Ai tuoi ordini

Page 1



1851


Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo fittizio. Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.

Prima edizione ebook: gennaio 2018 © 2018 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-227-1606-4 www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma


Giulia Ross

Ai tuoi ordini

Newton Compton editori


23/02/2004

A Sara, perchÊ credi alle tartarughe volanti proprio come me‌


Indice

Prologo Capitolo 1. Distruzione Capitolo 2. La promessa Capitolo 3. Un ragazzo troppo bello Capitolo 4. Mi troverai quando smetterai di cercarmi Capitolo 5. Tu mi guiderai nel vuoto Capitolo 6. Il giuramento Capitolo 7. L’addestramento Capitolo 8. La tela del ragno Capitolo 9. Andrew Capitolo 10. Nella tela del ragno d’argento Capitolo 11. Il sentiero della verità Capitolo 12. Ricominciare da zero Capitolo 13. Altre realtà Capitolo 14. Una luce nell’oscurità Capitolo 15. Il colore di un tuono Epilogo Nota dell’autrice Ringraziamenti Tyranny by GPL


Prologo

Zurigo, dicembre 2019

Credevo nell’amore. Credevo in una forza inarrestabile, inconsapevole del dolore che porta con sé, come lo è il fiume quando scava il suo letto nella roccia. Mi sbagliavo. L’amore è un avido parassita alla continua ricerca di un cuore a cui attaccarsi. E tu lo sapevi, Isabel. Hai fatto irruzione nella mia vita come una furia, senza chiedere il permesso! Mi hai piegato, umiliato, trasformato, mentre io tentavo solo di raggiungerti, accecato dal desiderio. Avrei dovuto capire, accorgermi per tempo del mostro che si nascondeva dietro le tue iridi celesti. Sarei dovuto scappare via prima di perdere me stesso… Ma non si può decidere quando smettere di amare. Quante volte ancora intendi spezzarmi il cuore, Isabel? Forse tutta la nostra storia è stata un’illusione, un incubo che continuerà a rubarmi i sogni lasciando solo il vuoto dentro di me. Non importa ormai… Nelle parole “ti amo” risiedono sentimenti travolgenti… è bastato dirle una volta soltanto perché la mia vita cambiasse per sempre.


Capitolo 1 Distruzione

Zurigo, settembre 2019

«Politrauma in arrivo!». «Spostate quelle barelle, lasciateci passare, per Dio!». «Ted, chiama Michael! Una costola rotta deve aver perforato la pleura, il ragazzo non respira più!». «Che diamine gli è successo? Incidente d’auto?» «No… è stato vittima di un pestaggio…». «Santo cielo… Ma che cosa gli hanno fatto? E da dove viene tutto questo sangue?» «In sala operatoria, presto!». Luce. Luce. Luce! Sono colpito da una luce accecante. La sento attraversarmi la pelle, così intensa da bruciare. Cerco con tutte le forze di aprire gli occhi. Inizialmente il mio campo visivo si limita a una linea sottile straordinariamente brillante. Le palpebre pesano come due pietre. Dopo diversi minuti riesco a mettere a fuoco qualcosa. Vedo un soffitto bianco. Pareti bianche. Un letto che non conosco. Dove mi trovo? «Alain?». Mamma? Cerco di girarmi verso la voce che ho appena sentito, ma avverto immediatamente un fortissimo dolore alla testa. «Alain, non muoverti! Non muoverti, ok? Respira, tesoro mio. Oh Dio… Che cosa ti hanno fatto? Chi ti ha ridotto così?». Lei… Lei mi ha ridotto così.


«Signora Bercher, la prego, mi segua nel mio studio». Un’altra voce: è profonda e ha un forte accento inglese. «Dottore, si tratta di mio figlio! Voglio sapere che cosa gli hanno fatto… Devo parlargli subito! Mi lasci! Mi lasci, ho detto!». «Mamma…», sussurro. Mi sembra di avere la gola piena di chiodi. «Tesoro… Tesoro mio, allora riesci a sentirmi?». Si sporge verso di me. Riesco finalmente a vedere i suoi occhi color ambra, che nell’istante in cui incontrano i miei si riempiono di lacrime. Dalla mia bocca esce un altro rantolo pietoso. Sì, ti sento. «La prego, signora Bercher. Alain ha bisogno di riposare. Mi segua». Non so a chi appartenga la seconda voce nella stanza, ma percepisco comunque una certa impazienza. Il secco rumore di tacchi che si allontanano segna la dipartita di mia madre e dello sconosciuto. Di nuovo solo, cado in un sonno senza sogni.

Zurigo, ottobre 2019 «Colui che si arrende è sempre il più forte, Alain». «Cosa?» «Chi si arrende non è schiavo del suo orgoglio… o del rancore». «Allora perché fa così male?» «Perché tutti vogliono l’amore, ma nessuno desidera pagarne il prezzo». «Io… Io non volevo l’amore… Io desideravo soltanto te, Isabel…». «Alain, puoi seguire la punta della mia penna?». Alzo lo sguardo, anche se ho le palpebre ancora maledettamente gonfie. Scruto negli occhi il dottor Robert Smith: sono neri e profondi. Con il suo sorriso da rivista patinata, lui mi incita a continuare il test. Obbediente, seguo la punta della stilografica mentre si muove lentamente da destra a sinistra. «Bene», dice dopo aver ripetuto il gesto un paio di volte. «Adesso controlliamo il torace. Senti ancora molto male, qui?». Mi sfiora la benda che


copre i punti dell’operazione. Faccio segno di sì. Robert sospira triste. «Va bene, in fondo è ancora presto. Le ferite sulla schiena e sull’addome stanno guarendo molto bene. Anche le tue labbra sono meno gonfie. Per gli occhi temo ci vorrà un po’ più di tempo». Si avvicina al mio viso, come a volerne valutare meglio le condizioni. Mi sfiora gentile, con le dita lunghe e fredde. Poi, attento a non farsi sentire da mia madre, sussurra: «Hai cicatrici su tutto il corpo. Alcune sembrano vecchie di mesi… Queste, ci scommetterei, sono bruciature di sigaretta. Gli altri segni invece… Frustate? Chi ti ha fatto tutto questo, Alain?». Non rispondo. Il respiro di Robert è vicino: ne apprezzo il calore e il leggero profumo di collutorio alla menta. Di colpo chiudo gli occhi, sperando che il dottore smetta di farmi domande, e la mia anima cade nell’inferno di ricordi che brucia vivo dentro di me. Le immagini di quella notte ormai lontana si fanno vivide quasi come se potessi toccarle. Sento il rumore del cuoio che lacera la mia pelle, il dolore lancinante di ogni colpo, la voce del mio aguzzino che mi insulta e che, allo stesso tempo, mi implora di amarlo. Di’ che mi ami… Di’ che mi ami, bastardo! Io sono perfetto per te. Sono perfetto e tu sarai mio! Spalanco le palpebre all’improvviso e mi specchio ancora una volta nello sguardo preoccupato del dottor Smith. Trattengo tutti quei pensieri dentro di me. «Alain?». Tremo ma non posso parlare. Lei me lo ha ordinato, e anche se decidessi di venire meno alla promessa, non riuscirei a confessare nulla di ciò che custodisco ora nel mio cuore. Il silenzio è tutto quello che mi è rimasto per proteggermi dalla commiserazione e dalla mia stessa vergogna. No, non posso cedere! «Ok, Alain. Magari ne riparliamo domani», dice il dottore arrendendosi. Non appena Robert lascia la stanza, mia madre torna a sedersi di fianco al letto. Indossa il suo completo rosa preferito, un colore che un tempo mi faceva tenerezza e che oggi quasi mi infastidisce. È molto stanca e triste. «Sono passate tre settimane, Alain», sussurra stringendo una delle mie mani tra le sue. «Perché ti ostini a non dire niente?». Un singhiozzo la scuote. «Il tuo silenzio sta innervosendo tuo padre. E sta mettendo a dura prova anche i miei di nervi…». Si affretta ad asciugarsi gli occhi con un fazzoletto già sporco di rimmel. «Devi dire ai dottori chi ti ha ridotto in questo stato. Devi


farlo, hai capito?». Non lo farò mai! E per quanto riguarda mio padre… be’, che si fotta! Smetto di ascoltarla contrariato e mi volto verso la finestra. Mentre mamma continua il suo monologo, ammiro il giardino della costosa clinica dove sono stato rinchiuso per volere di Victor Bercher. Osservo le file di pini che si ergono maestosi, le siepi curate a delimitare il perimetro esterno e la fontana di pietra lucida a forma di angelo: è tutto così pulito e tranquillo. Pulito come lo ero io prima di conoscere Isabel. «Alain, guardami», sbotta mia madre all’improvviso. Sono costretto a darle retta. «Voglio che i responsabili di tutto questo siano puniti. Chiunque essi siano. Voglio che parli con i dottori o con la polizia perché… perché…». Non riesce di nuovo a trattenersi e scoppia in un pianto straziante. È il terzo della settimana. Ed è del tutto inutile. Io non parlerò con nessuno, consumasse anche tutte le lacrime che ha! Dopo qualche minuto, di fronte alla mia indifferenza, Viviane Faije smette di singhiozzare. Mi bacia sulla guancia, inondandomi del suo Âme Noire dal retrogusto di gelsomino. «Ti voglio bene, tesoro mio». Poi mi accarezza i capelli, ma il suo tocco amorevole non mi dà alcun sollievo. Nessuno può placare il mio dolore. Forse le ferite sul corpo guariranno con il tempo, ma la mia anima… quella resterà martirizzata per sempre.

Zurigo, novembre 2019 «Buongiorno!». Sussulto spaventato. Qualcuno ha interrotto bruscamente il mio sonno e ora sta armeggiando con le serrande automatiche. La stanza è in penombra e non vedo di chi si tratta ma sta decisamente facendo un gran chiasso per i rigidi standard della clinica. «Ma perché diamine le tiene così abbassate, queste? È una magnifica mattina d’autunno lì fuori!», si lamenta la voce femminile. Finalmente, chiunque sia, riesce a trovare il tasto giusto sulla parete e le serrande si alzano


lasciando entrare gradualmente nella stanza la luce del mattino. «Così va meglio, non trova? Viviamo già metà della nostra vita vagando nel buio totale. Godiamoci un po’ di sole, quando si fa vedere qui a Zurigo». Metto a fuoco la ragazza minuta che sta di fronte a me. Ha lunghi capelli neri, gli occhi di uno straordinario castano dorato e la faccia tempestata di lentiggini. Un orsetto giallo di peluche le spunta dal taschino del camice proprio sopra al cuore. Per un attimo ho quasi voglia di sorridere. Gli occhi della sconosciuta si specchiano nei miei, altrettanto curiosi. Ci studiamo per qualche istante in silenzio, con in sottofondo solo il ronzio dell’aria condizionata. Lei si concentra sul mio viso e sembra un po’ sorpresa, almeno quanto lo sono io del suo inaspettato arrivo. Non è la mia solita infermiera. Dove è finita Alena? Come se mi avesse appena letto nel pensiero, la sconosciuta sorride amichevole. «Mi chiamo… Mi chiamo Lucinda Warren, ma tutti mi chiamano Cinda», esordisce porgendomi la mano. Guardo quelle dita con distacco. Rifiutando in silenzio la sua stretta, mi volto verso la finestra. Devo ammetterlo però, la signorina Warren ha ragione: il timido sole autunnale illumina gli aghi di pino ancora imperlati di lucide gocce di pioggia e tutto il giardino brilla come fosse fatto di cristallo. È bellissimo. «Sostituirò Alena per il prossimo mese», dice Lucinda ritirando la mano con eleganza. «In realtà le sto facendo un vero favore… Ha avuto un’emergenza familiare, quindi, nonostante la preparazione per la specializzazione mi lasci poco tempo libero, ho deciso comunque di aiutarla. È la giusta occasione per studiare un po’ più tranquillamente di come farei in ospedale, sa? E capisco che il suo silenzio è un modo per non distrarmi… Per cui grazie, signor Bercher». Ma di che diavolo sta parlando? «Ora le porto la colazione». Sparisce dietro la porta lasciandomi decisamente interdetto. Mentre aspetto il suo ritorno, mi osservo i polsi: i segni delle catene sono ancora visibili, così come le bruciature sull’avambraccio destro. Tu mi costringi a farlo… Tu, figlio di puttana! Ma non capisci che io ti amo? La nausea mi assale feroce e il cuore comincia a correre nel mio petto. Ancora la sua voce… Sento persino il suo odore sulla pelle e le gocce di saliva che mi colpiscono il viso mentre mi urla addosso tutta la sua rabbia oltre che il suo amore. Ogni secondo di quella maledetta notte si ripropone in


tutta la sua potenza distruttiva, giorno dopo giorno. Il Tuono Rosso e la donna che mi ha condannato sorridono al di là del mio cuore… «Eccomi qui. Ah, questa colazione è davvero fantastica… Insomma basterebbe per due persone decisamente affamate», esclama Lucinda. Osservo il contenuto del vassoio e provo un moto di disgusto. Non ho per niente fame. «Sono davvero sorpresa, signor Bercher. Lei è la prima persona in assoluto che non mi ha chiesto il perché del mio strano nomignolo». Mi lancia uno sguardo furbetto. «Ha decisamente guadagnato un posto di riguardo nella mia classifica personale». Sistema il vassoio a cavallo delle mie gambe e mi serve una tazza di tè. Ha le mani curate e i polsi sottili. Poi mi sfiora con lo sguardo, con quell’ombra di pietà mista a curiosità che tanto mi infastidisce. Forse anche la signorina Warren desidera invadere il mio spazio e spezzare il silenzio che ho tenuto in vita con fatica fino a oggi. Be’, si sbaglia. Non ci riuscirà. «Ho letto attentamente tutta la sua cartella, ieri sera», sussurra poi come se non volesse farsi sentire dai muri che ci circondano. «Devo sinceramente dirle che sono stupita di come si sia ripreso in fretta. L’hanno quasi massacrata… signor Bercher, è un eroe». I miei pregiudizi crollano all’istante. Cosa? «Un vero eroe, mi creda. Un lottatore», ripete seria. Mi mordo le labbra confuso e Lucinda increspa la bocca in un sorriso vittorioso. No, la signorina Warren non è come gli altri membri della clinica. «Allora, signor Bercher, visto che è un sopravvissuto, le svelerò il mistero che riguarda il mio nome», dice afferrando una fetta di pane dal mio piatto per portarsela alle labbra con disinvoltura. «Quando eravamo piccole io e mia sorella Jane guardavamo Il Re Leone ogni sera, prima di andare a dormire. Ne eravamo innamorate! Sapevamo a memoria ogni canzone, ogni battuta… E spesso ci divertivamo a interpretare i vari personaggi. Jane diceva che io ero proprio come Simba, forte e coraggiosa. Così iniziò a chiamarmi Cinda…». Manda giù un boccone lanciando un’occhiata golosa alla marmellata di fragole. Con le dita, spingo lentamente verso di lei il vasetto di vetro, incitandola a servirsene. «E ora tutti mi chiamano Cinda! Mmm, è squisita… Perché non ne prende un po’ anche lei?», dice affondando di nuovo il cucchiaino nella morbida gelatina rossa. «Avanti… Se continua a non mangiare dovranno alimentarla tramite un sondino», mormora poi con una nota di tristezza nella voce. «Non sarebbe un bello spettacolo né per lei né per me, quindi me lo risparmi».


Lecca il cucchiaino sporco di marmellata con avidità. Ha decisamente una bella bocca. Afferro la tazza di tè sotto i suoi occhi attenti e ne bevo un sorso per accontentarla, mentre studio la linea delle sue labbra carnose che tremano leggermente in attesa di schiudersi ancora. «Ok, l’ho torturata abbastanza per questa mattina… Vedo che non ha proprio voglia di chiacchierare e ora è meglio che mi rimetta a studiare. Se ha bisogno di me basta che suoni il campanello e io sarò subito da lei. Ma non ne approfitti troppo, altrimenti la qualità del mio apprendimento ne sarà danneggiata. A dopo, signor Bercher». Si alza e va verso la porta con una camminata un po’ saltellante che la fa assomigliare a un folletto delle fiabe. «Alain», mi ritrovo a dire senza sapere perché, poco prima che varchi la soglia. Lucinda si volta di scatto, piacevolmente stupita. «Mi chiami Alain», ripeto, distogliendo subito lo sguardo dal suo. Anche se non la vedo più, sono sicuro che sta sorridendo.

Zurigo, novembre 2019 «Il dolore al petto non cesserà finché la frattura alla costola non sarà completamente guarita. Gli occhi stanno bene e gli ematomi si sono completamente riassorbiti, ma il resto delle ferite… Alain, rimarranno altre cicatrici, lo sai, vero?». Il dottor Smith scuote la testa contrariato, annotando qualcosa sulla cartella. «E credo che sia arrivato il momento d’incontrare la dottoressa Hallen. È un’ottima psicoterapeuta e sono certo che potrà aiutarti ad affrontare i tuoi demoni». Demoni? Lei non sa proprio niente dei miei demoni! «I tuoi genitori sono molto preoccupati», continua sedendosi sul letto di fianco a me. «Abbiamo parlato molto in quest’ultima settimana. Tuo padre non capisce il perché tu non voglia ricevere sue visite. È affranto, in pensiero… Tua madre invece mi ha raccontato un po’ di cose di te, riferendomi che in quest’ultimo anno sei molto cambiato. Dice che hai perso la tua dolcezza, oltre ad aver smesso completamente di far loro visita dopo


esserti trasferito al campus universitario. Perché? So che avevi vinto un concorso per un dottorato all’ETH nel dipartimento di Life Sciences. Lavoravi per il professor Handelson, giusto? Lo conosco bene e so che è eccezionale con i suoi studenti. Non credo quindi che sia stato il lavoro a farti soffrire a tal punto da…». Fa una pausa e si accarezza la barba corvina. «Chiunque tu stia proteggendo con il silenzio, sappi che è uno sbaglio. C’erano evidenti segni di abusi sessuali… Ti hanno ridotto in fin di vita, caricato su un taxi e abbandonato di fronte al pronto soccorso. Un colpo in più al petto e saresti morto, Alain… ti prego, di’ qualcosa!». L’arrivo di Lucinda nella stanza interrompe l’ennesimo tentativo di contatto da parte del dottor Smith. Sconfitto, Robert si alza in piedi e, per quanto deluso dalla mia ostinatezza, sorride alla mia eccentrica infermiera. «Fallo mangiare», le dice a bassa voce indicando il vassoio della cena che lei regge sulle braccia. Lucinda annuisce e si avvicina sorridente. Ha l’aria più stanca del solito ma è molto carina con i capelli stretti in uno chignon disordinato. Si siede sul mio letto senza chiedermi il permesso. «Se non finisce questo piatto di crema di asparagi in meno di cinque minuti allora non ha proprio capito niente della vita, Alain», esordisce, fingendo entusiasmo e indicando la pietanza fumante di fronte a me. In effetti l’odore è appetitoso. «Diamine, non si rende conto della sua fortuna. Io non ho nessuno a casa che mi prepara queste leccornie. Inoltre gli asparagi non piacciono né a mia madre né a mia sorella, quindi non si cucinano mai…». Sorrido e realizzo solo in quel momento che quell’eccentrica ragazza con le lentiggini è la sola persona con cui mi vada davvero di parlare. In queste due ultime settimane di convalescenza, Lucinda mi ha raccontato molto di sé e della sua vita, accontentandosi dei miei noiosi silenzi. Mi sembra di conoscerla da molto più tempo di quanto realmente sia e sono segretamente grato ad Alena per averle lasciato il posto. Lucinda Warren è come una gustosa aranciata: dolce, frizzante e salutare al punto giusto. Dopo quest’ultima considerazione, sono travolto da un’inaspettata sensazione di felicità. Abituato però a controllare i miei sentimenti, la reprimo con forza fino a spegnerla del tutto prima che Lucinda se ne accorga. «Può mangiarla lei la crema d’asparagi, se vuole», sussurro freddamente. «Il dottor Smith non sarebbe d’accordo. E poi io ho già cenato», si lamenta fissando il piatto. «Che cosa ha mangiato?»


«Un panino al tonno. Il tonno della scatoletta, si capisce… E mi sono macchiata d’olio», dice indicandomi il taschino, su cui si nota appena un alone giallognolo. «Avanti, inizi con un cucchiaio…». Mi porge la posata, incitandomi ad assaggiare la pietanza. «Lei è abituata a lavorare con i bambini, vero?», le chiedo, afferrando il cucchiaio dalla sua mano ed evitando così che mi imbocchi. Annuisce allegra. «Entrerò molto presto nel programma di specializzazione di Oncoematologia pediatrica. Ho sempre desiderato di lavorare con i “piccoli guerrieri”». Un brivido freddo risale lungo tutta la mia schiena. «Piccoli guerrieri?» «Certo. Gli eroi di piccola taglia che combattono contro il cancro. A dir la verità, sono i più grandi guerrieri che abbia mai avuto l’onore di incontrare durante il tirocinio dell’università. Questa specializzazione però è un percorso lungo e tortuoso, dovrò impegnarmi moltissimo». Lascio cadere il cucchiaio di scatto, facendo schizzare crema di asparagi ovunque. Le parole di Lucinda hanno raggiunto il fondo della mia anima: le immagini sbiadite del mio passato in ospedale e quelle di Thommy si scrollano la polvere di dosso, ritornando a splendere. Se la sua morte non mi avesse sconvolto così profondamente, avrei continuato la mia specializzazione al Kinderspital di Zurigo. Non non avrei mai conosciuto Isabel e non mi sarei trovato in questo letto d’ospedale con una sconosciuta di nome Cinda al mio fianco. Non sarei completamente distrutto… «Che cosa c’è?», dice Lucinda dolce mentre pulisce il disastro che ho combinato. «Frequentavo anch’io quella specializzazione circa due anni fa…», confesso pensieroso. «Perché parla al passato?» «L’ho abbandonata dopo la perdita di un paziente a me caro». Mi mordo le labbra secche e screpolate mentre la rabbia scalpita feroce nel mio petto. «Dicevano che ci saremmo abituati…», mormoro tra i denti, «che la specializzazione ci avrebbe messi alla prova molte volte ma che avremmo imparato… Imparato a difenderci da quel tipo di dolore. Per tanto tempo ho creduto di riuscire a mantenere un certo distacco dalla sofferenza e dalla morte, solo che con Thommy… Con Thommy è stato impossibile». Lucinda smette di asciugare la crema di asparagi dal lenzuolo. Avvicina la sua mano alla mia.


«Mi dispiace, Alain», sussurra accarezzandone il dorso. La scanso subito, infastidito. Non voglio che mi tocchi, né che provi anche lei quella sorta di pietà che tutti continuano a elargirmi gratuitamente. Lucinda si ritrae triste. «Sono desolata…», sussurra. «Forse ho invaso il suo spazio e non avrei dovuto… È che lei mi sembra così solo. Ok, sua madre viene a trovarla ogni giorno e qui dentro tutti i medici fanno a gara per servirla come un re, ma… Ma quando la guardo negli occhi mi sembra di cadere in un abisso di solitudine. Ho proprio l’impressione che tutto il resto del mondo le sia indifferente. Tutti, sì… a eccezione delle persone che l’hanno ridotta in questo stato». Le sue ultime parole sono cariche di rimprovero. È come se fosse in collera con chi mi ha fatto del male, ma perché? In fondo chi sono io per lei? «Continua a non dire niente riguardo al suo incidente. Si tiene stretto dei ricordi che prima o poi la soffocheranno, quando invece starebbe così bene se solo si aprisse con qualcuno…». «Non sprechi la sua preoccupazione, Lucinda. Né la sua rabbia», sbotto improvvisamente irritato, interrompendola. «Lei non ha proprio idea di chi sono. E non si affanni a cercare di capire quello che mi è successo solo per soddisfare il suo ego da crocerossina. Si risparmi questa fatica, perché è del tutto inutile!». Sto ansimando. Lucinda non reagisce, limitandosi a guardarmi con affetto. Di colpo mi sento l’uomo più crudele della terra. Come posso essere così freddo con la sola persona che ha mostrato un interesse genuino per la mia storia? Può Isabel avermi cambiato fino a questo punto? «Mi dispiace», mormoro dopo qualche minuto, pentendomi di ciò che le ho appena detto. Lucinda scuote la testa e accenna un sorriso. «Non c’è problema. Quando si ha sofferto tanto è normale mettersi sulla difensiva. Forse non è ancora pronto a condividere con gli altri quello che le è successo». «Forse». «Ma se decidesse di farlo, sappia che io sono disposta ad ascoltarla». Ancora quello sguardo… Quella strana e rassicurante luce dietro alle iridi color nocciola. No, non è pietà. È qualcos’altro… Resto un attimo in silenzio per darmi il tempo di pensare mentre il suo respiro si calma insieme al mio. Con Lucinda è come essere costantemente impegnati in una battaglia


invisibile. Giorno dopo giorno lei guadagna terreno, si difende dalla mia freddezza con solare allegria e quando meno me lo aspetto mi attacca, armandosi solo di infinita dolcezza. Non sono più abituato a questo genere di guerre. E, allo stesso tempo, una parte di me non vuole più proteggersi dal suo delicato riguardo. Vorrei poterle dire ogni cosa. Però… «Lo prenderò in considerazione, Lucinda», le dico giusto per chiudere lì il discorso. Lei fa l’occhiolino, soddisfatta. «Cinda, Alain. E mi dia del tu». Esce dalla stanza di fretta, portandosi via tutta la felicità.


Capitolo 2 La promessa

Zurigo, dicembre 2019

Sono passati quasi tre mesi dall’incidente. La ferita al petto non mi fa più male. Il mio viso è tornato quello di prima. Ho più appetito. E c’è lei, Cinda. Oggi è il suo ultimo giorno di sostituzione, poi questa ragazza esuberante e luminosa come il sole d’estate scomparirà dalla mia vita per sempre. I racconti della sua vita, delle sue passioni, persino alcune confidenze riguardo alla persona con cui sta uscendo da un po’ di tempo, hanno rallegrato i grigi pomeriggi della mia convalescenza. Giorno dopo giorno è riuscita a dissipare le ombre e la tristezza che mi soffocavano sin dal mio arrivo alla clinica. Il suo modo di guardarmi ha un che di ipnotico: a volte ho l’impressione di piacerle, nonostante le cicatrici e i miei silenzi. Sono certo che mi mancherà non averla più attorno, eppure so che non farò nulla per trattenerla. Come potrei, in fondo? Io appartengo ancora a Isabel… «E così questo è l’ultimo giorno che sarai costretto ad ascoltare le mie sciocchezze», dice Lucinda con un sorriso spento. Sono le tre di pomeriggio e il suo turno termina alle otto. «E tu non sarai più costretta a sorbirti i miei silenzi, Cinda», ribatto scherzoso. Lei scuote la testa energicamente. «Ah, ma io adoro il tuo silenzio! Credimi, la mia vita è fin troppo chiassosa. Caotica, direi. Come farò domani senza la mia adorata pausa per le orecchie?». Non riesco a non ridere, divertito. «Credo che sopravvivrai», le dico, tornando serio. Si sta torturando le pellicine attorno alle unghie, nervosa. «Che ti prende, adesso?». Per la prima volta da quando la conosco, sembra incerta se condividere o meno quello che le sta passando per la testa. «È sciocco… È sciocco dirti che mi dispiace davvero che la sostituzione di Alena finisca?», confessa infine. «Mi dispiace così tanto…». Quelle ultime


parole mi accarezzano morbide come un panno di velluto. Mi sforzo di guardare l’orsetto giallo di peluche che fa ancora capolino dal taschino del suo camice per distrarmi dai suoi occhi dannatamente magnetici. «Alain, credi che noi potremmo…». «No», la interrompo secco, fulminandola. Le sue labbra tremano e le guance le si colorano di rosso. Mi desidera. Vuole continuare a vedermi fuori dalla clinica, ma io non posso proprio permetterlo. Se lo facessi, inquinerei la sua vita, risucchiandola lentamente nel mio inferno. Un inferno di nome Isabel. «Cinda, io non posso… Non voglio rivederti una volta uscito da questo posto». «Perché, Alain?», si lamenta, avvicinandosi pericolosamente. Le nostre mani si sfiorano appena, eppure le sento bruciare come lava. La scanso, spaventato, e stringo le labbra: sono stanco di lottare contro i sentimenti che lei ha resuscitato dalle ceneri del mio cuore. «Cinda… tu ti sei creata un’immagine di me. Un’immagine che, ne sono certo, non riflette la persona che sono realmente. Quindi… Preferisco che tu possa conservare questo ricordo, seppur falso, invece che dirti la verità su come…». Mi blocco all’improvviso. Stavo per dirle tutto? «La verità su come?», ripete lei speranzosa. «Niente». Mi afferra di nuovo la mano, testarda, e questa volta la lascio fare, inebriato dal contatto con la sua pelle. «Alain, ti prego», dice, facendosi ancora più vicina. «Dimmi quello che ti è successo. Dimmi chi ti ha fatto del male. Posso mantenere qualsiasi segreto. Davvero posso! Non voglio andarmene da qui senza conoscere la verità. Ti prego…». Il suo profumo fresco mi avvolge totalmente, così come la sua dolce ostinazione. «E se ti dicessi…», sussurro appena. «Se ti dicessi che la mia storia potrebbe rovinare tutto? Che distruggerei quello che c’è tra noi, ora…». «E che cosa c’è tra noi?», chiede Cinda, spietata. «Dimmelo tu…». Sorrido crudele. Lei abbassa lo sguardo, sbuffando per la frustrazione. Poi, di colpo, le si illuminano gli occhi. «Allora ti propongo un patto», dice più seria che mai. «Tu mi racconti tutto quanto e io prometto che non scapperò. Ti resterò vicino e continueremo a conoscerci, a scoprirci… Sei d’accordo?» «Cosa…?»


«Te lo prometto, Alain. Non c’è nulla che tu mi possa dire per impedirmi di…». Si interrompe e fa un sorriso che squaglierebbe entrambi i poli, se solo fossero qui con me a vederlo. Poi si avvicina al mio viso e appoggia delicatamente le labbra sulle mie. È un tocco leggero come il battito d’ali di una farfalla. Ha il sapore della libertà, ma per quanto sia delizioso e intenso, non può spezzare le catene che mi legano ancora a Isabel. Restiamo così per qualche secondo, entrambi prigionieri dei nostri sentimenti segreti, poi Cinda si ritrae, punta nell’orgoglio. Mi vuole e io mi sono appena negato. Ha le guance ancora vermiglie e lo sguardo in fiamme. Non può capire le ragioni del mio comportamento. Tremando per l’emozione, avvicino una mano alle sue e gliele stringo. Una parte di me non riesce a credere davvero alle sue parole piene di speranza. A quel futuro roseo che solo lei riesce a vedere. Vorrei poter entrare nei suoi occhi, viaggiare nel suo cervello fino al fulcro della sua anima e capire quale connessione nervosa la stia spingendo a promettermi di restarmi accanto a ogni costo. È assurdo, perché in fondo Cinda non sa nulla del vero me. Che cosa succederebbe se raccogliessi la sua sfida? Mi desidererebbe ancora, giunti alla fine del racconto? «Alain», mormora, accarezzandomi il viso. «Volevo questo bacio dal primo momento in cui ti ho visto…», confessa sognante. «Nonostante il mio aspetto orribile?» «Eri dannatamente bello anche tutto ammaccato. Credimi, io…». Mi bacia di nuovo, e questa volta le mie labbra si schiudono lievemente fondendosi con quel concentrato di pura energia che solo Cinda sa sprigionare. È fuoco liquido che mi attraversa, scaldando ogni minuscola cellula del mio corpo. «Ho una controproposta per te, allora». Interrompo bruscamente il contatto, aumentando la distanza tra noi con il respiro accorciato. «Ti racconterò ogni cosa, ma solo a una condizione». «Quale?», chiede Cinda, piena di speranza. «Quando avrò finito mi dirai quello che provi per me, solo allora. Qualsiasi cosa sentirai dopo ciò che ti rivelerò. E se sarà disgusto, be’… Voglio che tu scompaia dalla mia vita per sempre, intesi?». Le trema di nuovo il labbro inferiore. Ha paura, forse. Bene, ho raggiunto il mio scopo, perché so già come andrà a finire questa storia. «D’accordo», dice infine catturando di nuovo la mia mano tra le sue. «Te lo prometto». «Sicura?»


«Comincia a raccontare». Prendo un lungo respiro e chiudo gli occhi. Dopo pochi secondi avverto un formicolio alla base della testa, come se i ricordi avessero cominciato ad arrampicarsi al di là delle pareti immaginarie in cui li avevo confinati. La prima immagine che si ricompone di fronte a me è quella del Limmat che scorre al di là del parapetto di metallo grigio. La mia storia inizia nel cuore medievale di Zurigo, lì dove il fiume fugge per esplorare nuovi mondi. Le braccia del Münsterbrücke erano da sempre il mio rifugio sicuro. Ogni volta che qualcosa mi turbava o nei momenti in cui dovevo prendere una decisione importante, era solo su quel ponte, al cospetto del Limmat, che riuscivo a chiarire i pensieri. Osservavo il movimento dell’acqua. Ascoltavo la sua voce fino a ubriacarmi del suo fresco gorgoglio e solo così raggiungevo uno stato di quiete. Quel terribile giorno di settembre, tuttavia, nemmeno il fiume sembrava capace di fermare le mie lacrime… «Quale giorno di settembre?». Lucinda mi scruta attenta sotto le ciglia scure. Scuoto la testa, cercando di fare ordine mentale. «Scusami, Cinda. Devo tornare indietro ancora di qualche mese prima di arrivare a ciò che è successo al fiume», dico un po’ in difficoltà. «Devo spiegarti tutto dal principio, altrimenti non capirai». Lei sorride dolce. «Ok, vai avanti». Subito dopo aver conseguito la laurea in medicina e chirurgia con il massimo dei voti, avevo fatto domanda per la specializzazione di Oncoematologia pediatrica al Kinderspital di Zurigo, seguendo così le pesanti orme di mio padre, lo stimato oncologo Victor Bercher. L’internato in reparto cominciò a febbraio 2016. Insieme ad alcuni colleghi di corso, capitai sotto la fortunata supervisione del dottor Fuster, luminare del reparto, amato dagli studenti e rispettato da infermiere e medici. Con lui, iniziai a studiare diversi casi clinici. Ogni giorno seguivo le visite, monitoravo i trattamenti e compilavo le cartelle dei miei piccoli fantasmi, bambini senza volto a cui sorridevo solo con la bocca e da cui cercavo con tutte le mie forze di stare emotivamente lontano. Era faticoso ma allo stesso tempo molto appagante. Imparavo entusiasta ogni piccola sfumatura di quel mestiere che la mia famiglia si tramandava da tre generazioni. Mio padre poi sembrava


finalmente soddisfatto dei miei progressi e delle mie scelte. Da parte mia anch’io cominciavo a credere che sarei potuto diventare un medico altrettanto bravo. In fondo seguire le orme di Victor, desiderare la sua felicità quasi più che la mia, erano stati da sempre i cardini su cui avevo fatto ruotare la mia vita. I mesi passavano veloci, lavoravo e studiavo con passione anche se, di tanto in tanto, avevo come la sensazione di essere in trappola, di trovarmi in bilico sui margini di un pozzo profondo e oscillare senza sosta con la costante paura di cadere. E in fondo fu quello che avvenne. Appena un anno dopo l’inizio della specializzazione incontrai un ragazzo di nome Thomas Brust e tutto nella mia vita improvvisamente cambiò. Thommy, così voleva essere chiamato, aveva sedici anni ed era in terapia nel nostro ospedale per una leucemia mieloide cronica atipica. Aveva subìto diversi cicli di trattamento con idrossiurea, che purtroppo non avevano funzionato, e a circa un anno dall’esordio della malattia era stato necessario un trapianto di midollo. Fui affidato al suo caso proprio tre mesi dopo il trapianto, durante il monitoraggio della graft versus host disease. Nonostante le sue terribili condizioni di salute era una piccola stella di ottimismo. Appassionato di calcio e fan senza eguali di Lionel Messi, amava raccontarmi i dettagli di tutte le partite che riusciva a seguire quando non stava troppo male, prendendomi in giro per il mio scarso interesse nei confronti di quello sport. Thommy era affettuoso, divertente e così intelligente da far invidia anche a noi specializzandi. Non so come accadde ma in pochissimo tempo trovò la chiave giusta per aprire il mio timido cuore. Cominciai, senza accorgermene, a passare ogni mio minuto libero in sua compagnia. Invidiavo la sua sicurezza e la sua determinazione adamantina, qualità che io avevo perso per strada. Parlare con Thommy mi rese chiaro il fatto che avevo messo da parte tutti i miei sentimenti per fare il medico, per obbedire alle esigenze di mio padre, un uomo di cui avevo paura, e per non deludere le aspettative di una famiglia intera. Era disarmante. Ogni giorno il mio piccolo amico staccava un minuscolo pezzo del mio cuore per assemblarlo in un puzzle fatto di dolcezza e confidenze che ci avrebbe uniti come due fratelli. Quella stessa primavera mi confessò di essere innamorato di una sua compagna di liceo, Annah. Mi disse che era certo di aver trovato l’anima gemella e che stava solo aspettando di guarire dalla leucemia per potersi


finalmente dichiarare. In quel particolare momento della mia vita non ero ancora in grado di comprendere il sentimento travolgente che lui chiamava “amore”. Non c’era mai stato nessuno che mi avesse colpito a tal punto da farmi tremare le gambe o sentire le farfalle sbattere le ali nel mio stomaco, e soprattutto non avevo alcuna idea di quanto la passione, quella che brucia come l’inferno, potesse consumarti. Fino a ridurti in cenere. Nonostante ciò, trascorrevamo le ore dei miei turni di guardia a progettare l’appuntamento ideale per sorprendere la sua Annah. Le notti in cui Thommy stava meno bene, invece, gli leggevo le parti più interessanti del mio libro di anatomia per cui lui sembrava nutrire un grande interesse. Poco prima dell’inizio dell’estate, quando fu colpito dalla prima polmonite di origine fungina, Thommy mi disse che sarebbe voluto diventare medico, come me. Non so perché ma ne fui tremendamente orgoglioso e, in quella settimana di lotta contro la sopraggiunta infezione, lo avevo incoraggiato in continuazione, facendo leva proprio su quel sogno lontano. Gli dicevo: “Tieni duro, Thommy, perché devi studiare e diventare un bravo medico! Lavoreremo insieme un giorno, te lo prometto!”. A quelle parole lui mi sorrideva, delirando per la febbre e i dolori. Nei successivi due mesi le sue condizioni continuarono a peggiorare. Il suo stato fortemente compromesso lo rendeva suscettibile a qualunque tipo di infezione. Fu un periodo duro, ma lottammo insieme come due fratelli, sostenendoci reciprocamente. Con l’arrivo di agosto parve che tutte le mie preghiere fossero state ascoltate: le condizioni cliniche di Thommy migliorarono. Lo dimettemmo dall’ospedale a metà mese, quando ormai il peggio era passato. Mi sentivo la persona più felice del mondo. Il 3 settembre chiesi il mio primo pomeriggio libero dal lavoro, per andare a festeggiare il compleanno di Thommy insieme a tutta la sua famiglia. Glielo avevo promesso il giorno delle sue ultime dimissioni e non potevo mancare. Quando lo rividi a casa, con i jeans strappati e la maglietta bianca e azzurra di Messi al posto del pigiama a quadretti, mi commossi. Il mio piccolo lottatore aveva avuto la meglio sul mostro chiamato cancro. Era la giornata della vittoria! A metà pomeriggio ci riunimmo tutti in giardino: Thommy era pronto a tagliare una torta al cioccolato che sarebbe bastata per trenta persone. Ascoltammo il suo divertente discorso sulle imprese che avrebbe affrontato da quel giorno in avanti senza notare il crescente pallore sul suo viso.


Applaudimmo entusiasti mentre lui accennava a servire una fetta del dolce con le mani che tremavano quando, all’improvviso, il suo sorriso si spense. Il mio giovane amico si accasciò a terra in un istante, privo di conoscenza. Subito dopo iniziò a dimenarsi in preda a delle spaventose crisi convulsive. Lo portammo con urgenza in ospedale dove il dottor Fuster ci stava già aspettando. Come da prassi, gli fecero immediatamente una TAC alla testa e con orrore le immagini ci mostrarono una massa nell’emisfero destro del cervello che stava causando una grave emorragia. Thommy entrò in coma dopo solo tre ore dal nostro arrivo al pronto soccorso. Rimase privo di conoscenza per due giorni, durante i quali non riuscii a muovermi dall’ospedale. Per tutto quel tempo, vegliai il suo sonno senza sogni, sperando che accadesse un altro miracolo e la sua vita fosse risparmiata. Morì la mattina del terzo giorno di ricovero. All’annuncio del suo decesso sentii spezzarsi qualcosa dentro di me. All’improvviso stare in ospedale divenne insopportabile. Quel posto era diventato tossico e soffocante. Dovevo andarmene e mettermi in salvo. Così scappai, sentendomi impotente e distrutto come non mai per la prima volta nella mia vita. Come poteva essere successo? Perché Thommy se ne era andato? Che cosa avevamo sbagliato? Troppe domande affollavano la mia testa, mettendo a tacere la razionalità e dando voce a tutti quei sentimenti travolgenti che avevo sempre cercato d’ignorare. Corsi a perdifiato mentre anche i volti degli altri pazienti che avevo visto morire prima di Thommy si affacciavano tra i miei pensieri, guardandomi con gli occhi pieni di tristi illusioni. Sconvolto, arrivai al cospetto del Münsterbrücke. Lì, di fronte al Limmat, aspettai il tramonto, annegando tra le mie stesse lacrime, e lasciai che tutto il resto del mondo scomparisse lentamente come la luce del giorno nell’ombra della notte. Non avevo alcuna idea su cosa avrei fatto della mia vita da lì a ventiquattr’ore. L’unica cosa certa era che non volevo più tornare in ospedale. Non potevo più essere lo stesso Alain dopo quello che era successo a Thommy. Non potevo più fare il medico e sopportare il peso della morte. Mai più. Fu mentre facevo quell’ultima considerazione che scorsi con la coda dell’occhio qualcun altro appoggiarsi al parapetto di metallo grigio, a pochi metri da me.


D’istinto mi voltai. Era una donna. Indossava una giacca leggera, molto elegante. I lunghi capelli biondi le cadevano morbidi fino alla vita e ondeggiavano nel vento della sera come fili d’oro. Era rivolta verso il fiume, proprio come me. Restò così per un po’, fissando il lento scorrere del Limmat in silenzio assoluto. Poi la brezza della sera ci sferzò entrambi e il suo profumo mi investì, letale come un proiettile. Sapeva di rose e di proibito. Sapeva di qualcosa che non avrei mai potuto avere… «Perché sta piangendo?», mi chiese la sconosciuta all’improvviso, risvegliandomi dal torpore in cui ero caduto. «Come?», sussurrai appena. Lei fece qualche passo verso di me: il suo viso era così bello da sembrare irreale. «Allora?». La sua bocca si increspò in un mezzo sorriso, nonostante anche i suoi occhi fossero gonfi di lacrime. Non sarei stato in grado di dire quanti anni avesse, ma di sicuro era più grande di me. «Io… Io ho appena perso un paziente… è successo poche ore fa», risposi balbettando. I suoi occhi brillavano come due zaffiri. Ne sarei potuto rimanere facilmente accecato se avessi continuato a fissarli. «Lei è un medico?» «Uno specializzando…». La padrona di quei gioielli era a pochi centimetri da me e mi aveva appena sfiorato il braccio. Qualcosa nella mia pancia si contrasse dolorosamente mentre il suo profumo si insinuava dentro di me, imprigionandomi in una morsa sempre più stretta. «Era un paziente speciale?», domandò guardando di nuovo il Limmat. «Si chiamava Thommy. Lui… Era come un fratellino per me. Aveva lottato tanto e proprio quando pensavamo che tutto fosse stato risolto si è aggravato e…». Un singhiozzo mi scosse. «E se ne è andato…», mormorai affranto. «Capisco…». «È che ora non posso tornare indietro!», sbottai, vinto dalla necessità di condividere il mio dolore con quella bellissima donna. «Non riesco a immaginarmi domani, in ospedale, dopo ciò che è successo. Non posso, capisce? Non posso tornare lì e vedere altre persone morire». Le lacrime mi rigarono di nuovo le guance. Lei sospirò triste. «Come si chiama?», chiese dolce. «Alain», sussurrai, scostandomi i capelli dal volto. «Alain, a volte è davvero difficile lasciare andare le persone che amiamo.


Vede, tutti vogliono l’amore, ma nessuno desidera pagarne il prezzo, non è così?». C’era molta amarezza nella sua voce. La guardai sorpreso, ammirando ancora il suo viso perfetto. Uno strano calore mi pervase quando toccai la sua bocca con il solo pensiero. «Un medico coraggioso dovrebbe imparare ad affrontare il dolore di una perdita». «Ha ragione, credo… Ma io non sono per niente coraggioso», replicai confuso. «Mi perdoni se glielo chiedo ma… anche lei ha appena pianto… Perché?», mi azzardai a domandarle, curioso. Lei scosse la testa, poi prese a torturare una ciocca di capelli dorati con le dita. «Soffro per il suo stesso motivo. Non accetto la perdita di qualcuno. Sono schiava del mio dolore, come lo è lei ora… Solo che io non posso arrendermi. E non mi arrenderò mai». Strinse le labbra, contrariata. Avrei voluto dirle qualcosa, confortarla con le parole giuste ma la mia testa sembrava completamente vuota. «Cerchi di liberarsi di questo sentimento prima che può, Alain. È un giovane avvenente e potrebbe avere il mondo nelle sue mani. Non vorrà lasciarselo scappare…», aggiunse criptica. Mi scrutò attentamente e per un attimo ebbi l’impressione di sprofondare dentro le sue iridi azzurre. «Ricordi queste mie parole. Ora devo andare… Buona fortuna». Si ravviò i capelli dietro le spalle e mi superò, allontanandosi. La osservai camminare fino all’altra estremità del ponte, completamente paralizzato, incapace di fermarla. Non potevo sapere che proprio quella sconosciuta avrebbe cambiato la mia vita per sempre.


Capitolo 3 Un ragazzo troppo bello

Zurigo, dicembre 2019

«Era davvero così bella?», mi interrompe Cinda, sospettosa. Di tutto ciò che le ho detto finora sembra abbia registrato solo quel dettaglio. «Sì, lo era. Lo è…», rispondo sincero. Lei si morde le labbra nervosa, mentre cerca di immaginare questa donna dai capelli biondi e lo sguardo magnetico. Chiudo gli occhi per un istante e vengo sopraffatto dal suo ricordo. Il viso e il corpo di Isabel si fanno ancora più vividi e vorrei poterli condividere in qualche modo con Cinda, perché capisca quale diavolo vestito da angelo ho incontrato quel lontano giorno di settembre, ma è inutile. Il demone è intrappolato dentro di me, avvinghiato al mio cuore, e non potrà mai essere condiviso con nessuno. «Ok, continua a raccontare», dice lei, scuotendo la testa come a scrollarsi di dosso l’inquietudine. «D’accordo».

Zurigo, settembre 2017 Quella sera tornai a casa turbato. Pensavo a Thommy, ma non solo. Gli occhi della donna misteriosa mi tormentavano. Anche le sue parole echeggiavano nella mia testa come un fastidioso e costante rumore di fondo. Desideravo ardentemente rivederla, ma era molto improbabile che accadesse, visto che non conoscevo nemmeno il suo nome. Ero stato uno stupido a non fermarla. Un ragazzino idiota e ingenuo, come al solito.


Due giorni dopo il decesso di Thommy, celebrammo il funerale. Alla funzione parteciparono anche diverse persone dell’ospedale. Diversamente dagli altri specializzandi, però, io mi confinai nell’ultima fila da solo, mentre il sacerdote pregava per il mio piccolo amico, benedicendo il suo nuovo viaggio verso un paradiso che nessuno di noi aveva mai visto. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo ancora ad accettare che fosse andata in quel modo. Ero arrabbiato con tutto e tutti. Furioso. Quando uscimmo dalla chiesa il dottor Fuster mi trascinò in disparte, desideroso di chiarimenti. «Ho ricevuto la tua comunicazione, Alain…», esordì, serio come non mai. «Ma credo che la tua decisione di dimetterti sia stata un po’ troppo precipitosa». Scossi la testa con vigore. «No, glielo assicuro. Non credo di poter tornare in ospedale, dottore», sbottai freddo. «Alain, noi perdiamo pazienti ogni giorno! E ogni giorno ne salviamo altri. So che Thommy era una persona speciale per te, ma la sua perdita dovrebbe farti reagire invece che buttarti giù in questo modo». Abbassai lo sguardo sulla punta delle mie scarpe eleganti. «Prenditi una settimana di vacanza. Fai una pausa e poi torna a lavorare con noi. A tuo padre dispiacerebbe molto se…». «Non si sta parlando di mio padre, dottor Fuster! È la mia vita. È la mia decisione!», lo interruppi, risoluto per la prima volta nella mia vita. «La prego, cerchi di capire, almeno lei…». Il dottor Fuster sgranò gli occhi, sorpreso. Non avevo mai alzato la voce davanti a lui, prima di allora. Non era da me ma, come sospettavo, qualcosa di sconosciuto mi aveva infettato dopo la perdita di Thommy e mi stava già trasformando nell’uomo che non avrei mai voluto diventare. Ovviamente ero cosciente che quella decisione improvvisa avrebbe sconvolto i piani di papà, ma speravo che almeno il mio mentore mi avrebbe appoggiato. Non fu così. Nelle settimane a seguire fui tormentato dalle telefonate del dottor Fuster e allo stesso tempo affrontai una guerra spietata a casa. Le interminabili discussioni con mio padre finivano sistematicamente con monologhi sprezzanti in cui il celebre oncologo Victor Bercher si lamentava della mia poca forza d’animo e del mio insuccesso come medico e figlio. Ascoltavo ogni suo insulto in silenzio, ingoiando tristezza, giorno dopo giorno, incapace di reagire a quelle accuse.


Nonostante il dolore e l’umiliazione, nessuno era riuscito a scalfire la mia determinazione. Non sarei tornato in ospedale, mai e poi mai, ma era anche la prima volta che mi ribellavo in quel modo e proprio per questo mi sentivo terribilmente smarrito. Non avevo mai disobbedito a mio padre. Non mi ero mai opposto ai piani che lui aveva disegnato così accuratamente sul foglio della mia vita, ma la morte di Thommy aveva cambiato tutto ed era il momento di reagire. Riflettei per giorni: come avrei potuto continuare a lavorare in ambito medico senza dover mai più incontrare un paziente? La soluzione sembrò cadermi dal cielo quando per caso vidi un annuncio sulla bacheca dell’ospedale, al momento della restituzione delle chiavi del mio armadietto. Un dottorato di ricerca! Sì, quella poteva essere la giusta via per fuggire dalla realtà della clinica ma continuare comunque a contribuire al benessere dei pazienti, sebbene indirettamente. Controllai i requisiti per fare domanda e mi sentii improvvisamente più leggero. Era una decisione rischiosa perché nata dalla paura e non da una disamina razionale di pro e contro, eppure inviai la richiesta insieme al mio curriculum quel giorno stesso. Fu una scarica di adrenalina pura! Avevo appena fatto qualcosa solo per me stesso e non per accondiscendere ai desideri di qualcun altro. Per un brevissimo momento mi sentii orgoglioso di me stesso. Quando mio padre però lo scoprì non mi parlò per una settimana e tutta quell’euforia svanì. Poco prima che il bando scadesse, poi, Victor disse che non avrebbero mai scelto un medico per quel tipo di dottorato e che ero solo un povero illuso. Ironia della sorte, fui accettato nel programma di dottorato in Life Sciences nel prestigioso istituto dove proprio lui stesso aveva svolto parte dei suoi studi. Ce l’avevo fatta!

Zurigo, ottobre 2017 La mattina del mio primo giorno all’ETH di Zurigo ero strafatto di caffè


dopo una notte passata in bianco, a navigare in un vortice di emozioni contrastanti. Avevo un nuovo taglio di capelli, indossavo un semplice paio di jeans invece che un costoso completo elegante e mi sentivo leggero come una piuma. Dopo aver consegnato tutti i documenti necessari alla segreteria di dipartimento, per la prima volta dopo ciò che era successo con Thommy, fui travolto da un moto di felicità. La mia nuova vita stava iniziando! Eccitato come un bambino, salii al secondo piano e andai subito verso l’ufficio del dottor Handelson, con cui avevo appuntamento. Quando arrivai, trovai la porta aperta e con mia sorpresa lo vidi inginocchiato a terra, impegnato a raccogliere una risma di fogli stampati. Mi chinai immediatamente ad aiutarlo. «Tu devi essere Alain», disse lui, offrendomi un caldo sorriso. Era proprio come lo aveva descritto mamma: capelli rossi, barba fulva, carnagione chiara e voce baritonale. Il professor Handelson era originario di Belfast ma aveva fatto tutti i suoi studi nella Svizzera tedesca, diventando un perfetto “crucco”, nonostante le sue origini irlandesi fossero difficili da nascondere. Gli allungai il centinaio di fogli che avevo recuperato. Lui fece una smorfia di disappunto. «Questa è la bozza di una tesi di dottorato che devo correggere entro due giorni», sussurrò sospirando, poi lasciò cadere il manoscritto sulla scrivania e mi invitò a sedermi di fronte a lui. «Ecco, ho trovato il tuo fascicolo. Devo dire che la tua lettera di motivazione mi ha molto colpito». Digitò qualcosa al PC mentre io mi torturavo le mani, improvvisamente nervoso. «Bene…», mormorai. «Sono impressionato dal tuo curriculum, anche se non capisco perché tu abbia lasciato la clinica per la ricerca». Mi aspettavo quella domanda e mi ero preparato anche una risposta convincente, eppure dalla mia bocca non uscii alcun suono. Mi limitai a fissarlo negli occhi con un sorriso ebete stampato sulle labbra, sperando ardentemente che si accontentasse di quel silenzio. «Be’, se non ne vuoi parlare… Mmm, in ogni caso qui c’è moltissimo da fare e ci serviva proprio il punto di vista di un medico. Molti dei nostri progetti sono in stretta collaborazione con l’ospedale. Ne sarai entusiasta, vedrai. A proposito di progetti… Tu non hai nessuna esperienza di laboratorio quindi, per i primi mesi, ti affiancherò a Morgan e Giselle, i miei migliori soldati. Vieni, ti porto


da loro». Uscimmo dal suo studio e attraversammo il lungo corridoio del secondo piano a passo spedito, superando gli uffici, fino alle porte dei laboratori. «Morgan!?», esclamò Handelson all’improvviso, facendomi sobbalzare. «Sono qui! La macchina dei western blot non funziona! È la terza volta che la mandiamo in riparazione e quelli ce la rimandano difettosa. Come finisco i miei esperimenti se quest’affare continua a rompersi?». Un ragazzo alto quasi due metri e con un fisico da pugile spuntò da uno dei banconi. Ci avvicinammo e potei osservarlo meglio. Aveva i capelli rasati e una vistosa cicatrice sul sopracciglio destro, che gli dava un’aria davvero poco amichevole. Non appena si accorse della mia presenza, Morgan tramutò l’espressione da duro in un sorriso incredibilmente dolce. «Ciao, mi chiamo Morgan Speizer, piacere di conoscerti». Mi strinse la mano e io temetti per le mie ossa. «Dov’è Giselle?», gli chiese Handelson guardandosi attorno. «Sta sviluppando una lastra. Ah, tra l’altro le abbiamo quasi finite, bisognerà che io le riordini». Il professore alzò gli occhi al cielo prima di rivolgersi verso di me. «Morgan, Alain è il nostro nuovo dottorando. Ha studiato medicina e non ha mai usato una pipetta quindi lo affido a te e Giselle per qualche mese, giusto per fargli prendere confidenza con il laboratorio. Riparleremo del suo progetto dopo la conferenza a Ginevra, ok?». Di quale conferenza stava parlando? Non chiesi spiegazioni e lasciai che Handelson terminasse le raccomandazioni al suo Post Doc. Si misero d’accordo per una riunione, poi il professore uscì dalla stanza, impaziente di iniziare la sua giornata. Morgan mi allungò una sedia lasciando perdere quello che stava facendo prima del nostro ingresso nel laboratorio. Sembrava entusiasta del mio arrivo, per quanto l’idea che non avessi mai usato uno strumento dovesse essere disarmante per un ricercatore esperto come lui. «Sembri così giovane, quanti anni hai?», esordì, slacciandosi i primi bottoni del camice troppo stretto su spalle e torace. «Ne ho appena compiuti ventiquattro», risposi sorridente. «Santo cielo… Sei così piccolo… Era da un po’ che non arrivava un vero novellino». «Ah, be’ io…». «Dio, non fare quella faccia. Sono grande e grosso ma ho un’indole


pacifica… Mmm, finché non salgo sul ring, è ovvio». Come pensavo. Un suo pugno e sarei finito in ospedale, garantito. «Sei un pugile?» «Sì, anche. Prima. Ora faccio parkour…». «Non ho davvero idea di cosa sia ma…». «Be’, hai mai visto quei tizi che…». «Ehi straniero!». L’arrivo di una ragazza minuta ci zittì entrambi. Morgan si alzò in piedi di scatto. «Ehi straniera! Quanto ci hai messo per quella lastra…», disse avvicinandosi e facendola sembrare ancora più piccola. Poi mi indicò con la mano. «Guarda Giselle, carne fresca! Un nuovo dottorando tutto per noi. Alain non ha mai usato una pipetta e questa volta tocca a te fare il primo training. Quindi Alain, ti presento Giselle, la tua Mistress». La ragazza aveva i capelli neri, lunghi fino alle spalle e bellissimi occhi verdi. A quelle ultime parole scosse la testa sorpresa e subito dopo arrossì. «Pi… Piacere», disse in un soffio, allungandomi una mano. Gliela strinsi delicatamente e le sorrisi affabile. «Piacere mio. Dove posso sistemare le mie cose?». Giselle mi guardò ancora più stranita e il mio imbarazzo salì alle stelle. Doveva avere poco più di trent’anni ed era molto carina, ma la mia presenza sembrava averla messa a disagio. «Sì… Ecco… Dammi un momento e ti preparo una postazione». Sparì dalla mia vista prima che potessi offrirmi di aiutarla. Morgan alzò gli occhi al cielo per poi lanciarmi uno sguardo complice. «Ehi novellino… Te lo dico oggi con la certezza del cento per cento. La tua presenza metterà in subbuglio tutto il piano, garantito!». «Di che cosa stai parlando?». Lui annuì sogghignando. «Parlo del tuo faccino da studente modello e di quell’aria così innocente… Entrambi resusciteranno l’istinto materno di tutte le donne più attempate e causeranno una tempesta ormonale a quelle più giovani. Dio, come ti invidio…». Scoppiò in una risata tuonante, lasciandomi perplesso. Giselle tornò da noi proprio in quel momento con due camici della mia misura e delle pipette. Poi mi mostrò sia la mia scrivania che il mio bancone, evitando per tutto il tempo di guardarmi negli occhi. Non capivo se era infastidita o solamente imbarazzata dalla mia presenza. Mi limitai a seguire le


sue istruzioni in silenzio, rimandando a più tardi quelle considerazioni. Per quel giorno fui relegato alla scrivania a leggere articoli, interrotto soltanto dalle grida di Morgan contro tutte le cose che smettevano di funzionare durante le sue procedure sperimentali. Giselle tornò da noi solo a tardo pomeriggio e si comportò in maniera più amichevole di quella mattina. Mi disse che il giorno dopo avrei potuto seguirla per un esperimento e mi lasciò il suo numero di telefono sulla scrivania in caso di emergenze. Quando la ringraziai sfoderando l’espressione più dolce che potevo, lei arrossì di nuovo e io dovetti prendere in seria considerazione quello che Morgan mi aveva detto riguardo al mio inaspettato effetto sulle donne. La mettevo in difficoltà, questo era sicuro, ma non capivo davvero perché. Ignoravo cosa significasse essere innamorati, così come soffrire per amore. Quel comportamento quindi non aveva alcun senso per me. Nel viaggio di ritorno a casa tuttavia riflettei su quegli aspetti della vita, che fino a quel momento avevo decisamente trascurato. La mia ultima storia con l’altro sesso risaliva all’epoca del liceo. Durante l’università non avevo avuto il tempo per una vera relazione. Ero stato troppo impegnato a studiare, a consumarmi per ottenere il massimo dei voti e finire il corso di studi prima dei cinque anni stabiliti, stando così ai piani di Victor. Non potevo certo permettermi il lusso di sbagliare, di gettare una macchia sulla lunga lista di stimati medici della generazione Bercher che si erano laureati con il massimo dei voti. In caso contrario mio padre ne avrebbe fatto una tragedia, prendendolo come un fallimento personale. In tutto quel tempo quindi non mi ero proprio accorto di essere sbocciato, di non sembrare più solo un ragazzino timido ed eternamente indeciso. Ero diventato un giovane uomo, attraente e intrigante per l’altro sesso. Quella scoperta mi fece sorridere: in fondo il fatto che la mia nuova collega fosse arrossita mi rendeva molto felice. Il giorno dopo, come pattuito, io e Giselle ci trovammo in laboratorio di buon’ora. Dopo una breve spiegazione sulle norme di sicurezza, la seguii in camera cellule, entusiasta. Con pazienza e precisione, mi spiegò come usare le pipette e in che modo lavorare in sterilità. Giselle aveva una voce ferma e decisa, resa però dolce dal forte accento francese. Scrissi molti appunti e nel frattempo la osservai prendersi cura delle linee cellulari con meticolosa attenzione. Di tanto in tanto facevo qualche battuta, cercando di smorzare la tensione che ancora aleggiava tra noi, ma lei continuava a tenere le distanze. Dovevo proprio metterla in difficoltà…


