Di Musica e parole di Claudio Capitini

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Claudio Capitini

DI MUSICA E PAROLE Interviste a cantautori, interpreti e musicisti italiani senza tempo

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In collaborazione con

© Il Segno dei Gabrielli editori 2021 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-466-0 L’editore resta a disposizione per tutti i crediti fotografici relative alle immagini pubblicate in questo volume prive di didascalie e tratte da Internet.

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Indice Così leggera che ti fa sognare

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Ha da passà ‘a nuttata

19

Renzo Arbore

23

Francesco Baccini

33

Claudio Baglioni

39

Concetta Barra

49

Franco Battiato

57

Edoardo Bennato

67

Umberto Bindi

77

Ezio Bosso

87

Angelo Branduardi

97

Vinicio Capossela

109

Renato Carosone

121

Rossana Casale

133

Gigliola Cinquetti

141

Riccardo Cocciante

151

Paolo Conte

163

Lucio Dalla

179

Pino Daniele

191

Fabrizio De Andrè

201

Francesco De Gregori

213

Teresa De Sio

225

Elisa 235 Sergio Endrigo

243

Ivano Fossati

255

Giorgio Gaber

267 5


Ivan Graziani 275 Francesco Guccini 285 Enzo Jannacci 295 Bruno Lauzi 313 Luciano Ligabue 323 Fiorella Mannoia 335 Giovanna Marini 345 Mia Martini 357 Milva 371 Mogol 379 Gianni Morandi 391 Ennio Morricone 401 Roberto Murolo 407 Nada 417 Gianna Nannini 415 Gino Paoli 435 Pooh 447 Raf 457 Eros Ramazzotti 465 Enrico Ruggeri 477 Nanni Svampa 487 Ornella Vanoni 485 Vasco Rossi 509 Roberto Vecchioni 519 Antonello Venditti 527 Renato Zero 535 Zucchero 547

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Così leggera che ti fa sognare Racconta Nanni Ricordi, erede della grande casa editrice musicale e fondatore nel 1958 dell’omonima casa discografica, che, fino all’avvento di quella che sarà la canzone d’autore, la canzone italiana era confezionata – lo cita Felice Liperi in Storia della canzone italiana – soprattutto nelle case editrici: «Professionisti della musica e delle parole in musica, ingredienti per il facile ascolto, ricerca del fatto che colpisce, il cantante come strumento per lanciare questo prodotto, un prodotto anonimo, per un mercato anonimo, che doveva andare bene per tutti.» Il tutto sino a che, proprio in quel ’58, il 31 gennaio, con Sanremo che impera, non scoppia la bomba Domenico Modugno, di Polignano a Mare, attore e cantante emergente, che vince il Festival con Nel blu dipinto di blu, conosciuta come “Volare” e che rappresenta un fatto rivoluzionario nella storia della musica italiana, anche rispetto allo stile dei cosiddetti “urlatori” che spopolava a quel tempo, con un’interpretazione e un arrangiamento mai sentiti prima, e un testo diverso, di una modernità espressiva e surrealista. È la svolta, una rivoluzione, «uno spartiacque che divide due Italie – come scrive Deborah Gressani per “MifacciodiCultura” –, quella ancora intorpidita nell’immediato dopoguerra e l’altra, ansiosa di rinnovamento e pronta a tuffarsi negli anni del boom economico.» Ed è in effetti una precisa svolta musicale quella che vede la canzone d’autore nascere e diventare la risposta italiana alla musica popolare internazionale, essendone in parte debitrice, e il cantautore assumere un significato «più circoscritto e forte, tendente a identificare non genericamente chi canta le proprie canzoni, ma il cantante e autore di certe canzoni, caratterizzate da un testo e spesso una musica o un arrangia7


