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Umberto Radice
GIUSTO eppure PECCATORE Ricerca storico-esegetica
LA TESI DI LUTERO Simul iustus et peccator nel quadro della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999 dalla Chiesa Cattolica e dalla Federazione Luterana Mondiale
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© Il Segno dei Gabrielli editori, 2017 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 mail info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-319-9 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, Marzo 2017
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Indice
PREMESSA DELL'AUTORE
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INTRODUZIONE 11 Parte prima DICHIARAZIONE CONGIUNTA SULLA DOTTRINA DELLA GIUSTIFICAZIONE
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Capitolo primo Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Testo definitivo 1997
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Capitolo secondo Fonti per la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione 38 Capitolo terzo Consiglio della Federazione Luterana Mondiale Risoluzione (Ginevra, 16 giugno 1998)
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Capitolo quarto Congregazione per la dottrina della fede; Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani – Risposta (Roma, 25 giugno 1998)
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Capitolo quinto Segretario generale della Federazione Luterana Mondiale, Pastore Ishmael Noko – Conferenza stampa (Ginevra, 11 giugno 1999) 63 Capitolo sesto Presidente Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Edward Idris Card. Cassidy – Conferenza stampa (Ginevra, 11 giugno 1999)
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Capitolo settimo Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa Cattolica
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Capitolo ottavo Allegato alla dichiarazione ufficiale comune
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Capitolo nono Augusta, 31 ottobre 1999
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9.1 Nella Cattedrale cattolica
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9.2 Nella Chiesa luterana di S. Anna
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Parte seconda LA COMPRENSIONE DEL PECCATO ORIGINALE E LA CORROTTA IMMAGINE DI DIO
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Capitolo primo La comprensione del peccato originale
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1.1 Genesi 2,4b-3,24
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1.2 Significato e riferimento di ‘immagine’ e ‘somiglianza’
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Capitolo secondo L’immagine di Dio si manifesta nella parola
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Capitolo terzo L’immagine di Dio corrotta
114
3.1. Gli scritti confessionali luterani (1529-1580)
122
3.2 Il Concilio di Trento (1545-1563)
124
3.3 L'immagine di Dio corrotta secondo la teologia cattolica
127
3.4 L'immagine di Dio corrotta seconda la teologia luterana
135
3.5 Sintesi della controversia cattolico-luterana
145
Capitolo quarto Nell’immagine di Dio regna il potere del peccato
157
4.1 La maledizione della legge
158
4.2 Breve excursus: la legge e la sua funzione
163
4.2.1 Secondo la teologia cattolica
163
4.2.2 Secondo la teologia luterana
167
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4.3. Il potere del peccato
175
176
4.3.1 Il giogo del peccato: Rm 6,12-14
4.3.2 Il combattimento contro il peccato: Gal 5,16; Rm 7,7.10 (Rm 7,14-25)
185
4.3.3. L'umana natura è succube del peccato: Rm 7,14-25
193
4.3.4 Nessuno è senza peccato: Mt 6,12; 1Gv 1,9 (Gv 20,23)
216
Parte terza DALLA CORROTTA IMMAGINE DI DIO AL PROBLEMA DELLA GIUSTIFICAZIONE
235
Capitolo primo Progressi della ricerca in altri documenti cattolico-luterani
237
Capitolo secondo Posizioni ancora contrapposte alla vigilia della firma della Dichiarazione congiunta
246
Capitolo terzo Aspetti diversi di ‘giustificazione’
255
Capitolo quarto La giustizia della fede
263
4.1 Il giusto dalla fede vivrà: Abacuc 2,4
265
4.2 La fede accreditata come giustizia: Genesi 15,6
269
4.3 Essere dichiarato giusto: δικαιοῦσθαι
279
Capitolo quinto Simul iustus et peccator
291
Abbreviazioni bibliche
319
Bibliografia 321
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Premessa dell’autore
Che il Signore non soltanto mi abbia suggerito l’idea di affrontare la complessa e secolare questione del Simul iustus et peccator, ma che mi abbia anche dato, conservato e preservato le necessarie condizioni per tentare di trovarne una possibile soluzione, è già una prima ragione per rendere grazie soprattutto a Lui. Di un ringraziamento particolare sono debitore verso il Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, Mons. Franco Buzzi, che in qualità di Direttore scientifico dell’Accademia di studi luterani in Italia (ASLI) ha preso in esame ed ha revisionato le bozze di stampa dell’intera ricerca, dandone la valutazione riportata nel primo risvolto di copertina. Un sentito ringraziamento desidero esprimere al Consiglio di Chiesa della comunità luterana di Milano ed al suo Presidente, Arch. Andreas Kipar, per aver contribuito al finanziamento della pubblicazione del libro. Sono pure molto grato al Prof. Dr. Gerhard Müller di Erlangen, già vescovo di Braunschweig e, dal 1990 al 1993, vescovo primate della Chiesa Evangelica Luterana Unita di Germania (VELKD), il quale fin dall’inizio ha sempre seguito con particolare interesse ed anche incoraggiato questa mia ricerca. Con lui ringrazio anche gli amici che in Germania ed in Italia con spirito ecumenico hanno sostenuto questo progetto. Un ringraziamento va inoltre all’Università Cattolica di Milano che, attraverso la sua ricchissima biblioteca di istituto, mi ha dato la possibilità di consultare opere lessicografiche ed edizioni critiche di testi necessari alla ricerca. Grato sono anche all’amico esperto di informatica Angelo Giordano, che con molta competenza ha perfezionato l’impaginazione dell’intero e voluminoso testo, mettendolo a punto per le bozze di stampa. 9
Per ultimo, ma non ultimo, il ringraziamento va alla mia amata Ursula che, a causa dell’impegnativo ed annoso mio lavoro, con cristiana pazienza e lungimirante saggezza ha dovuto spesso sopportare la mia mancanza.
