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Giancarlo Dalla Libera
RICKY
DIVERSAMENTE AMABILE Postfazione di Stefano Ferrio
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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2014 Via Cengia, 67 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-213-0 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, Marzo 2014 Progetto grafico copertina Lucia Gabrielli
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A te, Riccardo, che con semplicitĂ e con gioia mi hai insegnato ad assaporare il gusto intenso delle piccole cose della vita.
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INDICE
PROLOGO
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Capitolo I IL PRIMO IMPATTO
11
Capitolo II DESTINO CRUDELE
17
Capitolo III L’ISTITUTO Capitolo IV DON ANTONIO
25 30
Capitolo V “CITTÀ SOLIDALE”
36
Capitolo VI VITA IN FAMIGLIA
49
Capitolo VII LE VACANZE ESTIVE A LAVARONE
71
Capitolo VIII LE VACANZE ESTIVE IN COMELICO
80
Capitolo IX NELSON
103
Capitolo X LE VACANZE INVERNALI
110
Capitolo XI IN VACANZA CON LE SORELLE E CON CITTÀ SOLIDALE
121
Capitolo XII DA MAURIZIO
131
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Capitolo XIII GLI SCHERZI DI RICKY
136
Capitolo XIV RICKY E LO SPORT
144
Capitolo XV RICKY E IL DOLORE
151
Capitolo XVI RICKY E IL LINGUAGGIO
166
Capitolo XVII RICKY E L’AMORE
171
Capitolo XVIII GLI ULTIMI GIORNI
177
EPILOGO
185
POSTFAZIONE, di Stefano Ferrio
188
RINGRAZIAMENTI
190
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PROLOGO
Talvolta accade di incontrare, sulla nostra via, una persona che per il suo carisma, per la sua profondità di pensiero, per il suo illuminato esempio, finisce per condizionare significativamente la nostra personalità, incidendo radicalmente sul nostro modo di essere e sull’approccio col mondo e con i suoi abitanti. Il più delle volte si tratta di un educatore, magari un insegnante, un allenatore o un capo scout. Alcuni eleggono un sacerdote a loro guida spirituale, altri fanno di un loro collega, particolarmente di successo, un totem da prendere ad esempio. Per me non è stato così. Chi ha avuto un ruolo importante nella mia formazione, nel completamento della mia persona, nel modellare e nel forgiare alcuni aspetti della mia personalità è stato un ragazzo semplice e sfortunato, uno che fa parte della categoria degli “ultimi”, uno di quelli che la società cataloga, con malcelato imbarazzo, con gli appellativi più svariati: disabile, diversamente abile, portatore di handicap, handicappato. Il nome che più mi fa ribollire il sangue nelle vene è quello di “diversamente abile”. È proprio un inno all’ipocrisia. Chi di noi si sognerebbe di chiamare un nano “diversamente alto” o un grassone “diversamente magro” o, ancora, un anziano “diversamente giovane”? Nessuno. Quindi, non vedo il perché di questo falso e ipocrita diversamente abile. Sarebbe più opportuno e più normale chiamare questo individuo con l’unico nome appropriato: persona. –9–
A chi, invece, non resiste assolutamente alla tentazione di utilizzare l’avverbio “diversamente”, consiglio di abbinarlo all’aggettivo “amabile”. Sì. Diversamente amabile. Perché il “down” si ama in modo diverso. Si ama per il suo personalissimo modo di amare, fatto di un amore totale, assoluto, viscerale, senza se e senza ma, senza nulla in cambio. Egli ci ama per il solo fatto di essere accettato, capito, rispettato. Egli riconosce in noi il padre, il figlio, il fratello, la guida, la madre, la sorella, il faro che gli illumina il cammino. Se, a nostra volta, impariamo ad amarlo così, semplicemente per il suo amore, potremmo ottenere uno dei più solidi rapporti umani che un uomo possa desiderare di realizzare in questa vita. Chi è affetto dalla sindrome di Down è una persona che non possiede nulla in meno dei cosiddetti “normali”. Anzi, ha qualcosa in più, se non altro per il fatto che questa patologia è caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più nel DNA. Quindi, non dimentichiamolo mai: siamo noi ad avere qualcosa in meno.
