Surviving Srebrenica - Sopravvivere al genocidio 11 luglio 1995

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HASAN HASANOVIĆ

SURVIVING SREBRENICA sopravvivere al genocidio 11 luglio 1995

Prefazione di Fatima Neimarlija

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Surviving Srebrenica © Hasan Hasanovic Prima edizione in lingua inglese The Lumphanan Press (2016) © Il Segno dei Gabrielli editori, 2018 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori. it www. gabriellieditori. it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-381-6 Stampa Grafica Veneta (Padova), Dicembre 2018 Progetto copertina Gabrielli editori In copertina Hasan HasanoviĆ Per la produzione di questo libro è stata utilizzata esclusivamente energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ed è stata compensata tutta la CO2 prodotta dall’utilizzo di gas naturale.

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INDICE

Prefazione di Fatima Neimarlija 7 PREMESSA La voce ai ragazzi e alle loro insegnanti 13 INTRODUZIONE Sopravvivere al Genocidio di Srebrenica 17 1. I BEI TEMPI PRIMA DELLA GUERRA

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2. SI PREPARA LA GUERRA

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3. INIZIA LA GUERRA: TRASFERIMENTO A SREBRENICA

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4. LA VITA A SREBRENICA

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5. LE DIFFICOLTà CONTINUANO

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6. L’ARRIVO DELLE NAZIONI UNITE

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7. LA VITA SOTTO LA PROTEZIONE DELLE NAZIONI UNITE

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8. LA CADUTA DI SREBRENICA

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9. LA MARCIA DELLA MORTE

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10. LIBERTà

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11. LA VITA DA PROFUGO CONTINUA

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12. DOPO GLI ACCORDI DI PACE DI DAYTON 1995

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13. RITORNO A SREBRENICA

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14. LORO DICONO CHE NON È MAI SUCCESSO

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ALCUNE INFORMAZIONI SULLA STORIA DEI BALCANI (C. Antonini)

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Potocari. Ingresso al Memoriale. La fabbrica di batterie prima della guerra è stata la base del Battaglione Olandese delle Nazioni Unite.

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Prefazione di Fatima Neimarlija *

La storia di Hasan è una storia tragica e triste. È la storia di un eroe suo malgrado, la storia di un ragazzo che ha combattuto coraggiosamente con la morte, ma che, pur sopravvivendo, ha lasciato alla morte una gran parte di sé. Sopravvivere alla mancanza dell’essenziale, come il cibo e l’acqua, sopravvivere alla mancanza di libertà, al non potersi muovere nella propria terra, al non poter uscire e frequentare la scuola, sopravvivere al dolore per gli amici e i parenti caduti o dispersi, sopravvivere alla mancanza di sonno e alle fughe precipitose da un villaggio all’altro intorno a Srebrenica, sopravvi*  Fatima Neimarlija è nata nel 1969 in Bosnia ed Erzegovina. A causa della guerra in Bosnia ed Ezegovina, iniziata nel 1992, fugge in Italia, dove si laurea in Lingue e letterature straniere moderne presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e successivamente consegue il master in “Educazione alla pace: Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Politiche dell’UE” presso l’Università Roma Tre. Ha lavorato per 15 anni presso l’Ambasciata di Bosnia ed Erzegovina a Roma come personale localmente assunto. Dal 2006 lavora presso il Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio dove opera nel settore dei diritti umani e della mediazione interculturale. Membro della Comunità bosniaca a Roma, dal 2013 ne diventa presidente. La sua missione di vita è essere “un ponte” tra le diversità, far conoscere il diverso e superare qualsiasi pregiudizio che possa essere un ostacolo per una convivenza pacifica, multiculturale, multireligiosa della nostra società. 7


