenuto il Comune di Camposano davanti al Tribunale di Nola per sentirlo condannare al rimborso delle spese sostenute per la difesa in un processo penale iniziato a suo carico per fatti commessi nella qualita` di sindaco e presidente della commissione edilizia comunale; il Tribunale ha tuttavia dichiarato il proprio difetto di giurisdizione per essere la controversia riservata alla cognizione del giudice amministrativo. Il soggetto si rivolgeva pertanto al Tar Campania, che a sua volta declinava la giurisdizione, perche´ la domanda atteneva «all’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo pieno». Tizio ha sollevato il conflitto davanti alle Sezioni unite. Queste si erano gia` pronunciate sulle domande di rimborso delle spese di difesa sostenute da un assessore, un vice sindaco ed un consigliere comunale, stabilendo che la giurisdizione su di esse spettava al giudice civile perche´ trattavasi di soggetti la cui condizione, anche economica, era direttamente regolata dalla legge che, pertanto, attribuiva alla pretesa dai medesimi avanzata la consistenza di vero e proprio diritto soggettivo (Cass., sez. un., 9 aprile 2008, n. 9160). In applicazione di questo principio, condiviso e ribadito, e` stata affermata la giurisdizione del giudice civile, con conseguente rimessione delle parti davanti al Tribunale di Nola previa cassazione della sentenza da quest’ultimo emessa. (7 ottobre 2010, n. 20776 – Pres. Vittoria, Rel. Rordof) Una fondazione, costituita dalla Regione Piemonte, dalla Provincia di Torino e dalla Citta` di Torino, ha proposto ricorso per regolamento di giurisdizione nell’ambito di un giudizio iscritto nel registro del Tar Piemonte. Tale giudizio era stato promosso dalla societa` Lingotto Fiere, che ha impugnato una serie di atti riguardanti, una gara di appalto indetta dalla fondazione, in vista della cessione ad un socio privato della partecipazione maggioritaria nella Parcolimpico s.r.l. e della concessione a quest’ultima della gestione degli impianti realizzati in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006, chiedendo inoltre il risarcimento dei danni per essere stata illegittimamente esclusa dalla gara. Il difetto di giurisdizione del Tar lamentato dalla Fondazione
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investe le domande volte a far dichiarare la nullita` e l’inefficacia dei contratti da essa stipulati all’esito della gara, dopo l’aggiudicazione, con due societa`. Le Sezioni unite ritengono che nella decisione occorre tener conto della sopravvenuta modifica legislativa che l’art. 7, d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, ha apportato al testo dell’art. 244, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 aggiungendo al comma 1º il seguente periodo: «la giurisdizione esclusiva si estende alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione e alle sanzioni alternative». Pertanto, sottolinea la Corte, che anche se si volesse dubitare, nella presente causa, dell’originaria competenza giurisdizionale del Tar, difficilmente la si potrebbe ora negare, alla stregua della suddetta novita` normativa. A questo proposito richiama il principio consolidato per il quale l’art. 5 c.p.c. (anche nel testo novellato dall’art. 2, l. 26 novembre 1990, n. 353, art. 2), laddove esclude la rilevanza dei mutamenti in corso di causa della legge – oltre che dello stato di fatto – in ordine alla determinazione della competenza e della giurisdizione, va interpretato in conformita` alla sua ratio, che e` quella di favorire, non gia` d’impedire, la perpetuatio iurisdictionis. Sicche´, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della proposizione della domanda, non possono l’incompetenza o il difetto di giurisdizione essere dichiarati se quel giudice sia diventato competente in forza di legge entrata in vigore nel corso del giudizio. D’altro canto, gia` prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 20 marzo 2010, n. 53, le Sezioni unite, modificando un proprio precedente orientamento, avevano affermato che, nelle controversie relative a procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, la direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE – recante modifica delle direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE sul «miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso» nella materia – imponendo agli Stati membri di assicurare che un contratto risultante da un’aggiudicazione illegittima sia «considerato privo di effetti da un organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice» e prevedendo l’attuazione di principi corrispondenti a quelli di concentrazione, effettivita` e ragionevole durata del giusto processo disegnati negli artt. 24 e 111 Cost., puo` utilizzarsi un’interpretazione costituzionalmente