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Silvia Marceglia
Portami con te dove l’amore non ha colore né religione
romanzo
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© Il Segno dei Gabrielli editori 2012 Via Cengia, 67 – 37029 S. Pietro in Cariano (Verona) Tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 mail: info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-159-1 Stampa Litografia de “Il Segno dei Gabrielli editori’’ San Pietro in Cariano (VR) Aprile 2012 Progetto di copertina: Lucia Gabrielli
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INDICE
PREAMBOLO.................................................................7 CAPITOLO 1..................................................................9 CAPITOLO 2................................................................ 19 CAPITOLO 3................................................................ 32 CAPITOLO 4................................................................ 46 CAPITOLO 5................................................................ 55 CAPITOLO 6................................................................ 67 CAPITOLO 7................................................................ 82 CAPITOLO 8................................................................ 90 CAPITOLO 9.............................................................. 106 CAPITOLO 10............................................................ 124 CAPITOLO 11............................................................ 144 CAPITOLO 12............................................................ 158
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PREAMBOLO
Aveva suonato in maniera gentile e decisa al tempo stesso. Un suono non troppo lungo e neppure breve, poi la fuggevole visione di mio padre che apriva di slancio la porta del suo studio per precipitarsi sulla soglia di casa: – È Pierre – disse. Il nome inconsueto mi aveva incuriosito, anche se non così tanto da superare in velocità mio fratello, che si era precipitato sulle scale, come faceva spesso quando arrivava un ospite. Però il vederlo rientrare in tutta fretta e infilarsi dietro papà, quello sì che mi era sembrato strano. Fino a quando Pierre non era entrato e mi ero ritrovata sulla porta di casa un gigante colorato di nero in faccia, sulle mani e su ogni pezzetto di pelle che fuoriusciva da un bizzarro abito sgargiante. Anch’io in meno che non si dica ero finita dietro il babbo. E ci rimasi a lungo, fino a quando – i due intanto si erano abbracciati, papà l’aveva fatto accomodare sul divano, gli aveva offerto il suo liquore preferito e si era abbandonato in una di quelle chiacchierate interminabili, incomprensibili che a sprazzo mi regalavano qualche immagine su cui sognare o interrogarmi – trovai il coraggio di scivolargli sulle ginocchia, aggrappandomi al collo. Ci misi parecchio, sapevo che papà non sopportava che lo interrompessi mentre parlava, pure alla fine ci riuscii e sottovoce gli chiesi: – Tuo amico, lui? – Sì – mi sentii rispondere. Incoraggiata dal tono dolce e disponibile feci la do–7–
manda che mi ero tenuta dentro da quando l’ospite era entrato: – Pecché tutto pocco? Vidi le guance di papà farsi rosse mentre cercava una risposta e capii che non dovevo dire quella cosa. Fu Pierre a salvarmi con una fragorosa risata. – Non sono sporco! La mia pelle è solo più scura della tua – mi spiegò, guardandomi con simpatia. – Sono nato in un Paese lontano, dove la gente è fatta così. Siamo un po’ diversi da voi, ma in fondo non troppo – aggiunse, sorridendo allegramente. Era la prima volta che vedevo una persona di colore. Poi, negli anni, ne avrei visti sempre di più: sui banchi di scuola, nei parchi, per le strade. E con loro molti altri, diversi, per la lingua, per i vestiti indossati, per le abitudini e la religione professata. Verona, suo malgrado, si riscopriva ogni giorno diversa. Imparai presto che certe differenze sono più difficili da accettare rispetto ad altre. Che al colore ci si abitua in fretta, mentre se il tuo vicino di casa produce odori strani in cucina, o s’inginocchia cinque volte al giorno per pregare un altro dio, allora sì che la differenza comincia a dare fastidio o a fare paura. Ma, a dire la verità, tutto ciò non mi era mai importato molto. Fino a quando non arrivasti tu.
