De judaeis

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Brunetto Salvarani

DE JUDAEIS Piccola teologia cristiana di Israele

Prefazione di Paolo De Benedetti

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© Il Segno dei Gabrielli editori 2015 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-271-0 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), Settembre 2015 Per la produzione di questo libro è stata utilizzata esclusivamente energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ed è stata compensata tutta la CO2 prodotta dall’utilizzo di gas naturale.

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Indice

Prefazione - di Paolo De Benedetti

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Documento - Decretum De Judaeis

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Introduzione - A mezzo secolo da Nostra aetate

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Una giornata particolare Il naufragio del De Judaeis Un’apertura di credito I primi segnali Un punto di non-ritorno Francesco a Gerusalemme Il senso di queste pagine

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1. Israele, il popolo scelto da Dio

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Il primo scoglio, il sostituzionismo... 32 Il nuovo Israele... 35 Un’alleanza mai revocata 36 Un pungolo? 39 Promemoria per le comunità cristiane 40 2. Le Scritture ebraiche 41 Un Libro, due eredi 42 Come nasce la Bibbia 43 Narrare le storie di Dio 45 Una strategia del ricordo 46 Promemoria per le comunità cristiane 49 3. Gesù di Nazaret, Yehoshua ben Yosef

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Il grande fratello Apprendimenti reciproci Gesù l’ebreo e Gesù il Cristo

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Il campo ermeneutico 59 La fede di o in Gesù... 61 Promemoria per le comunità cristiane 64 4. L’antigiudaismo cristiano

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Il male oscuro della coscienza cristiana 66 L’antigiudaismo nella modernità 70 “Il più persistente di tutti i pregiudizi” 72 Il capro espiatorio 74 Ciclisti ed ebrei 76 Contro lo Spirito santo 77 Promemoria per le comunità cristiane 79 5. La Shoà

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Solo dopo 82 Dio ad Auschwitz 85 Una preghiera sputata a terra 86 Promemoria per le comunità cristiane 89 6. Lo Stato d’Israele

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Ebrei e modernità 94 Il peso di Gerusalemme 97 Una storia della speranza 100 La Gerusalemme riconquistata, dall’ideale alla realtà 101 La Gerusalemme quotidiana, dalle voci al silenzio 105 Il valore intrinseco dell’altro 107 Quando la nube si alzava... 109 Il muro dei poveri 112 Promemoria per le comunità cristiane 113 7. La memoria, il futuro

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La memoria, un catalogo di simboli? Fare memoria, un caso serio Liberarsi dal ritualismo Raccontare una storia

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Ripensare il cristianesimo, la proposta di un fratello maggiore 123 Una comune missione religiosa? 125 Ripartire da Salerno 126 Promemoria per le comunità cristiane 129 Per non concludere - La saggia nonna di Amos Oz

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Al cospetto di Israele Pietre d’inciampo Doppia asimmetria Un percorso ancora lungo... La Chiesa di fronte a se stessa Forse...

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Come un’appendice 1. La lunga durata, ovvero della difficoltà di cambiare, di Franca Ciccòlo 2. Intervista a Pierre Lenhardt, maestro della soglia e sulla soglia Indice dei nomi

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A quante e quanti mi hanno avviato al dialogo cristiano-ebraico, da Maria Vingiani a Paolo De Benedetti, da Renzo Fabris a padre Bruno Hussar, dal pastore Martin Cunz ad Amos Luzzatto, da don Pietro Lombardini a Enzo Bianchi, da Bruno Segre a don Luigi Nason, dal pastore Daniele Garrone a suor Ada Ianes fino a Pierre Lenhardt; alla gloriosa redazione della rivista QOL (Gianpaolo Anderlini, Pietro Mariani Cerati, Rossella Prandi, Luigi Rigazzi, Raffaello Zini) che da trent’anni da un piccolo lembo di Emilia-Romagna opera instancabilmente, tra una portata e l’altra, per promuovere incroci, incontri e abbracci, a tavola ma non solo; all’Associazione degli Amici italiani di Nevè Shalom – Wahat asSalaam, di cui sono indegno presidente, perché continui a raccontare che – nonostante tutto – la pace è un’arte che si può imparare, anche là dove è più difficile farlo; ad Andreina e Raniero, al loro coraggio, alla loro sapienza e alla loro passione per Israele; a rav Elio Toaff, che ha attraversato il Novecento sfidandolo con la schiena diritta; a Franca, perché la sua amicizia mi è tuttora preziosa, a dispetto della sua assenza.

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PREFAZIONE Paolo De Benedetti Dio aveva bisogno di un tu, e questo tu Dio lo crea riflettendo su se stesso. Tutti i popoli hanno sentito nella loro storia, o cultura, il bisogno di una o più divinità. Ma non è così altrettanto evidente che la divinità abbia bisogno della creatura. E tuttavia non esiste, in nessuna religione, l’idea che questo reciproco bisogno sia, in certo senso, non solo la prova, ma la necessità per l’esistenza di Dio stesso. Si tratta, dell’uomo e di tutto il creato, come di uno specchio di Dio: infatti Dio ha bisogno di specchiarsi per scoprire in se stesso l’identità delle tre realtà che fanno uscire il mondo dal nulla: l’Io, il Tu e il Creato. Come si è accennato, il Creato è il Tu di Dio, e ciò significa non solo che il Creato abbia bisogno di Dio (idea assolutamente universale), ma che Dio abbia bisogno del Creato inteso come Tu e come specchio. In sostanza, sia nella realtà materiale e umana, sia nella realtà divina è fondamentale il rapporto come parola, come vittoria (tanto umana quanto divina) sulla solitudine. Per questo una definizione ebraica di Dio è forse la più profonda di tutte: Dio è “colui che ascolta il grido”. Ciò che, in certo senso, ci autorizza, ci spinge a “gridare a Lui”. Non dimentichiamo che questo fu anche il grido di Gesù nella passione, cioè di un figlio al padre muto: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27,46; Marco 15,34). Senza ebraismo il cristianesimo non avrebbe fondamento. Questa non è una scelta degli uomini ma una scelta di Dio, che ha sentito il bisogno non solo di capire gli uomini e salvarli, ma in primo luogo di identificarsi con essi nell’amore e nel dolore per essere un Dio paterno e non un Dio re. Naturalmente questa teologia presuppone che tutta la tradizione biblica, ebraica e cristiana, sia un unico percorso, anche 9


se non tutti i camminatori riescono a compierlo interamente. Ma è un percorso difficile anche per Dio, che non può guidarci senza versare il proprio sangue. Ecco perché il cristianesimo implica non solo un totale coinvolgimento di Dio, ma anche il suo dolore, il suo bisogno di aiuto, la sua esperienza della morte, la sua impossibilità di vincerla subito. Infatti ciò che noi leggiamo nella vita di Gesù è il suo bisogno di essere uomo e proprio per questo, essendo un uomo ebreo, il rapporto ebraismo-cristianesimo, incarnato in lui, deve essere vitale nella cultura e nella coscienza di tutti i cristiani. Perciò questo libro di Brunetto Salvarani crea un ponte indispensabile a tutti coloro che osano chiedere a Dio: “Dove sei?”. Una domanda che merita la risposta divina: “Eccomi!”, e che il lettore di queste pagine è da esse aiutato a vivere.