mento diversi da quelli delle canzoni “di consumo”, della musica cosiddetta leggera» come scrive il sociologo Marco Santoro in Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore. Contrapponendosi alla canzonetta d’evasione, la canzone d’autore avrebbe portato al formarsi di diverse “scuole” che fanno riferimento alla città di nascita o di adozione degli artisti, la genovese, la romana, la napoletana, la bolognese e la milanese. Per la verità, tra i cantautori da me intervistati, quelli indicati come protagonisti di quelle “squadre” ne negano l’esistenza. Sta di fatto che quella nuova forma-canzone diviene un modello innovativo nell’ambito della musica italiana, dal punto di vista poetico, musicale e discografico, una categoria estetica di alta classificazione culturale e artistica. Scrive Francesco De Gregori su “Il Sole 24 Ore”: «Fin lì il mondo della musica leggera era fatto di autori e interpreti, c’erano i grandi autori di canzoni, i grandi parolieri, poi c’erano gli interpreti che potevano essere Iva Zanicchi, Caterina Caselli o Mina. E poi c’era una pattuglia di autori che andava da Pallavicini a Mogol. C’era poi Paoli, Endrigo e De André: alcuni che venivano definiti cantautori…» E azzarda, il Principe: «Con me, Bennato, Venditti e Baglioni, coevi come nascita, improvvisamente i cantautori diventano la parte dominante del mercato e dell’attenzione. Quindi si forma una categoria di cantautori che sono la musica emergente italiana, e in quel momento la musica leggera italiana volta pagina.» A quella “categoria” un giovane cronista veronese, Enrico De Angelis, pensa bene di dare un “ombrello” protettivo titolando una sua rubrica tenuta su “L’Arena” Canzone d’autore, definizione che dal 13 dicembre ’69 entra nella storia per identificare una forma d’arte musicale che presuppone l’esistenza di un “autore” inteso in senso forte, un artista, termine che De Gregori riprende nel suo album Per brevità chiamato artista (come recitava una nota legale sul suo primo contratto discografico), dietro al quale titolo va letta la sottolineatura della parola “arte” come respingimento di ogni logica mercantile. In questo contesto va vissuta la tragica morte di Luigi Tenco avvenuta a 28 anni in un albergo durante il Sanre8


mo 1967 (il cantautore vi partecipa con Ciao Amore Ciao in coppia con Dalida) e per lungo tempo avvolta nel mistero prima che venisse confermata l’ipotesi di suicidio. Tenco si sente protagonista di quella rivoluzione, della rottura con la musica tradizionale e della necessità di trattare tematiche quali il sentimento umano, l’amore sotto molteplici prospettive, la critica sociale, le ideologie, i diritti della donna, la guerra, l’emarginazione… Resta quel suo biglietto: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e a una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.» Dalla fine anni Sessanta alla nascita del Club Tenco nel ’72 (per iniziativa di Amilcare Rambaldi, floricultore appassionato di musica), al passaggio a fenomeno di mercato e sino a oggi, la canzone d’autore segna molte generazioni divenendo, come ben dice il cantautore Alessio Lega, «il romanzo di formazione sentimentale ed esistenziale del nostro tempo», per quei testi sospesi fra sentimenti e poesia, i temi trattati, le melodie, o semplicemente perché espressione di uno stato d’animo che accomuna tutti rivolgendosi all’uomo. Si caratterizza anche per impegno sociale e civile, temi di rilievo politico o di protesta, con però un progressivo loro abbandono tanto che Francesco Guccini nel ’74 in Canzone delle osterie di fuori porta può scrivere: «Delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto/ Non so se scusano il passato/ Per giovinezza o per errore/ Non so se ancora desto in loro/ Se m’incontrano per forza, la curiosità o il timore.» C’è dunque uno smarcarsi dalla politicizzazione e un ripiegamento sulla persona con la parola che ne è il cuore pulsante (il filosofo tedesco Schopenhauer in Sul mestiere dello scrittore e sullo stile afferma che solo chi è spinto da ciò che gli sta a cuore scriverà cose degne), mentre si manifesta un parallelo arricchimento delle forme e delle risorse musicali, anche in relazione alla comparsa di nuovi generi e tecnologie. 9