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CAPITOLO 1
– Non si metterà a interrogare a cinque minuti dalla campanella? – bisbigliò Lisa preoccupata. – Ne sarebbe capace – risposi, studiando il volto severo della Minucci in quel momento intenta a scorrere l’elenco del registro. La prof di storia e filosofia era il sadismo fatto persona ed ero convinta che niente la elettrizzasse di più che colpire un alunno proprio quando e dove meno se lo sarebbe aspettato. – Vediamo: mancano ancora diversi minuti e potremmo approfittarne per sentire... – A dire il vero professoressa, avrei una domanda a proposito dell’ultimo paragrafo – s’inserì prontamente Laudini, il nostro esperto in trucchi e sistemi per evitare un’interrogazione. Era noto a tutti di quella volta in cui, non avendo neppure aperto il libro e fiutando di essere chiamato, avesse simulato un’epistassi e si fosse rintanato in bagno per una buona mezzora senza che la prof sospettasse nulla; quando però, poco tempo dopo, la Minucci aveva rifilato un tre a Bertani e questi aveva sibilato: – Non sono tutti così bravi a farsi venire il sangue dal naso! – le era sorto il dubbio di essere stata presa in giro e da allora guardava Laudini con sospetto. – Cosa? – chiese la Minucci, con l’aria infastidita di chi sta per scacciare una mosca. – Laudini, stavolta non m’incanti. A meno che non voglia essere tu il fortunato. Che dici? Il suono della campanella arrivò a liberarci e un sospiro di sollievo generale aleggiò per la classe. –9–
Finalmente era suonata. L’interminabile ora di storia, la mattinata grigia e uggiosa potevano dirsi concluse e noi liberi di scattare fuori dalla classe. Ovviamente non eravamo impreparati: quelli delle ultime file avevano già pronte le sacche e furono i primi a uscire, e gli altri – io con loro – in pochi attimi infilarono le loro cose e si precipitarono verso la porta. Il pensiero che quando sarei stata fuori la mia amica Chiara mi avrebbe assalito con un turbine di parole sullo shopping del giorno prima mi fece, però, rallentare di qualche passo, giusto il tempo per essere intercettati dal prof di mate: – Greta, proprio te cercavo. Ho bisogno di parlarti. Lo guardai pensierosa, ripensando all’ultima lezione, alle chiacchiere con Gessica e al fatto che le avevo permesso di copiare metà della verifica, ma non mi venne in mente niente di così strano da scuotere Giannini dalla sua abituale aria stralunata. – È per quella mostra, quella di cui avevamo parlato... – Lasciare in sospeso i discorsi era una delle sue abilità, oltre alle spiegazioni astruse sull’astrofisica. – Intende dire quella su Newton? – gli venni incontro, spinta dal desiderio di raggiungere il più in fretta possibile il mio piatto di pasta. – Sì, giusto quella intendevo – proseguì Giannini. – Avevo pensato di farmi aiutare da te e da un altro studente per prepararla: visto il vostro profitto, potete permettervi di perdere un po’ di tempo... – Di chi sta parlando, scusi? – lo interruppi, mettendomi sulla difensiva. Non potevo certo considerarmi un’alunna socievole e l’idea di lavorare in coppia con qualcuno che non conoscevo e che magari avrebbe finito col provarci non mi attirava per niente. Mai e poi mai avrei sospettato il nome che stava per farmi. – Ho pensato a David, di quinta F. – No, voglio dire, sta scherzando, cioè... – 10 –
Giannini non si fece trovare impreparato. – Non mi dire che proprio tu hai qualcosa in contrario a lavorare con questo ragazzo. – E infatti non ho nulla in contrario a organizzare questa mostra con lui, mi stupisco solo che lui accetti di lavorare con me dato che sta sempre per conto suo o al massimo con quel gruppetto di amici... – È tutto da vedere, Greta – tagliò corto Giannini. – E potrai saperlo subito visto che di solito si ferma in biblioteca. Ti consiglio di andarci ora così risparmieremo tempo – disse frettolosamente, aggiungendo poi sornione: – Ah, buona fortuna! Eccolo girare i tacchi e lasciarmi interdetta con l’ingrato compito di abbordare quella specie di divinità, colore dell’ebano, che si era calata sulla nostra scuola l’anno scorso. Nigeriano, nato in Italia, cresciuto a Padova fino all’anno precedente, aveva dovuto trasferirsi a Verona con il padre e le due sorelle per colpa della crisi economica. Così almeno correva voce. Altre chiacchiere – tutte raccolte da Chiara sempre informatissima sui nuovi venuti, specialmente se di bell’aspetto – raccontavano che era uno studente modello, brillante e attento; cosa che, unita al colore della sua pelle e al fatto che fosse musulmano praticante, lo rendeva a taluni ancora più antipatico o persino detestabile. Non gli avevo mai parlato, né mi era capitato di avvicinarlo prima d’allora. In una scuola come il Messedaglia, un prestigioso liceo scientifico di Verona che vantava circa 1500 studenti, non era sempre così facile conoscersi. Soprattutto se non se ne aveva l’interesse. E il mio mondo non andava oltre le due amiche del cuore, Chiara e Lisa, che pur essendo molto più aperte di me non erano riuscite così spesso a coinvolgermi nel loro turbinio di festini, messaggiamenti disperati, appuntamenti su Facebook. Passavo le giornate – 11 –