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Documento - DECRETUM DE JUDAEIS La Chiesa, sposa di Cristo, riconosce con un cuore pieno di gratitudine che, secondo il misterioso disegno di salvezza di Dio, gli inizi della sua fede e della sua elezione risalgono all’Israele dei Patriarchi e dei Profeti. Così, essa riconosce che tutti i credenti cristiani, figli di Abramo secondo la fede (Gal 3,7) sono inclusi in questa chiamata. Similmente, la sua salvezza è prefigurata, come in un segno sacramentale, dalla liberazione del Popolo Eletto dall’Egitto (liturgia della Vigilia di Pasqua). E la Chiesa, nuova creazione in Cristo (Ef 2,15), non può mai dimenticare di essere la continuazione spirituale del popolo con cui, nella Sua misericordia e graziosa condiscendenza, Dio ha concluso l’Antica Alleanza. La Chiesa, infatti, crede che Cristo, che è “la nostra pace”, abbraccia ebrei e gentili con l’unico e lo stesso amore e che Egli ha fatto dei due un popolo solo (Ef 2,14). Essa si rallegra dell’unione dei due “in un sol corpo” (Ef 2,16), proclama la riconciliazione del mondo intero in Cristo. Anche se la gran parte del popolo ebraico è rimasto separato da Cristo, sarebbe un’ingiustizia chiamare maledetto questo popolo, perché restano prediletti a causa dei Padri e delle promesse fatte ad essi (Rom 11,28). La Chiesa ama questo popolo. Da essi è sorto Cristo Signore, che regna glorioso nei cieli; da essi è sorta la vergine Maria, madre di tutti i cristiani; da essi sono venuti gli Apostoli, pilastri e bastioni della Chiesa (1Tim 3,15). Inoltre, la Chiesa crede nell’unione del popolo ebraico a essa come parte integrale della speranza cristiana. Con fede incrollabile e profonda nostalgia la Chiesa attende l’unione con questo popolo. Al tempo della venuta di Cristo, “un resto scelto per grazia” (Rom 11,5), le vere primizie della Chiesa, hanno accettato la Parola Eterna. La Chiesa crede, comunque, con l’Apostolo, che al tempo stabilito la totalità dei figli di Abramo secondo la carne abbraccerà colui che è la salvezza (Rom 11,12.26). La loro accoglienza sarà un ritorno alla vita dopo la morte (Rom 11,15).

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La Chiesa, come una madre, che condanna severamente le ingiustizie commesse contro popoli innocenti ovunque, alza la sua voce contro tutto il male commesso contro gli ebrei, nel passato come nel nostro tempo. Chiunque disprezza o perseguita questo popolo ferisce la Chiesa cattolica.1

1 Il 18 settembre 1960 papa Giovanni XXIII incaricò il cardinale Agostino Bea, da lui chiamato alla guida del neonato Segretariato per l’Unità dei Cristiani, di preparare lo schema di una dichiarazione sulla relazione della Chiesa con il popolo ebraico, in vista dell’imminente concilio. A tal fine si formerà una sottocommissione del Segretariato, i cui membri furono l’abate benedettino della Dormizione di Gerusalemme Leo Rudloff, il teologo Gregory Baum e Johannes Oesterreicher, direttore dell’Istituto di Seton Hall (New Jersey), importante centro studi ebraico-cristiani. Qui è riportata la prima bozza, un testo poco conosciuto, che avrebbe dovuto fungere da appendice al decreto sull’ecumenismo, completato il 1° novembre 1961 dal Segretariato e in realtà mai presentato al concilio per le sopraggiunte difficoltà politiche fra Israele e i paesi arabi (traduzione dal latino di Ombretta Pisano).

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Introduzione

A MEZZO SECOLO DA “NOSTRA AETATE” Bisogna, e l’ho ribadito molte volte, amare Israele con un amore aperto a tutto e a tutti. Bisogna amare la cultura ebraica di oggi, la loro musica, la loro letteratura, la loro storia, il loro modo di pregare, il loro modo di fare festa. Solo un amore così permette il superamento dei timori e delle difficoltà e dà al dialogo quella gioia e quell’umanità che si addice all’incontro tra amici... (Carlo Maria Martini)

Quanto tempo è trascorso? Parecchio... Prendo le mosse, è inevitabile, da un ricordo personale. Il mio primo 17 gennaio fu nel 1991. Ne serbo una memoria ben salda soprattutto perché – dovendo nell’occasione tenere una conferenza a Reggio Emilia, in una sala situata dietro il duomo – attraversai piuttosto infreddolito la centralissima piazza Prampolini, dove mi colpì un raffazzonato sit-in pacifista contro la ventilata Guerra del Golfo: che, in effetti, scoppiò, non certo inattesa, proprio quella notte. Così, da quella sera ai miei occhi le motivazioni dell’incontro complesso ma indispensabile fra cristiani ed ebrei s’intrecciarono ancor più del solito con la centralità geopolitica del conflitto israelopalestinese, e della necessità di una pace duratura in Medio Oriente.

Una giornata particolare Ad appena due anni prima risaliva la felice intuizione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) che, grazie soprattutto all’impegno appassionato del vescovo di Livorno Alberto Ablondi, allora presidente del Segretariato per l’ecumenismo e il dialogo e scomparso nel 2010, in linea con la dichiarazione conciliare Nostra aetate aveva deciso di convocare le chiese locali a vivere una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano, appunto ogni 17 gennaio. 13