«Nasceva – sempre il Carusi – un tipo di artista nuovo che doveva divenire un tutt’uno con le proprie canzoni, delle quali doveva essere autore (di musica e parole, o per lo meno di una delle due) e interprete. Una confezione musicale in linea con le tendenze del momento andava così a coniugarsi con dei testi colti, lirici, ricchi di citazioni letterarie e di riferimenti a temi del tempo presente.» E Gianfranco Baldazzi in La canzone italiana del Novecento afferma: «Si opera definitivamente il cambio della guardia nel mondo della canzone e si attua il primo vero “scarto linguistico” nella norma del componimento-canzone. Ciò non accade solo nella scrittura del testo: alla “barcarola”, infatti, e alla “romanza tenorile” si sostituiscono la melodia scarna e l’armonia raffinata.» Occorre a questo punto rendere omaggio al contributo fondamentale dato da produttori illuminati, arrangiatori esperti e bravi orchestratori, quali Ennio Morricone, i fratelli Gianfranco e Giampiero Reverberi, Nanni Ricordi, Franco Crepax e Vincenzo Micocci. Lo sottolinea Felice Liperi che in Storia della canzone italiana scrive: «Canzoni come Sapore di sale, Il barattolo […] devono parte della loro vincente freschezza e fruibilità proprio alle continue invenzioni sonore di Ennio Morricone. Un risultato ottenuto anche grazie all’intervento di produttori e talent scout che si sforzano di scegliere gli arrangiatori adatti a valorizzare le canzoni dei nuovi autori. Così la nuova canzone acquista un peso maggiore perché dotata anche di un nuovo suono.» Ed eccoci all’altro lato di un prisma sfaccettato, l’autore dei testi, un protagonista nella collaborazione fra compositore, paroliere e interprete. Ricordiamo che Volare era sì interpretata da Modugno, ma scritta a quattro mani con Franco Migliacci (un po’ controversa ne è la genesi), l’amico paroliere, autore di altre famose canzoni come Tintarella di luna per Mina, Non son degno di te e La fisarmonica per Morandi, La Bambola per Patty Pravo, Ancora per De Crescenzo, Una rotonda sul mare, scritta per le sfumature confidenziali di Fred Buongusto. Confessa Migliacci: «Ho sempre lavorato in sintonia con i cantanti, ho scritto testi su misura… Ogni mia canzone parlava di loro.» 10


Nascono così capolavori di cui sono autori nomi impensabili e improbabili, attori, registi, perfino scrittori e poeti: si pensi a Totò, Villaggio, Pasolini, Dario Fo, Lina Wertmüller, Costanzo, Faletti, Lucio Fulci, Mike Bongiorno, la Bonaccorti… Nascono autori la cui produzione può essere assimilabile a quella dei cantautori o che è orientata verso l’esatto opposto, sfornare brani di successo. E nascono coppie celebri, su tutte Mogol-Battisti, considerata un unico autore, «l’alchimia del verso cantato» secondo Gianfranco Salvatore, un caso insuperato di autore e compositore puri, quasi un contraltare alla nuova forma di cantautorato. Una canzone d’autore, la loro, come scrive Marco Bercella su “Ondarock”, «forse non disimpegnata come la si faceva passare a quel tempo, ma di sicuro più incline alle vicende dell’individuo, con particolare attenzione alla dimensione intimisticamente umana.» Afferma Mogol, al quale più di un premio è conferito per il suo “contributo straordinario alla musica e alla lingua italiana”: «Scrivere una canzone va oltre l’ispirazione del momento, richiede applicazione, impegno, passione, pazienza e tanto tanto lavoro sulle parole, sulla rima, sulla metrica», una metodologia che Giulio Rapetti Mogol di fatto applica nella sua scuola, il CET. Qui si incastona il rapporto tra letteratura e canzone, argomento rinverdito dopo il Nobel per la Letteratura conferito a Bob Dylan e che ha animato un vero tourbillon mediatico. Ora, a prescindere dal fatto che molti dei nostri intervistati faticano a vedere etichettato il loro lavoro creativo come poesia o come musica tout court (una pudica affettazione), dobbiamo ammettere che si è ancora restii a riconoscere alla canzone in genere e a quella d’autore una dignità artistica. La quale invece le deriva da una «unità narrativa e metrica inscindibile», come afferma Roberto Vecchioni in La canzone d’autore in Italia, fatta di musica, testo e interpretazione: «un’unità nuova – sempre Vecchioni –, anche se col tempo la melodia ha trovato nuove strade, si è arricchita e nobilitata, prendendo in determinati periodi addirittura il sopravvento.» Scrive Luciano Ligabue nel suo La vita non è in rima: 11