vere agli incubi pieni di boati, urla e sangue, sopravvivere alla disperazione. Rispetto a questo, sopravvivere alle pallottole è una cosa semplice, scontata, quasi un caso fortuito. La sofferenza e le privazioni possono diventare un’abitudine. Lo spirito di adattamento dell’uomo è forte e ci si può abituare quasi a tutto, tranne che alla sofferenza dell’anima. Nel suo racconto Hasan esprime proprio questo dolore: fuggire dal paese dove si è nati, staccarsi dai compagni di scuola, dai primi amori, ricambiati oppure no, dagli amici, dalle prime esperienze da adolescenti, dalle partite interminabili senza far caso alle vittorie e alle sconfitte, dalle speranze e dalle delusioni. A Srebrenica la vita di Hasan prese un giorno una strada inattesa. Dall’essere un ragazzo come tanti dovette trasformarsi in un uomo, dalla spensierata leggerezza della gioventù sperimentò la durezza della responsabilità e diventò il pilastro della famiglia, colui che procurava il cibo necessario per sopravvivere, rischiando in diverse situazioni la propria vita. E poi giunse il peggio che potesse succedere: suo padre e il suo amato fratello gemello vennero uccisi … Hasan è sopravvissuto ma la sua sofferenza non è terminata con la fine della guerra. Il dolore che provava per il padre, per il fratello e per gli altri membri della famiglia perduti, lo portarono a rinchiudersi nel silenzio, un silenzio che è durato ben dieci anni. Poi finalmente Hasan ha ricominciato a parlare. Conosco bene questo tipo di doloroso silenzio. Tanti miei amici che hanno vissuto la guerra in Bosnia non ne parlano, non riescono a confrontarsi con quello cui sono sopravvissuti, non riescono a comprendere, non 8


riescono a farsi delle domande cui non saprebbero rispondere. Non ne parlano neanche coloro che la guerra l’hanno vissuta “da fuori”, quelli che sono riusciti a scappare e che hanno visto e sofferto quegli eventi da lontano, macerati da sentimenti contrastanti, dalla frustrazione ai sensi di colpa, dalla preoccupazione per coloro che avevano lasciato e che avrebbero potuto non rivedere più, alla rabbia per la propria vita violentata. Hasan ha cercato la salvezza della propria mente nello studio ed è diventato il “narratore” della tragedia sua e del suo popolo, così che noi oggi abbiamo la possibilità di ascoltarla. Questa è la testimonianza di qualcuno che ha sofferto, ma soprattutto è un monito per tutti, poiché non debbono essere dimenticate quelle 8372 vittime civili, persone indifese ed innocenti che sono state uccise. Il genocidio di Srebrenica è una ferita dolorosa per tutti i cittadini di Bosnia ed Erzegovina. È una di quelle ferite che non possono guarire semplicemente con il tempo. Per guarire completamente c’è bisogno che non vengano alimentati ancora la paura e l’odio tra i popoli. Resteranno forse le cicatrici a testimoniare la frustrazione e il dolore per quella tragedia atroce, ma ciò rafforzerà il nostro impegno perché non possa accadere ancora, né contro i Bosniaco Erzegovesi né contro nessun’altro, in nessuna parte del mondo e per nessun motivo. Quando il mondo gli si rivoltò contro Hasan era solo un ragazzo. Forse per questo motivo la sua storia ha un grande impatto sui giovani. Alcuni ragazzi del Liceo Nicolò Copernico di Verona, sono andati a Srebrenica e lì hanno conosciuto 9


Hasan. Sono stati colpiti dall’uomo e dal suo desiderio di raccontare quella terribile esperienza, dalla sua voglia di liberarsi raccontandosi. Si sono nutriti della tenacia con la quale Hasan si è aggrappato alla vita e del coraggio che ha dimostrato nel combattere i suoi peggiori incubi tornando a vivere nel luogo della tragedia. Quei ragazzi, credo, sono tornati da Srebrenica più adulti, più maturi e consapevoli. Hanno quindi deciso di tradurre in italiano il racconto di Hasan per condividere con altri questa loro consapevolezza. Questo libro è il frutto del loro lavoro e del loro impegno. Meritano un complimento particolare gli insegnanti del Liceo Copernico, come anche quelli di altre scuole che promuovono iniziative analoghe, che cercano di non far dimenticare il Genocidio di Srebrenica e che parlano delle guerre nella ex Jugoslavia, nonostante non se ne trovi pressoché traccia nei libri di testo italiani. A loro va un grande ringraziamento perché con il loro impegno contribuiscono alla sensibilizzazione dei giovani sull’assurdità della guerra e sulla necessità di difendere il valore della diversità. Da più di dieci anni la Comunità di Bosnia ed Erzegovina a Roma “Bosna u srcu” (Bosnia nel cuore) con il sostegno di molti amici italiani organizza il giorno 11 luglio presso il Parlamento Italiano una Commemorazione delle vittime del genocidio di Srebrenica cui partecipano intellettuali, politici, membri della comunità, cittadini comuni e spesso anche giovani studenti. continua....