Data scelta non per caso, e tenacemente voluta da un quartetto di personalità coraggiose (lo stesso Ablondi e Maria Vingiani da parte cristiana, Tullia Zevi e rav Elio Toaff da quella ebraica1), ma per ragioni teologiche e insieme simboliche: si pone infatti a ridosso della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, con la doppia intenzione di evidenziare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della fede cristiana, su qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico, e l’impossibilità che quest’ultimo produca effetti concreti senza un costante invito a porsi alla scuola di Israele. Un’iniziativa davvero profetica! A distanza di un quarto di secolo, peraltro, è lecito chiedersi quale sia lo stato di salute di tale Giornata, cartina di tornasole realistica dell’intero cammino del dialogo fra cristiani ed ebrei... Difficile sottrarsi alla sensazione che essa stia attraversando, da qualche tempo, una fase critica. Certo, è normale nelle cose umane – nei matrimoni come nelle relazioni interreligiose, ad esempio – che, dopo un avvio carico di attese e curiosità, si ceda il passo a una quotidianità un po’ routinaria. Che, alberonianamente,2 dopo la stagione dell’innamoramento, sopraggiungano le fatiche e gli inciampi di quella dell’amore. Talvolta ciò accade, tornando alla nostra Giornata, quando il messaggio collegato alla ricorrenza ha ormai preso piede, facendosi senso comune. Non è questo, però, purtroppo, il caso del 17 gennaio. Di anno in anno, anzi, la percezione dei (pochi) addetti ai lavori e dei (pochi di più) partecipanti – quasi sempre gli stessi, ovviamente nel frattempo invecchiati, dall’una e dall’altra parte – è che la sua spinta propulsiva non solo si sia progressivamente esaurita, ma non abbia fatto breccia nel cuore dei più giovani, e comunque del corpo ecclesiale. Non sia divenuta senso comune. Anche senza enfatizzare la scelta dei rabbini di non 1 Le complesse vicende della nascita della Giornata del 17 gennaio sono ben ricostruite in F. Capretti, La chiesa italiana e gli ebrei. La recensione di Nostra aetate 4 dal Vaticano II a oggi, EMI, Bologna 2010, pp. 67-73. Dalla ricostruzione emerge fra l’altro che la CEI non sarebbe stata in senso proprio la diretta artefice dell’iniziativa, ma avrebbe fatto sua un’intuizione dal basso che, negli anni precedenti, aveva trovato terreno favorevole in alcuni luoghi e presso alcuni autorevoli protagonisti del dialogo. 2 F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti, Milano 1979.

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parteciparvi, nel 2009, dopo il caso doloroso della preghiera del Venerdì santo in versione latina, giudicata conversionistica,3 molteplici appaiono le cause della crisi: l’oggettiva complessità del tema sotteso, dopo diciannove secoli di insegnamento (cristiano) del disprezzo (verso gli ebrei); i sentimenti di paura e chiusura identitaria che hanno contagiato ogni comunità religiosa – si tenga a mente fra l’altro l’esiguo numero di ebrei italiani, circa 30.000 in tutto – nel vortice dell’immaginario del (cosiddetto) scontro di civiltà; il classico argomento dell’asimmetria del dialogo, per cui i cristiani avrebbero bisogno degli ebrei ma non viceversa (su cui torneremo); e poi, last but not least, la modestia dei risultati effettivi ottenuti sinora. La strada è ancora lunga, ma, sia chiaro, non ci si dovrebbe scoraggiare, senza dimenticare che il passo più ampio del percorso, quello più arduo, è stato fatto con la stessa Nostra aetate al n. 4. E che su tale dialogo si giocherà una partita tanto delicata quanto decisiva, anche per il futuro delle chiese cristiane: un’affermazione, me ne rendo conto, forte, da giustificare e approfondire. Sia che si consideri gli ebrei i nostri fratelli maggiori, come ebbe a dire Giovanni Paolo II, sia che ebrei e cristiani siano letti, piuttosto, come fratelli gemelli, come ha suggerito il priore Enzo Bianchi.4 È quanto le pagine che seguono si propongono di fare... Se non ora, quando?

Il naufragio del De Judaeis È indispensabile compiere un passo indietro, per capire meglio lo stato delle cose. Il 28 ottobre 1965, quando il concilio Vaticano II si stava avviando alle sue estreme settimane di vita, ebbe luogo un evento che si sarebbe rivelato fondamentale per il futuro della cattolicità, e le cui conseguenze – all’epoca – erano persino impossibili da prevedere. Anche per gli stessi attori della cosa. I padri conciliari concludevano quel giorno, infatti, 3 Sul caso, su cui torneremo più avanti, si può vedere A. Melloni, Quel che resta di Dio, Einaudi, Torino 2013, pp. 64-67. 4 E. Bianchi, “Ebrei e cristiani fratelli gemelli”, in Avvenire (11/1/2015).

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il faticoso e per certi versi addirittura estenuante itinerario che li aveva portati a votare, a stragrande maggioranza,5 un documento fra i più sintetici che quell’assemblea avrebbe espresso, ma altresì fra i più strategici: la dichiarazione Nostra aetate.6 Un testo breve, costituito da soli cinque paragrafi, che nella mente di Giovanni XXIII 7 e del cardinale-biblista Augustin Bea (che ne fu, com’è stato detto ripetutamente e correttamente, l’autentico architetto8), avrebbe in prima bozza dovuto intitolarsi De Judaeis: sarebbe stato infatti una sorta di trattato che, dopo tanti secoli di dissertazioni adversus Judaeos, contro gli ebrei, era chiamato a riabilitare agli occhi dei cristiani quel popolo a lungo perseguitato e considerato reietto dall’alto perché ritenuto Con 2221 voti a favore e 88 contrari. Per il testo della dichiarazione si veda Declaratio Nostra Aetate. Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, in EV, EDB, Bologna 1993 (14° ed.), vol. I, pp. 853-871. A chi intenda avvicinare il documento nella sua complessità, segnalo, tra i commentari in lingua italiana: A a.Vv., La dichiarazione su «Le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane», Elle Di Ci, Torino 1966; M. Zago, Nostra aetate. Dialogo interreligioso a 20 anni dal Concilio, Piemme, Casale Monferrato 1986; T. Federici, Il Concilio e i non cristiani. Declaratio, testo e commento, AVE, Roma 1966; P. Stefani, Chiesa, ebraismo e altre religioni. Commento alla «Nostra aetate», Edizioni Messaggero, Padova 1998. Rinvio inoltre al ben documentato N. Lamdan A. Melloni, a cura, Nostra aetate: Origins, Promulgation, Impact on JewishCatholic Relations, LIT, Berlin 2007, mentre sul rapporto fra il Vaticano II nel suo complesso e le altre religioni può rivelarsi utile F. Iannone, Una Chiesa per gli altri. Il Concilio Vaticano II e le religioni non cristiane, Cittadella, Assisi (Pg) 2014. 7 Quel papa Roncalli che gli ebrei sono soliti chiamare “tov Johanan hatzaddiq”, “il buon Giovanni il giusto”, o “fratello Giuseppe”… (cfr. T. Federici, Israele vivo, Ed. Missioni Consolata, Torino 1962, pp. 173s.). È appena il caso di ricordare come Roncalli, già da visitatore e delegato apostolico a Sofia (1925-1935) e ancor più da delegato apostolico a Istanbul (1935-1944), aveva personalmente potuto constatare, durante la persecuzione del Terzo Reich, la terribile condizione degli ebrei; come ha scritto il cardinal Kasper, “l’impegno personale per la salvezza di molti di loro dalla morte nei campi di sterminio nazisti fu per lui un fatto di cuore e di coscienza” (W. Kasper, “Rileggendo la dichiarazione sull’ebraismo Nostra aetate”, in Non ho perduto nessuno, EDB, Bologna 2005, p. 76). 8 Del quale si veda almeno A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Morcelliana, Brescia 1966 (nuova edizione 2015, con prefazione di P. Stefani); sul ruolo decisivo da lui svolto nella vicenda di Nostra aetate, cfr. S. Schmidt, Agostino Bea il cardinale dell’unità, Città Nuova, Roma 1987, pp. 564-613. 5 6

