LA SETE DI ISMAELE di Paolo Dall'Oglio

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COMUNITà MONASTICHE IN DIALOGO

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Della stessa collana: Monaci per vivere. La vita monastica nel tempo postmoderno Testi di: Giorgio Bonaccorso, Antonio Montanari Il deserto e la terra. L’esperienza monastica nella chiesa locale Testi di: Patrizia Bagni, Mario Torcivia, Giancarlo Bregantini Servi inutili. Monaci e vescovi alle sorgenti del Vangelo Testi di: Cristina Simonelli, Adalberto Piovano, Paolo Barabino, Luca Daolio, Vincenzo Bonato Abitare i deserti dell’anima. Il dubbio, la notte, il grido di chi cerca Dio Testi di: Andrea Arvalli, Ghislain Lafont, Adalberto Piovano La vita fraterna. Inizio di Risurrezione Testi di: Mario De Maio, Bruno Secondin, Cesare Falletti Giustizia della legge giustizia dell’amore. Chiesa e cambiamento dopo il dolore della pedofilia Testi di: Rosanna Virgili, Luca Fallica, Angelo Casati Paolo Dall’Oglio, La sete di Ismaele. Siria, diario monastico islamo-cristiano

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Paolo Dall’Oglio

LA SETE DI ISMAELE Siria, diario monastico islamo-cristiano

Prefazione di Paolo Rumiz Introduzione di Stefano Femminis

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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2011 Via Cengia 67 − 37029 San Pietro in Cariano (Verona) Tel. 045 7725543 − fax 045 6858595 mail info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-141-6 Stampa Litografia de “Il Segno dei Gabrielli editori”, Novembre 2011 Foto di copertina: l’autore sulla terrazza del monastero di Deir Mar Musa. La foto è un regalo di Cécile Massie.

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A Siria

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Indice

Prefazione di Paolo Rumiz

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Introduzione di Stefano Femminis

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La sete dI Ismaele

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Gennaio 2007 – Le lacrime degli esclusi

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Febbraio 2007 – Saddam: perché quel giorno?

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Marzo 2007 – Il vino dell’amicizia

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Aprile 2007 – Dialogo di Resurrezione

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Maggio 2007 – Maria, Madre della Profezia

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Giugno-luglio 2007 – Amici nel Signore

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Agosto-settembre 2007 – Anche i samurai piangono

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Ottobre 2007 – Il gusto eucaristico del Ramadan

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Ottobre 2007 – Islam e Vangelo, vie per un incontro

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Novembre 2007 – Incontrare Abramo in Nuova Zelanda

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Dicembre 2007 – Un Natale di amicizia

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Gennaio 2008 – Caro Ismaele, buon anno!

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Febbraio 2008 – L’Islam e il Sinodo: un appello

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Marzo 2008 – Anche la mia sulla Lettera dei 138

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Aprile 2008 – Il mio giro d’Italia

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Maggio 2008 – Eclissi di sole

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Giugno-luglio 2008 – Libertà di coscienza

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Agosto-settembre 2008 – Intercessione

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Ottobre 2008 – Sulla via di Damasco

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Novembre 2008 – Voglio tornare

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Dicembre 2008 – Sessant’anni di Israele

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Gennaio 2009 – Speranza 2009

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Febbraio 2009 – Sansone a Gaza

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Marzo 2009 – Negazionismo islamico

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Aprile 2009 – Moschee italiane

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Maggio 2009 – Maledetta Terra Santa

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Giugno-luglio 2009 – W la coscienza!

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Agosto-settembre 2009 – Mar Morto?

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Ottobre 2009 – Amicizia feriale

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Novembre 2009 – Onore ai caduti

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Dicembre 2009 – Il velo islamico in un mondo disincantato

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Gennaio 2010 – Ancora Afghanistan

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Febbraio 2010 – Arabi cristiani

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Marzo 2010 – Islam vichingo e Scandinavia cristiana

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Aprile 2010 – Trieste

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Appendice – Un libro controverso

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Maggio 2010 – Un venerdì d’aprile

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Giugno-luglio 2010 – Incubo

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Giugno-luglio 2010 – Una comunità monastica riflette sul Sinodo

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Agosto-settembre 2010 – Separare religione e politica?