e, quindi, comunitariamente (ex art. 117 Cost.) orientata delle norme sulla giurisdizione. Percio` nelle predette controversie – anche se relative ad una gara svoltasi, dopo la pubblicazione della direttiva, ma prima del termine indicato per la sua trasposizione nel diritto interno (20 dicembre 2009) – va riconosciuto rilievo alla connessione tra le domande di annullamento dell’aggiudicazione e di caducazione del contratto di appalto concluso a seguito dell’illegittima aggiudicazione, con la conseguente attribuzione di entrambe alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 244, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (Cass., sez. un., 10 febbraio 2010, n. 2906 e 5 marzo 2010, n. 5291). La giurisdizione, percio`, e` stata riconosciuta in capo al giudice amministrativo anche per quel che riguarda le domande volte a far dichiarare la nullita` o l’inefficacia dei contratti stipulati all’esito della contestata aggiudicazione. 4. – (18 novembre 2010, nn. 23285-6 e 22 novembre 2010, n. 23594 – Pres. Vittoria, Rel. Bucciante) Le prime due controversie hanno avuto inizio una davanti al Giudice di pace di Misilmeri e l’altra davanti al Giudice di Pace di Cefalu`. En-
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trambi hanno respinto un’opposizione avverso il verbale con cui gli era stata contestata la violazione di norme in materia di circolazione stradale. In entrambe le cause veniva adito in appello, il Tribunale di Termini Imerese che ha dichiarato la propria incompetenza per territorio, rilevando che il gravame, a norma dell’art. 7, r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, avrebbe dovuto essere rivolto al Tribunale di Palermo. Quest’ultimo, davanti al quale le cause erano state riassunte, con ordinanza ha richiesto di ufficio il regolamento di competenza, ritenendo che nella specie non fosse applicabile la regola del «foro erariale». Nella terza controversia, il Giudice di pace di Desio ha respinto l’opposizione avverso un’ordinanza ingiunzione con la quale il Prefetto di Milano aveva irrogato una sanzione pecuniaria, per violazione di norme in materia di circolazione stradale. Adito in appello dal soccombente, il Tribunale di Monza, sez. di Desio, ha dichiarato la propria incompetenza per territorio, ritenendo che il gravame avrebbe dovuto essere rivolto al Tribunale di Milano, a norma dell’art. 7, r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611. La sentenza e` stata impugnata con istanza di regolamento, chiedendo che venisse affermata la competenza del Tribunale di Monza, sez. di Desio. Il ricorrente lamenta anzitutto che il Tribunale ha dichiarato la propria incompetenza per territorio, anche se la questione, ex art. 38 c.p.c., era ormai preclusa in quanto non aveva formato tempestivamente oggetto di eccezione di parte, ne´ di rilievo di ufficio. Ritiene la Corte che la norma richiamata si riferisce esclusivamente al giudizio di primo grado. L’individuazione del giudice di appello, ex art. 341 c.p.c., attiene a una «competenza » territoriale del tutto sui generis, che prescinde dai comuni criteri di collegamento tra una causa e un luogo. Dipende indefettibilmente dalla sede del giudice a quo, sicche´ e` dotata di un carattere prettamente funzionale che impedisce il definitivo suo radicamento presso un giudice diverso, per il fatto che la questione non sia stata posta in limine litis. Il ricorrente inoltre deduce che erroneamente il Tribunale ha ritenuto applicabili le regole del «foro erariale». Su quest’ultima questione, le Sezioni unite svolgono una motivazione uniforme in tutte e tre le sentenze. La disciplina dei giudizi di opposizione ai provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative, dettata dagli artt. 22 e 23, l. 24 novembre 1981, n. 689, sanciva originariamente la diretta ricorribilita` per cassazione delle sentenze e delle ordinanze di inammissibilita` o di convalida pronunciate dal pretore, al quale in via esclusiva era demandata la cognizione di quelle cause. Successivamente, in seguito all’istituzione del giudice unico di primo grado, l’art. 22-bis della stessa legge, inserito dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, art. 98 ha distribuito la competenza, secondo criteri di materia e di valore, tra il Giudice di pace e il Tribunale, mantenendo ferma quella per territorio del giudice del luogo in cui e` stata commessa la violazione. Infine, l’art. 26, d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, modificando l’art. 23, l. 24 novembre 1981, n. 689, ha disposto che le sentenze e le ordinanze di convalida (ma non anche quelle di inammissibilita`) sono soggette ad appello. Osservano le Sezioni unite che il legislatore si e` limitato ad assoggettare ad appello le sentenze e le ordinanze di cui si tratta, senza null’altro disporre. Ne consegue che nel giudizio di gravame vanno osservate, in quanto applicabili e nei limiti della compatibilita`, le norme ordinarie che disciplinano lo svolgimento di quello di primo grado davanti al tribunale, come dispone l’art. 359 c.p.c. L’introduzione di una deroga a questo generale principio – mediante l’e-