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nientemeno che deicida e condannato, per questo, a una continua dispersione fra le nazioni. Un passo richiesto ardentemente, vale la pena di rimarcarlo, dalla ferma volontà di riscattare il dramma della Shoà 9 di un ebreo francese laico fino al midollo, il bretone Jules Isaac, che il 13 giugno 1960 – una data che chi opera nel dialogo cristiano-ebraico dovrebbe appuntarsi, ponendola accanto a quella del 13 aprile 1986, quella dello storico abbraccio al Tempio Maggiore romano fra Giovanni Paolo II e rav Elio Toaff – incontrò papa Roncalli e lo supplicò affinché la chiesa cattolica prendesse finalmente le distanze dal proprio inveterato antigiudaismo.10 In realtà, le vicende, interne ed esterne al concilio, fecero sì che il progetto roncalliano non andasse in porto (per obiezioni e resistenze varie, da parte sia della minoranza conciliare ancora legata agli stereotipi sostituzionisti sia della gerarchia araba, con a capo Maximos IV Saigh, autorevole patriarca melchita, perplessa di fronte al rischio che la fine della pregiudiziale antiebraica potesse essere letta come un abbraccio vaticano allo Stato d’Israele11). Si badi, non perché quella riabilitazione non 9 Colgo l’occasione per segnalare che, per quanto riguarda il problema della traslitterazione dall’ebraico all’italiano, mi attengo in genere a quella in uso attualmente presso gli ebraisti italiani (scrivendo dunque, ad esempio, Torà e non Torah, o Shoà in luogo di Shoah, e Nazaret al posto di Nazareth). 10 L’udienza poteva essere considerata il punto d’arrivo di una serie di contatti riservati tra importanti personalità del mondo ebraico e di quello cattolico, e di fatto contribuì ad avviare alcuni incontri diretti tra Bea e diversi organismi ebraici (dal Congresso Ebraico mondiale all’American Jewish Committee fino all’Anti-Defamation League). Al termine dell’incontro, in effetti, stando al resoconto fornitoci dallo stesso Isaac, papa Roncalli accolse il suo suggerimento di creare una commissione di studio sull’argomento, assicurandogli – a fronte della sua domanda: “Posso avere almeno un briciolo di speranza?” – che aveva diritto ben più che alla speranza. Aggiungendo, peraltro: “Non dipende tutto da me, anche se sono il capo: dovrò consultare, far studiare il problema…”. Loris Capovilla, all’epoca segretario di Giovanni XXIII e oggi cardinale, ne parlerà come dello storico incontro fra due uomini biblici. Il papa morirà il 3 giugno 1963, Isaac tre mesi dopo, il 5 settembre, ad Aixen-Provence, dove si era ritirato a vivere dopo la fine della guerra: né l’uno né l’altro, dunque, potranno vedere la stesura definitiva del documento conciliare, ma a tutti gli effetti ne sono considerati, a diverso titolo e a buon diritto, gli ispiratori ideali. 11 Melchiti è il nome attribuito nel V secolo ai cristiani dei patriarcati di

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ci fu, ma perché l’esito conclusivo del processo avrebbe contenuto qualcosa di più (e di diverso), anche se per casualità e non per necessità: la prospettiva, del tutto inaspettata, di un nuovo sguardo cristiano non solo sugli ebrei e Israele, ma anche su tutte le altre religioni. In buona sostanza, in quel giorno di fine ottobre di mezzo secolo fa si concluse ufficialmente la lunghissima stagione dominata da un celebre assioma, Extra ecclesiam nulla salus, che – nato nel cuore della prima stagione della patristica latina, con Cipriano e poi con Agostino e il suo discepolo Fulgenzio da Ruspe12 – aveva proseguito con il suo influsso, nelle sue riletture più o meno esclusiviste e più o meno rigoriste, fino ben dentro l’età moderna.13

Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, che accettavano la definizione del concilio di Calcedonia (451) relativa alla natura umana e divina di Cristo, in conformità alle prescrizioni del papa e dell’imperatore bizantino. Tale nome (dal semitico melek, re), che identificava i seguaci dell’imperatore, fu coniato spregiativamente dai teorici del monofisismo, convinti invece del carattere unicamente divino della natura di Cristo. Un’altra loro definizione, pure originariamente denigratoria, è quella di uniati. I melchiti – detti anche grecocattolici – aderirono allo scisma che nel 1054 portò alla nascita della chiesa ortodossa, ma nei secoli successivi alcuni gruppi ritornarono alla comunione con Roma entrando a far parte delle chiese di rito orientale: il patriarcato di Damasco, ad esempio, fu riconosciuto nel 1724. Pur mantenendo un rito e una lingua liturgica differenti da quelli della chiesa cattolica romana, formano con essa un’unità ecclesiale e riconoscono il primato del papa; i loro preti, non tenuti al celibato, celebrano la liturgia in arabo. Lingua, nome, simboli sono perciò elementi fondamentali, nell’identità complessa della chiesa melchita, e sovente motivi d’incomprensioni con la chiesa latina. 12 Copiosa è la bibliografia sulla storia dell’assioma Extra ecclesiam nulla salus, la cui vicenda è ricostruita da G. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa? Storia e senso di un controverso principio teologico, Queriniana, Brescia 2009. 13 È il caso di ricordare che il concilio, nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, promulgata il 21/11/1964, aveva già definito il popolo ebraico – pur senza nominarlo come tale – come “in virtù dell’elezione, carissimo per ragione dei suoi padri: perché i doni e la chiamata di Dio sono senza pentimento (cf. Rom. 11, 28-29)” (LG n. 16).

