Ileana Montini
LIDIA MENAPACE
DONNA DEL CAMBIAMENTO
Lettere 1968 - 1991 Prefazione di Corradino Mineo
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ISBN 978-88-6099-498-1
Progetto di copertina Gabrielli editori
In copertina Lidia Menapace e Ileana Montini, Cervia 1985.
Stampa Mediagraf spa (Padova), Ottobre 2022
a Cinzia V.
INDICE
PREFAZIONE
Corradino Mineo 11
PREMESSA
Il tempo dei grandi eventi 17
INTRODUZIONE
Lettere di carta 23
SOPRATTUTTO NON ANDARSENE
ALLA SPICCIOLATA 27
Cervia, 20 febbraio 1968 35 Bolzano, 23 febbraio 1968 35
NON CE LA FACCIO PIÙ A RIMANERE NELLA DC 39
Bolzano, 1968 47 Bolzano, 5 luglio 1968 48 15 luglio 1968 49 25 luglio1968 50
NON TI SCRIVO PER PAGARE UN DEBITO
Bolzano, 3 gennaio 1969 52 Bolzano, 24 marzo 1969 58
IN SEGUITO, OGNI TANTO, MOMENTI DI PERPLESSITÀ E DI ISOLAMENTO
Bolzano, novembre 1970
Bolzano, 25 marzo 1971 64 Bolzano, 25 novembre 1971 67 1972 71 Ottobre 1972 73
SPERO CHE DA CAMPIGLIO FARAI UN SALTO A CLES 75 Roma,15 giugno 1973 76 Roma, 1973 77
MI RENDO CONTO CHE SONO PAROLE E MI VIENE UNA GRANDE RABBIA 79 Roma, 20 gennaio 1976 81 Roma, 26 luglio 1976 83 Cles, 5 agosto 1977 89 NEL PARTITO LE COSE NON VANNO TANTO MALE 91 Roma, 20 novembre 1979 96 Roma,14 gennaio 1980 97 Roma, 4 maggio 1985 99 Roma,13 settembre 1985 102
MI MORDO LE MANI A NON ESSERE IN PARLAMENTO QUESTA VOLTA 103 Roma, 13 maggio 1987 108 Roma, 4 giugno 1987 109 Roma, 8 dicembre 1987 110
LA CHIACCHIERE COME ONDE CHE SI RINCORRONO 111
ORA MI VEDO COSÌ RIDICOLA E QUASI PRESA PER MATTA
C’È UNA ELOQUENZA DEL NON POTER DIRE 121 Ottobre 1989 125
SENTO UNA GRANDE SOLLECITUDINE INTORNO A ME 129
Bolzano, 6 luglio, 1990 131
CARISSIME DONNE DEL LABORATORIO 135
Bolzano, 15 ottobre 1990 136 Bolzano,15 ottobre 1990 140 7 gennaio 1991 140
NON SONO IN GRADO DI REGGERE TROPPE COSE IN UNA VOLTA 149
Bolzano, 3 marzo 1991 150 Bolzano, 31 maggio 1991 152 Roma, 2 luglio 1991 154 Roma, 4 ottobre 1991 156 Roma, 24 ottobre 1991 158
HO RILETTO LE LETTERE UNA ALLA VOLTA 161
BIBLIOGRAFIA 163
PROFILI BIOGRAFICI
PREFAZIONE
Corradino Mineo
È la storia di un’amicizia. La prima lettera del 1968, l’ul tima del 1991. Poi, quando la tastiera di un computer e il web hanno sostituito carta, penna e buca delle lettere, Ileana e Lidia hanno proseguito a scambiare idee, a scrive re delle loro preoccupazioni e degli affetti. Fino a quando il Covid non si è presa Lidia. Cosa c’è di più comune – di rete – di un’amicizia? Invece no. Trovo singolare, persino raro, che due amiche siano rimaste tali mentre la terra gli si rivoltava sotto i piedi. Nei mitici ’60 e nei ’70 di piombo, tanti di noi si sono incontrati, si sono scelti e hanno lotta to fianco a fianco. Ma quasi tutti, a un certo punto, hanno smesso di sentirsi, di scriversi e di rispondere. Perché la Storia li aveva separati. Perché non erano più in sintonia. O forse, per una forma di pudore, per non interferire nella vita dell’amica o dell’amico che sapevano ormai diversa. È come se in tanti avessimo preferito lasciare passioni e sen timenti, maturati in momenti eccezionali, ben incorniciati nella memoria. La facoltà occupata, il silenzio febbrile in via Tomacelli a “il manifesto”, il carosello delle donne che chiuse la storia di Lotta Continua, ognuno di questi eventi chiuso in un quadro e appeso alla parete. Né nulla ha cambiato l’essersi ritrovati su Facebook, decenni dopo. Socialità di mercato, per profilarti in una tribù. In fondo, solitudine sublimata.