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stensione al procedimento di appello di tutte o alcune delle speciali regole dettate per il primo (e allora unico) grado di merito delle cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative – avrebbe potuto essere ravvisata soltanto in presenza di un’esplicita disposizione in tal senso. D’altra parte, le particolari norme procedurali dettate in materia di sanzioni amministrative, seppure fossero applicabili anche in appello, risulterebbero evidentemente del tutto ininfluenti ai fini dell’individuazione del giudice cui proporre il gravame, tranne semmai quella che consente la difesa personale delle parti, che pero` e` puramente facoltativa ed eventuale e perde di rilevanza a fronte della mancanza di una espressa previsione legislativa di «ultrattivita` del rito». La ragione per la quale va dichiarata la competenza del Tribunale di Termini Imerese e di quello di Desio risiede invece nella estraneita` dei giudizi in materia di sanzioni amministrative alla regola del «foro erariale», stabilita per la generalita` delle «cause nelle quali e` parte un’amministrazione dello Stato» dall’art. 25 c.p.c. L’applicazione di questa norma e` tuttavia esclusa dall’art. 7, comma 1º, r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, tra l’altro, «per i giudizi innanzi ai pretori», ma riaffermata dal comma 2º per «l’appello dalle sentenze dei pretori... pronunciate nei giudizi suddetti». Investita della questione relativa alla perdurante vigenza di tali disposizioni, che non sono state aggiornate in seguito all’abolizione del giudice unico di primo grado, le stesse Sezioni unite hanno deciso che le controversie che, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, erano attribuite alla competenza del pretore per limiti di valore e che sono, in base al vigente art. 9 c.p.c. ed all’art. 244, d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 di competenza del tribunale in composizione monocratica, sono soggette alle regole processuali del c.d. foro erariale di cui all’art. 25 c.p.c. e all’art. 6, r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, dovendosi ritenere implicitamente abrogato per incompatibilita` in parte qua l’art. 7, r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, che stabiliva l’inapplicabilita` della regola del foro erariale nelle cause di competenza del pretore, soggiungendo pero` che cio` non esclude che la disciplina del foro erariale sia derogata, per effetto di specifiche disposizioni del legislatore (controversie previdenziali, di opposizione a sanzioni amministrative, sulla disciplina dell’immigrazione, di convalida di sfratto), ogni volta che sia manifesto l’intento di determinare la competenza per territorio sulla base di elementi diversi ed incompatibili rispetto a quelli risultanti dalla regola del foro erariale e, percio`, destinati a prevalere su questa (Cass., sez. un. 2 luglio 2008 n. 18036). L’esenzione dal «foro erariale», per le cause qui in considerazione, ab origine, derivava non dalla previsione della competenza per materia del pretore, ma dall’essere stabilita quella per territorio del giudice del luogo in cui e` stata commessa la violazione, per un’esigenza di «prossimita`» e` rimasta attuale anche dopo la soppressione delle preture. Percio` la Corte ha ritenuto che l’esenzione non e` venuta meno, per il campo delle sanzioni amministrative. L’affermazione si riferisce espressamente soltanto al primo grado, ma puo` senz’altro essere estesa anche all’appello. I due commi dell’art. 7 del testo unico sono infatti strettamente collegati, poiche´ il secondo fa riferimento esclusivamente ai giudizi suddetti, menzionati nell’altro, nel cui ambito non sono comprese le cause di opposizione in materia di sanzioni amministrative, che sono comunque esenti dalla regola del «foro erariale». Ad esse risultano pertanto inapplicabili le due disposizioni suddette, che a tale re-