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Un’apertura di credito Nostra aetate, in effetti, in breve tempo si rivelò essere un apripista per ben altri itinerari, un robusto albero – come ebbe a dire evangelicamente il cardinal Bea – che si era sviluppato dal granello di senapa del De Judaeis.14 Un punto di partenza, e non certo d’arrivo. I padri conciliari che l’approvarono, in massima parte, non potevano che avere, per immaginario collettivo, il retropensiero formalizzato dalle potenze europee in occasione della pace di Augusta (1555), “cuius regio eius et religio”: il quale, una manciata di anni dopo la fine del Vaticano II, non sarebbe stato più in grado di rispondere alle sfide del clamoroso processo di pluralizzazione dei riferimenti religiosi che avrebbe attraversato l’intero pianeta sul declinare del XX secolo. Da qui, le teologie del pluralismo religioso, con esperienze paradigmatiche come quelle – per limitarci a un paio di nomi, fra i teologi cattolici più emblematici – di un Jacques Dupuis e un Raimon Panikkar.15 Non solo. Anche il quarto paragrafo di Nostra aetate, erede diretto di quel De Judaeis che in quanto tale non vide ufficialmente mai la luce, si manifestò subito come un passo iniziale, un’apertura di credito per un sentiero innovativo che avrebbe potuto, e dovuto, cambiare la chiesa cattolica in alcune delle sue convinzioni di fondo. La realizzazione della dichiarazione conciliare, in realtà, rappresentò una sorta di compromesso, perché – come spiega bene lo stesso paragrafo 4 – il cristianesimo possiede un rapporto unico e vitale con 14 “La Nostra aetate ha segnato indubbiamente una svolta storica perché è stata l’interruzione di una strada percorsa senza grandi contraddizioni almeno, e non a caso, a partire dalla svolta costantiniana, quando all’apologia adversus Judaeos del II e III secolo si sono sostituiti l’ostilità e la persecuzione non solo da parte del Cesare cristiano, ma anche da parte della Chiesa nei suoi più autorevoli rappresentanti: i Padri” (E. Bianchi, “La svolta storica della Nostra aetate 4”, in Missione Oggi n. 5 [1993], p. 20). 15 La bibliografia al riguardo è ormai vasta. Cito dunque solo un testo da poco uscito, destinato a ridare onore alla figura di un grande teologo che ha avuto la vita segnata da pesanti accuse da parte della Congregazione per la dottrina della fede alla sua teologia: J. Dupuis, Perché non sono eretico. Teologia del pluralismo religioso: le accuse, la mia difesa, a cura di W.R. Burrows, EMI, Bologna 2014.

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l’ebraismo: mentre non possiamo definirci, in quanto cristiani, senza fare riferimento diretto a Israele, questo non vale nel caso dell’islam, del buddhismo, o di qualsiasi altra religione. Ma se il giudaismo appartiene alla radice stessa del cristianesimo, “arrivare a questa convinzione, formularla e trovare una maggioranza che la sostenesse in seno al Concilio non fu un’impresa facile”.16 Chi ha colto questo dato in maniera perentoria è stato, facendolo con grande vigore, il cardinale Carlo M.Martini, che, diversi anni fa, si spinse ad avvertire come ormai il problema delle relazioni cristiano-ebraiche17 si sia fatto “più preciso e decisivo per il futuro stesso della Chiesa. La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della 16 Cfr. W. Kasper, “Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraicocristiani”, in N.J. Hofmann - J. Sievers - M. Mottolese, a cura, Chiesa ed ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte, Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici - Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, p. 10. 17 Preferisco normalmente la dizione dialogo cristiano-ebraico a quella, più usata, di dialogo ebraico-cristiano, anche per rilevarne l’oggettiva prevalente direzione, almeno sinora, dal mondo cristiano a quello ebraico. Scrive a tale proposito, Piero Stefani: “Vi è una domanda che, sulle prime, appare solo terminologica e che, invece, non lo è: è meglio parlare di dialogo ebraico-cristiano o, invertendo i termini, è preferibile usare la dizione cristiano-ebraico? La scelta della seconda formulazione ha, dalla sua, alcuni motivi dirimenti. Il primo sta nella cosiddetta asimmetria del dialogo, in base alla quale i cristiani sono fortemente interessati a questioni teologiche e alla ricerca della propria radice, mentre da parte ebraica prevalgono o temi pratici di carattere generale (giustizia, pace, salvaguardia del creato e così via) o argomenti più specificatamente connessi al popolo d’Israele (lotta contro l’antisemitismo, la giudeofobia, l’antisionismo, tutela delle memorie ebraiche, ecc.). In realtà, i multiformi intrecci della storia non consentono di sottoscrivere appieno la posizione radicale secondo cui il cristianesimo non può in alcun modo prescindere dall’ebraismo, mentre è vero il contrario. In effetti, fin dal primo secolo i rapporti tra il piccolo gruppo di ebrei credenti in Gesù Cristo e la «massa» che non vi credeva hanno avuto ripercussioni sul modo in cui si è costituito l’ebraismo post-biblico. Il fatto che i primi annunciatori della buona novella fossero ebrei ha il suo peso. Resta comunque vero che, oggi, le modalità dell’incontro si manifestano in maniera diversa se si parte dal lato cristiano o da quello ebraico” (P. Stefani, “Cristiani ed ebrei: raccontarsi per dialogare”, in Popoli n. 5 [2007]).

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Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d’oggi”.18 Un passaggio netto e lucidamente profetico, quello di Martini. Ora, a cinquant’anni da quel concilio, la strada percorsa al riguardo dalla chiesa cattolica è variamente giudicata: in genere, però, viene ritenuta ancora troppo lenta, troppo timida, e impacciata...19 Anche da parte ebraica non mancano le critiche al quarto paragrafo della Nostra aetate, giudicato da qualcuno paternalista e, alla fine, ancora eccessivamente inclusivista.20 Ma forse questo anniversario può essere l’occasione propizia per rilanciare il senso profondo delle straordinarie aperture di allora: anche perché la reale portata della cosa, in ogni caso, non direi sia ancora stata pienamente percepita, ripetiamolo, a livello di quello che il Vaticano II chiama popolo di Dio. Il tentativo di questo libro è perciò di fare il punto sul tragitto che ha riaperto le porte a un incontro (o re-incontro?) epocale fra mondo ebraico e mondo cristiano. Proponendo una piccola teologia cristiana di Israele che, lungi da ogni pretesa di risultare esaustiva, riesca a toccare però le principali questioni in campo, presentandone sinteticamente gli aspetti cruciali. Perché, se aveva ragione il cardinal Martini, la partita non è considerabile puramente periferica e riservata agli addetti ai lavori, ma assai importante sul piano strategico e forse persino vitale per il presente e il futuro della Chiesa. E non solo.

18 C.M. Martini, “Ebrei e cristiani di fronte alla sfida del nostro tempo”, in Nuova umanità n. 37 (1985), p. 51, ora anche in IDEM, Israele, radice santa, Centro Ambrosiano – Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 37s. Il discorso fu pronunciato nel corso di un Colloquio internazionale di Vallombrosa il 9/7/1984. 19 Vale la pena di evidenziare che, da subito, la ricezione di Nostra aetate non fu propriamente esaltante, da parte del mondo cattolico. A titolo esemplificativo, si veda il saggio di E. Mazzini, “Perfidi giudei o fratelli maggiori? La ricezione della Declaratio Nostra Aetate nella stampa cattolica italiana (1965-1974)”, in Laboratoire italien, 11/2011, pp. 101-132. 20 Mi limito, al riguardo, a ricordare le perplessità di un solido autore quale S. Trigano, L’e(xc)lu, entre juifs et chretiens, Denoël, Paris 2003.