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Introduzione
È finalmente giunta l’ora in cui cristiani cattolici romani ed evangelici luterani possono celebrare insieme il 500° anniversario della Riforma, iniziata con l’affissione delle famose 95 tesi di Lutero alla porta della chiesa del castello di Wittenberg, avvenuta, come comunemente si ritiene, il 31 ottobre 1517. Una ragione di questa storica commemorazione, da molti auspicata, sta nel fatto che, sotto l’impulso del movimento ecumenico, in questi ultimi decenni si è diffusamente sviluppato ed è favorevolmente progredito il dibattito su questioni dottrinali tra commissioni miste di teologi cattolici e luterani, sia a livello nazionale che internazionale. I lavori nati da tali discussioni e resi pubblici dalle rispettive commissioni, anche se hanno avuto ed hanno tuttora una notevole importanza sia a livello dottrinale che pratico, non sono tuttavia equiparabili al “consenso su verità fondamentali della giustificazione” così come sono state presentate nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione sottoscritta ad Augusta il 31 ottobre 1999. Questa infatti è stata congiuntamente ed ufficialmente sottoscritta non dai presidenti o dai direttori scientifici dei gruppi ecumenici di lavoro delle due storiche confessioni, bensì dai rappresentanti della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale. Anche se i precedenti lavori hanno comunque contribuito alla ideazione, elaborazione e stesura della precitata Dichiarazione congiunta (tra questi vanno innanzitutto ricordati lo studio statunitense Justification by Faith [Giustificazione per fede] e quello tedesco Lehrverurteilungen – kirchentrennend? [Le condanne dottrinali dividono la chiesa?]), la rilevanza eccezionale della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione viene di nuovo messa in maggiore evidenza dalla città in cui essa fu solennemente firmata: nella dieta imperiale di Augusta infatti vennero dibattute, nell’estate dell’anno 1530, le tesi della Confessio augustana e della Confutatio pontificia le cui discussioni purtroppo non 11
ebbero esito favorevole e definitivo ma inevitabilmente portarono alla definizione ed emanazione di altri scritti confessionali luterani ed ai decreti del Concilio di Trento. Prima che, nel 1997, fosse fissato il testo definitivo della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione ne erano stati scritti e formulati altri due su cui presero posizione sia la Federazione Luterana Mondiale con le chiese nazionali1e regionali, nonché con le altre istituzioni da essa dipendenti, sia il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Fino a giugno 1998 anche l’Istituto Ecumenico di Strasburgo aveva esaminato le valutazioni dei giudizi sulla Dichiarazione congiunta dati da 86 chiese luterane: per circa il 90% essi erano stati sostanzialmente positivi, mentre quasi tutti quelli delle rimanenti chiese suggerivano alla Federazione Luterana Mondiale di non accettarla. Forti perplessità sulla Dichiarazione congiunta sono state espresse anche da numerosi accademici evangelici di facoltà teologiche europee di area tedesca: circa 150 di essi, nel 1998, la respingevano globalmente e poco meno di 250 a settembre 1999, cioè ad un mese dalla sua firma, criticavano aspramente la Dichiarazione ufficiale comune con la cui sottoscrizione i rappresentanti delle due storiche confessioni avrebbero confermato la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Anche la Chiesa Cattolica non aveva fatto mancare le sue critiche e difatti sulle prime due stesure della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione essa si era soltanto limitata al suggerimento di alcune correzioni e miglioramenti del testo (Römische Modi), ma sul testo definitivo del 1997 essa, di comune intesa tra la Congregazione per la dottrina della fede ed il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, il 25 giugno 1998 dava la sua risposta ufficiale: da una parte dichiarava tra l’altro che la Dichiarazione congiunta mostra numerosi punti di convergenza tra la posizione cattolica e quella luterana e che, quindi, è giusto Le chiese luterane di Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia, benché profondamente rinnovate dalla Riforma del XVI secolo, sono chiese che hanno avuto la loro origine nel IX e X secolo con la missione ai popoli nordici e quindi si considerano nella continuità del periodo apostolico. 1
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constatare che c’è “un consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione”; dall’altra parte però precisava che in determinati articoli vi erano più o meno grosse difficoltà per poter affermare un consenso fra le parti sul tema della giustificazione; le più grosse difficoltà si trovano nel paragrafo 4.4 (nn. 28-30) dal titolo L’essere peccatore del giustificato: anzi essa puntualizzava che “per i cattolici la formula ‘zugleich Gerechter und Sünder’ (al tempo stesso giusto e peccatore), così come viene spiegata all’inizio del n. 29, non è accettabile”. Inoltre, poiché “la trasformazione dell’uomo non appare con chiarezza” (n. 22), ciò in qualche modo compromette la cooperazione dell’uomo giustificato con la grazia nel compimento delle sue buone opere. Queste ed altre obiezioni della Chiesa Cattolica, come pure l’opposizione di alcune chiese luterane e di molti accademici evangelici non riuscirono comunque ad impedire la firma della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, ma, prima che questa avvenisse, tali critiche indussero soprattutto la Chiesa Cattolica a cercare una via per cui il raggiunto consenso potesse essere confermato ed i dubbi incontrati potessero essere superati. Furono perciò necessari ulteriori dialoghi tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale i quali, come si è visto, portarono alla redazione di una Dichiarazione ufficiale comune e di un suo Allegato: nel primo documento, con la cui firma del 31 ottobre 1999, fu finalmente confermata nella sua interezza la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, veniva spiegato il raggiunto consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione, l’annullamento delle rispettive condanne riguardanti tale dottrina così presentata e, infine, il comune impegno a continuare e ad approfondire lo studio dei fondamenti biblici della dottrina della giustificazione; il secondo documento spiegava ancora di più il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Sappia ora il lettore di questa introduzione che ciò che ha spinto l’autore alla ricerca storico-esegetica sulla tesi luterana del Simul iustus et peccator è lo stesso impegno a continuare e ad approfondire lo studio dei fondamenti biblici della dottrina della giustificazione, in particolare di quelli che concernono il peccato originale e 13