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gola apportano una deroga e che ne ripristinano l’operativita`, rispettivamente per il primo e il secondo grado di giudizio. 5. – (7 ottobre 2010, n. 20774 – Pres. Vittoria, Rel. Rordof) L’usufruttuario e i nudi proprietari di un terreno, confinante con un torrente, hanno citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Bologna la Regione Emilia Romagna, l’Agenzia del demanio e una s.r.l., lamentando che, durante l’esecuzione di lavori sulla riva del torrente, affidati in appalto dall’amministrazione regionale, era stata invasa una fascia di terreno di loro proprieta`. L’amministrazione regionale, dopo aver richiamato la pendenza in grado d’appello dinanzi al TRAP (Tribunale regionale delle acque pubbliche) di altra controversia tra le medesime parti, avente ad oggetto la proprieta` di un’area di terreno confinante col torrente, ha eccepito il difetto di giurisdizione del Tribunale di Bologna. Alcuni degli attori hanno chiesto il regolamento di giurisdizione. Il regolamento muove dal presupposto che, nella causa pendente dinanzi al Tribunale di Bologna, sia stato eccepito dalla difesa della Regione il difetto di giurisdizione e si sia sostenuto che, viceversa, la giurisdizione spetti al giudice amministrativo. L’amministrazione regionale afferma che era stato sı` eccepito il difetto di giurisdizione («e/o di competenza») del giudice adito, ma in quanto la controversia verterebbe su «materia devoluta alla cognizione esclusiva del Tribunale delle acque territorialmente competente». L’imprecisione dell’eccezione non impedisce ai giudici di rilevare che la questione si pone tra giudice civile e TRAP. Le Sezioni unite rilevano che siffatta eccezione non da` vita ad una questione di giurisdizione, in quanto i TRAP non sono giudici speciali, ma organi specializzati della giurisdizione civile. Conseguentemente la questione se di una determinata controversia debba conoscere il giudice civile non specializzato o il TRAP attiene alla competenza, e non alla giurisdizione, con la conseguenza che il regolamento di giurisdizione con cui si chieda dichiararsi la giurisdizione del TRAP relativamente ad una domanda proposta dinanzi al giudice civile e` inammissibile. 6. – (7 ottobre 2010, n. 20777 – Pres. Vittoria, Rel. Tirelli) Due comuni hanno convenuto la Regione Lombardia e l’Autorita` d’Ambito Territoriale della Provincia di Varese davanti al TSAP (Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche) per ottenere l’annullamento della convenzione istitutiva di un consorzio fra gli enti ricompresi nell’ambito territoriale ottimale della Provincia di Varese, nonche´ degli atti autoritativi con i quali la giunta regionale della Lombardia si era sostituita ad essi nell’approvazione della convenzione, nominando un commissario ad acta per la sua sottoscrizione. La Regione Lombardia si e` costituita in giudizio, presentando successivamente istanza ex art. 41 c.p.c., con la quale ha richiesto alla Suprema corte di voler dichiarare la giurisdizione del Tar, in quanto l’azione era rivolta contro provvedimenti organizzatori che non avevano nessuna influenza specifica sul regime delle acque. Uno dei comuni ha depositato controricorso, con cui ha insistito per la giurisdizione del TSAP, perche´ contrariamente a quanto affermato dalla Regione, aveva impugnato l’atto istitutivo e la loro adesione forzosa ad un consorzio preposto alla programmazione ed alla gestione del sistema idrico integrato. Dello stesso avviso le Sezioni unite. Da tempo infatti hanno stabilito che i ricorsi
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avverso i provvedimenti amministrativi di delimitazione degli ambiti territoriali ottimali rientrano fra quelli riservati alla cognizione del TSAP in unico grado, in quanto da tale delimitazione discendono i successivi provvedimenti di organizzazione e conduzione del sistema idrico integrato. Infatti, in relazione al principio desumibile dell’art. 143, comma 1º, lett. a), r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 – che attribuisce alla cognizione diretta del TSAP i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall’amministrazione «in materie di acque pubbliche» – devono ritenersi devoluti alla cognizione del TSAP anche i provvedimenti amministrativi che, pur incidendo su interessi piu` generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialita` delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico, attengano comunque all’utilizzo di detto demanio idrico, interferendo immediatamente e direttamente sulle opere destinate a tale utilizzazione e, in definitiva, sul regime delle acque pubbliche. La Cassazione ha ricompreso nella giurisdizione diretta del TSAP anche la causa promossa da un consorzio dell’Autorita` di ambito territoriale ottimale avverso la delibera con la quale un comune aveva revocato la sua adesione al consorzio stesso ed organizzato autonomamente il servizio idrico nel proprio territorio. La fattispecie ora esaminata costituisce un’ipotesi analoga a quella ricordata, per cui ne e` stata affermata, ai sensi dell’art. 143, comma 1º, lett. a) r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, l’appartenenza alla cognizione diretta del TSAP. Gina Gioia Ricercatore nell’Universita` di Padova