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I primi segnali È necessario ricordare, dunque, come la storia dei rapporti tra cristiani ed ebrei sia stata, in buona sostanza fino alla metà del XX secolo, una vicenda di contrapposizione radicale fondata sull’atteggiamento del disprezzo (J. Isaac), largamente segnata dalla ferita mai rimarginata della separazione tra Chiesa e Sinagoga: è il cosiddetto protoscisma, la separazione tra fratelli nati all’interno dello stesso mondo religioso, quello del giudaismo, o meglio, dei diversi giudaismi, del secondo tempio; o, per dirla nuovamente con il cardinal Martini, “il prototipo di ogni scisma”.21 Certo, va ammesso che non è possibile stendere una sia pur sintetica storia del movimento preconciliare del dialogo fra ebrei e cristiani a partire unicamente dai documenti ufficiali, stesi da istituzioni ecclesiastiche o da organismi ebraici, poiché si rischia di dimenticare che i veri padri e le vere madri del dialogo sono, almeno da parte cristiana, semplici pastori, membri di ordini religiosi o monastici, laici (uomini e donne) che, dopo il 1945, hanno reso moralmente possibile un dialogo tra le chiese e i teologi cristiani da una parte e i rappresentanti del popolo ebraico dall’altra (una sottolineatura cara all’amico pastore Martin Cunz). L’avvio ufficiale di qualche serio indizio di dialogo risale a neppure settant’anni fa: in genere si adotta come riferimento la conferenza internazionale svoltasi dal 30 luglio al 5 agosto 1947 in quel di Seelisberg, in Svizzera, dove i settanta intellettuali ivi convenuti (cattolici, protestanti ed ebrei di diciannove paesi diversi) su invito dell’associazione statunitense National Council of Christians and Jews si coalizzarono per verificare la possibilità di una cooperazione fattiva nella lotta contro l’antisemitismo. Tra gli intellettuali cattolici presenti, lo storico Henri Marrou, padre Jean Daniélou e l’abate Vieillard, mentre Jacques Maritain, impossibilitato ad andare, inviò una corposa lettera sull’argomento. Il documento conclusivo, nell’intento dei conC. M. Martini, Israele, radice santa, Centro Ambrosiano - Vita e Pensiero, Milano 1993, cfr. in particolare le pp. 37-49. 21

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gressisti, avrebbe dovuto influenzare l’educazione religiosa dei cristiani: ispirato da una proposta dello stesso Jules Isaac e reso noto come I dieci punti di Seelisberg, esso in effetti produrrà una vasta eco in merito all’urgenza di aprire un nuovo cammino.22 A sostenere i Dieci punti viene costituita a Parigi, nel 1948, l’associazione dell’Amicizia ebraico-cristiana, che in breve tempo promuoverà la creazione di una serie di apposite sezioni regionali. Nel 1961 l’associazione francese, insieme alle consorelle via via nate in Germania, Italia, Svizzera e Gran Bretagna, fonda l’International Consultative Committee, che diverrà nel ’74 l’International Council of Christians and Jews. Per approfondire e sviluppare i materiali di Seelisberg si terranno fra studiosi cristiani altri incontri, fra cui uno a Friburgo nel ’48 e un altro a Bad Schwalbach nel ’50. Le chiese tedesche, comprensibilmente, sono particolarmente orientate a riflettere sul rapporto con l’ebraismo: si approvano così efficaci documenti da parte dell’assemblea svoltasi a Mainz (Magonza) sempre nel ’48, dal sinodo evangelico tedesco di Weissensee nel ’50 e dall’assemblea degli evangelici tedeschi nel ’61. In generale, tali testi esprimono sì la condanna dell’antisemitismo, uno spirito di penitenza e di riparazione verso gli ebrei e il riconoscimento della necessità di un nuovo incontro con l’ebraismo: eppure, spesso, la loro prospettiva è ancora troppo conversionistica, si fa uso di espressioni ambigue, come ad esempio questione ebraica, mentre non si approfondiscono in misura adeguata le responsabilità storiche dei cristiani. Certo, in precedenza non erano mancati esperimenti e pionieri, cristiani ed ebrei, sin dalla metà del XIX secolo, fra cui nomi noti alla storia della cultura: da Léon Bloy autore del libro La salvezza dagli ebrei,23 testo peraltro non poco problematico, a Jacques Maritain, che pone al centro della sua coraggiosa visione del mondo Israele, l’ebraismo, il popolo ebraico, di parte cristiana,

22 Per il testo dei Dieci punti, cfr. G. Cereti - L. Sestieri, a cura, Le chiese cristiane e l’ebraismo (1947-1982). Raccolta di documenti, Casale Monferrato, Marietti 1983, pp. 2-3 23 L. Bloy, Dagli ebrei la salvezza, Adelphi, Milano 1994.

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a Franz Rosenzweig con la sua Stella della redenzione24 e allo stesso Martin Buber, filosofo e narratore che avrà un notevole ruolo anche nei primi tempi del nuovo Stato d’Israele, di parte ebraica, fra gli altri. Sarà solo a Seelisberg, peraltro, come detto, che sarebbe esplosa l’inedita esigenza di agire risolutamente affinché l’antisemitismo che aveva provocato la Shoà non fosse più alimentato da influenze religiose cristiane. Da allora, e fino al Vaticano II, l’itinerario percorso, anche in ambito cattolico, non è stato in ogni caso irrilevante. In parecchie direzioni. Anche direttamente e in prima persona da parte delle gerarchie, con la cancellazione nella preghiera del Venerdì santo dell’antica invocazione pro perfidis Judaeis operata sin dai suoi primi mesi da papa da Giovanni XXIII;25 il suo cordiale saluto a un gruppo di ebrei statunitensi dell’United Jewish Appeal, il 17 ottobre 1960, con il simbolico richiamo biblico “Io sono Giuseppe, vostro fratello” (Gen 45,4b); il viaggio di Paolo VI in Terrasanta (pur se non ancora in Israele, dato che il riconoscimento vaticano dello Stato israeliano è ancora, all’epoca, di là da venire), a gennaio del ’64, con soste a Gerusalemme e Betlemme; le sue stesse considerazioni contenute nell’enciclica Ecclesiam suam (1964), in cui papa Montini presenta gli ebrei quali “figli, degni del nostro affettuoso rispetto, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento (n. 111)”. 24 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2005. 25 Il 21 marzo 1959, primo Venerdì santo del suo pontificato, Roncalli aveva scelto di abolire la preghiera in questione, decisione che sarà allargata ufficialmente a tutta la Chiesa dalla Congregazione per i riti il 5 luglio successivo. L’invocazione “Oremus et pro perfidis Judaeis”, attestata sin dal VI secolo e rilanciata nel quadro della riforma liturgica post-tridentina, era storicamente recitata senza genuflessione, obbligatoria invece nelle altre otto preghiere solenni del Venerdì santo. Vale la pena di riportarla integralmente qui, in una mia traduzione dal latino: “Preghiamo anche per i perfidi giudei, affinché il nostro Dio e Signore tolga il velo dai loro cuori; affinché anch’essi riconoscano Gesù Cristo, nostro Signore”. Al che il celebrante, senza alcuna interruzione, proseguiva con la seguente preghiera di colletta: “O Dio onnipotente ed eterno, che non respingi neppure la perfidia giudaica dalla tua misericordia: esaudisci le nostre preghiere, che presentiamo per quel popolo accecato; affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati dalle loro tenebre”.