«Lavori da tanto per il professor Handelson?», le chiesi infine mentre sistemava i terreni di coltura nel frigo. «Da circa sei anni. Ho fatto il dottorato qui e poi sono rimasta come Post Doc». «E Morgan?» «Da meno», mi rispose guardandomi negli occhi per la prima volta. «Ha fatto il dottorato in Italia e poi si è trasferito qui. È intelligente e preparato. Puoi imparare molto da lui». Mi diede di nuovo le spalle per finire di riempire il freezer con le scorte di siero che avevamo appena inattivato. Indossai i guanti e mi avvicinai per aiutarla. Quando le fui accanto però Giselle sussultò, indietreggiando verso la parete, spaventata. Aveva il respiro accelerato e le guance rosse come rubini. «Scusami», le dissi subito, impacciato. Possibile che le piacessi a tal punto da renderla nervosa? Perché le persone si comportavano così quando erano attratte da qualcuno? Non riuscivo a capire. «Niente… Niente…». Si scostò un ciuffo di capelli dal viso e mi permise di aiutarla. Per un po’ rimanemmo in silenzio, in compagnia del solo rumore delle cappe a flusso. Poi Giselle riprese a spiegarmi il sistema di catalogazione dei campioni e io tornai a concentrarmi sul lavoro. Quel pomeriggio facemmo una pausa insieme a Morgan e ad altri due membri del gruppo Handelson. Conobbi Patrick, un tecnico di laboratorio e Philippe, il loro lab manager. In loro compagnia Giselle sembrò finalmente ritrovare la calma e anch’io, nel vederla così, cominciai a rilassarmi. Fu la domanda di Morgan però a rimettermi bruscamente in agitazione. «Alain, Handelson mi ha detto che hai lasciato la specializzazione da poco. Come mai? Insomma, la carriera da medici è di gran lunga un percorso migliore di quello riservato a noi topi di laboratorio… Quale pazzia ti ha condotto qui all’ETH?» «Io…». La voce mi si strozzò in gola. Ero riuscito a dimenticarmi di Thommy per qualche giorno, ma le parole di Morgan mi avevano riportato indietro, su quella strada che avevo deciso di abbandonare contro il volere di mio padre. Restai per un attimo in silenzio mentre gli occhi di tutti i miei nuovi compagni d’avventura si fissavano curiosi su di me. «Ehi, che ti succede novellino?», mi pungolò Morgan con voce più dolce. «Nulla, tutto ok…», dissi sforzandomi di sorridere. «La ragione… La ragione è semplice. Ho provato la vita da specializzando e ho capito che non


faceva proprio per me». Sperai che quella spiegazione sintetica fosse sufficiente a soddisfarli, ma le loro espressioni erano ancora perplesse. Per evitare altre domande mi alzai dal tavolo e con una scusa mi allontanai. Turbato, mi rifugiai alla mia scrivania mentre il familiare dolore della perdita mi si insinuava malevolo nel petto. Per quanto me ne vergognassi, sentivo il bisogno di piangere, ma non era né il momento né il luogo. In fondo nessuna lacrima avrebbe riportato Thommy indietro dal mondo dei morti. Mi sedetti alla scrivania e cercai di leggere, concentrandomi su un articolo che avevo abbandonato poco dopo l’arrivo di Giselle quella mattina, quando proprio la sua voce mi riportò alla realtà. «Alain… Stai bene?», mi chiese preoccupata. Mi voltai, sentendomi scoperto. Scossi la testa imbarazzato. «No, non sto bene, in realtà…», risposi onesto. Lei annuì e si sedette di fianco a me. «Quando Morgan ti ha fatto quella domanda sulla specializzazione sei diventato pallido e hai cambiato radicalmente espressione», disse facendo un mezzo sorriso. «Ti è successo qualcosa di brutto prima di venire qui, non è così?». Annuii in silenzio, incapace di spiegarle meglio le mie ragioni. Giselle si limitò a scrutarmi da sotto le ciglia scure. «Senti, di qualunque cosa si tratti non è necessario che me ne parli per forza. Ma se dovessi sentire il bisogno di confrontarti… Io ci sono». Mi accarezzò il dorso della mano con dolcezza e poi si diresse verso la porta. «Giselle!», la chiamai. Lei si voltò di scatto, sorpresa. «Grazie…», le sussurrai dolce. Finalmente il suo volto si illuminò di un sorriso. Da quel giorno le cose tra noi migliorarono. Trascorrevamo molto tempo insieme e l’imbarazzo che ci aveva un po’ bloccati all’inizio della mia avventura all’ETH sembrava essersi dissolto come una nuvola di vapore. Dopo i primi due mesi, grazie a lei e a Morgan, non mi sentivo più fuori posto in laboratorio e avevo già preso dimestichezza con le prime tecniche di biologia cellulare e molecolare. Ogni giorno, aiutavo Giselle con le linee cellulari e Morgan con le preparazioni dei gel per proteine. Imparavo avidamente tutto quello che loro avevano la pazienza di insegnarmi. Avevo anche conosciuto alcuni membri degli altri gruppi che lavoravano sul nostro stesso piano appassionandomi sempre più al mondo della ricerca. Tutto sembrava proseguire per il meglio. «Ehi novellino, che fai questa sera?», mi chiese Morgan distogliendomi


improvvisamente da quei pensieri. «Niente di particolare, perché?» «Facciamo una dimostrazione di parkour al Suberstach. Perché non vieni a vedermi? Poi ci beviamo qualcosa assieme e parliamo di donne». Sogghignai divertito. «Allora sarà un monologo. Io non ho niente da raccontarti sull’argomento», dissi sincero. «Santo cielo, che idiota! C’è mezzo piano che non vede l’ora di uscire con te e tu che fai? Vivi tra le nuvole, Alain?» «E chi sarebbe questo mezzo piano, sentiamo? Io non mi sono accorto di niente», protestai. Morgan sbuffò spazientito. «Ma sei cieco? Mio Dio, un caso disperato… Ce l’avessi io quel viso da angioletto, sai quante ripassate mi sarei già fatto?». Scoppiai a ridere divertito. «Ok, va bene, allora dammi dei nomi così concludo anch’io qualcosa». Morgan divenne serio all’improvviso e si avvicinò a me, sovrastandomi con la sua altezza. Il suo sguardo mi fece quasi paura. «Giselle, cretino! Perché solo un cretino non se ne sarebbe accorto. Cos’è, non ti piace? O magari hai già una ragazza, sentiamo?». Scossi la testa, turbato. «Non sto con nessuno al momento…». «E allora cosa aspetti?», mi incitò. Lasciò cadere il camice sulla sedia e indossò il giubbotto di pelle. «Dài, vieni con me. Ho invitato anche lei questa sera. Ci raggiungerà lì e forse, dopo esserti scolato qualche birra, riuscirai a tirare fuori un po’ di palle». Indossai la giacca pensieroso e, insieme a Morgan, presi la metro per raggiungere il centro. Durante il viaggio ripensai a tutte le volte che Giselle aveva distolto lo sguardo dal mio ed era arrossita, anche se ci eravamo appena sfiorati. Provava qualcosa per me, quello era certo, ma non vi avevo dato troppo peso, impegnato com’ero a eccellere in quello che mi stavano insegnando. Ero timido e forse ancora troppo immaturo per iniziare una vera relazione. Per quanto ogni giorno Morgan facesse commenti piccanti sul mio aspetto esteriore e decantasse l’incredibile effetto che avevo sulle donne, non ero mai stato un maschio alfa, né avevo mai preso l’iniziativa con l’altro sesso, nemmeno in passato. Avevo sempre aspettato che fosse la donna a farsi avanti, per codardia o forse perché non mi ero mai sentito travolto da quel sentimento inarrestabile di cui Thommy mi aveva raccontato mentre descriveva la sua Annah. L’aver vissuto tutta la vita sotto l’ombra di un padre


severo e dominante mi aveva reso insicuro ed eternamente indeciso, cosa di cui lui stesso si lamentava spesso. Papà diceva che il mondo era alla portata di chi sfoderava sia unghie che denti, afferrandolo dritto per la gola. Ero affascinato e insieme spaventato da quella filosofia di vita. Il mio essere passivo e un po’ sottomesso ne era stata una chiara conseguenza. Ero io la preda che qualcuno avrebbe presto preso per il collo… Arrivammo al Suberstach alle nove. Morgan mi lasciò subito a uno dei tavoli del locale per prepararsi alla dimostrazione con gli altri allievi della sua scuola. Giselle arrivò dopo pochi minuti accompagnata da una scia di dolce profumo. La osservai con interesse: indossava un vestito nero, aderente, che le fasciava il corpo minuto come un guanto di velluto. Non ero abituato a vederla in versione “sabato sera” e ne fui piacevolmente colpito. «Morgan ha trascinato qui anche te, eh?», esordì sorridente mentre faceva segno alla cameriera di venire al nostro tavolo. Ordinò due birre scure senza chiedermi cosa volessi. Ignorava che non avessi mai bevuto un goccio di alcol in tutta la mia vita. Non ebbi però il coraggio di confessarglielo e quando le Guinness ci furono servite, ne ingollai un generoso sorso, sperando di reggerne l’effetto. La dimostrazione di parkour iniziò dopo circa mezz’ora dal nostro arrivo. La musica, una selezione di pezzi rap e industrial, accompagnò l’entrata di due ragazzi corpulenti che cominciarono a muoversi sul grande palco del Suberstach. Erano eccezionali ma quando Morgan fece il suo ingresso sulla scena con due capriole in aria, rimasi di stucco. Nonostante la sua stazza da gigante era agile come una lepre. I suoi movimenti erano sinuosi, le mosse energiche ed equilibrate. Sembrava un esperto ballerino, impegnato in una guerra senza esclusioni di colpi contro un rivale invisibile, saltando da un ostacolo a un altro. Mi voltai verso Giselle e la vidi estasiata quanto me. Gli occhi poi mi caddero sulle sue labbra lucide di rossetto e qualcosa si contrasse forte nel mio stomaco. Era l’effetto dell’alcol o la trovavo davvero molto più bella del solito? Proprio in quel momento lei si girò verso di me, accorgendosi della mia espressione sognante. Ebbi immediatamente l’istinto di giustificarmi. «Io… Scusa… Scusami, Giselle», balbettai imbarazzato. «Di cosa?» «Niente…». Tornai allo spettacolo ma lo sguardo di Giselle restò fisso su di


me. Che cosa dovevo fare? Era davvero solo l’effetto della birra? Il mio stomaco non smetteva di piegarsi su se stesso come plastica nel fuoco, mentre mi obbligavo a non osservarla. Avevo improvvisamente voglia di toccarla. Di baciarla. Un’audacia a me sconosciuta mi spinse a parlare di nuovo. «Giselle?», sbottai infine, voltandomi verso di lei. «Sì, Alain?». Avevo la bocca amara e secca. Deglutii e mi feci coraggio. «Che cosa penseresti se… se un ragazzo più giovane di te ti dicesse che sei molto bella questa sera?». Patetico. Un vero idiota. Ma come me ne ero uscito? Giselle scoppiò a ridere, schiacciando il mio orgoglio da coniglio sotto i tacchi. Sospirai e mandai giù l’ultimo sorso di birra, umiliato. Con mia sorpresa però lei si avvicinò di colpo, portando le sue invitanti labbra al mio orecchio. «Ne sarei felice, Alain…», sussurrò sensuale. Mi girai di scatto e mi ritrovai a due centimetri dalla sua bocca. Il sangue si irradiò all’istante all’altezza della cintura e mi venne un’incontrollabile voglia di assaggiare quelle labbra. Fu Giselle a prendere l’iniziativa. Senza nemmeno avere il tempo di realizzarlo mi ritrovai la sua lingua in bocca, morbida, dolce… Fantastica. Risposi a quel bacio inaspettato con trasporto, reso un po’ più sicuro di me dall’alcol. Allungai una mano tremante e la appoggiai timidamente sulla sua schiena. Sentii la pelle calda, sotto il vestito, e i suoi muscoli contrarsi delicatamente. La accarezzai appena, e un desiderio viscerale scivolò dal mio petto al basso ventre, riempiendomi di vigore. Da quanto tempo non facevo sesso? Troppo… Troppo tempo. A quel pensiero, il ritmo dei suoi movimenti nella mia bocca si intensificò come se avesse appena percepito la mia voglia. Mi circondò le spalle facendo aderire il suo corpo al mio. Sentii i seni appoggiarsi sensuali sulla mia camicia e dovetti trattenermi a fatica dalla tentazione di afferrarli tra le mani e stringerli avidamente. Con uno sforzo di volontà non indifferente, posai le dita appena sopra il suo fondoschiena. Giselle mi lasciò fare e a quel punto mi sentii un leone. Per quanto avrei potuto continuare a baciarla in quel modo senza lasciarmi sfuggire un ruggito? Avevo una gran voglia di liberarmi dei miei vestiti e dei suoi. Fui travolto dalla incredibile necessità di abbandonare la severa divisa del bravo studente e comportarmi da uomo. Solo che… Solo che io non ero così. Io non travolgevo. Io mi lasciavo travolgere, sconvolgere come la sabbia mentre si abbandona tra le braccia del mare. Senza imporsi. Sempre. Quel pensiero raffreddò il mio spirito. «Alain…», mugugnò Giselle staccandosi di colpo. La lasciai andare un po’


stordito e mi specchiai nei suoi occhi color smeraldo illuminati dalle luci della sala. Lo spettacolo di Morgan stava finendo. «Scusami», dissi, voltandomi verso il palco e cercando di rallentare le pulsazioni che si prolungavano dolorose al mio membro insoddisfatto. «Davvero». «Scusami tu…». Sembrava imbarazzata ma io lo ero di più. L’eccitazione del momento era come svanita, sostituita da una strana sensazione di vergogna. «Ho esagerato, scusami Alain. Noi lavoriamo insieme…». «Già». Strinsi i denti, frustrato. Cercai di elencare il nome di tutte le ossa partendo dalla mano, per distrarre la mente e calmare i miei lombi eccitati. Una volta quel sistema funzionava perfettamente ma in quel momento la voglia di violare il corpo di Giselle era troppo forte. Immaginarla mentre mi prendeva con forza, dandomi piacere, mi mandò definitivamente in tilt. Restammo in silenzio per un po’ ed evitammo di guardarci, finché Morgan ci raggiunse al tavolo. Si era cambiato, fresco di doccia, e aveva una gran voglia di bere. Ordinammo altre tre birre, anche se io sentivo già l’effetto di quella che avevo appena terminato. «Allora? Vi è piaciuto lo spettacolo?», ci chiese lui sorseggiando una Guinness ghiacciata. Entrambi annuimmo, muti come pesci. Il solito sorriso bonario sparì dalla sua faccia all’istante. «Diamine, che vi è successo mentre ero sul palco? Non avrete mica combinato qualcosa di sconcio?». Giselle scosse la testa arrossendo e indossò in fretta la giacca. «Sei stato bravo», disse a Morgan, dandogli un bacio sulla guancia. «Ma ora devo tornare a casa. Ci vediamo domani in laboratorio». Gli sorrise, poi si voltò verso di me e mi lanciò uno sguardo truce, prima di sparire in mezzo alla gente nel locale. «Ma che diavolo! Alain, che è successo? Giselle non si comporta mai così». Tanto valeva confessare. «Ci siamo baciati. Mi ha baciato… Non lo so», sbottai. In qualche modo avevo bisogno di essere rassicurato. Morgan sgranò gli occhi sorpreso. Restò qualche minuto in silenzio, poi mi afferrò per un braccio. «E tu, novellino, cosa pensi di fare, adesso?» «Niente… Se ne è andata, no? Che dovrei fare?». Oltre che più audace, l’alcol mi aveva reso stranamente nervoso. «Rincorrerla, idiota! È chiaro che ti vuole scopare dalla prima volta che ti ha visto, no?».


Scopare? L’eccitazione tornò a fluire nel basso ventre, languida e tentatrice. «Lavoriamo insieme. Non sarebbe una buona idea». Sì, ecco. Ragione, torna da me! Non farmi pensare al corpo nudo di Giselle… Non farmi pensare alle sue labbra… A lei che mi cavalca… Dio… Come un automa, guidato dalla mia virilità, afferrai la giacca e lasciai Morgan da solo. Corsi all’uscita. Forse facevo ancora in tempo a raggiungere Giselle. Non appena fui fuori, l’aria fredda della sera mi sferzò il viso, dandomi una svegliata. Scossi il capo e guardai tra la gente che stazionava fuori dal locale per fumarsi una sigaretta, poi individuai Giselle proprio all’angolo in fondo alla strada. Stava camminando incerta, in bilico sui tacchi, verso la fermata della metro. La chiamai, raggiungendola a falcate impazienti. «Alain…», disse lei, sorpresa di vedermi lì. «Perché sei scappata via?», le chiesi senza pensarci troppo. Giselle si morse le labbra imbarazzata. «Non è evidente?». Strisciò il tacco sul marciapiede facendo un rumore fastidioso. «Mi dispiace… O meglio… No, non mi dispiace per niente che ci siamo baciati». Dannazione! Stavo solo peggiorando le cose. Ero confuso e non sapevo come comportarmi. Giselle mi si avvicinò. «Tu mi piaci, Alain. Molto. Ma noi lavoriamo insieme. Non sarebbe una buona idea, né per te né per me», ripeté. Aveva ragione. In quel momento però a tutto il resto del mio corpo la sua spiegazione sembrò un dettaglio insignificante. «Capisco. Ma…». «Ma?» «A volte bisogna inseguire anche le idee un po’ folli… Non credi? Seguire solo le idee buone è fin troppo facile». Era una cosa che mi diceva spesso mio padre quando la soluzione più logica non era la migliore secondo il suo severo punto di vista. Non pensavo che quella frase arrogante mi sarebbe tornata utile per convincere una donna a fare sesso. «Allora…», Giselle mi portò le mani sul viso e avvicinò le labbra alle mie. «Vieni a casa mia, Alain. Seguiamo l’idea più folle». Mi leccò le labbra e poi mi baciò di nuovo. Vittoria! Sulla metro, la sua lingua mi aveva esplorato a lungo, languida e dolce. Per l’intero tragitto mi ero lasciato gradualmente andare, sottomesso alle sue


carezze e incantato da quella nuova versione di lei. Arrivammo al suo appartamento poco prima delle undici. Giselle aprì la porta con mani tremanti e mi spinse in soggiorno, eccitata. I suoi occhi sembravano stranamente più scuri, come se il desiderio avesse gettato un’ombra oltre le iridi verdi. Il suo respiro era accelerato, le guance madide e arrossate. La volevo tanto quanto lei mi desiderava eppure non riuscivo a prendere l’iniziativa. L’idea che fosse lei e non io a condurre il gioco mi rassicurava e mi eccitava nello stesso tempo. Giselle si staccò da me all’improvviso per togliersi la giacca con movimenti sensuali. Il mio membro si gonfiò ancora, costretto ormai in uno spazio troppo angusto. Volevo spogliarla ed entrare dentro di lei, sentire la sua pelle sulla mia, il suo odore mentre la prendevo con tutto me stesso eppure restavo immobile, attendendo una sua mossa. Perché no, non volevo possederla ma essere posseduto, inerme sotto le sue mani. Si sfilò l’abito con un movimento lento e studiato, facendomi ribollire il sangue come lava. Quando il mio sguardo si posò sul suo seno nudo emisi un sospiro di piacere e impazienza insieme. Giselle si avvicinò provocante, strusciò su di me i capezzoli inturgiditi, solleticandomi attraverso la stoffa della camicia. Toccai quelle curve morbide e ben proporzionate in preda a una crescente eccitazione e un violento calore si concentrò nel mio sesso, così tanto da tramortirmi. Proprio in quell’istante la sua mano si avvicinò alla cerniera dei jeans, liberandomi finalmente dalla costrizione. Con le labbra incollate al mio petto, Giselle accarezzò il mio membro dall’alto verso il basso, stringendo e allentando ritmicamente la presa. Era affamata e me lo stava dimostrando. Cercai di togliermi i vestiti ma lei fu più rapida. Si inginocchiò ai miei piedi sfilandomi i boxer. Poi le sue labbra circondarono la mia virilità in una morsa. Non appena il tepore della sua bocca mi avvolse, non potei più trattenermi. Ansimai in preda all’eccitazione. Giselle percorse la linea del glande con la lingua, poi mi tempestò di morsi fino ai testicoli, succhiando la pelle morbida dello scroto come se fosse stato un delizioso dessert. Ero duro come non mai. Lei continuò a tormentarmi con la bocca e con le dita, accompagnando quello stillicidio con dolci sospiri, dominandomi. Il fatto che fosse lei e non io ad avere il controllo della situazione mi fece provare un piacere perverso. Era una sensazione nuova, a me sconosciuta. Animale. Quando fu soddisfatta, Giselle si staccò dal mio membro e così, mezzo svestito e fremente, mi trascinò nella camera da letto. Mi spinse sulle


lenzuola e subito dopo si buttò su di me. La strinsi forte, apprezzando la consistenza vellutata della sua pelle, il calore che si irradiava dal suo corpo, e nutrendomi di quel profumo sensuale che ha una donna quando è in preda alla passione. La baciai. Il suo seno mi accarezzava il petto, gli slip di pizzo scuro ormai umidi dei suoi umori graffiavano la mia pelle pulsante. Glieli sfilai con un’unica mossa e poi la guardai sistemarsi a cavalcioni su di me. Aveva gli occhi lucidi, le labbra gonfie dei miei baci e i capelli scomposti. Era ancora più carina di quando era arrivata al locale. Proprio mentre facevo quei pensieri Giselle si mosse su di me, tremando. Strappò la confezione di un preservativo e delicatamente lo srotolò sul mio sesso. Poi le sue grandi labbra premettero sul mio glande, scivolose e infuocate, in attesa solo di essere violate. Il cuore mi correva impazzito nel petto e solo quando spinsi il mio membro dentro di lei, sentii finalmente un po’ di pace. Quella sensazione di quiete però durò soltanto pochi secondi, sostituita da una strana e insopportabile impazienza. Desideravo essere suo. Volevo che mi cavalcasse, che il suo corpo fremesse sul mio, che mi catturasse in quel vortice di emozioni da cui sembravo soffocato e ammaliato allo stesso tempo. Volevo vedere quanto anche lei mi agognava, sentire il suo corpo chiamarmi a squarciagola e infine raggiungere l’apice. Giselle sembrò leggere per l’ennesima volta i miei pensieri e dopo essersi sistemata meglio su di me cominciò a montarmi, alternando spinte leggere a colpi più decisi. Le sue labbra scivolose si stringevano al mio sesso, ingoiandolo profondamente. Il piacere mi avvolse di secondo in secondo, per poi devastarmi. I suoi movimenti perfetti mi stavano mettendo in difficoltà, ma volevo riuscire a tutti i costi a trattenermi. Desideravo che fosse lei a venire su di me, inondandomi del suo orgasmo prima che il mio potesse liberarsi. Volevo che mi usasse per soddisfare il suo corpo prima di darmi la possibilità di fare la stessa cosa per me stesso. Strinsi i denti, mentre lei continuava a cavalcarmi, inebriato dalla vista del suo seno che si alzava e abbassava seguendo il ritmo di quella danza proibita, ammirando l’espressione appassionata sul suo viso arrossato. Poi, dopo un tempo che non riuscirei a definire, Giselle cominciò ad ansimare sempre più forte, a contrarre la muscolatura dell’addome e delle gambe attorno alle mie anche, chiudendomi di nuovo in una morsa infuocata. Stava per cedere. Mi alzai per stringermi a lei e spingere il sesso più a fondo e finalmente la sentii venire in un urlo strozzato. In quel momento il calore aumentò di colpo lì dove


eravamo una cosa sola, e il mio pene annegò nei suoi umori. Annaspando, aspettai che le sue contrazioni scemassero lentamente per dare fondo alle ultime energie rimaste, spingendo ancora e ancora, alla ricerca del mio piacere. Lei mi accolse di nuovo, accompagnando i miei movimenti finché anch’io non mi lasciai andare, scoppiandole dentro. La mia mente fu invasa di endorfine e subito dopo mi sentii in pace. Rimanemmo stretti l’uno all’altra fino a quando i cuori di entrambi si acquietarono e i nostri respiri tornarono normali. Poi fui colto dal sonno e, incapace di lottare, mi abbandonai tra quelle braccia amorevoli, piacevolmente appagato.


Capitolo 4 Mi troverai quando smetterai di cercarmi

Zurigo, dicembre 2017

Mi

svegliai di soprassalto al suono della notifica di un messaggio. Mi guardai attorno confuso: la testa mi faceva male, ero nudo in un letto sconosciuto ai cui piedi giacevano sia i miei vestiti che il cellulare. Dopo pochi istanti di vuoto i ricordi della notte precedente mi assalirono come una tempesta d’estate. Rividi il corpo di Giselle tremare di piacere sul mio e lo stomaco mi si attorcigliò. Che cosa avevo fatto? Le sensazioni calde e meravigliose che mi avevano travolto solo poche ore prima, alla luce del giorno si erano tramutate in un freddo senso di vergogna e imbarazzo. Giselle mi piaceva, eppure… Mi sembrava tutto sbagliato. Mi alzai controvoglia. Indossai boxer e pantaloni e poi seguii i rumori di stoviglie fino al soggiorno con cucina a vista, dove Giselle stava preparando la colazione. Quando si voltò verso di me, mi scrutò con un’espressione indecifrabile. «Buongiorno», le dissi piano trovando la mia camicia appoggiata su un lato del divano. La indossai sotto i suoi occhi attenti, imbarazzato come non mai, e poi mi sedetti al tavolo aspettando che fosse lei a parlare per prima. «Come stai?», mi chiese gentile. «Bene…», mentii. «Ok, ho capito», disse, accomodandosi di fronte a me. «È tutto strano adesso, vero?». Annuii. Mi sarei voluto prendere a schiaffi: Giselle era una ragazza davvero carina e quella notte l’avevo desiderata con tutto me stesso, ma… Ma con la stessa velocità con cui erano arrivate, quella sensazione di impazienza, la necessità di stringerla tra le braccia e farla mia, si erano dissolte in pochi secondi al sorgere dell’alba. Non sentivo più niente, se non un fastidioso imbarazzo. «Avanti, Alain… Non cercare di indorare la pillola».


«Che cosa?» «Sei in difficoltà e si vede, quindi non mentire». Per quanto si stesse sforzando di mostrarsi indifferente potevo leggere un profondo senso di delusione nei suoi occhi. «Mi dispiace», riuscii a dire soltanto. Giselle mi servì del caffè e poi bevve il suo in silenzio, già consapevole di quello che provavo per lei. Non ci fu bisogno di parlare ulteriormente. Dopo colazione, mi lasciò in soggiorno per farsi una doccia e quando fummo entrambi pronti ci incamminammo verso la metro per andare in laboratorio. Per tutto il tragitto lei restò sulle sue poi, poco prima che arrivassimo all’ETH, mi afferrò la mano. «Cerchiamo di superarla, ok?», disse, fingendo allegria. «In fondo si è trattato solo di un’avventura». Già, solo un’avventura per me, ma forse non per lei. Mi sentii un vero idiota. L’avevo incoraggiata, illudendola, solo che non provavo niente di profondo per lei, di questo ne ero certo. «Scusami ancora…», mormorai, scuotendo la testa alla fredda aria invernale di Zurigo. Ero irritato con il tempo e con me stesso. «Tu mi piaci, però…». «Però?» «Niente… Forse è solo che non so ancora cosa voglia dire innamorarsi davvero di qualcuno», confessai. «Non ti è mai successo? Insomma non hai mai avuto una ragazza?», mi chiese lei stupita. «Sì, ne ho avuta qualcuna diverso tempo fa, ma non credo di essermi mai innamorato». Lei mi guardò ancora più sorpresa. «Mai, in tutta la vita…», specificai. «Capisco. Cerchiamo di andarci piano allora». «Cosa vuoi dire?». Sbuffò aria calda al di là della sciarpa di lana. «Conosciamoci meglio, se ti va. Ma non creiamo imbarazzo qui in laboratorio, ok?». Non sapevo cosa dire. Non sentivo niente di più che sincero affetto per lei, nonostante la notte di fuoco che ci eravamo appena lasciati alle spalle. Al di là della mia inesperienza a riguardo, dopo quello che mi aveva detto Thommy, mi ero convinto che l’amore dovesse essere un sentimento così travolgente da lasciarti quasi impotente. Una sensazione di ineluttabilità contro la quale non si ha alcuna scelta se non quella di lasciarsi andare. E di


fronte a Giselle io non mi sentivo così sconfitto, bensì solo colpevole. E terribilmente fuori posto. «Ok», dissi sovrappensiero. La mia vita di laboratorio riprese quel pomeriggio con il primo lab meeting, poi ebbi una riunione insieme al professor Handelson, durante la quale finalmente delineammo le linee guida del mio progetto di dottorato. Con mio sollievo sarebbe stato Morgan e non Giselle a farmi da mentore. Avrei seguito il progetto di proteomica con cui stava cercando di determinare il profilo proteico di epatociti di origine tumorale in confronto a cellule sane, per scoprire nuovi target di diagnosi precoce e di terapia. Era davvero interessante. A riunione terminata anche Giselle mi sembrò più tranquilla. Forse, giorno dopo giorno, i ricordi della nostra notte insieme si sarebbero affievoliti, lasciandoci il tempo di instaurare un nuovo tipo di rapporto. Nonostante fossi arrivato da poco in laboratorio, Handelson mi concesse due settimane di vacanza per il periodo natalizio. Trascorsi la prima insieme alla mia famiglia, sebbene le discussioni con papà fossero ancora all’ordine del giorno. Dopo Capodanno, invece, raggiunsi Morgan a Chamonix, dissotterrando gli sci dalla cantina in cui li avevo abbandonati poco prima di iniziare la facoltà di medicina. Con un po’ di fatica osai di nuovo sfidare la neve e mi divertii moltissimo ritrovando un po’ di quella spensieratezza che avevo perduto durante gli studi, per colpa delle aspettative paterne. L’ultima sera delle vacanze cenammo a base di fondue e raclette al Refuge des Grands Mulets e, dopo diversi calici di vino, Morgan sembrò in vena di confidenze. Iniziò a raccontarmi un po’ di più della sua vita prima di arrivare all’ETH e di come aveva iniziato a frequentare i corsi di Street Fight. Poi, al secondo bicchiere di punch caldo al rum, mi parlò della sua prima fidanzata, con la quale era stato a un passo dalle nozze. Era la prima volta che lo vedevo così serio, perciò lo ascoltai in assoluto silenzio mentre mi descriveva questo rapporto meraviglioso, un tipo di relazione di cui io ancora non avevo fatto esperienza. Rimasi così colpito dalle sue parole che per un attimo pregai di poter vivere anch’io, presto, una storia d’amore di eguale intensità. Purtroppo la loro aveva avuto un epilogo triste. Lui, ovviamente, se ne uscì con una delle sue solite battute provocatorie.


«Mah, forse è stato un bene accorgersi prima del fatidico sì che Linda non era più la donna per me… Che se la becchi qualcun altro!». «Credi che lei stia pensando ancora a te?», gli chiesi, terminando di bere il mio tè. Lui fece segno di no. «Ha la sua vita ora. E io la mia. Considera poi che non sono stato un santo dopo che ci siamo lasciati. Ho una lunga lista di nomi nella mia agenda… Mmm, molti appartengono a giovani fanciulle che frequentano l’ETH…». Sorrisi divertito. «Ovviamente Giselle non è tra queste, novellino, altrimenti non ti avrei mai spinto tra le sue braccia. Lei è un po’ come una sorella per me», specificò. Al nome di Giselle mi adombrai. «Non c’è problema… Non c’è proprio niente tra noi», dissi piano, un po’ in imbarazzo. Morgan annuì. «Sì, l’avevo capito… Peccato però. Mi sembrava proprio una ragazza adatta a te, visto che sei un tipo po’ passivo ti ci voleva una persona decisa come lei. E poi Giselle è una gran bella donna…». Sì, lo era, eppure non andava bene per me, di questo ne ero certo. «Esci con qualcuno adesso?», gli chiesi, allontanando i ricordi del corpo nudo di Giselle dalla mia testa. Morgan scosse la testa. «Non ho tempo e poi… Ho un chiodo fisso qui dentro che non mi lascia in pace, ultimamente», disse indicandosi la testa. «E chi sarebbe?». Morgan si morse le labbra carnose. «Una mission impossible, Alain. È una giovane principal investigator che lavora da poco nel nostro istituto e collabora con Handelson. Prima viveva a Ginevra. Ha vinto il posto di professeur boursier per l’ETH circa un anno fa. Tu non l’hai ancora vista perché in questi mesi è stata di nuovo in trasferta, ma… Ma la incontrerai alla riunione della settimana prossima». «Ah, ok. Come si chiama?». Per un attimo ebbi l’impressione di vedere Morgan arrossire. «Isabel… Isabel Shulze. Cazzo, Alain… È la donna più bella che abbia mai visto in vita mia!». Quel nome scintillò nella mia testa come un segnale neuronale anomalo. «Davvero?», chiesi curioso. «Oh sì… Bella e fredda come i poli terrestri. È l’unica persona del nostro istituto che riesce a mettermi in soggezione, a dir la verità. È anche molto brava. Per ora ha solo un tecnico e un PHD student nel suo gruppo. Entrambi


dicono che è un capo intelligente e responsabile ma dal punto di vista umano… sembra che sia peggio di una macchina». A quelle parole avvertii una strana inquietudine stringermi il cuore. «Faccio fatica a immaginare una persona così, onestamente. Ma se ti piace…», sussurrai pensieroso. «Oh… Presto la vedrai, e allora ti resterà poco da immaginare, novellino!».

Zurigo, gennaio 2018 La mattina dell’8 gennaio stavo per apprestarmi a uscire di casa per correre in laboratorio, entusiasta di iniziare l’anno nuovo, quando sentii i miei genitori discutere per l’ennesima volta. Mi avvicinai alla porta della cucina in silenzio e cercai di origliare l’argomento di quella conversazione. «È colpa tua, Viviane. Lo hai rammollito! Appoggiando quella decisione gli hai rovinato la vita», urlò mio padre. «Ma… Victor… Alain stava molto male. Perché avrei dovuto obbligarlo a continuare la specializzazione? Cerca di capire, ho solo tentato di rispettare il suo volere. Tu invece non fai altro che…». «Zitta!», le ruggì. Mia madre si ammutolì all’istante. «Ti avevo detto di tenere duro. Ti avevo chiesto di fare questo sforzo, perché presto gli sarebbe passata, e tu? Tu gli hai permesso di iscriversi a un dottorato di ricerca… Un dottorato, per Dio! Alain doveva finire la specializzazione e rimanere al Kinderspital, sotto la mia supervisione». Ansimava. Guardai attraverso lo spiraglio della porta. Era arrabbiato e sembrava deluso come non mai. «Almeno è finito nel laboratorio di Handelson…», disse poi toccandosi la barba brizzolata e scuotendo la testa, «ma cambia ben poco. Mi vergogno di lui e della sua debolezza. La perdita di un paziente non è una ragione sufficiente per lasciare medicina. Alain è solo un codardo, dannazione! A volte faccio fatica a credere che sia mio figlio!». Il mio cuore si spezzò. «Victor, ti prego, non dire così. Lascia che Alain prenda le sue decisioni. È grande abbastanza per farlo. Lascialo libero di vivere la sua vita», sussurrò


mia madre. «Sono io che devo decidere cosa è meglio per Alain, non tu», sbottò crudele, scandendo ogni sillaba. «Lui non macchierà così la nostra famiglia! Questa storia finirà presto, te lo garantisco!». Mia madre non replicò e io, consumato dalla rabbia, mi allontanai, per fuggire dal disappunto di mio padre il più in fretta possibile. Corsi alla metro con le lacrime agli occhi. Le sue parole mi torturavano. Ero così debole? Davvero mio padre si vergognava di me? Fu solo quando arrivai in laboratorio che l’allegria di Morgan riuscì finalmente a distrarmi da tanta sofferenza. «Ehi, te l’ho già detto che oggi hai un’aria tremenda?», commentò lui. Feci segno di no con la testa. Morgan sorrise. «Dài, vieni, novellino… È ora di incontrare la Dea. La mia Dea», disse, facendomi l’occhiolino e spingendomi verso la porta. Mi ricordai solo allora che quella mattina avrei finalmente conosciuto la donna di cui Morgan mi aveva tanto parlato durante le vacanze di Natale. «Bene…», sussurrai stanco. «Il tuo entusiasmo sfiora il patetico. Forza, siamo già in ritardo». Lasciai cadere il cappotto sulla sedia, afferrai il bloc-notes e lo seguii fino alla sala riunioni, da cui proveniva la voce baritonale di Handelson. Entrai in silenzio ed esaminai la stanza, ma non vidi nessuna donna meravigliosa ad aspettarci. C’erano solo Handelson, Patrick e Philippe seduti attorno al tavolo ovale, già impegnati in un’animata discussione di fronte a dei grafici a me incomprensibili. Io e Morgan prendemmo posto vicino al professore attendendo il nostro turno, poi a un certo punto la porta si aprì per la seconda volta con uno schiocco e una donna fece il suo ingresso. Il mio cuore si fermò e per un attimo credetti di sognare. La riconobbi immediatamente e fui travolto da un brivido di emozione: la misteriosa dottoressa di cui Morgan mi aveva tanto parlato era la sconosciuta che avevo incontrato tra le braccia del Münsterbrücke diversi mesi prima. La donna che aveva popolato i miei sogni come una luce accecante dalla quale non potevo ripararmi aveva finalmente un nome: Isabel Shulze. Tutti vogliono l’amore ma nessuno desidera pagarne il prezzo… Al suo arrivo calò il silenzio. Isabel si accomodò all’estremità opposta del tavolo e aprì il suo registro di laboratorio prima di proferire parola. «Buongiorno. Scusate il ritardo», esordì fredda. La sua voce. La proprietaria di quella voce ammaliatrice, dolce e gelida insieme, che mi aveva incantato e


turbato, era lì, in carne e ossa davanti a me. In quel momento Morgan mi diede un colpetto sul braccio, riscuotendomi dal torpore. «Non è una bomba, novellino? Non sai che cosa vorrei farle…», mi sussurrò all’orecchio senza farsi sentire dagli altri. Spostai di nuovo lo sguardo su Isabel ed ebbi l’impressione che il cuore mi si stesse sciogliendo nel petto per colare lungo il pavimento fino ai suoi piedi. Era davvero bellissima, forse anche più di quel che ricordavo. Indossava un tailleur elegante, color antracite, sotto il camice immacolato. I capelli biondi le cadevano lunghi e setosi sulla schiena. Gli occhi, azzurri come zaffiri, erano grandi e straordinariamente brillanti. E la sua bocca… Una bocca dalle linee così perfette, impossibile da non desiderare. «…e questo è il nostro nuovo dottorando, Isabel. Lavorerà con Morgan e quindi seguirà tutte le nostre riunioni da oggi in poi. Alain Bercher». Sentendo pronunciare il mio nome sobbalzai sulla sedia. «P-Piacere…», balbettai come un idiota. Isabel mi squadrò attenta. Mi aveva riconosciuto? Ma certo che no! Come poteva ricordarsi di me? In fondo avevamo parlato solo per cinque minuti, mesi prima… Avevo anche tagliato i capelli, che allora portavo lunghi fino alle spalle, e i miei occhi non erano più gonfi di pianto. Era ridicolo anche solo aver sperato che si ricordasse del nostro incontro. «Bercher, Bercher…», ripeté Isabel seria, inclinando la testa verso destra. Strinse le labbra come se stesse combattendo una battaglia interiore. L’aria si riempì di tensione. «Sei per caso parente del famoso oncologo, Victor Bercher?», mi chiese infine, fulminandomi. Un brivido freddo mi percorse la schiena. La dottoressa Shulze conosceva mio padre? Rimasi di sasso. «Sono… Sono suo figlio», risposi in un soffio, incantato e allo stesso tempo spaventato come non mai. Proprio in quel momento la bocca di Isabel si increspò in un’espressione di sorpresa mista a felicità che durò appena un istante. «Capisco», disse poi voltandosi verso Handelson. La conversazione tra noi era già terminata. Il dibattito scientifico fu molto animato durante la riunione ma io restai tutto il tempo in disparte. Isabel era senza dubbio molto intelligente oltre che dannatamente affascinante. Dovetti lottare contro me stesso per non continuare a fissarla, per ricordarmi di respirare e rallentare il battito del cuore, ormai in avaria. Non mi ero mai sentito così sconfitto. Era la prima


donna che riusciva a provocare quell’effetto devastante su di me. Faceva paura, molta paura. A riunione terminata Isabel si congedò per prima, senza nemmeno guardarmi. Che non si ricordasse di me e del nostro incontro sul ponte era ormai una certezza. Mi allontanai turbato e tornai in laboratorio insieme a Morgan. Per tutto il pomeriggio fui molto distratto e sbagliai due volte la preparazione dei gel. Per fortuna il mio mentore era così impegnato in altri esperimenti da non accorgersi dei miei errori. Il volto di Isabel mi tormentava più delle parole crudeli di mio padre. L’idea che quella donna misteriosa si trovasse proprio lì, a pochi metri da me, mi eccitava e terrorizzava allo stesso tempo. Se solo avessi potuto parlarle ancora. Toccarla anche solo per un istante… Dannazione, ero solo un povero illuso! «Ehi, novellino!». Morgan mi richiamò all’ordine. «Sì?» «Un uccellino mi ha detto che al terzo piano c’è una ragazza che vuole conoscerti». Ancora con quella storia. «Meglio di no, adesso non ho tempo», risposi distratto. Morgan scivolò sulla sua sedia con le rotelle fino a me. «Dico, ma sei scemo? È una da paura… Che ti costa uscirci?». Isabel… Isabel…Voglio Isabel… «Ma niente… Senti… Perché non mi parli ancora un po’ della dottoressa Shulze, invece?», azzardai, sperando di non arrossire al solo pronunciare quel nome. Morgan si passò una mano sui capelli rasati di fresco e cambiò immediatamente espressione. «Dimmi, che cosa vorresti sapere su di lei? Sentiamo…», commentò sognante, dandomi una pacca sulla spalla. «Be’, solo qualcosa di più… Tipo… Quanti anni ha?» «Mmm, quarantaquattro credo. Poco prima delle vacanze di Natale l’ho sentita parlare con Giselle della sua festa di compleanno». Dannazione. Credevo fosse più giovane. Avevo vent’anni meno di lei. Ero un embrione. «È… È sposata?». A quella domanda Morgan scoppiò a ridere di gusto. «Ehi, cosa ti prende adesso?», protestai. «Niente… Niente», disse asciugandosi le lacrime dagli occhi. «È che mi


sembri così ingenuo a volte…». «Che cosa vuoi dire?» «Ti sembra possibile che una donna così si sposi? Dài, Alain. Il suo standard deve essere troppo alto per i comuni mortali». «Proprio perché è così bella l’ho pensato. Avrà la fila dietro la porta. Chi se la lascerebbe scappare?», mi giustificai con una punta di fastidio. Morgan scosse la testa energicamente. «Comunque no, non è sposata e non credo nemmeno che frequenti qualcuno fuori di qui. O meglio, nessuno di fisso, capisci cosa intendo?». Annuii pensieroso. «Comunque lei è fuori dalla tua portata, novellino», disse più serio, agitando l’indice. Lo guardai sorpreso e lui mi fece un mezzo sorriso. «Ho visto come la fissavi durante la riunione. Stavi praticamente sbavando, ma non hai proprio speranze. Lei ha bisogno di un uomo della sua età e con due palle sotto la cintura così grosse da tenerle testa sia dentro che fuori dal letto, capisci?». Già, come non immaginarlo. Tornai a casa più triste di come ero uscito quella mattina. Mio padre non si presentò a cena e io ne fui sollevato. Mamma si mise a chiacchierare del più e del meno, evitando di chiedermi come era andata a lavoro. L’argomento dottorato era diventato un tabù, ormai. Sembrava triste quanto me eppure non potevo fare nulla per consolarla. Ero io la fonte dei suoi guai, ne ero perfettamente cosciente, ma quella era stata la scelta migliore della mia vita. Soprattutto ora che avevo trovato Isabel…

Zurigo, febbraio 2018 Il mese di gennaio passò in un lampo. Mio padre trascorse sempre più tempo in clinica, impegnato nella gestione del suo prezioso reparto di oncologia. Le rare volte in cui era tornato a casa, ci eravamo evitati come acqua e fuoco, entrambi chiusi in un inaccessibile silenzio. Non ne potevo fare a meno. Per quanto il suo disappunto mi stesse facendo ancora soffrire, avrei proseguito dritto per la mia strada, ancora e ancora. In laboratorio non avevo più avuto il coraggio di fare altre domande a Morgan riguardo a Isabel. Nonostante fosse impegnatissimo nella stesura di


un grant, lui era sempre pronto a prendermi in giro non appena il soggetto delle nostre conversazioni si spostava dalla scienza al gentil sesso, ma Isabel restava un mistero. Le uniche occasioni che avevo avuto per incontrare la mia dea erano state le riunioni ufficiali, che si tenevano una volta ogni due settimane. In quella circostanza, mentre io mi ero consumato gli occhi a venerarla invano, Isabel mi aveva ignorato senza pietà. Mi sentivo trasparente come un fantasma. Averla così vicino e non poterla conoscere meglio era infinitamente doloroso. Chissà che tipo era… Che cosa le piaceva? Aveva un piatto preferito? Che musica ascoltava? Com’era mentre faceva sesso? Le domande si accumulavano senza sosta nella mia testa, giorno dopo giorno. Eppure Isabel continuava a non accorgersi di me… Il primo lunedì di marzo tutti i gruppi di ricerca del secondo e del terzo piano si riunirono per un seminario sulla PCR a singola cellula. Erano le cinque di pomeriggio e io ero parecchio stanco dopo diverse ore passate sotto cappa, ma Morgan era riuscito a convincermi ad andarci ugualmente. Ci dirigemmo insieme verso l’aula magna quando udii la voce di Isabel sopraggiungere alle mie spalle. Mi voltai verso di lei, emozionato come un bambino davanti a un negozio di giocattoli. La mia dea stava parlando con Giselle e sembrava di ottimo umore. Il vederla sorridere così, mi fece venire voglia di farlo a mia volta. Rallentai il passo e timidamente cedetti loro l’entrata nella sala seminari, sperando di essere notato. Fu solo in quel momento che Isabel si accorse finalmente della mia esistenza. Mi squadrò dalla testa ai piedi, congelandomi all’istante nell’azzurro profondo dei suoi occhi. Poi mi passò davanti inebriandomi dello stesso profumo di fiori che avevo avvertito sul ponte durante il nostro primo, fugace incontro. La delusione mi pervase. Mi aveva rivolto la stessa attenzione che si dà a un insetto fastidioso. Entrai nella sala, triste e frustrato, e mi sedetti vicino a Morgan in una delle ultime file. Non avevo speranze e mi sentivo proprio uno stupido. Ero attratto da una donna più grande, molto più bella e sicuramente più intelligente di me. Aspettavo di andare a lavoro solo per vederla e tornavo a casa sempre insoddisfatto perché anche quando era nella mia stessa stanza, lei non mi guardava. Era umiliante e doloroso allo stesso tempo, eppure non potevo fare a meno di desiderare ardentemente un suo cenno, un solo piccolo gesto a cui aggrapparmi. Ero un fottuto prigioniero, tra sbarre invisibili al resto del mondo, che solo Isabel poteva vedere. Le luci si abbassarono e lo speaker salì sul podio. Proprio in quel momento


notai qualcuno accomodarsi a due sedie da me. Con la coda dell’occhio scorsi dapprima le lunghe gambe fasciate da un paio di sottili collant neri. Poi la gonna a motivi scozzesi, che arrivava sopra il ginocchio, e due mani affusolate appoggiarsi sulle cosce. Isabel! Era proprio lì, di fianco a me! Mi voltai estasiato. I capelli biondi sciolti sulle spalle le coprivano la scollatura da cui si intravedevano le curve di un seno perfetto. Quanto avrei voluto toccarla… Iniziai a sudare. Forzai gli occhi verso lo schermo e cercai di non girarmi più, ma fu impossibile resistere. Dopo pochi minuti mi voltai e scorsi di nuovo il viso di Isabel. Con mia sorpresa anche la mia dea mi stava guardando. Il cuore mi fece una capriola nel petto e di scatto abbassai gli occhi, in preda all’agitazione più nera. Respira, Alain, respira. È solo un caso che lei si sia seduta vicino a te! Mi asciugai le mani accaldate, strofinandole nervosamente sui jeans e tentai con tutte le forze di seguire il seminario. Isabel non si mosse di un millimetro. I miei pensieri si ridussero a un frullato di emozioni mentre i suoi occhi continuavano a trafiggermi implacabili: due fari azzurri puntati dritti sul mio cuore. Ero suo… Restammo così per tutta la durata della presentazione: il suo sguardo pieno di ombre e mistero mi aveva ferito, sviscerato e divorato l’anima, lasciandomi ribollire con un solo, unico, desiderio: essere notato ancora e ancora. Perché si comportava in quel modo dopo tanta indifferenza? Solo quando le luci della sala si accesero di nuovo, Isabel si voltò di scatto ponendo fine a quel puro tormento. Con la stessa magia con cui era arrivata, sparì dalla mia vista, lasciandomi per un attimo perplesso sulla possibilità che ciò che mi era appena accaduto fosse stato solo un sogno. Deglutii a fatica e, senza dire nulla a Morgan, tornai in laboratorio da solo, con lo stomaco in subbuglio. Perché quella donna aveva un effetto così devastante su di me? Perché non riuscivo a ragionare, quasi neanche a respirare, quando lei mi era vicino? Mi appoggiai alla scrivania e presi fiato. Fuori il cielo era già buio. Spensi il computer e indossai la giacca lentamente, rassegnato al fatto che alle mie domande non poteva esserci risposta. Poi uscii dal laboratorio. Il corridoio principale era deserto. Mi diressi verso le scale, ma un’ombra all’improvviso si stagliò di fronte a me sbarrandomi la strada: lei. «Alain, puoi venire con me?», disse Isabel sovrastandomi. Con i tacchi che


indossava quel giorno ero più basso di almeno dieci centimetri. «Ok… Ok, certo…», balbettai preso alla sprovvista. Mi voltò le spalle e si incamminò verso il suo studio, veloce. La seguii con le gambe improvvisamente molli e il fiato corto. Entrammo nell’ufficio e poi, con mia sorpresa, Isabel chiuse a chiave la porta. Deglutii, smarrito più che mai, mentre i suoi occhi si stagliavano nei miei, implacabili. «Alain Bercher…», sussurrò il mio nome come il primo giorno, sensuale da morire, appoggiando il fondoschiena sul bordo della scrivania. Confuso, restai in piedi, in silenzio. Perché mi stava guardando ancora in quel modo? E che cosa si aspettava che facessi? Isabel continuò quel gioco di cui solo lei conosceva le regole, per diversi, interminabili minuti. Poi, con un movimento aggraziato, si tolse il camice e lo lasciò cadere a terra. Istintivamente mi chinai per raccoglierlo, ma quando glielo porsi lei mi schiaffeggiò, tramortendomi. Sconvolto, lo lasciai andare per toccarmi la faccia laddove la mia dea mi aveva appena colpito. «Per… Perché?», le chiesi rimanendo inginocchiato a terra. Lei sorrise crudele. «Resta così», disse seria, senza rispondere alla mia domanda. Eseguii quell’ordine investito da un’ondata di elettricità. Lentamente, le sue mani si avvicinarono alla zip della gonna scozzese e cominciarono ad aprirla. Non mi mossi di un millimetro, paralizzato da ciò che stava succedendo. Mi limitai a guardare le sue dita scorrere sulla cerniera argentata, scivolare lascive verso il basso. Anche la gonna finì a terra. Il sangue mi andò al cervello. Isabel indossava delle autoreggenti nere in netto contrasto con la carnagione chiarissima. La sua intimità era costretta in uno slip semitrasparente dello stesso colore. Una visione celestiale. «Toglile», mi ordinò interrompendo quei pensieri. «Cosa?», la mia voce era ridotta a un rantolo. «Toglile», ripeté lei toccandosi le mutandine. Non era possibile. Non stava succedendo a me. «Non farmelo chiedere ancora», aggiunse severa. Allungai le mani febbricitanti verso l’orlo degli slip, incredulo. Li tirai in basso accarezzando delicatamente la pelle delle cosce con le dita, mentre un’altra ondata di sangue bollente si riversava sotto la cintura, mozzandomi il respiro. La mia dea assecondò i miei movimenti in silenzio e quando arrivai alle caviglie, alzò prima un tacco e poi l’altro per aiutarmi. Ero ancora congelato


dallo stupore quando lei mi sollevò il mento affinché il mio viso arrivasse all’altezza del suo ventre. Il desiderio mi faceva lo stesso effetto di una droga. Isabel afferrò i miei capelli dietro la nuca e, rude, mi spinse verso le labbra che solo nei miei sogni più perversi avevo avuto l’ardire di assaggiare. Inerme, mi abbandonai al suo gioco e la mia bocca sfiorò il suo triangolo proibito. Come il violento infrangersi dell’onda sugli scogli, tutta la voglia repressa e l’insopportabile frustrazione accumulata in quelle settimane esplosero di colpo, travolgendo ogni mia resistenza e lasciando che la lussuria prendesse il sopravvento sul resto. Iniziai a leccarla, poi a morderla, guidato dalla sua mano padrona che non mi liberava, al contrario mi costringeva sulla sua carne, aumentando l’intensità del mio ardore. Isabel aveva un sapore dolce e amaro insieme, la pelle profumava di rose e il calore che stava sprigionando era incredibile. Credetti di sognare. La volevo, la desideravo più di ogni altra cosa al mondo e godevo, per quanto in quella posizione mi sentissi sopraffatto. A un tratto le sue unghie si conficcarono nel mio collo e lei emise dei lunghi sospiri. L’eco della sua passione si intrecciò al rumore della mia lingua dentro il suo corpo, in una perfetta sinfonia. Per un attimo riuscii ad alzare lo sguardo verso il suo viso meraviglioso. La mia dea teneva gli occhi chiusi, le labbra erano increspate dal piacere e i capelli lunghi quasi fino alla vita le ricadevano morbidi come piume, scivolando sul seno ancora costretto dalla camicia immacolata. Sì, stavo sognando. Era troppo bello, troppo perfetto. Il mio sesso cominciò a lottare nello spazio ormai minuscolo in cui era imprigionato, provocandomi spasmi dolorosi. Per quanto desiderassi fare l’amore con Isabel, non osavo prendere l’iniziativa. Per acquietarmi un poco, mi aggrappai alle sue natiche sode e rotonde, le strinsi forte, spingendomi ancora più a fondo nella sua intimità, e la penetrai come avrei fatto con il mio membro se solo lei me lo avesse chiesto. Volevo annegare in quegli umori e nutrirmi di tutto il suo calore fino a bruciarmi l’anima. Fu proprio in quel momento che Isabel venne nella mia bocca, soffocando a fatica un urlo di piacere e schiacciandomi rabbiosa sul suo cuore pulsante. La assecondai senza remore e restai così, obbediente, gioendo segretamente di ogni piccola scossa che le avevo appena provocato. Quando le contrazioni scemarono del tutto Isabel mi allontanò con uno strattone, regalandomi uno sguardo crudele e soddisfatto insieme. Il suo sapore mi riempiva la bocca, e tremavo sia per la passione che per la paura. Anch’io avevo il fiatone e il mio


cuore batteva solo per lei. Volevo essere suo. Dovevo essere suo, a ogni costo. «Sei stato bravo», disse Isabel sorridendo sensuale. «Molto bravo. Ora… Masturbati davanti a me». La sua richiesta improvvisa mi spiazzò, riportandomi bruscamente alla realtà. «Isabel…? Io non…». «Che cosa c’è?», sibilò lei, facendosi scivolare una mano sul ventre ancora lucido di secrezioni, con fare provocatorio. «Non vuoi dimostrarmi quanto la mia sola presenza ti ecciti da impazzire?». Colpito, dritto al cuore. Certo, potevo farlo per lei. Dovevo farlo, anche se un po’ me ne vergognavo. Mi slacciai lentamente i jeans, raccogliendo tutto il mio coraggio in una manciata di secondi. Ancora scosso dalla sua richiesta ma piegato dalla necessità di assecondarla, liberai il mio sesso dai boxer. Lo afferrai con entrambe le mani e, senza farmelo ripetere, mi masturbai. Per tutto il tempo che mi toccai, continuai a guardare Isabel dritto negli occhi, ipnotizzato dalla sua bellezza: era una creatura diabolica vestita di luce celestiale. Immaginai quindi che fossero le sue dita lunghe e affusolate a stringere il mio membro, che le sue labbra si chiudessero sul glande, umide e calde, che i suoi capelli mi accarezzassero le gambe a ogni spinta. Solo quando fui al limite dovetti serrare le palpebre e trattenere un urlo in gola, mentre il mio sperma cadeva sul pavimento. Scivolò ai suoi piedi, così come lo avevo fatto io. La mia dea fissò la prova del mio amplesso con gli occhi che brillavano di vittoria. Mi sentii devastato. L’indifferenza di tutte quelle settimane doveva essere stata solo un trucco. Isabel aveva notato i miei sguardi febbrili e probabilmente ogni mio singolo sospiro. Come una strega, aveva letto nei miei pensieri compiacendosi di quanto l’avessi desiderata. Dopo qualche minuto di silenzio lei si rivestì, con la stessa studiata lentezza con cui si era spogliata. Voleva torturarmi fino all’ultimo secondo, lasciandomi il tempo di chiedermi quando sarebbe successo una seconda volta. Mi allungò un fazzoletto di carta affinché pulissi la prova del mio orgasmo dal pavimento. Lo feci ubbidiente, ascoltando i nostri respiri calmarsi all’unisono. Quando mi rialzai, Isabel Shulze sembrava tornata la stessa donna irraggiungibile di sempre. «Isabel…», dissi piano colto da una strana inquietudine. Lei mi trafisse con lo sguardo adamantino. «Vuoi forse sapere perché ti ho


schiaffeggiato?». Me ne ero già dimenticato. Feci segno di no. «Preferisco chiederti il perché di tutto il resto», mormorai agitato. «Ho bisogno di sapere perché hai voluto che facessi tutto questo e…». Isabel si avvicinò di nuovo, mettendomi una mano sulle labbra per farmi restare in silenzio, lasciando le mie tante domande di nuovo senza risposta. «Sognami questa notte», sussurrò poi dolce a pochi centimetri dalla mia faccia. La sua bocca si incollò alla mia in un bacio che avrei fatto fatica a dimenticare per tutta la vita.


Capitolo 5 Tu mi guiderai nel vuoto

Zurigo, marzo 2018

La notte scivolò su di me dolce e malinconica, ma io non sognai Isabel. In realtà non riuscii nemmeno a chiudere occhio per via della miriade di sensazioni sconvolgenti che ancora non mi aveva abbandonato. Baciare la mia dea, sentire il sapore del suo corpo e la voce che le si riduceva a una sottile eco di piacere, mi avevano reso la persona più felice del mondo. Sfortunatamente Isabel non aveva risposto a nessuna delle mie domande ma quello che avevamo fatto insieme doveva pur significare qualcosa per lei. Aggrappato a quella sottile speranza mi cullai nell’illusione di un imminente chiarimento. All’alba, non riuscendo più a stare a letto, andai a farmi una doccia fredda. Che cos’era quella strana eccitazione che mi saliva dalla pancia alla testa senza darmi tregua? Avevo i piedi piantati a terra eppure mi sembrava di camminare sette metri sopra al cielo. I miei pensieri poi erano terribilmente accelerati. Se Isabel mi aveva permesso di toccarla e di baciarla in quel modo appassionato doveva provare a sua volta qualcosa per me. Dovevo piacerle almeno un po’ o non avrebbe mai rischiato tanto, per di più sul posto di lavoro. Sedurre uno studente era una mossa davvero pericolosa… Fatta quell’ultima considerazione mi guardai allo specchio e mi vergognai della mia stessa espressione ebete. Stavo sognando a occhi aperti. Dovetti sciacquarmi il viso più volte prima di uscire dal bagno e sentirmi presentabile per andare fuori. Sovraccarico di energie, arrivai in laboratorio poco prima delle otto, certo che Isabel mi avrebbe cercato e io avrei presto trovato una solida conferma di tutte le precedenti supposizioni. Mi sedetti alla scrivania pronto a iniziare a leggere uno degli ultimi articoli scaricati da Morgan, nell’attesa. Dopo qualche minuto però lasciai cadere le pagine sulla tastiera del computer. Non riuscivo a concentrarmi, per quanto mi stessi sforzando di farlo. Mi sentivo


come un cavallo da corsa, pronto per affrontare la sua gara più importante, ma incatenato nella propria stalla. Scalpitavo irrequieto aspettando l’arrivo di Isabel. I minuti passarono ma nel mio laboratorio non entrò nessuno. Dannazione, dovevo rivederla! Dovevo parlarle al più presto, tuttavia per fortuna un barlume di buon senso mi trattenne dal piantonare il suo ufficio. Se non avessi mantenuto un comportamento più che discreto l’avrei di certo messa in difficoltà. Dovevo avere pazienza e aspettare un suo segno, prima di fare stupidaggini e bruciare la mia unica possibilità di riaverla tra le braccia. Per impegnare quindi sia mente che corpo, decisi di infilare i puntali nelle scatole da sterilizzare, un lavoro lento e noioso ma funzionale a calmare il mio stato d’animo. Trascorsi così almeno un’ora, poi finalmente Morgan arrivò in laboratorio. «Ehi novellino!», esclamò facendomi sobbalzare sulla sedia. «Sì, ecco, sono qui», balbettai. Per tutto quel tempo, il mio pensiero non aveva mai smesso di concentrarsi sulla visione di Isabel e della sua intimità nella mia bocca: un chiodo invisibile infilato nel mio cervello così a fondo da farmi impazzire. Morgan inclinò la testa di lato, con espressione stranita. «Dio, come sei rosso. E cos’è quell’espressione colpevole?». Scossi il capo energicamente, fissandomi i piedi. Già, mi sentivo un traditore. «Oh, niente. Non ho dormito, sai, stanotte», farfugliai. Tornai a occuparmi dei puntali, ma Morgan era troppo furbo per non capire che stavo nascondendo qualcosa. «Dove diamine sei finito dopo il seminario, ieri sera?», mi chiese. Deglutii in difficoltà, mentre lo stomaco mi si attorcigliava in nodi sempre più stretti. «Sono venuto qui a finire di…». Mi interruppi. Non avevo niente di intelligente da dire. «Scusami…», sussurrai in terribile imbarazzo. Per quanto sentissi il bisogno di confidarmi con lui, di dirgli tutta la verità, non potevo ancora permettermelo. Dovevo prima parlare con Isabel e capire che cosa voleva. Morgan alzò un folto sopracciglio. «Sei proprio strano… Bah, tieniti stretti i tuoi segreti allora e prendi quei reagenti. Dobbiamo andare al primo piano per sviluppare le lastre dei western blot e se non ci muoviamo, perdiamo la prenotazione».


Già, gli esperimenti! La mattina fortunatamente fu davvero frenetica. Il lavoro mi aiutò ad acquietare i bollenti spiriti. Non avevo ancora rinunciato all’idea di andare nello studio di Isabel ma dovetti aspettare il primo pomeriggio per avere un attimo di tempo libero. Mentre Morgan preparava il caffè con Giselle, mi allontanai con una scusa banale e corsi al primo piano, troppo impaziente di avere risposte. Arrivai di fronte alla stanza numero 101 e trovai la porta socchiusa. Presi un lungo respiro e con il coraggio che si frantumava come creta sotto le mie scarpe, bussai. La voce ferma e sensuale di Isabel mi invitò a entrare. Varcai la soglia e subito dopo chiusi la porta alle mie spalle. Le mie gambe erano diventate di gelatina. Alzai gli occhi sulla mia dea, pieno di aspettative, e feci un lungo respiro. Isabel sembrava impegnata a scrivere al computer. Indossava una camicia bianca e i capelli erano legati in una stretta e lunga treccia. Come sempre, incarnava la perfezione più assoluta. «Ciao…», esordii emozionato. «Scusami, ti prego… Ho provato a resistere ma non riuscivo ad aspettare oltre. Ho bisogno di parlarti e… Sai, sono così felice! Io non posso credere che tu e io…». I suoi occhi si spostarono lentamente dallo schermo a me e la voce mi si congelò in gola. Fu come essere sorpresi da una tempesta in piena estate. Bastò un solo attimo perché il mio cuore ne venisse travolto. Isabel mi stava guardando con disprezzo. Il suo non era semplice fastidio, ma profondo e gelido disgusto. Le labbra che avevano ansimato in preda alla passione solo poche ore prima, disegnavano adesso una linea crudele e spietata. La passione che ci aveva avvolto in una bolla celeste era scomparsa, lasciando al suo posto un muro di ghiaccio. Sconvolto da quella reazione inaspettata, indietreggiai finendo con le spalle contro la porta. Sentii il mio cuore sgretolarsi in mille pezzi e il respiro venirmi meno. Isabel non disse nulla. Si limitò a fissarmi impassibile. Restai immobile per un tempo indefinito, paralizzato dal suo comportamento, e incapace di reagire in alcun modo. Perché non parlava? Perché sembrava volermi cancellare dalla faccia della terra? Dove era finita la donna che mi aveva chiesto di masturbarmi inginocchiato ai suoi piedi? «Ho del lavoro da finire. Vattene e chiudi la porta», sbottò infine, prima di tornare nel suo mondo, tagliandomene fuori senza tanti complimenti. La nostra conversazione era terminata. Senza farmelo ripetere aprii la porta e, tremando d’inquietudine, corsi via. Tornai in laboratorio con il cuore che urlava. Dove avevo sbagliato? Perché


Isabel mi aveva trattato di nuovo come uno sconosciuto? Avevo solo sognato di essere suo? Perché? Perché? Perché? Proprio in quel momento rientrarono Giselle e Morgan, trovandomi appoggiato al bancone con gli occhi lucidi e le guance arrossate. «Alain… Ma dove diavolo sei stato? Ehi, stai bene?». Giselle si avvicinò preoccupata e con la mano mi toccò una guancia in fiamme. «Sono… Sono andato un attimo fuori…», balbettai, sperando di essere creduto. Lei mi squadrò attenta e capì che stavo mentendo. «Posso aiutarti?», sussurrò al mio orecchio senza farsi sentire da Morgan. Scossi la testa e mi voltai dalla parte opposta, vergognandomi di me stesso. «Vado a controllare le cellule», dissi per chiudermi in camera sterile e avere il tempo di riflettere. Sotto il costante rumore delle cappe a flusso, cercai di capire il perché del comportamento di Isabel. Vagliai attentamente tutte le possibilità che mi vennero in mente, persino quelle più assurde e, infine, conclusi che andare nel suo studio senza preavviso era stato uno stupido errore. Ci trovavamo entrambi sul posto di lavoro. Isabel era uno dei capi e io solo uno studente che oltretutto non lavorava sotto la sua supervisione. Se qualcuno ci avesse visto insieme per lei sarebbe stata fonte di imbarazzo. Ero stato precipitoso. Spinto dalle mie sole necessità di chiarezza, avevo varcato i confini del suo territorio senza chiederle il permesso. L’avevo messa in difficoltà e, per questo, lei mi aveva mandato via con freddezza. Sì, quella era l’unica spiegazione plausibile. Forse non tutto era perduto. Un po’ più rincuorato da quell’ultimo pensiero, tornai all’idea di attendere pazientemente un segno di Isabel prima di irrompere nella sua vita una seconda volta. Era la scelta migliore. Avevo aspettato tanto per averla. Che cosa poteva essere un’attesa di qualche giorno in più?