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Ottobre 2010 – Velate trasparenze

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Novembre 2010 – “Vive la République”

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Dicembre 2010 – Sayyidatu n-Najat, la Madonna del Soccorso

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Gennaio 2011 – Santiago Amamoros!

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Febbraio 2011 – Parole in prestito

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Marzo 2011 – Quando la storia accellera

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Aprile 2011 – Tsunami

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Maggio 2011 – La Siria al bivio

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Giugno-luglio 2011 – Primo maggio “partigiano”! Agosto-settembre 2011 – Tre letture dei “Lineamenta” per il Sinodo dei vescovi

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Ottobre 2011 – Undici settembre duemilaudici, dieci anni!

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Novembre 2011 -

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il veto, W il voto

Conclusione – Spiritualmente pellegrini ad Assisi

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Prefazione di Paolo Rumiz

Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima. Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. “Vai a vedere – aveva detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’Islam”. E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del Cristianesimo in quel difficile avamposto. Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico turco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo che addentrandomi nelle terre d’Oriente avrei sentito una pressione sempre più forte nei confronti dei miei correligionari, e invece avevo scoperto che i cristiani se la passavano molto meglio nella repubblica islamica di Siria che nella laica Turchia, affiliata alla Nato, e persino nelle terre ex jugoslave del Kosovo, dove personaggi come Paolo Dall’Oglio avrebbero dovuto vivere sotto scorta armata. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di al9


lontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il Cristianesimo era decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato. Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle torri gemelle, e il discorso del conflitto di civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Una cosa mi aveva profondamente offeso. Proprio coloro che agitavano la bandiera dello scontro con l’Islam non riuscivano – arroccandosi su una visione eurocentrica del Cristianesimo – a studiare e persino immaginare l’esistenza di comunità cristiane antiche nelle terre dell’Est. Già oltre l’Adriatico iniziava una terra incognita (o ignorata) per gran parte delle gerarchie ecclesiali del mio Paese. I rivoltosi di lingua albanese avevano distrutto un centinaio di chiese in Kosovo, ma dal Vaticano erano arrivati segnali debolissimi di reazione. Non c’era nessuna solidarietà reale con i nostri fratelli ortodossi. In Cappadocia, terra oggi turca dove ben prima di Maometto era nato uno dei più gloriosi movimenti monastici dell’universo cristiano, avevo visto con scandalo gite parrocchiali organizzate da agenzie di viaggio religiose, nelle quali il Cristianesimo turco veniva descritto come cosa antica, archeologia, e non come una presenza recente, che era stata vitale fino all’inizio del Novecento. E che dire dei giornali italiani, che parlavano dei palestinesi e dei musulmani di Terra Santa come se fossero la stessa 10


cosa, come se non esistesse una comunità cristiana antichissima di lingua araba a Gerusalemme e dintorni. Così, quando in una sera di temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma era mia ferma convinzione che esse ci fossero. Era facile essere “scaricati”, da quelle parti. Qualche anno dopo ne avrei avuto conferma dalla fretta con cui Roma avrebbe archiviato il caso dello scannamento di un vescovo cattolico e di un prete in Turchia, nelle terre estreme di Trebisonda e Iskenderun. Luoghi dei quali avevo descritto con largo anticipo sui fatti le tensioni anti-cristiane nei miei reportage su Repubblica. Che ne sapevamo noi in Italia del modo in cui bisognava rapportarsi con i seguaci di Maometto? Poco o niente. Tenere un dialogo oggi è difficilissimo. Dall’Oglio lo scrive bene negli articoli pubblicati in questo libro. Il rischio è di addomesticare il confronto solo “per evitare l’aggressione delle frange più violente e fondamentaliste”. Ci sono ecclesiastici che praticano un silenzio diplomatico con l’Islam, altri che suscitano confronti mediatici incendiari e provocatori, e altri ancora che si lasciano andare alla facile retorica del dialogo superficiale. Nessuno di questi atteggiamenti va bene. La strada da prendere – stante l’impraticabilità del proselitismo in terra musulmana – è quella di farsi conoscere e soprattutto riconoscere, attivando l’antica dimestichezza dell’Islam nei confronti di figure come Issa (Gesù, cui per esempio è dedicato un minareto a Damasco) e Maria (che proprio in Siria è spesso invocata dalle donne musulmane quale dispensatrice di fertilità). Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il Cristianesimo aveva anche bisogno di capire come 11