«Quando si parla di canzoni, una delle cose peggiori che si possono fare è proprio quella di provare a smontarle, pensando che sia più funzionale capirne un pezzo alla volta. Non si può. Per lo stesso motivo per cui, quando parli di emozioni, di mente e di anima, non puoi non fare i conti con il corpo.» Il nostro mosaico si completa ora con l’interpretazione che, insieme al linguaggio musicale e poetico, è il terzo elemento semantico della canzone d’autore. Se non è possibile separare musica e testo, non si può prescindere dall’interpretazione che ha nella voce il suo elemento distintivo, con un modo di cantare naturale che si stacca dal vecchio “manierismo lirico” e che, insieme alla presenza scenica, regala all’interprete – preoccupato di dire qualcosa a qualcuno e non di emettere solo un bel suono – la sua originalità la quale, talvolta malgré soi, lo rende personaggio anche sul grande palcoscenico della vita. «La storia della canzone d’autore italiana – scrive Paolo Jachia in La canzone d’autore italiana 1958-1997 – è la storia dell’evoluzione di un prodotto artistico che piega l’uno e l’altro universo (musica e testo, ndr.) in una forma che suona tanto più peculiare quando a musica e parole si somma l’elemento performativo, la voce anzitutto, ma anche il gesto, la presenza scenica, quella singolare specie d’attore adombrata in ogni cantautore e in taluni interpreti capaci di personalizzare la canzone firmata o addirittura di dare dignità di canzone d’autore a prodotti standard.» Nella musica d’autore – in quella storicizzata in macro periodi in cui alloggiano i protagonisti e le poetiche di cui faremo la diretta conoscenza – si può dunque affermare esistano canoni, intesi come stili performativi in senso autoriale, senza nulla togliere al loro valore artistico. Pensiamo a Modugno, il primo cantautore capace di ritagliarsi una dimensione artistica a tuttotondo all’interno del mondo dello spettacolo per via della sua capacità performante, che lo porterà alla commedia musicale, al cinema e allo sceneggiato tv, e che pure inizia con un saltello ben studiato, le braccia aperte al cielo nel gesto plateale del volare. 12


E pensiamo ai Bindi, Endrigo, Paoli e Tenco, a quella loro “naturale” malinconia scenica, una specie di tedium vitae, una tristezza di fondo, per nulla corrispondente al vero e quindi fuorviante: un voler sembrare essere quasi di passaggio per intanto offrire poetiche sublimi. Talvolta una rinuncia più che una scelta, quando essere sfuggenti o assenti era causato da leggi scritte da un certo cinico mondo canzonettaro o dal bigottismo imperante. Se poi ricordiamo i tempi in cui ci si “vestiva” di ideologismi, vediamo al centro della scena la figura del cantautore politicizzato, secondo Gianni Borgna «portavoce di un malessere diffuso verso le mitologie del benessere e del consumo», e vediamo anche l’irruzione della violenza nei concerti e persino processi di piazza. A quella figura in Vaudeville Vecchioni dedica: “E spararono al cantautore/ in una notte di gioventù/ gli spararono per amore/ per non farlo cantare più/ gli spararono perché era bello/ ricordarselo com’era prima/ alternativo, autoridotto/ fuori dall’ottica del sistema.” Ed ecco Edoardo Bennato cantare: “Tu sei un cantautore/ Tu sei un’anima eletta/ Tu non accetti compromessi/ Tu non puoi sbagliare/ Tu non devi lasciarti andare”. Nel ’78 in Eskimo Francesco Guccini ammette che “a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età”. Nostalgie di giovinezza? Forse, più che un rinnegare una storia di libertà culturale che ha intrecci con folk, ricerca dialettale orale, cabaret e teatro-canzone, incrociando il rock per arrivare a rap e derivati. Di certo quel richiamo alla foggia della rivolta studentesca del ’68, l’eskimo, che per Guccini era solo “un cappotto che costava poco”, ha rappresentato una “divisa” funzionale. Nella sua Canzoni con il naso lungo, aggettivando la figura del cantautore, il veronese Massimo Bubola scrive: “Profetico nonché magnetico/ geometrico e acrobatico/ sei spesso problematico/ ma molto ironico/ a volte un po’ lunatico/ ma carismatico.” E Battiato: “C’è chi si mette degli occhiali da sole/ per avere più carisma e sintomatico mistero”, tanto da essere percepito come figura di riferimento esistenziale. 13