la ἐπιθυμία o ‘concupiscenza’, il cui concetto viene tuttora spiegato in modo essenzialmente diverso, così che la parte luterana, contrariamente a quella cattolica, la considera un vero e proprio peccato. Infatti, specialmente alla luce di alcuni testi evangelici e paolini che concernono la funzione accusatrice del decalogo ed il potere del peccato (in particolare la controversa esegesi di Rm 7,14-25), viene dimostrato che persino ogni cristiano, nella misura in cui venga anche gratuitamente giustificato dalla fede nell’opera salvifica di Gesù Cristo, è e rimane peccatore, cioè succube del peccato che luterani e cattolici, nell’Allegato, unanimemente affermano essere cupidigia egoistica del vecchio uomo e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio. Diversi passi biblici testimoniano in realtà la forza soggiogatrice del peccato che, ancora prima che si concretizzi in atti di pensiero ed in azioni, cova e trama nella corrotta natura di ognuno che manca di fiducia e di amore nei confronti di Dio. Al posto di tale mancanza in realtà subentrano l’attaccamento al proprio io ed ai suoi esclusivi interessi in contrasto con quelli del suo prossimo, la voglia sfrenata di soddisfare i propri cattivi istinti e gli andazzi mondani, ma anche, paradossalmente, l’ingiustificata paura per la salute del proprio corpo e per il futuro della propria esistenza, a tal punto da provare persino angoscia e terrore per la propria morte. Non si capisce d’altra parte come si possano minimizzare tutte queste gravi carenze e difetti sino al punto di considerarli addirittura peccati veniali: essi sono invece sintomi di una inveterata indifferenza nei confronti di Dio, essi nascondono piuttosto un incallito egoismo, un distorto rapporto quindi con il prossimo e con Dio se non proprio una rottura già da tempo consumata. Il fatto stesso che Dio ogni giorno perdona questi nostri debiti nei confronti di Lui e del prossimo alla condizione che noi stessi li perdoniamo ai nostri debitori ne è la prova; per questa ragione già i primi cristiani, ammaestrati dalla parola del Signore, pregavano il ‘Padre Nostro’ anche tre volte al giorno per confessare direttamente a Dio le loro colpe e averne il perdono: il sacramento della penitenza in realtà venne aggiunto molto più tardi a quello del battesimo (e dell’eucaristia) nella dottrina e nella prassi della chiesa, senza peraltro che, negli scritti neotestamentari, ce ne fosse alcun fondato elemento di prova. 14
Già questi pochi sommari richiami al peccato originale ed alle sue funeste conseguenze fanno sufficientemente immaginare la ragione per cui alla seconda parte di questa ricerca storico-esegetica (La comprensione del peccato originale e la corrotta immagine di Dio) sia stata dedicata la maggior parte delle sue pagine. La terza parte tocca più direttamente il tema del simul iustus et peccator, nel senso che essa innanzitutto mette maggiormente a nudo le inverosimili conseguenze di detta formula così come descritta e spiegata nel corrispondente paragrafo 4.4 (nei nn. 28, 29 e 30) della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione: non si vede infatti come le affermazioni unanimemente condivise da luterani e cattolici nel n. 28 si possano conciliare con le puntualizzazioni proprie della dottrina luterana espresse nel n. 29 e con quelle proprie della dottrina cattolica espresse nel n. 30, dato che l’oggettiva opposizione a Dio, che rimane nel battezzato e con cui si è voluto denominare la concupiscenza, è peccato per gli uni mentre non lo è per gli altri. D’altra parte, anche se luterani e cattolici hanno appunto una concezione non soltanto diversa ma addirittura contrapposta di tale opposizione a Dio o “inclinazione che permane negli esseri umani anche dopo il battesimo” gli stessi però, nell’Allegato alla Dichiarazione ufficiale comune, l’hanno unanimemente chiarita come cupidigia egoistica del vecchio uomo e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio, definendola un vero e proprio peccato: una diretta conferma, questa, di una serie di argomenti e ragionamenti addotti già nella seconda parte della ricerca. Ma la terza ed ultima parte si concentra soprattutto sul tema della giustizia che proviene dalla fede in Gesù Cristo morto e risorto per la redenzione di tutti. Nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, infatti, luterani e cattolici insieme confessano che “il peccatore viene giustificato mediante la fede nell’azione salvifica di Dio in Cristo” (n. 25), ed anche i cattolici “possono condividere l’orientamento dei riformatori che consiste nel fondare la fede sulla realtà oggettiva della promessa di Cristo” oltre che “con il Concilio Vaticano II i cattolici affermano che credere significa abbandonarsi totalmente a Dio che ci libera dalle tenebre del peccato e della morte e ci resuscita alla vita eterna” (n. 36). A 15
questo riguardo, commentando il primo locus classicus della dottrina paolina sulla giustificazione, si è chiarito che la traduzione più corretta di Abacuc 2,4 è: Il giustificato dalla fede (il giusto) avrà la vita. Dedicando poi maggior spazio al secondo locus classicus, Gen 15,6 (Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia) che Paolo ha commentato dall’inizio alla fine del 4° capitolo della Lettera ai Romani oltre che nella Lettera ai Galati, abbiamo utilizzato un circostanziato articolo del noto biblista veterotestamentario luterano Gerhard von Rad: sulla base di numerose citazioni tratte dall’Antico Testamento egli mette in evidenza che la fede di Abramo in JHWH stabilisce il ‘giusto’ rapporto con lui. Anche per l’Apostolo Paolo quindi è la fede che Dio mette in conto di giustizia, che viene accreditata come giustizia a chi gli crede. Nel contesto del commento paolino al cap. 4 della Lettera ai Romani, Lutero, nel suo commento alla stessa lettera ed alla citazione del Salmo 31,1s, conia per la prima volta la formula Simul iustus et peccator (Mirabile è Dio nei suoi santi davanti al quale essi sono nello stesso tempo giusti ed ingiusti). Il fatto poi che a chi ha fede la giustizia venga da Dio accreditata o che i suoi peccati non gli vengano imputati, come Paolo stesso subito dopo soggiunge e in 2Cor 5,19 ripete, viene chiarito dall’uso frequentissimo che lo stesso Paolo fa del verbo δικαιοῦσθαι quando egli parla della giustizia di Dio e della nostra giustificazione; che a questo verbo debba essere dato esclusivamente un senso dichiarativo (non causativo come se esso significasse ‘rendere giusto’ o ‘fare giusto’ così come erratamente tradotto dalla Volgata con ‘iustificare’) viene ampiamente dimostrato in un apposito capitolo della ricerca e con dovizia di citazioni prese sia dall’Antico che dal Nuovo Testamento. Nel caso della giustificazione di cui è oggetto la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione si tratta quindi di un atto forense da parte di Dio che dichiara, proclama giusto o comunque assolve l’empio che gli crede nella persona di Gesù Cristo morto e risorto anche per lui. Se però la giustificazione del peccatore viene interpretata solo in questo modo, quasi fosse un affare giudiziario, non vi può trasparire alcun reale rinnovamento del cristiano e, quindi, appare del tutto giustificato il rifiuto della formula simul iustus et peccator da parte della Chiesa Cattolica. Ma le fonti bibliche supporta16