Zurigo, aprile 2018


Passarono tre settimane. Ogni giorno mi ero recato in laboratorio con la speranza che Isabel mi cercasse. Ogni sera ero tornato a casa in preda all’angoscia, abbracciato a un tipo di solitudine di cui non avevo mai fatto esperienza se non dopo il nostro primo incontro. Soffrivo atrocemente. Il ricordo di ciò che avevamo fatto insieme si stava ormai affievolendo, schiacciato da fantasie che non potevano diventare realtà ma che mi tormentavano comunque. La passione mi aveva infettato, aveva confuso i miei pensieri e, dopo quella sera ormai lontana, scorreva implacabile nelle mie vene, alimentando senza tregua il mio desiderio. Isabel era come la luna, splendente e meravigliosa nel mio cielo: la potevo ammirare ogni notte, farmi illuminare dai suoi raggi freddi e incantati, ma avevo solo le gambe per raggiungerla. Non esistevano ali per volare tanto in alto e afferrarla. Potevo solo perdermi in quella visione proibita fino a consumarmi nel mio stesso ardore. «Che cos’hai, Alain?», mi chiese Morgan distogliendomi da quei pensieri. «Niente. Scusami, oggi vado a rilento», mentii come sempre ormai in quegli ultimi giorni. «Sei così distratto da un po’ di tempo», continuò lui con espressione preoccupata. «Mangi a malapena, fai errori banali quando siamo in laboratorio… Non commenti più le mie battute sulla fauna femminile dell’ETH. Se c’è qualcosa che ti turba perché non me lo racconti? Fa male tenersi tutto dentro». «Non è niente di che», dissi voltandomi dalla parte opposta alla sua. «Sai, mio padre è molto deluso dalla mia scelta di frequentare questo dottorato… Litighiamo quasi ogni giorno», aggiunsi. Una mezza bugia non poteva poi fare così male. «Ah, capisco. Problemi familiari, quindi…». Annuii voltandomi verso di lui. «Dài, tra qualche minuto ci rifacciamo gli occhi con la Shulze e vedrai che la malinconia ti passa», disse Morgan bonario. Mai battuta avrebbe potuto essere peggiore. Mi ero completamente dimenticato della riunione di quel pomeriggio. Il cuore cominciò a battermi nel petto come un doloroso martello. Avrei rivisto Isabel dopo tutto quel silenzio e mi sarei perso nel suo sguardo spietato per non ritrovarmi più, ne ero certo. «Buon pomeriggio, ragazzi», esordì Handelson non appena entrammo nella sala riunioni. Eravamo gli ultimi arrivati. La mia dea era già seduta all’altro


capo della tavola, impegnata a esaminare dei dati. Non appena ci accomodammo, mi lanciò uno sguardo distratto e poi si rivolse a Morgan chiedendogli immediatamente delle spiegazioni sugli ultimi esperimenti. Come al solito, non si perdeva mai in chiacchiere inutili, arrivando sempre dritta al sodo. E ignorandomi… Strinsi i denti. Faceva così male, dannatamente male. Isabel era a un metro da me, eppure non potevo toccarla, né raggiungerla per stringerla tra le mie braccia. Avvelenandomi di secondo in secondo, continuai a guardarla, ammaliato: quel giorno indossava un vestito rosso fuoco che metteva in risalto la sua carnagione chiarissima. Degli orecchini con il pendente dello stesso colore le ondeggiavano sul collo e la scollatura appena accennata lasciava intravedere le curve morbide del seno. Il desiderio che avevo sotterrato nel profondo dell’anima con tutte le forze si accese di colpo, provocandomi una dolorosa e inutile erezione. Mi morsi le labbra e abbassai lo sguardo, imbarazzato. Ero uno stupido idiota. Come potevo essere così sopraffatto quando per lei ero di nuovo soltanto un fantasma? Come potevo pensare di affrontarla se non riuscivo nemmeno a sostenere un semplice sguardo? Se mi eccitavo come un adolescente di fronte a un giornaletto porno alla sola vista di una timida scollatura? Restai immobile come una statua per tutta la durata della riunione. Ero senza speranze. Quando capii che stavamo per finire il meeting, tuttavia, una rabbia fredda e amara insieme divampò nel mio cuore. No, non potevo continuare così. Quella creatura diabolica vestita nei panni di un mentore rispettabile mi aveva sedotto, usato e poi gettato via come un rifiuto. Meritavo almeno una spiegazione prima di abbandonarmi all’autocommiserazione. Prima di consumarmi totalmente in quel sentimento a cui non sapevo dare ancora un nome. Sì, con le buone o con le cattive avrei affrontato Isabel. Aspettare anche solo un giorno di più significava oltrepassare il punto di non ritorno, per quanto assurdo potesse sembrare. Non potevo permetterlo. Terminammo la riunione alle cinque di pomeriggio. Morgan e il professore vollero restare ancora qualche minuto insieme per definire nei dettagli gli esperimenti del mese a venire. Patrick e Philippe tornarono in laboratorio. Isabel invece imboccò il corridoio del primo piano a passo veloce per andare nel suo studio. Era un’occasione perfetta. Senza farmi notare dagli altri colleghi, la seguii e poco prima che si chiudesse la porta alle spalle, la fermai. Entrai nella stanza, lasciandola di sasso, e bloccai la serratura dietro di me,


risoluto. Presi un profondo respiro, ma dopo qualche secondo la sua bellezza fece vacillare di nuovo la mia sicurezza. Imperturbabile di fronte al mio panico, Isabel si andò a sedere alla scrivania. Poi alzò lo sguardo, forse in attesa di ascoltare ciò che avevo da dirle. «Perché…», esordii con la voce che tremava. «Perché mi hai fatto questo?» «Mmmm, che cosa ti avrei fatto?», rispose serafica. Si stava prendendo gioco di me? «Perché mi hai sedotto per poi trattarmi come uno sconosciuto subito dopo?». Il mio tono era tornato deciso, ma la sensazione di disparità tra noi era ancora lì, pesante come un macigno. Isabel si passò un dito sulle labbra e poi con quella stessa mano cominciò a giocare con una ciocca di capelli. «Mi hai soltanto usato, giusto? Ti sei comportata così con me perché sono solo uno studente?». Iniziai a sentirmi patetico. «Non ti importa nulla di quello che provo… Quando io invece… io…», mi bloccai. Che cosa stavo per confessarle? Stavo forse per dirle che l’amavo? Era assurdo e di sicuro mi avrebbe preso per un pazzo. Eppure… Eppure eccola, la sensazione di sconfitta ineluttabile che mi torturava ormai da settimane. Provavo un’emozione così forte da dubitare di me stesso. Era quindi Isabel il mio primo vero amore? «Non ti importa niente di me e di ciò che provo per te…», mormorai, ancora incapace di trovare parole migliori per esprimere quei sentimenti devastanti. «Dovresti imparare a organizzare il discorso prima di aprire bocca», disse lei incrociando le mani sotto il mento. «Comunque no, Alain». «No, cosa?», chiesi, mentre il fuoco della speranza mi divampava nel cuore, nonostante tutto. «Volevo dire che… mi importa di te». «Come?», sbottai sconcertato. «Come puoi dire questo? Mi hai ignorato, neanche fossi un fantasma, per settimane… Mi hai trattato senza alcun riguardo dopo ciò che mi hai chiesto di fare…». Mi morsi le labbra combattendo con tutte le forze per non soccombere ai ricordi lussuriosi di quel pomeriggio ormai lontano. «È come se non esistessi per te», dissi infine in un soffio. Isabel fece ancora segno di no con la testa. «Al contrario, Alain. Io ti ho osservato per tutto questo tempo». Quella rivelazione mi fece andare in tilt. Lei si alzò e mi venne vicino. Con la mano destra portò il mio viso al suo e mi baciò. La sua lingua penetrò la


mia bocca, facendomi rabbrividire di un piacere subdolo e bollente. Mi esplorò a lungo, affamata, fino a privarmi di tutta l’aria che avevo nei polmoni. Si staccò da me solo quando fui al limite del collasso. «Ti ho osservato tanto, sai?», ripeté sottovoce, a due centimetri da me. «Ed è stato molto bello guardarti mentre mi seguivi con gli occhi, sospirando come un ragazzino innamorato…». Ancora un bacio e il cuore mi si sciolse nel petto. «Perché… Perché allora mi hai mandato via quando sono venuto da te?», sussurrai confuso. Lei sorrise crudele. «È molto semplice. La tua sofferenza… I tuoi sospiri… Tutto il tuo tormento è stato motivo di pura gioia per me», disse criptica, allontanandosi di scatto. «Vederti così vulnerabile… In completa adorazione, all’oscuro di ciò che avevo in mente, mi ha reso felice, capisci?». No, non capivo. Scossi la testa confuso. «Vuoi dire che ti sei presa gioco di me per tutto questo tempo? Dannazione, Isabel… Io provo qualcosa per te!», ringhiai mentre le lacrime mi bruciavano gli occhi. «E che cosa provi per me, Alain?», chiese lei più seria. «Sono davvero curiosa». Deglutii in preda al panico. Potevo mai confessarle il mio amore? Perché io non avevo scelto di amarla. Io dovevo amarla. Non c’era nessun’altra possibilità, né strade alternative da percorrere. Isabel era la mia unica via. «Credo… Credo di essermi innamorato di te dal primo momento in cui ti ho visto sul Münsterbrücke», confessai sconfitto, e non poteva fare più male. Le stavo consegnando le chiavi della mia prigione. Era l’inizio della mia condanna. «Ti amo, Isabel». Lei schiuse le labbra sorpresa, poi dopo qualche secondo scoppiò a ridere, riducendo il mio cuore in frantumi. «Amore… Amore…», ripeté con tono sarcastico. «Tutti vogliono l’amore ma nessuno desidera pagarne il prezzo». A quelle parole trasalii. «Questa frase… È la stessa che mi hai detto sul ponte. Allora ti ricordi di me?», esclamai ferito, ritornando con la mente al nostro primo incontro. «Certo che mi ricordo di te, Alain», mormorò Isabel prima di mordermi il labbro con rabbia. Toccai la vetta più alta del cielo per poi sprofondare di nuovo in un abisso senza fine. «Ci ho messo un po’ a capire che eri tu quando Handelson ci ha presentato. I tuoi capelli erano diversi, vero? Adesso invece


ricordo ogni cosa del nostro primo incontro… I tuoi occhi gonfi di pianto… Il tuo bellissimo viso. Tutto. E tu? Ricordi ciò che ti dissi su quel ponte?», mi domandò liberandomi dalla sua presa. «Io…». «“ È un giovane avvenente e potrebbe avere il mondo nelle sue mani. Non vorrà lasciarselo scappare…”?», continuò riprendendo il discorso di quel lontano settembre. «Già… Tutto il mondo eccetto te…», la interruppi di nuovo triste. «Sì, eccetto me». Con fare sinuoso tornò a sedersi alla sua scrivania. Restammo in silenzio per qualche minuto. Le avevo confessato il mio amore. Mi avrebbe cacciato via una seconda volta? Che cosa potevo mai dirle per convincerla a darmi una possibilità? «Isabel, io ti desidero come non ho mai desiderato nessun’altra in tutta la mia vita, devi saperlo», dissi piano. «So che sono solo un ragazzo… Forse sono troppo giovane e inesperto ma… Ma farei di tutto per stare con te». «Alain Bercher…», sussurrò lei fredda. No. Ancora quel mezzo sorriso. Era più gelido di mille inverni. Era un’espressione troppo amara. «Sei così tenero, Alain… Ma purtroppo non puoi darmi ciò di cui ho bisogno, per quanto tu sia così bello…». Implacabile come una tempesta. «Lasciarti entrare nel mio mondo, poi, ti distruggerebbe. Preferisco che tu rimanga nell’illusione. Nel sogno che hai ancora di me». La rabbia mi assalì all’istante. «Ma non è giusto! Non mi conosci nemmeno! Non puoi sapere con certezza come andranno le cose tra noi», obiettai ansimando. «Sono certo che se tu mi dessi soltanto una possibilità potrei davvero dimostrarti che…». «Basta! Sei tu che non conosci me!», sbottò lei serissima, interrompendomi. «Quel che dici di amare è solo la mia faccia. Sei un ingenuo, Alain, non hai idea di quello che mi stai chiedendo e faresti meglio a stare attento a ciò che desideri con tanto ardore», obiettò decisa. «Io sono certo di quello che ti sto chiedendo, come di quello che desidero!», ribattei inquieto. Voglio essere tuo… Voglio essere tuo… Voglio essere tuo, Isabel! «Mmm, davvero? Allora ragazzino, a quante donne hai già detto ti amo? Immagino molte nella tua breve e ordinaria vita…», mi provocò lei, amara. Socchiusi le palpebre, caricando le parole successive di un inspiegabile rancore.


«Mai», ringhiai. «Non ho mai detto “ti amo”, a nessuno, prima di oggi». I suoi occhi si sgranarono, sorpresi. Diceva che non la conoscevo, ma in fondo nemmeno lei aveva idea di quel che si celava dietro la mia divisa da bravo ragazzo. Non poteva immaginare che cosa sarei stato disposto a fare solo per ritrovarmi di nuovo stretto tra le sue braccia. Isabel restò in silenzio per un po’. Giocava con gli anelli che portava alla mano sinistra, nervosa e forse indecisa sul da farsi. A cosa stava mai pensando? «Dimentica», concluse poi, spezzandomi il cuore. «Dimentica quello che c’è stato, se puoi». No, no, non era giusto! «Ti prego, Isabel… Ti prego, io farei di tutto per…». «Il discorso è chiuso, ragazzino», sbottò allontanandosi. Perché era così spietata? Le piacevo, eppure non voleva concedermi una possibilità. «Perché mi hai sedotto allora?!», insistetti, spaventato alla sola idea che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Avevo bisogno di capire. Avevo bisogno di qualcosa a cui attaccarmi. Una sottile speranza… «Che domanda sciocca, Alain… Come vedi, ecco viene fuori tutto il tuo candore. Ti ho sedotto solo perché ne avevo voglia. Per sentire che sapore avessi, almeno una volta. E darti qualcosa di me che non dimenticherai mai, immagino». Si passò la lingua sulle labbra, mettendomi a disagio. «Ma finisce qui. Non sei adatto a me. Cerca di fartene una ragione». Perché avevo l’impressione che mi stesse mentendo? Perché il suo corpo sembrava nascondere qualcos’altro? «Come potrei… Come posso farmene una ragione così, Isabel?» «Questo è un tuo problema». Si voltò verso il computer, interrompendo bruscamente la conversazione. Il silenzio calò tra noi come l’ineluttabile ombra della sera. Era tutto finito, ancora prima di iniziare.

Zurigo, maggio 2018


Volevo assaggiarti… Non sei adatto a entrare nella mia vita… Vivi nel sogno che hai di me… Fissavo il quadrante della mia sveglia da almeno due ore. I numeri verdi fluorescenti si confondevano tra loro come lucciole nella notte mentre il cuore batteva all’impazzata. Le parole di Isabel risorgevano ciclicamente nella mia testa come le ceneri di una fenice, bruciando tutti i miei sogni e impedendomi di dormire. Ero malato. Malato d’amore. In laboratorio, il mio rendimento subì un graduale peggioramento. Giselle e Morgan avevano capito che c’era qualcosa che mi tormentava e avevano cercato di aiutarmi in ogni modo, ma dentro di me sapevo che se avessi continuato a fare così tanti errori sarebbero stati ben presto costretti a parlarne direttamente con Handelson. In quel momento però nemmeno quel pensiero mi aiutava a tornare in me. Non mi importava di niente. Ero ossessionato. Affamato. Torturato. Ogni giorno vivevo di un’attesa snervante, nella febbrile speranza che Isabel cambiasse idea. La guardavo da lontano aggrappandomi alla sua immagine così dolorosamente bella, cercavo scuse di ogni tipo per passare nei corridoi del primo piano e aspettavo ogni seminario per poterla rivedere. Durante le riunioni, poi, la osservavo avidamente, consumandomi di desiderio e sognando di avere ancora un’occasione con lei. Soffrivo, eppure non riuscivo a disconnettere il cuore da quella frequenza, obbligandomi così a un dolore costante, lancinante e senza via di uscita. Era davvero questo l’amore? L’esperienza soffocante e terribile che stavo vivendo era riuscita a sconvolgere la visione fanciullesca di quel sentimento etereo e meraviglioso di cui Thommy mi aveva parlato. L’amore per Isabel non era pura felicità, ma una pistola puntata dritto contro il petto. Sapevo che non c’era nessuna medicina in grado di cancellare quel tipo di dolore. Mi stavo autodistruggendo, mi sentivo incapace di camminare, anche solo di respirare, in un mondo dove Isabel non mi voleva. Quell’ultima considerazione infine mi spinse a chiedere aiuto. «Morgan», lo chiamai in disparte una mattina. «Dimmi, Alain», rispose lui senza guardarmi, mentre sistemava le riviste che aveva accumulato sulla sua scrivania, in pile ancora più disordinate. «Ho bisogno di parlarti», sussurrai. «Ho un problema e…».


Lui mollò tutto il blocco che stava spostando e si voltò verso di me, sorpreso. «Cielo, finalmente ti sei deciso a mollare l’osso! Cominciavo seriamente a preoccuparmi. Avanti, siediti qui e racconta, aspettavo questo momento da settimane», mi incitò. Andai verso la sedia che mi offriva e ci sprofondai, decisamente stanco. «Hai un aspetto orribile. Sembra che tu non dorma da giorni. Ti farà bene parlarne, di qualsiasi cosa si tratti…». «Sì, lo so… E ti prego scusami per come mi sono comportato in questo periodo. Ho davvero perso la testa e non riesco a uscirne». «Mmm… E chi è il tuo boia impietoso?». Sorrisi a quella battuta. «Una donna…». «Non dirmi… Una donna. Insomma, non guardarmi così. Mi sembravi talmente indifferente al gentil sesso che per un po’ ho creduto fossi gay». «No, non sono gay. E sì, è una donna il mio boia impietoso… Solo che non posso dirti il suo nome, scusami», mi affrettai a precisare. Dovevo assolutamente nascondergli l’identità di Isabel. «Sappi solo che è più grande di me. E che non la conosci…», mentii, sperando di sembrare convincente. «Ah, ragazzino, allora non sei poi così timido come sembri, eh? Va bene, non dirmi il nome di questa matrona se non vuoi, ma raccontami qual è il problema. Hai l’aria di uno che sta per ammalarsi, seriamente». Mi si inumidirono gli occhi. «Ecco… In realtà non c’è molto da dire. Sono stato con lei solo una volta. Erano mesi che la desideravo e improvvisamente me la sono trovata davanti. È stata lei a prendere l’iniziativa e io ho toccato il cielo con un dito… Ho davvero creduto che tutti i miei sogni fossero diventati realtà. Ero così felice, Morgan! Solo che subito dopo…». «Subito dopo?» «Dopo quella volta, lei non mi ha più rivolto la parola. E quando infine le ho chiesto spiegazioni, mi ha liquidato dicendo che non sono adatto a lei. Ha affermato che il suo mondo avrebbe potuto distruggermi… Il che è assurdo, perché non mi conosce nemmeno. Credimi, io vorrei lasciar perdere… Vorrei esserne capace. Vorrei accettare la sua presa di posizione e arrendermi, ma… Ma non riesco a farmene una ragione, Morgan. La sogno, la desidero… La vedo e… E vorrei stare solo con lei», dissi tutto di un fiato con la gola riarsa dall’angoscia. Lui aggrottò le sopracciglia più serio che mai. «Novellino, fattelo dire. Questa situazione mi sembra un po’ senza speranza… Insomma, se una


donna ti dice di non essere adatto a lei con tanta risolutezza, te ne saresti già dovuto fare una ragione. Non vedo molte chance all’orizzonte». «Ma perché prendere l’iniziativa, allora? Perché fare il primo passo e sedurmi? Credimi, ha fatto tutto da sola!». Mi sentii davvero umiliato. Morgan però fece una smorfia, divertito. «Alain, che diamine! La gente ci prova sempre quando è attratta sessualmente da qualcuno. Non è detto poi che una notte insieme significhi la nascita di qualcosa di più profondo, capisci? Esiste anche il solo e puro divertimento, e non lo cercano solo gli uomini!». Feci segno di no, ostinato. «Avanti, lo sapevo che eri ingenuo ma non pensavo così tanto. Poi con le donne più grandi è ancora più difficile gestire un rapporto alla pari. Magari per lei sei stato una pura e semplice distrazione dalla sua routine. Comunque… Analizziamo meglio la situazione. Sei sicuro che non ti abbia detto qualcosa di più per farti capire le sue ragioni?». Scossi ancora la testa. «Sono sicuro. Ha solo ripetuto più volte che non ero adatto a lei, ma non mi ha detto il perché, dannazione! E ho l’impressione che menta…». «Forse è l’età il problema. Vorrà più sicurezze, un uomo più maturo… tu sei solo uno studente sfigato». Alla mia espressione delusa, Morgan mi diede un colpetto sulla spalla. «Avanti, Alain… Non posso esserne certo, ma scommetto che è proprio questa tua aria da eterno indeciso che l’ha poco convinta. Cioè, è difficile darti un’opinione più precisa visto che non conosco la persona di cui stiamo parlando, ma… Quanto hai insistito con lei? Che motivo le hai dato per farle cambiare idea?». Le sue parole mi travolsero, devastanti. In effetti, non avevo lottato per niente. Mi ero lasciato intimidire da Isabel a tal punto da non riuscire a far sentire le mie ragioni. Che cosa avevo fatto per farle cambiare idea sul mio conto? Ero solo un patetico idiota. «Alain?» «Sì… Scusami, stavo riflettendo. In effetti hai ragione. Io non ho combattuto per niente. Ho solo subìto le sue decisioni, come faccio sempre con tutti, del resto», mormorai affranto. «Mmm, chissà come mai non ne sono sorpreso. Comunque… Se ti posso dare un consiglio, io lavorerei proprio su questo. E la farei pentire di ciò che ti ha detto». «E come dovrei fare?», chiesi curioso.


«Falla ingelosire. Magari con una ragazza più giovane. Falle vedere che cosa si sta perdendo. Vedrai come rosicherà… Di sicuro si pentirà di non aver approfittato della tua offerta di carne fresca», concluse facendomi l’occhiolino. «Se vuoi, ti posso aiutare. Il tecnico di laboratorio al primo piano, Alice, mi aveva chiesto di te, tempo fa. Fai vedere alla donna che ti ha ridotto così che stai andando oltre, che sei un ragazzo deciso e che farebbe bene a ripensarci». Alice… Quel nome non mi era nuovo. «Chi è esattamente?», chiesi a Morgan. «Il tecnico che lavora con la Shulze. È molto carina. Potresti invitarla per una pausa caffè tanto per cominciare, così fate conoscenza, poi portarla in un posto dove sai di incontrare anche la tua Giunone. Un piano perfetto per farla capitolare! Dillo, cosa faresti senza di me?», ammiccò sorridendo e io sprofondai nell’indecisione. Ecco dove avevo già sentito quel nome. Alice lavorava proprio per Isabel. Rappresentava l’occasione perfetta per far ingelosire la mia dea. Qualcosa nel profondo di me però sembrò storcere il naso. In fondo, seguire il suggerimento di Morgan significava approfittare dei sentimenti di qualcun altro, una ragazza che non c’entrava nulla nella faida tra me e Isabel. Eppure… Eppure era l’unico modo per cercare di attirare l’attenzione della donna che amavo, mostrandole che avermi lasciato andare era stato un vero errore. Ignorando la mia coscienza, quindi, chiesi a Morgan di organizzare la pausa caffè al primo piano per il giorno dopo, fermamente deciso ad attuare quel progetto egoista. Come da accordi, Alice arrivò puntuale in caffetteria, accompagnata da Giselle. La osservai curioso: doveva avere la mia età, sfoggiava una cascata di capelli biondi, ricci e vaporosi, grandi occhi scuri e un fisico armonioso. Era decisamente carina, ma niente di che in confronto a Isabel. Quando mi notò, seduto vicino a Morgan, sembrò piacevolmente sorpresa. Affabile, mi strinse la mano un po’ troppo a lungo e subito dopo si accomodò davanti a me. Iniziammo così a parlare prima del laboratorio e dei nostri progetti di ricerca, poi di cose più frivole. Ne rimasi piacevolmente colpito. Era una persona solare, amava lo sport e gli animali. Per un po’ la ascoltai interessato, dimenticandomi del perché mi trovassi lì con lei. Le sue eccessive risate alle mie battute idiote confermarono ciò che Morgan mi


aveva detto: le piacevo, e molto. Con quella certezza in tasca, mi alzai per prepararmi una seconda tazza di tè. Fu allora che sentii un rumore di tacchi avvicinarsi al nostro tavolo. Isabel comparve di fronte a noi, come il sole che fa capolino tra le nubi cariche di pioggia. Tutti ammutolimmo all’istante, spiazzati. «Buongiorno, dottoressa Shulze», mormorò poi Morgan, deglutendo. Lei ci squadrò con attenzione, un po’ stupita. Quel giorno portava i capelli legati in una stretta coda che le lasciava scoperto il collo. In un mondo ideale sarei corso da lei per addentarla proprio sopra il colletto della camicia, più e più volte, cercando di carpire sia il sapore che il profumo celestiale della sua pelle. In quello reale però tutto ciò mi era proibito, quindi restai immobile come uno stoccafisso, soffocando il desiderio. La mia dea mi rivolse uno sguardo glaciale. Il cuore cominciò a martellarmi nel petto, ma cercai di controllarmi con tutte le mie forze. Non potevo lasciarmi sfuggire quell’occasione per farla ingelosire. Dovevo giocare il tutto per tutto, come mi aveva suggerito Morgan: solo così forse avrei avuto un’altra possibilità con lei. Distolsi lo sguardo da quel viso perfetto, dissimulando freddezza. Poi mi voltai verso Alice e le sfiorai delicatamente la mano. «Un altro tè? Te lo posso preparare io se vuoi», le dissi, con tutta la dolcezza di cui ero capace, recitando la mia parte. Alice arrossì all’istante, compiaciuta. La mia mano appoggiata sulla sua scottava di menzogna. «Grazie… Certo, Alain», disse, porgendomi la tazza. La afferrai e mi avvicinai alla macchinetta del caffè senza rivolgere a Isabel il benché minimo sguardo, come da copione. Per la prima volta ero riuscito a mostrarle indifferenza. Continuai a tenere lo sguardo fisso sull’acqua bollente che usciva dalla macchina, obbligandomi a non voltarmi verso la mia donna, nemmeno quando il rumore dei suoi tacchi ne segnò la dipartita. Così com’era apparsa se ne era andata, lasciando solo un sentore del suo profumo a ricordarmi che era appena stata lì, vicino a me. Sprofondai sulla sedia, colto da una inspiegabile sensazione di vittoria che però scemò all’istante quando notai l’occhiata truce di Giselle al di là del tavolo. Quello che avevo appena fatto l’aveva parecchio infastidita. Che avesse capito tutto? Lasciai Alice con il sapore delle bugie in bocca, promettendole di rivederci presto, fuori dal laboratorio. Poi salii in camera cellule, aspettandomi una ramanzina da Giselle. Lei invece restò in silenzio, facendomi seriamente preoccupare. Solo verso sera, poco prima di andare via si fermò sulla soglia e


mi rivolse uno sguardo freddo. «Io non so cosa ti sia successo in questi mesi, Alain», esordì seria. «La mattina arrivi con l’aspetto di uno zombie, come se non avessi dormito da giorni. Fai errori banali in continuazione. Sembri anche molto triste. E poi oggi quella sceneggiata con Alice… Che cosa significa? È uno strano modo per comunicarmi qualcosa?». Santo cielo, credeva di essere lei il mio problema? «No, Giselle», mi affrettai a dirle. «Tu non mi hai fatto nulla, credimi, e non voglio che ti preoccupi… Mi dispiace, farò in modo di fare meno errori in laboratorio e…». «Non è questo il problema, Alain… Il fatto è che tu non sei più lo stesso», mi interruppe con la voce incrinata. «Sei cambiato». «Ti sbagli, sono sempre lo stesso. Sono solo molto stanco e…». «Che diamine, dimmi che ti sta succedendo!», sbottò frustrata, lasciando cadere la borsa a terra. Doveva essere stata molto in pena per me in quelle ultime settimane e io non lo avevo nemmeno notato, preso com’ero dalla mia ossessione per Isabel. «Sono innamorato di una donna che non mi vuole», confessai infine, il petto schiacciato da un peso insopportabile. «Soffro per lei e non riesco a uscirne». A quelle parole le labbra di Giselle tremarono. La mia confessione l’aveva sorpresa come una secchiata di acqua gelata. In fondo io le piacevo ancora e, mentre la nostra notte insieme per me era solo un vecchio ricordo, dentro di lei bruciava ancora come una vivida speranza. «Capisco…», sussurrò, distogliendo lo sguardo, ferita. «Non mi sembrava però che Alice ti stesse rifiutando, prima», continuò severa. «Non è Alice la persona che voglio», dissi subito, già pentito di quello che avevo rivelato. «E chi è allora?» «Non posso dirtelo». Di nuovo quell’espressione angosciata. «Mi dispiace, Giselle», aggiunsi. «Se ti dispiace allora non illudere un’altra ragazza giusto per soddisfare il tuo ego. Dovresti essere più onesto…». «Io non volevo illudere nessuno, solo che pensavo…». «Lascia perdere, Alain, non dire altro. Spero solo che adesso tu sappia quello che vuoi. E non dimenticare che le persone non sono pupazzi di gomma. Se colpisci forte, non rimbalzano ma si rompono», concluse severa


prima di lasciarmi in compagnia di uno scomodo senso di colpa. Terminai di contare le cellule un’ora dopo quella conversazione e, esausto, andai a prendere le mie cose per uscire dal laboratorio. Quando scesi nel parcheggio, i fari di una macchina si accesero di colpo, abbagliandomi. Istintivamente mi coprii gli occhi. Sentii una portiera aprirsi e qualcuno scendere dalla vettura che mi aveva appena accecato. Udii un suono di tacchi che avrei riconosciuto tra mille. «Vieni con me», disse severa Isabel. Mi schermai gli occhi dalla luce e misi a fuoco la donna dei miei sogni. «Dove?», chiesi, spostandomi dal raggio dei fari. «Ti importa? Ovunque andremo sarai con me. È questo quello che vuoi, giusto?». Dio… Allora il piano di Morgan aveva già funzionato? Incredibile! Lo avrei ringraziato la mattina successiva con una confezione di paste dolci di Brukvert. Una grande, immensa confezione! Salii in macchina, emozionato da morire. Fai il tuo gioco, ragazzino. Non c’è posto per gli scrupoli quando la passione ti chiama per nome!


Capitolo 6 Il giuramento

Zurigo, maggio 2018

«Non rispondi?», mi chiese Isabel mentre guidava. Era la terza volta che rifiutavo la chiamata di mia madre schiacciando un pulsante a caso da sopra la tasca della giacca. Doveva essere preoccupata per il mio ritardo, ma io ero troppo euforico per rispondere e non volevo parlare con lei proprio di fronte a Isabel. «È mia madre», sussurrai infine in imbarazzo, quando la quarta chiamata suonò a vuoto. «Credo sia solo preoccupata. Le mando un messaggio, scusami…». «Chiamala, Alain, e dille che resterai fuori tutta la notte», sbottò. «Resterò fuori tutta la notte?», ripetei, sorpreso. La mia dea mi guardò con la coda dell’occhio. «Sì», ringhiò. Una goccia di sudore scivolò sulla guancia, provocandomi un brivido. Il nostro viaggio durava già da venti minuti. Isabel si era allontanata dal centro universitario e aveva continuato a guidare in direzione sud, spingendo con forza sul pedale dell’acceleratore. Chiamai mamma, inventandomi una scusa qualsiasi. Era la prima volta che le mentivo, ma non sarebbe stata l’ultima. Quando terminai la telefonata, vidi Isabel sorridere compiaciuta. «Che bravo», commentò mielosa. Strinsi le labbra per la frustrazione. Mi trattava come un ragazzino, uno stupido adolescente innamorato. «Dove stiamo andando?», le domandai ancora, impaziente. «A casa mia, così potremo parlare». «Parlare?». Venni investito da una vampata di calore. Mi stava portando a casa sua. Una casa dove c’era anche un letto. Saremmo stati soli. D’istinto pensai a com’ero vestito. Sarei stato abbastanza elegante per lei? Avrei voluto farmi una doccia. Sistemarmi. Essere alla sua altezza. Mi sentivo totalmente fuori posto, ma non c’era nulla che potessi fare. Era la mia occasione, forse


l’ultima, e dovevo giocarmela al meglio. «Che cos’hai?», sussurrò Isabel sensuale, lasciando il cambio per accarezzarmi il viso. «Niente…», dissi piano, gioendo di quel tocco delicato. «Sono solo sorpreso. Molto sorpreso e…». Lei mi passò un dito sulle labbra, interrompendomi, poi me lo infilò in bocca e io non potei fare a meno di leccarglielo, animato da una torbida energia, una forza inarrestabile che solo lei riusciva a scatenarmi dentro con pochi e semplici gesti. Era come avere la febbre sempre più alta, contatto dopo contatto. Sentii il mio sangue rifluire verso il basso, riempire la mia virilità, mentre Isabel mi lasciava gustare il sapore della sua pelle, sorridendo di fronte all’ennesima resa. «Perché adesso vuoi parlarmi?», mi azzardai a chiederle quando ritirò la mano per cambiare marcia. «Mi hai cacciato via l’ultima volta che ti ho chiesto di farlo…». «Il tuo patetico tentativo di farmi ingelosire ha attirato la mia attenzione», rispose lei sicura. «Ma non lo fare mai più». «Farti ingelosire?», domandai audace. «No. Attirare la mia attenzione in modo patetico». Isabel frenò e aprì un cancello di ferro battuto con il telecomando. Posteggiò la macchina vicino all’ingresso di una villetta. Scesi dall’auto ancora tramortito ma non feci in tempo a dare un’occhiata intorno che Isabel mi afferrò la mano, tirandomi verso la porta di casa. «Vuoi qualcosa da bere?», mi chiese non appena accese le luci del soggiorno. «Solo un po’ d’acqua», mormorai, osservando intimidito l’arredo sofisticato. Lei sparì subito dietro la porta della cucina. Osservai meglio l’ambiente che mi circondava: a Isabel doveva piacere il legno di noce. Tutti i mobili sembravano pezzi d’antiquariato di fattura costosa ed elegante: dal divano in pelle scura ai calici di cristallo disposti ordinatamente nella credenza. Tutto profumava di rose, così come la donna che mi aveva stregato. Ero appena entrato nella sua tana, come una stupida preda incosciente. Ora poteva anche mangiarmi! «Non bevi alcolici?», mi domandò curiosa, allungandomi il bicchiere d’acqua. «No, se non voglio dare di testa», risposi con un sorriso. Anche lei increspò le labbra, divertita. «Dovrai imparare a farlo, prima o


poi…», ribatté criptica. Il citofono trillò, facendomi sobbalzare. «Tranquillo, Alain, è solo la cena. Accomodati». Isabel aveva ordinato tailandese. Ci sedemmo al tavolo della cucina e lei mi servì. Per la seconda volta in pochi minuti mi sentii sopraffatto. Tutto intorno a me trasudava sia la bellezza che la complessità della personalità di Isabel mentre io apparivo goffo e dozzinale. Era come essere un sasso grezzo in mezzo a un mare di splendenti diamanti: un dettaglio fastidioso e al posto sbagliato. Nonostante non l’avessi chiesto, Isabel mi offrì anche un bicchiere di vino. Mangiammo in silenzio, lei assorta nei suoi pensieri e io concentrato a tenere a bada il cuore che mi scalpitava nel petto. La sua presenza a pochi centimetri da me aveva il solito effetto devastante. Preso forse da una stupida voglia di allentare i nervi, mandai giù tutto l’alcol che la mia dea mi aveva appena servito. Un brivido caldo si irradiò all’istante dalla bocca alla base del collo, facendomi vacillare. «Hai cambiato idea riguardo al dare di testa?», domandò lei divertita. «Ti prego, dimmi perché sono qui», le chiesi, nervoso come non mai. «Mmm… Che cosa stavi cercando di fare, oggi?», ribatté, lo sguardo freddo puntato su di me. «Ti riferisci ancora al nostro incontro durante la pausa pomeridiana? Be’, ecco… Stavo parlando con Alice. Solo parlando, con la speranza di farti ingelosire…», confessai, vergognandomi di me stesso. «Vorresti dimenticarmi, Alain?», mi domandò criptica. Non era possibile. Stavo forse sognando? «No! Mai…», balbettai, i pugni stretti sotto il tavolo. «Non potrei mai dimenticarti e lo sai. Io volevo solo… attirare la tua attenzione perché mi mancavi. Da morire», ammisi infine. Isabel schiuse le labbra lucide di rossetto e di vittoria. Mandò giù un altro sorso di vino, facendomi desiderare ardentemente di essere il calice su cui aveva appena appoggiato la bocca. «Io non ho mai smesso di pensare a te, nemmeno per un istante in queste settimane», continuai sconfitto. «Anche se tu non mi hai dato speranze, io non voglio dimenticare…». «Bene». Si alzò e mi venne più vicino. «Dimmi perché continui a pensare a me, allora». Si stava di nuovo prendendo gioco di me? Scossi la testa, turbato. «Ti prego, non farmi questo. Che cosa vuoi che ti dica ancora, Isabel? Stai


cercando di umiliarmi come l’ultima volta?». Il mio risentimento sembrò divertirla. «Ti ho fatto una domanda semplice, Alain. Rispondimi», sibilò crudele. Coraggio, gioca, Alain. Sfodera la tua arma migliore. «Proverò a spiegartelo così…», cominciai, sentendo il suo profumo arrampicarsi sulla mia pelle. «Dalla prima volta che ti ho visto combatto contro una forza inarrestabile. È come una voce che grida incessantemente e che non posso smettere di ascoltare. Quel qualcosa, qualsiasi cosa sia, porta il tuo nome, Isabel». Le mie parole finalmente sembrarono colpirla. «È da quel giorno sul ponte… è da quel giorno che sogno di te. Se solo potessi stare con te… Amarti… sarei la persona più felice della terra». Lei portò la mano destra sul mio viso e prese ad accarezzarlo. «Ed è da quel giorno di settembre che desidero essere tuo. Io voglio essere tuo…». «Tu… Tu mi ricordi qualcuno», sussurrò lei, senza smettere di toccarmi. Chiusi gli occhi e assecondai i suoi movimenti, incantato. «Chi?» «Un uomo che conobbi tanto tempo fa. Gli assomigli moltissimo…». Aprii gli occhi poco prima che la sua bocca mi travolgesse in un bacio. Carico di tutte le paure del mondo, mi alzai di scatto e mi aggrappai al suo corpo, a ciò che desideravo più di ogni altra cosa. Volevo abbracciarla, sentirla tremare su di me. Isabel mi lasciò fare e io persi il controllo. Ci appoggiammo alla parete e schiacciai il mio petto sul suo torace, avido di farla mia in quello stesso istante. Sentii i suoi capezzoli inturgidirsi sotto il cotone della camicia mentre le mie mani scivolavano svelte sulla sua pelle. Stavo affogando lentamente, come la sabbia annega tra le braccia del suo mare, lasciandosi portare via. «Alain!», esclamò Isabel all’improvviso, fermandomi di colpo. Mi bloccai, congelato dal suo tono di nuovo gelido. La guardai ebbro e affamato. Isabel aveva il fiatone, le sue guance brillavano come rubini, era eccitata tanto quanto lo ero io, eppure continuava a darmi segnali contrastanti. Di nuovo quell’espressione combattuta e nervosa. «Perché mi fai questo?», sussurrai triste. «Perché mi afferri per poi gettarmi via senza riguardi?» «Cominci davvero a diventare patetico, Alain», rispose lei, voltandosi dall’altra parte, come a volersi nascondere dalle mie domande. «È forse per la differenza di età che non mi vuoi?», chiesi con rabbia. Mi sentivo rifiutato per l’ennesima volta, imprigionato in un labirinto senza


uscita. «La differenza di età non conta per me», disse Isabel, sorprendendomi. «E non è mai contata prima di oggi. È solo…», si interruppe a metà frase, guardandomi colpevole. «Forse è solo la tua debolezza che mi spinge a dubitare». «Debolezza? Che tipo di debolezza?» «Oh… Non hai idea di cosa io stia pensando in questo momento. Di cosa vorrei farti», mi confessò lei, crudele. Mi sentii davvero preso in giro. «E che cosa vorresti farmi?», la provocai. «Tutto», sussurrò sensuale. «Perché non mi prendi, allora? Non c’è niente che non vorrei tu mi facessi», la pregai. Ecco la mia anima sanguinante, servita su un piatto d’argento. Buon appetito, Isabel! «Non sai quello che dici, Alain». «Stai per farmi vedere la tua stanza delle torture?», dissi con un mezzo sorriso, sperando di smorzare la tensione tra noi. Isabel però non apprezzò lo scherzo e chiuse gli occhi a fessura, fulminandomi. «Stupido», ringhiò, più dura che mai. «Credi che io abbia bisogno di un qualche aggeggio di lattice per dominarti? Tutta la mia vita è una stanza delle torture. Io sono una frusta in carne e ossa, che disciplina il mio uomo senza pietà». Quelle ultime parole ebbero l’effetto di una secchiata d’acqua fredda. «Che cosa vuoi dire?», balbettai improvvisamente meno sicuro di me e di quello che le stavo chiedendo. «Ricordi quando siamo stati insieme per la prima volta?», continuò lei implacabile. Annuii, in soggezione. «Ti ho sedotto e poi ho lasciato che tu patissi. Per tutto questo tempo ho continuato a gioire del tuo tormento, della tua sofferenza. Non sai che piacere ho provato nel solo immaginare quante notti insonni hai trascorso a causa mia». I suoi occhi brillavano di una luce nuova e sinistra. «Dimmi, Alain, quante volte ti sei masturbato pensando a me?». Deglutii a fatica, imbarazzato. «Rispondi». «Molte». Il sangue affluì alle mie guance e il mio ventre si contrasse dolorosamente. «Allora, non hai ancora capito che cosa voglio?».


No, non riuscivo a capire. La sola cosa che comprendevo era che le ombre di Isabel si stavano allungando su di me, più dense e scure che mai, pronte a trascinarmi in un abisso senza fine. «Io voglio uno schiavo». Fu come una pugnalata. «Uno schiavo?», ripetei incredulo. «Voglio un compagno sottomesso e fedele… Perché niente mi eccita di più», sibilò, passandomi la lingua sul mento. «Ma soprattutto voglio vederti soffrire, Alain…». Il cuore mi si accartocciò nel petto. «Sei… Sei una sadica?», dissi tra i denti, incredulo. «Quando ti guardo non riesco a pensare ad altro. Voglio essere la tua regina. La tua unica via». Si allontanò da me per versarsi un altro calice di vino. «Tempo fa mi hai chiesto perché non eri adatto a me», continuò poi, guardandomi sensuale. «Sì. Ti prego, spiegami, ho bisogno di capire». «Cercherò di essere chiara allora, perché voglio che tu capisca ciò che io davvero desidero. Come potrai ormai immaginare, a eccitarmi, Alain, è solo una relazione in cui io ho il completo controllo dell’uomo che vive al mio fianco. Ma da te… Da te desidero un vero abbandono. La più totale devozione. Voglio che tu ti arrenda, senza alcuna remora, al mio volere, qualsiasi esso sia. Qualsiasi dolore io voglia infliggerti, per il mio unico piacere». La guardai smarrito ed eccitato insieme. Che cosa c’era di diverso in quello che già le stavo offrendo? Mi sarei gettato nelle fiamme per lei. L’avrei seguita persino all’inferno. «Ma non posso fare a meno di chiedermi se una persona fragile come te sia pronta a tutto questo… Se tu sia disposto ad arrenderti a me». Ancora quell’aria combattuta e allo stesso tempo seduttrice. «Credo di essermi arreso molto tempo fa ai sentimenti che provo per te, Isabel», dissi, preso da una strana euforia, disposto a tutto pur di non perdere quell’ultima possibilità. «Devozione. È questo ciò che chiedi e che io desidero con tutto me stesso». Forse non avevo davvero compreso quello che la mia dea mi aveva appena chiesto, ma volevo a tutti i costi superare quell’ennesima prova. Dovevo essere suo. A qualsiasi prezzo. «Ne sei sicuro, Alain? Saresti disposto a fare qualsiasi cosa per me? Sei davvero pronto a perderti? Ad arrenderti alla mia volontà?». Lo stava dicendo con tono sarcastico, trattandomi di nuovo come un ragazzino inesperto. Le


avrei dimostrato che non era così, che anch’io potevo essere risoluto. «Isabel, io non riesco a respirare!», sbottai, guardandola dritto negli occhi. «Da quando sono stato con te, non riesco più a respirare come prima. L’idea di non poterti stringere tra le braccia mi soffoca. Ho bisogno che tu mi restituisca l’aria che mi serve per vivere. Ho bisogno di te, per vivere». Questa volta fui io ad avvicinarmi a lei. «Ti amo, Isabel. E sì, sono disposto a tutto per averti. Se questo significa arrendermi al tuo volere, lo farò. Mi basta essere tuo. Voglio solo essere tuo. Ti prego, permettimelo». Non so perché lo feci, ma le mie gambe si mossero da sole e mi ritrovai in ginocchio di fronte a lei. Quel gesto di sottomissione sembrò far vacillare la sicurezza di Isabel per la prima volta da quando la conoscevo. Era nervosa, in lotta con sentimenti e ragioni a me sconosciuti. In quegli interminabili secondi di attesa mi domandai ancora che cosa stesse nascondendo dietro tutta quell’indecisione. Perché aveva delle remore su di me? Le stavo offrendo proprio ciò che voleva. Allora perché non prendermi? E chi era mai la persona che le ricordavo? «Cosa posso dirti di più per convincerti a darmi una possibilità?», sussurrai guardandola dal basso, avvertendo l’eccitazione che tentava di nascondere di fronte al mio atto di sottomissione. «Potresti giurarlo», rispose Isabel infine. «Se lo farai, non si torna indietro, Alain. Ti crederò e allora sarai mio, per sempre». Drogato dalla speranza e sopraffatto dai miei stessi sentimenti, annuii. «Sono pronto a giurarlo». Isabel allungò una mano e mi fece alzare. In silenzio, salimmo al primo piano e raggiungemmo la sua camera da letto. La mia testa sembrava aver preso fuoco da quanto la desideravo. «Aspettami qui», disse lei, abbandonandomi al centro della stanza per poi sparire dietro la porta di legno scuro. Per qualche minuto ascoltai i rumori della sera al di là della finestra con il cuore cementato nell’incertezza e nell’euforia insieme. Che gioco stavamo per fare? Quali regole lo avrebbero dominato? Isabel mi avrebbe mai amato? In quel momento lei rientrò in camera vestita solo di un completo intimo nero. I lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle bianche come il marmo, ondeggiavano a ogni passo. Si sistemò di fronte a me e mi consegnò un biglietto ripiegato in quattro.


«Inginocchiati, Alain, e giurami devozione, ora e per sempre», ordinò, penetrandomi con gli zaffiri che aveva per occhi. «Solo così ti crederò davvero e dopo, te lo prometto, sarai mio». Con il viso in fiamme, l’anima che si piegava insieme alle mie gambe per una seconda volta, mi inginocchiai a terra. Feci un lungo respiro e aprii quel biglietto, tremando. Lessi le parole del giuramento con l’incoscienza della gioventù e l’euforia incontrollabile della passione. Niente da biasimare, niente da nascondere. Chiedimi di sentirmi come la pelle sotto le catene. Chiedimi di arrendermi come la foglia sotto la pioggia. Farò tutto ciò che posso per vivere nei tuoi occhi. Chiedimi di cadere al di là delle colline. Chiedimi di morire quando tu morirai. Niente da biasimare, niente da nascondere. Farò tutto ciò che posso per vivere nei tuoi occhi.

Terminai la strana poesia tramortito da fitte di desiderio. Il mio stupido cuore ora splendeva di felicità come se quelle parole mi avessero appena assicurato un posto nella vita di Isabel. Alzai lo sguardo verso la donna a cui avevo appena dichiarato il mio amore, promettendole devozione per sempre. «Adesso mi credi?», sussurrai mentre osservavo la sagoma del suo corpo illuminata soltanto dalla luce della luna. «Mi credi, Isabel?», ripetei. Lei si portò le mani alla schiena e si slacciò il reggiseno. Lo lasciò cadere a terra, esponendo il seno perfetto ai miei occhi adoranti. Fece lo stesso con gli slip, lentissimamente. Nuda. Era finalmente pronta a sigillare a sua volta il mio giuramento con il marchio indelebile della lussuria. «Prendimi, Alain». Mi gettai su di lei all’istante, trascinandola sul letto alle nostre spalle, infuriato come non mai. La toccai, la strinsi, la accarezzai ancora incredulo, baciando ogni centimetro di quella pelle di velluto e dal sapore proibito. Il corpo che avevo desiderato, che avevo sognato incessantemente per così tante notti, ora era lì, tra le mie mani. Mi tolsi la camicia di dosso, strappandone i bottoni e mi liberai dei pantaloni, impaziente di penetrarla. Avevo aspettato troppo. Mi ero masturbato ogni sera immaginando di leccarla ancora, come


avevo fatto nel suo studio. Il sapore etereo della sua femminilità aveva torturato i miei sogni fino a sfinirmi. Guardarla da lontano reprimendo tutto il mio amore era stata una tortura: mi sentivo come ammalato del peggiore dei mali, senza alcuna possibilità di guarigione. Il mio membro pulsava dolorosamente da quando avevo messo piede nella sua macchina, ed era così pieno di vigore che temetti sarebbe scoppiato non appena avessi anche solo sfiorato la sua intimità. A quel pensiero dovetti fermarmi bruscamente. La mia Isabel, distesa sul letto, respirava affannosamente, leccandosi le labbra già gonfie dei miei baci. Quasi avesse appena intuito il mio disagio, non si mosse di un millimetro e mi permise di osservarla in totale venerazione, come una statua meravigliosa si lascia ammirare impassibile dal suo scultore. Mi concesse del tempo prezioso, che io usai per calmarmi. Non appena ebbi ripreso un po’ più il controllo di me stesso, mi avvicinai al suo ventre. Lo ammirai, estasiato. Era un fiore schiuso di fronte ai miei occhi, che chiedeva di essere violato. Cominciai a leccarla, prima piano, alternando colpi veloci e delicati, poi sempre più forte. Succhiai il clitoride tra i denti, ritmicamente, senza alcuna pietà. Isabel gemette. Vidi i muscoli delle sue gambe contrarsi e le dita dei piedi arpionarsi nervosamente alle lenzuola, in preda all’eccitazione che proprio io le stavo dando. Annegai nei suoi umori, quella sera più dolci che mai, un nettare delizioso, magico. Non potevo ancora crederci, eppure ero lì, tra le sue gambe, che addentavo quel corpo delizioso. Non ce la facevo più a trattenermi. Era una tortura, una tentazione insopportabile. Mi alzai di scatto e con una mossa veloce mi portai vicino al suo bacino, pronto a farla mia. Isabel mi incitò con lo sguardo, come a sfidarmi. «Che cosa aspetti?». Forte. La ferii con un’unica, forte spinta e solo in quel momento, dentro di lei, ebbi finalmente un po’ di pace. Restai fermo per qualche secondo, gustando il calore di quella morsa vellutata. Poi, investito dalla passione mista a tutta la rabbia che avevo provato per colpa del suo sadismo, cominciai a spingere sempre più intensamente, penetrandola con tutto me stesso, scavando nel suo corpo, sperando in qualche modo di arrivare così, forse, anche al suo cuore. Le afferrai le gambe e la martellai con la stessa crudeltà con cui lei mi aveva ferito in tutti quei mesi. Una spinta per ogni secondo passato ad adorarti, Isabel. Un gemito per ogni orgasmo che ho


avuto pensando solo a te. Una ferita per ogni volta che mi hai ignorato, facendomi impazzire. Continuai a scaricare così la frustrazione, mentre il piacere risaliva inesorabile lungo la mia spina dorsale. Isabel ansimava con le palpebre serrate, splendente di sudore e calda come lava. Quando fu al limite sgranò gli occhi e per un secondo mi sembrò di veder fiorire un iris talmente blu da togliermi il fiato. L’orgasmo la travolse subito dopo e l’espressione che si dipinse sul suo volto mi accecò. Si era lasciata andare, indifesa tra le mie mani per la prima volta. Estasiato, aderii al suo petto e ascoltai il battito accelerato del suo cuore. Poi le serrai le braccia attorno alla schiena, incollandomi alle sue labbra rosse. La baciai ancora e ancora mentre il mio sesso riprendeva ad affondare nel suo corpo stupendo. Spinsi più e più volte, ricercando il piacere nel calore che generava la mia dea. La mia lingua avida scivolò sul suo collo fino al seno e si fermò sui capezzoli turgidi. Isabel intrecciò le gambe dietro la mia schiena, incitandomi a spingere più forte, mentre li succhiavo e li mordevo, feroce. Quando anch’io arrivai al limite lei sembrò accorgersene. Strinse il mio membro con i muscoli della vagina, procurandomi l’orgasmo più forte della mia vita. La inondai del mio seme, senza nessuna remora, finché non mi sentii svenire, drogato dalle mie stesse emozioni. Quando l’adrenalina cominciò ad abbandonarmi, mi accasciai sul letto con la testa che scoppiava, il corpo privato di ogni energia e il cuore prigioniero di una cella di cui solo Isabel aveva le chiavi. La strinsi a me, incredibilmente felice. «Adesso sei mio», sussurrò lei prima che il buio ci avvolgesse entrambi.

Zurigo, maggio 2018 Quella mattina fui svegliato dal rumore della pioggia. Sbattei le palpebre più e più volte prima di realizzare dove mi trovavo. No, non lo avevo solo sognato. Ero a casa di Isabel. Nudo.


Lei però non c’era. I suoi slip giacevano ai piedi del letto, prova della nostra notte insieme, eppure qualcosa mi si strinse all’altezza del cuore, facendomi dubitare di quanto era accaduto. Preso da una strana sensazione di panico, mi alzai e mi rivestii in fretta. Avrei voluto farmi una doccia e godere di quel momento di solitudine, ma l’urgenza di cercare la mia dea e trovare conferma di ciò che avevamo vissuto fu più forte. Scesi al piano terra con i vestiti spiegazzati addosso. Nella mia testa rimbombava il suono ineluttabile delle parole che ormai mi legavano a Isabel. Le avevo giurato devozione, eterno amore, eppure mi sentivo più insicuro che mai. Trovai la mia dea seduta al tavolo della cucina. Beveva una tazza di tè di fronte a dei documenti di laboratorio. «Isabel?», la chiamai. Lei alzò gli occhi dai fogli. Indossava solo una vestaglia. Il colore naturale delle sue labbra era straordinariamente rosso. Perfino spettinata e con un accenno di occhiaie era bellissima. «Vieni qui», disse, facendomi cenno di avvicinarmi. Il suo sguardo era sicuro, come se tutti i dubbi che l’avevano attanagliata fino a quel giorno si fossero ormai dissolti. Avanzai di qualche passo, ancora intimorito. «Che ti prende, Alain? Non devi più avere paura», sussurrò, quasi mi avesse letto nel pensiero. «Sei mio adesso. La notte non ha cancellato il tuo giuramento», scherzò. Già, come avrebbe potuto? Ero stato suo dal primo momento in cui l’avevo incontrata. Sorrisi, dannatamente felice. «Posso… Posso baciarti?», le domandai, vergognandomi di me stesso. Isabel si morse le labbra, divertita. Avvicinò il suo viso al mio e mi penetrò la bocca con la lingua. Mi esplorò a lungo, scivolando lenta nella mia anima, mentre il sapore del tè si mischiava a quello della mia gioia. «È tardi. Dovresti andare a casa tua e cambiarti», disse poi più fredda, staccandosi. Mi sedetti al tavolo e mi versai un po’ di tè, tramortito dal calore che un suo solo bacio era in grado di scatenarmi dentro. «Certamente». «Poi farai le valigie e verrai a stare qui». La tazza mi cadde dalle mani e il liquido scuro macchiò la tovaglia a fiori. «Scusami…», sussurrai incredulo. «Che cosa intendi dire?». Mi affrettai a pulire, ma gli occhi di Isabel si chiusero a fessura. «Hai promesso di sottometterti a me», sibilò crudele. «Sì», dissi subito. «Ma non credevo che tu volessi che venissi a vivere qui.


Insomma… Andare a vivere insieme è un passo importante e ho sempre pensato che lo avrei fatto con la persona con cui…». «Con cui?» «Con cui mi sarei sposato, un giorno». Smisi di asciugare il disastro che avevo combinato. «Perché vuoi che venga a vivere qui? Ti assicuro che sarò disponibile ogni volta che tu lo vorrai, sempre, e…». «No. Devi vivere con me affinché ti educhi al mio piacere», sbottò interrompendomi. Quelle parole. Quell’espressione misteriosa, cupa, impossibile da decifrare, di nuovo. Chi era davvero Isabel? Che cosa aveva davvero in mente per me? «Pensi forse di tirarti indietro, Alain?», mi provocò. «No, no. Mai», dissi, guardandola negli occhi con decisione. Anche volendo non sarei più riuscito ad allontanarmi da lei. L’idea di vivere con Isabel poi mi eccitava da morire, per quanto quel cambiamento di vita improvviso e inaspettato fosse un passo enorme per un eterno indeciso come me. «Parlerò con i miei genitori», aggiunsi nervoso. Lei sorrise. «Bene. Non mi interessa ciò che dirai alla tua famiglia. La cosa più importante è che non riveli a nessuno la mia identità. Sei legato a me e farai tutto ciò che voglio, ma agirai nella massima discrezione. Sarai come la foglia che si arrende alla pioggia. Ti sottometterai senza alcuna remora alla sua forza, in obbediente silenzio». Annuii, inebriato dalla sua voce. «Troverò un modo per venire qui il prima possibile», dissi mentre il mio cuore si scioglieva tra le sue mani. Felice. Ero felice. Incredulo e stupidamente euforico. Mentre guardavo le luci nel tunnel della metro scorrere veloci al di là del vetro, mi sentii inghiottire da una dolce e languida sensazione di benessere. Avrei vissuto con Isabel. Avrei trascorso momenti indimenticabili. Forse un giorno sarei anche riuscito a farla innamorare di me. Quel solo pensiero bastò a provocarmi una fortissima eccitazione. L’avevo desiderata da impazzire e finalmente la mia dea mi aveva concesso una possibilità. Dovevo calmarmi però. Dovevo schiarirmi le idee e trovare il modo giusto di comunicare ai miei genitori che mi sarei presto trasferito. Non avevo scelta. Quella era l’unica via che potevo percorrere. Riflettei su cosa dire. Con mamma sarebbe stato più facile, per quanto l’idea


di mentirle non mi facesse piacere. Con papà invece il discorso era più complicato. Tuttavia, per quanto temessi la sua rabbia, avevo una nuova fonte di energia per combatterlo. Per Isabel sarei riuscito ad affrontare persino lui. Arrivai a casa poco dopo le nove di mattina. Mio padre era già uscito per andare in ospedale mentre mamma sedeva ancora pigramente sulla sua poltrona preferita a leggere il giornale. Quando si accorse di me, si alzò di scatto e mi venne incontro. «Dove sei stato?», chiese con tono preoccupato. Mi abbracciò, avvolgendomi dell’aroma di gelsomino del suo Âme Noire. «È la prima volta che resti fuori tutta la notte. Che cosa avete fatto tu e il tuo amico?». La strinsi dolcemente a me e per un attimo ebbi la tentazione di dirle tutta la verità. Sarebbe stato così liberatorio essere sincero. “Mamma, vado a vivere con la persona di cui mi sono perdutamente innamorato”, oppure: “Mamma, ho giurato amore incondizionato a una donna meravigliosa, vado a stare con lei”, ma non dissi niente di tutto ciò. Mi rifugiai in quella stretta confortante e le chiesi mentalmente perdono per ciò che stavo per fare. «Mamma…», sussurrai infine nervoso. Lei si staccò da me e solo in quel momento notai che aveva gli occhi gonfi. Indietreggiai, sorpreso. «Che cosa ti è successo? Hai pianto, non è così?». Anche lei si ritrasse scuotendo la testa più volte. Poi si girò dalla parte opposta, ansiosa di scappare da me e dalla mia domanda. Di solito non piangeva mai. Viviane Faije Bercher tratteneva tutto dentro, come me. La seguii in cucina, preoccupato. Si era fermata di fronte al lavandino. Gli occhi erano puntati verso il basso, segno di colpevolezza. «Dimmi quello che sta succedendo, ti prego, mamma», insistetti prendendole le mani tra le mie. Lei non mi rispose e continuò a guardare il pavimento. Ecco. Ecco a chi dovevo la mia codardia. Ero la copia di mia madre. Insieme allo straordinario colore degli occhi, avevo ereditato la sua stessa insicurezza, la tendenza a evitare i problemi invece di affrontarli e, soprattutto, una paura insopportabile delle reazioni degli altri. «Tuo padre», mormorò infine in un soffio. «Che cosa ti ha fatto?», chiesi allarmato. «Niente. È… È solo molto arrabbiato. Non accetta la tua decisione. Lasciare la specializzazione di medicina per il dottorato di ricerca è stato un grosso errore secondo lui», continuò con l’aria esausta. «Litighiamo per questo motivo ogni giorno. Ho cercato di spiegargli le tue motivazioni, tesoro mio,


ma non c’è nulla da fare. Così… Se la prende con me». «Che cosa? Ma… Ma non è giusto! Tu non c’entri nulla con quello che mi è successo in ospedale…». «Oh, invece sì. È da me che hai ereditato il carattere sottomesso, Alain. La debolezza della famiglia Faije». Gli occhi le si riempirono di lacrime come se fosse realmente convinta di ciò di cui mio padre l’accusava da sempre. La rabbia mi travolse all’istante. «Tu non hai nessuna responsabilità, mamma!», sbottai pieno di rancore. «E se papà fosse qui, ora, glielo direi in faccia!». «Allora dimmelo, Alain». La voce fredda e profonda di mio padre ci fece trasalire entrambi. Era appoggiato allo stipite della porta, elegante e irraggiungibile come sempre. Perché era rientrato? Incrociai il suo sguardo severo e i suoi lineamenti si contrassero di rabbia. Al di là del colore degli occhi – i miei erano ambra come quelli di mia madre – avevo di fronte l’immagine del futuro me stesso. Gli assomigliavo fisicamente tanto quanto eravamo diversi interiormente. Ero distante da quell’uomo autoritario e imperturbabile come l’acqua lo è dal fuoco. «Allora, Alain. Io sto aspettando», mi provocò lui. Fui attraversato da una scarica di adrenalina. Perché mi faceva così paura? Perché aveva tutto quel soffocante potere su di me? «Non… Non è colpa di mamma se ho lasciato medicina», balbettai odiandomi. Mamma restò in silenzio, intimidita dalla presenza di papà più di quanto lo fossi io. «E allora di chi è la colpa?», domandò, avvicinandosi a entrambi. Era più alto di me e ancora molto muscoloso nonostante avesse superato i cinquanta. Al suo cospetto sembravo un bambino. «Di nessuno», sibilai, sempre più arrabbiato. «Credi che io non abbia mai provato il tuo stesso dolore, Alain?», ringhiò lui, afferrandomi per un braccio. Cercai di divincolarmi, ma la sua presa era d’acciaio. «Ho visto morire così tante persone da averne perso il conto. E tu, dopo un solo decesso mandi all’aria i tuoi studi? Sei un codardo!». Mi strattonò così forte da farmi male per poi lasciarmi andare di colpo, facendomi sbattere il gomito sullo spigolo del tavolo. «Victor!», esclamò mia madre agitata. «Stai zitta!», le intimò lui, fulminandola con lo sguardo. «E tu… Tu riprenderai la specializzazione la prossima settimana!».


«Cosa?», sussurrai a denti stretti. «Ho parlato con Fuster. Ci ho pensato io a rimettere tutto in ordine. Lascerai il dottorato e ti scuserai con il dottore per la tua condotta miserabile. Riprenderai il training in reparto e non farai mai più una cosa del genere. Ci siamo intesi, Alain?». Una goccia di sudore freddo scivolò dalla tempia fino al collo, raggelandomi. «Bene, vedo che ci siamo capiti. Non farmi vergognare mai più di te, ragazzino. Sei un Bercher, mettitelo in testa! Noi eccelliamo e basta. La codardia lasciamola al ramo di tua madre». Mi voltai verso di lei: i suoi occhi puntavano di nuovo verso il pavimento. No. Quello spettacolo era il riflesso della mia anima. Era così che sarei diventato se avessi concesso a mio padre l’ennesima vittoria. «Io… Io non lascerò il dottorato», dissi piano, mentre il cuore mi martellava nel petto con violenza. «Che cosa hai detto?» «Non lo lascerò», sbottai più deciso, guardandolo davvero negli occhi forse per la prima volta nella mia vita. «Non riprenderò la specializzazione e non ti lascerò più scegliere al posto mio». Le sue guance divennero rosse come rubini. «Mai più!», aggiunsi, sputandogli addosso tutto il mio rancore represso. Il suo schiaffo arrivò con la forza di una tempesta. Il dolore si irradiò dal mento fino alla tempia, così acuto da mozzarmi il respiro. Mi aveva colpito. Mi aveva picchiato. Restai fermo, immobile, incredulo per qualche secondo. Poi avvertii un rivolo caldo scivolarmi sulla pelle: mi toccai il labbro inferiore e sentii che era ferito. «Allora ragazzino, se le cose stanno così, trovati un altro posto dove stare! Non sopporto nemmeno l’idea di condividere la casa con te! Mi vergogno di quello che sei diventato, Alain. Per quanto mi riguarda non ho nient’altro da dirti, se non di andartene da qui all’istante!», urlò. Non me lo feci ripetere. Lo superai e mi diressi verso lo sgabuzzino dove tenevamo tutte le nostre valigie. Ne afferrai una abbastanza grande e la trascinai sulle scale fino alla mia camera, sbattendola su ogni gradino con rabbia. Iniziai a riempirla con le mie cose, mentre la guancia pulsava di dolore e le lacrime mi confondevano la vista.