tra libri, incontri nei nostri locali preferiti, chiacchiere interminabili e sogni sul mio prossimo futuro, quello che mi aspettava dopo l’ultimo anno del liceo, con l’iscrizione all’università. Un altro mondo da scoprire, soprattutto nuovi volti anche maschili, perché no?, “materia prima” detto con le parole di Chiara, e l’avvicinarsi di una vita sempre più mia, o almeno così me la immaginavo. Basta con via Bertoni, basta con quei muri grigi e quelle aule ormai sempre più strette, quelle materie che non rispondevano a troppe domande. Era ora di cambiare aria. Giannini aveva ragione, David era in biblioteca assorto nello studio. – Si nutre normalmente o è un vampiro? – pensai, notando che all’ora di pranzo era già sui libri, ma non feci a tempo a rispondermi che alzò il viso e mi lanciò uno sguardo interrogativo. – Vuoi qualcosa? – evidentemente lo avevo disturbato. – Sì, no, cioè.. Sul bel volto si dipinse un sorriso ironico: – Allora? Mi morsi il labbro, temendo di fare la figura della stupida. Mi avevano riferito che non era niente male, tuttavia non mi aspettavo di trovarmi di fronte un viso simile, esaltato da un taglio cortissimo di capelli: da vicino potevo osservarne i tratti regolari, la fronte ampia e soprattutto quegli occhi profondi, dallo sguardo acuto che sembrava leggermi dentro. – Si tratta di Giannini. Mi ha chiesto di contattarti perché vorrebbe che lo aiutassimo a organizzare la mostra su Newton. – Non se ne parla – disse, rituffando la testa sui libri. “Maleducato” pensai. “È così che mi liquida?” – E al prof che dico? – aggiunsi di malavoglia. – Che non se ne parla – insistette laconico. Ecco, ben servita: a quel punto pensai che la cosa – 12 –
migliore da farsi fosse voltare le spalle senza salutare e riguadagnare il più in fretta possibile la porta, desiderosa di ripagarlo della stessa moneta e sparire prima possibile. – Aspetta! Due passi e mi aveva raggiunta. Così ora potevo anche notare il bel fisico atletico: – Vuoi qualcosa? – domandai ironica. L’ombra di un sorriso gli attraversò il volto e poi, serio, disse: – Scusa, non volevo essere scortese, ma questo mese ho una verifica dietro l’altra e non saprei proprio dove trovare anche il tempo per una mostra. – Come credi – risposi, ancora un po’ contrariata – riferirai tu a Giannini. – D’accordo. Niente di personale, s’intende – aggiunse. Di nuovo quel sorriso sfuggente che mi spinse a inforcare la porta e ad affrettare il passo come se avessi il diavolo alle calcagna. Perché mi ero tanto innervosita? Quando giunsi a casa mi toccò dare spiegazioni per il ritardo, mangiare una pasta fredda nonché togliere il piatto di quello sfaticato di Riccardo, il mio fratello minore. Mamma doveva andare a non so che incontro di beneficenza e papà era ancora al policlinico, tutto occupato con il suo lavoro di medico; come sempre sarei riuscita a malapena a salutarlo la sera malgrado fosse proprio con lui che avrei voluto parlare, condividere alcuni pensieri, raccontare i fatti più importanti della mia giornata: troppo spesso mi mancava il suo colloquiare tranquillo e riflessivo. Invece mi toccava rispondere alle distratte domande di mia madre su come era andata, alle sue esclamazioni addolorate sul mio modo di vestire e sui miei capelli ribelli, senza parlare dello scudo difensivo che ogni sera dovevo alzare contro mio fratello con cui veramente non avevo nulla, ma proprio nulla in comune. – 13 –