no e confortano la dottrina luterana sulla giustificazione quando la interpreta essenzialmente come gratuita attribuzione al peccatore, che crede in Gesù Cristo morto e risorto per la sua redenzione, della giustizia dello stesso Cristo, che esclude quindi una propria giustizia davanti a Dio per via della permanente sua cupidigia egoistica che il battesimo non gli ha tolto. Attraverso la fede battesimale il peccatore difatti si immerge ogni giorno nella passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo per risorgere rinnovato in virtù dello Spirito Santo: si tratta di vivere nella fede nel Figlio di Dio, che ci ha amati ed ha dato se stesso per noi, ciò che si vive nella corrotta natura umana (cfr. Gal 2,20). Gesù stesso, attraverso la preghiera quotidiana che ci ha messo in bocca, ci spiega questa verità: ai tre modi imperativi della seconda parte del Padre Nostro, che palesano purtroppo le nostre materiali necessità, i nostri peccati e le insidie diaboliche, egli contrappone i tre modi congiuntivi della prima parte, che invece ci spronano alla glorificazione di Dio, alla venuta del suo regno ed al compimento della sua volontà; la giustificazione del peccatore sta proprio in questa quotidiana tensione che si consuma tra la giustizia di Cristo donata dalla fede e la nostra cupidigia egoistica ereditata dalla natura umana, una tensione che la formula simul iustus et peccator molto chiaramente esprime e che avrà il suo compimento soltanto nell’eternità beata. Umberto Radice Lentate sul Seveso, 31 ottobre 2016
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Capitolo primo
LA COMPRENSIONE DEL PECCATO ORIGINALE
Già dando soltanto un’occhiata al testo della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, o semplicemente leggendo alcuni suoi articoli della prima parte, si apprende più volte che l’essere umano viene presentato dal messaggio biblico come un peccatore, anzi che tutti gli uomini risultano essere peccatori e come tali bisognosi di essere perdonati o giustificati davanti a Dio (n. 10); se l’Antico Testamento ci parla del peccato umano (n. 8), il Nuovo soprattutto ci descrive la giustificazione proprio come perdono dei peccati e liberazione dal potere di dominio esercitato dal peccato e dalla morte (n. 11): anche i credenti infatti subiscono le tentazioni di potenze e di concupiscenze esteriori ed interiori e cadono quindi nel peccato (n. 12). Pertanto all’umanità intera, anche a quella venuta dopo Cristo, possono essere riferiti i primi tre versetti del salmo 14, i quali, secondo la traduzione dei LXX (cfr. nota n. 11), furono poi ripresi alquanto liberamente e così sintetizzati dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani (3,10b.11): οὐκ ἔστιν δίκαιος οὐδὲ εἷς, οὐκ ἔστιν ὁ συνίων, οὐκ ἔστιν ὁ ἐκζητῶν τὸν θεόν (non esiste un giusto, neppure uno, non esiste uno che sia sapiente, né uno che cerchi Dio). Ora noi non sapremmo per quale ragione questa potenza che domina l’uomo, schiavizzandolo e rendendogli impossibile di fare il bene, e che Paolo talvolta chiama peccato si sia impossessata dell’essere umano, se le Sacre Scritture non ce l’avessero rivelato. Come potremmo difatti farci una ragione di questa nostra miserevole condizione umana e soprattutto della sciagura della nostra morte se non la trovassimo chiarita e motivata nell’Antico e nel 97
Nuovo Testamento? La chiave di volta e non soltanto la chiave di lettura che ci farà comprendere ed interpretare il problema del peccato, quindi della colpa, e conseguentemente quello della corruzione e della morte, sta dunque nella Bibbia; in particolare sta nella seconda narrazione della creazione, cioè nel secondo e terzo capitolo del libro della Genesi (esattamente da 2,4b a 3,24)1. Ne diamo innanzitutto qui sotto il testo integrale tratto da La Bibbia di Gerusalemme2 e, in seguito, ne commenteremo soltanto quei punti salienti che attengono alla nostra ricerca, secondo l’interpretazione dei manuali di teologia dogmatica e, ovviamente, citando le fonti dottrinali della Chiesa Luterana e della Chiesa Cattolica. 1.1. Genesi 2,4b-3,24 2. 4b Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5 nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fallo piovere sulla terra e 1 La prima narrazione della creazione è messa in evidenza all’inizio della Genesi, più esattamente da 1,1 a 2,4a. Dio infatti creò l’universo dal nulla e popolò il cielo, il mare e la terra di esseri viventi, dicendo che tutto il creato era buono; fece poi anche l’uomo a sua immagine (1,26a; 1,27a), facendoli maschio e femmina somiglianti tra loro (1,26b; l,27b), affinché si moltiplicassero ed esercitassero il loro potere su tutta la creazione, e dicendo al sesto giorno che ciò che aveva fatto era molto buono. Tuttavia, secondo molti studiosi cattolici e protestanti che per la redazione di questo primo racconto suppongono una pluralità di fonti (documenti scritti e tradizioni orali), questo prologo o cosiddetto esamerone posto all’inizio della Genesi sarebbe stato però redatto molto più tardi della seconda narrazione della creazione: esso, come altri racconti del Pentateuco, apparterrebbe in realtà ad una tradizione posteriore, cioè alla cosiddetta tradizione sacerdotale contraddistinta dalla lettera P (P = Priestercodex). Questa tradizione sacerdotale, che racconta con uno stile piuttosto secco e convenzionale e che predilige le genealogie e le cronologie, avrebbe avuto la sua definitiva redazione soltanto all’epoca dell’esilio babilonese. (Per ulteriori dettagli si veda Il messaggio della salvezza, II, Editrice LDC Torino-Leumann 1965, pp. 5-25). 2 La versione italiana, curata dalla Conferenza Episcopale Italiana, corrisponde alla 12a edizione del 1993 ed è accompagnata da introduzioni, commenti, titoli esplicativi e note di esegeti cattolici francesi che hanno pubblicato la rinomata Bible de Jérusalem (BJ).