Contro ogni mia aspettativa, la soluzione per andare a vivere con Isabel era caduta dal cielo, insieme al macigno della vergogna e al disprezzo di mio padre. Era un segno del destino? Forse. E se non lo era, non me ne importava nulla. Volevo solo andarmene da quel posto il prima possibile. Quella non era più né la mia casa né il mio rifugio. Era diventata la tana di un leone pronto a farmi a brandelli al mio primo passo falso. Perché me ne accorgevo solo in quel momento? Perché non mi ero mai ribellato prima? Ancora confuso, chiusi la valigia e barcollai sulle scale, trascinandomela dietro. Quando fui alla porta mamma mi raggiunse, fermandomi mentre riallacciavo la giacca sulla camicia, che sapeva ancora di Isabel. «Alain, tesoro, che cosa stai facendo?», sussurrò, per non farsi sentire dal leone. «Ti prego, metti via questa valigia. Dove pensi di andare? Ti prego…». Mi specchiai nei suoi occhi di pura ambra e feci segno di no con la testa. «Qui non posso più stare, mamma. Lui non mi capisce. Non… Non lo ha mai fatto. Ho bisogno di andare via». «E dove? Alain, dove!?», mi tirò a sé con le braccia che tremavano. La stavo abbandonando perché non ero abbastanza forte per lottare, né abbastanza coraggioso per difenderla dall’uomo che mi aveva appena distrutto. Volevo solo Isabel. La mia Isabel. «Vado a stare da Morgan. Non preoccuparti. Verrò a prendere il resto delle mie cose non appena mi sarà possibile». Mi scrollai il suo braccio di dosso e senza voltarmi uscii in strada. Stavo correndo verso la libertà o stavo solo fuggendo? Con quella domanda in testa mi rifugiai nella metro e cercai di respirare a fondo per calmare il ritmo accelerato del mio cuore. Arrivai in laboratorio in ritardo e i colleghi mi squadrarono incuriositi. Avevo un aspetto disordinato, il labbro gonfio e una valigia al seguito. Ignorai il resto del mondo e salii al secondo piano. Non appena misi piede in laboratorio Morgan mi venne incontro con gli occhi incollati a un protocollo sperimentale. Iniziò a parlarmi dei programmi per quella mattina lamentandosi del mio ritardo tuttavia, quando alzò lo sguardo sulla mia faccia, ammutolì all’istante. «Ma che diamine…», sbottò sorpreso. Scossi la testa turbato, coprendomi la guancia con la mano. «Chi ti ha rotto il labbro? E perché hai quella valigia enorme al seguito?»


«Mio padre», dissi piano, vergognandomi di quella confidenza. «È molto arrabbiato con me. Me ne sono andato di casa». Parlavo come un robot. In realtà non avevo né la voglia né le forze di cercare il suo conforto. Forse solo Isabel avrebbe potuto lenire il dolore che stavo provando, ma ridotto in quello stato, e per di più sul posto di lavoro, non potevo certo presentarmi da lei. «Oh, Alain… Mi dispiace davvero. Posso ospitarti da me per un po’, se ne hai bisogno. Ho un divano-letto fantastico, perfetto per i novellini come te». Cercò di farmi ridere, ma gli feci segno di no. «Vado da lei. La donna di cui ti ho parlato. Avevi ragione, sai? L’ho convinta a darmi una possibilità. Vado a stare con lei oggi stesso». Feci un sorriso sghembo avvertendo di nuovo dolore alle labbra. «Aspetta, ti porto del ghiaccio», disse Morgan allontanandosi. Ritornò con un guanto di lattice blu pieno di cubetti. Mi fece segno di sedermi e me lo appoggiò sulla guancia. Sprofondò a sua volta nella sedia e mi guardò così seriamente da farmi preoccupare. «Senti… Lo so che sono stato io a incoraggiarti a farti avanti con questa donna, ma… andare a vivere da lei non ti sembra un po’ troppo precipitoso? Insomma, da quanto tempo la conosci?». Abbassai lo sguardo, conscio di dover tenere la bocca tassativamente chiusa. «Vieni a stare da me per qualche settimana. Così avrai il tempo di conoscerla meglio senza affrettare le cose, Alain. Che ne dici? Adesso sei sconvolto per via di tuo padre… Forse non è il momento di prendere decisioni affrettate». «Non è affrettato. Va tutto bene», dissi provando un po’ di sollievo con il ghiaccio premuto contro la ferita. «A proposito, volevo comprarti una confezione gigante di paste da Brukvert per ringraziarti dell’aiuto, ma con il trambusto di questa mattina non ci sono riuscito», scherzai timidamente. «Dannazione! Che cosa diamine vuoi che me ne freghi delle paste, Alain! Ti sto parlando di una cosa seria, mi stai ascoltando?» «Certo. E ti dico che va tutto bene. Da lei starò benissimo». La sua espressione si fece ancora più preoccupata. «Se dovesse andare male verrò da te, promesso», aggiunsi senza crederci davvero. No, non poteva andare male. La mia vita con Isabel sarebbe stata perfetta perché lei era tutto ciò di cui avevo bisogno. Morgan si passò la mano sui capelli rasati di fresco, poi annuì un po’ triste. «Ok, come vuoi», disse infine. «Ma non esitare a chiedermi aiuto», si raccomandò. Feci segno di sì. Era davvero un buon amico. Peccato che non


potessi condividere con lui la mia felicità per il rapporto segreto con Isabel. Andai in bagno a cambiarmi. Indossai una camicia pulita, mi pettinai e mi pulii al meglio la ferita. Dopo essermi passato dell’acqua fredda sul viso più volte cominciai a sentirmi meglio. Era ora di mettersi al lavoro. La giornata in laboratorio fu molto intensa. Sia Morgan che Giselle mi chiesero una mano per alcune procedure. Per quanto mi sentissi stanco, ero felice di avere così tante cose da fare. Tenere la testa impegnata mi avrebbe permesso di arrivare fino a sera ignorando il dolore che le parole di mio padre mi avevano provocato. Poco dopo le cinque decisi di inviare una mail a Isabel per informarla che ero già pronto a trasferirmi da lei. La risposta arrivò subito, con le indicazioni per raggiungere casa sua. Quelle parole, nero su bianco, mi diedero una sferzata di euforia. Terminammo di lavorare alle otto passate. Giselle aveva evitato di chiedermi del taglio sul labbro e io gliene ero stato segretamente grato. Quando uscimmo dal laboratorio Morgan ci invitò a bere una birra, ma io rifiutai. Volevo correre da Isabel e gettarmi tra le sue braccia. Desideravo annegare nelle sue lenzuola per farmi possedere come più lei gradiva. La mia dea avrebbe cancellato tutta l’angoscia che mi stava torturando. Devi vivere con me affinché ti educhi al mio piacere! Sì, Isabel, educami come vuoi. Io voglio solo imparare a renderti felice! Arrivai a destinazione, esausto eppure eccitato da morire. Suonai al campanello con le dita che tremavano. La porta si aprì con uno schiocco e io entrai. Abbandonai la valigia nel corridoio e andai subito in soggiorno da dove proveniva la voce del televisore. Isabel era sdraiata sul divano con ancora addosso i vestiti che portava in ufficio. Mi lanciò uno sguardo compiaciuto. «Sei stato bravo, Alain», disse alzandosi. Mi venne vicino, sovrastandomi come al solito, mentre il profumo di rose che aleggiava nella sua casa si insinuava dentro di me come una carezza confortante. Isabel allungò una mano verso il mio viso, poi dolcemente iniziò ad accarezzarlo. Le sue dita disegnarono delle linee invisibili e indugiarono per qualche secondo sulle labbra. «Chi ti ha fatto questo?», sussurrò pericolosamente vicina. «Mio padre. Abbiamo litigato», risposi con una voglia terribile di baciarla. Isabel appoggiò la fronte alla mia e con la lingua leccò il punto in cui si era


formata una sottile crosta rosso scuro. Il calore mi pervase ma, per quanto desiderassi di stringerla a me, mi trattenni dal farlo. Lasciai che lei mi leccasse in quel modo lascivo, in silenzio, gustando la sensazione ruvida e morbida insieme della sua lingua sulla pelle. «Adesso dimenticalo», mormorò strusciando il suo corpo sul mio, provocante. «Ho voglia di scopare». A quell’ultima parola un getto di sangue bollente si riversò nel mio membro, raddrizzandolo di colpo. La sua mano si strinse sul gonfiore che ora premeva impaziente contro il tessuto dei jeans, provocando ulteriore tensione. «Tu sei mio, Alain», mormorò, e io ansimai. «Sono tuo», dissi, animato da una voglia animalesca che si aggrappava ai miei visceri e mi faceva perdere il lume della ragione. «E farai tutto ciò che voglio, non è così?» «Non desidero altro, Isabel…». «Allora inginocchiati», mi ordinò. Lo feci e alzai lo sguardo, obbediente, aspettando il comando successivo. Lei afferrò l’orlo della gonna nera e lo tirò fin sopra le anche. «Penetrami con la lingua», disse severa, divaricando le gambe sopra la mia testa. «Voglio venirti in bocca». Chi era davvero? Una strega? Sì, doveva essere una strega. La sua voce, i suoi movimenti, persino il suo odore mi piegavano inesorabilmente, rendendomi inerme. «Ai tuoi ordini». Divorato dalla lussuria, afferrai le sue cosce e mi portai esattamente sotto il suo ventre. Con i denti scostai il tessuto degli slip e senza farmelo ripetere eseguii l’ordine della mia dea. Iniziai dapprima lentamente, esplorandola con delicatezza, dalla base fino al clitoride, soffermandomi solo il tempo necessario ad avvertire i primi sussulti guizzare sulle mie labbra. Poi, quando sentii i suoi umori scivolarmi dolcemente in bocca, cominciai a entrare dentro di lei, schiacciando il viso sulla sua pelle accaldata. L’orlo degli slip mi ostacolava un po’, ma allo stesso tempo l’idea che Isabel li indossasse ancora rendeva quel gesto erotico da impazzire. Le misi le mani sulle natiche e, mentre mi spingevo più a fondo dentro di lei, iniziai a toccarle la fessura anale con le dita, massaggiandola. Quell’iniziativa sembrò aumentare il piacere della mia dea che, avvinta dalla passione, piegò le ginocchia al punto di soffocarmi tra le sue labbra affamate di sesso. Ancora, Alain. Ancora. Le gambe di Isabel cominciavano a tremare. Il suo respiro si ridusse a un sussurro, spezzandosi in mille gemiti. Non appena fu sul punto di venire mi


strinse i capelli tra le dita e con forza li tirò, mentre il suo ventre si contraeva in caldi spasmi di piacere. La tempestai di baci finché non risucchiai ogni goccia di quell’orgasmo dentro di me. «Schiavo…». Sì, lo ero. Le appartenevo e avrei fatto qualsiasi cosa per continuare a essere suo, sempre. Quando Isabel si staccò da me, il sangue brillava sulla mia bocca mischiato ai suoi umori: la ferita sul labbro si era riaperta. Lei se ne accorse e, sorridendo, leccò dove il bruciore si era fatto di nuovo intenso. «Bravo il mio piccolo…», disse poi facendomi alzare. «Andiamo a fare una doccia». Con la mano intrecciata alla mia, mi condusse in bagno. Mi tolse la camicia e i pantaloni, accarezzandomi il ventre più e più volte attraverso i boxer. Dio, come la desideravo! Aprì l’acqua e lasciò che scorresse fino a diventare calda. Quando la temperatura fu di suo gradimento, mi tolse anche i boxer ed entrammo insieme nella doccia. Mi schiacciò contro il vetro, baciandomi con passione, e io la strinsi a me così forte da temere di farle male. Nonostante fossi lì con lei, avevo ancora l’impressione di doverla afferrare disperatamente, di doverla tenere stretta, come quando ci si aggrappa agli ultimi brandelli di un sogno per non vederlo dissolversi alla luce del mattino. «Alain…». «Isabel… Ti prego… Ti prego…». La sua mano scese sul mio ventre e mi circondò il membro. Ero così pieno da fare male e le sue dita su di me non facevano altro che aumentare quell’agonia. Impietosa, la mia dea cominciò a masturbarmi, alternando strette lievi a colpi più intensi, decisa a portarmi all’oblio. «Bravo… Così. Pieno e caldo per me… Ti lascerò venire, piccolo, per questa sera». Aprii gli occhi che fino a quel momento avevo tenuto serrati, troppo impegnato a resistere alle sue carezze. Le iridi di Isabel brillavano come due zaffiri incastonati nel cielo stellato. Il vapore aveva creato una nuvola bollente attorno ai nostri corpi. Un ultimo colpo, poi non ce la feci più e venni tra le sue mani, sporcandole la pancia del mio seme. Per tutta risposta Isabel mi prese per i capelli e mi schiacciò di nuovo sul suo ventre dove l’acqua calda stava già cancellando i segni del mio orgasmo. «Puliscimi schiavo», mormorò usando la mia faccia come una spugna. Per qualche secondo avvertii l’odore acre della mia eccitazione mischiarsi


indissolubilmente con quello dolce della sua pelle. Poi l’acqua lavò via i residui di sperma e Isabel mi liberò da quella presa. Ci accarezzammo sotto il getto caldo con una sorta di reciproca venerazione. Se il giorno prima avevo giurato il mio amore con le parole, quella notte lo avevo fatto con il mio corpo e la mia anima, oltrepassando il punto di non ritorno.


Capitolo 7 L’addestramento

Zurigo, giugno 2018

Nessuno mi aveva mai detto quanto l’aria possa essere leggera quando si è felici. Quando anche la fatica giornaliera diventa trascurabile e la noiosa routine lavorativa è solo un momento di pausa dalla costante sensazione del librarsi tra le nuvole. I giorni passavano fin troppo velocemente. Mi svegliavo di buon’ora, gustandomi ogni secondo in compagnia della mia dea prima di andare all’università. In laboratorio lavoravo animato da una straordinaria energia con un sorriso innamorato stampato sulle labbra. Ridevo a qualsiasi battuta scherzosa, anche quando non la capivo, e mi impegnavo moltissimo ad aiutare sia Giselle che Morgan. Non mi importava che in pubblico Isabel continuasse a ignorarmi. In fondo era il nostro gioco e io, finalmente, ne conoscevo tutte le regole. Ogni sera prendevo la metro con lo stomaco che si attorcigliava di secondo in secondo e tornavo da lei per prostrarmi ai suoi piedi. Mangiavamo insieme e poi facevamo l’amore, ogni notte, e io le permettevo di divorarmi corpo e anima con il cuore che mi batteva così forte da farmi temere di morire. Perché sì, si può morire per amore. Più il tempo passava, più mi convincevo che la mia vita avesse raggiunto la perfezione. Non avevo bisogno di nient’altro per sentirmi completo. I ricordi delle amare parole di mio padre erano ormai confinati in un angolo remoto della mia testa e la sofferenza di mia madre riusciva a rattristarmi solo per la durata di una telefonata. Non appena incrociavo gli occhi di Isabel tutti quei problemi scomparivano e si annullavano all’istante. Ero pronto a soddisfarla in ogni modo possibile. Il paradiso però è solo una chimera. Lo sai tu, lo so io. Ci illudiamo che quella bellezza e tutta la sua perfezione possano esistere, ma ci sbagliamo.


Ci sbagliamo sempre. Così successe. Ero sdraiato sul letto nel timido calore della prima notte d’estate. Il mio volto era costretto tra le gambe di Isabel e stavo gustando la dolcezza dei suoi umori. Come ogni volta che stavamo insieme lottavo tra l’istinto di penetrarla e la costante insicurezza di non essere abbastanza per lei. Entrambe erano sensazioni scomode e ingombranti, ma non potevo fare a meno di esserne travolto. Cercavo con tutte le forze di concentrarmi sulla consistenza vellutata della sua pelle, ma quella sera sembrava impossibile. Fu solo in quel momento che me ne resi conto. Isabel si muoveva a malapena sotto di me. Alzai lo sguardo e i miei dubbi si tramutarono in certezze. La mia dea era lontana miglia e miglia da me. Le sue braccia erano abbandonate lungo i fianchi e il suo corpo non tremava di eccitazione come il mio. Freddo. Spento come la cenere gelida abbandonata nel camino. «Isabel», sussurrai con la lama della paura già conficcata nel cuore. «Che cosa c’è? Non ti senti bene?». I suoi occhi fissavano un punto irraggiungibile. Le labbra erano schiuse in un’espressione annoiata. Che cosa stava succedendo? «Isabel?». Solo in quel momento lei si riscosse dal torpore e mi degnò della sua attenzione. «Non mi va», disse glaciale serrando le gambe all’istante. «Aspetta… Ho fatto qualcosa di sbagliato? Scusami, ti prego…». Scosse la testa. «No, è solo che non mi soddisfi più». Il respiro mi si mozzò in gola. Di colpo sentii freddo. Un freddo implacabile, impietoso. «Cosa?». Isabel si alzò dal letto e indossò la sua vestaglia di seta rosa. Sembrava triste, ma tra i due ero certo di essere io quello sull’orlo del pianto. «È stato divertente scopare in queste settimane», disse senza guardarmi. «Ma io non cerco solo questo… E ora sto seriamente dubitando di poter cambiare registro con te». Non capivo. Che cosa voleva dire con “cambiare registro”? «Dimmi ciò che desideri, Isabel, e io lo farò», mormorai in preda al panico. «Sei troppo debole, Alain. Non posso farlo», rispose gelida. «No… No!», esclamai alzandomi dal letto. «Posso fare tutto per te. Ricordi? Ho giurato. Ho giurato il mio amore. La mia totale devozione. Ti prego, abbi fiducia in me», supplicai.


Lei strinse le labbra contrariata e restò in silenzio. Mi guardava combattuta per l’ennesima volta. Era come se fosse arrabbiata e allo stesso tempo provasse una sorta di inspiegabile compassione nei miei confronti. Scosse la testa e io sprofondai in un baratro. La sola idea di perdere Isabel mi faceva impazzire. Non ragionavo più. La paura mi avvelenava. «Ho giurato, Isabel», ripetei, afferrandole la mano e portandomela alla bocca, dopo diversi minuti d’attesa. Le baciai le dita affusolate con tutta la dolcezza di cui ero capace. «Dimmi cosa devo fare», le sussurrai in ginocchio ai suoi piedi. «Dimmelo. Farò tutto. Tutto». «La cintura dei tuoi pantaloni: dammela», ordinò all’improvviso. La guardai turbato ma fu solo per un istante. Scosso dal panico, le consegnai subito la cintura di pelle marrone. La mia dea la osservò per qualche secondo accarezzandola con le dita. Poi piegò il cuoio, afferrandolo insieme per le due estremità. «Metti le mani sul bordo del letto», sbottò. Eseguii il suo ordine alla lettera, benché stessi tremando. In quella posizione le esponevo la schiena e i glutei. Il primo colpo arrivò all’improvviso e bruciò come acido. Non riuscii a trattenere un grido e il cuore cominciò a pompare più forte, lasciando che quel dolore permeasse tutto il mio corpo. «Inizi a capire cosa voglio, Alain?», sibilò Isabel con un tono di voce che non avevo mai sentito prima di allora. «Sì», mormorai, sconvolto e incredulo. Strinsi i denti pronto a ricevere altri colpi. Due… Tre… Quattro… Me lo aveva detto all’inizio di tutta quella storia. Il particolare che io avevo accantonato, dimenticato, troppo inebriato dalle delizie del sesso, si riproponeva ora nella sua più cruda natura. Isabel era una sadica. Isabel godeva del dolore del suo partner. Isabel voleva vedermi soffrire. In quei due mesi di felicità mi ero illuso che quel suo lato oscuro si fosse spento, offuscato dalla passione e dal piacere che io le stavo dando. Non era così, purtroppo. «Ne voglio ancora, Alain. Voglio vedere la tua pelle diventare rossa. Meravigliosamente rossa sotto le mie mani». «Ai tuoi ordini», annuii sofferente, con l’animo colmo di tristezza. Isabel non mi fece attendere. Mi sferzò ancora, più e più volte, lasciando che il fuoco delle cinghiate mi incendiasse la schiena e i glutei, insieme al cuore. Mentre trattenevo urla e umiliazione, mi concentrai con tutte le forze sulle parole del mio giuramento. Dovevo resistere. Amavo Isabel più di ogni altra


cosa al mondo e la mia sottomissione mi legava indissolubilmente a lei quanto a quell’atto crudele. Se avessi continuato a fare ciò che voleva, a obbedire con cieca devozione, la mia dea non mi avrebbe mai lasciato. In fondo potevo sopportare un po’ di sofferenza. Potevo accettare quel suo lato perverso. Sì, l’avrei accolto senza remore pur di arrivare al suo cuore. Non avevo altra scelta, ancora una volta, se non seguire la strada delle ombre. Proprio in quel momento Isabel smise di frustarmi. «Voltati, Alain», ringhiò. Mi appoggiai al letto e feci un lungo respiro come a cacciare via tutto quel dolore. Poi mi voltai. Le guance di Isabel erano rosse come rose appena sbocciate, le labbra lucide e gonfie e gli occhi straordinariamente luminosi. Era eccitata, molto eccitata. Lasciò cadere la cinghia sul pavimento e si avvicinò al letto. Portò la mano alla sua intimità e si accarezzò, poi mi porse le dita umide dei suoi umori. «Lo vedi, piccolo», disse infilandomele in bocca. «Il piacere che tu mi hai dato così… Ha un buon sapore, vero?». Era davvero un gusto nuovo. Era la sofferenza che me lo faceva percepire differente o l’avermi picchiato aveva reso Isabel finalmente felice? Era quello il gusto del suo vero, incredibile piacere? «Adesso voglio che mi scopi, Alain. Il dolore che ti ho inferto ti farà durare a lungo e io godrò molto di più». Mi desiderava! Potevo ancora possedere il suo corpo perfetto! La mia sottomissione, il suo piacere, un connubio sublime. Ce l’avevo fatta! Animato sia dal rancore che dal desiderio di farla mia, ignorai il bruciore cocente che si irradiava lungo tutta la schiena e spinsi Isabel sul letto. Afferrai le sue lunghe gambe e la portai a pochi centimetri dal mio membro, così duro da mozzarmi il respiro. Lo sguardo della mia dea era carico di lussuria. La penetrai con tutte le forze che mi erano rimaste. La colpii con la stessa durezza delle cinghiate che lei mi aveva appena inferto, a un ritmo sfiancante, rabbioso e terribilmente eccitante. A contatto con la sua carne mi sentii subito meno angosciato, come se la sua passione fosse una sorta di panacea contro ogni mia paura. Quando ero dentro di lei tutto sembrava di nuovo al suo posto, naturale e giusto. Dolorosamente perfetto. L’eccitazione di Isabel montò subito, infuriando come il mare in tempesta e lei esplose due volte sul mio sesso. Poi le sue labbra calde e scivolose mi strinsero così forte da impedirmi di trattenermi ulteriormente. Venni anch’io in un orgasmo che sapeva di sottomissione e amara sconfitta.


«Sei stato bravo, piccolo», disse una volta che fummo entrambi calmi, di nuovo sdraiati sul letto. «Che cosa farai adesso?», mormorai con il viso nascosto nelle lenzuola. La tristezza mi stava dilaniando. Avevo vissuto quel torbido momento al meglio delle mie possibilità ma quando l’eccitazione e la lussuria mi avevano lasciato, molte domande avevano preso a tormentarmi. Avevo combattuto e mi ero piegato ancora una volta alle ragioni del mio folle amore, eppure una parte di me si sentiva ugualmente male. Per quanto mi stessi sforzando, non riuscivo a capire la donna che amavo. Come poteva provare piacere nel farmi soffrire? E quanto dolore doveva infliggermi per essere felice? Sarei stato in grado di sostenere quel tipo di relazione? Non ero più certo di niente. «Che cos’hai, Alain?», disse lei, prendendomi il viso tra le mani. «Tu sei mio. Il mio schiavo. Farò tutto ciò che voglio di te, come ti ho promesso». «Non è questo il problema». «E allora qual è?», sbuffò irritata. «Ti prego, non arrabbiarti, ora», mi affrettai a dire con il battito accelerato. «È solo che non riesco a capirti. Ti amo e tu sei qui con me adesso, tra le mie braccia, eppure… ho l’impressione di non riuscire ancora ad afferrarti», la guardai triste. «Mi sono sentito un animale, Isabel… Prima, mentre mi picchiavi. Non ero più il tuo amante… il tuo uomo». «Mmm, è davvero questo quello che provi? Be’, in fondo non è poi così lontano da ciò che io desidero. Io voglio un animaletto da addomesticare, che obbedisca sempre a ogni mio comando». Quella risposta mi fece più male di tutte le cinghiate che mi aveva appena inferto. «Un animaletto? Perché già che ci sei non mi metti un collare, allora? Così potrai trattarmi definitivamente come una bestia…», ribattei con un velo di sarcasmo. Un senso di costrizione al petto mi assalì, ma Isabel ne sembrò divertita. «Un collare, dici? Assolutamente no. Potresti sempre toglierlo e scappare. Ho qualcosa di meglio in mente per te». In quel momento mi si riempirono gli occhi di lacrime. Eravamo di nuovo distanti, due strade parallele destinate forse a non incontrarsi più. Isabel parve percepire il mio disagio e mi baciò dolcemente, come a lenire con la morbidezza della sua bocca tutte le mie preoccupazioni. «Hai detto che mi


ami, ricordi?», disse poi, leccandomi le labbra. «Sempre». «Allora devi sottometterti, Alain. Fidati di me e lascia che io eserciti il mio completo potere su di te». «Ma non credi che l’abbia già fatto? E poi picchiarmi…? Perché? Che piacere ti dà? Ti supplico, fammi capire almeno questo». «Santo cielo, sei sconvolto per così poco?». Poco? Feci segno di sì con la testa. «Fa male…», sussurrai. «Fa davvero tanto male». Isabel si ritrasse. «Non fare il ragazzino adesso. Sei stato tu a supplicarmi di darti una possibilità. Quello di prima era solo dolore, Alain, ed è tutto nella tua testa. Puoi imparare a controllarlo, se lo vuoi. Devi far sì che la sofferenza diventi la tua forza, altrimenti si nutrirà di te fino a consumarti. E io ho in mente così tante cose da fare con te che sarebbe un peccato se non ci riuscissi». Passò le dita sulle mie labbra umide. «Fallo in nome del tuo amore. Vedi, questo è il mio modo di possederti, piccolo mio. Il solo modo che conosco. Il solo modo che mi appaga davvero. E non ci sono altre vie per raggiungere il mio cuore…». Raggiungere il suo cuore? Di colpo il dolore delle cinghiate assunse una nuova interessante sfumatura. Quindi la mia sofferenza era davvero il mezzo per conquistare la mia amata? «Vuoi dire che se resisto a tutto ciò che hai in mente, tu un giorno mi amerai?», le chiesi sospettoso. Amore… Amore… Quante volte intendi spezzarmi il cuore, Isabel? «Sempre questa domanda, Alain… Lo sai, no? Tutti vogliono l’amore ma nessuno desidera pagarne il prezzo», rispose lei crudele. Scossi la testa, afferrandole poi le mani. «Ti prego, devi dirmelo. Perché se lasciarmi picchiare e umiliare è l’unico modo di farti mia allora resisterò a tutto, ma devo sapere che le cose stanno davvero così. Che c’è una speranza per noi…». Isabel mi accarezzò di nuovo i capelli. «Ti assicuro che questo è il solo modo per dimostrarmi il tuo amore. E per conquistare il mio cuore, piccolo. Accetta ciò che ti farò con la stessa sottomissione della foglia che si arrende alla pioggia. Sto cominciando a credere di essermi sbagliata su di te». «In che senso?» «C’è l’indole di un vero schiavo dietro a tutte le tue paure. Sono sicura che


presto sarai proprio tu a chiedermi di farti del male… Perché non potrai più farne a meno, credimi». Mentre le mie braccia si stringevano al corpo della mia amata, i miei pensieri si ancorarono a quell’ultima, assurda speranza. Soffrire per amore… per conquistare il suo cuore nero. La mattina dopo ci svegliammo presto nonostante nessuno di noi dovesse lavorare. Isabel fece colazione in silenzio leggendo il giornale, mentre io trascorsi il mio tempo a venerarla, riflettendo ancora sulle ultime parole della conversazione della sera prima. La schiena mi faceva un male terribile lì dove mi aveva colpito, ma non me ne lamentai. Dopo colazione la mia dea mi ordinò di fare la doccia. «Preparati, tra poco dobbiamo uscire», disse soltanto, una volta che fui uscito dal bagno. «Per andare dove?», domandai curioso. «Abbiamo un appuntamento. Non voglio fare tardi», si limitò a rispondere mentre indossava la sua catenina d’argento preferita. Mi vestii cercando di immaginare dove saremmo andati. Salimmo in macchina poco prima delle nove. Mentre Isabel guidava, la mia curiosità divenne insopportabile. Che cosa aveva in mente questa volta? Perché intorno a lei aleggiava sempre tanto mistero? Superammo il Rudolf-Brun-Brüke e continuammo veloci su Uraniastrasse, avvicinandoci al giardino botanico dove ero andato spesso a passeggiare nel periodo universitario. Proseguimmo poi sulla Brandschenkestrasse, inoltrandoci in una parte della città in cui non ero mai stato. Ci fermammo solo arrivati a Uitikon, dopo circa venti minuti di viaggio. A quel punto ero davvero impaziente. «Inizio a preoccuparmi, Isabel. Dove siamo diretti?», le chiesi di nuovo, sperando in una spiegazione. «Proprio laggiù», rispose lei, indicandomi un negozio di tatuaggi. «Per… Perché?» «Ricordi la storia del collare?», continuò sorridendo. «Certo». «Allora entra, Alain. Non voglio aspettare un minuto di più perché tu abbia il tuo collare», disse aprendo la porta a vetri. Avanzai titubante, senza capire. Fui immediatamente investito da un fresco profumo di lavanda. Entrai in una specie di sala d’attesa: sulle pareti di


mattoni a vista erano appesi diversi quadri dai colori variopinti e due file di sedie dal design ultramoderno erano sistemate lungo i muri. Alla mia destra, dietro la cassa, c’era una ragazza super tatuata e con i capelli rosa confetto che mi scoccò un’occhiata ammiccante. Abbassai lo sguardo imbarazzato. «Ben arrivata, Isabel», disse una profonda voce maschile, attirando l’attenzione di tutti noi. A parlare era stato un uomo alto e corpulento, con un vistoso tatuaggio a forma di drago color smeraldo che gli spuntava dal colletto della maglia aderente. «Ti stavo aspettando. Di quale urgenza si tratta, questa volta?», domandò sorridente. Questa volta? Che cosa voleva dire? «La mia urgenza è lui, Peter. Voglio che tu gli faccia un tatuaggio, oggi stesso». «Cosa?», balbettai confuso, spostando i miei occhi da lui a Isabel. Era per me che eravamo in quel posto, quindi? «Non agitarti, ragazzino, sappi che sono molto bravo nel mio mestiere», scherzò Peter. Il suo modo di guardarmi aveva un che di sinistro. «Isabel… è uno scherzo, vero?». Lei si voltò di scatto, fulminandomi crudele. «Questa è la risposta alla tua domanda, Alain», sibilò a due centimetri dal mio orecchio. «Un collare che non potrai mai togliere. Capisci perché ti ho portato qui? Ora, da bravo, obbedisci e non farmi arrabbiare». Il suo tono gelido non ammetteva alcuna obiezione. Tornai con lo sguardo prima alla ragazza con i capelli rosa e poi al mio carnefice, pronto a marchiarmi la pelle. In silenzio, avanzai timoroso nella seconda sala del negozio, dove Peter mi fece accomodare su una specie di lettino metallico, rivestito da morbide imbottiture. Le pareti della stanza operativa erano rosse, tempestate di foto di tatuaggi sia monocromatici che multicolore. Di certo Peter doveva essere un maestro nella sua disciplina. «Allora, ragazzino, dove lo vuoi il tatuaggio?», mi chiese sornione. Guardai Isabel, con il cuore che martellava in gola. «Sul cuore, ovviamente», disse lei, indicando il centro della mia camicia. Peter sorrise, divertito. «Mmm, sei in vena di romanticismo, vedo. E hai forse già scelto un disegno per la tua vittima? Dimmi che non è quel simbolo orrendo dell’ultima volta». Si scambiarono un’occhiata complice. Un momento. Che cosa voleva dire Peter? Che non ero il primo sottomesso a venire marchiato in quel modo da Isabel?


«Che cosa significa?», mi rivolsi a lei, risentito. Isabel mi accarezzò la testa come a rabbonirmi. Esattamente come si fa con un cane. Nonostante tutto, con mio grande rammarico, quella mano tra i capelli riuscì a dissipare la mia rabbia. «No, assolutamente non quel simbolo… In realtà voglio che tu scriva questa frase», disse allungando un foglietto a Peter. Lui ne lesse il contenuto e fece un cenno di assenso. «Mi piace. Lo farò in un bel corsivo. Che colore?». «Nero». La mia dea aveva già deciso tutto, senza consultarmi, come sempre. Avrei indossato un collare impossibile da togliere perché inciso nella mia stessa pelle. Una scritta sul cuore che mi avrebbe legato ancora più stretto alla donna dei miei sogni. Con le mani che tremavano mi sbottonai la camicia, pronto ad affrontare quella nuova prova per amore di Isabel. Respira, Alain. Respira e sii forte. Peter indossò dei guanti di lattice e poi disinfettò l’area vicino allo sterno con abbondante alcol. «Sei liscio come un bambino, tesoro, non c’è nemmeno bisogno che ti rasi», commentò a bassa voce, continuando a passare l’alcol freddo sulla mia pelle. Per un attimo ebbi l’impressione che ci stesse prendendo gusto a toccarmi in quel modo. Restai in silenzio, bruciando dalla curiosità di scoprire che cosa Isabel aveva scelto per marchiarmi. «Il primo minuto è quello più doloroso, ragazzino. Poi, vedrai, la sensazione diventerà gradualmente più dolce e soffrirai meno», mi rassicurò Peter afferrando un ago sterile e infilandolo nella macchina per tatuaggi. «Cominciamo. Allora, sei pronto?». Annuii in silenzio. La mano di Isabel era sempre sulla mia testa, protettiva e tiranna insieme. Peter aveva ragione. Il primo minuto fu quello più doloroso. Strinsi i denti e non abbassai gli occhi sul petto per tutta la durata del lavoro, mentre l’ago scavava profondo nella mia pelle un ghirigoro indelebile. Una parte di me si sentiva umiliata e impotente, l’altra invece ragionava sulla natura di quel gesto, conscia che, come aveva detto la mia donna pochi minuti prima, un tatuaggio sarebbe rimasto per sempre, così come una cicatrice. Quando Peter terminò il lavoro, sorrise soddisfatto togliendosi la mascherina. «Mi piace davvero», ripeté mostrando a Isabel il mio petto. Il suo sorriso compiaciuto mi convinse a guardarmi a mia volta. Sulla pelle arrossata c’era una frase scritta proprio all’altezza del cuore.


«Aspetta, ragazzino, così non riesci a leggere. Ti do uno specchio». «La passione domina, la ragione obbedisce», anticipò Isabel prima ancora che potessi guardare il tatuaggio da solo. «Questa è la frase perfetta per te e me». Peter mi diede comunque lo specchio e io lo posizionai in modo tale da poter ammirare il suo lavoro. Il nero dell’inchiostro si confondeva con il rossore della mia pelle eppure il mio collare, impossibile da togliere, brillava come se fosse stata una collana di diamanti, una serie di parole piene di me e Isabel. Ero uno schiavo. Il suo schiavo. E lo sarei stato per sempre. «Adesso ti metterò un po’ di pomata antibiotica. Poi farò un bendaggio. Dovrai stare attento la prima settimana, applicare per cinque giorni la lozione che ti darò e tenere coperta la ferita per un po’. Hai capito tutto, ragazzino?». Lo guardai smarrito, perso nei miei pensieri; Isabel fu più veloce: «Ha capito», rispose per me. Peter increspò il labbro lascivo e con le dita mi sfiorò il mento. «Mmm, è decisamente uno schiavetto migliore di quello precedente, Isabel. Ed è anche molto più affascinante», sussurrò eccitato. Quell’ultima frase mi fece sprofondare nella più amara gelosia. Era certo, ormai. C’era stato qualcun altro prima di me a sottomettersi alla mia dea. Qualcuno a cui lei aveva messo forse lo stesso tipo di collare. Non ero il primo? Non ero l’unico? Dopo il bendaggio aspettai in sala d’attesa in compagnia della ragazza con i capelli rosa e due clienti più giovani di me, impegnati a sfogliare uno dei numerosi cataloghi di Peter. La ferita mi dava fastidio tanto quanto le cinghiate della notte precedente. Ero confuso e il fatto che Isabel stesse ancora parlando con Peter non faceva altro che aumentare il mio turbamento. Dopo diversi minuti di conversazione privata, i due si avvicinarono alla cassa. Isabel sembrava stranamente felice. Acuii quanto più possibile l’udito per carpire che cosa si stessero dicendo quei due. «…non vi parlate da molto ormai. E i tuoi precedenti tentativi sono andati tutti a vuoto, ricordi?», mormorò Peter. «Non importa. Lui cambierà presto idea, ne sono certa. Questa volta la mia sarà un’offerta impossibile da rifiutare». «Sei quindi decisa a portare quel ragazzino al Das Silberne Spinnennetz?» «Non appena sarà addestrato a sufficienza. Lui lo adorerà». Furono le ultime parole che riuscii a rubare alla loro conversazione. Poi


Isabel tirò fuori il portafoglio e pagò il mio nuovo “collare” alla ragazza dai capelli rosa. A quel punto mi alzai e mi avvicinai alla porta, impaziente di andarmene da quel posto. Nuovi interrogativi senza risposta si insinuavano nei miei pensieri: che cos’era il Das Silberne Spinnennetz? E chi era “lui”? Il viaggio del ritorno fu silenzioso come quello di andata e ne fui quasi sollevato. Per quanto fossero solo le undici di mattina mi sentivo stanco come dopo aver affrontato una lunga giornata di lavoro. Invece che tornare a casa, decidemmo di mangiare fuori, in un ristorante nella periferia di Zurigo in cui servivano gustose specialità di pesce. Isabel mangiò con appetito, io invece avevo lo stomaco chiuso dalla nausea. Sbocconcellai la mia porzione di cabillaud rigirando la forchetta nel piatto per la maggior parte del tempo e chiedendomi quando la mia padrona si sarebbe degnata di fare un po’ di chiarezza. «Ti fa male il tatuaggio?», mi chiese Isabel quando arrivarono i caffè. «Abbastanza», risposi in un soffio. Troppe domande affollavano la mia testa, rendendomi nervoso e insicuro. Soprattutto quell’ultima frase lasciata in sospeso. Lui… «Sono proprio orgogliosa di te», continuò lei, afferrando una bustina di zucchero. «Perché?» «Pensavo saresti scappato… Non credevo che avresti sopportato di indossare il mio speciale collare». Dubitava ancora di me? «Perché dici così? Ho giurato. Ho giurato di fare qualsiasi cosa per te», mi appesi a quella promessa estortami tra i fumi della lussuria. «E come vedi posso sopportare di tutto». «Sì… Lo hai fatto. Sei stato bravo, quindi… alzati e vai alla toilette». «Cosa?». Strabuzzai gli occhi, sorpreso. «Oggi inizia il tuo addestramento, Alain», sentenziò Isabel glaciale. «Prima regola: quando ti dico di fare qualcosa tu obbedisci senza protestare. Non amo ripetere, lo sai. Ora alzati e vai alla toilette». Il suo tono era diventato tremendamente minaccioso. Confuso, mi diressi verso i bagni del ristorante. Fortunatamente li trovai tutti vuoti. Mi rifugiai in un angolo vicino ai lavandini e aspettai, obbediente. Che cosa aveva in mente la mia dea, questa volta? Isabel arrivò dopo pochi minuti accompagnata dall’inconfondibile rumore dei tacchi.


«Entra qui», disse, indicandomi la porta del bagno di fronte a me. «Isabel, questa è la toilette degli uomini… Che cosa diranno se ti trovano qui?» «Entra, ho detto!». Mi schiaffeggiò rabbiosa, facendomi arretrare di qualche passo. Mi toccai il viso sconvolto. Poi la guardai e rimasi ancora più di stucco quando vidi un sorriso agghiacciante allargarsi sulle sue labbra rosse. Stava godendo: il mio dolore era il suo piacere, come sempre. Entrai nella toilette e lei mi seguì, chiudendosi la porta alle spalle. In quello spazio angusto mi sentii più in trappola che mai. Isabel mi afferrò subito il sesso, strattonando il cavallo dei pantaloni con forza. Eccitata, si inginocchiò di fronte a me e cominciò a slacciarmi la fibbia della cintura facendo scivolare le dita sinuose tra i bottoni dei jeans. Prigioniero. Sì, ero piacevolmente prigioniero. La guardai esterrefatto ed eccitato insieme, ma lei continuò a spogliarmi, inarrestabile. Afferrò il mio membro ancora addormentato e lo masturbò con grande maestria, provocandomi immediatamente una dolorosa erezione. Quando fu pronto, Isabel se lo mise in bocca e cominciò a succhiarlo così forte da farmi tremare dalla testa ai piedi. Ansimai, sconvolto, e trattenni un grido di dolore perché con l’altra mano stava schiacciando proprio lì dove mi aveva colpito con la cinghia la sera prima. Incurante della mia sofferenza, iniziò a spingere più forte. La sua lingua lambiva la mia carne con passione, affamata, rovente. Una vampata di calore mi si irradiò nei lombi accompagnandosi a un’ondata di subdolo piacere. Eravamo in un luogo pubblico. Avevo paura. Faceva male e faceva bene. Faceva impazzire. Allargai le braccia e appoggiai entrambe le mani sulla parete. Il battito del mio cuore cominciò ad accelerare e, lentamente, tutta la mia insicurezza scemò, cancellata da una torbida e impaziente eccitazione. Isabel continuò a succhiarmi, ingoiando più a fondo, stringendomi il membro con i denti, leccandomi e mordendomi per farmi venire in fretta. Era bravissima. Perfetta. Di colpo, il tatuaggio, lo schiaffo e le cinghiate non ebbero più importanza. Tutta la mia attenzione era riservata alle sue labbra serrate sul mio sesso. Il mio respirò si accorciò e iniziai a boccheggiare. Stavo per venire. Cercai di ritrarmi da quella morsa per paura di irritare Isabel, ma lei mi bloccò e continuò a muoversi sempre più rapidamente. Non potevo più aspettare: esplosi nella sua bocca, soffocando le grida. Scaricai la sofferenza patita qualche ora prima in quell’orgasmo e lasciai che la mia dea se ne nutrisse avidamente.


Con il respiro ancora mozzato, abbassai lo sguardo sul suo viso meraviglioso, cercando di calmarmi per non soccombere alle mie stesse emozioni. Il mio sperma colava dalla bocca di Isabel, deliziosamente eccitante. I suoi occhi si specchiarono nei miei, appagati. Lei si leccò le labbra lasciva, riempiendo la mia testa di fantasie sporche e assolutamente irrealizzabili in quel luogo angusto. Poi si alzò in piedi, sovrastandomi. «La tua ricompensa, schiavo», disse a due centimetri dalla mia bocca, accarezzandomi il viso con la mano. Poi mi travolse con un bacio che sapeva del nostro piacere perverso. Capitolai. Isabel era una strega che sapeva dare un senso sia al dolore che alla rabbia. Sapeva come rendermi inerme di fronte a qualsiasi richiesta. Sapeva come distruggermi. Da quel giorno la mia vita cambiò radicalmente. Il mio dressage iniziò con l’elenco delle nuove regole a cui mi sarei dovuto attenere, senza alcuna eccezione. Si fondavano principalmente su tre cardini: obbedienza, silenzio, fedeltà assoluta. La mia giornata era scandita da orari e attività precisi: Isabel mi ordinò impegno ed eccellenza sul lavoro, pasti adeguati e ore di sonno sufficienti a reggere il peso delle sue voglie. Una volta a casa, avrei dovuto rispettare ogni richiesta della mia Mistress senza mai ribellarmi, con cieca devozione, anche quando lei non mi avesse fornito nessuna spiegazione. Il mio cuore era nelle sue mani e batteva perché lei lo desiderava. Drogandomi di sesso, Isabel mi introdusse al vero rapporto tra una dominatrice e il suo sottomesso, assicurandomi ancora una volta che presto avrei cominciato a desiderare di essere punito più di quanto avrei voluto essere ricompensato. Cominciò a usare degli oggetti speciali, insegnandomi così come il dolore potesse diventare più attraente del piacere stesso, una volta imparato a gestirlo. “È nel dolore che scopriamo veramente noi stessi”, continuava a ripetermi mentre mi percuoteva con la verga o mi costringeva braccia e gambe con l’asanawa. Era davvero convinta che in fondo alla mia anima stesse fiorendo il seme del masochismo, perfetto per una donna come lei. Non mi conoscevo abbastanza a fondo per poterne essere sicuro, ma forse Isabel aveva ragione. La mia strega. La Mistress. Il mio tormento. Intrapresi quel cammino ripartendo da zero, come se fosse stato il primo giorno di scuola. Ogni mattina mi alzavo prima di Isabel e preparavo la colazione per entrambi. Poi mi inginocchiavo di fronte al letto e rimanevo


così finché anche lei si svegliava. Tenevo gli occhi puntati verso il basso e aspettavo che fosse la mia dea a rivolgermi la parola per prima. Dopodiché la seguivo in cucina e invece che sedermi al tavolo mi accucciavo ai suoi piedi lasciando che mi imboccasse, più arrendevole di un cane. Se lo desiderava la prendevo con tutto me stesso, donandole piacere. Se lo comandava mi masturbavo fino a venire sul pavimento, gustando l’ebbrezza di quella strana forma di umiliazione. In laboratorio lavoravo con il massimo impegno: Isabel non voleva che il mio rendimento fosse mediocre. Al contrario, dovevo eccellere in ogni progetto in cui venivo coinvolto da Handelson. Era dannatamente importante che fossi visto come uno zelante dottorando, intelligente e preparato. La sera poi era il momento più duro. Ogni giorno Isabel mi insegnava qualcosa di nuovo sul dolore e sulla sofferenza. Le cinghiate erano diventate un rassicurante ricordo di fronte ai suoi nuovi strumenti di piacere. Cominciai così a farmi una vera cultura sui diversi tipi di fruste, bacchette e verghe con cui la mia dea si divertiva a sferzarmi sia corpo che anima. Ognuna di esse, infatti, causava un differente tipo di dolore che, mischiato al piacere del sesso, diventava un cocktail gustoso e mortale. Seguì il turno delle pinze e delle catene. Strette sui capezzoli o attorno ai genitali erano per Isabel una visione paradisiaca. La mia dea si eccitava da morire quando usava quei pezzi di metallo appuntito e poi li tirava con forza, mentre mi ordinava di scoparla senza pietà. Lentamente la sua perversione mascherata da lussuria iniziò a conquistarmi. Il dolore che ogni giorno mi avvelenava provocò lo stesso effetto della cocaina. Settimana dopo settimana ne diventai dipendente. Sopportare le punizioni della mia padrona divenne sempre più facile e alla fine, poco dopo il termine dell’estate, cominciai a implorarla di farmi del male mentre la scopavo, conscio che il dolore che mi infliggeva ci univa come nient’altro al mondo. La sua magia mi aveva trasformato in una persona diversa, o forse aveva semplicemente resuscitato la mia vera natura, l’anima di uno schiavo pronto a morire per la donna che ama.



Capitolo 8 La tela del ragno

Zurigo, settembre 2018

«Alain,

stai bene?». Giselle mi appoggiò una mano sulla spalla e io sussultai per il dolore. Quella notte, Isabel mi aveva colpito le spalle venti volte con il nerbo di bue, prima di possedermi. Giselle aveva involontariamente toccato proprio il punto che mi faceva più male. «Santo cielo, che cosa hai?», disse, arretrando di qualche passo. Guardai la mia camicia bianca e notai una macchia rossa proprio dove lei mi aveva appena sfiorato. Dannazione! Ero diventato bravo a medicarmi le ferite e a nascondere i segni delle torture a cui mi sottoponevo volontariamente ogni giorno, ma quella mattina il corpo sembrava volersi ribellare al mio stesso silenzio. «Niente, Giselle. È solo un graffio», mentii, facendole un mezzo sorriso. Lei mi guardò, sconvolta. «Alain… non direi. Appena ti ho toccato hai fatto una smorfia di dolore. E poi come ti sei ferito in quel modo la spalla? Lascia che ti dia un’occhiata, per favore». Fece per abbassarmi il colletto della camicia, ma io la scansai con fermezza. «Non mi toccare», dissi con un tono un po’ troppo aggressivo. Mi fissò stralunata. «Non è niente», insistetti, moderando i toni. Mi specchiai nei suoi occhi verdi, così belli da fare invidia a un prato illuminato dal sole. Erano gli stessi occhi che quella notte ormai lontana mi avevano guardato languidi di desiderio mentre i nostri corpi si erano uniti in un modo così semplice e così diverso da quello che facevo adesso con Isabel. «Sei così cambiato in questi ultimi mesi», disse Giselle, osservando sospettosa la macchia. «Perché? Gli esperimenti stanno andando bene, ma forse sono stato troppo lento con le relazioni per gli studenti. Mi dispiace», la interruppi barricandomi dietro al lavoro. «Non parlo di questo», si affrettò a precisare. «In realtà la tua condotta è


ineccepibile. Lavori come un robot e fai tutto ciò che ti viene richiesto senza mai lamentarti, ma… Ma non sembri più tu». «Che cosa vuoi dire?» «Lo sai». «Credo proprio di non capire». «Eri ridotto a uno zombie qualche mese fa. Poi di colpo sprizzi felicità da tutti i pori. Dopo qualche mese inizi di nuovo a essere silenzioso e assente, ma lavori con più efficienza di una macchina. E Morgan mi ha detto che non vivi più con i tuoi», continuò più dolce. «Che hai avuto problemi con tuo padre e che ora stai da una donna». Ma perché Morgan aveva spifferato tutto proprio a Giselle? «Sì, è vero», confermai un po’ irritato. «E va tutto bene con lei?» «Sono molto felice», mi affrettai a dire. Feci un debole sorriso mentre il film della mia strana vita con Isabel scorreva veloce nei miei pensieri. «Capisco… Eppure c’è qualcosa di strano. Scommetto che in qualche modo questa donna è stata la causa della tua trasformazione, intendo. Adesso dimmi, Alain, come ti sei fatto quella ferita?», insistette. Scossi la testa con decisione. «Un piccolo incidente domestico. Non è niente». «Fammi dare un’occhiata. Lì non puoi certo medicarti da solo». Fece per avvicinarsi di nuovo ma io arretrai. «Ti dico che non ce n’è bisogno!», sbottai rabbioso. «So badare a me stesso, Giselle! Smettila di starmi addosso! La mia vita non ti riguarda, per cui non farmi più domande». Era la regola numero due: silenzio e riservatezza. Nessuno doveva sapere niente di quello che accadeva tra le mura della casa di Isabel. Nemmeno un’amica preziosa come Giselle. «Alain, cosa stai dicendo?». I suoi occhi si inumidirono. «Io mi sto solo preoccupando per te. Siamo amici, è normale che ti chieda queste cose», mormorò risentita. «Se lo siamo, allora cerca di rispettare la mia privacy». «Io mi preoccupo. Sento che c’è qualcosa di strano. Ho la sensazione che tu ti sia ficcato in qualcosa più grande di te. Vorrei che non ti sentissi solo e che me ne parlassi. Di qualunque cosa si tratti sono certa di poterti ascoltare». Feci segno di no. «Io non sono solo, Giselle. Ti prego, adesso devo finire


l’esperimento per Morgan e non voglio fare tardi, ok?». Non le lasciai nemmeno il tempo di ribattere, mi voltai verso il bancone e, come un robot, tornai a lavorare. Il discorso era chiuso. La sentii sospirare, triste, prima di uscire dalla stanza. Non volevo farla soffrire, ma il rispetto delle regole di Isabel aveva la precedenza su tutto. Persino su un’amicizia sincera. Quella sera tornai a casa in anticipo. Ad attendermi sul mobile dell’ingresso trovai una sorta di guinzaglio. Capii immediatamente che cosa dovevo fare. Mi spogliai della giacca e della camicia e indossai il collare di cuoio borchiato da cui pendeva un laccio lungo circa un metro e mezzo. Andai così abbigliato in soggiorno e, con mia sorpresa, vidi che Isabel non era sola. L’ospite misterioso era seduto sul divano: una donna. Mi avvicinai sospettoso e poi mi inginocchiai ai piedi della mia dea come facevo ogni sera al mio arrivo a casa. Ignorando la sconosciuta, allungai l’estremità del laccio a Isabel, eccitandomi alla sola idea che lo afferrasse e mi strattonasse. Lei mi accarezzò dolcemente la testa. In quel momento gli occhi della sconosciuta mi trafissero curiosi. Non dissi una parola, attendendo che fosse Mistress a presentarmi. La mia obbedienza fu premiata. La mia dea tirò il guinzaglio con forza, avvicinandomi al suo viso. Mi baciò a lungo di fronte alla nostra ospite, senza alcun pudore. «È davvero molto bello», commentò la donna dai capelli neri che sedeva sul divano, non appena Isabel si staccò da me. «E che meraviglioso colore di occhi. Ambra pura. Da chi hai ereditato questo dono della natura, ragazzino?». Alzai lo sguardo sulla mia dea e attesi che mi desse il permesso di parlare. «Rispondi, Alain», disse lei fredda. «Da mia madre», sussurrai subito, rivolgendomi alla mia nuova interlocutrice. «È stata davvero generosa», commentò lei dolce. «Mi chiamo Eva. Isabel mi ha molto parlato di te, Alain». La osservai a lungo, studiandola con attenzione. Eva doveva essere più grande di Isabel. Aveva un corpo dalle curve morbide e la pelle più chiara che avessi mai visto. Indossava un lungo vestito nero con uno spacco vertiginoso. I capelli a caschetto le cadevano sulle spalle in una nuvola corvina. Gli occhi erano di un intenso castano. Aveva delle bellissime mani.


«Mi piace molto il tuo tatuaggio», disse poi, allungando le dita verso il mio petto. D’istinto mi ritrassi. Nessuno aveva il permesso di toccarmi oltre alla mia padrona. Invece di premiarmi, però, Isabel mi strattonò con rabbia. «Lascia che Eva ammiri il tuo collare, schiavo», sbottò gelida, esponendomi meglio allo sguardo della sua ospite. Obbedii sorpreso da quella richiesta e rimasi immobile come una statua. Le mani di Eva lambirono gentili la scritta: “La passione domina, la ragione obbedisce”, mentre il mio cuore si riempiva di rabbia. Non volevo che qualcun altro oltre Isabel mi toccasse. Mi sembrava innaturale, eppure tutto quella sera era destinato a cambiare. Di nuovo, contro la mia volontà. «Oggi inizia l’ultima parte del tuo addestramento, Alain», sentenziò la mia dea, accarezzandomi ancora la testa. «Finora sei stato bravo, piccolo, ma dobbiamo fare un passo oltre». «Che cosa vuoi che faccia, Mistress?», mormorai, incantato dalla sua voce e dal tocco delle sue dita. Lei sorrise, leccandosi le labbra per cui impazzivo ogni notte. «Devi solo obbedirmi, Alain. Come sempre». A quelle ultime parole, Eva si avvicinò pericolosamente a noi. «Questa sera soddisferai tutte le richieste della mia ospite», disse Isabel spietata, e il cuore mi si fermò nel petto. Cosa? Che follia era mai quella? Mi voltai verso di lei, smarrito. «Ogni richiesta, Alain», ripeté crudele. Il tacco delle scarpe eleganti di Eva si piantò in uno dei miei polpacci. «Voglio che tu faccia tutto quel che Eva desidera. E se alla fine della serata lei non sarà soddisfatta, ti negherò l’orgasmo per una settimana. Hai capito?». No, non poteva essere vero. Isabel si alzò dalla poltrona e ci abbandonò nel soggiorno senza darmi nessuna possibilità di ribattere. Non riuscivo a crederci. Ero abituato a farmi picchiare, insultare e umiliare dalla mia donna. Gioivo del dolore e controllavo ormai la sofferenza senza alcuno sforzo, ma questo… Concedermi a qualcun altro? Come poteva Isabel lasciare che una sconosciuta mi scopasse? Come poteva anche solo sopportarne l’idea, se mi amava? Mi veniva da vomitare. Eva allungò una mano verso il mio viso. Iniziai a tremare come uno stupido. Le sue dita erano fredde, eppure il suo tocco bruciava più dell’acido. Abituato com’ero a obbedire agli ordini di Isabel però non la scansai, per quanto quel


contatto mi stesse facendo dannatamente male. «Va tutto bene, Alain», disse Eva piano. «Questa è solo una prova da affrontare. Un’altra semplice prova, in fondo». Le sue parole non mi erano di alcun conforto. «Devi sapere che anche io sono una dominatrice. È piuttosto comune che una Mistress condivida il proprio schiavo con altre persone», continuò poi facendo scivolare la mano sul mio petto. «È così che si raggiunge l’apice della dominazione. Se la tua padrona lo desidera, tu ti donerai senza riserve a lei o a chiunque lei voglia, lo capisci? Lo farai con la stessa devozione di sempre, per compiacerla, perché ricorda Alain, il suo piacere sublime corrisponde alla tua resa, sempre». Sapevo dove voleva arrivare e perché mi sarei dovuto piegare a quella richiesta, ma una parte di me stava ugualmente sanguinando. Io non volevo nessun altro. Io desideravo solo Isabel. Le dita di Eva si fermarono sul mio membro addormentato. Non mi mossi di un millimetro, nemmeno quando lei cominciò a sbottonarmi i jeans. «Voglio toccarti, Alain», sussurrò sensuale. Annuii debolmente, ormai arreso. Non potevo ribellarmi. Non avevo scelta. Ero uno schiavo. Ero il suo schiavo. La ribellione avrebbe avuto un prezzo troppo alto. Dovevo solo lasciarmi andare, per l’ennesima volta, al volere di Isabel. E fu così che baciai un’altra donna di fronte agli occhi della mia ingiusta padrona. Fu una strana riscoperta. Avevo quasi dimenticato quanto i baci potessero essere diversi a seconda di chi li elargiva. Le labbra di Eva sapevano di vaniglia ed erano carnose, morbide e lascive. Baciarla era come lambire un panno di velluto. Mi aggrappai a quella sensazione soffice e calda per calmare il battito del mio cuore e la mia sofferenza. Dovevo far sì che il mio corpo accettasse il tocco di una sconosciuta. Dovevo soddisfarla come avrei fatto con Mistress. Con mia sorpresa la sensazione di smarrimento che avevo provato inizialmente si dissipò subito dopo le prime carezze di Eva. Il mantra che mi stavo ripetendo nella testa iniziò a funzionare. Ero uno schiavo, il suo schiavo. Ero uno schiavo, il suo schiavo. Il mio dolore, il suo piacere. Eva mi baciò a lungo in quella posizione scomoda, toccandomi con dolcezza il torace, insistendo sui capezzoli inturgiditi ed evitando le spalle ancora sofferenti. Piano piano il freddo che mi aveva congelato alla sola idea di fare sesso con un’altra donna si sciolse e venni travolto da un languido tepore. Lei sganciò il laccio del mio collare, afferrandomi direttamente per il collo. Poi


mi fece sdraiare sul pavimento e scivolò nei miei pantaloni per accarezzarmi il membro attraverso la stoffa dei boxer. Non ci mise molto a farlo indurire. La guardai, confuso ed eccitato nello stesso tempo. Eva stava riservando più attenzioni ai preliminari rispetto a quelle che ormai mi dedicava Isabel. Il desiderio di assaggiare quel corpo nuovo e seducente ebbe presto la meglio sui dubbi che mi avevano torturato fino a pochi minuti prima. Eva lo capì e con un movimento veloce si mise a cavalcioni su di me, liberando il mio sesso turgido dai boxer. «Non userò nulla su di te, Alain. Ti voglio solo scopare, ma tu devi resistere, ok?», disse leccandosi le labbra. Annuii obbediente. Mi specchiai negli occhi scuri della mia misteriosa dominatrice. Senza indugiare oltre, Eva si sfilò il perizoma e si sedette sul mio membro. La penetrai lentamente: una consistenza nuova, un calore più intenso, un odore diverso. Venni trasportato in un mondo parallelo. Ebbi la sensazione di osservare la scena con distacco, dall’alto. Eva troneggiava su di me, pronta a iniziare la sua danza proibita. Poi un affondo, e i muscoli della sua vagina strinsero così forte da farmi male. Un male terrificante. Ansimai sconvolto, tornando in me, con il respiro mozzato. «Sshh», sussurrò lei, afferrandomi per i capezzoli. Li tirò dolorosamente, infierendo ancora di più. Cominciò a cavalcarmi così, alternando quelle strette mozzafiato sul mio sesso a balzi umidi e scivolosi, carichi di libido. Adesso capivo perché mi aveva ordinato di resistere. Quelle prese impietose, alternate ai movimenti bollenti delle sue anche, erano terribilmente eccitanti. Mi aveva ingannato. Per un attimo mi aveva illuso di essere una donna più dolce e generosa di Isabel, ma non era così. Resistere era una vera tortura. Chiusi gli occhi, stringendo i denti per lo sforzo e facendo ricorso al mio vecchio stratagemma per allungare la resistenza all’orgasmo: elencare nella mia testa il nome di tutte le ossa, partendo da quelle della mano. Mentre i miei pensieri si concentravano sull’anatomia mi sembrò di abbandonare ancora il mio corpo e quella stanza in cui una donna che non era Isabel mi stava possedendo. Tuttavia la sensazione di pace durò solo per pochi secondi. La lussuria mi richiamò dal profondo dei miei sensi e la mia anima tornò ad alimentarsi di quel piacere perverso, annegando nel corpo di un’altra. Resistetti, obbediente, soffrendo e ansimando, con il volto di Isabel stampato nella testa. Nei miei pensieri era di nuovo la mia dea a fare sesso con me. Nella realtà era Eva a


esplorarmi con le sue labbra, a mordermi impietosa, a schiaffeggiarmi il volto, mentre la sua intimità mi risucchiava a fondo, scivolosa. Dopo un tempo che mi sembrò infinito, la mia aguzzina mi ordinò di venire e io lo feci, liberando quell’orgasmo che non le apparteneva davvero, frutto dell’ennesimo ordine di Isabel. Ce l’avevo fatta. «Ci sono andata piano con te», mi sussurrò Eva a due centimetri dal viso, staccandosi dal mio membro distrutto. «La prossima volta ti educherò meglio al mio piacere». La prossima volta? Mi diede un ultimo bacio, prima di rivestirsi. In quel momento Isabel tornò nel soggiorno con in mano due calici di vino rosso. Ne offrì uno a Eva e poi finalmente mi guardò. Ero ancora sdraiato sul pavimento, esausto e, in un certo senso, anche vittorioso. Lei mi fece segno di rivestirmi. Eseguii in silenzio, mentre il dolore alle spalle tornava a tormentarmi. «Credo che sia pronto per venire al Das Silberne Spinnennetz», commentò Eva a bassa voce. Quel nome… mi era familiare. Dove lo avevo già sentito? Sì… al negozio di tatuaggi da Peter, ma di cosa si trattava? «No. Non ancora, Eva. Prima devi prestarmi Andrew. Alain deve abituarsi all’idea». «Che cosa? Vuoi portare Alain da lui? Isabel, lo sai che non ti vuole vedere. Non è ancora pronto a perdonarti e questa storia potrebbe andare a finire molto male…». Un’espressione triste le scurì il volto. Chi doveva mai perdonare la mia dea? «Giusto o ingiusto che sia, io ho bisogno del suo perdono. Forse. Forse questa volta mi perdonerà, perché io gli darò quello che desidera più di ogni altra cosa al mondo». Eva ci lasciò da soli subito dopo la mezzanotte. Isabel mi ordinò di fare una doccia e poi di aspettarla a letto. Con la testa appoggiata sul cuscino a stento riuscii a trattenere le lacrime. Stare con Eva mi aveva fatto sprofondare in un abisso senza fondo. Nel mio cuore sapevo di voler fare sesso solo con Isabel. La mia Isabel. Eppure Mistress mi aveva offerto a un’altra con la stessa facilità con cui si offre un dessert. Avevo perfettamente capito quello che Eva mi aveva spiegato sulla mia


completa sottomissione. Se io appartenevo a Isabel lei mi poteva usare in qualunque modo. Era facile. Semplice. Eppure. Eppure qualcosa stonava. Io ne avevo sofferto e, per quanto mi sforzassi, il mio cuore non avrebbe smesso di urlare la sua indignazione per tutta la notte. Era più forte di me, non potevo accettarlo. Non ancora. Quando mi raggiunse, Isabel indossava solo una camicia da notte trasparente. La sua bellezza filtrava dal tessuto sottile, come i raggi del sole tra le foglie degli alberi. «Perché?», le domandai non appena i suoi capelli dorati si sparsero sulla federa. «Perché cosa, Alain?» «Perché mi hai dato a un’altra questa sera?». Lei si avvicinò e cominciò ad accarezzarmi i capelli. «Non è ovvio? Per il mio piacere, Alain», sussurrò a pochi centimetri dal mio viso. «Eva non ti ha nemmeno picchiato. Ci è andata molto piano, perché le ho chiesto di farlo. Dovresti essermi grato per averti concesso a lei come prima amante». «Prima amante?». Annuì, smettendo di accarezzarmi. «Te l’ho detto tante volte, sto facendo il possibile perché il tuo addestramento si concluda. Non devi avere paura. La paura è spesso più grande di ciò che realmente la causa. Non puoi permetterti di esserne schiavo». «Io non ho paura, Isabel. Fa solo male». «Ma Eva ti ha scopato! Ti ha dato piacere? Vuoi dirmi che ti ha fatto così male fare sesso con lei?», mi chiese come se la cosa le interessasse davvero. «Non sai quanto», risposi sincero. «Isabel… Per quante volte intendi spezzare il mio cuore?», le domandai angosciato. «Finché continuerà a battere per me, Alain», replicò lei senza indugio. Ancora quella rabbia nascosta tra la trama azzurra dei suoi occhi: per un attimo ebbi l’impressione che Isabel mi odiasse. «Ti ho osservato per tutto il tempo, piccolo mio, mentre Eva ti possedeva. Ho visto i lineamenti del tuo bel viso contrarsi dal dolore quando ti prendeva. La tua sofferenza mi ha drogato di piacere per tutta la sera. Dovresti essere felice per avermi dato tanto». Le lacrime premevano per sgorgare dalle palpebre. Il mio battito accelerò e fui scosso dai tremori, nonostante stessi cercando di controllarmi con tutte le mie forze. «Devi abituarti all’idea», continuò Isabel, sempre più


dura. «Eva è stata la prima. Ce ne saranno molti altri e tu devi obbedirmi». No, non potevo accettarlo. «Quello che mi chiedi va oltre il mio limite di sopportazione, Isabel», dissi in un soffio senza più trattenere la tristezza. «Perché, Alain? Ti ho appena detto che mi hai dato moltissimo piacere. Che mi hai drogato di felicità facendo sesso con un’altra. Perché non riesci a capirmi?». Le sue guance si arrossarono. Si stava innervosendo. «Allora parlami di te e del perché hai bisogno di tutto questo dolore», le chiesi, in preda alla disperazione. «Se tu mi svelassi le ragioni che ti spingono a fare ciò che fai con me… su di me… allora sarebbe tutto più facile. Io ti amo così tanto, Isabel e non ti vorrei mai dividere con qualcun altro». I suoi segreti mi stavano lacerando sempre di più. «Oh, Alain… Tutti questi tuoi “perché” mi stanno stancando. E poi lo sai… L’amore è solo l’ombra che segue i passi della passione. La passione al contrario è l’energia che ci sostiene. Non hai bisogno di sapere nulla del mio passato per dare un nome diverso a quella che è solo pura passione tra noi. Sei così confuso perché continui ad avere paura. E in questo modo mi respingi. Mi allontani…». «No, non è così… Isabel. Forse sì, ho anche paura. E se entrambi avessimo la stessa paura, in questo momento non mi sentirei tanto solo. Ma tu… Tu sai ogni cosa di me. E hai tutto di me, mentre io? Io ignoro ciò che ti ha portato a essere chi sei. Con te ho sempre l’impressione di voler afferrare un’ombra che invece scivola via lontana, ogni giorno di più. Raccontami qualcosa del tuo passato. Sento che c’è una ragione dietro a tutto quello che stai facendo. Dimmi perché… E chi è la persona da cui vuoi essere perdonata?». Ansimavo. «Alain, adesso smettila. Tu ami la donna che sono oggi. Non ti serve sapere altro», ribatté lei sempre più fredda. «Questo collare», dissi toccandomi il petto, «mi ha trasformato, Isabel. Se solo tu decidessi di condividere quello che nascondi in fondo al cuore, forse non mi sentirei così male!». «Io non nascondo niente, Alain. E se davvero vuoi dimostrarmi il tuo amore, non devi fare altro che obbedirmi. E io voglio che tu ti conceda ad altre persone». I suoi occhi brillavano d’impazienza. «È necessario perché anche l’ultimo barlume della tua volontà venga spazzato via, rendendoti la persona di cui io ho bisogno, capisci?»