Perciò comincio da qui. Perché sono rimaste così uni te queste due donne? Forse ha contato la differenza d’e tà. Lidia Brisca Menapace scrive di provare «un forte sen so di responsabilità» a riguardo della più giovane amica. E Ileana Montini la considera la sua musa. La cita, spesso, forse con troppo entusiasmo. Il rimprovero è di Lidia. Li
dia si sente responsabile, Ileana la considera il motore del più grande cambiamento nelle loro vite. Amiche di penna, figlie e madri putative, “morose”, direbbe Lidia, più che sorelle. «Quando vieni a Bolzano?». «Da tempo aspettavo una lettera come quella che hai scritto». «Spero che tu stia meglio e che ti sia un po’ riposata». Si prendono cura l’u na dell’altra. E si perdonano i tradimenti. Quello di Lidia che, dopo averle scritto: «Andarsene, ma dove? Soprattut to non andarsene alla spicciolata», fu la prima, nel 1968, a lasciare la Democrazia Cristiana, «Non ce la faccio più a rimanere nella DC». Quello di Ileana e del libro che pub blica nel ’77, con Dacia Maraini. In quell’occasione Lidia confessa di aver provato «una punta di gelosia». Perché da tempo pensava: «È ora di svezzarla, questa figliola». «Ma poi quando una si autonomizza, la cosa ha anche un risvol to un po’ faticoso, un certo sentimento d’abbandono». E cerca una spiegazione persino antropologica: «Per lei [per Ileana], che si esprime con colori, manifesti, la grafica, il rapporto con la materia non passa, come per la maggior parte delle donne, attraverso la manutenzione di cose, stof fe, lenzuola, tovaglie». Un modo diverso di essere donne. Ma tra loro l’amicizia è più forte.
Un’altra chiave del loro rapporto può cercarsi nelle co muni origini nella Democrazia Cristiana. Anche questa non è una condizione rara in quegli anni. Penso di aver incon trato tra gli operai in lotta della Mirafiori, nelle universi tà occupate, nei collettivi femministi e nelle manifestazioni per la pace, più donne e più uomini che venivano dall’A zione Cattolica o dalle parrocchie, dalla Fuci e da famiglie che nell’urna votavano scudo crociato. E tuttavia la storia di queste due donne è forse diversa. Perché entrambe è come se si fossero iscritte alla Direzione della DC. E si fossero trovate lì quando tutto ha preso a cambiare. Deputate a esercitare una certa libertà di pensiero nel movimento fem minile. Delegate ad afferrare umori che ormai scappavano al Partito-Stato. Ma aduse “al dissenso disciplinato”.