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nessuno lavorava il suolo 6 e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo3 –; 7 allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. 8 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9 Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. 10 Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. 11 Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro 12 e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. 13 Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tuffo il paese d’Etiopia. 14 lI terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate. 15 Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. 16 Il Signore Dio diede questo comando all’uomo:4 “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, 17ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. 18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. 19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20 Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. 21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole5 e rinchiuse la Seguendo i LXX, la Zwingli-Bibel meglio traduce il v. 6: “ein Wasserschwall aber brach hervor aus der Erde und tränkte alles Land” (ma una fonte sgorgò dal suolo ed irrigò tutta la terra). 4 Qui, come nel seguito del racconto, il testo dei LXX traduce τῷ Αδαμ (all’Adamo). 5 La parola ‘costola’ è stata tradotta letteralmente dalla Volgata (tulit unam de costis eius), mentre più vicina al vocabolo ebraico è la versione dei LXX con ‘fianco’, ‘lato del corpo’ (πλευρά). 3
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carne al suo posto. 22 lI Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. 23 Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa6. La si chiamerà donna perché all’uomo è stata tolta.”7 24 Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. 25 Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. 3. 1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. 2 Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. 4 Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. 8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?”. 10 Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. 11 Riprese: “Chi ti ha fallo sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. 12 Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. 13 Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”. 14 Allora il Signore Dio disse al serpente: Nei LXX, come nel testo ebraico e nella Volgata, le parti sono invertite: “questo ora è osso delle mie ossa e carne della mia carne”. 7 Simili tra loro sono i primogenitori dell’umanità anche formalmente, dato che nel testo originale ebraico l’uomo אּשׁviene denominato ‘ish’ e la donna ‘אּשׁהishshah’. 6
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“Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tulle le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 15 lo porrò inimicizia fra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe; questa8 ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. 16 Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. 17 All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. 18 Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. 19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”. 20 L’uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.9. 21 lI Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì. 22 Il Signore Dio disse allora: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. 23 lI Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. 24 Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita.
Leggendo questo testo della tradizione cosiddetta jahvista (J), più antica di quella sacerdotale (P), si prova un certo stupore, si resta cioè imprevedibilmente meravigliati dalla forma semplice e popolare del racconto riguardante soprattutto il peccato dei nostri primogenitori. Tuttavia il modo in cui l’autore ispirato ha voluto descrivere il fatto che ha determinato il tremendo destino dell’umanità non deve indurre nell’errore di limitare o sminuire la profondità della sua dottrina teologica e della sua storicità nel senso che questo fatto è realmente avvenuto. 8
Traduzione dalla Volgata (ipsa); i LXX però dal testo originale ebraico
הוּאcorrettamente traducono αὐτός (egli). 9 Il nome Eva, in ebraico ( חוּהHawwah), è spiegato con la radice del verbo ‘vivere’ e significa ‘vivente’.
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Per meglio comprendere e valutare la gravità dell’azione peccaminosa dei primogenitori dell’umanità, nonché soprattutto i funesti effetti da essi causati, è per prima cosa opportuno far notare una circostanza rilevante: l’intero secondo racconto della creazione risulta diviso in due parti, ognuna delle quali ha, anche dal punto di vista dottrinale, un proprio significato. Infatti i versetti iniziali (2,4b-7) e finali (3,22-24) del racconto appaiono chiaramente distinti da tutta la sua parte centrale (2,8-3,21): in quest’ultima difatti la vicenda di Adamo ed Eva si svolge in uno scenario paradisiaco, cioè in un contesto ben diverso e per così dire contrapposto sia a quello iniziale, nel quale l’uomo era stato plasmato con la polvere della terra, sia a quello finale, in cui all’uomo fu preannunciato, con la morte, il suo ritorno alla stessa terra. Una seconda osservazione deve essere fatta a riguardo delle due parole ‘immagine’ (εἰκών) e ‘somiglianza’ (ὁμοίωσις) riferite alla creatura umana. Il primo vocabolo compare in tutta la Genesi complessivamente quattro volte: due volte nel primo racconto della creazione (1,26a; l,27a), una volta nella genealogia di Adamo (5,1) ed una volta nel racconto di Noè (9,6). In tutti questi casi, riconducibili alla tradizione sacerdotale, la ‘immagine’ di Dio (εἰκὼν θεοῦ) è sempre riferita all’uomo in quanto creatura umana (ἄνθρωπος), non al maschio contrapposto alla femmina.10 Nel secondo capitolo della Genesi, attribuito alla più antica tradizione jahvista, non compare mai il vocabolo ‘immagine’ ma viene invece ripresa la parola ‘somiglianza’ (ὁμοίωσις) del primo capitolo nel quale è implicito il riferimento all’uomo ed alla donna che devono essere padroni (ἀρχέτωσαν al plurale!) di tutti gli animali della terra, del mare e del cielo (1 ,26b) e nel quale è addirittura esplicita la distinzione del maschio dalla femmina (1 ,27b). 10 Nel N.T. ‘immagine’ (εἰκών), intesa in senso metaforico, compare sette volte: due volte è riferita all’uomo in quanto creatura di Dio (1Cor 11, 7; Col 3,10); cinque volte si riferisce a Cristo (Rm 8,29; 1Cor 15, 49b; 2Cor 3, 18; 4,4; Col 1,15). Per il resto essa è sempre usata in senso letterale proprio cioè nel senso usualmente inteso come forma esteriore di oggetti corporei rappresentanti qualcuno o qualcosa (p. es. in Mt 22,20p l’immagine di Cesare Augusto sulla moneta).