A parte frequentare lo stesso liceo, purtroppo, e doverlo scorgere ogni tanto bighellonare per i corridoi con i suoi amici smidollati. – Ecco con chi dovrebbe lavorare David per la mostra... – mi dissi, andando in camera e abbandonandomi sul letto. Mi ero conquistata quel rifugio da qualche anno dopo aver passato mesi a battagliare con i miei, insistendo sul fatto che Riccardo non fosse più un bambino e che non avesse certo bisogno gli tenessi ancora la manina per dormire; dal canto mio avevo l’urgente necessità di possedere almeno qualche metro quadro dove potermi sentire libera anche solo di riflettere con me stessa. “Chissà come mai Chiara non si è fatta viva” mi domandai soprappensiero per poi accorgermi, frugandomi nelle tasche, che il telefonino era ancora spento da quando ero entrata in biblioteca. Infatti, una volta aperto, cominciò a suonare ed era proprio lei. – Ma dove sei finita? – Non ci crederai: mi ha bloccato il prof di mate con una richiesta assurda... – Dai, muoio dalla voglia di dirtelo – m’interruppe. – Marco mi ha parlato della festa di carnevale. Ci saranno tutti, ma proprio tutti. Ora la missione è: trovare un vestito per mascherarsi nel modo più sexy possibile. Oh, che dicevi a proposito di Giannini? – Niente d’importante – mi era già passata la voglia di parlarne. – Piuttosto: dove rimediare qualche vestito a costo zero? – È l’obiettivo della settimana. Oggi pomeriggio riunione urgente allo Skin per discutere l’emergenza vestizione. – Ok, sempre alle 17.30? – Certo! A dopo. Non che morissi dalla voglia di parlare per due ore – 14 –
di vestiti e costumi, ma Chiara e Lisa erano mie amiche dai tempi dell’asilo e non avrei mai dato buca su una questione per loro così importante. Chiara – un viso grazioso incorniciato da una massa di capelli biondi e ricci che sapeva scuotere con grazia – era quella che ci teneva di più: esuberante, caparbia, tentava sempre di parlare con chiunque le capitasse a tiro. Ora, e sottolineo la precarietà dell’avverbio, aveva una cotta per Marco, un ultrà di una delle squadri locali, il Verona, che ovviamente passava intere domeniche ad inseguire la squadra del cuore. E noi pure, anche se molto più spesso a questo supplizio si sottometteva Lisa; bionda anche lei, con i capelli lisci e lunghi, sempre pettinati con cura, era la più docile del trio, la più brava ad assecondare le idee bizzarre di Chiara o anche a smontarle con la sua logica inattaccabile. Non che avessi nulla contro il calcio: tuttavia l’essere spiaccicata tra un tifoso e l’altro non mi aveva mai divertita, anzi, e non capivo come potesse piacere a Chiara visto che l’oggetto delle sue attenzioni in quei momenti non la degnava neanche di uno sguardo. Sia io che Lisa, comunque, avevamo deciso di lasciare che la natura facesse il suo corso: tra qualche mese ci saremmo ritrovate a inseguire una band o a vederci tutta la rassegna sul cinema d’autore, all’inseguimento di un’altra preda. A dirla tutta, ci contavamo. Studiai storia per tre ore di fila, tentai di avvicinarmi al computer per scrivere un post su Facebook ma c’era incollato mio fratello e quindi decisi di uscire. Da via Cigno, dove mio padre e mia madre vent’anni fa avevano deciso di abitare, non erano che pochi passi fino a via Sottoriva. Lì, sotto i portici, tra gli altri locali, era stato aperto da un paio d’anni lo Skin, il ritrovo preferito dei liceali di Verona. Ero in anticipo, così decisi di allungare il passo fino a – 15 –
piazzetta Pescheria, guardarmi qualche vetrina e osservare la mia immagine riflessa, approfittando per controllare che fossi passabile. E fu lì che lo rividi. Intento a scaricare il camion del supermercato, il berretto di lana calcato sulla fronte che subito m’impedì di riconoscerlo; poi, il profilo familiare attirò la mia attenzione e restai lì impalata al centro della piazza ad osservarlo, troppo sorpresa di vederlo al lavoro mentre io mi preparavo a un far west di chiacchiere con le amiche. Immobile come una statua, attirai la sua attenzione: alzò lo sguardo e, dopo avermi fissata in volto, mi squadrò con lentezza da capo a piedi senza nascondere una smorfia. Disprezzo? Potevo intuire cosa stesse pensando a vedermi col mio montgomery blu, le calze e le scarpe in tinta... – Ehi tu, ti paghiamo mica per guardarti attorno eh? – lo apostrofarono. Riabbassò subito il capo e io voltai le spalle, affrettando il passo. – Ti piacciono i neri? – disse una voce alle mie spalle. Era Marco, che mi si affiancò per poi proseguire a camminare al mio fianco. – Stavo solo cercando di capire dove avevo visto quel tizio – mentii. – È quello di quinta F, il cervellone. Giannini ha una cotta per lui – scherzò Marco, credendo di essere spiritoso. – Verrai alla partita domenica? C’è il derby e ci sarà da divertirsi con quelli del Chievo. – No, non penso. Quando le cose si fanno troppo agitate non mi diverto più. E poi non sopporto le folle – risposi, sentendomi sempre più a disagio. – Ci sarò io al tuo fianco – sorrise, lanciandomi uno sguardo furbo. – E Chiara? – lo rimbeccai. – Che c’entra Chiara?– sbuffò lui. – C’entra. È lei l’appassionata di calcio. Io penso – 16 –