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PREMESSA La voce ai ragazzi e alle loro insegnanti

Abbiamo conosciuto Hasan nel febbraio del 2018, durante il viaggio di istruzione, a Potočari, nel Memoriale in cui ora lavora. La proposta di un viaggio in Bosnia, a Sarajevo e dintorni, ci ha inizialmente stupito. Conoscevamo solo a grandi linee le vicende che avevano interessato la zona, così abbiamo iniziato a documentarci. Come per tutte le guerre, esistono narrazioni diverse: una ufficiale e una più umana, meno fredda, impregnata di lacrime. Così non poteva andare dimenticata la storia di un ragazzo di Srebrenica che in questo conflitto ha perso i suoi cari. Dopo aver vissuto dieci anni senza riuscire a parlare di ciò che era successo, Hasan ha deciso di scrivere questo libro e ha acconsentito che noi, studenti liceali, lo traducessimo e in questo modo facessimo conoscere la sua storia ad altre persone. Noi da Hasan abbiamo imparato il valore della testimonianza e quindi crediamo che il racconto di una dolorosa esperienza personale possa aiutare a riflettere sulla precarietà della condizione umana quando viene investita da pregiudizi ideologici. Classe IV BI

Liceo N. Copernico, Verona - a.s. 2017/18 Elena, Anda, Emma, Cristina, Barrow, Michele, Michelle, Nicolò, YuFei, Michela, Dalila, Paola, Anna, Luca, Ettore, Alessandro, Anna, Marcello, Ylenia, Giulia 13


Ma io dove ero? Questa è la domanda che ci ha assalito all’uscita dal Memoriale di Potocari il 17 febbraio 2018 mentre camminavamo in un silenzio quasi spettrale verso quelle migliaia di lapidi bianche che in quel giorno si stagliavano ancora più candide in un cielo di un azzurro infinito. Straordinario il silenzio di più di 50 giovani studenti che diversamente dal solito non avevano più voglia di chiacchierare e scherzare, dopo aver partecipato a una visita guidata. Prima di risalire sul pullman che ci avrebbe portato a Srebrenica per l’incontro con i giovani dell’Associazione “Adopt Srebrenica”, abbiamo acquistato nel piccolo chiosco all’uscita del Memoriale una copia del libro Surviving Srebrenica di Hasan HasanoviĆ, nostra guida nella visita, che aveva raccontato in lingua inglese la sua esperienza di testimone sopravvissuto al genocidio. È bastata la lettura di poche pagine durante il viaggio di ritorno a Sarajevo per convincerci dell’importanza che la memoria di un’esperienza così devastante, ma nello stesso tempo così umana e vicina al passato di molti di noi, potesse essere conosciuta anche da chi non padroneggia la lingua inglese. Sono stati i ragazzi stessi però, già a conclusione dell’incontro con Hasan HasanoviĆ, a esprimere la necessità di una mediazione linguistica per comprendere fino in fondo il racconto di quella vicenda e perché la stessa fosse divulgata anche tra coloro che nulla sanno di quella pagina di storia così vicina ai nostri confini. E pensare che solo il giorno prima al Museo del Tunnel di Sarajevo tutti insieme avevamo letto il graffito “Qui è morto il Novecento”. Tradurre, ma soprattutto diffondere le parole di Hasan è stato un esercizio di cittadinanza consapevole 14


e condivisa, un modo per trasformare la memoria in una riflessione sul presente: ma io dove sono? Le insegnanti accompagnatrici C. Antonini, B. Godoli, A. Martinelli

Nota alla traduzione Nel tradurre il testo siamo rimasti il piĂš fedeli possibile alla lingua e al periodare di Hasan; modificarlo avrebbe forse migliorato il racconto ma lo avrebbe trasformato in altro. Le parole di Hasan sono queste e come tutte le testimonianze vanno ascoltate e rispettate per quello che sono. 15


Potocari. Le sepolture delle vittime del genocidio. 16


INTRODUZIONE Sopravvivere al Genocidio di Srebrenica

Ero con il mio fratello gemello Husein, mio padre Aziz e mio zio Hasan e sapevamo che se volevamo sopravvivere ci saremmo dovuti unire alla “colonna”. Per quanto lontano io riuscissi a vedere c’erano uomini che camminavano – dai più giovani ai più anziani. Ci siamo allineati in file, aspettando di partire verso il territorio libero di Tuzla. Secondo mio zio sarebbe stato meglio rimanere nel mezzo della colonna e mentre continuavamo a metterci in fila, sentii il suono di armi pesanti. Nella confusione degli spari la gente nella colonna cominciò a spingere in avanti, nel panico, disperata e in cerca di riparo. Non potevo pensare a nulla che non fosse “spingi”. Qualcosa dentro di me continuava a dirmi di spingere in avanti, nella speranza di sopravvivere. Solo in quel momento ho realizzato di aver perso il contatto con mio padre e mio fratello. Volevo fermarmi e cercarli, ma sapevo che se lo avessi fatto sarei stato ucciso, così ho corso. Ho corso con un’infinità di altre persone nei boschi in un viaggio di terrore e, infine, di libertà. Ancora oggi non riesco a credere di essere stato parte della colonna. Ogni giorno mi chiedo dove ho trovato la forza. Quando sei in quel tipo di situazione, dove ogni passo diventa una questione di vita o di morte, la tua mente funziona diversamente. Quelle esperienze sono rima17