Diceva Lucio Battisti: «Non faccio tournée né spettacoli perché mi sembra di vendermi, di espormi in vetrina: io voglio che il pubblico compri il disco per le qualità musicali e non per l’eventuale fascino del personaggio.» Il fascino, caro Lucio, lo si può creare, Sanremo docet, la personalità no: può essere vivace o spenta, d’impatto o intima, palese o nascosta, un brillio o una tenue luce di candela… Se c’è, la vedi, ha il suo stile e la sua impronta, fors’anche una sua “filosofia” estetica. Dice Mina: «La personalità vive di luce propria come il sole. E come il sole dà luce a tutto, a tutto quello che tocca.» A proposito di interpretazione, il mondo cantautorale ci regala un pianeta al femminile di artiste che, essendo esse stesse musiciste e autrici o interpretando canzoni scritte da autori pensando a loro, sanno elevarsi a protagoniste uniche, talvolta divenendo esse stesse cantautrici. Ebbene, a fine anni Ottanta inizio Novanta le più belle voci di questo “mondo” si esibiscono al Teatro Romano di Verona in una rassegna unica in Italia e titolata “Canzone d’autrice”, organizzata dall’Estate Teatrale e ideata da De Angelis in collaborazione col Club Tenco. Affermando che in quegli anni esiste una specificità della canzone d’autrice che la rende diversa da quella dei cantautori, su “la Repubblica” Ernesto Assante di quella rassegna scrive: «Muovendosi completamente al di fuori delle abituali logiche di mercato, la rassegna veronese ha voluto proporre personaggi che già da tempo e con grande successo propongono musica per dare il segno di una continuità, non di uno sporadico interesse dettato dalla moda.» Il periodo è fertile quanto a donne in musica, anche per merito di presenze che fanno sentire la loro voce a livello internazionale e che troveranno spazio in festival successivi aprendo il palcoscenico del Romano alle più diverse culture musicali della canzone al femminile mondiale che ritroveremo in un prossimo volume che dedicherò alle icone internazionali di pop, rock, folk e jazz. Sempre a Verona, in Arena, cantautori e interpreti sono di casa con concerti memorabili sin da quando il 15 settem14