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1.2 Significato e riferimento di ‘immagine’ e di ‘somiglianza’ Dunque nel secondo capitolo, se da una parte manca il riferimento alla ‘immagine’ di Dio, riacquista il suo pieno significato il vocabolo ‘somiglianza’: infatti è proprio in questo capitolo che Dio, dopo aver creato l’uomo con la polvere della terra (2,7), dopo averlo collocato nel paradiso (2,8) e dopo aver detto che “non è buona cosa che l’uomo sia solo” (2,18), pensò ad un aiuto adeguato e conforme alla sua natura (κατ’αὐτόν); Dio però non trovò un aiuto ‘simile’ (ὅμοιος) ad Adamo né nelle bestie selvatiche, né negli uccelli del cielo (2,19s), bensì in una donna che lui stesso formò con un fianco del corpo di Adamo (2,21-23). Da tutto il contesto viene quindi chiaramente espresso il concetto che la donna, non essendo stata plasmata con altra terra ma tratta dall’uomo, è ‘simile’ a lui, è della sua stessa natura e pertanto è destinata a completarlo fisicamente, psichicamente e spiritualmente nel matrimonio (2,24). Che il vocabolo ‘immagine’, riferito all’essere umano nei confronti di Dio, e che il vocabolo ‘somiglianza’, riferito esclusivamente all’uomo ed alla donna, debbano essere anche concettualmente distinti non è soltanto per una questione di natura semantica: in realtà la determinazione del rapporto di queste due espressioni bibliche con il significato a loro attribuito ha anche avuto una lunga e controversa storia nella teologia cattolica e protestante, specialmente a livello dogmatico. La ragione di tali controversie teologiche sta nel fatto che il testo ebraico di Gen 1,26 esprime il concetto di similitudine o di similarità tra il Creatore e le prime due creature umane mediante due termini diversi ma simili; pertanto anche il rapporto di similitudine tra Dio e l’essere umano è stato generalmente inteso in duplice modo e, conseguentemente, dai LXX è stato tradotto in greco anche con due espressioni diverse ma simili, cioè con ‘immagine’ (εἰκών) e con ‘somiglianza’ (ὁμοίωσις): Ποιήσωμεν ἄνθρωπον κατ’εἰκόνα ἡμετέραν καὶ καθ’ὁμοίωσιν (Facciamo un uomo secondo la nostra immagine e secondo somiglianza)11. 11 “La nostra ricerca esegetica, nelle citazioni, allusioni e parafrasi che concernono l’A.T., utilizzerà la traduzione greca dei LXX invece del testo originale ebraico (La Deutsche Bibelgesellschaft di Stoccarda nel 1997 pubblicò
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Tuttavia, dall’esegesi di Gen 1,26.27 del testo dei LXX si evince (come abbiamo già accennato sopra) che, se il significato da attribuire al termine ‘immagine’ deve essere rapportato ovviamente all’essere umano (uomo o donna) in quanto creatura umana (ἄνθρωπος), il significato da attribuire al termine ‘somiglianza’, deve essere esclusivamente riferito all’uomo ed alla donna in quanto creature di Dio di genere diverso, cioè al maschio ed alla femmina; infatti quest’ultimo riferimento, ancora implicito in Gen 1,26b: καὶ ἀρχέτωσαν (e siano padroni), viene reso chiaramente esplicito in Gen 1,27b: ἄρσεν καὶ θῆλυ ἐποίησεν αὐτούς (maschio Biblia Hebraica Stuttgartensia che riproduce il testo masoretico del Codice di Leningrado, il più antico manoscritto completo della bibbia ebraica). La ragione principale di tale preferenza sta nel fatto che la traduzione dei LXX è un’opera altrettanto ebraica, fatta appunto da 70 (più precisamente 72) studiosi ebrei di Alessandria verso la metà del III sec. prima di Cristo. Essa era tenuta in così grande considerazione che persino il filosofo alessandrino Filone e lo storico Giuseppe Flavio, ambedue ebrei, ne facevano uso esclusivo o quasi. Un’altra ragione altrettanto decisiva è che i libri del Nuovo Testamento, scritti originariamente in lingua greca, riportano le citazioni dell’A.T. quasi sempre letteralmente secondo i LXX. Una terza ragione importante è che la traduzione dei LXX è sempre stata apprezzata ed utilizzata dai teologi di oriente ed occidente e da tutta la cristianità cosi che la Chiesa Cattolica, nella Costituzione Dogmatica ‘Dei Verbum’ (22) del Concilio Vaticano II “accolse come sua l’antichissima traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei LXX”. Appena però la chiesa delle origini ebbe adottato la traduzione dei LXX, sorsero nel II secolo dopo Cristo le prime diatribe del giudaismo contro il cristianesimo e con esse altre traduzioni in greco dell’A.T., per es. quelle di Aquila, Simmaco e Teodozione. Verso la metà del III sec. Origene, l’erudito teologo di Alessandria, con la sua colossale opera dell’Hexapla, apportò le opportune e necessarie correzioni al testo dei LXX sulla base del testo originale ebraico, traslitterandolo in lingua greca ed utilizzando anche le summenzionate tre traduzioni. Sulla storia e sull’uso della traduzione dei LXX e delle sue recensioni si veda l’introduzione alla edizione critica del Prof. Dr. D. Alfred Ralfs, pubblicata dalla Deutsche Bibelgesellschaft Stuttgart 1935, 1979. Alla edizione critica di Samuel Bagster and Sons Limited, London, The Septuagint Version of the Old Testament, la cosiddetta Bibbia ebraica che contiene soltanto i 39 libri protocanonici (quelli scritti originariamente in ebraico) abbiamo preferito la summenzionata edizione di A. Ralfs, la cosiddetta Bibbia greca, che contiene anche i 7 libri deuterocanonici che le Chiese della Riforma chiamano apocrifi (Siracide, Baruc, Tobia, Giuditta, Sapienza, 1° e 2° Maccabei, nonché alcune parti di Ester e di Daniele).