«No… Non ce la faccio», mormorai con la gola stretta dal dolore. «Ti prego, non voglio stare con altre persone, Isabel. Tu sei la sola a cui voglio donare me stesso. Per me esisti solo tu… Voglio che tutta la mia passione, tutto il mio piacere… persino tutto il mio dolore siano solo per te. Ti prego». La guardai speranzoso, ma i suoi occhi mi fulminarono, colmi di ira. «Alzati, e vattene ora», esclamò in un impeto di rabbia improvvisa. «Toglimi il disturbo di sbatterti fuori di casa domani stesso». Si voltò di scatto, lasciandomi interdetto. «Cosa? No… Isabel… Io…». «Vattene, Alain!». No, no, era un incubo. Avevo appena rovinato tutto? «Isabel, ti scongiuro. Io ti amo… Ti amo davvero!». «Esci da questa stanza, subito! Non ti voglio vedere mai più!», urlò trafiggendomi con lo sguardo. «Vattene! Vattene!». Mi alzai, tremando come una foglia al vento e uscii dalla camera da letto, disperato. Chiusi la porta alle mie spalle e subito dopo sentii le gambe liquefarsi come cera nel fuoco. Crollai sul pavimento, sopraffatto, mentre delle scosse elettriche mi attraversavano il corpo, bruciando tanto quanto le ultime parole di Isabel. Appoggiai le mani sulla porta di legno laccato sperando di poter rientrare e chiederle perdono, ma lo schiocco della serratura mi gelò il sangue. Isabel mi aveva appena chiuso fuori dal suo mondo per una sola, stupida, esitazione. Il dolore mi pervase, inondandomi come il mare in tempesta e corrodendo il mio animo già dilaniato. Bussai ancora alla porta e invocai perdono con tutte le mie forze, ma dall’altra parte ci fu solo silenzio. Un silenzio pesantissimo. Non riuscii più a trattenermi e scoppiai a piangere come un bambino. Come sarei sopravvissuto? Isabel controllava la mia vita da troppo tempo. E quel controllo era diventato più confortante della libertà stessa. I suoi ordini, le sue regole, erano il mio rifugio. Provavo piacere nell’essere punito per ogni mio errore perché il dolore legava la mia dea indissolubilmente a me più del mio stesso giuramento. In qualche modo la mia sofferenza la rendeva dipendente dal nostro perverso rapporto. Un legame fatto di pena e passione insieme, unico e indomabile. Eppure io lo avevo appena distrutto. Mi inginocchiai vicino al muro, deciso a non lasciare quella casa per nulla al mondo. La mattina dopo fui svegliato da un rumore improvviso. Mi stiracchiai


indolenzito con gli occhi ancora umidi di lacrime. La porta della camera da letto era aperta. «Isabel!», esclamai alzandomi di scatto, sperando che la notte le avesse fatto dimenticare il mio azzardo. «Isabel, io…». Mi interruppi a metà frase. Sul pavimento c’era la mia valigia, lo stesso trolley con cui diversi mesi prima ero fuggito da mio padre. Era aperta come la mia bocca, spalancata dallo sgomento. Isabel si era già vestita, pronta per andare a lavoro. Sparsi attorno ai suoi piedi c’erano i miei vestiti. «Ti voglio fuori di qui entro un’ora», sibilò a denti stretti. «Lascia la chiave che ti ho dato nel mio ufficio oggi stesso». Sgranai gli occhi, allibito. Non era stato un sogno. Un incubo. Era tutto vero. Isabel mi stava mandando via dalla sua casa e dalla sua vita. «Isabel, ti prego…», mormorai affranto, con il cuore a mille all’ora. «Non voglio lasciarti, ti prego…». «Ti sbagli, Alain. Sono io che sto lasciando te». Proiettili. Le sue parole erano proiettili. «Ieri sera stavo solo cercando di spiegarti il mio dolore, Isabel», sussurrai, continuando a fissarla. «Cercavo solo di dirti quanto ti amo. Quanto l’idea di darmi a qualcun altro sia insopportabile e quanto avrei bisogno di sapere il perché tu vuoi tutto questo». «Perché mi stai ancora parlando?», ribatté lei, avanzando di qualche passo. «Ho preso la mia decisione, Alain. Raccogli le tue cose e vattene». I suoi magnifici occhi azzurri furono attraversati da un lampo di crudeltà. Le lacrime ricominciarono a inumidirmi il volto, eppure nemmeno quella reazione infantile e umiliante riuscì a smuovere la mia Mistress dalla sua decisione. Il cuore di Isabel era di marmo. Immobile e inaccessibile, non batteva per nessuno. Lasciò la stanza in silenzio e, dopo qualche minuto, udii la sua macchina scricchiolare sulla ghiaia del vialetto. Di colpo mi sentii privato di tutte le mie forze. Mi afflosciai sul pavimento, incredulo e disperato. Avevo fatto un errore. Un solo piccolo errore e Isabel mi aveva punito senza pietà. Ero stato avvertito. Mi aveva detto più volte che arrendermi era necessario perché tutto funzionasse, ma io, nonostante tutti i miei sforzi, non avevo saputo reggere il suo gioco. Restai accasciato vicino alla valigia per diversi minuti, scosso dai tremori. Sapevo di dovermi alzare e impacchettare i miei vestiti insieme ai brandelli della mia vita. Sapevo di


dovermene andare dalla casa del mio unico, sospirato amore. Lo sapevo, eppure il mio corpo sembrava rifiutarsi. Dopo tutti quei mesi vissuti sotto il suo totale controllo, nel più completo asservimento, Isabel mi aveva restituito la libertà. Una libertà che non volevo, che mi opprimeva, che mi faceva sentire in gabbia. Senza di lei non ero più niente. Questa volta sopravvivere sarebbe stato impossibile. Arrivai in laboratorio trascinando con me il trolley pesante, gli occhi gonfi di pianto e il cuore pronto a sgretolarsi in mille pezzi. Morgan aveva già iniziato gli esperimenti e io non avevo idea di come avrei retto quella giornata in sua compagnia senza scoppiare. «Ehi novellino, ma non dovevi essere qui prima di me questa mattina? Ci contavo, sai? Ora faremo tardi alla riunione con gli altri e poi…». Interruppe il suo monologo non appena incrociò il mio sguardo. «Oh cazzo… Alain…», guardò prima me, poi la valigia. «Ti ha lasciato, non è così?». Centro, Morgan! Centro, come sempre. «Sì», dissi in un soffio. «Alain…». Buttò le pipette sul bancone e mi abbracciò forte. In quella stretta così avvolgente non provai alcun sollievo. Niente avrebbe potuto consolarmi, ormai. «Posso… Posso stare da te?», gli chiesi in imbarazzo slacciandomi da quell’abbraccio. Morgan mi osservava preoccupato sotto le ciglia folte e scure. «Non posso tornare a casa mia», dissi in un soffio. «Ma certo. La mia offerta è sempre valida», rispose subito, mettendomi una mano sulla spalla. Trattenni a fatica un grido di dolore. Le ferite infertemi da Isabel erano ancora aperte e l’assalto di Eva non mi aveva aiutato. «Grazie», sussurrai tra i denti, lasciando la valigia vicino al bancone e indossando il camice. «Posso fare altro per te? Insomma, non vuoi parlare di lei e del perché vi siete lasciati?», mi domandò più dolce che mai. «No», ribattei tra i denti. «Non c’è niente di cui parlare». Per tutto il giorno restai chiuso in un silenzio inaccessibile. Mi impegnai a trattenere le lacrime, a non fare errori sul progetto di Morgan e ad allontanare con tutte le forze le immagini di Isabel dai miei pensieri. I giorni seguenti furono anche peggio. Per quanto mi stessi sforzando di


andare avanti, il mio cuore continuava a rivivere senza sosta i momenti passati sotto il dominio di Isabel. Fuggire dai ricordi della nostra vita insieme era davvero un’impresa impossibile. La bufera di sentimenti che provavo ancora per Mistress mi investiva ogni giorno di più e io non potevo ripararmi da tutta la sua violenza. Settimana dopo settimana l’immagine mentale di Isabel era diventata come la nebbia, quella che non si dissolve, che confonde, che nasconde tutto il resto del mondo. L’unica cosa che mi permetteva era smarrirmi nel mio stesso amore, cieco di fronte a ogni altro sentimento. Quando mi sembrava di poter tirare un sospiro, invece, rivedevo la Isabel in carne e ossa camminare per i corridoi oppure sentivo la sua voce da lontano e di colpo sprofondavo nel baratro da cui tentavo disperatamente di risalire. Morgan aveva cercato di aiutarmi in ogni modo, ma sapevo nel profondo del mio cuore che non poteva fare niente di più per me, se non offrirmi un tetto sotto cui stare mentre decidevo del mio prossimo futuro. Un futuro i cui confini erano terribilmente sbiaditi e lontani. Dopo alcune settimane da quella terribile notte riprendemmo anche le riunioni ufficiali con Isabel e il professor Handelson. Era la prima volta che ci ritrovavamo nella stessa stanza dopo quello che ci era successo e lo stomaco mi si attorcigliò come plastica nel fuoco non appena lei mi fu davanti. Come al solito era bellissima. Magnifica e distante come la cima di una montagna impervia. E come sempre anche quel pomeriggio Isabel mi ignorò per tutta la durata della riunione. Certe cose cambiano, evolvono. Altre invece rimangono sempre le stesse…

Zurigo, ottobre 2018 «Alain». Morgan interruppe i miei pensieri, mettendomi una mano sulla fronte. «Sembra che tu abbia la febbre. Mangi a malapena e lavori come un dannato da un mese a questa parte. Secondo me non riesci nemmeno a dormire la notte… E poi…».


«Poi?», ripetei distratto, continuando a riordinare il bancone. «Ho visto i segni sulla tua schiena, ieri». A quelle parole mi fermai, come punto da uno spillo al centro della spina dorsale. Mi voltai verso Morgan, sgomento. «Non mi guardare così… Sono solo entrato in bagno mentre stavi facendo la doccia ieri sera, perché mi serviva un asciugamano e… ho visto tutto attraverso il vetro». La vergogna e il disgusto mi divamparono dentro come un incendio. «Morgan… Io…». «Che tipo di rapporto avevi con… con la donna di cui ti ostini a non parlare?». Come potevo dirgli la verità senza infrangere la promessa fatta a Isabel? Un giuramento è pur sempre un giuramento. Non potevo tradire la fiducia che lei aveva riposto in me, nemmeno se questo fosse servito a farmi stare meglio. Scossi la testa, deciso. «Ti prego, non chiedermi niente», mormorai affranto. «E per quanto riguarda le cicatrici, devi sapere che…». «Stavi con una dominatrice, non è così?». La sua domanda mi travolse. Ci guardammo in silenzio per qualche minuto e quella pausa mi servì a riguadagnare la calma. «Stavo con una persona che amavo. E che amo ancora, tutto qui». «Alain, ma ti senti? Non è normale reagire così a un affare del genere. Che cosa diavolo ti faceva? Forse farei meglio a chiamare la tua famiglia. Sono davvero preoccupato per te… E tutti quei segni, mio Dio. Il vostro era un rapporto malato!». «No!», esclamai terrorizzato. Mia madre e soprattutto mio padre non dovevano sapere niente di quello che mi era successo, di ciò che avevo fatto e di chi ero diventato. Nessuno poi doveva scoprire di me e Isabel. «No, Morgan, ti prego. Se vuoi aiutarmi, lasciami solo un po’ di tempo», lo tirai in disparte, sentendo che in laboratorio erano arrivati anche Giselle e Patrick. «Quello che mi è successo è stato del tutto consensuale. Lei non mi ha fatto del male. Capisci? Sono stato io a chiederle di farlo». Il panico mi stava assalendo. Lo sguardo del mio amico mi feriva, sospettoso. «Mi piace… mi piace quel genere di rapporto», aggiunsi imbarazzato. «Lasciami solo un po’ di tempo e mi riprenderò, te lo assicuro», conclusi, cercando di essere convincente. Menzogne. Dopo la prima volta sono sempre più facili da raccontare.


«D’accordo», rispose lui sospirando. «Non voglio tormentarti, Alain. Ma se ti vedo stare peggio di come stai ora non aspetterò un minuto di più a informare la tua famiglia, ok?». Annuii in silenzio. Era cominciata la lunga serie di bugie che avrebbe accompagnato il nostro rapporto da quel momento in avanti. Terminò così anche ottobre. Apparentemente ero tornato l’Alain di sempre: lavoravo con zelo, mi sforzavo di sembrare sereno e avevo persino ricominciato a chiamare mamma con regolarità per raccontarle una quantità infinita di menzogne su come stava andando la mia vita all’ETH. Isabel mi aveva insegnato a controllare i sentimenti e così la mia finta allegria riuscì a ingannare quasi tutti. L’unica a trattarmi ancora in modo sospettoso era Giselle. Una volta allontanatomi dalla mia dea e dalle sue costrizioni, mi ero riavvicinato spontaneamente alla mia preziosa amica, traendone un po’ di pace. Discutevamo di tante cose insieme e la sua presenza nella mia vita mi faceva sentire meno solo. Purtroppo, non appena accennava anche solo per sbaglio all’estate che mi ero lasciato alle spalle, il mio cuore si chiudeva come un riccio e tra noi si alzava all’istante una barriera di silenzio. Non ne potevo fare a meno. Tutto ciò che riguardava me e la mia Mistress doveva restare un segreto, per quanto ne soffrissi atrocemente. Tornavo me stesso solo quando mi rifugiavo nel letto la sera, barricandomi dietro ai ricordi, masturbandomi con il viso di Isabel marchiato a fuoco nei miei pensieri. Il piacere che mi procuravo era solo una goccia di quello che avevo provato godendo tra le sue braccia o piegato sotto la frusta, ma era anche l’unica cosa che ancora mi legava al flebile ricordo della nostra vita insieme. Mi mancavano il dolore, le regole, le punizioni. Mi sentivo più perso che mai senza le catene attorno al collo e le pinze schiacciate sul cuore. Desideravo tornare nella mia prigione il più presto possibile, chiudermi al suo interno, e di notte i miei sogni mi guidavano proprio lì, nella stanza in cui avevo riscoperto il mio vero io insieme a Isabel. Poi però arrivava la mattina e tutti i miei sogni si sgretolavano irrimediabilmente. Una cosa però era certa. Ogni giorno, al mio risveglio, promettevo a me stesso che se avessi mai avuto un’altra opportunità con Isabel, l’avrei colta senza alcuna remora, assoggettandomi a ogni sua richiesta. Qualsiasi tipo di richiesta. Mi sarei concesso a chiunque, se questo avesse significato essere di nuovo suo. Sarei diventato una puttana. La sua puttana. Perché senza Isabel la


mia vita non aveva più senso ormai. Quel primo giovedì di novembre mi affrettavo a terminare lo sviluppo di una lastra per Morgan. Il mio mentore era impegnato con Handelson per la correzione di una presentazione molto importante, così mi ero offerto di finire gli esperimenti al suo posto. A un certo punto, la voce di Isabel alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai all’istante, incredulo, e incrociai il suo sguardo di ghiaccio. «Dov’è Morgan?», mi domandò subito, senza tanti complimenti. Era la prima volta dopo settimane che mi rivolgeva la parola. «Lui…», tossii per schiarirmi la voce, «è con Handelson. Finisce la presentazione per l’EMBL a Heidelberg». «Capisco». Sei qui per me, Mistress? «Come stai?», le chiesi, sentendomi subito uno sciocco. Isabel cominciò a giocare con i suoi lunghi capelli atteggiando le labbra a un sorriso sensuale. «Meglio di come stai tu, immagino». Mi sorpresi di quanto quella crudele risposta mi facesse sentire incredibilmente al posto giusto. «Mi… Mi manchi…», balbettai sofferente. Il vaso di Pandora che avevo sigillato a fatica nel profondo di me stesso si schiuse al suo cospetto. Isabel restò in silenzio ma non se ne andò e questo mi fece sperare che la sua visita nel mio laboratorio non fosse per parlare con Morgan, ma con me. «Ti ho pensato ogni giorno da quando mi hai detto di andarmene», continuai facendomi un po’ di coraggio. «Per tutto questo tempo non ho fatto altro che sognare di poter vivere di nuovo al tuo fianco». Una goccia di sudore freddo colò dalla tempia al collo, procurandomi un brivido gelido. «Io non ho deciso di amarti, Isabel. È successo senza che potessi scegliere, ineluttabile come il calare della notte subito dopo il giorno. È stato impossibile opporsi a questo sentimento. So che non mi vuoi più vedere, ma… Ma ho avuto modo di riflettere e credo di essere pronto a rispettare il mio giuramento più di quanto abbia fatto prima». «Ne sei convinto?», sibilò lei tra i denti. «Sì. Sono disposto a tutto pur di avere un’ultima possibilità». Le sue unghie laccate di rosa continuavano a pettinare le lunghe ciocche bionde con fare nervoso. A che cosa era dovuta tutta la sua agitazione?


«Perché dovrei darti un’altra possibilità?», mi disse infine smettendo di torturarsi i capelli. «Non ho scelto di amarti», ripetei criptico. «Che cosa vuoi dire?» «Voglio dire che mi arrendo. Mi arrendo di fronte a ciò che provo per te. La mia mente è soggiogata dal tuo respiro. Il mio cuore batte perché tu lo vuoi. Mettimi alla prova per l’ultima volta e io te lo dimostrerò, ti chiedo solo questo». Un sorriso sinistro finalmente le illuminò il volto. «Domani sera, a casa mia. Otto in punto», sentenziò decisa. «Ti metterò alla prova, Alain, e sarà la tua ultima occasione. Se la supererai, tornerai a vivere con me. Se fallirai…». «Non fallirò».


Capitolo 9 Andrew

Zurigo, novembre 2018

Tutti

abbiamo un lato oscuro. Quando lo liberiamo ne diventiamo responsabili. Erano le otto meno un quarto di venerdì sera. Camminavo lentamente sulla via per casa di Isabel e il vento gelido mi sferzava il volto, impietoso. Non era stato facile convincere Morgan a lasciarmi andare dalla mia misteriosa amante, visto com’ero stato in quelle ultime settimane. Solo dopo parecchie insistenze da parte mia, aveva infine ceduto. Gli avevo promesso di stare attento, lo avevo rassicurato a tal punto che non aveva notato i due cambi d’abito infilati in fretta nel mio zaino. Ignorava che nutrivo la speranza di tornare a vivere con la mia dea. Sapevo, per quanto mi fosse affezionato, che Morgan non poteva arrivare a comprendere completamente il mio punto di vista. Desideravo la dominazione di Isabel più di ogni altra cosa al mondo. I miei sentimenti perversi e il bisogno di tornare a essere il suo schiavo mi tormentavano. Volevo essere imprigionato nella sua gabbia. Chiedevo di essere lasciato lì a patire, con immensa devozione. Domandavo di essere colpito, umiliato e di godere di quel dolore. Come potevo far capire la natura di queste sensazioni stravolgenti a una persona così pulita? No, non era possibile. Suonai il campanello alle otto in punto. La porta si aprì con uno schiocco e io, emozionato e turbato insieme, entrai. Mi diressi subito in soggiorno, dove trovai Isabel distesa sul divano. Mezza nuda. E non era sola. In ginocchio, accucciato di fronte a lei, c’era un ragazzo che non avevo mai visto prima. Lo osservai sospettoso senza muovermi di un passo: indossava dei pantaloni di pelle molto aderenti. Il torace era scoperto a mostrare gli addominali appena accennati. Teneva lo sguardo rivolto verso il basso in segno di rispetto e i capelli biondi gli cadevano mossi sulle guance, coprendogli parzialmente il viso.


Il cuore mi si riempì di rabbia. «Che cosa… Che cosa significa?», balbettai, facendo cadere lo zaino a terra. Isabel mi aveva forse sostituito? In tutte quelle settimane in cui ero stato lontano lei aveva addestrato un altro schiavo e ora me lo voleva mostrare per vendicarsi? «Lui è Andrew», rispose Isabel serafica. «Il sottomesso di Eva». La mia agonia cessò all’istante. Ok, la mia dea non mi aveva ancora rimpiazzato. Non tutto era perduto. Mi avvicinai al divano, curioso di vederlo in volto. «Alzati, Andrew. Alain è qui per te, oggi». Solo in quel momento lo sconosciuto si alzò in piedi e mi guardò. I suoi occhi erano cerulei come il cielo carico di pioggia. I lineamenti delicati del suo volto mi fecero supporre che provenisse dall’Est Europa. Il mio sguardo scese sul suo petto: aveva dei piercing a barretta su entrambi i capezzoli e un tatuaggio all’altezza del cuore. Come me, aveva impresso qualcosa sulla pelle chiarissima che proteggeva il muscolo responsabile del nostro folle amore. Nel suo caso, un nome: “Emerald”. Andrew mi venne più vicino. «Puoi guardarmi quanto vuoi, Alain», sussurrò seducente. Profumava di sandalo. Doveva avere la mia età o forse qualche anno di più. «Questo non fa che eccitarmi di più. Non vedo l’ora di poterti toccare. Sei pronto per me?», mi chiese dolce, e la sua voce entrò nella mia testa conficcandosi a fondo come una lama. «Pronto…?», ripetei, il mio corpo scosso dai tremori. Solo in quel momento realizzai in che cosa consisteva la prova di Isabel. Voleva che mi concedessi a un’altra persona, certo, ma per punirmi ancora più severamente aveva scelto un uomo al posto di una donna. «La prima volta fa sempre male, Alain», continuò Andrew sorridendo. «Dopo invece… Ti ci abituerai». Le sue dita frementi cominciarono a sbottonarmi la camicia. Guardai Isabel inerme, conscio che se anche solo avessi lasciato trapelare una goccia del mio sgomento sarei stato sbattuto fuori senza tanti riguardi sia dalla sua casa che dalla sua vita. E questa volta sarebbe stato per sempre. Respirai a fondo lasciando che Andrew mi toccasse. La mia dea distese le labbra. Per la prima volta da quando la conoscevo era un sorriso dolce, quasi sincero. Possibile che la eccitasse così tanto anche vedermi scopare con un uomo? Una domanda senza risposta. Come tutte le altre, in fondo al mio cuore. Cercai a


mia volta di scrutare nei suoi oscuri pensieri, senza successo. Dopo qualche istante Isabel mi fece un cenno con la testa, come a darmi il suo silente permesso di ricambiare le carezze di Andrew. Mi morsi le labbra nervoso mentre le mani di quel ragazzo sconosciuto continuavano a svestirmi, abili e svelte. «Andate in camera mia. Io vi raggiungerò lì», ordinò lei a entrambi, spezzando l’imbarazzo che ancora aleggiava tra noi. Come se fosse stato bacchettato, Andrew smise di denudarmi e mi afferrò la mano, stringendola delicatamente. Senza indugiare un secondo mi scortò nella stanza dove io e Isabel ci eravamo amati e consumati tante volte prima dell’arrivo di quel triste autunno. Stavo per oltrepassare un limite invalicabile. Dovevo concedermi a un uomo, sottomettermi al suo volere con la stessa arrendevolezza con cui mi sarei dato a Isabel. Sentivo freddo e avevo tanta paura, ma non potevo tornare indietro. Non dovevo ribellarmi. Io ero la foglia che si arrendeva alla pioggia. Ero il ragazzo che si sarebbe buttato tra le fiamme solo per vedere gli occhi di Isabel brillare almeno una volta. Io ero tutto quello che lei voleva che io fossi. Perciò questa volta non avrei disobbedito. «Sei più bello di quanto Eva mi abbia detto», mormorò Andrew, lusingandomi. «I tuoi occhi… Mio Dio, quando ti guardo mi sembra di cadere in un mare fatto di ambra pura», sussurrò, scostando i capelli dal mio viso e avvicinandosi per mordermi l’orecchio. Provai una scossa elettrica all’altezza dei reni non appena le sue labbra cominciarono a succhiare avidamente il mio lobo destro. «Ti ha chiesto Eva di farmi questo?», chiesi, trattenendomi a stento dall’istinto di scappare via. Andrew smise di leccarmi per specchiare i suoi occhi nei miei. «Mi ha ordinato di sedurti, sì». Lo disse con una tale naturalezza da sconvolgermi. «E di farti mio. Sei vergine, vero?». Annuii completamente scoperto. «Non avere paura. Ci penso io a te». «E tu… Tu non hai nessuna remora a obbedirle?», chiesi con il respiro che mi si mozzava in gola alla sola idea di fare sesso con lui. «Nessuna». «Come… Come riesci a farlo?», mormorai mentre i passi di Isabel si avvicinavano alla porta. «Insomma, lei ti concede a un perfetto sconosciuto… Come fai a non sentirti male e a obbedirle in questo modo senza sprofondare


nel più nero dolore?». Andrew sorrise sereno. «È così semplice, Alain. Lo faccio perché so di non avere altra scelta. Obbedire agli ordini di Eva è l’unica cosa che mi rende davvero felice ormai». Per un attimo scorsi un lampo di amarezza nei suoi occhi, aveva portato la mano sul tatuaggio misterioso. «Andrew… Io…». Fui interrotto bruscamente. Le sue labbra si fusero alle mie e il calore mi pervase all’istante. Era la prima volta che baciavo un uomo. Sussultai sorpreso da me stesso e da ciò che stavo provando. Era bello. Grottescamente bello. Un sapore fresco e avvolgente. Una consistenza vellutata in cui si nascondeva una passione travolgente. Andrew si staccò da me solo per prendere fiato. Mi regalò un sorriso complice facendomi immediatamente sentire meno solo. Ebbi l’istinto di stringerlo a me ma le mie braccia restarono incollate lungo i fianchi, paralizzate dall’eccitazione e dalla paura insieme. Come se mi avesse letto nel pensiero, fu lui ad abbracciarmi e la sua erezione cominciò a premere sul mio ventre. «Ti piacciono davvero gli uomini?», gli domandai per prendere tempo, mentre le sue mani avevano ripreso a esplorarmi. «Mi piacciono tutti quelli che la mia padrona mi ordina di scopare», rispose lui come un perfetto sottomesso. In quel momento realizzai quanta strada ancora avevo da fare per essere come Isabel mi voleva davvero. Avevo tanto da imparare. «Ti confesso però che sei decisamente il ragazzo più bello su cui io abbia mai messo le mani». Si abbassò sul mio petto e mi morse un capezzolo, per poi lambirlo con la lingua con dei movimenti circolari. Le sue dita esperte scivolarono subito dentro i boxer per afferrarmi il sesso con forza. Dovetti trattenere un grido di piacere. Che cosa mi stava prendendo? Non avevo mai provato attrazione per gli uomini e ora mi stavo eccitando da morire. Confuso più che mai, mi lasciai andare. Andrew mi osservò sotto le folte ciglia dorate mentre la sua mano destra mi masturbava ritmicamente, provocandomi fremiti di piacere in tutto il basso ventre. Inarcai la schiena e senza nemmeno realizzarlo mi aggrappai alle sue spalle, stringendolo a me come desideravo. Chi stavo diventando? In cosa mi stavo trasformando? Stavo facendo sesso con un uomo. La mia prima volta. Naturale. Semplice. Perversa. Era Andrew a rendere quel momento così speciale o sarebbe stato lo stesso con chiunque altro? Stavo scoprendo una nuova parte di me o si trattava solo di soddisfare i desideri della mia


donna? «Resta con me, Alain», mi sussurrò Andrew, baciandomi i palmi delle mani per poi trascinarmi con forza sul letto. Avvinto dal calore di quelle carezze, mi sdraiai al suo fianco, aspettando un’altra sua mossa. Non si fece attendere. Mi liberò dai boxer e finalmente mi ritrovai nudo sotto di lui, ansimante. Andrew si arrampicò su di me, muovendosi sensuale. La pelle dei suoi pantaloni aveva una consistenza fredda e appiccicosa, eppure in quel momento la trovai adorabile. Poi la sua lingua mi esplorò il torace, soffermandosi poco sotto l’ombelico, giocando con ogni curva del mio corpo per poi chiudersi improvvisamente sul membro. Lo serrò con forza, ma fu solo per un attimo. Le sue labbra sottili rilasciarono subito la presa per concentrarsi sulla punta dove strofinò più volte la lingua vellutata, aumentando la mia libido. «Sì, Andrew, fallo eccitare ancora di più». La voce di Isabel arrivò da lontano per ricordarmi dov’ero e per quale motivo mi stavo concedendo a quello sconosciuto. «Voglio goderti un po’ di più, Alain», mi sussurrò Andrew all’orecchio come se avesse paura di farsi sentire dalla mia padrona. Mi perlustrò il ventre con il suo respiro caldo e rassicurante, afferrando alla base il mio sesso, che le sue carezze avevano appena riempito di vigore. Mi massaggiò dolcemente i testicoli sudati aumentando la mia voglia di essere masturbato ancora e ancora. Il respiro mi si mozzò quando le sue labbra tornarono di nuovo sulle mie, calde da bruciare. Gli uomini hanno davvero un modo diverso di baciare rispetto alle donne. Sono più rudi, impazienti e avidi. La lingua di Andrew si avvolgeva alla mia per divorarmi, insinuandosi dentro di me come il vento gelido dell’inverno. Mi scuoteva e mi elettrizzava allo stesso tempo, implacabile. «Sei così duro…», sussurrò staccandosi di colpo mentre la sua mano si stringeva sul mio sesso dolorosamente eretto. «Lascia che io smorzi un po’ questa tensione, Alain». La sua bocca si chiuse ancora sul mio membro, questa volta risucchiandolo quasi fino alla base. Fu una sensazione di pienezza mai provata prima. Ammaliato, mi ritrovai ad afferrargli la testa e a schiacciarlo sulla mia virilità, incitandolo a continuare. Lui accolse la mia richiesta con disarmante arrendevolezza e io sentii il piacere montare. «Spogliati, Andrew». Un altro ordine dalla nostra padrona.


Lui si staccò dolorosamente e aprì la lampo dei pantaloni di pelle che scivolarono a loro volta a terra, di fianco al letto. Provai un improvviso senso di panico all’idea di ciò che stavamo per fare, ma bastò incrociare i suoi occhi straordinariamente dolci per acquietarmi. Anche Andrew era molto bello. Il suo fascino così particolare era forse più freddo del mio, eppure riusciva a scaldarmi dentro, a sorprendermi e a lenire un po’ quel senso di sconfitta che a causa di Isabel mi perseguitava ormai da mesi. Lui interruppe i miei pensieri piegandosi di nuovo sul mio ventre e riprendendo in bocca il mio membro, incalzante come le onde del mare. «Andrew… Andrew fermati», mormorai, completamente sconquassato dall’emozione. Lui non mi diede retta, anzi aumentò il ritmo delle sue carezze. Non era semplice eccitazione. Mi stava facendo godere di un nuovo, torbido piacere. Quello scivoloso strofinare, il battito impazzito del suo cuore, le labbra affamate di un gusto diverso e conturbante: tutto di lui mi stava conquistando. «Hai un buon sapore», disse Andrew staccandosi per riprendere fiato, mentre continuava a massaggiarmi i testicoli gonfi. «Sono stato decisamente fortunato questa volta». Si abbassò e riprese a succhiarmi il sesso senza però smettere di torturarlo con tocco esperto. Arrivai sull’orlo dell’orgasmo. «Fermati, Andrew». La voce di Isabel ci bloccò qualche secondo prima che io potessi liberarmi nella bocca del mio adorabile sconosciuto. Andrew si tirò indietro di scatto, ansimando pesantemente. Lo guardai inerme. Il suo membro era duro almeno quanto il mio, pronto per il passo successivo. «Sai quello che devi fare adesso», ringhiò Isabel, continuando a rivolgersi solo a lui. «Ho bisogno di un lubrificante, Mistress. Senza… gli farò troppo male». «Nessun lubrificante. Questa è una punizione per Alain, non una ricompensa. E tu stai attento a cosa dici o Eva ne avrà una anche per te quando tornerai a casa». Andrew fece segno di sì con la testa, obbedendo con cieca devozione. Poi venne verso di me e mi sfiorò con un bacio prima di accostarsi al mio orecchio. «Mi dispiace», mi sussurrò dolce. «Spero di poterlo fare con te un’altra volta ma nel modo in cui io desidero davvero». Con una mossa repentina mi afferrò per le spalle, spingendomi supino. «In un modo così piacevole da


sconvolgerti». Si leccò un poco le dita e senza aspettare oltre cominciò a massaggiarmi l’ano. Stava per scoparmi, per violarmi. La mia prima volta. Di colpo ripresi a tremare. «Cerca di rilassarti, Alain…», disse lui piano mentre il suo membro caldo come lava premeva sui miei glutei. «Divarica bene le gambe. Lasciati andare anche quando soffrirai… Puoi dominare il tuo stesso dolore». Mi penetrò dapprima con le dita, e tutta l’eccitazione di qualche minuto prima sembrò scemare in quel sordo e fastidioso frugare. «Non così, Alain», mi guidò lui, paziente. «Non combattermi. Distendi i muscoli. Accoglimi». Qualcosa colò tra le mie natiche. Doveva essere saliva. Andrew stava facendo di tutto, con i mezzi che gli era permesso usare, pur di aiutarmi. Respirai a fondo sperando di riuscire a resistere a quel dolore ancora sconosciuto. Lui continuò a penetrarmi così, prima con un dito soltanto, poi con due, cercando di abituare quanto più velocemente possibile il mio corpo a quel nuovo modo di fare sesso. Infine puntò il suo membro contro di me e mi violò. Fece male. Dannatamente male. Sapevo di non dovermi contrarre ma fu inevitabile. Divenni rigido come un pezzo di marmo. Andrew fece scorrere le sue braccia attorno al mio petto e mi baciò sul collo. Forse cercava di consolarmi per quel dolore che era costretto a procurarmi, eppure le lacrime mi inumidirono ugualmente gli occhi. Un’altra spinta. Ansimai con il respiro spezzato. Lottai. Combattei disperatamente contro quella sofferenza indicibile per tutto il tempo, rassicurato solo dal fatto che almeno il mio partner stesse provando un po’ di piacere. «Bravo piccolo», sussurrò Isabel a pochi centimetri dal mio viso. Mi stava osservando compiaciuta, mentre il mio volto arrossiva per la sofferenza e la mia anima si dipingeva di una nuova vergogna. Facevo un altro passo nel vuoto. Era l’ennesima sconfitta. Dopo interminabili minuti vidi Isabel fare un nuovo cenno allo schiavo di Eva. Andrew premette le sue labbra contro la pelle delle mie spalle e cominciò a scoparmi più velocemente, impaziente di liberare il suo piacere dentro di me o forse di mettere fine il più presto possibile al mio insopportabile tormento. Una lacrima silenziosa solcò la mia guancia, scivolando in profondità fino al cuore. «La prossima volta sarà diverso, te lo prometto», mormorò Andrew vicino al mio orecchio. Fu travolto dall’orgasmo pochi secondi dopo aver sigillato quella promessa. Mi inondò di calore, sospirando di un piacere a me ancora


negato, senza mai sciogliersi da quell’abbraccio fraterno. I nostri battiti accelerati si intrecciarono l’uno all’altro per poi placarsi lentamente nella tristezza post-orgasmo. Infine Andrew sfilò il suo sesso da me e io tornai a respirare. «Mi dispiace…», sussurrò ancora, dolce. «Ora puoi andartene», sbottò Isabel, impietosa. La guardai sofferente, ansimando. «E tu Alain, vai a farti una doccia». «Lasciagli un momento, Mistress. Ti supplico. Potrei aiutarlo io», disse Andrew, scrutandomi preoccupato. Non potevo sopportare che Isabel mi vedesse un secondo di più in quello stato, né che si prendesse cura di me mentre mi sentivo così umiliato. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi in piedi e l’aiuto di Andrew era più che benvenuto. «Sei ardito, ragazzino… ma te lo concedo», sentenziò infine Isabel con mio sollievo. Solo dopo aver ottenuto il suo permesso, Andrew si affrettò a soccorrermi. Mi fece alzare e, trascinandomi di peso, mi portò in bagno. Aprì il rubinetto della doccia, ascoltando il mio pianto silenzioso. Quando l’acqua fu abbastanza calda mi spinse sotto il getto, tenendomi dolcemente tra le braccia. «Posso fare da solo», dissi, in imbarazzo. «No, non puoi. Lascia che ti aiuti», ribatté lui. Con i capelli bagnati e le gocce d’acqua a imperlargli la pelle era ancora più affascinante. «Perché lo stai facendo?», chiesi sofferente. Lui mi sorrise affabile. «Perché so come ci si sente, soprattutto la prima volta, quando non l’hai scelta», mormorò, sfiorandosi di nuovo il tatuaggio sul cuore. «Adesso hai bisogno di qualcuno come me». Mi baciò e il suo sapore speciale si mischiò a quello delle lacrime. «Anche la mia prima volta è stata sconvolgente, Alain», disse poi, con le labbra ancora premute sulle mie. «Se non fosse stato per Emerald, non sarei sopravvissuto». «Chi è Emerald?», gli domandai, mentre prendeva a passarmi delicatamente il sapone sulla pelle. Lo sentii sospirare. «Lui… È stato il mio primo amore. Poi il mio migliore amico. E la mia famiglia, tanto tempo fa». «Dov’è ora?», incalzai curioso, cercando di distrarmi dal dolore fisico che ancora provavo. «Non lo so. È scomparso senza lasciare traccia». Di nuovo quella nota di


amarezza nella voce: al di là della cieca sottomissione, nel cuore di Andrew risiedevano sentimenti travolgenti. La mattina seguente mi svegliai di soprassalto al suono della sveglia sul cellulare. Nella stanza di Isabel faceva stranamente caldo e io ero madido di sudore. Mi alzai a fatica e un poco zoppicando raggiunsi la cucina. La trovai vuota, ad accogliermi solo un biglietto al centro del tavolo. Ti sei arreso, finalmente.

Quali parole avrebbero potuto essere più giuste? La bandiera bianca sventolava senza vergogna nelle lande del mio cuore. Un simbolo di debolezza che era diventato lo stendardo della mia vittoria. Arrendersi per conquistare. Obbedire per dominare. Versai l’acqua per il tè, poi andai in bagno. Guardai al centro del grande specchio ovale l’immagine di un ragazzo che non riconoscevo più. Il mio aspetto, al di là delle cicatrici, non era poi così cambiato in fondo, ma i miei occhi… quelli ormai appartenevano a un’altra persona. La luce dell’innocenza era scomparsa, sostituita dall’ombra del peccato. Mi piaceva quello che ero diventato? Non lo sapevo allora e non lo so neanche adesso. Però ero sicuro di non poterne più fare a meno. Non potevo essere niente di diverso. Diventare lo schiavo di Isabel aveva dato un senso alla mia vita. Lei mi aveva fatto conoscere il lato più nascosto e incredibilmente forte di me. Avevo appena compiuto un gesto disperato per riconquistarla ma, allo stesso tempo, era la prima volta che lottavo con così tanta passione per qualcuno. Sì, avevo combattuto con le unghie e con i denti per lei, ribellandomi al vecchio me stesso, debole e insicuro. Una strana sensazione di benessere mi pervase e inaspettatamente riuscii a sorridere allo sconosciuto riflesso allo specchio. Dopo circa un’ora dal mio risveglio uscii per andare a prendere le mie cose a casa di Morgan. Nel tragitto verso il cuore di Zurigo pensai a come parlargli. Ero certo che si sarebbe opposto strenuamente alla mia decisione di tornare da Isabel, ma non aveva nessuna importanza. Dovevo trasferirmi il prima possibile. Dovevo ricominciare a vivere con la donna a cui appartenevo e terminare il mio duro addestramento. «Ehi novellino… Pensavo che mi avresti dato notizie ieri sera», esordì il


mio amico, non appena mi aprì la porta. «Posso entrare?», domandai senza guardarlo negli occhi. Che stupido! Avevo l’irrazionale paura che potesse leggermi dentro e scoprire che cosa avevo fatto con Andrew per riconquistare la mia dea. «Che domande… Certo. Tra un po’ dovrebbero raggiungermi anche i miei amici di parkour. Vogliamo pranzare fuori e poi andare in palestra ad allenarci. Puoi venire con noi se ti va». Scossi la testa. «Me ne vado», dissi in un soffio. La sua espressione cambiò all’istante. «Cosa?» «Da lei». «Alain… no…». «Ho chiarito le cose, Morgan… È la donna che amo. Sono certo che andrà tutto per il meglio tra noi, adesso. Dobbiamo riprovarci o me ne pentirò per sempre», sorrisi nonostante una sensazione straziante mi stesse stringendo il cuore. «Alain, sei sicuro di fare la cosa giusta? Insomma, poche settimane fa eri uno zombie proprio a causa sua e ora mi dici che le cose miglioreranno?», esclamò incredulo. «Per una volta abbi fiducia in me», mormorai, inarcando un sopracciglio. «Non si tratta di avere fiducia in te. È che…». «Che?» «Niente… Sono solo un po’ dubbioso. Una relazione come la vostra può essere pericolosa. Tutte quelle cicatrici… E poi perché non mi dici chi è questa donna del mistero?» «Lei non vuole», ribattei subito. «E tu cosa vuoi, invece? Perché è di questo che ti dovresti preoccupare. Che cosa vuoi davvero, Alain?». Serrai i pugni. «Voglio quello che vuole lei», sentenziai più serio che mai. Morgan sgranò gli occhi. Dannazione! Gli avevo risposto come uno schiavo. Avevo usato le stesse parole con cui Andrew si era rivolto alla sua padrona. Era quella l’obbedienza senza remore che io desideravo incarnare solo per rendere Isabel più felice? Forse, il mio sogno non era più soltanto una chimera. Sorrisi improvvisamente orgoglioso di me stesso. «Dio, ti stai ascoltando?», sbottò il mio amico, facendo una smorfia. «Alain, non sei più lo stesso ragazzo che ho conosciuto l’anno scorso. Ma guardati! Sei il ritratto vivente di uno zerbino!». Il suo respiro era accelerato. Lo fissai,


triste. «Almeno credi davvero di poter essere felice con questa strega?!». Per la prima volta quella domanda non mi mandò in crisi. «Non potrei essere più felice con nessun’altra», dichiarai con convinzione. Lui scosse la testa turbato, ma smise di attaccarmi. Feci la valigia sotto il suo sguardo preoccupato e opprimente. Tuttavia, nonostante il mio corpo fosse già stato messo alla prova a sufficienza la notte precedente, sentivo il bisogno di essere punito ancora e ancora. Volevo che Isabel mi legasse, che mi portasse all’apice del piacere. Desideravo le sue carezze e i suoi schiaffi nello stesso tempo, volevo che mi negasse l’orgasmo fino a farmi scoppiare per la frustrazione. Tutte queste sensazioni erano così intense da farmi sentire vivo di nuovo. In fondo ero malato. Malato d’amore. Una patologia per cui ancora oggi non esistono cure. Lasciai casa di Morgan promettendogli che gli avrei chiesto aiuto qualora ne avessi avuto bisogno, anche se sapevo benissimo che non sarebbe accaduto. Non c’era aiuto che io potessi chiedere. Volevo gettarmi nell’abisso, conscio di non avere le ali per salvarmi qualora l’avessi desiderato. Agognavo di sprofondare nella parte più sporca di me, perché solo così avrei conosciuto davvero la mia forza. Avrei scavato al di sotto della crosta di perbenismo in cui ero cresciuto e sarei stato presto pura emozione. Libero anche se prigioniero, felice anche se piegato dal dolore. Per tutto il tragitto di ritorno a casa mi nutrii dei miei ricordi dei momenti più belli passati con Isabel. Nella mia testa lei era sempre nuda e avida di sesso, distesa sul letto, le gambe aperte a mostrare tutta la bellezza nascosta tra le pieghe della sua intimità. I capelli sciolti erano sparsi sul cuscino come fili d’oro e le sue labbra mi ordinavano di prenderla in ogni modo possibile. Sarebbe stato ancora così tra noi.


Capitolo 10 Nella tela del ragno d’argento

Zurigo, dicembre 2018

Mancavano pochi giorni al Natale. L’aria di Zurigo sapeva di festa e la neve, che cadeva già da due settimane, aveva ricoperto la città di un manto soffice e immacolato. In quei due mesi, il mio addestramento era continuato senza sosta. Mistress mi aveva sottoposto ogni notte a interminabili sessioni di sesso e dolore, affinché io diventassi lo schiavo migliore che chiunque avrebbe mai potuto desiderare. Ogni giorno ero sempre più stremato. Esausto. Segnato fuori e dentro, eppure più andavo avanti e più mi sentivo leggero. Bastava uno schiaffo, una bacchettata sulle natiche o persino il tacco dei suoi stivali che mi si conficcava nella pelle per provocarmi una bruciante erezione, per farmi desiderare di essere picchiato e umiliato ancora e ancora. Seguendo la sua via oscura ero diventato anch’io un’ombra, pronta a obbedire così celermente da appagare i desideri altrui e godere quando mi veniva chiesto di farlo. Sì, perché Isabel non era stata la mia unica amante… Gli ospiti nella nostra casa erano diventati sempre più frequenti. Uomini e donne che non avevo mai visto prima bussavano in continuazione alla nostra porta per prendermi, usarmi e sfogare su di me ogni tentazione, di fronte agli occhi attenti della mia signora. E io provavo piacere, sentendomi finalmente speciale. Nella mia bocca si erano mischiati i loro sapori. Alcuni si erano rivelati dei partner feroci, amanti della loro stessa violenza più che dell’arte della dominazione. Altri invece erano solo anime tormentate, ossessionate dall’appagamento che sentivano nel vedere qualcuno sottomettersi senza remore al loro volere. Tra braccia lascive e baci roventi, capii chiaramente che l’animo umano è dilaniato spesso dalle stesse paure e che il nostro corpo in fondo ricerca sempre la via più facile per soddisfare il proprio piacere. Costi quel che costi.


Anche Andrew fu parte attiva del mio addestramento. Lui, per mia fortuna, ebbe il compito di educarmi al sesso con gli uomini. Di tutti i miei amanti, fu di certo l’unico a trattarmi con la delicatezza di un vecchio amico e a volermi regalare l’ebbrezza di un rapporto quasi romantico. Spesso mi faceva tornare a credere di aver preservato un po’ del mio vecchio me stesso, quel ragazzo innocente e immaturo che correva al Münsterbrücke per guardare il fiume, cercando risposte alle domande esistenziali. Sì, Andrew era l’unica debole luce nell’oscurità che mi avvolgeva, sempre più fitta. Come mi aveva promesso durante la nostra prima notte insieme, dopo il dolore e il fastidio arrivò anche il piacere sconvolgente dell’amplesso anale. Godetti tra le sue braccia diverse volte e, subito dopo, imparai a farlo con gli altri uomini con eguale maestria e languida passione. Il giorno di Natale infine Isabel mi fece uno strano annuncio. «Ci sarà una festa per l’inizio dell’anno nuovo», esordì, tagliando la succosa bistecca che aveva nel piatto. Inginocchiato a terra come al solito, alzai lo sguardo in pura adorazione. Lei mi allungò un pezzo di carne che io addentai affamato e poi continuò. «È in un posto speciale che ho smesso di frequentare ormai da diversi anni». «Perché, Mistress, se posso chiedere?». I suoi splendidi occhi si riempirono di tristezza per la prima volta da quando la conoscevo. Anzi, no, quella era la seconda. La prima volta era stata sul Münsterbrücke di fronte al Limmat, quando mi aveva parlato del fatto che non intendeva arrendersi all’amore, in quel modo che io avevo trovato così affascinante. «È una storia molto lunga che per il momento non posso raccontarti», rispose lei, criptica. «Quello che voglio però», continuò accarezzandomi la testa, «è che tu sia perfetto, laggiù». «Farò di tutto per compiacerti, Mistress», dissi subito, appagato da quella strana e dolce carezza. «Ascoltami attentamente, Alain. Ti porterò da un uomo». Smise di toccarmi all’improvviso per alzarsi dal tavolo e sovrastarmi. «Un uomo molto importante per me». I suoi occhi blu mi fulminarono. «Tu dovrai far sì che lui ti desideri… Sì, ti deve volere più di ogni altra cosa al mondo». Sentii il mio cuore creparsi per l’ennesima volta. Mi avrebbe ceduto a un’altra persona. Un’altra volta ancora. «Dovrai essere perfetto per lui. Lo farai, Alain?», mi


incalzò prendendomi il viso tra le mani e sfiorandomi le labbra con un bacio carico di malinconia. «Non ho scelta», le sussurrai sincero, anche se sentivo una fitta di dolore al centro del petto. «Grazie, amore mio». Quelle ultime parole mi portarono dall’inferno al paradiso in un battito d’ali. «Mistress…». «Vieni con me… Voglio sentire la tua lingua su tutto il corpo», fece scorrere le mani sul mio petto nudo e accarezzò il tatuaggio che avevo sul cuore. «Ti ho trascurato ultimamente, lasciandoti nelle mani di altri amanti, ma era necessario. Adesso sei perfetto. Così perfetto che non voglio aspettare un secondo di più per scoparti». La sua voce roca ansimò di desiderio. Insinuò le mani tra le mie gambe e strinse la mia erezione con forza attraverso il tessuto morbido dei pantaloni. «Fammi vedere quanto sei eccitato», continuò, facendo scivolare la zip verso il basso. Sollevai le gambe per lasciare che mi togliesse l’unico indumento che indossavo quando eravamo soli. «Gonfio e pronto per me». Le sue labbra avvolsero i miei testicoli. Con le mani iniziò ad accompagnare quel movimento sensuale, sfregando il mio sesso avanti e indietro. «Strappami le mutandine», mi ordinò poi, staccandosi di colpo per offrirmi la visuale sul suo corpo perfetto. Non me lo feci ripetere. Le alzai la gonna con mani tremanti e guardai il perizoma nero che indossava quel giorno con la stessa ferocia che avrei riservato al mio peggior nemico. Addentai quel minuscolo pezzo di stoffa e cominciai a lacerarlo, indomito. «Sì, piccolo, così», esclamò, non appena sputai gli slip sul pavimento. Mi alzai reggendomi sulle ginocchia. Le sue dita si aggrapparono ai miei capezzoli e cominciarono a torturarli lentamente. Allungai una mano verso la sua intimità e separai le piccole e le grandi labbra, fino ad arrivare al clitoride per premere con forza. Il suo grido di eccitazione mi tramortì. Mi scagliai sul suo sesso avido di gustarne gli umori. Baciarla e penetrarla così, facendo solo scivolare la lingua sulla sua pelle, mi era mancato da morire in quegli ultimi due mesi. Isabel gemette e inarcò la schiena, fremente di piacere. Continuai a leccarla in quel modo per poi penetrarla a fondo, aiutandomi con le dita. Mi muovevo tra le sue cosce con l’impeto del mare in tempesta. Arretravo e ritornavo sul suo ventre con lo stesso ritmo delle onde che travolgono la sabbia


staccandone piccoli pezzi per risucchiarli a fondo, dentro di sé. Iniziai così a sentire le sue contrazioni farsi subito più forti. I suoi occhi, due zaffiri senza tempo, mi restituirono uno sguardo così caldo da incendiarmi. Il suo primo orgasmo mi riempì la bocca di un succo dal sapore celestiale. Ne ingoiai ogni goccia e poi le lasciai il tempo di gustarsi anche la coda di quell’amplesso clitorideo toccandola dappertutto, in attesa di nuovi, eccitanti ordini. «Ne voglio ancora», sussurrò Isabel con le guance arrossate. Si sbottonò la camicia e la lasciò cadere sul pavimento. Fece la stessa cosa con il reggiseno nero, liberando ai miei occhi il suo splendido seno. «Scopami, adesso. Forte». «Ai tuoi ordini». Strinsi la mano sul mio sesso e lo massaggiai un poco prima di avvicinarmi di nuovo a lei. Lo sguardo corse istintivamente alle sue natiche sode: desideravo ardentemente di prenderla da dietro, ma lei non me lo aveva mai permesso. Isabel capì immediatamente. Sorprendendomi, mi diede le spalle e inarcò la schiena abbastanza da mettere in mostra quella parte di lei che io non avevo mai esplorato prima. La guardai estasiato. «Fallo», mi incitò. «Devo andare a prendere il lubrificante», dissi, continuando a masturbarmi, eccitato e incredulo. «No. Usa solo la saliva. Voglio sentire il dolore a cui io ti ho condannato in queste settimane. Dammelo tutto, Alain. Ne ho bisogno». Perché? Perché mai voleva punirsi in quel modo? In una frazione di secondo era tornata la donna inafferrabile che si ostinava a nascondermi la parte più intima di sé. Voleva soffrire, ma qual era la sua ragione? Io mi ero volontariamente sottomesso al suo desiderio e il dolore ormai era diventato il seme del mio piacere. Lei non era così, non aveva nessuna colpa da scontare. Eppure mi chiedeva di infliggerle quel male… «Sto aspettando, schiavo. Fallo!». Tornai subito in me, allontanando quei pensieri. Il mio compito era soddisfare ogni richiesta di Mistress. Non dovevo pormi alcuna domanda. Lei ordinava, io obbedivo. Lasciai cadere un po’ di saliva sulla fessura dell’ano e la massaggiai con le dita come Andrew mi aveva insegnato. Poi non ce la feci più. Il suo odore. La sua pelle. Il suo sesso… Il mio membro era turgido all’inverosimile, pronto a


scoppiare. Con un movimento secco, le divaricai i glutei morbidi e la penetrai con un’unica, forte spinta. Le sue urla si librarono nell’aria, imponenti come un tuono. «Ancora», ringhiò, non appena feci per uscire, temendo di farle troppo male. Mi spinsi a fondo e un altro rantolo lussurioso le uscì di bocca. Dolore. Piacere. Lussuria. «Ancora», ripeté, inarcando di più la schiena. Scivolai dentro di lei come una lama. Lì dove non l’avevo mai posseduta Isabel era stretta e piacevolmente ruvida. «Ancora». Presi a muovermi ritmicamente, assuefatto dalla visione dei suoi seni che rimbalzavano a ogni mia spinta, con le mani strette sui suoi fianchi. «Ti piace, vero, Alain?», mi incalzò lei con voce sensuale. «Sì», ansimai, perso nelle lande della passione. «Sì», ripetei, annegando in quella fessura così angusta e accogliente insieme. «Riempimi del tuo piacere, Alain. Fammi vedere quanto mi vuoi». Le sue parole mi entrarono dentro e furono come una scarica elettrica. Sì, l’avrei riempita del mio piacere ogni giorno se lei me lo avesse concesso. E anche in quel momento così combattuto, lo feci con tutto me stesso, ignaro delle vere ragioni per cui Isabel lo aveva domandato. La sera del 31 dicembre infine arrivò, accompagnata dal vento più freddo di quell’inverno. Era come se anche il tempo stesse cercando di avvertirmi che quello che stavo per fare mi avrebbe rovinato. Eppure, come uno sciocco, non gli diedi retta. Isabel era mia. Io ero suo. Tutto il resto non contava. Mistress non mi aveva voluto rivelare molto del posto in cui eravamo diretti. Quel pomeriggio però si era presa cura di me come mai prima d’allora. Mi aveva lavato, cosparso d’un costoso olio di sandalo e mi aveva fatto indossare degli abiti nuovi, elegantissimi, sotto i quali mi aveva costretto a mettere degli stretti slip di latex. Al collo mi aveva allacciato un collare di pelle borchiata da cui pendeva un laccio lungo circa un metro e mezzo. Così agghindato avevo atteso in silenzio mentre anche lei si preparava. Quando uscì dalla nostra stanza mi sembrò di vedere un angelo fasciato da un lungo abito nero con ai piedi dei tacchi vertiginosi. Un ricercatissimo ricamo di pizzo solcava il petto e tutto il suo addome fino a chiudersi sul basso ventre. Aveva legato i lunghi capelli in uno stretto chignon: sul collo marmoreo


faceva bella mostra una collana con uno strano ciondolo rosso. «Ricordi cosa ti ho detto?», mi ripeté, accarezzandomi la guancia con fare benevolo. «Mi hai detto di arrendermi al “Tuono Rosso” come farei con te», risposi con uno strano retrogusto amaro in bocca. L’uomo del mistero, di cui per il momento conoscevo solo il soprannome, stava per essermi svelato. «Bravo, piccolo. Sai… eri solo un mucchietto di sabbia quando ti ho conosciuto. Con il calore del fuoco, della passione e del dolore, ti ho trasformato in una statua di cristallo. Colpo dopo colpo hai preso forma e sei diventato perfetto. Tu sei la cosa più bella che io abbia mai fatto. Possiamo andare, finalmente». Una macchina nera ci attendeva davanti al cancello. Ci accomodammo entrambi sul sedile posteriore, separati dall’autista solo da un vetro scuro. Con un rombo prepotente la vettura lasciò il vialetto. Durante il tragitto restammo in religioso silenzio. Per tutto il tempo Isabel giocò con l’estremità del laccio che mi aveva legato al collo. Sembrava nervosa e non ne capivo il perché. Chi era quell’uomo a cui mi sarei dovuto concedere senza alcuna remora? Perché sembrava così importante per la donna che amavo? Lui ti deve desiderare più di qualunque altra cosa al mondo… Fu un viaggio piuttosto lungo poi, finalmente, la macchina nera superò un grande cancello di ferro battuto e parcheggiò lungo un viale sterrato. L’autista che fino a quel momento non avevo visto in faccia ci venne ad aprire lo sportello. Isabel scese per prima, poi mi trascinò dietro di sé come il suo cucciolo fedele. Mi voltai di scatto, abbagliato dai fari delle macchine che stavano entrando dietro di noi e rimasi di stucco. Ci trovavamo in un grande giardino il cui perimetro era circondato da siepi amabilmente curate. Al centro si ergeva maestosa una villa a tre piani in stile Liberty. Illuminata dalla luna, aveva un aspetto meraviglioso. «Benvenuti al Das Silberne Spinnennetz», disse l’autista, indicandoci l’entrata. Mi guardai ancora attorno e vidi molte vetture simili a quella che ci aveva condotto lì, parcheggiate ordinatamente attorno alla casa. Le finestre erano tutte illuminate e, attraverso le tende, intravidi alcune sagome muoversi lentamente come minacciose silhouette. Mistress mi fece un mezzo sorriso, poi strattonò il collare. Con i tacchi che


scricchiolavano sulla ghiaia, mi trascinò verso l’entrata. Salimmo gli scalini dell’ingresso e Isabel bussò alla grande porta di legno laccato bianco. L’uscio si aprì immediatamente. Un uomo corpulento in smoking nero chinò lievemente il capo. Indossava una maschera bianca come la neve che gli copriva metà del viso. Lui e Isabel si scrutarono a lungo in silenzio, poi, con un’espressione severa, ci sbarrò la strada. «Hai un bel coraggio a presentarti, Isabel», ringhiò con fare ostile. «Fammi entrare, River», esclamò lei secca. La guardia si morse le labbra carnose. «Perché dovrei? Lui sa che sei qui?». Isabel annuì senza parlare. «Non ti credo. Andrò a verificarlo di persona», disse l’uomo, sospettoso. «Scomoderesti per niente il tuo padrone e poi… Gli rovineresti la sorpresa». Fece un cenno per indicarmi. Gli occhi di River si spostarono su di me e la sua bocca si schiuse per lo stupore. Mi osservò attentamente, mettendomi parecchio a disagio. Perché mi fissava in quel modo? Era sconvolto, come se mi avesse già visto prima, eppure non era così. Confuso, abbassai lo sguardo e solo allora notai che anche al suo collo era appeso lo stesso ciondolo scarlatto che indossava Isabel quella sera. «Come… Come diavolo hai fatto?», le chiese poi, turbato. Mistress sorrise crudele. «Non sono cose che ti riguardano… Ora lasciaci entrare, River. Non vorrai che il Tuono Rosso attenda ancora la sua preda». La sua preda… River si fece da parte, lasciandoci libero accesso. Il suo sguardo però continuò a schiacciarmi opprimente, finché non gli voltammo le spalle. Che cosa ignoravo di quel posto e del Tuono Rosso? E che cosa mi sarebbe successo una volta catturato dalla tela del ragno d’argento? Imboccammo un primo corridoio. L’aria attorno a noi era satura di profumi. Sentii odore di cera, poi quello del cibo mischiato a un cocktail letale di essenze costose che dovevano appartenere agli altri ospiti della villa. Passammo di fronte a cinque porte chiuse, poi finalmente Isabel entrò in una sala trascinandomi per il collare. Lo stupore mi riempì il cuore. Mi trovavo in una sorta di salotto dalle dimensioni gigantesche. Gli arredi dovevano valere una fortuna: tappeti persiani, mobili di legno scuro, candelabri d’argento massiccio che reggevano lunghe candele bianche. Sulla mia testa pendevano almeno tre lampadari imperlati di una miriade di cristalli dai riflessi arcobaleno. Tutto era elegantissimo ed estremamente ricercato, come se chi


aveva scelto ogni singolo elemento di quella casa avesse fatto in modo di trovare la perfetta combinazione di suppellettili. Una bellezza quasi soffocante. Solo quando Isabel strattonò di nuovo il mio collare mi accorsi che c’erano anche delle persone all’interno della sala. Alcuni, pochi in realtà, indossavano la stessa maschera bianca dell’uomo che ci aveva accolto all’ingresso. La maggior parte invece aveva il viso scoperto, le donne truccate in modo aggressivo e seducente, gli uomini molto affascinanti: i dominatori. Dopo qualche secondo notai gli schiavi. Inginocchiati a terra o riversi sui divani di pelle scura, erano seminudi, a differenza dei loro padroni. Alcuni erano incatenati. Altri invece sfoggiavano collari dai colori variopinti e vistosi segni di percosse sulla pelle. Io ero decisamente il più vestito tra di loro. «Sei arrivata, finalmente. Quale modo migliore di festeggiare l’arrivo dell’anno nuovo se non qui dentro?». Una voce familiare mi riscosse dal torpore. Mi voltai e incrociai i penetranti occhi di Eva. Lei mi restituì uno sguardo lascivo. «Lo hai portato, infine», constatò. «Il mio cucciolo era pronto e io non potevo più aspettare», ribatté Isabel, in tono impaziente. Mi morsi le labbra, nervoso. Quell’attesa mi stava torturando da giorni ormai. Dannazione, chi era mai l’uomo misterioso che dovevo compiacere? Mi guardai attorno alla ricerca di una faccia conosciuta. Chissà dove era Andrew… «Se stai cercando il mio schiavetto dovrai aspettarlo parecchio, Alain», sbottò Eva, rivolgendosi a me. La fissai, turbato. «L’ho lasciato nelle grinfie di Peter e ci vorrà un po’ perché finiscano», continuò rispondendo inconsciamente alla mia domanda. «Lui è sempre di sotto?», la interruppe Isabel, brusca. Eva fece cenno di sì con la testa. «Si stanno dando molto da fare nel dungeon, ma lui si ostina a non partecipare. Non vuole nessuno, come sempre…». «Vorrà Alain», disse lei criptica, strattonando il laccio che avevo al collo. «A lui non potrà resistere». Lasciammo la sala prima che Eva potesse aggiungere altro. Isabel si addentrò nel cuore della villa come se la conoscesse da sempre. Mi nascondeva qualcosa, ma non ne comprendevo il motivo. In fondo le avevo già promesso che avrei dato il mio meglio quella sera. Perché sembrava così


sulle spine? A un certo punto vidi una porta laccata di rosso. La mia dea la aprì, sicura più che mai. Da lì partiva una lunga scalinata che scendeva verso il basso. Ecco cosa intendeva dire Eva qualche minuto prima. Dovevamo addentrarci nei visceri della casa per raggiungere l’uomo a cui avrei dovuto sottomettermi. Un dungeon. Proseguimmo lentamente, immergendoci nell’oscurità. Poi, poco prima che le tenebre ci avvolgessero del tutto, le luci automatiche si accesero di colpo al nostro passaggio, illuminando la via. Le pareti non erano più bianche, ma rosso sangue. Imboccammo uno stretto corridoio, a cui erano appesi in file ordinate quadri di stili ed epoche diversi, posti l’uno vicino all’altro, creando uno strano contrasto. Un penetrante profumo d’incenso aleggiava come un sottile velo di polvere. Mentre camminavamo verso la fine del corridoio, fui colto da una sensazione claustrofobica. Faceva molto caldo e iniziavo a essere stanco di non sapere nulla di ciò che mi attendeva. «Siamo arrivati, Alain», sussurrò Isabel prima di aprire l’ennesima porta. «Ora siamo entrambi nella sua tela. Sarai tu a salvarmi». L’uscio si spalancò. Dapprima udii solo il loro ansimare. I grugniti. Le urla. Poi i miei occhi misero a fuoco il salone dalla pianta rettangolare in cui ero appena entrato e mi sembrò di aver varcato la soglia dell’inferno. Il girone della lussuria si spiegava di fronte ai miei occhi come un ventaglio variopinto di immagini perverse. C’erano corpi di uomini e donne che si contorcevano sui divani, che si possedevano sui tappeti, in ogni angolo del dungeon. Vidi ragazze legate a grossi anelli di metallo appesi al soffitto da lunghe catene. Giovani uomini piegati su tavoli di legno intarsiato, con braccia e gambe bloccate, completamente esposti e pronti per il sesso. E poi i carnefici. Dominatori o dominatrici erano armati di strumenti di piacere e dolore da usare sui propri sottomessi. Fruste, verghe, vibratori di ogni forma e grandezza erano come armi in quell’oscuro campo di battaglia. Infine la mia attenzione fu catturata da una sorta di trono posto proprio al centro della stanza. Seduto su di esso vi era un uomo dall’espressione distante, forse annoiata. Sembrava un re che tutte quelle persone cercavano disperatamente di impressionare, senza successo, un sovrano severo e imprevedibile.