bre ‘78 la musica pop vi inizia a planare con un concerto di Angelo Branduardi. L’“extra lirica” propone poi negli anni il meglio del pop-rock nazionale. Anche al Teatro Filarmonico, sotto la sigla di “Cantautori Doc”, la canzone d’autore è protagonista, come lo è al Teatro Laboratorio negli anni ‘76 e ‘77 quando si esibiscono artisti che diverranno famosi e cult, come Paolo Conte al primo concerto da cantautore e poi Paoli, Guccini, Vecchioni, Branduardi, Del Prete e il grande Léo Ferré. Verona e il veronese negli anni Ottanta e Novanta sono territori fertili di eventi straordinari: ecco allora Baglioni in una delle primissime esibizioni pop in Arena, la cantatrice Concetta Barra esibirsi al Romano, Umberto Bindi da noi scovato in un concerto da piano-bar, Renato Carosone tornato in scena dopo il suo abbandono, Fabrizio De Andrè in discoteca con la PFM a far la storia della musica, Roberto Murolo che canta in una trattoria come ai suoi vecchi tempi, Renato Zero all’epoca dei suoi tanti sorcini… Occasioni straordinarie, che in decenni di trincea da giornalista mi fanno conquistare sul campo la “patente” di intervistatore, autore di ritratti-interviste che mi permettono di storicizzare in questo volume momenti unici per quello che rappresenteranno. Quale sfondo privilegiato si hanno l’Arena di Verona e i teatri Romano, Ristori, Laboratorio, Corallo e Filarmonico, ma anche altri luoghi fuori dalle mura di Verona (con buona pace di Shakespeare), là dove portava il cuore e la professione, visto che di molti spettacoli (alcuni memorabili, anche da qui l’importanza della loro riscoperta) dovevo redigere la recensione. Dalla “camera oscura” riposta per anni in uno scrigno segreto emergono sorprendenti fotografie d’epoca di artisti, musicisti, interpreti, cantastorie, giullari e “saltimbanchi”, molti noti e altri da riscoprire. Osservati da vicino e da dietro le quinte, si è scelto di riviverne la testimonianza mantenendo intonse quelle interviste, solo contestualizzandole, e quindi aggiornandole, in modo adeguato. Sono “impressioni” che rivelano sorprendenti verità, fotografie dell’anima, straordinarie nella loro profetica “preveggenza” rispetto 15


a ciò che sarà o a chi si diventerà. E rivedendo chi mi stava davanti, risentendone il tono della voce (ho sempre avuto la saggia abitudine di registrare i miei incontri), ho compreso come nei dettagli si nasconda spesso la nostra vera natura. E mi è piaciuto raccontarlo. Talvolta un fotogramma, una porzione di immagine, un frammento di azione può essere illuminante non solo rispetto a quella inquadratura, in quel tempo e in quel luogo, ma anche per meglio comprendere una parte di sequenza di vita. Fermare il tempo filmando dei “fuori campo” o con fotografie di scena, assorbite in modo fluido in dissolvenze incrociate, può servire a meglio comprendere quel tempo nel suo divenire, e così il nostro. E allora scopri che quell’artista, agli esordi o nel pieno della crescita, già era ciò che voleva essere e che il suo processo di ricerca, piastrellato di inquietudini, e quella sorta di agitazione indomita che brucia dentro non sono altro che il desiderio di ritrovare se stessi. Voler conoscere e conoscersi è in genere la regola; riconoscere e riconoscersi per come si è, tra lati chiari e oscuri, quando accade è una preziosità. Del resto, una fotografia, per essere nitida, ha bisogno di luci e ombre nella giusta misura. In un mondo qual è il nostro, un magma in cui tutto si scolora e confonde, lo sguardo a perdersi inghiottito dal buio della dimenticanza un attimo dopo essere stato vissuto, quei fotogrammi fanno non solo emergere ricordi smarriti, emozioni provate e atmosfere vissute, ma fanno traspirare in controluce l’aria del periodo che intanto si attraversa. E quelle canzoni, ballate, storie in musica, facendoci ritrovare la eco di riti collettivi che hanno scandito la nostra vita, diventano compagne di viaggio imperdibili, mai banali motivetti anche quando lo sembrano, talvolta poesia in musica, tanto da riscaldare i cuori. “Poesia per tutte le tasche”, come la definiva il francese Georges Brassens. Le canzoni, dice Marcel Proust, servono a conservare la memoria del passato, più della musica colta, per quanto sia bella. E Luciano Ligabue, pur esortandoci a “non badare al cantante”, ci ricorda che “certe vite passano/ leggere come 16