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Poi, arrivò il 28 ottobre 1965...

Un punto di non-ritorno L’autorevolissimo teologo riformato Karl Barth, agli inizi degli anni Sessanta, in visita a Roma al Segretariato per l’unità dei cristiani, ne parlava nei seguenti termini: “Esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico”. In una cornice ai suoi occhi già consolidata, che l’aveva portato a dichiarare, nel pieno della seconda guerra mondiale, che “l’antisemitismo è un peccato contro lo Spirito santo”.26 Così sintetizzano quanto accaduto i rabbini J. Bemporad e M. Shevack: “Ebreo. Cristiano. Sono rimasti, per quasi venti secoli, virtualmente tutta l’era cristiana, separati e antagonisti. Per quasi venti secoli gli ebrei hanno sofferto indicibili orrori, mentre provavano a sopravvivere ai pregiudizi brutali di gente sviata, che professava di essere cristiana con le parole ma non lo era con i fatti”.27 E se il quarto paragrafo di Nostra aetate può essere considerato il punto di non-ritorno su tali rapporti e notevolissimi vanno ritenuti gli effetti di quel documento “a un tempo modesto e profondamente innovatore” (M. De Goedt28), occorre in effetti ammettere che, per stilare un reale bilancio, in questo caso una manciata di decenni sono uno spazio abbastanza ampio ma del tutto limitato, che certo non può bastare a estirpare dalla teologia e dalla mentalità cristiana i consolidati e radicati atteggiamenti antiebraici. D’altra parte, sarebbe ingeneroso negare che – finalmente – un iniziale tratto di cammino sia stato realmente effettuato! È sensato dunque parlarne come una novità epocale, e come un punto di non ritorno.

K. Barth, Kirchliche Dogmatik, II/2, EVZ Verlag, Zurigo 1942, p. 225. J. Bemporad - J. Shevack, Our Age, New City Press, New York 1996. 28 M. De goedt, in La Croix (12/8/1989). 26 27

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Francesco a Gerusalemme Compiendo un balzo nel tempo, mi sembra logico accostare la memoria della Nostra aetate al breve ma illuminante viaggiopellegrinaggio di Francesco, oggi vescovo di Roma, fra Giordania, Palestina e Israele (24-26/5/2014), per la sua rilevanza nella nostra ottica.29 Ammettendo, peraltro, l’impossibilità di ripercorrere a una a una le tappe di un percorso altamente simbolico, che ha innovato rispetto al genere dei pellegrinaggi papali in Terra Santa (Paolo VI 1964, Giovanni Paolo II 2000, Benedetto XVI 2009), registrando un moltiplicarsi inesausto, e per molti versi inedito, di segni, gesti, discorsi lungo lo snodo strategico religione-terra-pace. Dislocandosi dunque in numerose direzioni. Sul versante sempre sottile dell’incontro fra cristiani ed ebrei; su quello, oggi piuttosto fiacco, dell’ecumenismo, rivitalizzato dall’abbraccio tra Francesco e Bartholomeos, patriarca di Costantinopoli, mezzo secolo dopo quello storico quanto inatteso fra Paolo VI e Athenagoras, in occasione del quale si è rimesso in discussione il primato petrino sulla scia dell’Ut unum sint (1995) di Giovanni Paolo II;30 e su quello, tutto da rilanciare dopo la terribile stagione del presunto scontro di civiltà, del dialogo interreligioso. Di tali dialoghi, infatti, credo si possa sostenere sia stato, nell’occasione, ridefinito il paradigma: da quello culturale, o interculturale, che pur nelle sue ambiguità ha furoreggiato nello scorso quindicennio, a uno, caro alla tradizione francescana, a doppio registro. Da una parte, quello della vita di ogni giorno e delle opere costruite insieme (l’esortazione postsinodale del 2013 Evangelii gaudium lo descrive come il dialogo sociale per la pace31); dall’altra, quello dell’esperienza spirituale, della pre29 Cfr., per un’analisi puntuale del viaggio e dei suoi tanti significati, R. Gobbo, “Nessuno strumentalizzi Dio!”, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (Vr) 2015. 30 Per una panoramica globale sul tema ecumenico, rimando al mio Non possiamo non dirci ecumenici. Dalla frattura con Israele al futuro comune delle chiese cristiane, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (Vr) 2014. 31 Per un’analisi articolata del ruolo del dialogo con Israele nell’esortazione apostolica di papa Francesco, si veda: P. R enczes, “’Grandi cose ha fatto il

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ghiera, dell’ascolto di quel silenzio di cui si è detto. Un dialogo in cui, lo si è ripetuto a più riprese nei tanti colloqui intercorsi, le divergenze – che esistono, e che non ha senso fingere di azzerare, si badi! – non dovrebbero spaventarci, ma spingerci a un rendimento di grazie per l’estrema varietà dei modi con cui, nel mondo, si manifesta la generosità di Dio. Così va letto il ribaltamento, operato da papa Bergoglio allo Yad waShem, della classica interrogazione che troviamo spontaneo proporre di fronte al male della Shoà (“Dov’era Dio ad Auschwitz?”32), in quella biblica di “Adamo, dove sei?” (Gen 3,9). Perché chi ha sfigurato quelle inermi crea-ture conducendole all’abisso, colpevoli solo di appartenere – a Israele, a Geova, a un ideale politico –, non fu l’Altissimo, ma sono stati uomini come noi. Troppo facile, lavarsi le mani, illudendosi di liberarsi dai sensi di colpa, processando l’Uno. Troppo comodo strumentalizzarne la santità in nome della violenza che noi perpetriamo, macchiandoci di sangue, di odio, di parole capaci persino di uccidere! Nel suo ministero di inter-cessore, sulla linea che fu del cardinal Martini quando al termine del suo impegno milanese giunse qui a spendersi per la fine del conflitto in atto, Francesco ha sgombrato il campo da ogni fraintendimento: camminando in mezzo, appunto, senza dare patenti di ragione o di torto all’uno o all’altro dei contendenti, in stato di preghiera e contemplazione. E senza fornire alibi a chi cerca di salvarsi l’anima colpevolizzando Dio, semmai quello altrui (!), per quanto accade: perché Dio, la sua terra, l’ha creata tov, buona e bella insieme! Le pietre hanno parlato, in quel fine settimana parso assai più lungo per l’intensità degli impegni affrontati, a chi sappia intenderle. Ha parlato il muro di separazione fra Betlemme e la Città Santa, davanti al quale, improvvisamente, il vescovo di Roma venuto quasi dalla fine del mondo ha chiesto si fermasse la vettura su cui viaggiava: per poi accostarsi alla barriera di Signore per noi, per questo siamo nella gioia’ (Sal 126): Evangelii gaudium e il dialogo ebraico-cristiano”, in A a.Vv., Evangelii gaudium: il testo c’interroga, Gregorian & Biblical Press, Roma 2014, pp. 185-194. 32 Benedetto XVI, Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz, Queriniana, Brescia 2007.