«David». Un nome. Una sola parola e gli occhi del re puntarono su di noi. La sua faccia si dipinse di rabbia all’istante. Si alzò dal trono, mettendo in mostra il fisico di un angelo e l’ira di un demone. Non appena ci fu di fronte ebbi un moto di stupore: assomigliava a Isabel a tal punto da farmi paura. Ebbi l’istinto di scappare, ma la presa della mia dea restò salda. «Hai un bel coraggio a presentarti qui, Isabel», esordì l’uomo. La sua voce era calda e fredda nello stesso tempo. Feriva e accarezzava. Alzai lo sguardo sul suo viso e sentii il mio stomaco contorcersi come un serpente. Era l’uomo più bello che avessi mai visto. Aveva gli occhi blu come gli iris appena sbocciati, incastonati negli stessi lineamenti della donna che amavo. Le sue labbra avevano un taglio così sensuale da scatenare il bisogno assoluto di un loro bacio. L’unica cosa che lo distingueva da Isabel, a parte il sesso, erano i capelli. L’uomo misterioso li aveva corti, ribelli e dipinti di rosso. Rosso sangue. «Credi forse che portandomi un altro schiavo ben addestrato io sia disposto a perdonarti?», continuò severo. Guardai la mia dea, curioso. Era la prima volta che la vedevo così in soggezione da quando la conoscevo. Stava lottando contro i suoi invisibili segreti. Il mistero si infittiva. «Questa volta non ti ho portato un semplice schiavo, David», rispose Isabel in tono freddo dopo qualche istante d’esitazione. «Io ti ho portato… lui». Afferrandomi bruscamente, alzò il mio viso verso l’angelo che ci stava di fronte. Specchiai i miei occhi in quelli del mio nuovo dominatore per qualche secondo, inebriato dalla sua incredibile avvenenza. La reazione di David però mi sconvolse. Il re impallidì all’istante. Le labbra che avevo appena ammirato iniziarono a tremare, così come le sue mani. «Ma come… Non… Non è possibile», balbettò incredulo. «Invece sì», ringhiò Isabel. David aveva il respiro corto e accelerato. Si passò le dita tra i capelli più volte e sembrava caduto in un limbo a metà tra la collera e l’eccitazione più pura. «L’ho trovato…», gli sussurrò Isabel con fare complice. «L’ho educato per te, perché fosse perfetto. E ora tu puoi farne ciò che vuoi». Quelle ultime parole mi colpirono come proiettili. Che cosa voleva dire? La


guardai spaventato, ma i suoi occhi mi restituirono un’espressione di scherno. «Isabel?», sussurrai, sopraffatto dalla paura. Le labbra di David mi travolsero in un bacio prima che potessi chiederle spiegazioni. Tutto attorno a noi si spense, come inghiottito dalle viscere della notte. C’erano solo bocca, lingua, calore. Un concentrato di sesso, impossibile da respingere. Percepii un sapore amaro di collera e rancore mischiarsi a quello dolce della mia innocenza. Era come se l’inferno stesse allungando le sue ombre sul paradiso, per abbracciarlo e macchiarne i confini. Era quasi la stessa sensazione che vivevo quando era Isabel a possedermi in quel modo. Faceva paura e allo stesso tempo accendeva il mio desiderio più che mai. David ansimò forte e io fui colto dall’ansia. Si era aggrappato a quel bacio con disperazione. Era un sentimento disarmante e opprimente. Cercai di arretrare, ma le sue braccia mi bloccarono e mi strinsero in una morsa letale. Ancora. Ancora. Il suo corpo cominciò a scottare. «David…», lo chiamò Isabel. Lui finalmente si staccò da me e io annaspai. Mi aveva risucchiato nel suo vortice velenoso, rubandomi tutta l’aria che avevo nei polmoni. «Lo voglio, adesso», disse freddo come il cemento, guardandomi con rabbia. «Lo avrai, certo… ma solo se mi concedi il tuo perdono», contrattò Isabel, e una sensazione soffocante mi si attanagliò di nuovo al cuore. Ero quindi una merce di scambio? David si morse le labbra, esitando. Sembrava un leone in agguato che fissava avido la sua preda, nascosto, per paura di essere sorpreso da un colpo di fucile. Stava combattendo una vera e propria guerra interiore di cui io ignoravo la ragione. Isabel attese qualche secondo, poi si avvicinò al suo orecchio e bisbigliò qualcosa che non sentii. Negli occhi di David balenò una luce sinistra. «Tu… hai davvero fatto tutto questo…», sibilò, inorridito. «Tutto questo solo per me?» «Sì, amore mio», dichiarò Isabel dolce. Le mani di David si strinsero in due pugni minacciosi. «L’ho fatto solo per te». «Ti perdono», sbottò il re, fulminandola con lo sguardo. «Ti perdono, strega». Isabel sorrise vittoriosa. «Allora fai di lui quello che vuoi». Gli lanciò il


laccio che mi pendeva dal collo. David lo afferrò tra le dita che ancora tremavano. «Così adesso siamo pari, finalmente». Mi voltai verso Isabel, più spaventato che mai. Lei mi ignorò, si voltò e si incamminò verso l’uscita, abbandonandomi a un uomo che nemmeno conoscevo. L’uomo che con un solo bacio aveva staccato un pezzo della mia anima e lo aveva ingoiato nel suo ventre. «Vieni con me», sbottò David, tirandomi nella direzione opposta a quella che stava percorrendo la mia Mistress, verso una porta che non avevo notato prima. Ebbi un fremito. In silenzio, mi condusse in una seconda sala decisamente più piccola di quella che avevamo appena lasciato. Le pareti questa volta erano dipinte di un lucido blu oltremare. La luce che proveniva da un grande lampadario al centro del soffitto si rifletteva sulla vernice creando un meraviglioso gioco di chiaroscuri. C’era un letto a baldacchino sistemato contro il muro di fronte a noi e dalla parte opposta uno specchio di dimensioni colossali. Dal soffitto pendevano anche quattro lunghe catene argentate a cui erano fissati dei moschettoni. A destra del letto c’erano poi diversi armadi, il cui contenuto mi era oscuro. David mi abbandonò per un istante per andare a chiudere la porta a chiave. Ero in trappola. Una trappola blu come i suoi occhi. «Ti starai chiedendo perché ti trovi qui con me», esordì gentile, lasciandomi di stucco. «Sono qui per compiacerti, Master», sussurrai, ricordando gli ordini di Isabel. Lo scrutai in soggezione. «Oh, ma guarda… Quella strega di Isabel ti ha addestrato davvero bene», commentò sarcastico. «Ma io percepisco ugualmente la tua paura, per quanto tu stia tentando di nasconderla». Mi accarezzò il volto. «A volte la vita può essere davvero crudele», continuò, misterioso. «Il destino gioca sempre, divertendosi a sconvolgere ciò che siamo. Quello che mi stupisce è che non ci offre mai la soluzione giusta per assemblare i nostri pezzi, dopo averci distrutto». La sua mano scese sul mio petto, fino al cavallo dei pantaloni. «Dimmi il tuo nome», mi ordinò. «Alain», mormorai mentre le sue mani schiacciavano il mio sesso, frementi. «Alain e poi?». «Alain Bercher». Le sue labbra si strinsero in una morsa. «Oddio… con me è stato davvero


ingiusto…». «Chi?» «Il destino». Mi abbassò la cerniera dei pantaloni e scivolò sugli slip di latex, insistente. «Perché, Master?», osai chiedere. Avevo bisogno di conoscerlo, di carpire qualche dettaglio, prima di affidarmi a lui come Isabel mi aveva ordinato. I suoi occhi mi fulminarono. «Perché mi ha portato via l’unico uomo che io abbia mai amato, tanto tempo fa». Si avventò sul mio collo e mi morse feroce. Ansimai, facendo una smorfia di dolore. «Che… che cosa vuoi da me?», chiesi mentre si cibava della mia pelle come un animale affamato da giorni. «Di’ il mio nome». «Che cosa vuoi da me, David?», ripetei. «Tutto», rispose lui, leccandosi le labbra umide di saliva. «Voglio prendere ogni cosa di te, come lui ha portato via ogni cosa da me». Ma di chi stava mai parlando? Le sue dita si arpionarono alla mia camicia e la strapparono. Sussultai, spaventato, ma non ebbi il tempo per farmi domande. David mi buttò subito sul letto e, veloce come una saetta, mi immobilizzò ai quattro pilastri della struttura a baldacchino con delle corde di nylon che io non avevo nemmeno notato. Poi tirò i miei pantaloni così forte da lacerarli, lasciandomi solo con gli slip di latex che Isabel mi aveva costretto a indossare. «Mio Dio, sei bellissimo…», sussurrò con la lussuria che gli incendiava gli occhi. «Sei quello di cui avevo più bisogno. Così perfetto, Alain». Le sue labbra si avvicinarono al mio ventre. Leccò il latex, mettendo in mostra la sua lingua rossa e rovente. Poi mi addentò all’altezza del glande, provocandomi un dolore sordo e travolgente. «Ti prego…», dissi, confuso e spaventato insieme. Lui non era come tutti gli altri amanti a cui mi ero concesso prima d’allora. Il suo sguardo era pura e rabbiosa passione. «Puoi pregarmi quanto vuoi», sbottò, continuando a torturarmi il sesso. «Più lo farai e più io mi ecciterò». Certo, che stupido ero stato. Anche David era un dominatore e come tale avrebbe solo gioito della mia cieca sottomissione. Forse, comportandomi con la stessa arrendevolezza che riservavo alla mia dea ogni giorno, mi sarei salvato dalla sua furia. «Ti prego», ripetei, mentre i suoi baci salivano dal ventre al mio petto. Lo


fissai ipnotizzato: indossava una camicia nera di lucida seta, sotto la quale i muscoli scolpiti guizzavano per la tensione. «Oh sì… Guardami, ragazzino…», ansimò, e il suo membro duro come la pietra sfregò sul mio attraverso la stoffa dei pantaloni. «Voglio che tu mi desideri». Mi afferrò per i glutei, premendo ancora di più sul mio sesso e mimando gli affondi che mi avrebbe presto inferto. «Questo viso stupendo», disse poi, a pochi centimetri dalla mia bocca. «Voglio vederlo contrarsi per il piacere. Un piacere assoluto, un desiderio feroce solo per me. Hai capito, schiavo? Voglio vederti godere sotto le mie mani così tanto da starne male». Il suo tono aveva un che di selvaggio. Annuii travolto da tutta l’energia che il suo corpo sprigionava, come un sole che splendeva all’interno di quella stanza solo per me. David mi baciò a lungo, infilando le mani nello stretto slip e lottando in quello spazio angusto per masturbarmi con grande maestria. Rispetto agli altri uomini con cui avevo scopato, aveva qualcosa di magnetico. Ogni gesto, ogni suo respiro sembrava fatto apposta per tentare e provocare la sua vittima. Aveva lo stesso fascino impossibile di Isabel. Era terrificante e irresistibile. Abbandonata la paura iniziale, mi ritrovai a desiderare con tutto me stesso di vederlo nudo, di poter toccare quei muscoli rigidi come marmo e sentire la sua eccitazione colare dentro di me, inesorabile. Lui lo capì. «No, non ancora», ringhiò quando sentì che presto sarei venuto tra le sue mani. Si alzò dal letto e andò verso uno degli armadi. Tirò fuori un lungo coltello e lo leccò davanti ai miei occhi febbricitanti. Si avvicinò al mio ventre e infilò la lama tra il latex e la mia pelle. Con un movimento secco lo tagliò, liberando il mio sesso da quella stretta soffocante. Il membro mi si drizzò all’istante di fronte al suo sguardo eccitato. «Sei davvero facile da sedurre, ragazzino», constatò sorridente. Poi, come se mi avesse letto nel pensiero, si sbottonò la camicia, permettendomi di ammirare il bellissimo tatuaggio che gli ricopriva quasi tutto l’addome. Era l’immagine di un angelo, in ginocchio, che si teneva tappate le orecchie per proteggersi da un suono insopportabile. Le linee concentriche che dai capezzoli si diramavano fino all’ombelico sembravano dipinte con il sangue ed erano la rappresentazione probabilmente della forza di quel suono a cui l’angelo cercava di non soccombere. Le sue ali, curvate dal dolore, erano così belle da sembrare vere. Il Tuono Rosso… «Ti piace, piccolo?», mi domandò, mentre con la mano si accarezzava il


petto e poi il ventre. Aveva persino le stesse movenze di Isabel. Le dita che scivolavano sulla pelle con uguale lentezza mi mettevano addosso un’urgenza insopportabile. Annuii, sedotto. Non potevo muovermi, né aggrapparmi a quel corpo così affascinante che mi attirava da morire. Lo volevo. David lo sapeva e si divertiva a torturarmi, sfiorandosi i capezzoli con le dita, infilandosele poi nei pantaloni e massaggiandosi il membro con insistenza, facendomi desiderare di essere quella mano che aveva il privilegio di toccarlo. «È difficile trattenersi quando si guarda qualcosa che si vuole così tanto. E tu mi vuoi adesso, te lo leggo negli occhi. La paura si è tramutata in desiderio non appena ti ho legato a questo letto, non è così? Ma certo… Non mi puoi resistere oggi, come io non potevo resistere in passato». La sua voce mi entrava nella testa come una droga e per un attimo dimenticai Isabel. Era la prima volta che mi succedeva da quando era iniziata la mia storia con lei. Era la prima volta che volevo qualcuno tanto quanto avevo desiderato Mistress. Eppure quelle ultime parole… A quale passato si stava riferendo? «Ti prego… prendimi», sussurrai, sconfitto dal bisogno di essere dominato. «Vorrei scoparti, Alain», disse David languido. «Vorrei farlo proprio ora e riempirti di me, regalandomi un piacere che mi sono negato da troppo tempo ormai. Sono così curioso di sentire il sapore della tua passione, ma…». Le sue dita smisero di frugare nei pantaloni. «Purtroppo non ti darò niente questa sera», sentenziò, cambiando radicalmente espressione. «Perché?», mormorai, colto da una improvvisa sensazione di nausea. «Perché l’attesa renderà il nostro piacere ancora più sublime. Farò sesso con te, lo farò presto. Ma oggi mi guarderai soltanto, così continuerai a desiderarmi finché non ci rivedremo, piegandoti per la voglia che io ti ho appena negato». Dio, che tortura era mai quella? Strattonai le corde con cui mi aveva legato. David sorrise divertito. «Tranquillo, ragazzino… Ora che ti ho trovato non ho intenzione di lasciarti andare», disse, rassicurandomi. «Ma ho bisogno di prepararmi per stare con te», continuò più serio che mai. «Aspettavo da così tanto tempo che tu tornassi…». «Che tornassi?», domandai stranito. David scosse la testa vigorosamente. «Già, piccola vittima innocente, come potresti anche solo immaginare il gioco di cui sei stato solo una pedina? C’è un cappio fatto di sesso e bugie che ti sta strangolando, ma tu non riesci a


vederlo…». Si ravviò i capelli con fare sensuale, lasciandomi interdetto. «Mi ricordi qualcuno, Alain…», sbottò poi fulminandomi. «Qualcuno che ho amato tanto tempo fa». Un colpo al cuore. Quelle parole… Erano le stesse con cui Isabel aveva insinuato il dubbio dentro di me in passato e ora si riproponevano una seconda volta, per avvelenarmi definitivamente. «Chi?», mormorai, mordendomi le labbra. «Devo sapere di chi stai parlando…». David si avvicinò minaccioso. Addentò il mio labbro inferiore, facendo scivolare la lingua sulla mia bocca e nutrendomi per un istante della passione che mi aveva appena negato. «Non fare mai domande la cui risposta potrebbe distruggerti, ragazzino», rispose poi crudele. «Ricordatelo sempre». Subito dopo mi liberò dalle corde e mi masturbò ancora una volta, accendendo così il sordo dolore dell’insoddisfazione in tutto il mio corpo. «Non sai quanto ti vorrei prendere in questo momento», ripeté leccandomi una guancia. «Ma ci sono cose che vanno gustate senza fretta, per assaporarne ogni sfumatura senza rimpianti». Mi baciò a lungo accarezzandomi con dolcezza i capelli. Rintoccò la mezzanotte che segnava l’inizio del nuovo anno.


Capitolo 11 Il sentiero della verità

Zurigo, febbraio 2019

Affacciato al balcone del secondo piano dell’ETH, respirai a fondo l’aria fredda di Zurigo. In quell’ultimo mese avevo vissuto con la costante sensazione di non riuscire ad avere abbastanza ossigeno nei polmoni. L’attesa mi stava soffocando. David! David! David! Perché non tornava da me? Dopo quella strana e sconvolgente notte passata al Das Silberne Spinnennetz, Isabel mi aveva condannato a un silenzio insopportabile. Continuavamo a vivere insieme, sotto la nostra campana di vetro satura di sesso e perversioni, ma parlavamo sempre di meno, soprattutto quando cercavo di chiedere più spiegazioni riguardo al Tuono Rosso e a quella strana villa in cui la mia vita era stata di nuovo sconvolta. Più i giorni passavano più capivo che Mistress mi nascondeva qualcosa, solo che non sapevo che fare per ottenere la verità. Ero troppo impegnato a mantenere l’equilibrio sulla corda fragile e dannatamente sottile su cui camminavo. Bugie, fatica, lavoro, studio, sesso, domande, mistero. Mi stavo perdendo nell’oscurità, per l’ennesima volta. In laboratorio continuavo a impegnarmi al massimo, tenendo sempre segreta la mia relazione con Isabel. Morgan e Giselle si erano gradualmente rassegnati ai miei mutismi e, per quanto cercassero di starmi vicino, non mi chiedevano più niente della mia vita privata. Con la mia famiglia invece le cose erano molto peggiorate. La mia assenza da casa anche nel giorno di Natale aveva spezzato qualcosa e mi ero definitivamente allontanato dall’ombra opprimente di mio padre. Sapevo che mia madre ne stava soffrendo moltissimo, ma ormai le mie priorità erano cambiate e il suo patetico dolore di fronte alla mia sofferenza non valeva niente. Il mio cuore non aveva abbastanza spazio per consolarla. Tutta la mia anima era permeata dalla necessità di appagare Isabel e, contro ogni mia previsione, di rivedere David. Ma quando l’avrei incontrato di nuovo? Quando avrei dato un senso


alle sue misteriose parole? “Aspettavo che tu tornassi…”. La risposta a quella domanda arrivò all’inizio del mese di marzo. Tornai a casa di venerdì sera dopo un’estenuante giornata di lavoro, pronto a soddisfare le richieste di Isabel o di chi lei avesse voluto. Ero in cucina a preparare la cena, quando Mistress comparve all’improvviso, facendomi spaventare. Schioccò le dita e io caddi immediatamente in ginocchio ai suoi piedi. «Sta venendo qui», disse fredda, afferrandomi il viso. «Lui vuole vederti». A quella notizia sentii il mio stomaco annodarsi stretto e il battito del cuore accelerare. «Che cosa vuoi che faccia?», chiesi strusciandomi sul palmo delle sue mani, sperando così di calmarmi. Mi stupivo dei miei stessi sentimenti. Un desiderio animale mi stava dilaniando con le sue unghie affilate, facendomi tremare di eccitazione. Un po’ me ne vergognavo, ma non potevo farne a meno. Da quando si era negato in quel modo così crudele nel suo dungeon, non avevo fatto altro che desiderare David. «Non posso crederci… Tu lo vuoi…», sussurrò Isabel con un’espressione sorpresa. Dannazione, mi ero scoperto. Feci segno di no con la testa, ma lei mi diede uno schiaffo, contrariata. «Dimmelo, Alain. L’idea che David stia venendo qui ti ha eccitato moltissimo, non è così?». C’era una punta di gelosia nella sua voce? «Io voglio soltanto te», mi affrettai a rispondere, anche se era una bugia. «Non è vero. Le tue guance scottano. E scommetto che lì sotto sei già gonfio di eccitazione. Agognavi questo momento da mesi, non è così?» «Sei stata tu a chiedermelo, Mistress», dissi, guardandola colpevole. «Mi hai chiesto di essere perfetto per lui. Mi hai detto di far sì che lui mi desiderasse più di ogni altra cosa al mondo. Quello che mi sta succedendo ora ne è solo la conseguenza…». Lei si morse le labbra, combattuta. «Già», ribatté poi allontanandosi un po’. «Ma mi fa ugualmente un certo effetto… In fondo, David è l’unico tra tutti quelli a cui ti ho concesso per cui tu provi dei sentimenti». «Sentimenti?» «Sì… L’espressione sognante che hai in volto proprio ora è la stessa con cui guardavi me all’inizio della nostra storia».


Deglutii in difficoltà. Non sapevo davvero quel che stavo provando. Ero confuso e spaventato dalle emozioni che scottavano sotto la mia pelle, ma non le comprendevo. Volevo solo rivedere quell’uomo criptico e affascinante che mi aveva negato il piacere, drogandomi di desiderio. Un uomo che in fondo mi ricordava in tutto e per tutto Isabel. Durante il nostro unico incontro il Tuono Rosso aveva strappato qualcosa via da me, così come aveva fatto Isabel sul Münsterbrücke. Qualunque cosa mi avesse rubato, volevo che me la restituisse al più presto. «È perché ti assomiglia così tanto», confessai. «Lui mi piace perché ti assomiglia moltissimo, Isabel». La mia dea fece un sorriso bieco. «Sei proprio uno stupido ragazzino», esclamò. «È ovvio che mi somigli tanto. David è mio fratello». Quelle parole mi trapassarono da parte a parte. Fratello. Non ebbi il tempo di ribattere perché proprio in quel momento il campanello di casa suonò, annunciando l’arrivo di colui che tanto avevo aspettato. Isabel si affrettò ad aprire. La seguii in soggiorno appoggiandomi alla parete, come a cercare sostegno, fiaccato da quel colpo che lei mi aveva appena inferto. Perché mi aveva concesso proprio a suo fratello? E perché doveva farsi perdonare da lui? Io ero la sua merce di scambio, ma per quale peccato? Mi sembrava di impazzire. David entrò in soggiorno. Salutò Isabel con un’occhiata fredda, poi la sua attenzione fu calamitata subito su di me. D’istinto mi lasciai cadere a terra, senza che lui nemmeno me lo chiedesse. «In ginocchio sei così eccitante», esordì con la voce dannatamente calda. Indossava un lungo cappotto nero. Gli stivali di pelle gli arrivavano fino al ginocchio sigillando dei pantaloni aderenti al loro interno. Il suo petto era coperto da un maglione bordeaux. I capelli, spettinati ad arte, erano più rossi di quanto ricordassi. E quel viso… il viso di un angelo. «Sei suo fratello», sussurrai, ancora sconvolto da quella rivelazione. Ero stato uno stupido. Come avevo fatto a non pensarci prima? Ora che erano l’uno di fianco all’altra era fin troppo evidente: gemelli. Così uguali e così diversi. «Bingo», rispose David, mordendosi le labbra. «La cosa ti sconvolge?», mi chiese, mentre si accomodava sul divano. Fece un cenno con la mano, lo stesso che si fa a un cane per richiamarlo a sé. Strisciando sul pavimento, mi


avvicinai fino a sistemarmi a pochi centimetri dalle sue gambe. Isabel gli offrì del vino e poi si sedette sulla poltrona di fronte a noi. David mi accarezzò i capelli con dolcezza. «Hai aspettato a lungo… E immagino che ora tu stia scalpitando là sotto, alla sola idea che ti scopi», esordì, sicuro di sé. «Fammi sentire». Allungò una mano in mezzo alle mie gambe e constatò la durezza del mio sesso. «Come sospettavo», sussurrò. «Valeva la pena resistere. Ho riflettuto parecchio in questi due mesi», continuò poi, rivolgendosi a entrambi. «E voglio che Alain venga a stare da me. Ne ho bisogno». Sussultai, spaventato e sconvolto. D’istinto guardai Isabel e pregai dentro di me che non glielo permettesse. Sì, ero attratto da quell’uomo, ma la sola idea di allontanarmi da Mistress mi metteva addosso una profonda inquietudine. La scrutai implorante. «Questo è escluso», disse lei, dopo attimi interminabili. «Ho bisogno di lui, qui. E poi durante il giorno Alain deve fare la sua vita, andare a lavorare all’università…». David smise di accarezzarmi. I suoi lineamenti si contrassero per la rabbia, ma per qualche motivo decise di tenerla per sé. «Chissà perché immaginavo che mi avresti risposto così. Forse potrei raccontare qualcosa di noi ad Alain, allora». Isabel sussultò nervosa. «Qualcosa del nostro passato». «Non lo farai», disse lei, digrignando i denti. «A quel punto lo perderesti di nuovo». Di che diavolo stavano parlando? «Allora lascia che venga da me ogni fine settimana», insistette lui. «È troppo, non può reggere così tanto». «La corda che stai tirando si sta per spezzare, Isabel». «No, David». Era una conversazione che andava oltre le parole. Riuscivo a percepire la tensione che ci aleggiava intorno. «Lo sai che così non funzionerebbe». David si voltò verso di me e mi guardò come mai aveva fatto prima. Era uno sguardo spaventoso, pieno di odio e rancore. «Due volte al mese. L’intero weekend. È la mia ultima offerta». Isabel sembrava ancora combattuta. «Va bene». Che cos’era quella strana luce che aveva negli occhi? Paura? Angoscia? Tristezza? «A patto che io possa venire con voi».


«Questo non è possibile». «Deve esserlo. Così potrò controllarti. Non mi fido di te, David. Quando sei innamorato fai cose talmente…», si interruppe di colpo. «Cosa, sorellina? Dillo se hai il coraggio». Isabel mi scoccò un’altra occhiata preoccupata. Aveva paura, ma non per se stessa. Temeva per me. «Stai forse provando del rimorso per quello che hai fatto in cerca del mio perdono? In quella specie di cuore che batte ancora nel tuo petto c’è forse spazio per il senso di colpa, adesso? No, non c’è e tu lo sai!». «Ti sbagli». «Allora sentiti in colpa per ciò che hai fatto a me. Tu… sei stata tu a distruggermi, puttana!». Aveva gridato. Il cuore mi schizzò in gola come un missile. «Volevi il mio perdono? Bene, te l’ho concesso, ma Alain adesso è mio!». «David…». Una lacrima argentea solcò il suo viso di porcellana. Isabel piangeva affranta per qualcosa che aveva fatto e che io continuavo a ignorare. «Ti prego, non fare così». «Adesso basta discutere. Ho voglia di scopare», sbottò il Tuono Rosso, alzandosi in piedi. «Non ti affannare, sorellina, non gli farò niente di cui tu ti debba preoccupare, per oggi… Ma ho aspettato abbastanza e ora sono stanco, molto stanco». Mi lanciò un’occhiata severa. «Vai in camera, Alain, e spogliati se non vuoi che ti strappi i vestiti di dosso». Il suo ordine non ammetteva discussioni. «Fa’ quello che ti dice», aggiunse Isabel, asciugandosi la faccia con la manica della camicia. Soffocando la voglia di scappare da quella casa e rifugiarmi da Morgan, andai in camera da letto. Mi spogliai e aspettai David, inginocchiato a terra. Lui arrivò dopo qualche minuto. Chiuse la porta alle sue spalle e si levò subito il maglione, esponendo il torace muscoloso al mio sguardo terrorizzato. Ammirai per la seconda volta il suo misterioso tatuaggio. Come se mi avesse appena letto nel pensiero, David si accarezzò il petto. «Tanto tempo fa, un uomo mi fece leggere una poesia», esordì. «Parlava d’amore, un amore così forte da essere indefinibile, come il colore di un tuono». Si avvicinò a me con fare lascivo. «Eppure io riuscivo a vedere il colore della mia travolgente passione. Era rossa. Un rosso così profondo da impazzire». Mi afferrò il viso con forza. «I tuoi occhi, Alain…», mormorò.


«Sono l’unica cosa di te che non mi fa provare rabbia in questo momento», disse, piegandosi a terra per avvicinare il suo viso al mio. «Perché dovresti provare rabbia nei miei confronti?», mi azzardai a chiedere. Il suo schiaffo arrivò così forte da farmi rimbombare la testa. «Che cosa ti ho già detto a proposito del fare domande?», intimò gelido. «Non farne se non vuoi davvero conoscerne le risposte!». Il dolore si irradiò in tutta la guancia. «E adesso smettila di irritarmi». «Allora…», mormorai, coprendomi il volto con la mano. «Cosa posso fare per non darti nessun altro dispiacere, Master?» «Puoi compiacermi, ragazzino», rispose lui, distendendo la bocca in un sorriso raggelante. «E dimostrarmi tutto il tuo amore». Amore? David si alzò in piedi e mi afferrò la testa, portandola vicino al cavallo dei pantaloni. «Perché per cominciare non mi fai sentire di cosa è capace la tua bocca?». Spalancai gli occhi, disarmato dai suoi repentini sbalzi di umore. Poi, con le mani che tremavano, gli abbassai la zip dei pantaloni e l’orlo dei boxer aderenti, obbediente. Strinsi il suo membro turgido e vellutato tra le dita. Piegato dalla paura e dal desiderio insieme, me lo infilai in bocca e cominciai a succhiarlo. Quante volte avevo desiderato farlo durante quei due mesi di lontananza? Quante volte mi ero masturbato all’idea di vederlo sorridere e ansimare di piacere per me? La realtà però stava distruggendo ogni aspettativa. Lo stavo divorando, possedendolo nella mia bocca come avevo tanto sognato, eppure non riuscivo a gioirne, bloccato dalla paura e dai dubbi. Perché si riferiva a me in quel modo, legandomi a un passato che non conoscevo? Che cosa non dovevo sapere di Isabel? Perché ero solo una pedina sacrificabile nel loro gioco? La sua mano si aggrappò alla mia testa e mi spinse verso il suo ventre con violenza. David ansimò forte e io fui colto da uno spasmo doloroso alla gola che mi costrinse a fuggire immediatamente da quella presa. Arretrai e tossii più volte, cercando di riprendere fiato. Poi alzai lo sguardo verso il suo viso perfetto. Ancora quella strana luce nei suoi occhi… Odio e amore, abbracciati in una morsa letale. «Non azzardarti mai più», ringhiò crudele. «Quando mi fai un pompino voglio che la tua attenzione sia concentrata solo su di me. Stavi pensando ad


altro, non è così?». Mi aveva letto nel pensiero? «Perdonami, Master», mormorai. «Sono solo emozionato», mentii. David sorrise. «Adesso continua. Voglio che la tua lingua si consumi sul mio sesso», disse, spingendo il membro sulla guancia che mi aveva colpito. Ripresi a leccarlo come Andrew mi aveva insegnato, concentrandomi solo su quei movimenti, desideroso di dargli piacere. Il Tuono Rosso cominciò a rilassarsi e così, mentre lo masturbavo, lo guardai farsi conquistare dalla passione. Solo in quel momento anche il mio corpo iniziò a scaldarsi, dimentico di quanto il mio partner potesse rivelarsi crudele. «Alzati», mi ordinò a un tratto, tirandomi per i capelli e allontanandomi bruscamente dal suo sesso. Mi levai in piedi. Le sue labbra si avvicinarono alle mie per fondersi in un bacio mozzafiato. Di nuovo insieme: ecco che stavamo ancora toccando le stelle, scottandoci, mentre le nostre lingue si esploravano l’una avida dell’altra. Questo era il sapore dei baci di David. Bastava solo che ci sfiorassimo e il mio corpo si incendiava per ridursi in cenere subito dopo. Lo temevo, perché sentivo che c’era qualcosa in lui che presto non avrei più potuto controllare ma, allo stesso tempo, lo desideravo profondamente. Mi stava succedendo un’altra volta? Ero stato sconfitto? Ero stato di nuovo catturato nella rete di un amore ineluttabile? No. La mia era solo follia, un’ossessione ingannevole. Il cuore mi sobbalzò nel petto quando la sua mano si chiuse sulla mia virilità, stringendola forte. «Sì, piccolo», mi mormorò all’orecchio, mordendone il lobo. Mi spinse sul letto obbligandomi a mettermi carponi. «Userò solo le mani con te, oggi…». Mi accarezzò i glutei, si soffermò sui segni delle frustate che Isabel mi aveva inferto poche sere prima. «…e la mia bocca». Subito dopo vi passò sopra le labbra, leccando ogni ferita quasi con dolcezza. Ansimai di piacere. David si infilò tra le mie gambe e cominciò a penetrarmi lo sfintere anale con la lingua, provocandomi spasmi in tutto il corpo. «David…», mormorai, sconvolto da quelle sensazioni brucianti. «David…». «Sì, Alain. Di’ il mio nome. Pregami… So che lo vuoi. So che non aspetti altro dal primo momento in cui ci siamo incontrati. Pregami, Alain. Supplicami di penetrarti e di farti mio. Voglio sentire il tuo desiderio scorrermi nelle vene», mi incalzò senza smettere. «Ti… ti supplico. Prendimi, David… prendimi».


Il suo membro mi ferì con un’unica spinta. Urlai di dolore, nonostante fossi ormai abituato a quel genere di rapporto. Il suo sesso era come un fascio incandescente pronto a lacerarmi, a bruciare ogni mia cellula. «Sì… Sì, Alain!», urlò lui, avvinto dal piacere. Mi afferrò i capezzoli e li schiacciò tra le dita mentre mi scopava forte, ansimandomi addosso e tremando. Il suo calore mi investì e le mie braccia cedettero, facendomi inarcare la schiena ancora di più. Ero esausto, stravolto dai miei stessi sentimenti, e David mi stava togliendo il respiro prendendosi il mio corpo come nessuno, a parte Isabel, aveva mai fatto prima. Il Tuono Rosso mi entrava dentro fino a toccarmi l’anima, lambiva il mio cuore con il suono della voce strozzata dal piacere. Sapeva avvolgermi come la terra si stringe sulle radici degli alberi, alimentando la loro stessa vita. Era troppo intenso e troppo bello per essere vero. Le spinte continuarono a susseguirsi e il dolore si intrecciò inesorabile al piacere più perverso. «Ti sto per riempire di me», mi sussurrò lui all’orecchio, baciandomi languido il collo. «Non riesco a resistere. Sei pronto ad accogliermi?» «Sì, Master», dissi in un soffio. David si sistemò meglio e mi sollevò in modo da far aderire la mia schiena al suo petto. Il dolore diventò insopportabile. «Master… Così fa male…», mormorai con voce spezzata. «A me invece fa così bene». Un altro colpo, così secco da farmi venire voglia di urlare. «Ti supplico…», rantolai. La sua mano si chiuse sul mio sesso all’istante e iniziò a masturbarlo. «Vieni con me, Alain», disse, mordendomi la guancia che bruciava ancora per il suo schiaffo. «Non ce la faccio». Mi stava sfinendo e, per quanto fossi eccitato, il mio corpo sembrava non volersi lasciare andare. «Sì che ce la fai. Nessuno può resistere al mio tocco…». Aumentò il ritmo, l’eccitazione montò come un’onda in piena e contro ogni previsione raggiunsi l’apice, venendo tra le sue dita, nonostante il dolore. Gridai, estasiato, abbracciato a quel diavolo travestito da angelo. «Voglio che tu mi ami», mi sussurrò lui, afferrandomi per la vita e bagnandomi del mio seme, mentre mi feriva con un ultimo, intenso colpo. Il suo orgasmo mi esplose dentro come un temporale, sconquassandomi sia il


corpo che il cuore. Amore… Parlava d’amore… Mi accasciai sul letto privo di forze non appena David si sfilò via da me. Ero distrutto e appagato più che mai. Il Tuono Rosso invece mi guardava ancora pieno di desiderio. Così, nudo alla fredda luce della luna, sembrava davvero un essere divino. «Hai capito quello che ti ho detto?», mi chiese serio. Gli restituii uno sguardo esausto. «Vuoi che io mi arrenda, Master. La stessa cosa che mi ha chiesto Isabel all’inizio della nostra storia, non è così?». Lui fece segno di no. «Ti sbagli, Alain. Io non voglio solo che tu ti arrenda al mio potere… Io desidero che tu mi ami». Ancora quell’assurda richiesta. «David… Io sono innamorato di Isabel…». Fuoco. Nei suoi occhi scoppiò un incendio e per un attimo temetti una reazione violenta. Qualcosa per mia fortuna lo trattenne. Aspettò qualche secondo in silenzio, poi fece un bieco sorriso. «Forse adesso è così. Ma presto ti farò cambiare idea», sentenziò, più deciso che mai. «Isabel… lei non ha più un cuore con cui amarti, mentre io… io ti farò capire cosa significhi davvero amare». Mi voltò le spalle e, dopo qualche minuto, sentii la porta di casa sbattere. Se ne era andato, lasciandosi dietro quella minaccia. Una minaccia che presto mi sarebbe costata la vita.

Zurigo, settembre 2019 Il tempo trascorse fin troppo velocemente. Il mio cuore continuava a strisciare nell’oscurità, guidato dalla volontà di appagare i desideri delle due sole stelle che ormai illuminavano il mio cielo: Isabel e David. Ero diventato l’ombra di me stesso, pur senza accorgermene. Bastava che uno dei due fratelli mi toccasse o dicesse di amarmi che tutto diventava improvvisamente facile. Eppure i primi segni di cedimento si erano già palesati. Spesso la notte mi svegliavo all’improvviso sentendomi soffocare. Il senso di vuoto che mi coglieva era così forte da mozzarmi il fiato, ma si


dissolveva come fumo nel vento non appena uno dei due mi rassicurava o mi regalava la propria attenzione. Nonostante stessi cercando di sostenere quel tipo di vita, sprofondavo inesorabilmente, ogni giorno di più, in un pozzo senza fine. Come pattuito, ogni secondo e ultimo weekend del mese una macchina nera attendeva nel vialetto di casa per portare me e Isabel nella tela del ragno d’argento, la dimora in cui David, per tre giorni consecutivi, possedeva il mio corpo e la mia anima. All’inizio il Tuono Rosso mi aveva regalato emozioni meravigliose, educandomi con pazienza al tipo di dolore e di piacere che più lo eccitava. Come creta, mi ero lasciato plasmare una seconda volta, senza temerne le inevitabili conseguenze. Ero stato legato, frustato, torturato con pinze e dilatatori. Avevo vissuto in una gabbia di ferro appesa al soffitto da cui il mio severo padrone mi aveva liberato solo per scoparmi senza pietà, negandomi però l’orgasmo. Avevo mangiato e bevuto dalla sua bocca, avevo imparato a toccarlo e a leccarlo come più lui gradiva. Pronunciavo le parole che lui voleva sentirsi dire, supplicandolo di infliggermi sempre più dolore, ripetendo il suo nome come un mantra miracoloso. Spesso, dopo aver fatto sesso, ascoltavo le sue considerazioni sull’amore e la passione, incantato e spaventato nello stesso tempo. Temevo e desideravo il suo abbraccio, lo sognavo e mi masturbavo immaginando il suo corpo sul mio finché la macchina nera non mi riportava nella tana del ragno perché mi divorasse ancora e ancora. In pochi mesi ero riuscito a soddisfare tutte le sue richieste, eccetto una: amarlo. Io lo desideravo, annegavo nel piacere più perverso quando mi faceva suo. Non potevo resistere al suo corpo che mi possedeva, alla sua bocca che lambiva ogni centimetro della mia pelle, ferendola senza pietà, ma il mio cuore… il mio cuore era chiuso a chiave in una gabbia che solo Isabel poteva aprire. Quella era l’unica certezza che mi era rimasta. Quando lo confessai a David, iniziò il mio inferno. Dopo aver volato sulle cime più alte del paradiso, venni travolto dalle fiamme della bolgia oscura. L’impazienza e la frustrazione del Tuono Rosso divennero pericolose. Con l’arrivo dell’estate i nostri rapporti cominciarono a essere sempre più violenti, malinconici, accompagnati da grida cariche di rancore e rabbia più cieca che mai. David se la prendeva con me perché non ero capace di dargli quello che


voleva più di tutto. Ogni volta che mi rifiutavo di dire che lo amavo, dopo avermi insultato, picchiato e umiliato, mi scopava senza pietà negandomi il piacere. Poi mi stringeva tra le braccia come se fossi la cosa più preziosa che possedeva, implorandomi di innamorarmi di lui come mi ero innamorato di sua sorella. Il mio silenzio a quel punto lo faceva infuriare ancora di più. Mi legava, mi prendeva di nuovo e poi scoppiava dentro di me liberando frustrazione, lacrime e ira. Di settimana in settimana, il suo sguardo era diventato febbrile, la sua ossessione per me era cresciuta come l’edera tra le rocce e io non ne capivo ancora il perché. Poi arrivò la nostra ultima notte insieme. E allora la verità mi travolse, spezzando il mio cuore in mille pezzi. Come sempre anche quella sera le braccia mi erano state bloccate sopra la testa, con i moschettoni collegati a due delle lunghe catene che pendevano dal soffitto della camera blu. Indossavo una specie di costume di lattice che mi copriva il torace disegnando la tela di un ragno. Dalla cinta in giù ero nudo e aspettavo in silenzio l’arrivo del mio carnefice, pronto a soddisfare le sue voglie ma non a cedere ai suoi sentimenti. Dopo un’attesa infinita li sentii arrivare alla porta: tutti e due, Isabel e David. Scrutai la mia dea e capii immediatamente che era preoccupata come non mai. Quando David chiuse la porta, l’aria nella stanza divenne subito elettrica. Lui cominciò a baciarmi il collo, rabbioso. «Ho deciso che Isabel resterà a guardarci questa notte», esordì accarezzandomi con il fiato bollente. «Perché riuscirò a farti dire che mi ami proprio al suo cospetto». Lo guardai negli occhi esterrefatto e per un attimo mi specchiai nella sua anima tormentata, toccandone la fatale ossessione. Al mio freddo silenzio, David si sciolse dall’abbraccio e andò verso gli armadi di legno scuro. Aprì una delle ante e afferrò la lunga frusta di cuoio. «Mi sembra chiaro che non hai ancora capito», sbottò, facendola schioccare nell’aria. Lo guardai inerme ma per nulla impaurito. Potevo sopportare il dolore e lui lo sapeva. Perché quindi mi minacciava? David si inginocchiò di fronte a me, poi circondò il mio bacino con la frusta e iniziò a baciarmi il sesso, fremente. Gemetti inarcando la schiena e strattonando le catene sopra la mia testa. Cominciò a masturbarmi così forte da provocarmi un cocente fastidio. Cercai di allontanarmi per diminuire un


poco la pressione sul glande, ma la frusta mi imprigionava stretto nella sua bocca, impedendomi di arretrare. Quando una lacrima mi solcò il viso Isabel richiamò il fratello, interrompendo quella tortura. David fulminò la sorella con lo sguardo, poi si alzò in piedi e mi colpì il petto con la frusta. Il colpo bruciò come acido, facendomi tremare dalla testa ai piedi. «La passione domina… La ragione obbedisce…», sussurrò, sfiorandomi il cuore. «Forza, Alain… Dimmelo…», mi intimò a due centimetri dalla mia bocca. «Dimmi, perché non mi ami più?». Quella frase mi riportò bruscamente alla realtà. Di che cosa stava parlando adesso? «David, io… io non ti ho mai amato», dissi, mordendomi le labbra, conscio che mi avrebbe picchiato ancora. Altri due colpi di frusta si abbatterono su di me, ferendomi questa volta la schiena. No, non era come al solito, quando David seppur con rabbia dosava i colpi in modo da non farmi seriamente del male. Questa volta era diverso. Voleva distruggermi. Iniziai ad avere paura. «Non è vero!». Le sue pupille erano così dilatate da nascondere l’azzurro dei magnifici occhi. «Sei un bugiardo, figlio di puttana!», disse per poi baciarmi con passione. «Hai detto che mi amavi. Lo hai fatto. Mi hai confessato che io ero il tuo preferito, tanto tempo fa. Hai detto che non amavi mia sorella, ma solo me». Lo guardai spaventato e feci segno di no con la testa. «David, che cosa stai dicendo, non capisco…». Lui si portò dietro le mie spalle e, incurante delle ferite che mi aveva appena inferto, cominciò a scoparmi senza pietà. Lasciò cadere la frusta ai miei piedi, poi mi afferrò i glutei affondandomi le unghie nella pelle e attirandomi verso il suo ventre con rabbia. Gridai per il dolore ma lui non accennò a smettere, anzi aumentò la foga, mordendomi le spalle e la schiena, poi leccando le abrasioni che mi aveva appena provocato. Il bruciore divenne insopportabile. Ansimai in preda al panico e guardai Isabel per chiederle aiuto. La sua espressione assente mi trafisse il cuore. Era lì, seduta sul letto ad assistere a quella scena terribile, ma non sarebbe intervenuta, perché la sua mente era distante, lontana da me, da David e da tutto il resto. «David… Fermati!», urlai sconvolto e proprio in quel momento il Tuono Rosso venne dentro di me, bagnandomi di un piacere intrecciato inesorabilmente alla colpa. Il suo seme mi colò tra le gambe caldo come lava, così come le lacrime sul mio viso. David restò aggrappato a me per un po’, in


quell’abbraccio dal sapore amaro e ingiusto, con il respiro spezzato e il cuore che gli batteva forte nel petto. Poi tornò di fronte a me e mi afferrò il viso tra le mani. Ancora quell’odio mascherato da amore… Era follia, pura follia. «Tu mi desideri, Alain, vero?», disse piano, alitando sulle mie labbra. «Sì», risposi sinceramente, nonostante il dolore mi stesse dilaniando. «Mi vuoi?» «Sì, tanto. E tu lo sai. Perché non ti basta?», balbettai incerto. «Perché io ti amo, Victor». Un nome. Poche lettere. Una ferita che spacca il cuore. «Come mi hai chiamato?». Gli occhi di David si volsero verso l’alto. Scoppiò a ridere come impazzito, senza degnarmi di una risposta. Lo guardai piegarsi dalle risate per poi strofinarsi le palpebre in preda al pianto. Non era più in sé. «Dannazione, Victor… Perché non riesci ad ammetterlo? È perché Isabel ci sta guardando? È per questo che continui a negare il tuo amore per me?». Raccolse la frusta da terra e senza aspettare oltre riprese a colpirmi. Gridai sconvolto ma lui non si fermò, finché le urla di Isabel non divennero troppo acute. «Ora basta, David!». Il fratello congelò i movimenti a mezz’aria e la guardò come in trance. «Allora è tutto vero… Non mi hai mentito, sorellina. Alain non sa nulla di noi, della nostra storia…», le disse poi con voce cupa, pulendo il sudore misto al mio sangue di cui era bagnata la lunga striscia di cuoio. Isabel fece segno di no, spaventata. Strinse le labbra in una smorfia di dolore, ma fu solo per un attimo. Subito dopo le si dipinse in viso un sorriso agghiacciante e poi, finalmente, i suoi occhi si spostarono su di me. «Certo che Alain non sa nulla. Perché questa è la mia vendetta», sentenziò crudele. «Vendetta?», sussurrai. Lei mi ignorò, rivolgendosi solo al fratello. «Alain è la mia vendetta, David, contro colui che ti ha portato via da me!». «Maledetta!», gridò David, completamente fuori di sé. «Victor ci ha lasciato per colpa tua!», disse puntandole il manico della frusta addosso. Poi si rivolse a me. «Sì, perché ero io a dover stare con te, amore mio». Mi abbracciò forte e le sue lacrime mi bagnarono il volto. Ero sempre più terrorizzato. «Ma se adesso dirai che mi ami, tutto andrà per il meglio, lo sai?». Mi prese il viso tra le mani e cominciò a baciarlo dappertutto, fuori controllo. «Dimmi che mi


ami, Victor, e io mi inginocchierò di fronte a te. Ti darò tutto, tutto quanto, amore mio». Mi scostai con forza, sottraendomi a quei baci insopportabili mentre il nome di mio padre si stringeva attorno alla mia gola come un laccio soffocante. «Io non sono Victor», dissi duramente, inquieto. «E non ti amo, né ti amerò mai». Gli occhi di David si spalancarono, oscuri come due finestre sull’oblio. Poi il suo pugno mi colpì in piena faccia, spaccandomi il labbro. Persi l’equilibrio per qualche secondo, tramortito e sorretto solo dalle catene. La ferita appena inferta bruciava come le fiamme dell’inferno. Respirai a fondo, cercando di sollevarmi, di resistere, e con le ultime forze rimaste mi rimisi in piedi per affrontare ancora il mio carnefice. David ansimava, le iridi azzurre inquinate dalla pazzia. «Di’ che mi ami», ripeté ostinato. In un improvviso atto di ribellione gli sputai in volto. La mia saliva, mischiata al sangue, gli sporcò il viso. Un altro pugno arrivò con violenza, questa volta alle costole. Il respiro mi si mozzò e persi di nuovo l’equilibrio. «Di’ che mi ami, bastardo!». Un terzo colpo, poi un quarto. «Lui non ti amerà mai», gridò Isabel inutilmente. Anche lei non era più in sé. Erano entrambi persi, risucchiati in un mondo irraggiungibile. Forse solo Victor, il loro Victor avrebbe potuto fermarli. Mio padre? Le percosse divennero feroci. Non riuscivo più né a pensare né a respirare. Le parole di Isabel, affilate come una lama, mi ferivano il cuore mentre la frusta si accaniva sul mio corpo ancora e ancora. Alain è la mia vendetta… La bocca mi si riempì di sangue. Tossii. Il sapore del ferro mi diede la nausea. Proprio in quel momento il mio carnefice si fermò per riprendere fiato e lasciò cadere a terra la frusta. «Io ti amo, Victor», disse David all’uomo che credeva io fossi. «Non posso farne a meno». Poi ricominciò. Il Tuono Rosso mi colpì di nuovo il torace, facendomi vomitare l’aria che avevo appena respirato. Il suo sguardo incrociò il mio un’ultima volta. Sentii una strana connessione crearsi tra noi, per un istante. E allora capii. Voleva che la mia anima si consumasse almeno quanto la sua. In fondo, eravamo entrambi vittime del nostro folle amore. Ancora… Inarrestabile…


Non ero nemmeno sicuro di provare piÚ dolore. Avevo raggiunto l’apice. Isabel non mi avrebbe salvato. E David mi avrebbe ucciso.


Capitolo 12 Ricominciare da zero

Zurigo, dicembre 2019

Credevo nell’amore. Credevo in una forza inarrestabile, inconsapevole del dolore che porta con sé, come lo è il fiume quando scava il suo letto nella roccia. Mi sbagliavo. L’amore è un avido parassita alla continua ricerca di un cuore a cui attaccarsi. E tu lo sapevi, Isabel. Hai fatto irruzione nella mia vita come una furia, senza chiedere il permesso! Mi hai piegato, umiliato, trasformato, mentre io tentavo solo di raggiungerti, accecato dal desiderio. Avrei dovuto capire, accorgermi per tempo del mostro che si nascondeva dietro le tue iridi celesti. Sarei dovuto scappare via prima di perdere me stesso… Ma non si può decidere quando smettere di amare. Quante volte ancora intendi spezzarmi il cuore, Isabel? Forse tutta la nostra storia è stata un’illusione, un incubo che continuerà a rubarmi i sogni lasciando solo il vuoto dentro di me. Non importa ormai… Nelle parole “ti amo” risiedono sentimenti travolgenti… è bastato dirle una volta soltanto perché la mia vita cambiasse per sempre. Termino il mio lungo racconto così, con il doloroso ricordo di me abbracciato all’uomo il cui amore stava per uccidermi. Sono le nove di sera e il turno di Lucinda doveva finire alle otto. Lei è ancora seduta di fronte a me ma non riesce più a guardarmi in faccia. Tiene gli occhi fissi sul copriletto verde mare e si tortura le mani nervosa. «Allora…», le dico crudele. «Sei ancora convinta di volermi frequentare al di fuori di questa clinica, Cinda?». Si morde le labbra e arrossisce, incapace di darmi una risposta. «Che sorpresa…», aggiungo dopo qualche minuto di silenzio. «Sei


sconvolta, vedo». Tiro le gambe fuori da sotto le lenzuola e mi alzo. Nonostante sia ormai guarito del tutto, mi sembra che ogni parte del mio corpo stia urlando di dolore. «Puoi andartene se vuoi», le suggerisco, volgendole le spalle. Guardo al di là della finestra: il giardino è immerso nell’oscurità della sera: si arrende alle ombre, proprio come io mi sono arreso alle mani dei miei aguzzini. «È… è successo davvero?». Le trema la voce. Mi volto un po’ sorpreso da quella domanda. «Non credi a quello che ti ho appena raccontato?», le chiedo, inarcando un sopracciglio. Finalmente ha il coraggio di sostenere il mio sguardo. «Questa storia mi sembra così crudele… e così assurda». Aspetto qualche secondo, cercando di capire quale prova posso darle per convincerla. Poi mi viene in mente la soluzione e comincio a slacciare i bottoni del pigiama. «Guardami», le ordino, mostrandole sia il tatuaggio che i segni che ho sul petto. «E questo non è niente…». I suoi occhi si riempiono di lacrime. Le sfugge un singhiozzo e si copre la bocca con le mani come se se ne vergognasse. «Ti prego, vattene via», le dico di nuovo, riallacciandomi il pigiama e chiudendo così quella porta sul passato. Cinda sta per dire qualcosa. È combattuta, sconvolta e forse sta cercando di resistere al suo stesso sgomento, ma dopo qualche esitazione arretra di un passo scuotendo la testa. Mi volto ancora verso la finestra, mentre sento i suoi passi che si allontanano. Lo sapevo. Se non vuole soccombere, la luce deve sfuggire alle ombre. Vengo dimesso tre giorni prima di Natale. Sarò costretto a seguire una lunga psicoterapia ma al di là delle brutte cicatrici, il mio corpo è di nuovo in salute. Mamma mi accompagna a casa. La mia vecchia casa. «Morgan e Giselle hanno chiamato tante volte in questi mesi, sai?», dice entrando in salotto. «E anche un certo Andrew, in università. Chi è? Un tuo vecchio collega di medicina, forse?». La sua domanda mi fa sorridere. No, mamma, Andrew è l’uomo che mi ha insegnato come scopare con altri uomini. Vorresti conoscerlo? «È un mio amico», le rispondo soltanto, sprofondando nel divano. «Vuoi mangiare qualcosa?».


Faccio segno di no. «Quando torna papà?», le chiedo poi, con il cuore che mi si stringe dolorosamente nel petto. «Non lo so», mi risponde fredda. «Fa orari tremendi in quest’ultimo periodo». «Forse dovrei tornare a stare da Morgan», dico più a me stesso che a lei. «Non se ne parla nemmeno. Tuo padre è stato molto in pena per te. Credo che questo… incidente lo abbia cambiato. Si è pentito delle cose che ti ha detto». Ma davvero? Niente al mondo poteva scalfire il cuore di pietra di Victor Bercher. Victor… il mio Victor! «Vado in camera a riposare un po’», sussurro, rialzandomi in piedi, con la voce di David che tuona nella mia testa. Una volta disteso sul letto della mia vecchia stanza, scoppio in un pianto straziante. Il mio mondo è crollato come un castello di carte al soffio di un bambino. Che cosa farò adesso? Come vivrò senza Isabel? «Alain, come ti senti?». Papà! È la sua voce o sto sognando? Spalanco le palpebre all’istante e incontro gli occhi di mio padre per la prima volta dopo molto tempo. Il mio stomaco si contrae dolorosamente. Non è cambiato di una virgola. E mi sembra sempre irraggiungibile, per quanto si trovi a pochi passi da me. «Bene», gli rispondo freddo, e i ricordi tornano a travolgermi. Forse era solo follia… Eppure David urlava il nome di Victor, mentre malediceva il suo amore perduto. Sia lui che Isabel mi avevano detto diverse volte che io ricordavo loro qualcuno. Qualcuno che entrambi avevano molto amato. E io ero la copia vivente di mio padre, tranne che per il colore degli occhi. I miei erano color dell’ambra, un’eredità della famiglia Faije. Ma come poteva il dottor Victor Bercher essere in qualche modo collegato ai fratelli Shulze? Avrei mai scoperto tutta la verità? «Sono venuto ogni giorno in clinica», continua mio padre scrutandomi attento, «ma il dottor Smith non mi ha permesso di vederti. So che sei stato tu a chiederlo…». Le sue ultime parole sono difficili da digerire. «Quando inizierai la terapia con la dottoressa Hallen?», chiede poi serio. Si appoggia allo stipite della porta e io lo osservo attentamente. I folti capelli castani sono divisi da una riga laterale, i lineamenti delicati del viso induriti solo da uno scuro velo di barba. Gli occhi chiarissimi brillano sempre come lame


taglienti. E ha ancora un fisico statuario… Da fare invidia ai suoi coetanei. «La settimana prossima», rispondo infine. «Perché non vuoi dirmi chi è il responsabile di tutto ciò che ti è successo?». Non fare domande la cui risposta potrebbe distruggerti, Alain. «Ti importerebbe?», lo provoco di proposito. Le sue labbra si stringono in una linea dura. Vorrebbe sbraitarmi contro ma non osa farlo. «Certo che mi importa», risponde secco, e le sue guance si colorano di rosso. Sì, durante i mesi di reclusione nella clinica privata Hotch avevo chiesto espressamente di non ricevere sue visite. Non potevo nemmeno sopportare l’idea di guardarlo negli occhi. Mi ero ripromesso di chiedergli spiegazioni, di sputargli addosso il mio rancore e di pretendere la verità su tutta quella faccenda, eppure… Ora che Victor è a pochi passi da me non riesco nemmeno a parlargli. «Non ricordo niente dell’aggressione», mento voltandomi dalla parte opposta. Sono solo un codardo. Non posso affrontarlo adesso. «Smettetela di chiedermelo». Lo sento sospirare. «Non posso farlo, Alain. Hai rischiato la vita e…». Si interrompe per un attimo, in difficoltà. «Un taxi ti ha abbandonato davanti al pronto soccorso nel cuore della notte, tre mesi fa. Una costola rotta ti aveva perforato la pleura, il polmone era collassato, non respiravi più. Perdevi sangue. C’erano ferite dappertutto… La tua faccia era così gonfia che non ti si riconosceva. E poi…». «Poi?» «Hanno trovato segni di violenza sessuale». Deglutisco, ma ho la bocca completamente secca. Mio padre abbassa lo sguardo e si morde le labbra sottili. «Perché mi stai dicendo tutte queste cose?», gli domando, cercando di controllare tutto il dolore che le sue parole mi stanno provocando. «Lo faccio solo perché voglio aiutarti. Sei mio figlio, Alain». «Già… proprio come quando ho lasciato la specializzazione», gli rinfaccio serrando i pugni. « In quel momento non ero più tuo figlio ma solo la causa della tua vergogna, giusto?». Il rancore, tenuto a freno troppo a lungo, sta per esplodere. Gli occhi di papà si riducono a una fessura. Lo voglio provocare


ma lui, contro ogni aspettativa, sembra essere davvero pronto a sopportare quelle accuse, e molto altro ancora. Che sia davvero cambiato, come sosteneva mamma? «Quei discorsi… Ciò che ti ho detto quella mattina non ha più valore di fronte alla sofferenza che hai patito. Ti prego parla con me, adesso. Dimmi quello che ti è successo durante l’anno in cui siamo stati così lontani. Voglio essere parte della tua vita, Alain. Ricominciare da zero». Mi sembra di sognare. Sono le parole che aspettavo di sentirmi dire da una vita. Solo che il baratro che ci separa in questo momento è troppo profondo per poterlo ignorare. Non posso cedere alla sua offerta. «Come ti ho detto poco fa, non ricordo niente dell’incidente», insisto voltandomi dalla parte opposta, ansioso di porre fine alla conversazione. «Ok», dice lui freddamente, dopo qualche secondo di silenzio. «Forse non è ancora arrivato il momento giusto per noi. Adesso vieni a mangiare. Mi piacerebbe parlarti di un caso clinico che mi sta dando molto da pensare in questi giorni. Che ne dici?». Cosa? E da quando vuole discutere con me dei suoi casi? «Non mi farai altre domande su quello che mi è successo?», chiedo sospettoso. Victor scuote la testa. «Allora va bene». Ceniamo tutti e tre insieme come facevamo prima della morte di Thommy e della mia fuga all’ETH. Prima che incontrassi Isabel e David. Ho di nuovo appetito e mangio normalmente. Nessuno mi lancia bocconi dal tavolo, non sono inginocchiato a terra e non guardo adorante verso l’alto sperando di essere notato. Sto seduto composto e scelgo cosa voglio. È tutto talmente diverso. Papà mi espone il suo caso clinico. Lo ascolto, meravigliato. All’improvviso vorrei correre in ospedale e incontrare la ragazza adolescente di cui mi sta raccontando per seguire i suoi progressi, insieme a lui. «Ho parlato con Handelson», dice Victor, dopo aver fatto le ultime considerazioni sul caso. «Non ti devi preoccupare. Non gli ho detto nulla riguardo al dottorato. L’ho solo avvisato che avresti avuto bisogno di riposare qualche settimana in più, prima di riprendere a frequentare il laboratorio». Sono sempre più sorpreso. Chi è l’uomo seduto alla mia destra? Ha la stessa faccia di mio padre, ma non riconosco più il bastardo autoritario e severo che


avevo lasciato quasi due anni fa. «Non credo che riprenderò il dottorato», dico tutto d’un fiato, provando un sordo dolore al centro del petto. Victor annuisce, per niente stupito. «Lo immaginavo. Preferisci che sia io a occuparmene? Posso parlare con Handelson se vuoi e sistemare le cose». «Sì», dico in un soffio. Non posso tornare. Se rientrassi in quel posto soccomberei di nuovo a Isabel. Il cuore mi si stringe dolorosamente. Né lei né David mi hanno cercato durante il ricovero. Mi hanno quasi ucciso, eppure non hanno mosso un dito per venirmi a trovare. Per sapere se ero ancora vivo. Forse avevano paura di incontrare mio padre? È tutto così insopportabile. Ho bisogno di parlarne con qualcuno, ma chi? Forse Andrew potrebbe spiegarmi che cosa è successo in questi ultimi mesi di assenza forzata, ma non ho alcun modo per contattarlo. Che cosa devo fare? «Bene, ora torna a riposare», mi suggerisce papà. Mi alzo controvoglia e salgo in camera mia. Non appena tutte le luci in casa si spengono porto istintivamente le mani al mio sesso e lo stringo. Inizio a masturbarmi, prima piano, quasi a prolungare la mia stessa agonia. Poi più forte, sfinendomi, mentre le immagini di Isabel, David, Eva e Andrew sfilano nella mia testa, minacciose come ombre di un lontano e incredibile passato, lo stesso passato che stava per uccidermi ma che non voglio per niente al mondo lasciarmi alle spalle. Vengo con un orgasmo insoddisfacente, che riesce solo a sfogare un po’ la mia rabbia, ma non il mio desiderio. Non sono più abituato a stare sdraiato nel letto senza essere prima picchiato o aver fatto sesso per dare piacere a qualcun altro. La mia mente è ancora troppo avvelenata perché possa riposare serenamente. Mi addormento solo dopo aver preso i calmanti prescritti dal dottor Smith.