le canzoni/ che dietro le canzoni vanno/ Certe vite sfumano/ veloci come le canzoni/ che dentro le canzoni stanno.” Nella galassia composita del pensare, fare e interpretare la musica si profila un mondo affatto immobile né omogeneo, che espande la sua vocazionalità artistica raccontando e raccordando la storia dell’interazione fra diversi universi espressivi, tale da formare un caleidoscopio di voci, poetiche e visioni: tutti elementi che creano distinzioni, danno identità, ma che compongono un unico pianeta, quello della musica che, se vera, come dice Paolo Conte, «sa far ridere e all’improvviso ti aiuta a piangere». Scrive Nicola Piovani (in La forma canzone): «Conoscevo un professore, un musicologo molto severo, che ascoltava solo Bach e Schönberg, Frescobaldi e Stockhausen, e che giudicava popolaresco Giuseppe Verdi, triviale Mascagni, insignificante Gershwin. Storceva il naso pure su Offenbach […] ma si commuoveva con gli occhi lustri ogni volta che sentiva poche note di Una rotonda sul mare di Bongusto. Potenza associativa di una canzonetta!» No, quelle non sono solo canzonette, Nicola Piovani lo sa bene! Lo sappiano bene anche noi italiani che intonammo Azzurro dai balconi di casa per esorcizzare la paura di quel maledetto virus che ai musicisti di tutto il mondo ha fatto sospendere il fiato e interrompere i concerti. Lo sapeva bene Eduardo Bennato, quando nell’80 scriveva quel testo tra l’ironico e il dissacrante, vestito di allegra musicalità, per dire che le risposte ai quesiti del mondo non le dà chi fa o interpreta canzoni, il quale può solo dire e far pensare, creando canzoni. “È tutta musica leggera – canta Ivano Fossati in Una notte in Italia – così leggera che ti fa sognare… ma come vedi la dobbiamo cantare/ È tutta musica leggera/ ma come vedi la dobbiamo imparare.” Claudio Capitini

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Foto di Roberto Panucci. 18


Ha da passà ‘a nuttata “Ha da passà ‘a nuttata.” La massima pronunciata da Eduardo in Napoli Milionaria è diventata la filosofia di un popolo, la massima a cui affidarsi nei momenti di crisi. Come ci risaneremo? Come potremo ritornare quelli di prima, e magari migliori? Gennaro Iovine risponde con tono di saggezza: «S’ha da aspettà, ama’. Adda passà ‘a nuttata.» Proprio come il sole che ogni giorno vince un’altra notte, come ricorda Gennaro alla propria famiglia, bisogna solo aspettare e nel frattempo riscoprire la meraviglia delle piccole cose, dei piccoli gesti, di ciò che ci rende umani. Per mesi il coronavirus, tra lockdown territoriali e settoriali ai confini della libertà, caos normativo ed emotivo, la pandemic fatigue che lo ha accompagnato, ci mette sulla bocca una mascherina, insieme protettiva e coercitiva e ci fa vivere una pandemia che è molto più di un’emergenza sanitaria: è un mostro che ha generato paura, ma anche invito al cambiamento e all’audacia, nostalgia per il passato, stupore e orrore, stupefacenti ed eroici gesti d’amore, il quale, come dice Alessandro Baricco nel suo Quel che stavamo cercando, «similmente prende l’avvio da un contagio improvviso, inaspettato, violento». La resilienza imposta dall’isolamento sociale ha trovato nella musica un prezioso alleato, protagonista prima sui balconi italiani poi nei concerti in streaming da ogni angolo del pianeta. Sta di fatto però che il virus ha ammutolito musica e spettacolo dal vivo: il microfono è rimasto spento, il palcoscenico vuoto e il pubblico in attesa. Ma la speranza, quella che non muore mai, è ben presente nel nostro titolo, tratto da Chiamami ancora amore di Roberto Vecchioni, là dove il cantautore si dice convinto «che questa maledetta notte/ dovrà pur finire/ perché la riempiremo noi da qui/ di musica e parole.» C.C. 19



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