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e femmina li fece). Visualizzando in modo semplice i vocaboli ‘immagine’ e ‘somiglianza’ di Gen 1,26.27 e le rispettive traduzioni dei LXX, possiamo notare ancora meglio, mediante un duplice parallelismo, i rispettivi riferimenti. 1,26a: facciamo un uomo κατ’εἰκόνα ἡμετέραν (secondo la nostra immagine) immagine 1,27a κατ’εἰκόνα θεοῦ (secondo l’immagine di Dio) lo fece 1,26b καὶ καθ’ὁμοίωσιν (e secondo somiglianza) e siano padroni somiglianza 1,27b ἄρσεν καὶ θῆλυ (maschio e femmina) li fece
A conferma della suddetta interpretazione troviamo riferimenti al vocabolo ‘immagine’ anche altrove nell’A.T., per es. nel libro del Siracide 17,3b: e secondo la sua immagine li fece (καὶ κατ’ εἰκόνα αὐτοῦ ἐποίησεν αὐτούς) ed anche nel libro della Sapienza 2,23b: e ad immagine della propria natura lo fece (κατ’ εἰκὸνα τῆς ἰδὶας αἰδιότητος ἐποίησεν αὐτόν). Come è già stato accennato nella nota 10, anche il N.T. riprende il concetto di similitudine tra Dio creatore e la sua creatura (uomo o donna che sia) in quanto essere umano (ἄνθρωπος). L’apostolo Paolo, in 1Cor 11,7, definisce l’uomo sposato (ἀνήρ) immagine e gloria di Dio (εἰκὼν καὶ δόξα θεοῦ). L’autore della lettera ai Colossesi, premettendo che la vera immagine di Dio è Cristo (1,15), esorta i destinatari della lettera (3,10) a vivere cristianamente, avendo essi svestito l’uomo vecchio e rivestito il nuovo, rinnovato per la piena conoscenza secondo l’immagine di colui che lo ha creato (κατ’ εἰκόνα τοῦ κτίσαντος αὐτόν). L’unico caso in cui nel N.T. compare il vocabolo ‘somiglianza’ (ὁμοίωσις) è nella lettera di Giacomo (3,9). L’autore, esortando con molti esempi i cristiani a tenere a freno la lingua, afferma che con essa noi da una parte benediciamo il Signore e dall’altra malediciamo gli uomini generati a somiglianza di Dio (τοὺς ἀνθρώπους καθ’ ὁμοίωσιν θεοῦ γεγονότας). Ovviamente Giacomo si rivol105
geva non solo agli uomini ma anche alle donne, ricordando a tutti loro che uomini e donne sono generati (quindi non creati!) secondo la somiglianza che Dio (gen. sogg.), nella sua infinita sapienza, aveva prestabilito per la loro natura. Benché questa breve analisi esegetica di Gen 1,26.27 possa aver sufficientemente chiarito il rapporto dei vocaboli ‘immagine’ e ‘somiglianza’ con il significato da attribuire loro in modo adeguato (anche perché suffragata dal NT rispettivamente in 1Cor 11,7; Col 3,10 e Gc 3,9), la comprensione dei due termini non è stata sempre univoca da parte dei teologi delle diverse confessioni cristiane. Già nella chiesa antica e specialmente con la filosofia scolastica, nella ‘immagine’ di Dio venivano identificate per lo più le facoltà naturali proprie ed esclusive della creatura umana, cioè l’intelletto, la volontà e soprattutto la proprietà di quest’ultima di essere libera; invece nella ‘somiglianza’ della creatura umana a Dio si vedeva per lo più la relazione con Dio della persona in quanto sostanza razionale, cioè la corrispondenza della creatura umana alla conoscenza ed all’amore del suo Creatore. Già nella chiesa antica, come si diceva, non c’era sempre unanimità nella comprensione dei due termini. Alcuni, facendo distinzione tra ‘immagine’ e ‘somiglianza’, attribuivano alla prima il significato di natura (nel senso che la divinità del Creatore si rispecchiava in qualche modo nelle facoltà naturali della creatura), ed alla seconda quello di ‘grazia’; così per es. il monaco ed esegeta Anastasio Sinaita del VII sec. (Exaem., 1,VI.), Altri invece, ritenendo ‘immagine’ e ‘somiglianza’ due denominazioni diverse dello stesso contenuto, quindi interscambiabili, davano ad ambedue i termini il significato di ‘grazia’; così per es. Ireneo (Adv. Haeres. 1. III, c.18, n.l), Ambrogio (Exaem., 1, VI, c.7). In ogni caso, tuttavia, anche a prescindere dalla diversa attribuzione di significato agli stessi due termini, tutti concordavano in un fatto, cioè che i nostri primogenitori in qualche modo rispecchiavano la santità e la giustizia di Dio. Di questo peculiare stato di ‘sanctitas et iustitia’ parla il Concilio di Trento nel decreto sul peccato originale, mentre l’Apologia della Confessio Augustana e la Solida Declaratio della Formula di Concordia ne parlano come di ‘giustizia originale’. Diffusamente ne tratteremo nella sezione ‘L’immagine di Dio corrotta’. 106
I teologi della Riforma comunque non fecero propria la distinzione sostanziale tra ‘immagine’ e ‘somiglianza’, poiché ritenevano che la duplice espressione del testo ebraico di Gen 1,26 non costituisse nessuna differenza di contenuto, la ritenevano piuttosto una endiadi, cioè una forma retorica per cui il concetto di similitudine veniva espresso con due termini coordinati. I riformatori in generale ritenevano la similarità della creatura al Creatore in modo strettamente relazionale, cioè come rapporto, vincolo o corrispondenza di conoscenza e di amore che doveva intercorrere tra creatura e Creatore. Essi vedevano tale corrispondenza perfettamente espressa nello stato di ‘giustizia originale’ che, in concreto, equivaleva ai doni della conoscenza di Dio, del timore di Dio e della fiducia in Dio. La comune riflessione teologica riteneva, come ritiene tuttora, suffragato tale stato di santità e di giustizia dallo stesso racconto biblico: infatti i nostri primogenitori godevano, nel paradiso, di una certa amicizia e familiarità con Dio (Gen 2,15-24), la quale dopo il loro peccato, purtroppo, si tramutò in uno stato di ostilità che alla fine sfociò nella loro estromissione dal paradiso stesso. Tuttavia, la conferma vera e propria che Adamo ed Eva