Zurigo, dicembre 2019 «Buon Natale in ritardo, Alain!».


La voce di Morgan mi riscuote dal torpore. Il libro di patologia è aperto da più di un’ora sulle mie gambe, eppure non ne ho letto nemmeno una riga. Come ogni pomeriggio da quando sono tornato a casa continuo a fare fatica a mantenere la concentrazione su qualcosa che non siano i miei ricordi. Morgan si accomoda sul divano di fianco alla poltrona in cui nel corso della mattinata sono sprofondato sempre di più. Ha con sé un sacchetto luccicante. «La tua casa è davvero pazzesca», commenta sorridente, guardandosi attorno. Si toglie il cappello di lana verde e mette in mostra un nuovo taglio di capelli. «Hai visto che figata?», dice indicandosi la testa. «Sono le mie iniziali disegnate. Ci sta, vero?». Annuisco debolmente. Sono felice di vederlo, ma una parte di me si vergogna da morire. Lui è l’unico ad aver visto le mie cicatrici, oltre ai dottori della clinica Hotch. È la sola persona che sa che ero sottomesso a una donna. No, mi sbaglio. Morgan non è l’unico. Ora anche Lucinda Warren sa tutta la verità. Cinda… «Doveva venire anche Giselle, ma ieri ha cominciato a starnutire e oggi ha la febbre alta. Ti porto i suoi saluti». «Sei stato gentile», dico imbarazzato. «Ma non c’era bisogno che venissi. Sarei passato io in laboratorio nei prossimi giorni», mento. Lui alza un sopracciglio, incredulo. «Come stai, adesso?», domanda gentile. «Meglio. Mi sono preso qualche settimana in più solo per riposarmi prima di riprendere…». «Handelson ci ha comunicato la tua rinuncia al dottorato. Volevo sentirtelo dire di persona», mi interrompe subito. È serio e anche un po’ triste. Faccio segno di sì con la testa. «Mi dispiace, Morgan. Non me la sento di continuare, ma non posso spiegartene i motivi». «Che ti posso dire, Alain. Ormai sono quasi certo che anche se ti chiedessi delle spiegazioni tu non me le daresti, giusto?». «In parte», rispondo sospirando. «Ma in fondo credo che tu sappia già quello che mi è successo, non è così?». Morgan si morde nervosamente le labbra carnose. «La tua relazione», mormora freddo. «È a causa di quel rapporto malato che hai rischiato la vita, vero? E per quel poco che ho capito sembra che tu non abbia nessuna intenzione di rivelare il nome della tua aguzzina a nessuno». Le sue parole mi colpiscono dritte al cuore, come i pugni di David. «Ho detto a mio padre e ai dottori che non ricordo niente. Non voglio e non


posso sporgere denuncia perché quello che è successo è anche colpa mia». «Cosa?» «I miei rapporti… “malati”… erano del tutto consenzienti, Morgan. Io stesso li ho cercati… Li ho provocati». Lui scuote la testa. «Ok, va bene. Un po’ di perversione posso anche accettarla. Ma a un certo punto avrai capito che ti stavano ammazzando? Dio, Alain… c’è un limite a tutto!». «Forse hai ragione… ma devi capire che nessun limite è invalicabile se è la persona che ami a importi di superarlo». Le parole dello schiavo perfetto. Sono addestrato, ormai. «Alain, che diavolo stai dicendo? Una persona che ti ama davvero non ti avrebbe mai chiesto di superare quel tipo di limiti. Credimi… Non capisco come tu possa perdonare questa donna in nome di un amore che non esiste!». «Di che tipo di amore stai parlando?». La mia domanda lo confonde. «No, Morgan, non puoi rispondermi perché non hai mai amato nel modo totalizzante e opprimente in cui ho amato io. Non puoi capirmi…». Restiamo in silenzio per qualche minuto, entrambi turbati. Poi lui scuote la testa e mi allunga il pacchetto rosso e blu. «Senti, adesso smettiamola con questi discorsi. Piuttosto, apri il mio regalo. Sono giorni che me lo trascino avanti e indietro a lavoro», dice imbarazzato per cambiare argomento. Lo scarto con le mani che tremano. È un libro di poesie. Osservo la copertina bordeaux e le scritte dorate sul frontespizio. «Martin Brown. Un regalo curioso…», dico, un po’ sorpreso. «No, non lo è invece. Ha scritto molte poesie dedicate all’amore, un amore tormentato, soffocante e impietoso». «Tu leggi poesie?», lo prendo in giro, nonostante abbia un nodo alla gola. «Mmm, non proprio… ok, lo confesso… è stata mia madre a consigliarmi questo autore, andava in voga tanti anni fa, ma ho letto qualche poesia e devo dirti che ne sono rimasto affascinato. In fondo, per certi versi mi ha ricordato questa tua strana e misteriosa storia che ti ha fatto finire in un letto d’ospedale». Sorrido debolmente mentre i ricordi riaffiorano violenti. Isabel… David… e quel maledetto ultimo nome che più mi tormenta… Victor… «Grazie», sussurro, colto da un conato. «Ehi… Stai bene?».


In quel momento sopraggiunge mia madre con il vassoio del tè. «Signora Bercher, Alain non si sente bene!». «Tesoro!». Lei lascia tutto sul tavolino di vetro di fronte al divano e mi abbraccia forte. Sto tremando. «È tutto ok», mormoro, mentre una goccia di sudore freddo mi scivola lenta sul collo. «Ho solo un capogiro», mento. Mia madre mi stringe ancora di più. Ha così paura che possa succedermi qualcos’altro da farmi quasi pena. «Credo di avere bisogno di distendermi», mi affretto a dire, staccandomi da lei e specchiandomi negli occhi intensi di Morgan. Lui si alza, imbarazzato e un po’ triste. «Certamente… Ecco, io… io ti verrò a trovare presto e con Giselle al seguito, promesso». Annuisco. Anche lui mi abbraccia ma con estrema delicatezza, forse per paura di farmi male. Sono una statua di cristallo, proprio come mi definiva Isabel. Mamma si appresta ad accompagnarlo fuori, quando lui si ferma di scatto dandosi una manata sulla fronte. «Che stupido, quasi mi dimenticavo! Ha telefonato qualcuno per te in laboratorio, per chiedere come stavi, circa due settimane fa», dice, frugando nella tasca della giacca a vento. «Ecco. Mi ha detto di essere un tuo amico e ha lasciato questo numero affinché potessi richiamarlo una volta che ti fossi ristabilito». Afferro il post-it giallo dalle ruvide mani di Morgan e leggo un nome in cui speravo di imbattermi da settimane: Andrew. «Grazie, Morgan», sussurro senza nascondere l’elettrizzante eccitazione che mi ha appena riempito il cuore. Mi rifugio in camera da letto con il battito accelerato. Lascio il libro di Morgan sulla scrivania e afferro il telefono, febbricitante. Compongo il numero senza sapere nemmeno cosa dire, sconvolto da un vortice di emozioni. Ho bisogno di parlare con l’unica persona che può aiutarmi. Schiavo come me. Sottomesso come lo sono io. «Pronto?». La sua voce! È dolce e così rassicurante. Aspetto qualche secondo prima di rispondere, troppo impegnato a calmarmi. «Pronto, chi parla?», ripete Andrew. «Andrew, sono io. Alain», dico infine.


Dall’altra parte della cornetta sento un sospiro di sollievo. «Alain, finalmente! Non sai quanto sono stato in pena… Eva ha accennato a un brutto incidente, ma non sapevo nemmeno come cercarti per sapere come stavi… Poi ho pensato di chiamare direttamente all’università. Sono passati mesi e io…». Stringo il ricevitore come se stessi toccando le sue mani. «Ho bisogno di vederti, Andrew», sbotto, colto da un’urgenza improvvisa. «Alain, io…». «Ti prego, Andrew. Ne ho davvero bisogno. Ho bisogno di parlare di tutto quello che mi è successo e capire cosa fare. Non c’è nessuno con cui possa confrontarmi. E mi sembra di impazzire…». «Non posso farlo senza il permesso di Eva, lo sai», mormora lui triste, e io avverto l’ormai familiare nodo alla gola stringersi ancora più forte. «Sì che puoi. Ti supplico». Mi sembra di sgretolarmi in mille pezzi. Sono stanco e provato. Devo fare chiarezza. «Ti supplico», ripeto. «Dammi il tuo indirizzo», dice infine sottovoce. «Quando verrai?», chiedo ansioso. «Non appena mi sarà possibile».

Zurigo, gennaio 2020 Il campanello suona tre volte prima che io riesca a raggiungere la porta. Quando spalanco l’uscio, una folata di vento gelido mi colpisce il viso insieme al profumo sensuale di Andrew. Lui mi sorride, affabile. Indossa degli abiti eleganti molto diversi dai vestiti che era solito sfoggiare durante le nostre sessioni di sesso. Lo trovo più bello di come lo ricordassi. «Alain…», sussurra, mordendosi le labbra, sensuale. «Andrew». Sto per gettarmi tra le sue braccia, ma la voce di mia madre mi blocca. «Tesoro, chi è?». Si avvicina curiosa. Andrew le fa un cordiale cenno di saluto. Lei si rivolge


a me con aria interrogativa. «Lui è Andrew. Un collega che ho conosciuto all’ETH», mento. Mamma sorride radiosa. «Ah, che meraviglia. Anche tu ricercatore, quindi! Prego, entra. Accomodati in salotto». Andrew mi supera con un dolce sorriso stampato sulle labbra. Quando mi passa davanti, la sua mano mi sfiora il braccio, provocandomi una scarica elettrica lungo la schiena. «Vi porto del tè», dice subito mamma prima di lasciarci da soli. Andrew la segue con lo sguardo divertito e poi si rivolge a me. «Un collega, eh?», commenta, facendomi l’occhiolino. «Potresti esserlo, in fondo», rispondo sorridendo. «Già, peccato che non ne capisco niente delle cose che studi tu… Senti, immagino di non poterti baciare qui, adesso», sussurra scherzoso. «Immagini bene». Lo stomaco mi si contorce come un serpente impazzito. Vorrei che mi prendesse in questo stesso istante. «Sono così felice di vederti e soprattutto di sapere che stai bene». Si toglie i guanti di pelle nera e il cappotto. L’istinto di correre a rifugiarmi tra le sue braccia diventa fortissimo. «Purtroppo Eva mi ha tenuto all’oscuro di tutto per diverse settimane. Solo dopo parecchie insistenze da parte mia mi ha detto che ti avevano portato all’ospedale. Mi sembrava molto restia a parlare di Isabel e David. Non ne capisco il perché…». «Come ha fatto Eva a sapere del mio incidente?», lo interrompo brusco. «È stata proprio Isabel a dirglielo. Ha chiamato quel giorno stesso. Ma come ti ho già detto, io l’ho saputo soltanto mesi dopo». «Come?» «Dopo quella chiamata Eva si è chiusa in un silenzio inaccessibile. Quando le telefonate di Isabel si sono interrotte del tutto ho cominciato a preoccuparmi. Non sai quante volte ho domandato alla mia padrona perché non fossi stato più richiesto per stare con te. Perché non potevo più vederti. Eva mi diceva solo che eri molto occupato e che dovevo aspettare. Sono stato punito per aver osato tanto, ma dovevo sapere. All’ennesima richiesta, infine, la mia padrona mi ha detto la verità. Però era già troppo tardi». «Qui c’è il tè, ragazzi. Andrew, che cosa studi esattamente?». La voce di mia madre fa sussultare entrambi. «Ehm… Io… ecco, in realtà…». «Analizza profili proteici, come Morgan. Solo che lui si occupa di altri tipi


di tumore», intervengo subito io. «Ti dispiace se saliamo in camera a bere il tè? Ci sono dei libri che vorrei mostrare a Andrew. La nostra biblioteca è più aggiornata di quella dell’università». È la scusa più banale che potessi trovare in questo momento, ma mamma sembra non accorgersene e io ho bisogno di stare da solo con il mio amico. «Certo. A proposito, io tra poco devo uscire per andare in ospedale. Tuo padre si è dimenticato a casa una cartella che stava studiando ieri sera. Posso stare tranquilla?». La sua apprensione mi imbarazza. Le faccio segno di sì. Continua a trattarmi come un bambino indifeso, ignorando l’esistenza del mostro che si cela dentro di me. «È stato un piacere, Andrew». Prendo il vassoio del tè e gli faccio segno di seguirmi al primo piano. L’idea di poter stare un po’ da solo con lui mi elettrizza e spaventa nello stesso tempo. Andrew è una porta che mi conduce inevitabilmente alla mia vita con Isabel. Ne ho bisogno e ne ho paura. Lui chiude l’uscio alle sue spalle. Sulle labbra gli si dipinge un sorriso complice, eppure non si muove di un passo. «Non riesco a credere che tu sia qui». La voglia di baciarlo mi investe come un tornado. «Non so cosa pagherò per essere venuto», risponde lui, sapendo di aver disobbedito. Già, Eva e il suo potere, come dimenticare… «Mi dispiace per la punizione che sarai costretto a subire allora…», mormoro, specchiandomi nei suoi occhi grigio-azzurri. «Un tuo bacio vale questo e mille altri tormenti». Il suo abbraccio mi travolge e io mi sento rinascere all’istante. Tremo, sul suo corpo così stranamente familiare. È eccitazione. Pura e violenta eccitazione. Le sue labbra si poggiano sulle mie. Sono fredde, ma mi sciolgono come lava sulla roccia. La sua lingua mi lambisce vellutata e di colpo non ho più paura. Ho solo voglia di toccarlo, di sentire la sua pelle, di fare sesso. Finalmente. «Ti prego», sussurro, staccandomi per riprendere fiato. Le sue mani mi si infilano nei pantaloni alla ricerca del mio sesso. «Forse sarebbe più opportuno aspettare che la signora Bercher esca di casa…», mormora, mordendomi il mento. «Non ce la faccio». Vado a chiudere a chiave la porta. Poi mi levo il maglione e comincio a sbottonarmi la camicia. «Il tuo petto…», dice Andrew, guardando sgomento la cicatrice dell’operazione e il resto dei segni che mi deturpano la pelle.


«No, ti supplico». «Cosa, Alain?» «Non guardarmi così…». «Ma il tuo corpo, Dio… Mi dispiace così tanto». «Allora smetti di fissarmi in quel modo. E cerca di farmi ricordare che cosa si prova nel sentirsi amati». Le sue labbra si schiudono per lo stupore. «Io non lo so più quindi ti prego, ricordamelo tu», aggiungo. Bastano quelle parole. Andrew mi stringe a sé così forte da spezzarmi il respiro. Poi la sua bocca mi travolge in un lungo e tormentato bacio. Gli sfilo il maglione e gli sbottono la camicia, mentre lui si dà da fare con la mia cintura. Quando riesce a liberarmi si inginocchia davanti al mio sesso e lo prende in bocca. Comincia a masturbarmi dolcemente, lasciandomi il tempo di gioire di ogni suo singolo movimento. È così diverso dai modi bruschi di David. Andrew mi sta gustando, David invece voleva solo divorarmi. «Mi sei mancato», dice, leccandomi il glande e accarezzandomi i testicoli. «Anche tu… anche tu…», sussurro. Mi afferra entrambe le mani, poi mi indica il letto. «Sdraiati». Accompagna i miei movimenti, facendomi mettere supino. Io appoggio la testa sul cuscino ansimando, ansioso di averlo dentro di me. Lui non mi fa attendere. Lentamente percorre la linea della spina dorsale, un bacio dopo l’altro. Mi lecca la pelle delle scapole e arriva fino al collo, che comincia a mordicchiarmi delicatamente. Infine si sdraia su di me con ancora i pantaloni addosso. Mi circonda il petto con le braccia e mi stringe, senza smettere di baciarmi la base della nuca. «Mi dispiace», sussurra. «Raccontami quello che ti è successo, Alain. Confidati con me». «Dopo», dico febbrile. «Ok». Sento che si sta togliendo i pantaloni. Il suo corpo nudo si plasma sul mio e comincia a muoversi, dolce come la brezza di primavera. Una scia di fuoco mi si irradia nelle gambe e nelle braccia mentre la sua bocca preme in mezzo ai miei glutei: mi sta preparando al suo assalto. Di colpo perdo cognizione di tutto il dolore e della miriade di domande che ancora mi affolla la testa. C’è solo quel letto, il suo corpo sul mio, e la voglia di sentirsi di nuovo vivi. Andrew mi penetra e il calore esplode dentro di me. Stringo le mani sul cuscino e lascio che i miei muscoli si rilassino. È la


prima volta che faccio sesso con qualcuno dopo quella notte devastante. Sono felice che sia proprio Andrew a essere il primo. «Ti fa male?», mormora lui preoccupato. «No», mento. «Alain…». «Fallo, ti prego». Inizia a spingere. «Fallo, ne ho bisogno». Le sue anche cominciano a sbattere ritmicamente sulle mie. Il suo respiro accelera di secondo in secondo. Avverto i suoi muscoli contrarsi, il sudore sulla pelle. Mi mette una mano sulla guancia, mentre il ritmo del suo assalto aumenta. Le sue dita si infilano nella mia bocca e io le lecco, avido di dargli piacere. «Alain», mi mormora all’orecchio. Sì, Andrew, prendimi. «Alain». Continua così per un po’, alternando movimenti secchi e impietosi a carezze languide e infuocate. Quando sembra essere arrivato al limite infila una mano sotto di me e mi afferra il sesso bollente. Riprende a masturbarlo, più forte di prima, incurante dei miei lamenti. Quel tocco così diverso, quelle dita che mi stringono eppure non mi feriscono, sono quasi una rivelazione dopo David. Veniano insieme, due orgasmi così diversi eppure così belli da farmi credere di avere ancora un po’ di speranza nell’amore. Andrew esce da me senza smettere di baciarmi teneramente. Mi tratta come qualcosa di unico e prezioso. Rimaniamo abbracciati per un tempo indefinito, stretti, nudi, sporchi del nostro seme. Dopo essermi accertato che mia madre sia davvero uscita, lo accompagno in bagno. «Puoi fare una doccia se vuoi», gli dico, porgendogli un asciugamano pulito. «Falla con me». Non aspetta nemmeno che io gli risponda. Mi trascina sotto il getto caldo e mi stringe forte. Aggrappato a lui, scoppio in un pianto silenzioso. «Non riesco a crederci…», mormora Andrew alla fine del mio racconto. Gli ho detto ogni cosa, senza risparmiargli alcun dettaglio. Ci siamo rivestiti e abbiamo cambiato le lenzuola al letto. «Sei mai stato con David?», gli chiedo con un’ingiustificata punta di gelosia. «No», risponde Andrew, sorseggiando il suo tè. «David non faceva sesso con nessuno di noi. Da che ho memoria è sempre stato seduto su quella specie di trono a guardare annoiato i dominatori divertirsi con noi schiavi.


Una volta Eva mi ha chiesto di sedurlo, ma lui mi ha rifiutato». «Perché?» «Diceva che non sarebbe stato con nessun altro uomo se non con quello che amava davvero. Quello che lo aveva lasciato…». «Victor…». Il nome di mio padre ha un sapore più amaro che mai. «Victor, sì. Ma, Alain… Perché pensi si tratti proprio di tuo padre? Insomma, potrebbe essere chiunque». Scuoto la testa, deciso. «È lui», insisto, convinto. «Deve essere lui. Isabel diceva spesso che io le ricordavo qualcuno. E poi anche David ha detto la stessa cosa. “Solo il colore dei tuoi occhi non mi fa provare rabbia…”. Già… Io assomiglio moltissimo a mio padre da giovane. Solo i miei occhi ci distinguono, capisci? Il colore degli occhi». Andrew annuisce. «Che cosa pensi di fare ora? Ne hai parlato con lui?» «No», dico piano. «Ogni volta che penso di fargli qualche domanda a riguardo mi blocco. Dovrei raccontargli tutto ciò che ho fatto e ho paura delle conseguenze che questo avrebbe sulla nostra famiglia. E poi…». «Poi…». «Ho anche paura di non poter più rivedere Isabel…». «Cosa? Alain… non dirmi che pensi ancora a lei dopo quello che ti ha fatto?!». «Isabel ha detto che io ero la sua vendetta. Ho bisogno di capire che cosa volesse dire con questo prima di gettarmi tutto alle spalle». La mia dea. La donna che mi ha strappato il cuore per darlo in pasto al fratello. «E poi… Mi manca tutto di lei». Le lacrime riprendono a rigarmi il volto. Il peso della libertà è così opprimente da sopportare. «Dovresti denunciarla», sbotta Andrew, pieno di rancore. «Non ti è nemmeno venuta a trovare, dopo quello che ti ha fatto». «Come avrebbe potuto? Avrebbe rischiato di vedere mio padre, in fondo». «La stai difendendo? Alain, ti prego!». È sgomento e lo sono anch’io. Stavo per morire per lei, eppure ancora una volta sarei disposto a mettere la mia vita nelle sue mani. «Ho bisogno del tuo aiuto, Andrew». Lui sospira e poi annuisce. «Che cosa vuoi che faccia?» «Cercare di avere informazioni. Chiedi a Eva se conosce qualche dettaglio in più sulla storia di Isabel e David. Prima di sconvolgere la vita di mio padre voglio essere sicuro che le cose stiano come sembra».


«Se riuscissi ad avere queste informazioni… che cosa farai dopo?» «Non lo so», mi alzo e asciugo le lacrime con un fazzoletto. «Per ora so soltanto che riprenderò la specializzazione in ospedale e cercherò di sopravvivere. Stare chiuso in questa casa… vivere nel dubbio mi sta facendo impazzire». «Capisco». Si alza anche lui e viene verso di me. «Ora devo proprio andare. Il mio tempo è scaduto da un pezzo. Eva mi infliggerà una punizione coi fiocchi». Fa mezzo sorriso. «Non potrò nasconderle di essere venuto da te. Devo tutto a quella donna e non le mentirò una seconda volta». Ha un tono triste. «Lo so, perdonami per averti chiesto di farlo». Lo abbraccio forte. I nostri cuori battono all’unisono, come mentre facevamo sesso. «Spero di poterti rivedere presto», sussurra, appoggiando le labbra sulle mie. Restiamo così pochi secondi, poi lui afferra il cappotto ed esce.


Capitolo 13 Altre realtà

Zurigo, febbraio 2020

Falene. Come falene siamo attratti dalla luce del fuoco senza immaginare quanto esso bruci e quanto buio sia l’inferno da cui ha origine. «Sono davvero felice di questa decisione, Alain». Il dottor Fuster si rivolge a me, entusiasta. «Purtroppo ho dovuto riscriverti al primo anno di specializzazione, quindi dovrai seguire i turni insieme agli specializzandi meno esperti. Tuo padre si è raccomandato con me di non esagerare con le guardie per i primi mesi, ma io credo…». «Non voglio nessun favoritismo, dottor Fuster. Farò gli stessi turni degli altri», sbotto freddamente. Camminiamo spediti nel corridoio del secondo piano del Kinderspital di Zurigo. Il mio sguardo è fisso sulle piastrelle grigioazzurre del pavimento mentre il mio mentore continua a farmi le sue raccomandazioni. «Alain, hai passato un brutto periodo. Devi andarci piano, lo sai». «Sto bene», dico un po’ spazientito. I suoi occhi scuri mi trafiggono da dietro le spesse lenti degli occhiali. «Mmm, e va bene, come vuoi… Eccoci, siamo arrivati. Ora le riunioni le facciamo qui e non più al primo piano». Entriamo in una sala dalle pareti verde menta, piena di specializzandi. Desideroso di stare sulle mie, attendo l’inizio della riunione in silenzio. Tutti i miei vecchi compagni di specializzazione hanno appena iniziato il terzo anno. Solo io sono rimasto indietro. «Ehi, chi è quello schianto?». Una voce femminile attira la mia attenzione. Proviene da un gruppetto di ragazze sedute al grande tavolo rettangolare, al centro della stanza. Mi stanno guardando interessate e ridacchiano stupidamente. Di colpo mi sembra di essere tornato all’asilo.


Con un battito di mani il dottor Fuster mette fine a quelle chiacchiere. Mi concentro su di lui, che è il responsabile del centro trapianti, e sulla dottoressa Angeen, capo di ematologia. A turno ogni specializzando riassume le cartelle dei propri pazienti. La mia mente torna indietro di tre anni, a quando Thommy era ancora vivo. Poi una voce spicca in mezzo a tutte le altre e i miei ricordi si dissolvono come fumo: Lucinda. Lucinda Warren. Di colpo i miei occhi vengono catturati da quella stravagante ragazza a cui ho raccontato tutta la verità sul mio incidente. I vaporosi capelli neri sono stretti in una coda, le sue guance sono rosse come se avesse la febbre alta e l’orsacchiotto giallo spunta dal taschino sul cuore: anche lei mi sta fissando sgomenta. Già, Cinda. Me lo aveva detto che quell’anno avrebbe iniziato la specializzazione, ma non avevo pensato che avrei potuto incontrarla tornando nel mio vecchio ospedale. Sostengo il suo sguardo per un po’ mentre spiega il contenuto dell’ultima cartella e le ragioni per cui il paziente non può essere ancora dimesso. Fuster le dice di non sospendere gli antibiotici e le dà alcune indicazioni terapeutiche. Lucinda prende nota di tutto, scrivendo su un quaderno con l’immagine del Re Leone sulla copertina. La riunione finisce alle otto e trenta. Fuster mi consegna le cartelle di alcuni pazienti e i diari delle infermiere della notte precedente. Mi chiede di preparare la lettera di dimissione per uno di loro e di procedere successivamente al giro delle visite. Afferro i fogli con mani tremanti e mi affretto a uscire dalla stanza, nervoso come non mai. È tutto così diverso dalla realtà del laboratorio. Non sono più abituato a questo ritmo, alla catena di montaggio tra strutturati, infermieri e specializzandi. Mi sento fuori dal mondo. «E così sei tornato in ospedale». Di nuovo la sua voce. Mi volto di scatto e Cinda incrocia le mani sul petto. «Già», rispondo freddo, abbassando lo sguardo. Sulle ciabatte ha attaccate delle strane spille a forma di animali. Non riesco a non sorridere. «Begli zoccoli», commento, sperando di smorzare la tensione. Lei non sembra colpita. «Preferisci forse che facciamo finta di non conoscerci?», sbotta risentita. Mi specchio nei suoi occhi nocciola e resto un attimo in silenzio. Una parte di me le è riconoscente perché mi ha aiutato a sentirmi meno solo durante il periodo di reclusione in clinica. L’altra parte però si vergogna e teme che qualcuno in quell’ospedale venga a sapere tutta


la verità sulla mia storia. «Non saprei», le rispondo infine ricominciando a camminare verso il reparto. «Fai come vuoi». «Alain!». Mi volto di nuovo, spazientito. «Che cosa vuoi da me, Lucinda?». Lei scuote la testa, triste. «Stai… Stai bene?». La sua domanda mi spiazza. Come sempre è capace di sorprendermi. «Sì», rispondo. «Sono felice di rivederti…», dice lei sottovoce. «Ok, ora veniamo al lavoro. Fuster ti ha dato un paziente che stavo seguendo io. Fatti trovare pronto quando arriveranno gli esami del sangue». Si gira e scappa via. La mia giornata ha inizio. Scrivo la lettera di dimissione e la consegno a Fuster. Vado a conoscere le nuove infermiere e saluto alcuni dei miei vecchi colleghi. Qualche specializzando del primo anno cerca di attaccare bottone e io faccio finta di stare al gioco. Visite, esami, trasfusioni, tutto torna a essere finalmente di nuovo familiare. La giornata passa così velocemente che quasi non mi rendo conto che è ora di tornare a casa. All’uscita del Kinderspital accendo il telefono sperando segretamente in un messaggio di Andrew. Rimango deluso. Non ho sue notizie da gennaio. La rabbia mi assale non appena rientro a casa. In reparto era stato facile non pensare al passato, ma ora l’idea di cenare in compagnia di mio padre è di nuovo insopportabile. Ignorando le proteste di mamma, mi chiudo in camera mia, deciso a evitare tutto e tutti. Mi accascio sul pavimento della stanza con la testa che mi scoppia. Perché non riesco a dire la verità a Victor? Perché Isabel continua a non cercarmi? Perché non posso sapere il motivo della sua vendetta? Mi manca il sentirmi impartire degli ordini. Mi mancano le percosse. Mi mancano il sesso e la perversione. Come posso sopravvivere senza tutto questo?

Zurigo, marzo 2020


Le settimane successive mi risucchiano in una nuova routine. Ore 7:30, passaggio delle cartelle con il medico di guardia. Ore 8:30, riunione degli specializzandi. Ore 10:00, giro di visite. Ore 11:00, arrivo degli esami ematochimici. Ore 11:30, seconda tornata di esami, con valutazione degli elettroliti e della funzionalità epatica e renale. Ore 12:00, riunione con le infermiere per consegna dati e passaggio al turno pomeridiano. Ore 13:00, inizio trasfusioni. Ore 14:00, completamento lettere di dimissione. Ore 15:00, controllo pazienti in terapia. Ore 17:00, seminari. Ore 18:00, studio individuale o aiuto in reparto fino all’arrivo del medico di guardia. È tutto così regolare, pieno, intenso, eppure giorno dopo giorno io mi sento sempre più vuoto. È come se tutto il mondo intorno a me bruciasse e io mi stessi scottando. Non parlo con nessuno, se non di questioni di lavoro. Trascorro tutto il tempo che posso da solo a studiare e mettermi in pari per recuperare il tempo perduto. Mantengo un certo distacco con i pazienti e mi sorprendo di quanto adesso mi risulti facile. Cerco di avere un profilo tremendamente basso eppure ho l’impressione costante di essere osservato. Per quanto mi stia sforzando, però, nella mia mente continua a esserci solo Isabel. Ogni mattina spero di vederla attendermi all’entrata dell’ospedale. Ogni sera penso a quanto mi manca dirle che l’amo e fare sesso con lei al di là di ogni sofferenza. Mi sembra di impazzire, ma non so che fare. Presentarmi in laboratorio è escluso. Tornare al Das Silberne Spinnennetz sarebbe troppo pericoloso. Andare a casa sua…? «La gente sta iniziando ad avere paura di te». Sussulto spaventato. Lucinda è in piedi di fronte a me con le braccia sui fianchi e l’aria sicura. «Lo sai vero che abbiamo un’aula studio in fondo al reparto? Perché stai seduto per terra?». Mi alzo riluttante dal pavimento della stanza delle scorte. «Sto meglio qui, dove nessuno mi vede». «Capisco… Senti, l’infermiera nuova ha portato una torta al cioccolato che è una bomba. Perché non vieni ad assaggiarla?». Sono molto sorpreso da quella sua richiesta. In questo primo mese in ospedale ci siamo a malapena scambiati qualche parola. «Grazie, non mi va», mi affretto a dire. La sua presenza mi incute soggezione e credo che lei ne sia perfettamente cosciente. «Avanti, Alain. Non puoi comportarti come un cane rognoso per sempre».


«Che cosa?». Lei strabuzza gli occhi. «Non parli con nessuno e sparisci subito dopo il giro di visite. Tutti gli specializzandi si chiedono che problema hai». Già, posso immaginarlo. «È proprio per questo che non voglio venire a mangiare la torta o quello che è… Sono così stanco di sentirmi osservato». La trafiggo con uno sguardo crudele, ma lei non ne è affatto intimidita. «E allora vieni con me e comportati come una persona normale! Non ho detto niente a nessuno riguardo alla tua storia e non lo farò mai». Lucinda si massaggia una tempia e poi mi lancia uno sguardo divertito. «La gente qui in ospedale ti fissa solo perché sei molto bello, Alain. Tutte le ragazze mi hanno chiesto se sei impegnato o meno. Tutto qui». Mi mordo le labbra nervoso. «E tu che hai detto?» «Che non lo so visto che non ci conosciamo… Avrei forse dovuto dire che sei stato lo schiavo sessuale di una donna crudele e meschina?». Le sue parole mi colpiscono dritto al cuore. Mi guarda con disprezzo, ma non per me. Per Isabel. «Le farebbe smettere di comportarsi come bambine dell’asilo?», la provoco. Cinda alza un sopracciglio curato. «Non credo. Sai, con la moda del bondage fiorita in questi ultimi anni non si sa mai… Potrebbe persino farle eccitare di più. Avanti, vieni con me. Hai bisogno di zuccheri per studiare». Mi allunga la mano, ma io non la prendo. «Perché continui a cercare di starmi vicino? Non sono il tuo caso clinico speciale e devi smetterla di elargirmi la tua pietà!». La sua espressione diventa gelida all’istante. «Oh bene, questa adesso. Davvero lo vuoi sapere? Bene, ti accontenterò. Sì, lo faccio perché mi fai pena, Alain! Mi fai una dannata pena!», esclama con rabbia. «E perché, per quanto la tua storia mi abbia ferita, non voglio che tu ti senta solo… Sì, sei il mio caso clinico. Uno speciale, insopportabile e disperato caso clinico che stupidamente non vuole essere curato!». Sta ansimando. Di colpo vengo sopraffatto dall’euforia e scoppio a ridere. Dopo qualche attimo di perplessità anche Cinda si lascia andare. Ridiamo come due stupidi fino alle lacrime e per la prima volta dopo tanto tempo tutti i muscoli del mio corpo iniziano a rilassarsi. È strano come questa ragazza mi sorprenda sempre. Non riesco mai a prevedere le sue reazioni. È come un temporale improvviso in una giornata d’estate. Scoppia in mille gocce fresche per lavarti via di dosso il sudore e


farti tornare pulito. Alla fine la seguo in sala infermiere. È tardi e ci sono solo altri due specializzandi a parte noi. Cinda taglia una fetta di torta al cioccolato e me la porge. Non la rifiuto, e lei finalmente sorride soddisfatta.

Zurigo, aprile 2020 Da quando Cinda è tornata a far parte della mia vita le giornate sono diventate più leggere. Spesso seguiamo gli stessi pazienti e lavorare con lei ha facilitato di molto il mio reinserimento in ospedale. Ora tutte le infermiere mi conoscono, gli specializzandi del primo anno non mi guardano più in modo strano e anche il dottor Fuster ha smesso di preoccuparsi. Lucinda ha ripreso a confidarmi i suoi problemi, come faceva durante la mia degenza in clinica. Mi parla di tutto, senza nessuna remora, e a volte tenta di farmi raccontare qualcosa di me, evitando però di fare domande su Isabel. Standole così vicino ho imparato a conoscere lati di lei che prima ignoravo. Con i piccoli guerrieri è gentile, ma anche decisa e forte. Con i colleghi è spesso autoritaria, una leader nata. È una specializzanda instancabile, una ragazza dolce e allo stesso tempo un’amica fidata. Purtroppo però, se grazie a lei i giorni sono sereni, le notti invece sono costellate di incubi. Spesso mi sveglio in un bagno di sudore, chiamando il nome di Isabel. Mi manca ancora da morire, eppure non riesco a decidere se sia il caso di andare a cercarla. Sono paralizzato dalle mie stesse paure. Mi sento abbandonato e terribilmente solo, senza una guida. E la verità continua a essermi oscura… Anche questa notte mi sono svegliato di soprassalto torturato dallo stesso sogno. Isabel mi guarda crudele, dice che io sono la sua vendetta, mentre David sta per uccidermi. Sono esausto, tremo e mi sento impazzire. Vorrei parlarne con Lucinda, ma qualcosa mi trattiene dal telefonarle. Decido quindi di chiamare Andrew nonostante l’ora tarda e il fatto che dal nostro ultimo incontro non abbia avuto più notizie di lui. Ho bisogno del suo aiuto e ormai non posso più aspettare.


«Pronto, chi parla?», risponde una voce femminile. «Io… Sono Alain». «Ah… finalmente. Sono mesi che aspetto questa chiamata». È Eva. «Perché… Perché rispondi tu?». Improvvisamente ho paura. «Questa è casa mia, ragazzino. E Andrew appartiene a me. A causa tua non ha più il permesso di toccare il telefono». Come sospettavo. Andrew è nei guai per colpa mia. «Ti prego, non fargli niente», la supplico, sentendomi uno stupido. Andrew mi ha detto mille volte che Eva gli aveva salvato la vita, eppure l’inquietudine mi sta divorando. «Dipende, Alain. Perché non mi dici che cosa volevi ottenere chiedendogli un incontro segreto? Lui non mi aveva mai mentito prima di incontrare te, lo sai?» «Mi dispiace, Eva… Sono stato io a insistere e a pregarlo di vederci. Ho affrontato l’inferno e avevo bisogno di spiegazioni. Non sapevo… non sapevo se potevo fidarmi di te. In fondo tu sei sua amica. Isabel…». Dall’altra parte della cornetta sento sospirare. «Non lo sono più», dice piano. «Da quando mi ha detto quello che ti ha fatto non lo sono più». Il mio cuore accelera. «Allora sai tutta la verità?», sussurro in preda all’angoscia. «Non ne sono sicura. Ormai non sono più sicura di niente che riguardi Isabel». «Ho bisogno di vederti, ti prego», la imploro, aggrappandomi a quelle ultime parole. Silenzio, poi la voce di Andrew da lontano. «La verità, se quella che conosco io lo è davvero, potrebbe farti più male di quello che pensi, Alain», dice Eva con un tono preoccupato. «Non voglio essere io a ridurti di nuovo in pezzi… Adesso devo andare». «No… No, Eva, ti prego! Ti supplico. Io sono già a pezzi. E se non saprò la verità finirò per impazzire davvero». Non mettere giù, non mettere giù, non mettere giù! «Ne sei sicuro?», mi chiede con un pizzico di esitazione. «Sì, lo sono». «Allora vieni da me. Domani sera. Ti invierò l’indirizzo a questo numero». Riattacca, lasciandomi con il fiato sospeso. La verità. La verità sta per essermi rivelata.


«Che cos’hai, Alain?», sbotta Cinda, irritata. Le lancio uno sguardo interrogativo, senza capire. «Continui a guardare il telefono ogni dieci minuti… si può sapere che problema c’è?». Infilo il cellulare nella tasca del camice e scuoto la testa, imbarazzato. «Niente», dico defilandomi in sala prelievi, ma Cinda mi segue. «Niente? Ti prego, non mentirmi, non sono stupida». «No, ma ogni tanto vorrei che facessi finta di esserlo». La fisso con uno sguardo carico di rimprovero. «Sembri mia madre, che diavolo!». «Questo è davvero assurdo! Mi preoccupo per te e tu mi sai dire solo questo?». Il suo tono è seccato. Faccio un profondo respiro ricordandomi di quanto lei ormai sia preziosa per me. «Vedrò delle persone questa sera», dico a voce un po’ più bassa. «Qualcuno che potrebbe dirmi perché Isabel e David mi hanno fatto tutto questo, ecco perché sono così nervoso». Finalmente le linee del suo viso si distendono. «Dannazione Alain, perché devo sempre tirarti fuori le cose con la tenaglia?», sbuffa poi, arricciando il naso. «Sono persone di cui ti puoi fidare?» «Sì». «Ma perché non vuoi chiedere spiegazioni direttamente a tuo padre?» «Non posso farlo, Lucinda, finché non sarò certo di quello che è successo, non posso parlarne con lui». Lei sospira, ma capisce le mie ragioni. «Ok. Ok, senti. Andrà bene. Una volta che saprai tutta la verità riuscirai a lasciarti alle spalle questa storia, te lo garantisco». Si avvicina e, sorprendendomi, mi abbraccia teneramente. Il mio cuore ha un sussulto. Non riesco a ricambiare quella stretta eppure, allo stesso tempo, ne gioisco con tutto me stesso. Cinda è pulita. Ogni suo contatto mi fa sentire meno sporco e la speranza che un giorno tornerò anch’io a essere felice mi divampa dentro come un incendio. «Posso coprirti io qui per completare le cartelle che rimangono. Vai ora», dice, staccandosi senza più guardarmi in faccia. «Davvero?» «Sì. Vai, Alain». Poi mi trafigge con uno sguardo così intenso da fare male. Sono quasi le nove. Per arrivare a casa di Eva ho dovuto attraversare tutta la


città. Suono il campanello. Un rumore di tacchi si avvicina alla porta e l’uscio si apre. «Sei arrivato, finalmente», mi dice, squadrandomi dalla testa ai piedi. «Ti trovo meglio di come pensavo». «Posso entrare?», le chiedo, ansioso di vedere anche Andrew. Lei spalanca la porta e mi fa un cenno di assenso. La casa di Eva è completamente diversa da quella di Isabel. Mi sembra di essere stato catapultato in una dimensione in cui regna sovrano l’ultramoderno. Eva mi accompagna in soggiorno e fa segno di accomodarmi sul divano di pelle nera. Poi sparisce dietro la porta della cucina. Mi guardo intorno: il bianco e il nero dominano decisamente la scena. Le luci del grande lampadario centrale si riflettono sui mobili di vernice laccata creando un’atmosfera molto fredda. Alle pareti immacolate sono appesi quadri astratti. L’unica nota di colore sono le bottiglie di liquore sul tavolino di fronte a me. Eva rientra nel salotto portando con sé dei bicchieri. Mi versa un po’ di Macallan senza chiedermi nulla, poi si siede di fronte a me. «Dov’è Andrew?», le chiedo subito. «Di sopra, nella mia stanza. Mi aspetta obbediente». Ho un moto di rabbia ma, per quanto voglia rivederlo, non posso permettermi il lusso di contrariarla. Afferro il bicchiere e mando giù un generoso sorso di whisky. «Come ti senti, Alain?», mi chiede Eva, quasi come se le importasse davvero. «Sto bene adesso e starò meglio quando mi dirai quello che sai», rispondo impaziente. «Già… Ma io non sono sicura che ciò che Isabel mi ha rivelato sia effettivamente tutta la verità». «Non ti fidi di lei?» «Non più». «Chi mi ha portato in ospedale, quella notte?», le chiedo per prima cosa. «River. Ti ha lasciato al pronto soccorso, ma è fuggito per evitare domande, subito dopo essersi assicurato che qualcuno si sarebbe preso cura di te». «Capisco…», sussurro. Sono stato gettato via come un sacco di immondizia. «Alain…». «Vai avanti Eva, ti prego. Isabel mi ha detto che sono stato la sua


vendetta… Di quale vendetta stava parlando?». Lei si morde le labbra, nervosa. «Conosco Isabel da tanto tempo…», comincia incerta, «abbiamo frequentato lo stesso liceo e siamo rimaste in contatto anche durante l’università, benché avessimo scelto due percorsi differenti. Isabel è sempre stata una persona difficile. Criptica, chiusa in se stessa… misteriosa. Viveva qui a Zurigo con suo fratello David, lontano dai loro genitori che si erano trasferiti in Germania per lavoro. Isabel era sempre al centro dell’attenzione per via della sua straordinaria bellezza, eppure si teneva distante da tutti. Credo si sia avvicinata a me solo per il mio modo di vivere le relazioni con l’altro sesso. Era affascinata dalle personalità dominanti e io la incuriosivo per questo aspetto del mio carattere». «Stai dicendo che Isabel non è sempre stata una dominatrice?». Eva scuote la testa. «In quegli anni Isabel non aveva ancora chiaro che tipo di relazione volesse vivere… Quando le parlavo dei miei sottomessi mi ascoltava per ore curiosa e attenta, come se stesse cercando di individuare la linea sottile che divide le due categorie a cui tutti noi apparteniamo. Padrone e schiavo. Dominatore e sottomesso. Isabel non si sarebbe certo accontentata di un rapporto ordinario. E non era nemmeno alla ricerca di una relazione romantica, perché era già profondamente innamorata di qualcuno. Voleva solo esplorare il sesso, gli estremi confini. Lei, insieme al suo adorato fratello…». «Che… Che cosa vuoi dire?» «Isabel è innamorata di David, Alain». Il cuore mi si ferma nel petto. «Da sempre». Che follia è mai questa? Non riesco a credere a quelle ultime parole. «Non dirmi che non l’avevi capito», aggiunge Eva severa. Sono congelato. Non riesco più a muovermi, a parlare, nemmeno a respirare. Così tanto l’amore mi aveva reso cieco? «Innamorata di David…?», sussurro, non appena l’aria torna a riempirmi i polmoni. «Sì. Un amore impossibile, lo sai, ma David è l’unico per cui ho visto Isabel soffrire davvero. Lui le era affezionato, certo, ma non avrebbe mai ricambiato il suo amore, se anche lei glielo avesse confessato. Così Isabel si accontentava di stargli vicino, di compiacerlo come meglio poteva, perfino quando David, raggiunta la maggiore età, ha cominciato a frequentare certi posti».


«Quali posti?» «Quei posti, Alain. I luoghi dove si cerca il piacere sottomettendosi o dominando qualcuno. Hanno iniziato così, i due gemelli, proponendosi insieme per piccanti giochi sessuali. In breve Isabel e David sono diventati popolari nell’ambiente dom/sub. Nessuno dei due aveva deciso che cosa essere e quale ruolo fosse quello giusto, ma non importava. Insieme esploravano la loro sessualità e mentre David cercava qualcuno che potesse finalmente aprire il suo cuore, Isabel poteva star vicino al suo segreto amore. Una magra consolazione, ma lo sai, un uomo può decidere quando iniziare ad amare, ma non il momento in cui smettere». Deglutisco a fatica. La verità che io sto disperatamente cercando di scoprire ha radici più profonde di quanto pensassi. «Ti prego, continua», la incito. Eva manda giù un altro sorso di Macallan. «Dopo un anno che erano nel giro, i gemelli incontrarono un uomo. Un dominatore. Il Master che li ha conquistati entrambi, Isabel e David». Il respiro mi si spezza di nuovo. «Isabel… Isabel quindi è stata una sottomessa?». Eva fa segno di sì. «Una volta soltanto, in quel modo totalizzante che anche tu hai sperimentato. Lei e suo fratello gemello avevano appena compiuto diciannove anni quando lo incontrarono. Lui si faceva chiamare il Tuono». «Il Tuono? Ma… è così che si fa chiamare anche David, il Tuono Rosso…». «Sì, ma non è altro che il soprannome del loro dominatore, il vero Tuono». Il cuore mi sfarfalla impazzito nel petto. Sono ansioso di conoscere il resto della storia, eppure allo stesso tempo un peso intollerabile mi comprime il torace. «Che cosa è successo, Eva?», chiedo con un filo di voce. «Lo conobbero a una festa. Entrambi ne rimasero affascinati. E lui di loro. Il Tuono propose un patto. Si sarebbe concesso solo a loro se entrambi si fossero sottomessi a lui senza remore. A quanto pare, era un uomo dalla bellezza e dai modi irresistibili. Isabel e David accettarono, diventando così i suoi schiavi. Lo furono per due anni. Il Tuono non faceva solo sesso con entrambi, ma controllava ogni cosa nelle vite dei due fratelli, dalle più semplici alle più profonde. Isabel e David non facevano niente se prima non ne avevano discusso con il loro padrone. Seguivano le sue regole. Rispondevano ai suoi ordini, vivevano esclusivamente per lui. Dopo un anno dal loro primo incontro, David decise di comprare l’attuale Das Silberne


Spinnennetz. I soldi non erano un problema per i fratelli Shulze e David voleva un posto tutto loro, in cui poter vivere insieme al loro Master ogni momento possibile. Ben presto il Das Silberne Spinnennetz divenne un vero e proprio regno del bondage. Il rapporto con il Tuono si evolveva giorno dopo giorno più forte e perverso. Naturalmente anche i sentimenti che legavano David al Master cominciarono a farsi più profondi fino a quando…». «Fino a quando?» «La gelosia. Una gelosia amara e cruenta divampò tra i due gemelli. David si era ormai innamorato del Tuono, mentre Isabel si consumava per il fratello, soffrendo all’idea che un giorno l’avrebbe lasciata per stare solo con il Master. Cominciarono a litigare. Erano entrambi divorati dai sentimenti che provavano, lacerati dall’idea che il Tuono preferisse l’uno all’altra e viceversa… Finché, a un certo punto, durante la loro ultima sessione di sesso, Isabel dichiarò i suoi sentimenti a David, pensando di mettere fine a quel tormento. Ma suo fratello non le credette e l’accusò di mentire solo per tagliarlo fuori dai giochi. Credeva che Isabel fosse innamorata del Tuono e che stesse cercando di portarglielo via. Era accecato a sua volta dai propri sentimenti. Quello che entrambi non avevano calcolato erano i sentimenti del Master. La sua reazione infatti spiazzò entrambi. Forse solo allora il Tuono si accorse che la situazione gli era sfuggita di mano e l’ossessione che i due fratelli avevano nei suoi confronti era diventata troppo soffocante per un uomo della sua sostanza. O forse si era stancato… fatto sta che li lasciò quel giorno stesso, sparendo dalle loro vite per sempre». Si interrompe per versarsi un altro bicchiere di whisky. «So che tutto quello che ti sto dicendo può sembrare assurdo, ma è la verità. Di questo sono certa. Come sono altrettanto certa che Isabel l’avrebbe superato col tempo, se David non avesse riversato tutta la propria sofferenza su di lei». «In che senso?», le domando rapito. «David si convinse che era stata colpa sua. Era colpa di Isabel se il Tuono li aveva lasciati. Isabel gli aveva portato via il suo unico amore. Da quel giorno non volle più vederla e Isabel ne soffrì atrocemente. Andò a studiare all’estero, poi si trasferì a Ginevra per lavoro e infine pochi anni fa decise di ritornare a Zurigo e tentare di nuovo di avvicinare il fratello. Credeva che in qualche modo il tempo l’avesse aiutato a perdonarla. Non era così. David le ha sempre negato un incontro. E così Isabel ha cominciato…». «Ha cominciato… che cosa?»


«Isabel iniziò a collezionare schiavi. Credeva che se ne avesse trovato uno perfetto per David, uno che stuzzicasse il suo cuore e lo facesse di nuovo innamorare, sarebbe finalmente riuscita a farsi perdonare. Avrebbe sacrificato il suo amore per quello del fratello, un’altra volta. Tutti i suoi tentativi però sono falliti fino a quando… non ha trovato te». Di nuovo la morsa nello stomaco. Ho paura che Eva continui il suo racconto. «Questa è la parte della storia che mi sembra più assurda, tanto che faccio fatica a credere sia proprio la verità». «Non importa, Eva. Dimmi che cosa sai…». «Poco dopo che River ti ha lasciato al pronto soccorso, Isabel mi ha chiamato. Era agitata. Aveva paura. Le ho chiesto che cosa ti avevano fatto e perché… Così lei ha preso a farfugliare qualcosa. Mi ha detto che tu assomigli molto al Tuono. E che lei ti ha addestrato per così tanto tempo solo perché tu fossi lo schiavo perfetto per David. Fuori, simile all’uomo di cui si era innamorato un tempo. Dentro, un’anima docile e servile, pronta a soddisfare tutte le richieste possibili. Pronta a sopportare il peso del rancore. Pronta a innamorarsi di David e a rimpiazzare il suo amore perduto». Mi viene da vomitare. «Non so perché proprio tu sia stato la sua vendetta», continua Eva. «Isabel non mi ha nemmeno detto chi è in realtà quest’uomo che David ha amato così tanto. Ma sono certa che lei abbia agito per tutto il tempo con un unico scopo: recuperare l’amore del fratello. Quello che Isabel non aveva calcolato tuttavia è che tu ti saresti innamorato di lei a tal punto da non poter donare il tuo cuore a nessun altro». Una lacrima mi riga la guancia. La verità a volte è più strana della finzione. Ecco perché Isabel mi aveva sedotto, ecco perché ero diventato il suo schiavo. Lei non aveva mai provato nessun sentimento per me. Mi aveva voluto accanto solo per addestrarmi, nutrirmi e infine darmi in pasto al suo adorato fratello. Tutto il mio amore, tutti i miei sacrifici, il dolore, la sofferenza… Ogni cosa era stata solo una mera illusione. Il tatuaggio comincia a bruciare. «Alain… mi dispiace». Eva mi prende la mano che stringo convulsamente al petto. «Gli altri schiavi erano sempre stati consenzienti. Affrontavano l’addestramento, consci di dover soddisfare un uomo difficile e capriccioso. Ma con te… Non credevo che Isabel fosse capace di tanto… Sapevo che amava suo fratello, ma… Non pensavo che sarebbe arrivata a distruggere una


persona in nome del suo amore». Mi sento morire. Soffocare. È come se tutto il mondo attorno a me avesse preso fuoco. È un incubo. «Il Tuono è Victor Bercher. Mio padre!», grido con quanto fiato ho in petto. Eva sgrana gli occhi, esterrefatta. «Ti prego, fai qualcosa…», balbetto in preda alla rabbia. «Fai qualcosa per far cessare questo dolore… Ti supplico!». Lei mi guarda smarrita, poi scuote la testa. «Andrew!», urla, voltandosi verso le scale. Andrew arriva in salotto dopo pochi secondi. Indossa solo un paio di pantaloni neri e ha i capezzoli costretti in due pinze di metallo. «Che cosa succede?», chiede, guardando entrambi allarmato. Non riesco a smettere di tremare. I sentimenti di Isabel erano effimeri, il suo cuore apparteneva solo a David. Sono stato ingannato. Fa troppo male. Non respiro! Eva mi tira uno schiaffo, come per riscuotermi. Il dolore si irradia in tutta la guancia, bruciando come acido. Solo così riesco a tornare un poco in me. Sì, adesso ho capito. Il dolore è l’unica via per mettere a tacere altro dolore. «Ancora», le dico, provocando sia lei che Andrew. «Cosa?», sussurra lui. «Ho bisogno di altro dolore per smettere di soffrire», esclamo più duro che mai. «Ho bisogno di altro dolore», ripeto. «Picchiami!». Eva scuote la testa. «No, Alain… Non così». Mi tolgo il maglione e la camicia. I suoi occhi si posano sulla cicatrice dell’operazione. Poi sulla zip dei pantaloni, che sto abbassando. «Che fai?», mi chiede turbata. «Ho bisogno di sesso. Fammi quello che vuoi. Scopami. Picchiami. Non mi importa». Andrew ferma le mie mani, impedendomi di spogliarmi. «Alain, non sei in te. Ora calmati». Mi avvicino alla sua bocca e lo travolgo con un bacio. Un bacio carico di rabbia, di sofferenza e di rancore. Lui si stacca, stupito. I miei pantaloni cadono sul pavimento. «Se volete aiutarmi, fatelo», li provoco ancora. Mi inginocchio di fronte a Eva e le espongo le natiche. Entrambi restano in silenzio per qualche minuto. Poi finalmente prendono una decisione. «Vai a prendere la verga», ordina Eva, severa. I passi di Andrew si


allontanano. Eva mi afferra il sesso e lo stringe forte. «Il dolore non cancellerà quello che Isabel ti ha fatto», mi sussurra all’orecchio prima di passarmi la lingua sul collo. «Ti renderà solo più dipendente da esso. Lo sai tu e lo so anche io». «Non mi importa», ripeto ostinato. «Non mi importa niente». «Dieci volte!», sbotta Eva a Andrew alle mie spalle. Lui stringe tra le mani la verga. Gli lancio uno sguardo straziante, incitandolo a colpirmi. Andrew scuote la testa turbato, poi però esaudisce la mia supplica. Dieci colpi. Un colpo per Isabel. Uno per David. Uno per la mia innocenza. Un altro per la mia dolcezza. Uno per l’amore che continuo a provare. Un altro per la mia stupidità. Uno per la mia debolezza. Un altro per aver perso me stesso. Un colpo per aver mentito a mia madre. L’ultimo per Victor… Ansimo, provato, mentre Andrew fa cadere a terra la verga. I suoi occhi si soffermano sulle ferite che mi ha appena inferto. «Alzati, Alain», mi ordina Eva impietosa. Lo faccio a fatica. Ho il cuore a mille, un dolore cocente ai glutei e alla schiena, eppure mi sento finalmente sollevato. «Ti scoperemo entrambi e tu non dovrai venire… non fino a quando sarò io a dirtelo», sentenzia lei. Vengo trascinato in camera. Andrew mi fa sdraiare su un letto a due piazze. Le lenzuola profumano di lavanda. Mi lascio andare, affondando nel fresco cotone. Sono indifeso di fronte ai miei due salvatori a cui ho appena chiesto di trasformarsi in carnefici. Ho voglia di essere posseduto, schiacciato, distrutto. Entrambi si gettano su di me, affamati. Due bocche diverse lambiscono il mio corpo, la mia carne, bollenti come le fiamme dell’inferno. Mi mordono i capezzoli, li tirano, li costringono con le pinze, provocandomi altro dolore. Urlo. Andrew mi avvolge tra le braccia, incurante del fatto che così il metallo preme di più contro il mio petto. Eva comincia a succhiarmi il sesso avida, con gli occhi che fiammeggiano di lussuria. Quattro mani prendono ad accarezzarmi lascive. Mi esplorano facendomi del bene e del male allo stesso tempo. Andrew mi bacia ogni centimetro delle spalle e poi si sistema sotto di me. Il suo membro si insinua tra i miei glutei doloranti e comincia a strusciare sullo sfintere, avido di penetrarmi. Eva si libera dei vestiti e, nuda, si appoggia al mio ventre con un movimento sinuoso intrappolandomi il sesso nel suo umido cuore. Ha gli occhi iniettati di passione, eppure sembra ancora indecisa. Muovo le anche come a invitarla a continuare. Voglio abbandonarmi a questi due corpi.


Voglio sentirmi parte di un tutto, ancora una volta. Voglio dimenticare che Isabel mi ha solo usato. Stanotte voglio dimenticare. Tutto il resto lo affronterò domani. Eva inizia a cavalcarmi chinando il capo verso di me. Il profumo di entrambi mi manda in estasi. Andrew mi morde il collo e con uno scatto mi penetra da dietro, strappandomi un gemito di dolore. «Alain…». «Ancora», mormoro più volte come se stessi recitando un mantra, schiacciato tra i loro corpi sudati. Le mani di Eva mi staccano le pinze per tirarmi i capezzoli con forza e poi graffiarli con le unghie. Gli affondi di Andrew diventano subito più profondi e un subdolo e perverso piacere mi investe feroce. Inspiro a fondo cercando di tenere a freno l’orgasmo. Mi basta pensare a Isabel e a quello che mi ha fatto per raffreddarmi all’istante. La rabbia monta e i muscoli mi si irrigidiscono, spazzando via l’eccitazione. Eva aumenta il ritmo, aggrappandosi al mio petto per darsi più spinta. «Alain, Alain», mi sussurra Andrew all’orecchio, toccandomi a sua volta il petto e posando le labbra umide sulle mie spalle. È eccitato da morire. Lo sento da come mi tocca e dal modo in cui si sta muovendo dentro di me. Eva al contrario si sta trattenendo e stringe il mio sesso con i muscoli della vagina in una danza di cui solo lei conosce le regole. «Schiaffeggiami», la imploro mentre una scintilla di piacere si accende di nuovo nel mio corpo. «Fallo, ti prego». Lei sorride e non se lo fa ripetere due volte. Mi schiaffeggia e più le mie guance si arrossano, più io godo. Le sorrido soddisfatto. Eva si stringe su di me e mi travolge con un bacio. Il suo orgasmo monta inesorabile mentre quello di Andrew sta scoppiando tra le mie natiche. Sono un pazzo. Un folle che tenta disperatamente di cancellare il dolore con altro dolore. Voglio solo dimenticare. Eva si sfila via da me e, ancora tremante di piacere, chiude le labbra sul mio membro. Lo masturba così bene da farmi volare sulle stelle. Andrew si unisce a lei e a quel punto non capisco più nulla. Dove finisco io e dove iniziano loro? Ansimo, colto dagli spasmi e pronto a venire in quelle bocche così diverse da quella di Isabel. Con gli occhi Eva mi dà il suo permesso e finalmente anch’io mi lascio andare. Fa male. Da morire. «Alain… Non c’è posto per gli scrupoli se c’è di mezzo la passione…», mi sussurra Andrew all’orecchio prima che la stanchezza abbia il sopravvento.



Capitolo 14 Una luce nell’oscurità

Zurigo, maggio 2020

La musica di Archer Travis invade tutto il soggiorno di Eva. Sono sdraiato sul divano e ho appena avuto un orgasmo. Il mio corpo è piacevolmente rilassato, al contrario della mia mente, impegnata come sempre a rimuginare sui ricordi. Libero, eppure prigioniero più di prima. «A che cosa pensi?», mi chiede Andrew, appoggiando la sua testa sul mio braccio. «A tante cose», mormoro triste. Lui prende a baciarmi lungo tutto l’avambraccio fino a fermarsi sul polso. «Ti ha fatto molto male?», domanda, preoccupato. «La sospensione?» «Sì». «No, va tutto bene». Lui si scosta da me e indossa la sua maglietta bianca preferita. «Sei tu che sembri turbato», aggiungo freddo. Andrew si morde le labbra prima di rispondermi. «Vieni qui quasi ogni sera ormai. Chiedi sia a me che a Eva di farti del male. Il tuo corpo ha più segni di quando stavi con Isabel…». «E allora?» «Quello che stai facendo è così stupido!», sbotta arrabbiato. Mi volgo verso di lui, stranito. «Perché? Credevo che fossi contento di avermi qui con voi!». Scuote la testa. «Sono contento che tu sia qui, ma so anche che tutto questo sta diventando deleterio per te. Devastante». Mi scruta preoccupato sotto le folte ciglia bionde in un modo che ho imparato a detestare. «Che cosa vuoi dire?», mi alzo dal divano irritato, fuggendo il suo sguardo. «Così non dimenticherai Isabel, lo capisci? Non lo farai mai, e per di più continuerai a cadere sempre più in basso, tormentandoti nel dubbio e affogando nella paura… Dio, Alain, come fai a non accorgertene? Sei


diventato l’ombra di te stesso». I suoi occhi sono umidi. Sta piangendo per me? «Non ho altra scelta», ribatto cercando di baciarlo. È così che faccio: mi servo del sesso per non sentire nient’altro. So che è sbagliato, eppure non posso farne a meno. Diversamente dal solito, Andrew mi allontana con fermezza e il mio cuore si spezza. È la prima volta che mi rifiuta. «Sì che hai scelta», sussurra, in collera più che mai. «Affronta Isabel e poi tuo padre. Scopri la sua verità su quello che ti è successo e perché, soprattutto. Solo così potrai ricominciare da capo…». Una lacrima gli riga il volto. «Stai facendo proprio lo stesso errore… il suo stesso errore». «Di chi stai parlando adesso?» «Emerald…». Fa una pausa, abbastanza lunga da permettermi di leggere tutto il dolore nascosto nel profondo del suo cuore. «Anche lui giocava con il sesso come stai facendo tu. Lo usava per non sentire tutto il resto, per sopprimere i suoi veri sentimenti… ed è così che si è distrutto». «Io non sono il tuo Emerald», ringhio tra i denti. Fa segno di no con la testa. «No, non lo sei. Ma io non collaborerò più a questa missione di autodistruzione, Alain». La gola mi si serra all’istante. «Che cosa vuoi dire?», balbetto in preda all’ansia. «Questa è stata la nostra ultima volta insieme», sentenzia gelido. Scuoto la testa vigorosamente. «No… ti prego… Non mi lasciare adesso», lo imploro, cadendo ai suoi piedi. Lacrime di frustrazione mi riempiono gli occhi. «Non mi abbandonare, Andrew… Io ho bisogno di te. Ho bisogno di voi, ti prego…». Mi aggrappo alle sue gambe e lo stringo a me. Lui cerca di arretrare, ma non ci riesce. Si piega quindi a terra e mi avvolge tra le braccia, lasciandomi sfogare. «Quello che stiamo facendo è sbagliato», mi sussurra all’orecchio più dolcemente di prima. «Sei talmente bello, Alain, e io non ho mai desiderato nessun altro uomo così tanto, ma… ma ti voglio bene e devo fermarti prima che tu ti faccia ancora più male». Mi bacia le guance bagnate di lacrime e appoggia la testa sulla mia fronte. «Affronta tuo padre. Scopri la verità. Solo allora potrai iniziare la tua nuova vita e se a quel punto vorrai che io ne faccia ancora parte ci sarò». Si specchia nei miei occhi. «Promettimi che lo farai». Annuisco senza crederci davvero. Lui mi bacia con amore. No, non ce la faccio, non sono in grado. La verità fa troppo paura e io sono solo un lurido


codardo. Lascio la casa di Eva e Andrew, a pezzi. Sono di nuovo solo. Che cosa ne sarà di me adesso?

Zurigo, giugno 2020 L’astinenza forzata a cui Andrew mi ha condannato è diventata insopportabile. Non faccio sesso da un mese, non vengo colpito o insultato da trenta giorni, non ricevo ordini se non qui in reparto dal dottor Fuster e da lei, Lucinda Warren. È devastante. Stamattina siamo di turno insieme. Lei è assorta come non mai di fronte alle numerose cartelle e muove la penna avanti e indietro sulla bocca carnosa. Provo un irrefrenabile desiderio di morderle le labbra. «Che cosa stai guardando?», sbotta improvvisamente, fulminandomi con lo sguardo. «Le tue labbra», dico sincero senza sapere perché. Forse è l’astinenza a rendermi audace. «Ma davvero… che cosa curiosa», commenta, sarcastica. «Io sto facendo questi conti da sola mentre tu te ne stai imbambolato come uno stoccafisso a guardarmi le labbra». Rivivo la sensazione del nostro unico bacio e il sesso mi duole nei pantaloni. «Hai proprio una bella bocca», decido di provocarla. Cinda arrossisce all’istante: evidentemente non le sono indifferente, esattamente come non lo ero mesi fa. «Così carnosa e invitante». «Cosa stai dicendo…». «Lucinda, ho dimenticato queste», ci interrompe Michael. «Scusami, ma ho fatto confusione e ora ci sono tutte queste cartelle da sistemare prima di sera perché…». Lei si gira di scatto e sfodera un’espressione maligna. «Occupatene tu», sbotta più severa che mai.