Cristo e i discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo. Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità con maggiore forza e consapevolezza. Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a 12


rischio o nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente. Perché ricordavamo tanto Marco Polo e il suo viaggio verso Oriente e nessuno parlava del fatto che un monaco cristiano cinese – nome Rabban Bar Sauma – era stato spedito dal Gran Khan, in quegli stessi anni, per una complicata ambasceria fino in Vaticano e poi alla corte del re di Francia? Perché avevamo perso la percezione del formidabile big bang che aveva portato il messaggio fino in Hindukush e ancora oltre, sulle sponde del Mar Giallo? Ma l’oblio sulla dimensione latitudinale del Cristianesimo era niente rispetto a quella longitudinale, che ebbi modo di verificare in due successivi viaggi, uno nella Russia artica e uno (breve ma sufficiente) in Etiopia, con un supplemento di indagine verso il Sudan e le sorgenti del Nilo. Non era solo la constatazione che il messaggio era arrivato anche lì, ai margini dell’Africa Nera e nelle terre estreme del Mar Glaciale. Era che i simboli che avevo visto nella penombra profumata di ceri delle chiese ortodosse dal Grande Nord erano identici a quelli trovati nelle chiese affollate di Addis Abeba. Non ci potevo credere. Stesso odore d’incenso, stesse croci che sembravano tagliare l’orizzonte come punti cardinali, stesso mormorio di litanie, stesso San Giorgio che taglia il mantello per il povero e uccide il drago che emerge dal profondo, stesso sguardo incommensurabilmente dolce del Nazareno. Era questo che aveva sfondato, duemila anni prima, dal circolo polare all’equatore. Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiego perché aveva deciso di seguirlo. “Come fai a non fidarti di uno con un viso simile?”, riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna. 13


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Introduzione

Nata nel gennaio 2007 quasi come un esperimento, la rubrica “La sete di Ismaele” sta per compiere cinque anni e gode di ottima salute: esce ogni mese su Popoli, la rivista internazionale dei gesuiti italiani, con la firma di padre Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, in Siria. Perché questo titolo e perché questa rubrica? Il titolo era spiegato efficacemente dallo stesso gesuita nella prima puntata, riproposta all’inizio di questo volume. Per meglio comprendere invece il senso profondo della rubrica, che è poi anche il senso della raccolta che oggi viene pubblicata dagli amici della casa editrice Gabrielli, occorre tornare al 2006, quando venne progettata una vera a propria “rifondazione” editoriale e grafica di Popoli. Si decise allora di poggiarla su tre pilastri, gli stessi che orientano l’annuncio del Vangelo da parte della Compagnia di Gesù: promozione della giustizia e della dignità umana, interazione e vicendevole “fecondazione” tra culture, dialogo ecumenico e interreligioso. Ora, il Medio Oriente – che pure non conosce gli abissi di povertà dell’Africa o l’impermeabilità alla diffusione del Cristianesimo dell’Estremo Oriente – è forse però il luogo del mondo in cui queste tre dimensioni, insieme, danno vita al mix più drammatico e insieme più affascinante. Basti pensare, sul fronte dei diritti umani e degli squilibri socio-economici, alla irrisolta questione palestinese e ai regimi oppressivi ora messi in discussione dalle rivolte popolari. Oppure, dal punto di vista culturale, all’impareggiabile mosaico di tradizioni, storie, identi15