ste con me. Mi seguono ogni giorno, dal momento in cui mi alzo fino a quello in cui vado a dormire. Non riesco proprio a sbarazzarmene. Il peggio è l’angoscia che provo nel pensare a Husein e a mio padre Aziz, mi chiedo come siano stati uccisi, se siano stati torturati o no e quanto abbiano impiegato a morire. Quel dolore è quasi insopportabile. Ciò che segue è la mia storia, la storia di un ragazzo di paese che è sopravvissuto al Genocidio di Srebrenica.

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1. I BEI TEMPI PRIMA DELLA GUERRA

Sono nato il 7 dicembre 1975 a Bajina Bašta in Serbia. Mia madre ha messo al mondo me e mio fratello gemello, Husein, nato cinque minuti dopo, e nella nostra famiglia tutti erano felici che fossero nati due gemelli. I miei nonni avevano avuto quattro figlie femmine e un figlio, mio padre, e anche loro erano molto contenti della nostra nascita. Mio fratello più giovane, Omer, è nato quattro anni dopo di noi ed eravamo quindi tre fratelli e nessuna sorella. Abbiamo vissuto insieme, nel paese di Sulice, in una casa tutta marrone con una facciata dipinta di bianco, attorniata da marciapiedi. Era una casa nuova, con un tetto rosso di terracotta. All’interno c’erano un salotto, due camere da letto, una cucina e un bagno; il salotto e una delle camere erano per me, mia madre e i miei fratelli, mentre l’altra camera era per mia nonna, mio nonno e le loro due figlie. Nello scantinato c’erano altre due grandi stanze: una taverna dove ci sedevamo, mangiavamo e ricevevamo gli ospiti e la dispensa dove mia madre o le mie zie erano solite fare il pane, che poi si cucinava nel forno a legna della taverna. Amavo il profumo del pane mentre cuoceva ed ero solito mangiarne un pezzo quando era ancora caldo. Due delle mie zie erano sposate e le due ancora nubili vivevano con noi. Una di loro, Mevlida, si è sposata più tardi e ricordo che al suo matrimonio i bambini 19


litigavano per le caramelle durante il ricevimento e ricordo anche di avere sentito mio nonno piangere perché sua figlia aveva lasciato la casa. Poco dopo anche l’altra mia zia si è sposata. Per la maggior parte del tempo mio padre e mio nonno erano fuori casa a lavorare in Croazia, mentre le donne della famiglia si occupavano della terra, degli animali, delle faccende di casa e dei bambini. Mia madre in particolare coltivava i campi, cucinava e accudiva me e i miei due fratelli. Avevamo una stalla, dove tenevamo due mucche e a volte aiutavo a dar loro da mangiare; mia madre le mungeva poi bevevamo il loro latte e ci facevamo anche del formaggio, che lei e mia nonna usavano per fare una torta molto gustosa. Avevamo un gabinetto esterno e un pollaio, dove le galline facevano tante uova che usavamo per fare svariati cibi. Avevamo due fienili, uno con dentro degli attrezzi e del cibo e l’altro per il mais non ancora macinato. Di solito io e la mia famiglia ci alzavamo intorno alle 6 del mattino e ognuno aveva delle mansioni da svolgere. Per me e i miei fratelli, anche se eravamo dei bambini, c’era sempre qualcosa da fare. Quando nostro nonno Azem non lavorava ci dava gli ordini. I nostri doveri finivano quando veniva buio e tutti andavamo a casa per cenare. Ci sedevamo tutti assieme attorno ad un tavolo basso, senza sedie, e il nonno annunciava l’inizio del pasto con una preghiera ed il primo morso: questo era il segnale che potevamo cominciare a mangiare anche noi. Dato che il cibo era in un unico piatto, a volte i cucchiai si scontravano, producendo un rumore metallico. Mia madre si preoccupava che il nonno avesse il suo cibo preferito..... 20


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