Anche voi, credo, troverete le stimmate di queste origini nelle lettere. Il bisogno che tutto cambi, per poter cambiare noi stessi. E la ricerca del “concreto”, per trasformare l’e resia in verità. Lidia, lasciata la DC, prende a girare come una trottola: cerca un approdo. Ileana, forse, somatizza. E ciò inquieta l’amica. Si fa coinvolgere, ma resiste. Cerca la sua strada ma tiene ben riposte le lettere: memoria comune. Lidia Brisca Menapace sceglie “il manifesto”. Racconta, in una lettera, di aver distribuito già il mensile. Doveva es serle piaciuta la “totalizzazione” delle Tesi, che dall’anali si del New Deal, dalla crisi del socialismo reale, dall’anno degli studenti, facevano derivare l’attualità del comunismo. Poi deve averla incantata l’inafferrabile bellezza del pensie ro di Rossana, affidato allo scorrere fluido di una scrittura in cui tutto sembra al suo posto e nulla si può omettere. Poi c’è il concreto, rappresentato, credo, da giovani che pende vano dalle loro labbra. «Il periodo che vissi nella comune di Roma – scrive Menapace in Canta il merlo sul frumento – fu ricco di incontri, divertimenti e scoperte… e mi ha dato la possibilità di elaborare una scienza della vita quotidiana». È allora che la conobbi. E mi colpì subito: colta, con un pen siero complesso, sempre gentile e diretta. Ma, dentro, fatta d’acciaio. Capace di abbracciare e di amare, ma anche setta ria, con un fondo, ben dissimulato, di intolleranza.
Tra le lettere che Ileana rende pubbliche ne ho trovata una del ’72 in cui Lidia cerca di convincerla a lavorare per “il manifesto”. Sostiene di scriverle «anche a nome di Luigi Pintor e di Rossana». Ricordo bene quel momento. E re sto persuaso che Pintor volesse “aprire” il giornale. Anche a persone che avevano fatto i conti con un partito stori co come la Democrazia Cristiana, a cattolici come Paissan. Ma tenendosi redattori come Francesco De Vito, che veniva dalla storia del partito comunista romano, legato da stima antica per Aldo Natoli e, per questo, considerato “di destra” nel gruppo del “manifesto”. E forse persino quel sessantottino siciliano, nipote di un rivoluzionario ereti
co, trotskista e leninista che si chiamava Mario Mineo. Per quel che capivo, Pintor voleva superare la deriva estremista dei “gruppi”, far fare al quotidiano un salto nel “politico”. Niente affatto, come sembra dalle lettere di Lidia, alimentare la voglia di purezza che una parte di quei giovani ostenta vano, nel nome di Rossana e di Lidia.
In un’altra lettera, del ’77, leggo: «Quello che non posso cacciare via è come una sensazione di fastidio per il rina scente individualismo, competitività che alligna anche nel “manifesto” e che dà luogo a una perdita di identità, a uno scolorirsi di tipo radicale». Un anno prima, quando Pintor si era dimesso da direttore, avevamo lasciato la redazione in parecchi, da Francesco De Vito a Roberta Pintor. Molti per non più rientrare. Un mese prima di quella lettera, durante una tre giorni antagonista che si tenne a Bologna, le Brigate Rosse reclutavano in piazza, alla luce del sole. Una fase sto rica si era chiusa. E quell’individualismo radicale, che Lidia coglie in redazione, non fu, per me, che la conversione op portunista, il tirare a campare, di una parte di quei giovani settari che cinque anni prima invocavano una palingenesi, in nome di una presunta originaria purezza.
Ma Lidia Brisca Menapace fu molto più di quanto non fosse rimasto fissato nei miei ricordi. E sono molto grato a Ileana della memoria che ha trattenuto e ora trasmet te. Innanzitutto, la Lidia femminista, che parla di «eco nomia della riproduzione, domestica, biologica, sociale». E si mette di traverso al femminismo della differenza di genere (Luisa Muraro, la Libreria milanese delle donne, e Ida Dominijanni nella redazione del “manifesto”). Lidia cerca la differenza anche nelle «chiacchiere delle donne, che si rincorrono e si saldano, che avvolgono e coinvol gono». Dietro, scrive, si coglie «un pensiero che non si fa per opposizioni, ma per nessi, che non è sistematico ma è interrogativo». Pensiero che «disfa lo schieramento mili tare delle contrapposizioni». E che ha mantenuto una di versa identità nella storia umana, sia pure identità minore
e oppressa nel patriarcato. Non c’è che fare, ai miei occhi, Lidia dà una bella lezione di filosofia alle filosofe del ge nere che, di riffa o di raffa, finiscono per rimandare a una differenza “naturale”, metastorica.