tà sedimentatesi nei secoli e ben evocate da Paolo Rumiz nella Prefazione. Pensiamo, soprattutto, alla centralità – oggettiva e simbolica insieme – di Gerusalemme e di tutto il Medio Oriente nella sfida del dialogo tra le religioni e nella lotta contro ogni fondamentalismo. È stato quasi automatico, allora, chiedere a Paolo Dall’Oglio di fare dono a Popoli della sua collaborazione, sia pensando al luogo in cui si trova a vivere la propria vocazione religiosa, sia conoscendo il personaggio, da decenni coraggioso testimone di un insopprimibile (e spesso incompreso) desiderio di dialogo con il mondo musulmano, un dialogo fatto anzitutto di vita condivisa. E Dall’Oglio ha risposto a Popoli e ai suoi lettori con una generosità e fedeltà tutt’altro che scontate, specie tenendo conto dei suoi numerosi impegni comunitari e internazionali, prendendoci per mano mese dopo mese, pagina dopo pagina, e accompagnandoci sul crinale in cui sempre camminano gli uomini e le donne di dialogo: un crinale stretto e scivoloso, ma da cui si può godere di un panorama sconfinato. Stefano Femminis Direttore di Popoli www.popoli.info

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La sete di Ismaele Paolo Dall’Oglio

Gennaio 2007

Le lacrime degli esclusi La lettura della Sacra Scrittura è spesso costruita sul filone dell’autoidentificazione della Chiesa con il nuovo Israele, con il gruppo della promessa, con il popolo eletto. Per esempio, la Chiesa si riconoscerà in Sara piuttosto che in Agar, vedrà se stessa in Giacobbe piuttosto che in Esaù, nel popolo eletto della Palestina piuttosto che nei popoli della terra di Cana. Così, però, si perde una parte non indifferente del pathos del testo, dove c’è una nostalgia dell’escluso, il dramma morale del non essere eletti, ma schiavi di un altro. Uno dei testi che più drammaticamente rappresentano questo discorso è la vicenda di Abramo e di Ismaele, il figlio che egli aveva avuto con Agar, la serva di Sara (cfr Gn 21,8-21). È il dramma in cui Abramo deve sacrificare il suo primogenito. Secondo i musulmani il Corano sembra dire che il figlio sacrificato, alla lettera «sgozzato», è proprio Ismaele. Intendiamoci, non c’è uno sgozzamento di Ismaele, ma c’è un’obbedienza penosa, sofferta, di Abramo alle gelosie di Sara. Su indicazione di Dio, Abramo scaccia Ismaele e sua madre Agar. Così, quando Dio chiede ad Abramo di offrire il figlio Isacco, in realtà Abramo ha già offerto Ismaele. Ismaele è il primogenito. Se imparassimo a leggere il mistero della Chiesa nell’esclusione e non solo nell’elezione, allora le cose si 17


illuminerebbero con altra luce. Abramo obbedisce alla logica dell’elezione e caccia la sua serva. Ma nella logica evangelica è proprio l’escluso che diventa l’eletto. Allora alcuni simboli cominciano a parlare: Abramo dà pane e acqua a questa donna carica del bambino. Ebbene, se quando Abramo riceve da Melchisedech l’offerta del pane e del vino sappiamo leggere i segni eucaristici, perché quando Abramo dà ad Agar acqua e pane non sappiamo riconoscere i sacramenti della Chiesa? Tra l’altro con questa misteriosa assenza di vino, che ci parla molto chiaramente di Islam. Ancora, Ismaele è buttato sotto un arbusto del deserto: come non pensare alla croce? Agar – questa donna carica del figlio, che porta il peso del figlio – si nasconde dietro il suo velo di sofferenza: si può non pensare a Maria sotto la croce? Ma nessuno dei padri della Chiesa ci ha pensato, perché quella era la «maledetta», la madre dei musulmani. E dunque Ismaele è lì, grida per la sete, mentre Agar piange: sono le prime lacrime della Bibbia. Non aveva pianto Adamo, non aveva pianto Eva, non aveva pianto Caino, queste lacrime materne sono le prime. Le viene mostrata l’acqua, sgorga l’acqua di salvezza. Per i musulmani questo episodio è ricordato ancora oggi durante il pellegrinaggio alla Mecca. Noi cristiani non possiamo non pensare a Gesù crocifisso, che grida: «Ho sete!». Si individua così un’interpretazione di questo episodio dell’Antico Testamento che, pur riconoscendo i segni dell’elezione, tuttavia si fa carico dell’esclusione. Questo non è sempre stato compreso nella storia della Chiesa. Intitolando «La sete di Ismaele» questa rubrica sul dialogo islamo-cristiano, vogliamo riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente alla storia della salvezza.

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