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cemento, ponendovi la mano nei pressi della scritta Free Palestine, e sostando in preghiera per qualche minuto. Fino ad appoggiare la fronte sul muro, per rendere ancor più trasparente la sua volontà di condividere le palpabili angosce del popolo palestinese. Hanno parlato i sassi del campo profughi di Dheisheh, che i piccoli accalcati attorno a quell’ospite illustre sanno a memoria, condannati a sperimentare un’esistenza cattiva sin dai loro primi passi. Ha parlato la tomba del fondatore del sionismo, Theodor Herzl. Ha parlato il Kotel, quello che siamo ingenerosamente abituati a chiamare Muro del Pianto ma che per gli ebrei è semplicemente il Muro occidentale dell’antico tempio gerosolimitano, che per la prima volta nella sua bimillenaria vicenda ha accolto l’abbraccio – inevitabilmente epico, nella sua semplicità – di un rabbino, un imam e un vescovo, icona di un trialogo che d’ora in poi è plausibile non differire solo in chiave escatologica (si noti, luoghi tutti, questi, visti sinotticamente, che rappresentano la presa di coscienza che occorre aggiungerne altri a quelli del classico pellegrinaggio cristiano in Terra Santa). E ha parlato infine, ovviamente, la pietra ribaltata del sepolcro di Gesù di Nazaret, che gli attuali eredi di Pietro e Andrea si sono chinati a baciare: in segno di devozione, certo, ma anche e soprattutto a mo’ di impegno a gestire e superare le divisioni fra i cristiani di cui proprio in quel fazzoletto di terra a suo modo sacro percepiamo più che altrove tutt’intero lo scandalo e la controtestimonianza evangelica. Questi, alcuni dei frammenti di una tre giorni che, ci si augura, durerà nel tempo per le sue auspicabili ripercussioni. Arduo dire se sarà davvero così, nel quadro di una cultura globalizzata che fa della fretta e della smemoratezza i suoi imperativi assoluti. Eppure, stavolta l’abbiamo potuto cogliere appieno, Gerusalemme (non più assunta come capitale di una religione civile che in Occidente ha assunto tratti apertamente islamofobici), nel suo corpo lacerato e sofferente, sta continuando a portare avanti – sulle fragili spalle di uomini ebrei, cristiani, musulmani – una storia della speranza, perché storia della promessa inaugurata dalla Voce che ha chiamato a uscire dalla sua terra Abramo. Non dovremmo dimenticarlo, anche perché, quando ciò si rea28


lizza, anche solo per brevi spiragli di giustizia e di riconciliazione, tutta la storia umana ne subisce il benefico contagio. È lì, in primo luogo, che siamo chiamati a scorgere il luogo teologico in cui i cristiani possono mostrare che per loro ogni altro allude – appunto nella sua costitutiva alterità – a Colui che è totalmente altro e totalmente prossimo a ogni donna e a ogni uomo. A condizione che le tre famiglie che vi risiedono non tolgano la possibilità di volgersi verso l’Uno che è Altro da tutto ciò che noi possiamo concepire o percepire di Lui; e purché esse, pur operando all’interno delle proprie tradizioni, facciano di Gerusalemme la città dei ponti, e non solo dei muri, luogo di passaggio dell’uno verso l’altro.

Il senso di queste pagine Ecco perché, per i motivi che ho riportato, in una forma che ritengo e mi auguro accessibile a un pubblico non di soli specialisti, ho pensato utile cimentarmi in una teologia cristiana d’Israele. Piccola, certo: che dunque non ha la pretesa di pronunciarsi su qualcosa di originale né tantomeno di definitivo al riguardo, ma piuttosto quella di fornire un quadro panoramico dei principali problemi tuttora aperti nelle relazioni fra cristiani ed ebrei. Dopo averci parecchio riflettuto, ne ho scelti sette, una cifra simbolica. Ogni tema, un capitolo; più un’introduzione, questa, e una non-conclusione, e due pezzi che ho recuperato qui, una breve ma efficace intervista che ho rivolto all’amico e maestro Pierre Lenhardt, e una riflessione di Franca Ciccòlo sui tanti passi da fare ancora nel cammino del dialogo postconciliare. Per ogni capitolo, alla fine, ho deciso di inserire un Promemoria per le comunità cristiane, come invito a tradurre nella pratica ecclesiale le questioni di volta in volta affrontate; quindi, una cinquina di titoli di libri ai miei occhi cruciali al riguardo, privilegiando le opere in italiano, per chi, come spero potrà capitare, le volesse approfondire ulteriormente. Perché si dà un’urgenza, come ammette anche il cardinal Kasper, nel tentativo di stabilire sempre migliori relazioni fra ebrei e cristiani, di cui la teologia è oggi chiamata a ren29


der conto.33 Ci sono da raccontare i percorsi fatti, i personaggi che hanno speso l’esistenza in nome del dialogo fra cristiani ed ebrei, e, ovviamente, le tante questioni irrisolte. La mia impressione personale è che la teologia, perlomeno quella italiana, con tutto il rispetto, non lo faccia; o non lo faccia abbastanza... Il titolo complessivo del libro, infine, De Judaeis, si riferisce a quello latino che avrebbe dovuto avere il documento del concilio Vaticano II dedicato appunto a questo argomento, e che – nel corso di un dibattito che ebbe, significativamente, punte di asprezza eccezionali34 – divenne poi, come dicevamo, allargando il campo di visuale, la dichiarazione Nostra aetate, dedicata ai rapporti fra la chiesa cattolica e le religioni altre. Ma senza dimenticare che De Judaeis si chiamava anche il decreto di papa Innocenzo III che nel IV Concilio Lateranense (1215) promulgò un complesso di disposizioni per codificare i rapporti fra cristiani ed ebrei. A partire da allora gli ebrei non poterono essere impiegati in uffici pubblici, assumere pasti e sposarsi con i cristiani; mentre dovettero astenersi dal comparire in pubblico nella Settimana Santa e furono costretti a portare, oltre al tradizionale copricapo a punta, reso obbligatorio, un segno ben visibile – la cosiddetta rotella, un apposito cerchio di stoffa gialla – sull’abito, per renderli distinguibili da ogni altro cittadino (paragrafi 67-70).35

33 W. Kasper, “Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico-cristiani”, in N.J. Hofmann - J. Sievers - M. Mottolese, a cura, cit., p. 7. 34 Cfr. G. Miccoli, “Due nodi: la libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei”, in Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, vol.4, Peeters – Il Mulino, Bologna 2013 (nuova edizione aggiornata), pp. 119-219. 35 Il segno consisteva in pezzo di stoffa gialla a forma di cerchio (chiamato sciamanno) cucito sul vestito per gli uomini, e due strisce blu cucite sullo scialle per le donne.

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