Michael arretra di qualche passo, stranito. «Ma… Cinda, io volevo solo…». «E se non le fai sparire prima di subito ti do anche le mie. E già che ci sei, prendi questa lettera di dimissione e portala a Fuster!». È un ordine, categorico e secco, e io non posso fare altro che eccitarmi da morire. Michael fa cenno di sì, raccogliendo imbarazzato tutte le cartelle dalla scrivania. Esce dalla sala degli specializzandi con la coda tra le gambe, mugugnando qualcosa in francese. Cinda respira affannosamente come a cercare di calmarsi. «Sei davvero un idiota», sbotta poi rivolta a me. «Come te ne puoi uscire così dopo tutti questi mesi? Ah certo… ho mostrato un po’ di polso e questo deve averti eccitato, giusto? Lo schiavo perfetto…». Colpito nel segno. Mi passo una mano nei capelli e la guardo seducente. «Può darsi, Cinda», sussurro, sfoderando il mio sorriso migliore. «Può essere che la tua risolutezza mi ecciti. La cosa ti dispiacerebbe?». Lei deglutisce, in difficoltà. No che non le dispiace… E io ho così voglia di fare sesso che sarei pronto a prenderla in quest’esatto momento, solo che… Non è giusto. Lei non è la donna per me. È solo una ragazza innocente, non può assolutamente darmi quello che voglio. Scuoto la testa e mi alzo, deciso a lasciare la stanza il prima possibile. Lei però mi sbarra la strada. Chiude la porta alle sue spalle e mi fissa dritto negli occhi. «Cosa fai, Alain?», dice a pochi centimetri da me. «Hai gettato l’amo per poi abbandonare la canna da pesca sulla spiaggia?». Mi sta provocando. Che cosa pensa di ottenere facendo così? «Stavo solo scherzando prima», mento spudoratamente. «E sono stato inopportuno». Lei fa segno di no con la testa. «Certo, continua a crederci». Avvicina le sue labbra alle mie, leccandole sensuale. «Potresti assaporarmi proprio qui, adesso». Sento un fremito lungo la schiena. «Ma la mia storia non ti aveva disgustato, o mi sbaglio?», le ricordo, crudele. «Già, ti sbagli. Quel giorno…», dice, toccandosi la bocca con le dita. «Non sono scappata via da te perché provavo disgusto. Io… ho solo avuto paura». «Paura di cosa?», le domando curioso. «Non è evidente?», ribatte lei, trafiggendomi con lo sguardo. «Io non sono una dominatrice. Tu vuoi qualcosa che io non posso darti. Vuoi qualcuno che


non sarò mai». Quelle ultime parole mi colpiscono dritto al cuore. A volte sembra che Cinda riesca a leggermi nel pensiero e un po’ mi fa paura. «Sì, hai ragione. Io ho bisogno di essere trattato in un certo modo per provare piacere, ormai. Solo che vederti comportarti in quel modo, risoluto e dominante, mi ha fatto sentire di nuovo vivo e adesso…». Non riesco a finire la frase, perché le sue labbra mi travolgono. Lucinda mi afferra il volto con le mani e mi ficca la lingua in bocca. È una sensazione nuova, penetrante e totalmente disarmante. La assaporo con tutto me stesso: è fuoco e insieme ghiaccio, energia allo stato puro. Fa bene e fa male da morire. Lucinda si stacca da me solo per riprendere fiato. Le sue guance sono rosse come rubini e il mio cuore accelera impazzito. «Come pensavo…», balbetto in difficoltà, guardandola negli occhi e cercando di nascondere il gonfiore nei pantaloni con un lembo del camice. «Le tue labbra sono davvero fantastiche». «Anche le tue, Alain», mormora lei, imbarazzata. Arretra di qualche passo per poi scuotere la testa combattuta e fuggire dalla stanza. Che io mi sbagli su di noi? Incurante delle parole di Andrew e ancora eccitato dal bacio di Cinda, all’uscita dall’ospedale faccio una riceca su internet al fine di trovare un posto adeguato per soddisfare le mie voglie. La scelta ricade su un locale chiamato Antrax. Le recensioni sul sito sembrano incoraggianti. “Il luogo perfetto per liberare il mostro che c’è dentro di voi…”; “Sono un dominatore e Antrax la culla degli schiavi più obbedienti. Da provare!”; “La stanza nera è quella più interessante. Se volete provare a trasgredire e superare i vostri limiti avete trovato il posto giusto!”. Per l’occasione sono passato da casa e ho indossato un semplice completo nero. Sotto porto degli slip di lattice simili a quelli che David ha distrutto durante il nostro primo incontro. Ho bisogno di scopare: non so cosa aspettarmi da un locale così, ma tanto vale provare. Il taxi si ferma a pochi metri dall’ingresso dell’Antrax. Pago la corsa e mi dirigo svelto verso le porte in legno laccato nero, dove due buttafuori fanno la guardia come mastini arrabbiati. Mostro loro un documento e faccio un mezzo sorriso, impaziente di entrare.


Uno dei due mi restituisce un’occhiata lasciva mentre l’altro si limita a restituirmi la carta di identità per poi aprire la porta. Imbocco un corridoio lungo e buio e arrivo alla reception. Una ragazza con i capelli lunghi fino al sedere vestita in modo succinto mi chiede la mano destra. Gliela allungo e lei mi marchia con un timbro a forma di “A”. Le consegno una banconota da cinquanta franchi e finalmente accedo alla sala principale del locale. La musica mi rimbomba in testa. Il volume è assordante e le luci stroboscopiche illuminano delle gabbie in cui sono racchiusi ragazzi e ragazze immagine. Più che un club esclusivo sembra una discoteca per adolescenti arrapati. Scuoto la testa un po’ deluso e mi dirigo verso il bar. Ordino un gin lemon e poi sguscio tra la gente, fino a raggiungere i tavoli ovali e i divanetti raggruppati lungo le pareti della sala. «Posso sedermi?», chiedo alla donna sola che sta fumando una sigaretta con elegante lentezza. Lei socchiude gli occhi curiosa. «Sottomesso o dominatore?», domanda prima di rispondermi. Sorrido divertito. «Schiavo», dichiaro quasi con orgoglio. Lei mi fa cenno di accomodarmi con la mano ingioiellata. «Grazie», le dico. «Mmm, non ti ho mai visto qui nei paraggi. È la prima volta che vieni?», domanda curiosa. Mando giù un sorso di gin lemon e faccio segno di sì. «Mi chiamo Claire». «Alain». Lei si lecca le labbra dipinte di viola. Deve avere poco più di quarant’anni ed è una bella donna. Ha dei lineamenti piuttosto severi ma il corpo è morbido e sinuoso, stretto in un vestito di latex color porpora. «Cosa ci fa un ragazzino come te in un posto così?». Mi mordo le labbra e mi slaccio qualche bottone della camicia. «Direi che sono nel posto dove devo essere», affermo, mostrandole i segni che ho sul petto. I suoi occhi nocciola si illuminano immediatamente. «Accidenti. Ci vai pesante allora…». «Dipende», dico, sperando di averla impressionata. Il mio sesso preme dolorosamente contro gli slip. Chiacchieriamo per qualche minuto. Claire mi osserva come un falco, quasi come se stesse studiandomi, prima di sferrare un attacco. Mi muovo con


calcolata sensualità, mostrandomi servile e pronto a stare al suo gioco. «Potremmo andare da un’altra parte a continuare il discorso», dice lei all’improvviso, allungando una mano sulla mia gamba. Le sue dita si spingono fino al cavallo dei pantaloni e indugiano a pochi centimetri dal mio membro insoddisfatto. «Non hai dei sottomessi qui con te?», chiedo curioso, sperando che la sua mano arrivi più in alto. Lei fa cenno di sì con la testa. «Ne ho parecchi ma nessuno di fisso. E questa sera voglio occuparmi di te». Si alza e mi sovrasta come faceva Isabel. Mi afferra la mano e senza indugiare oltre mi conduce verso l’uscita della sala da ballo per inforcare un corridoio scuro come quello da cui sono entrato. «Qui ci sono i privé… e questa è la mia stanza preferita», dice, aprendo una porta di metallo grigio. «Entra, ragazzino». Faccio qualche passo nel buio e di colpo le lampade al neon si accendono, illuminando un ambiente del tutto insolito. Sembra la sala visite di un medico dai gusti dark. Al centro della stanza c’è un lettino di pelle nera simile a quello dei dentisti, se non fosse per le cinture metalliche all’altezza di polsi e caviglie. Sulle pareti immacolate sono appesi diversi strumenti bondage. Sul tavolino di metallo di fianco al lettino ci sono falli di lattice di varie dimensioni. Alcuni mi preoccupano. «Spogliati, pet», mi ordina Claire severa, chiudendosi la porta alle spalle. Senza farmelo ripetere comincio a sbottonarmi la camicia, emozionato e intimidito. I suoi occhi mi scrutano attenti, accendendosi di desiderio man mano che mi denudo. Proprio in quel momento il viso di Isabel mi lampeggia nella testa provocandomi una scossa di elettricità lungo tutto il corpo. Mi fermo per riprendere fiato e Claire schiocca le dita. «Che aspetti?», mi incita impaziente. Lascio cadere i pantaloni sul pavimento, indeciso se liberarmi anche degli slip di latex. «Quelli lasciali», dice lei, passandomi una mano sui glutei. «E adesso vai a sederti lì». Indica il lettino. Faccio quello che mi chiede. Non appena sono seduto, Claire mi blocca caviglie e polsi. Sono completamente esposto al suo volere. «Mmm, sei così invitante», sussurra calda. «Bellissimo». Indossa dei guanti da chirurgo di fronte ai miei occhi adoranti. «Sentiamo un po’ la consistenza qui…». Infila due dita sotto gli slip di latex e mi accarezza i testicoli. Una vampata di calore mi travolge, spietata. «E qui». Mi penetra l’ano senza


prepararmi facendomi sussultare di dolore. Stringo le labbra, infastidito ma eccitato. «Credo che userò il numero due con te». A che cosa si riferisce? Mi poggia le labbra sul collo e mi morde con violenza. Fa davvero male e un grido strozzato mi esce dalla gola mentre lei infierisce con i denti aguzzi. Le sue dita dentro di me scavano, come a cercare qualcosa di introvabile. Il mio membro, dolorosamente eretto, lotta contro il latex. «Fai il bravo, ragazzino. Non muoverti, sto valutando cosa farti», dice fredda. Cerco di stare fermo ma la paura comincia a scorrermi nelle vene. Solo in quel momento mi rendo conto di aver seguito una perfetta sconosciuta e di essermi lasciato immobilizzare, rendendomi indifeso. Ignoro tutto di lei: i suoi modi e il tipo di dolore a cui sarebbe capace di sottopormi. Di colpo mi sento uno stupido. «Non ti irrigidire», sbotta sfilando via le dita da me con un movimento secco. Si leva i guanti lasciandoli cadere nella spazzatura e poi afferra una delle forbici appese alla parete. «Questi li tagliamo così non ci daranno più fastidio», mi spiega, distruggendo gli slip, poi mi afferra il sesso tra le mani e inizia a masturbarlo forte. Il piacere si irradia subito in tutto il mio corpo, ma come al solito sono troppo precipitoso. Claire smette di toccarmi per piantarmi il tacco dello stivale al centro del petto. «Che tatuaggio curioso», commenta. Mi lamento e per tutta risposta ricevo uno schiaffo. «Ti ho concesso forse di parlare?», dice, afferrando il mio viso minacciosa. La sua espressione è raggelante. Faccio segno di no con la testa. «Bravo, così siamo sulla stessa lunghezza d’onda». Si siede a cavallo delle mie gambe e si struscia più e più volte sul mio sesso. «Hai un buon profumo, Alain… Mi viene proprio voglia di mangiarti». Addenta la mia spalla con la stessa violenza con cui mi aveva attaccato il collo. Cerco di trattenermi ma mi sta facendo davvero male. «Zitto», mi intima lei. «Stai zitto». Mi lecca la pelle del petto fino ad arrivare ai capezzoli e succhiarli. Di nuovo piacere. La sua mano si chiude sul mio membro come una morsa. Riprende a masturbarmi, alternando movimenti veloci e carezze lente e bollenti. Il sangue affluisce alla mia virilità così tanto che mi sento scoppiare. «Oh, no…», sussurra Claire crudele. «Prima di farti venire proviamo uno di questi, schiavo». Afferra un fallo nero dal tavolino alla sua destra e lo preme sulle mie labbra improvvisamente secche. «Leccalo bene o sarà terribilmente doloroso». Lo


spinge nella mia bocca e io non posso fare altro che obbedire a quell’ennesima richiesta. La pelle scura ha uno strano sapore dolciastro. La lecco lentamente, spaventato. «E adesso rilassati, ragazzino», dice toccandomi di nuovo tra i testicoli e i glutei. D’istinto contraggo tutti i muscoli, persino quelli che ignoravo di avere. Un altro schiaffo mi colpisce il viso. Sussulto di piacere e dolore mentre Claire sorride, portando il fallo vicino al mio sfintere anale. Senza aspettare oltre le sue mani guidano il sesso artificiale dentro di me. Il dolore è così acuto da mozzarmi il respiro. La dominatrice ne è compiaciuta. «Sì… proprio così», esclama estasiata. «Ti piace essere punito, ragazzino?», mi chiede, stringendo con la mano destra il mio membro turgido. Il fallo è entrato per una buona metà della sua lunghezza nel mio corpo immobilizzato. Provo a muovermi per quanto le legature me lo consentano a malapena, ma il dolore aumenta esponenzialmente. Claire lambisce la mia virilità con la lingua, strisciando sul glande come un serpente impazzito. Le scosse elettriche ai reni mi tramortiscono. Inizio ad ansimare mentre lei ingoia il mio sesso in quella gola che sembra non avere fine. Non appena il piacere mi sconquassa ecco che spinge il fallo più a fondo, tramortendomi. «Che visione celestiale», commenta guardando le mie gambe tese fino allo spasmo, l’addome madido di sudore e le mie labbra contratte per il dolore. «Ancora». Sfila un poco il fallo di latex per spingerlo di nuovo e più forte di prima dentro di me. Inarco la schiena e ansimo in preda alla frustrazione. Lei non smette di torturarmi e mi scopa in quel modo freddo e crudele. Quando sono al limite di sopportazione però sfila via da me quello strumento di tortura e chiude le labbra sul mio sesso. Mi morde e mi lecca a lungo portandomi ancora sull’orlo dell’orgasmo, ma non abbastanza per soddisfarmi e liberare il mio piacere. «Ti supplico», mormoro esausto. Claire fa segno di no con la testa. «Puoi supplicarmi quanto vuoi», dice, alzandosi in piedi e smettendo di masturbarmi. Afferra un frustino piatto dalla parete e se lo sbatte sul palmo della mano con forza. No… Ancora. I colpi arrivano veloci e intensi. Mi sferzano dappertutto, insistendo sul ventre e sul petto. Fa male e fa bene, perché per un po’ smetto di pensare a Isabel. Di colpo le forze mi ritornano e guardo la mia carnefice con un sorriso perverso.


«Ancora!», le urlo, sorprendendola. Mi passo la lingua sulle labbra e continuo a sorridere, stupendomi di me stesso. Ormai non ci sono limiti a ciò che farei per non sentire il vuoto che Isabel ha lasciato dentro di me. «Ancora!». Claire non se lo fa ripetere. Mi colpisce senza sosta, aumentando il vigore delle frustate. Io ne gioisco, sprofondando nella parte più buia di me. Chiudo gli occhi e inspiro l’odore del dolore mischiato a quello della lussuria. Il sollievo però dura troppo poco. Quando Claire inizia a scoparmi, prendendomi come un oggetto, i miei pensieri tornano inesorabili a Isabel. Mi odio perché la amo così tanto, nonostante tutto ciò che mi ha fatto. Digrigno i denti infuriato, le lacrime mi riempiono gli occhi, e a quel punto un altro volto mi appare nella mente, un sole inaspettato in una giornata d’inverno: Lucinda Warren. La mattina dopo arrivo in ospedale in ritardo. Ho male dappertutto e sono costretto a indossare una camicia a maniche lunghe per nascondere i segni della notte precedente. Claire mi ha lasciato il suo numero dicendo di essere interessata a frequentarmi ma il mio cuore, a dispetto di quello che credevo, pesa più di prima. Perché per la prima volta non è stata Isabel a dominare i miei pensieri mentre usavo il sesso per liberarmene. Ho pensato a Lucinda e la cosa mi ha sconvolto. Può essere una ragazza così diversa da me l’arma giusta per cacciare Mistress via dal mio cuore? «Ben arrivato…», la sua voce mi riscuote dal torpore. È carica di sarcasmo e prelude guai. «Non mi sento tanto bene, oggi», le dico senza guardarla. Sono profondamente imbarazzato all’idea che capisca ciò che ho fatto la notte scorsa. Sono disgustato da me stesso e dalla mia debolezza. «Già. Sarà per quello allora che con quasi trenta gradi hai deciso di indossare le maniche lunghe». Mi porge una pila di cartelle. «Sono i tuoi casi per oggi. Per favore puoi scrivere in maniera leggibile? Sono stanca di interpretare i geroglifici». Mi volto di scatto e le cartelle le cadono di mano, finendo per terra. I suoi occhi si posano alla base del mio collo, sgomenti. Ha visto il segno di un morso. «Che cos’è quello?», chiede Lucinda tra i denti. Non le rispondo e alzo solo un po’ di più il colletto, vergognandomi di me


stesso come non mai. «Sei stato con lei?», mormora Cinda con gli occhi improvvisamente umidi. È a Isabel che sta pensando? «No», ribatto. Lei abbassa lo sguardo verso la punta dei suoi zoccoli. Non l’ho mai vista così triste. Restiamo in silenzio per un po’, l’aria è carica di tensione. «Il bacio di ieri non ha contato niente per te, vero?», dice infine risentita. «Già, dovevo saperlo. Tu vai solo con chi ti picchia e ti insulta, giusto?». Alza lo sguardo, fulminandomi. «Dovevo aspettarmelo, dannazione!». «Che cosa diavolo vuoi da me, Cinda?», ringhio a bassa voce, perché non ci sentano nel corridoio. Lei sta ferma per un attimo, combattuta, poi si avvicina e con mia sorpresa mi dà un sonoro ceffone. Ansima ferita. La guardo tramortito dalle sensazioni che il suo schiaffo mi ha appena provocato e sorrido, sollevato. «Mio Dio… È davvero questo che ti eccita?», domanda, stringendo i pugni sui fianchi. «Da morire», confesso, mentre il mio sesso si gonfia. Mi accorgo di desiderarla in un modo diverso da come l’ho desiderata qualche mese fa e mi chiedo come sarebbe essere picchiato da quelle piccole dita affusolate. «Mi sembra di combattere una battaglia già persa in partenza», commenta, e si mette a camminare per la stanza, nervosa. Io la osservo in silenzio. Perché non me ne vado lasciandola alle sue considerazioni puritane? Io amo ancora Isabel. Appartengo a un’altra donna. Perché allora non riesce a essermi del tutto indifferente? «Sai chi sono», sussurro freddo abbassando lo sguardo. «Non ho motivi per nasconderti ciò che faccio per sentire ancora un po’ di piacere». «Quindi se io ti facessi le stesse cose… staresti anche con me?», mi chiede turbata. Annuisco. «Mi piacerebbe provare, Lucinda, lo sai». Sì, mi piacerebbe davvero, più di quello che riesco ad ammettere a me stesso e a lei. «In fondo perché non farlo? Tu mi vuoi e potresti avermi, se solo ti lasciassi un po’ andare». La sto provocando. Voglio che si ponga delle domande, che anneghi negli stessi dubbi che hanno dilaniato me alle prime parole di Isabel. Desidero che superi il limite. «Se decidessimo di farlo non si potrà più tornare indietro. Sei disposto a perdermi per tentare?». La sua è una valida obiezione. No, non voglio perderla, ma allo stesso tempo ho bisogno di provare che cosa vuol dire stare


con una persona come lei. «Devo pensarci», conclude infine. «Adesso ti prego, abbiamo il giro di visite da fare e non voglio perdere tempo. Non parliamone più… E metti un cerotto su quel segno prima che altre persone capiscano quello che hai fatto». «Mettimelo tu, per favore». Lei mi guarda, stranita. Poi si fruga nelle tasche e tira fuori un cerotto di garza. Si avvicina timidamente e scosta il colletto della camicia sfiorandomi con le dita bollenti. Per un attimo, un secondo, non ho pensato a Isabel. Di nuovo.

Zurigo, luglio 2020 Inizia una nuova settimana e Cinda non si presenta alla riunione degli specializzandi come al solito. Solo nel pomeriggio scopro che non segue più i miei stessi pazienti e che il mio team di colleghi è cambiato. Per questo motivo il tempo che possiamo trascorrere insieme si riduce a pochi istanti, rubati alle pause caffè o ai minuti prima dell’inizio delle guardie. In queste occasioni è fredda e professionale, evita il più possibile le battute scherzose e soprattutto cerca di non ritrovarsi da sola con me. Sono turbato e triste. La sua assenza ha rotto qualcosa dentro di me, un equilibrio di cui non mi ero reso conto prima, ma che ora non c’è più, e fa maledettamente male. Il 12 luglio si festeggia il compleanno di Fuster nella sala delle infermiere. Cinda arriva in ritardo indossando solo il camice bianco. I capelli neri sciolti sulle spalle ondeggiando morbidi. Ho voglia di abbracciarla, di stringerla forte, ma mi trattengo, appoggiandomi a una delle pareti e sperando di diventare invisibile. Da quando abbiamo parlato di noi ho smesso di cercare del sesso facile per acquietarmi. È come se qualcosa dentro di me si fosse calmato, in docile attesa di una sua decisione. La desidero, ma non voglio forzarla. Fuster taglia la torta alla marmellata di lamponi, ringraziando tutto il team per il lavoro di quest’anno. «Vuoi un po’ di crostata?», esclama Cinda, porgendomi un piattino di


plastica. Faccio segno di sì. «Grazie». Lei si morde le labbra, trafiggendomi con il suo sguardo intenso. «Come stai?», le domando prima che si allontani da me. «Bene», mormora nervosa. «Ci siamo a malapena incrociati in questi ultimi giorni». «Perché ho sostituito Giorgia. E poi avevo bisogno di starti lontana». «Come mai?». Lei non risponde. «Hai pensato a ciò che ti ho detto?» «Sì…». «E…?». Cinda si fruga in tasca e mi allunga un biglietto di Hello Kitty. «Questo è il mio indirizzo. Vieni da me verso le nove, stasera». Di colpo mi sento di nuovo in forze. «Non aspettarti niente, però», si affretta a specificare. Annuisco sorridendo felice per la prima volta in questa settimana. Puntuale suono al campanello dell’appartamento di Cinda. La dottoressa Warren vive molto vicino all’ospedale, in un complesso per studenti. Mi sono cambiato prima del nostro appuntamento ma non ho indossato nulla che potrebbe spaventarla. Solo una camicia bianca e un paio di jeans. Lei apre dopo qualche secondo. Ha ancora i capelli sciolti sulle spalle ma al posto del camice immacolato indossa un vestito di cotone rosso come le sue labbra. «Accomodati», dice imbarazzata, indicandomi il soggiorno-cucina. «È solo uno studio, ma costa poco ed è vicino all’ospedale», aggiunge come a giustificarsi della sistemazione modesta. Mi guardo attorno e tutta quella semplicità mi è quasi di conforto. Nessun mobile costoso, nessun gusto ricercato. È tutto così pulito. «Vuoi qualcosa da bere?». Faccio segno di sì. «Non ho alcolici però. Ti posso offrire della Coca-Cola o del succo». Anche questa è una novità. Sono abituato a bere qualcosa di forte prima di fare sesso. «Il succo», rispondo sorridente. Lei afferra due bicchieri di vetro colorato e versa a entrambi del succo alla pesca. Ci sediamo sul piccolo divano e beviamo in silenzio. «Sei molto carina», le dico dopo qualche minuto, ammirando il suo corpo sinuoso. Cinda arrossisce e diventa in tinta con il vestito. Lascia il bicchiere


sul tavolino di vetro di fronte a noi e si avvicina sensuale. È a piedi nudi, non indossa gioielli, eppure è sexy da morire. «Anche tu». Le sue labbra si poggiano tremanti sulle mie. È un bacio dolce, carico di emozioni, innocente. Afferro la mano che Cinda ha appoggiato sulla mia guancia e per un po’ rimaniamo così. Poi la sua lingua mi invade la bocca e presto ci ritroviamo avvinghiati in un abbraccio carico di passione. Voglio baciarla dappertutto, leccare ogni centimetro della sua pelle e darle piacere. Il suo corpo è caldo, morbido, invitante. «Alain…», mormora Cinda ansimando. «Dimmi che cosa vuoi che io faccia», le sussurro eccitato, pronto a soddisfare ogni sua richiesta. I suoi occhi si sgranano come due finestre sull’infinito. «Fai quello che vuoi», mi dice infine con dolcezza, mandandomi in tilt. Io so cosa voglio ma ho bisogno che sia lei a farlo senza che io glielo chieda. Ho bisogno che mi impartisca degli ordini così che possa soddisfarli e compiacere il mio ego di sottomesso. Scuoto la testa, turbato. Le sono affezionato più di quanto immaginassi, il suo corpo mi attira da mesi ormai e capisco di essermi trattenuto solo per via del nostro diverso modo di concepire il sesso. Ma i suoi occhi… Il modo in cui mi guarda ha per certi versi la stessa luce che illuminava quelli di David mentre mi parlava del suo amore perduto. «Fa’ quello che vuoi, Alain…», ripete baciandomi tutto il viso e riempiendomi di quel calore rassicurante che solo il vero amore riesce a dare. «Ho bisogno…», rantolo tra i suoi baci mentre inizia a spogliarmi, tremando come una foglia. «Ho bisogno di ordini», sussurro in preda alla passione. «Ok… allora ti ordino di farmi ciò che vuoi», conclude lei, vittoriosa. Il suo respiro è affannoso, caldo come lava. «Ubbidisci, Alain. Fammi ciò che vuoi». È la prima volta che qualcuno mi fa una richiesta simile. Sono stordito ed emozionato allo stesso tempo. Le sfilo il vestito senza proferire parola. Sì, la voglio nuda su di me. Voglio che mi cavalchi fino a sfinirmi. Lucinda non indossa il reggiseno ma solo dei microscopici slip di cotone. «Toglimeli», mi incita. Lo faccio, bagnandomi le dita dei suoi umori. Il suo sguardo si sposta sulla mia camicia sbottonata e sui jeans ancora intonsi. Lo prendo come un tacito ordine e mi spoglio davanti a quegli occhi profondi come l’universo. Più centimetri scopro più il suo sguardo si adombra. Sono peggio di una cartina geografica e ogni ferita sembra riaprirsi al suo cospetto.


«Questo sono io», dico piano accarezzando il tatuaggio al centro del mio cuore. «Questa frase è una menzogna», ribatte Cinda, toccando la scritta sullo sterno. «La passione obbedisce al suo stesso bisogno, mentre la ragione può dominare, se solo lo si vuole davvero». Le sue labbra solcano il mio petto, percorrendo tutti i segni inferti da Isabel, da David e da tutti i miei amanti. È come se volesse guarirmi con il suo tocco amorevole. Può il vero amore salvarmi dalla sofferenza che esso stesso mi ha inferto? Cinda mi afferra il sesso e se lo porta tra le gambe, ansimando dolcemente. Timidamente apre la confezione di un preservativo e con delicatezza lo srotola su di me. Poi mi abbraccia, accompagnando il mio affondo. Entrambi sospiriamo sollevati nel sentire i nostri corpi uniti l’uno all’altro. Lei mi stringe, aggrappandosi alle mie spalle come se non volesse lasciarmi più andare via. È bello essere trattati in questo modo, eppure sento che mi manca qualcosa. La bacio sul collo mentre lei si muove, solleticando il mio petto con i capezzoli inturgiditi, ma il mio cuore si allontana lentamente al ricordo di Isabel e della sua tirannia. «Alain», mi richiama Cinda mentre i muscoli dell’addome le si contraggono in spasmi di piacere. Con le dita le solletico il clitoride, aumentando la sua libido. Le sue labbra carnose cercano di nuovo le mie in un bacio così dolce e appassionato da sciogliere il ghiaccio formatosi attorno al mio cuore. «Alain, Alain». La sua voce è una rassicurante litania, ma non mi eccita come le urla con cui Isabel impartiva i suoi ordini. Socchiudo gli occhi in difficoltà. Sono eccitato, voglio assaggiare il suo corpo innocente da quando ci siamo incontrati in clinica, eppure non riesco a scoppiare in un orgasmo. Lucinda libera un urlo strozzato quando raggiunge l’apice del piacere. Accompagno i suoi movimenti convulsi solo per permetterle di terminare il suo amplesso. Il freddo ha di nuovo invaso la mia anima. «Che cos’hai?», mi chiede non appena l’orgasmo l’ha abbandonata del tutto. Stringo le labbra in una smorfia, il mio sesso ancora dentro di lei. «Non ce la faccio», confesso imbarazzato, rifuggendo il suo sguardo. Ho paura della delusione che le sto dando, tanto da non riuscire a guardarla più negli occhi. «Non riesco a venire così». Sono parole che pesano come macigni. Le cadono rovinosamente addosso, schiacciandola. «Alain…». «Scusami», mormoro improvvisamente triste, conscio di aver sbagliato ad


accettare quell’invito. Mi sfilo via dal suo corpo e mi appresto a raccogliere i vestiti. «Fermati!», grida lei, sorprendendomi. Mi volto stranito senza capire. «In… In ginocchio, Alain», sbotta Cinda, mozzandomi il fiato. «Cosa…». «Obbedisci!». Il tono risoluto. La stessa freddezza di Isabel. Cado sul pavimento, in ginocchio. Il mio sesso si riempie all’istante di vigore. Lucinda ansima, turbata. Poi le sue labbra si serrano. «Toccati», dice severa. Non riesco a credere alle mie orecchie. Porto la mia mano sul sesso e comincio a toccarmi, eccitato. I suoi occhi mi osservano, attenti come non mai. «Di più». Stringo la pelle attorno al glande e aumento il ritmo delle spinte masturbandomi come facevo di fronte a Isabel. Comincio a rilassarmi: non ricevere ordini precisi mi disorienta più di ogni altra cosa. Voglio che la mia donna mi domini sempre. Lucinda si inginocchia a sua volta. Afferra il mio volto con forza e mi infila la lingua in bocca. Mi divora, corpo e anima insieme. È un bacio amaro questa volta, carico di rabbia. Sento la sua mano unirsi alla mia per darmi piacere. I fremiti aumentano risalendo dai reni fino al pene. «Cinda…», sussurro, quando si stacca dalle mie labbra per riprendere fiato. Per tutta risposta Lucinda mi tira uno schiaffo, così forte da sorprendermi. Smetto di masturbarmi per toccarmi la guancia che mi ha appena colpito, ma lei sembra contrariata. «Continua!», ringhia crudele. «Non smettere, continua!». Resto imbambolato per qualche istante, poi riprendo a toccarmi. «Vieni, Alain», mi ordina secca, afferrando il mio viso con forza. «Vieni!». Un altro schiaffo e finalmente inizio a sentirmi a casa. L’orgasmo mi travolge, la lussuria addenta il mio cuore e il piacere mi pervade più forte che mai. Il mio seme si riversa sulle nostre dita, bruciante come acido. Ansimo, provato e appagato insieme, ma non appena riapro gli occhi mi sento sprofondare in un baratro. Cinda sta piangendo. È immobile, di fronte a me, incredula di quello che ha appena fatto. «Cinda… Che cosa…?». Lei si alza di scatto e corre in bagno. Non ne esce per una buona mezz’ora e per tutto il tempo la sento singhiozzare al di là della porta.


Sono un mostro. Ho voluto toccare la luce, l’ho intrappolata per un istante nelle mie ombre, senza pensare alle terribili conseguenze. Ho distrutto l’unica cosa innocente che avevo vicino. L’unica persona che poteva salvarmi da me stesso. Mi rivesto lentamente, vergognandomi come non mai. Solo in quel momento Lucinda esce dal bagno. È avvolta in un asciugamano di spugna e ha gli occhi gonfi di pianto. «Cinda…», mi avvicino per abbracciarla, ma lei si ritrae all’istante. «Credevo… Credevo di farcela», balbetta piano, guardandosi la punta dei piedi. «Ho cercato di essere come tu mi volevi, ma… Ma colpirti mi ha fatto così male da togliermi il respiro». Una lacrima le riga la guancia. Scuote la testa facendo ondeggiare dolcemente i capelli. «Io ti amo, Alain», confessa infine, coprendosi il volto. «Mi sono innamorata di te dal primo giorno in cui ti ho visto… Ho ascoltato la tua storia, ho cercato di starti vicino come ho potuto in tutti questi mesi, ma… Non posso essere quella che non sono», si lascia sfuggire un singhiozzo. «Non posso viverti e amarti in questo modo». «Cinda… Io…». Improvvisamente sento un sordo dolore al centro del petto. «Ti prego, vai via», sbotta lei prima che possa dirle altro. «Vattene e stammi lontano da oggi in poi». Mi volta le spalle chiudendosi in un mondo in cui io non posso raggiungerla. Fa dannatamente male ma non riesco a dire altro. Senza proferire parola lascio la stanza, con il cuore in frantumi. Chiamo un taxi e torno a casa, turbato. Io ti amo, Alain. Le parole che tanto avevo desiderato uscissero dalla bocca di Isabel sono lì nella mia testa, pronunciate dall’ultima persona che mai avrei immaginato e bruciano come ferri incandescenti. La rabbia mi assale, eppure non sono capace di ritornare da Cinda e stringere tra le braccia l’unica donna che mi è stata vicino senza bisogno di menzogne o misteri. La testa mi scoppia. Isabel, David, Victor. Lucinda… Arrivo a casa poco prima delle undici. Le luci del piano terra sono spente, ma quando entro in camera da letto trovo mio padre in piedi al centro della stanza. «Che… Che cosa ci fai qui?», balbetto nervoso. Sono settimane che non scambiamo una parola. Victor si volta nella mia direzione e sventola di fronte ai miei occhi increduli il libro di Martin Brown. «Ti ho aspettato per scambiare due parole con te. A proposito, chi ti ha dato questo libro?», chiede con un filo di agitazione nella voce.


«Un mio amico», rispondo sospettoso. Le sue dita accarezzano le pagine al centro del libro. «Perché me lo chiedi?». Lui si passa una mano tra i folti capelli, sforzandosi di sorridere. «Niente… Niente. È solo che ne ho una copia anch’io in camera mia. È strano. È un libro a cui sono molto legato», dice piano, soffermandosi su una pagina in particolare. «Questa poesia poi è stata fonte di grande ispirazione quando avevo poco più della tua età». Mi avvicino per leggere il titolo che sta indicando. «Il Tuono, un giuramento d’amore». Il cuore mi si ferma nel petto. Improvvisamente sono colto da una sferzata di gelo così intensa da mozzarmi il respiro. «Alain, che ti prende?». La testa mi gira e la nausea mi assale talmente forte da dovermi accasciare a terra. «Alain!». Ho crampi ovunque. Provo dolore. Un dolore così forte da impazzire.


Capitolo 15 Il colore di un tuono

Zurigo, luglio 2020 Il Tuono Niente da biasimare, niente da nascondere. Chiedimi di sentirmi come la pelle sotto le catene. Chiedimi di arrendermi come la foglia sotto la pioggia. Farò tutto ciò che posso per vivere nei tuoi occhi. Chiedimi di cadere al di là delle colline. Chiedimi di morire quando tu morirai. Niente da biasimare, niente da nascondere. Farò tutto ciò che posso per vivere nei tuoi occhi. Eppure tu fuggi da me e dal mio eterno amore, dalle catene che mi stringono il petto soffocando il mio ardore, Sei inafferrabile come il colore che nessuno può vedere, Il colore di un tuono che spezza il cielo urlando il mio nome.

Non

riesco a smettere di tremare. Le parole del mio giuramento mi piombano addosso come chicchi di grandine. Fanno male, dannatamente male. C’è anche una frase in più, che si propone al mio cuore come il pezzo mancante del misterioso mosaico di cui io ho fatto parte, ignaro della verità. «Alain, per Dio!». Mio padre mi scuote per le spalle e solo così riesco a tornare un po’ in me. «Un giuramento», balbetto infine con la bocca in fiamme. «Ho fatto un giuramento». I suoi occhi grigi si spalancano per la sorpresa. «Di che cosa stai parlando? Alain, di che giuramento stai parlando?». Il mio sguardo lo trafigge più duramente che mai. «Isabel e David…». Due nomi. Due pallottole nel cuore. Le braccia di mio padre ricadono lungo i fianchi e l’inquietudine inonda le sue iridi fredde come il ghiaccio per la prima volta da quando lo conosco. Solo in quest’istante capisco che tutte le


mie paure sono figlie della verità più atroce. «Che… Che cosa…». Ora è lui a balbettare. Il grande Victor Bercher, l’uomo più forte che io abbia mai conosciuto, colui che non sbaglia mai. L’uomo per cui sono stato distrutto… «Ricordi i loro nomi, papà?», chiedo impietoso di fronte alla sua espressione attonita. Lui non muove un muscolo. È troppo sconvolto. A fatica mi rialzo in piedi e senza più nessuna vergogna mi sbottono la camicia, pronto a mostrargli che cosa sono diventato a causa sua. «Oh mio Dio…», sussurra Victor non appena gli occhi sfiorano tutte le mie cicatrici per poi soffermarsi sul tatuaggio che ancora mi lega indissolubilmente a Isabel. «Mio Dio, Alain. Io… Io non…». «È tutto vero», mormoro devastato, mentre le lacrime gli feriscono il volto. «È tutta colpa tua…». Non abbiamo chiuso occhio. Siamo rimasti nella mia camera, immobili come statue, entrambi bloccati in un silenzio doloroso per ore. Victor continua a fissare il libro di Martin Brown abbandonato sul pavimento. Le parole della poesia che ha segnato il destino di entrambi non smettono di urlarmi in testa. «Dov’è lei?», azzarda alle prime luci dell’alba, sbottonandosi il colletto della camicia. I raggi del sole del mattino gli illuminano il volto. «Isabel?», chiedo, nonostante sia evidente che si stia riferendo a lei. Fa segno di sì. «Lavora all’ETH. È diventata responsabile di ricerca». Annuisce, ancora visibilmente turbato. «E suo fratello?». Si morde le labbra con forza, come se per David provasse qualcosa di più profondo. «Gestisce quell’assurdo posto…». «Das Silberne Spinnennetz… Come dimenticarlo». Ancora un’altra crepa nel mio cuore dilaniato. Lo guardo affranto. Vorrei chiedergli così tante cose. Vorrei urlargli contro tutto il mio dolore, ma sono ancora paralizzato. Mi sento inerme. «Alain… Sono stati loro a ridurti così?». Ci guardiamo negli occhi creando una connessione mai avuta prima di quel momento. «Dimmelo, ti prego». Il tatuaggio sul petto mi brucia come se stesse andando a fuoco. «Dimmelo», ripete Victor. Ha gli occhi pieni di lacrime. Annuisco. Lui si preme le mani sul viso e inizia a singhiozzare. Non riesco a


fare nulla se non fissarlo attonito, incredulo e preoccupato insieme. Non l’ho mai visto piangere. Quell’uomo seduto sul pavimento con i vestiti in disordine, i capelli arruffati e l’aria distrutta non è mio padre. È un uomo schiacciato dal senso di colpa. Ascolto le sue lacrime in silenzio. Sembrano fatte di rabbia e disperazione. Non posso dirgli nulla che lo aiuti. Posso solo aspettare che mi dica la verità, non appena ne sarà in grado. «Ti va di raccontarmi come li hai conosciuti?», gli chiedo quando sembra essersi calmato. Lui annuisce. «È iniziato tutto al mio terzo anno di specializzazione», esordisce, asciugandosi il volto con la manica della camicia azzurra. «Mio padre, tuo nonno Karl, era appena morto, lasciandosi dietro solo una lettera nella quale mi chiedeva di essere sempre forte e onorare il mio mestiere… il nostro mestiere, con tutto me stesso. Sai, io non sbagliavo mai. Ero ineccepibile in tutto e per tutto, ma questo mi causava un forte stress sia fisico che emotivo. Era dura essere l’erede di Karl Bercher. Era dura sopportare tutte quelle pressioni, così…». Si passa le mani nei capelli ancora una volta. «Ho cominciato a sfogarmi nel sesso. In quel particolare momento non credevo di potermi permettere una relazione fissa, così iniziai a prediligere ambienti un po’ diversi, in cui potevo fare l’unica cosa che mi riusciva bene oltre alla medicina». «Che cosa?» «Dominare». Deglutisco, con il cuore a mille. «Dominare le persone come dominavo gli studi. Imparare a controllare i sentimenti come avrei imparato a controllare i miei pazienti affinché si fidassero ciecamente di me, affidandosi senza remore, capisci Alain?». Non rispondo ma gli restituisco uno sguardo freddo e affamato di verità. «All’inizio era solo un gioco. Andavo in locali particolari ed esercitavo il mio potere su sottomessi consenzienti. Mi divertiva e rilassava allo stesso tempo sentirmi un dominatore. Poi però…», stringe le labbra. «Incontrai i due fratelli. Isabel e David. Oh, Alain… Erano così giovani… e dannatamente belli. Fu davvero impossibile resistere. Non avevo mai assoggettato a me due persone contemporaneamente, ma loro erano inseparabili. Vivemmo la nostra prima volta insieme e provai un piacere celestiale. Li adorai all’istante. Per mia fortuna, fu lo stesso per loro e da quel momento diventarono la mia ombra. Volevano sedurmi a ogni costo. Desideravano che diventassi il loro Master, il loro unico padrone… e così, da


un gioco, è iniziata tutta la nostra storia. Una storia di pura dipendenza dove io, e io soltanto, avevo il pieno controllo sulla vita di entrambi». Fa una pausa e si soffia il naso con il fazzoletto ricamato da mamma. Ho la nausea, ma non mi muovo di un millimetro. Voglio sapere tutto il resto. «Da quel momento è stato come cadere in un vortice senza fine. Li vedevo ogni fine settimana o quando non avevo le guardie in ospedale e loro mi davano tutto ciò che io volevo. Era il paradiso. Lussuria, sesso e potere. Tutti e due solo per me, al mio comando», sorride. «Dopo il primo anno cominciai ad arricchire la nostra strana relazione di elementi più romantici. Credevo che così avrei ottenuto ancora di più da entrambi. Proposi loro un giuramento che ci avrebbe legato per sempre l’uno agli altri. Scelsi la poesia di Martin Brown perché rappresentava in quel momento l’idea più vicina al sentimento che ci univa». Il mio giuramento. Lo stesso giuramento che Isabel e David avevano pronunciato per piegarsi al volere di papà. Ora cominciavo a capire il senso di quelle parole. «La nostra relazione così divenne ancora più intensa. Io godevo e mi sentivo un re sia sul lavoro che a letto. Non avevo bisogno di nient’altro. Poi però…». «Poi però?» «Con il passare del tempo, David cominciò a sviluppare dei sentimenti più forti per me. Lo capii perché mostrava dei segni di gelosia quando mi dedicavo un po’ di più a sua sorella. Il suo atteggiamento possessivo cominciò a preoccuparmi così cercai di fermarlo, minacciandolo che avrei smesso di frequentare entrambi. Io non cercavo il loro amore. Non mi era mai interessato. Mi bastava la loro devozione… tutto qui. Credetti quindi di averlo convinto, con quel subdolo ricatto, a rinunciare a una relazione romantica, ma mi sbagliavo. E un giorno feci un errore… Un errore fatale». «Quale errore?» «Sfiancato dai suoi discorsi, dalle sue continue richieste d’attenzione, decisi di mentirgli. Dissi a David che ci avrei riflettuto, che avrei cercato di capire meglio i miei sentimenti ma che per il momento, tra i due gemelli, lui era il mio preferito». «Perché… Perché lo hai fatto?». Lui scuote la testa. «Non lo so… Volevo che quel gioco continuasse. Ero giovane ed egoista. E non volevo rinunciare a tutto quello che loro due mi


stavano dando. Credevo che se avessi regalato a David un’illusione a cui aggrapparsi avrebbe smesso di tormentarmi e di essere geloso di sua sorella. Gli dissi di stare tranquillo perché la passione domina e la ragione obbedisce, sempre». Il tatuaggio! Il mio corpo fu attraversato da una miriade di scariche elettriche. Ecco l’origine di quella frase che Isabel mi aveva marchiato addosso. «Mi sbagliavo. Giorno dopo giorno, David si convinse che il suo amore per me fosse in qualche modo corrisposto. Gli episodi di gelosia continuarono a ripetersi, anzi divennero sempre più frequenti. Erano ormai incontrollabili. Poi successe. Con mia grande sorpresa, Isabel si fece avanti e dichiarò a David il suo amore e a quel punto l’equilibrio si ruppe definitivamente per tutti e tre. Avevamo oltrepassato il punto di non ritorno. La reazione di David alle parole della sorella fu terribile e così prima che commettesse qualche sciocchezza decisi che era il momento di lasciare entrambi. A causa dei loro continui litigi il nostro rapporto aveva iniziato a mettermi più ansia che altro… E poi io e tua madre… insomma tu saresti nato da lì a una settimana. Doveva finire tutto, in ogni caso», deglutisce, imbarazzato. «Il mio ultimo ordine per entrambi fu di sparire dalla mia vita. La mia decisione li devastò più di quanto immaginassi. Ma, come ho detto prima, ero troppo giovane ed egoista per capirlo fino in fondo. Eravamo legati da un giuramento e pertanto anche quella mia richiesta avrebbe dovuto essere rispettata, come tutte le altre regole. E così avvenne. Non li vidi più, mai più». Tremo. L’ansia mi comprime il petto tanto da soffocarmi. Le lacrime mi rigano il viso. Lui è la mia vendetta… «Ora ti prego, Alain… dimmi quello che ti è successo. Ho bisogno di sapere anche la tua storia…», mi incita mio padre. «Mi sono innamorato di Isabel fin dal nostro primo incontro», sussurro con il cuore che mi scoppia. «La vidi per la prima volta sul Münsterbrücke, poco dopo la morte di Thommy. Ero sconvolto, non sapevo chi fosse, ma i suoi occhi mi hanno stregato. Poi ho iniziato il dottorato all’ETH. E solo in quel momento ho scoperto che lavorava proprio lì, a pochi metri da me. La mia misteriosa sconosciuta era una rispettabile professoressa. Per tanto tempo l’ho guardata da lontano, consumandomi sempre di più. Mi sembrava così bella e impossibile… E lei ha giocato con me fin dall’inizio, ignorandomi per mesi prima di concedermi la sua attenzione. Quando ne ho avuto occasione,


le ho dichiarato il mio amore, ma Isabel mi ha rifiutato, dicendomi che stare con lei mi avrebbe distrutto… Credevo che non mi volesse perché ero troppo giovane, ma adesso capisco il vero significato delle sue parole. Come ti ho detto prima, Isabel sapeva che ero tuo figlio… Forse per un attimo è stata la coscienza a fermarla. Tuttavia ci assomigliamo così tanto fisicamente che ero il candidato perfetto per sostituirti…». «Non capisco». Mi tolgo la camicia e gli mostro tutti i segni che ho sulla pelle. «Come fai a non capire? David ha dato la colpa a Isabel per il fatto che li avevi lasciati, credeva che fosse lei il vero motivo per cui tu lo avevi abbandonato. E Isabel ne ha sofferto terribilmente. Tu gli avevi portato via il suo unico amore…». Victor sgrana la bocca sorpreso. «Non si sono parlati per anni, da quel giorno. In tutto quel tempo Isabel ha provato in ogni modo a farsi perdonare dal fratello e ha cercato qualcuno che potesse sostituirti… Ma nessuno era mai abbastanza per David. Nessuno era te». Mi asciugo gli occhi, eppure le lacrime continuano a scendere sul mio viso senza sosta. «Finché non sono arrivato io… Isabel sapeva che ero tuo figlio. Così mi ha fatto credere che fossi troppo debole, solo per provocarmi, spingendomi ad accettare una storia dalle tinte fosche. Dopo che le ho giurato il mio eterno amore, mi ha educato severamente in modo che io diventassi ciò che David desiderava sopra ogni cosa. Tenendomi all’oscuro di tutto, facendomi credere che quell’addestramento mi avrebbe aiutato a conquistare finalmente il suo cuore, Isabel mi ha plasmato come creta. La tua copia, papà, assoggettata però al suo unico volere. Io avrei dovuto restituirle ciò che tu le avevi portato via». «Mio Dio… Alain, io…». «Sono stato preparato per mesi. Isabel mi ha istruito facendomi diventare un perfetto sottomesso. Sì… Papà… Io mi sarei gettato nelle fiamme per lei… E credevo davvero che quello che stavo facendo fosse il solo modo per raggiungere il suo cuore. Ma in realtà lei mi stava solo nutrendo per darmi in pasto a suo fratello, il suo unico, vero amore». «Alain…». «L’ho amata sopra ogni cosa», singhiozzo disperato. «Ho fatto cose assurde solo per poter restare al suo fianco. Ho cambiato tutto di me, superato ogni limite in nome di un amore che non è mai esistito», sbraito contro di lui. «Ero solo merce di scambio, una vittima da sacrificare per riconquistare l’amore di


suo fratello e nello stesso tempo la sua vendetta». «Vendetta?» «Contro di te, papà! Adesso capisco finalmente le sue parole. Tu sei l’uomo che le ha portato via colui che amava sopra ogni cosa… Così Isabel ha distrutto ciò che pensava tu amassi di più nella vita: il tuo unico figlio». Non riesco a credere alle mie stesse parole. È tutto così chiaro ora… Sono stato l’ignara pedina di un gioco spietato. «Santo cielo… Alain, ma è terribile…». Finalmente riesco a smettere di piangere. Mi soffio il naso e lascio cadere il fazzoletto caldo delle mie lacrime a terra. «L’unica cosa che Isabel non aveva calcolato è che i miei sentimenti per lei fossero così forti da impedirmi di amare chiunque altro». Victor mi rivolge un’occhiata costernata. «In nome di questo folle amore non sono riuscito a essere il sostituto di cui David aveva bisogno. Il nuovo Victor gli negava il suo amore per la seconda volta. E questo rifiuto lo ha fatto impazzire». Il mio racconto si chiude sulle immagini degli ultimi attimi di lucidità vissuti nel dungeon blu, prima di perdere conoscenza e ritrovarmi in ospedale. Mio padre è sconvolto dalla verità almeno quanto lo sono io. Mamma ci viene a chiamare per la colazione ma nessuno di noi si muove. Ho freddo come mai prima nella mia vita. Restiamo in silenzio per tutta la mattina. Quelle ore insieme riescono in qualche modo a calmare un poco entrambi, per quanto ci sia ancora molta strada da fare per ritrovare la pace. «Voglio denunciarli», sbotta mio padre, alzandosi finalmente da terra. «Voglio che paghino per quello che ti hanno fatto… Dio, Alain. È tutto così sbagliato…». Mi viene incontro e mi abbraccia con forza. Era tantissimo tempo che non lo faceva. La sua stretta è così intensa e meravigliosa, sembra il primo raggio di sole dopo giorni e giorni di pioggia. Mi aggrappo a quel corpo che a malapena conosco e lascio che tutto il mio dolore scivoli via. «Dentro di me sapevo che un giorno avrei pagato il prezzo dei miei peccati. Lo sentivo ma… Perché? Perché condannare mio figlio? Mi dispiace, Alain… Mi dispiace così tanto»», mi sussurra all’orecchio, affranto. «È tutta colpa mia… è colpa mia!». Posso sentire la sua sofferenza, il senso di colpa e l’impotenza di fronte a quello che mi è capitato. Posso aggrapparmi al suo affetto, all’amore di un padre che viveva nascosto sotto una pesante armatura, ora lacerata di fronte ai


miei piedi. «Voglio andare da loro. Voglio affrontarli e fargliela pagare per ciò che ti hanno fatto». «Dimmi che non farai nulla, invece», gli mormoro serio, staccandomi un poco da quell’abbraccio guaritore. Victor è sorpreso. «Alain, non posso. Isabel e David avrebbero potuto ucciderti e meritano di essere puniti». Faccio segno di no con la testa. «Sono stato io a lasciare che accadesse. Lascia che affronti i miei demoni, papà. Sia Isabel che David dovranno convivere con il senso di colpa per il resto della loro vita». La mia risolutezza lo colpisce nel profondo. «Promettimi che non interverrai», ripeto speranzoso. Victor annuisce turbato. «Questa volta farò quello che vuoi tu». Le sue braccia mi avvolgono di nuovo. «Non ti lascerò più solo, Alain. Mai più». Il mio cuore, per quanto spezzato, si riempie di gioia.

Zurigo, agosto 2020 È passato quasi un mese dalla notte della verità. Sono in piedi al centro del Münsterbrücke e il tramonto sta colorando il cielo di arancione e rosso. Credo che questa sarà l’ultima volta che guarderò il Limmat scorrere sotto di me, mentre le mie lacrime mi rigano il viso. La storia di mio padre mi ha spaccato il cuore, ma una parte di me vuole chiudere questo capitolo della mia vita affrontando Isabel un’ultima volta. Le ho chiesto di incontrarci proprio qui, dove la vidi per la prima volta. Il posto dove mi sono innamorato. Il posto dove ho perso me stesso. Un vento leggero sta accarezzando la riva quando il suono dei suoi passi interrompe il flusso dei miei pensieri. La guardo arrivare come un angelo che passeggia sulle nuvole. Isabel è così bella da mozzare il fiato ma io non sento più nulla. Dentro di me c’è solo il vuoto che lei ha lasciato e nessuno spazio per altri sentimenti. Si avvicina lentamente e si toglie gli occhiali da sole. Mi osserva in silenzio, uno sguardo criptico, carico di tutti i misteri che


finalmente ho svelato. Decido quindi di parlare per primo. «Mio padre mi ha raccontato ogni cosa su di voi», esordisco, freddo come l’inverno. «So tutto della vostra storia…». Le sue guance si imporporano, eppure non dice niente. «Avevi ragione, Isabel. Ero solo un mucchietto di sabbia tra le tue mani… Il tuo calore mi ha reso una perfetta statua di cristallo. Ti sei soltanto dimenticata di darmi un cuore capace di amare tuo fratello». Sorrido crudele, di fronte alla sua espressione smarrita. «Non avrei mai immaginato che un giorno sarei riuscito a parlarti così… Ma mi hai sempre detto che ero più forte proprio perché ho saputo arrendermi ai miei sentimenti…». «Alain… io…». «Sì, adesso so di essere stato davvero io il più forte. E lo sono anche ora. Ho sopportato ogni dolore e ogni umiliazione solo per te… Ho superato i miei limiti, in nome del mio amore. Un amore forte e sincero. Mentre tu invece… Oh Isabel, sei tu la schiava! Sei ancora prigioniera del tuo stesso passato e credi che giocando con le vite degli altri o forse vendicandoti, riuscirai a liberarti della sofferenza che ti attanaglia». La sua bocca si apre per lo stupore. Non la trovo più meravigliosa e questo mi fa sentire meglio. «Tu non puoi capire, Alain…», dice in difficoltà, mentre la osservo dall’alto in basso con quell’aria di superiorità che lei mi ha riservato per tanto tempo. «Tu non hai idea di quanta sofferenza ci ha causato tuo padre…», continua tra i denti, tremando per la rabbia. «Per mesi ci ho pensato e ripensato. Ho esitato. Eppure desideravo vendicarmi più di ogni altra cosa al mondo, perché Victor mi ha portato via David. Il mio David. Non potevo lasciarmi sfuggire questa occasione. Avrei distrutto il nostro Master… Annientando suo figlio. Sì, mio innocente Alain, questa è la tua unica colpa nella nostra folle storia di odio e amore». «Già, ma tu ci sei riuscita, Isabel…», ribatto con un sorriso sarcastico. «Mi hai catturato nella tua rete e ti sei vendicata, studiando ogni dettaglio, plasmandomi tra le tue mani perché io diventassi perfetto per David. Sei stata così brava e paziente nel mettere in atto il tuo piano». Isabel scuote la testa, confusa. «Perché mi hai chiesto di vederci? Perché mi stai dicendo tutto questo? Che cosa vuoi da me adesso, Alain? Immagino che non sia per complimentarti con me del mio piano perverso». Si morde le labbra lucide di rossetto.


«Credevo…», sussurra più dolcemente. «Credevo che tu volessi tornare da me, nonostante tutto. Io non perdonerò mai tuo padre per ciò che ci ha fatto. Ma tu… Tu sei stato diverso con me e mio fratello. In questi mesi ho ripensato spesso a noi e ne ho parlato anche con David. Lui si sente molto in colpa per ciò che ti ha fatto e vorrebbe rivederti. Chiederti perdono e iniziare così un nuovo capitolo insieme». «Che cosa?», esclamo. Isabel annuisce, poi porta la sua mano sul mio viso e lo accarezza con dolcezza. «La nostra storia è iniziata con un inganno, carica di ombre e di rancore. Ma adesso potrebbe cambiare tutto. Potremmo creare qualcosa di unico insieme, io, tu e David. Dimentichiamo Victor. Dimentica tuo padre e la mia vendetta, Alain. Potrebbe essere tutto di nuovo perfetto». La guardo esterrefatto, allontanandole la mano dal mio viso. «Mio Dio, non riesco a crederci. Con che coraggio mi stai chiedendo questo dopo tutto ciò che mi avete fatto?». Isabel sgrana gli occhi sorpresa. Fa segno di no con la testa e poi arretra di un passo. «Ma non capisci? Ti sto chiedendo perdono, Alain. Entrambi vogliamo chiederti perdono. Se tu ci lasciassi soltanto una possibilità, il nostro rapporto potrebbe diventare più forte e bello di prima…». Tremo di rabbia ma cerco di trattenermi. «Come potreste farlo? Tu e David non avete la minima idea di cosa voglia dire amare qualcuno», ribatto crudele. La mano di Isabel ricade lungo il fianco priva di vita. «No. Non è per questo che ci rifiuti. Tu… Tu non mi ami più, non è così?», sussurra incredula. È assurdo. Mai avrei pensato che quelle parole uscissero dalla bocca di Isabel. Come può credere che sia rimasta ancora una goccia d’amore nel cuore che lei stessa ha schiacciato sotto i tacchi? Sorrido debolmente e sputo fuori la verità, impetuosa come un fiume in piena. «No. Non ti amo più». Le sbarre della mia prigione cadono in mille pezzi. Mi sento libero, per la prima volta dopo tanto tempo e non ne sono più spaventato. «Lo hai detto tu, più di una volta. Tutti vogliono l’amore, ma nessuno desidera pagarne il prezzo. Io però l’ho fatto, Isabel. Ho pagato il prezzo del mio amore e ora posso farne ciò che voglio. Mentre tu invece… Tu sei prigioniera dei tuoi stessi sentimenti e non sei disposta a pagarne le conseguenze. Finora hai continuato a fuggire, fingendoti una dominatrice


quando in realtà nel tuo cuore sei più schiava di quanto lo sia stato io». Quelle ultime parole la colpiscono direttamente al cuore. «Il mio giuramento è spezzato, Isabel. Ora il mondo è davvero nelle mie mani. Addio, Mistress». Mi volto, abbandonandola ai suoi demoni. È tutto finito. Passo dopo passo mi sento sempre più leggero. La foglia si arrende alla pioggia, eppure lotta strenuamente per restare unita al ramo da cui è nata. A quell’immagine sorrido finalmente più sereno. Mi resta soltanto un’ultima cosa da fare.


Epilogo

Zurigo, agosto 2020

Busso alla porta dell’appartamento di Lucinda poco dopo le nove di sera. So che ha fatto il turno di giorno e che quindi adesso sarà a casa a riposare. Lei apre la porta dopo qualche secondo, e mi accoglie con stupore. «Posso entrare?», le chiedo timidamente. Annuisce silenziosa e mi indica il divano. Indossa un pigiama di cotone con dei piccoli fiori blu. Porta i capelli legati in uno chignon e ha l’aria decisamente stanca, eppure la trovo bellissima. «Perché sei qui?», mi chiede sospettosa, anche se non riesce a nascondere un pizzico di felicità all’idea che io mi trovi insieme a lei in questa stanza. «Volevo farti vedere una cosa», rispondo. Poi comincio a sbottonarmi la camicia. Lei arrossisce imbarazzata. «Alain, no! Che cosa vuoi fare? Ti avevo detto di starmi lontano… Ti prego, io non posso…». «Sshh». Slaccio l’ultimo bottone. Apro i due lembi di cotone e indico la pelle all’altezza del cuore. «Il tuo tatuaggio…», sussurra lei stupita, strabuzzando gli occhi. «L’hai modificato…». Annuisco sorridente, accarezzando il lembo di pelle ancora un po’ arrossato. «Già… Ho chiesto di modificarlo». «Perché?», mi chiede lei curiosa. Faccio qualche passo verso di lei, che trema. «Il mio passato è scritto su ogni centimetro di pelle, ferita dopo ferita». La guardo intensamente, trafiggendola come lei ha fatto con me quando ha detto di amarmi. «Non posso cambiare ciò che sono stato, Cinda… ma posso cambiare il mio futuro, ciò che sarò… chi voglio diventare. E tu sei la cosa più bella che mi sia capitata dopo essermi sentito così distrutto da desiderare di morire…». Respiro a fondo di fronte al suo sguardo ora pieno di speranza.


«Vorrei solo poter ricominciare da zero. Vorrei che tu mi conoscessi di nuovo, da oggi in poi». «Alain, io…». «La passione domina. La ragione obbedisce. La sofferenza insegna». Quelle ultime parole mettono a tacere le sue resistenze. «Ti prego, credi in me. Posso farcela insieme a te». Resta in silenzio. Poi si avvicina, cauta come un cucciolo di leone, e mi avvolge in un abbraccio che sa di purezza e speranza. Non so ancora chi sono davvero, né se riuscirò a cambiare di nuovo per amore di qualcuno. So soltanto che ci voglio provare con tutte le mie forze. E questo mi basta per ricominciare a essere felice.


Nota dell’autrice

Questa storia nasce dalla mia profonda necessità di capire qualcosa di più del rapporto tra dominatore e sottomesso. Al di là delle letture che avevo già fatto, romanzi in cui questo argomento era stato trattato nel contesto esclusivo di una storia d’amore, ho cercato di documentarmi su quelle che sono le motivazioni per cui una persona diventa dominatore e, viceversa, i sentimenti e motivi che portano altri a volersi sentire dominati, non solo in un rapporto amoroso ma anche nella vita di tutti i giorni. Sono rimasta molto sorpresa del ventaglio di emozioni e di ragioni per cui si instaura una relazione di questo tipo. La dominazione e la sottomissione sono due anelli indivisibili di un rapporto profondo, in cui la fiducia reciproca è l’ingrediente fondamentale quando si pensa all’amore. Ma in altri contesti ci sono meccanismi davvero complessi che risultano responsabili di questa particolare situazione. Sono convinta di aver solo sfiorato la poliedricità di questo argomento, nonostante i miei sforzi per documentarmi a sufficienza, ma ne sono davvero molto felice. È stata un’esperienza travolgente. Per quanto riguarda Andrew, un personaggio da cui non riesco proprio a prendere le distanze, a lui sarà dedicato un nuovo romanzo dalle note yaoi, in cui si scoprirà la sua storia e quella del misterioso Emerald… Stay tuned!


Ringraziamenti

Grazie… A Sara, a cui questo libro è dedicato, per avermi aiutato e per aver ascoltato le mie difficoltà nello scrivere questa storia. Ti voglio tanto bene. A Elisabetta, per avermi incoraggiato con infinito affetto durante tutti questi mesi. Alla dottoressa Francesca Masciocchi, per avermi aiutato a comprendere la vita di uno specializzando e avermi dato delle dritte sullo studio di un caso clinico e sulle ferite da trauma. Al dottor Petros A. Tykarys, per aver contribuito alle spiegazioni sulle ferite da trauma. Alla dottoressa Stefania Cribioli, per il consulto sull’aspetto psicologico del rapporto di dominazione e sottomissione e i preziosi suggerimenti. A Iole, Giorgia, Gloria, Melinda, Laura e a tutti gli amici presenti in ogni passo. Ai GPL, il cui testo Tyranny è stato d’ispirazione per tutta la storia e per il giuramento di Isabel. A Clara Serretta, per aver reso questo libro più bello. A Fabio, mamma, papà, Maurizio e Ilde e a tutta la mia famiglia, sostegno inesauribile. A te che hai letto questa storia, addentrandoti di nuovo nella mia fantasia. Grazie di cuore!


Tyranny by GPL

Him: Wipe out your tears For your deepest fear There is no place No life for me My world is for you I want it too Do not ask me To give to thee A merciful hand Her: Nothing to blame, nothing to fight Ask me to feel like skin under chains Ask me to kneel as a leaf in the rain Wherever I can live into your eyes Ask me to fall over the hills Ask me to die whenever you will Nothing to blame, nothing to fight Whenever I can see into your light Him: Nothing is mine my world is for you No life for me Nothing to hope


Nothing else to wish Whatever you want It’s my duty My only legacy Everything’s yours Ask me to lick My blood on your fist Nothing is mine

(https://soundcloud.com/gplband) buon lettura da saetta


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook

Articles inside

Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.