godevano di questa ‘giustizia originale’ è messa più o meno in evidenza soltanto nel Nuovo Testamento: infatti la rivelazione neotestamentaria, annunciando attraverso la missione salvifica di Cristo la redenzione dell’umanità, ha proclamato la sua riappropriazione, in Cristo, della primigenia immagine di Dio, la rigenerazione del genere umano nella primordiale giustizia e santità o giustizia originale. Tra i riferimenti più o meno espliciti a questo riguardo si possono annoverare Gv 1,12: 3,5; Rm 3,24; 5,10; 6,4; 2Cor 5,18; Col 1,14; 3,10; 1Gv 3,1. Il riferimento più chiaro e decisivo sta nella lettera agli Efesini 4,24: e rivestitevi l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e vera santità (καὶ ἐνδύσασθαι τὸν καινὸν ἄνθρωπον τὸν κατὰ θεὸν κτισθέντα ἐν δικαιωσύνῃ καὶ ὁσιότητι τῆς ἀληθείας). Si sa inoltre che le differenze sia di interpretazione dei due termini biblici, sia di attribuzione dei rispettivi significati ai nostri primogenitori, nella storia del cristianesimo diedero origine a controversie teologiche anche di grande peso dottrinale. Tuttavia tali controversie sorsero non tanto per ragioni di carattere teoretico o come 107
frutto di mere riflessioni accademiche, quanto invece per la ragione che Adamo ed Eva, commettendo il peccato che causò la loro rovina nonché quella dell’intera umanità, difatti persero qualcosa della loro originaria ‘imago Dei’. Che cosa persero dunque Adamo ed Eva, peccando, di quella originaria giustizia e santità di cui godevano nel paradiso, e che cosa ne rimase quando ne furono scacciati? Innanzitutto però, in che cosa consistette quel peccato per compromettere la stabilità di quell’immagine divina? Infine, perché l’intera umanità ne dovette ereditare le tragiche conseguenze? Queste domande nacquero già nella chiesa antica nella quale grandi pensatori, a cominciare da Agostino, ed importanti sinodi come quello di Cartagine (418) e di Orange (529) fecero significative dichiarazioni sul peccato originale, sul battesimo e sulla grazia, anche perché alcune minacciose eresie del tempo imponevano chiarezza e stabilità dottrinale. Nel Medioevo poi emersero soprattutto le figure di Pier Lombardo, di Tommaso d’Aquino e di Duns Scotus che, nell’ambito della filosofia scolastica, approfondirono così tanto la riflessione teologica a questo riguardo da lasciare fondamentali impostazioni ed orientamenti anche per le generazioni successive. Una posizione centrale nella questione del peccato originale, della originaria giustizia e santità dei nostri primogenitori e quindi in quella della loro ‘imago Dei’ è notoriamente occupata dalla teologia della Riforma e della Controriforma in concomitanza con le controversie sul grosso problema della giustificazione. Ma, mentre la dottrina cattolica, vedendo l’essenza stessa dell’immagine di Dio soprattutto nella libera volontà, sosteneva che questa sarebbe stata soltanto affievolita od indebolita dal peccato originale, i teologi della Riforma, che intendevano l’immagine di Dio piuttosto come conformità o corrispondenza della volontà umana a quella di Dio, affermavano invece che con il peccato originale tale conformità sarebbe andata perduta e che pertanto la sola volontà umana non sarebbe stata più capace di amare Dio, di temerlo e di avere fiducia in lui. Qui emersero da un lato le figure di Lutero e di Melantone che in grandissima parte contribuirono alla stesura degli scritti dottrinali luterani e, dall’altro, il Concilio di Trento con i suoi decreti riguardanti innanzitutto il peccato originale e la giustificazione. Nel complesso fenomeno del pietismo protestante del XVII e XVIII secolo, le cui figure centrali furono quelle del teologo 108
luterano Philipp Jacob Spener e del teologo riformato Theodor Undereyk, la questione dell’immagine di Dio compromessa dal peccato originale rivestì pure una grande importanza, nel senso che, nell’ambito del problema della giustificazione, ai cristiani di quel tempo veniva inculcata la necessità della rigenerazione e del rinnovamento, attraverso la vita vissuta, fino al ricupero dell’agognata originaria giustizia e santità ed al conseguimento dell’eternità beata.12
12 Un’analisi storica approfondita del problema della giustificazione e, quindi, delle questioni ad essa connesse (a cominciare da quella del peccato originale), nonchè del pensiero dei grandi teologi in esse coinvolti (da Agostino contro i Pelagiani, attraverso tutto il Medioevo, il secolo della Riforma e della Controriforma, il periodo del pietismo e dell’illuminismo fino ai grandi teologi del XIX e XX secolo) è stata pubblicata dal Prof. Dr. Gerhard Müller in Die Rechtfertigungslehre, Geschichte und Probleme, nella serie Studienbücher, Theologie, Kirche und Dogmengeschichte, Gütersloher Verlagshaus, Gerd Mohn, Gütersloh 1977. Più diffusamente tratta le stesse questioni, sia secondo la teologia luterana che quella cattolica, la recentissima 5a edizione interamente riveduta dell’opera dogmatica di Wilfried Joest-Johannes von Lüpke, Dogmatik II: Der Weg Gottes mit dem Menschen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2012 (pp. 11-166), in cui tra l’altro viene riportata un’ampia bibliografia. Diversamente disposti e trattati appaiono tutti questi argomenti nella 6a edizione recentemente ristampata dell’opera di Werner Elert, Der christliche Glaube, Martin-Luther-Verlag, Erlangen 1988. Tutte le succitate tre opere di area luterana sono comunque i principali trattati di teologia dogmatica, oltre agli scritti confessionali luterani, su cui si basa la nostra ricerca storico-esegetica.
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