C’è poi la Menapace che dopo la sconfitta insegue il con creto, il vissuto. E fa compromessi. Si ritrova nell’UDI, già organizzazione femminile del PCI. Mi ha fatto sorridere la richiesta a Ileana di essere meno aulica nella conferenza che deve fare. Perché quello non è il pubblico adatto. Poi, per paradosso, dopo aver contestato la scelta di Magri e Ca stellina di rientrare nel PCI, Lidia Brisca viene eletta in Se nato con Rifondazione Comunista. In un clima «piuttosto regressivo», ammette. Mi chiedo se quel “clima” non fosse alimentato pure da Rifondazione, non avendo voluto avvia re una riflessione sui limiti del PCI. Ma lei doveva provare, per mettersi alla prova.
Per Rifondazione guidò la Commissione d’inchiesta sul Fosforo Bianco e con Rifondazione, lei che era stata staffet ta partigiana, occupò un posto di responsabilità nell’ANPI, contribuendo ad aprire l’organizzazione ai giovani. Mi pia cerebbe sapere cosa penserebbe oggi Lidia Brisca Mena pace delle polemiche in seno all’ANPI sulla guerra russa in Ucraina o sul diritto o dovere di armare chi combatte l’invasore. Nel suo Io, Partigiana scrive: «Il diritto interna zionale riconosce a ogni popolo invaso di difendersi come può, perciò anche con partigiane e partigiani». Vale anche per un popolo invaso che ha ancora uno Stato e quindi un esercito? Scrive anche di aver sempre preferito una «azione non violenta» alla «non violenza». Forse è una critica a una certa retorica pacifista. Non lo so. Certo, in un libretto, Par tigiane, edito da People, Lidia Brisca Menapace racconta del suo papà deportato in un campo di lavoro in Germania. Quando tornò, «magro, stracciato, tanto che per un istante la mamma non lo riconosce», disse: «Qualunque cosa il po polo tedesco abbia fatto, ha pagato abbastanza, le città ger maniche sono tutte in rovina e poi ogni guerra è una guerra
civile e dobbiamo non volerne fare più». Ogni guerra è una guerra civile. Dovremmo riflettere.
Torno al libro di Ileana, perché più di tutto mi ha colpito il pensiero di Lidia sull’eredità che lasciamo, sul rapporto col tempo e il desiderio di resistere alla morte. Menapace non ha avuto figli, ma quello che la inquieta è il vivere dei “movimenti”, cui ha dedicato la vita e nei quali ha cercato il concreto, sempre e soltanto nel presente. Diventando così sterili, incapaci di tramandare memoria. Menapace mette a confronto il mito di Alcesti, che nella tragedia di Euripide accetta la morte per raddoppiare la vita al marito Admeto, e quello di Faust, del patto con Mefistofele per fermare l’at timo, per poter vivere in una eterna bellezza. «Tra i greci –osserva – la vita è comunque un valore, indipendentemente dal suo modo di essere, e sottrarsi ad essa o rinunciarvi ap pare cosa sovrumana! Il moderno è disposto a vendersi l’a nima e l’eternità, per eternare, arrestare, immobilizzare, per togliere dal flusso del tempo un attimo, però non qualsiasi, bensì bello». Mi fermo qua, per non togliervi il piacere della lettura e della scoperta. A me resta il rimpianto di non poter discutere di questo con la mia compagna di avventura Lidia Brisca Menapace.