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Capitolo I IL PRIMO IMPATTO
20 Ottobre 1979. Le cose tra me e Gabriella andavano particolarmente bene. La nostra storia era iniziata il primo di aprile dell’anno precedente. Ci frequentavamo assiduamente e, quando ci dovevamo lasciare per rientrare ciascuno nella propria casa, eravamo già impazienti di rivederci. Io vivevo con i miei, mentre lei viveva da sola, in un miniappartamento affittato soltanto da qualche mese. Si era vista costretta a compiere questa scelta a causa delle insanabili incomprensioni con la sua famiglia. Ne facevano parte, allora, suo padre, la sua matrigna e Riccardo, l’ultimo fratello ancora in casa, il più piccolo. Le due sorelle maggiori erano già sposate ed avevano costruito il nido altrove. Gabriella conosceva già i miei genitori, mio fratello e mia sorella e, devo riconoscere, sin da subito era stata accettata e benvoluta, grazie all’apprezzamento per la sua disarmante spontaneità e semplicità. Mi prese alla sprovvista, invece, la sua proposta di farmi conoscere suo padre. Non tanto perché lo ritenessi prematuro, ma piuttosto perché sapevo perfettamente che i loro rapporti erano tutt’altro che idilliaci. Facile immaginare, quindi, come mi dovessi sentire di fronte alla prospettiva di recarmi a conoscere quel ruvido e spigoloso profugo istriano di lontane origini germanico/ungheresi che rispondeva al nome di Dragomir Vasmic. Per la miseria: bastava il nome per farsela sotto! «Ma non poteva» pensai «il mio eventuale futuro – 11 –
suocero, avere un nome normale, più tranquillizzante, come Mario o Gino?» Immaginai di trovarmi di fronte un omaccione nerboruto, temprato da molte stagioni trascorse sotto il sole e il salso del golfo del Quarnero. Rimasi alquanto sorpreso, invece, nello stringere la mano ad un mite insegnante in pensione che, seppi più avanti, amava farsi chiamare, da sempre, con un molto più rassicurante “Carlo”. La matrigna, signora Zita, appariva oltremodo infastidita dal fatto che la sua figliastra fosse riuscita a portare a casa un pretendente non uscito dalla nutrita schiera che lei aveva provveduto, negli anni, a collezionare per la giovane fanciulla. Il fatto che Gabriella lavorasse già da quattro anni e che alla veneranda età di 22 anni suonati non avesse ancora uno straccio di fidanzato la turbava non poco. Non era una persona cattiva. Era semplicemente una donna ignorante. Beninteso, nulla da dire contro l’ignoranza. Purtroppo, quando a questa si sommano insensibilità e avidità, si ottiene un miscuglio esplosivo che sa essere anche peggiore della mera cattiveria. Il signor Carlo si era ritrovato vedovo, con tre figli da mantenere: Patrizia di 16, Gabriella di 12, ed il piccolo Riccardo di 2 anni appena. La figlia più grande, Iluska di 24 anni, si sposò proprio nel 1969, pochi mesi prima della morte della mamma. A Carlo parve di trovare la soluzione a tutti i suoi problemi di organizzazione familiare prendendo in sposa Zita, piacente tardona della bassa veronese che, a sua volta, era convinta di avere sistemato una volta per tutte la sua condizione economica tacitando, in aggiunta, le malelingue del paese che la bollavano come “zitella”. La prima cosa che pensò bene di fare, una volta messo piede nella nuova casa, fu di eliminare tutte le fotografie della prima moglie defunta. Si può immagi– 12 –
nare l’impatto sui figli, e la loro reazione nel vedere una perfetta estranea che tenta di cancellare anche il ricordo della loro mamma. Patrizia, per scappare via da quella situazione, si sposò giovanissima. Gabriella invece, più coraggiosa o, semplicemente, con un indice di sopportazione ancor più basso, se ne andò a vivere per conto proprio non appena compiuti ventun’anni, stanca di sottostare a compromessi umilianti. Mi rendo conto di essere stato troppo duro nei confronti di Zita. Certamente anche per lei non deve essere stato facile passare da una condizione di “single” a quella di moglie e madre, responsabile di tenere a freno le vivaci turbolenze, i turbamenti e le insicurezze di due ragazze adolescenti ed i problemi di un bambino tanto fragile e non sempre ben accetto dagli altri. Sono convinto, per quel poco che ho potuto conoscerla, che, pur sentendosi inadeguata, abbia comunque cercato di fare del proprio meglio. Quella domenica pomeriggio di un ancora caldo autunno, sedevano cinque anime attorno al tavolo: Carlo, Zita, Gabriella, il piccolo Riccardo ed io. Riccardo, noncurante dei nostri discorsi di circostanza, intrisi di ipocrisia e di falso perbenismo, continuava a giocherellare col suo bicchiere di aranciata tra le dita, stranamente corte e tozze. Io non lo osservavo per niente, troppo impegnato a sostenere gli sguardi curiosi e pieni di domande, ora dell’uno, ora dell’altra interlocutrice. Quel ragazzino era distratto soltanto apparentemente, in realtà non perdeva una sola parola dei nostri discorsi “da grandi”. Di tanto in tanto socchiudeva i suoi occhi già così esageratamente “a mandorla”, portando il bicchiere alla bocca, per deliziare le labbra ed il palato col frizzichio di tutte quelle bollicine, posizionando in modo innaturale la lingua tra il labbro inferiore ed il vetro. – 13 –
Non si poteva non notare la sua diversità. La sindrome di Down appariva chiaramente nei suoi tratti somatici. Gabriella mi parlava spesso di lui, anche perché soffriva molto per averlo dovuto lasciare. Praticamente gli aveva fatto da mamma, trovandosi coinvolta in un ruolo ben più grande di lei, quando aveva soltanto 12 anni. Gli voleva un bene dell’anima. Devo riconoscere che io non ero molto sensibile alla cosiddetta “diversità”. Anzi, al contrario, ero molto diffidente verso quanto usciva dai miei canoni ben precisi e conosciuti. Non ero aperto di vedute nei confronti di tutto ciò che poteva minacciare il mio mondo di allora, così rassicurante ed accogliente: amici allegri, compagni sereni, genitori amorevoli, fratelli complici. Il “diverso”, non è che lo odiassi, semplicemente lo evitavo. Perciò, quando Riccardo cominciò a tirarmi quattro calcioni sugli stinchi, sotto il tavolo, sorridendo e badando bene di non essere visto, feci molta fatica a non reagire e a fare finta di niente. Però non potei, una volta terminata la “riunione di famiglia”, fare a meno di rivolgere a Gabriella le mie vibrate proteste. – Certo che è un gran rompiscatole tuo fratello Riccardo! – – Perché?... Ma se è sempre stato seduto a tavola con noi, buono buono! – – Buono buono? Tu non hai la minima idea di che razza di calcioni mi ha rifilato, di nascosto, sotto il tavolo! – – Dici davvero? – – Certo. Se non ci fossero stati i tuoi, gli avrei sicuramente dato due ceffoni. Magari non forti, per carità, ma in modo da farlo smettere all’istante. – – Strano. So che Ricky talvolta è dispettoso. Ma non – 14 –
si comporta mai male con chi non conosce. A meno che... – – A meno che cosa?! – – A meno che lui non volesse attirare la tua attenzione. Vedi, probabilmente si sentiva ignorato da te. Tu parlavi soltanto con mio padre e con Zita. Lui aveva bisogno di dirti «Hei, guarda che ci sono anch’io!» e ha scelto il sistema più semplice per farlo, secondo la sua testolina. Secondo me, desiderava soltanto iniziare a fare la tua conoscenza. – – Alla faccia! Bel sistema ha trovato! Così, adesso, mi sta sulle scatole già appena conosciuto. – – Non devi dire così. Prova a metterti nei suoi panni. Ricky è soltanto down, non è né stupido né insensibile. Lui sa benissimo che tu, in fondo, sei la persona che gli porterà via la sorella, quella che fino a qualche mese fa viveva con lui, nella stessa casa, che lo faceva mangiare, che lo aiutava a vestirsi e a fare i compiti. Non puoi pretendere che il suo atteggiamento possa essere benevolo nei tuoi confronti. Dagli tempo. Imparerete a conoscervi ed allora sarà tutto più facile. – L’amore di Gabriella per Ricky e la pacatezza con cui era riuscita a giustificare il comportamento dell’amato fratello mi aveva fatto passare il malumore. Più tardi, nell’oscurità della mia camera, prima di prendere sonno, ripensai a lungo alle sue parole. Meditai soprattutto su quel «prova a metterti nei suoi panni». Pensai a quel piccolo mondo di certezze, di affetti, di quotidianità che quel ragazzino vedeva infrangersi, vedeva svanire, giorno dopo giorno. Valutai che, mentre le tre sorelle avevano potuto scegliere se andare o restare, se farsi una nuova vita e con chi affrontarla, lui no, lui non poteva scegliere, lui sarebbe stato, per sempre, prigioniero della situazione nella quale si era venuto a trovare, suo malgrado. – 15 –
Quella fu, forse, la prima volta che mi impegnai a fondo in quell’esercizio tanto scomodo (all’inizio) quanto fondamentale, nei confronti del prossimo, che prevede lo sforzo mentale di porsi al di fuori del proprio punto di vista, in modo da poter vedere e sentire col cuore dell’altro. Gabriella aveva ragione. «Sarà tutto più facile» mi disse quella volta. Mai avrei pensato che avrebbe potuto essere non solo facile, ma anche così ricco di emozione e di amore.
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