Fior di
Barba
La Barba nell’Arte tra Sacro e Profano dal XVI al XX secolo
a cura di Laura Marchesini e Maurizio Nobile
Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, 27a edizione Firenze, Palazzo Corsini, Maurizio Nobile, stand 86 1-9 ottobre 2011
Catalogo della mostra: Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze 27° edizione - Firenze, Palazzo Corsini, Maurizio Nobile, stand 86 1-9 ottobre 2010
A cura di Laura Marchesini e Maurizio Nobile Autore del testo Laura Marchesini Introduzione di Maurizio Nobile Ringraziamenti: Elena Almici, Paola Bassani Patch, Donatella Biagi Maino, Atos Botti, Fausto Bulgarelli, Enrico Colle, Eric Coatalem, Alberto Cottino, Luisa De Antoni, Giovanni Feo, Regina Ferrari, Francesco Giura, Naomi Luciano, Flavia Manservigi, Sergio Marinelli, Emilio Negro, Carmine Pizzi, Elisa Previdi, Tiziana Sassoli, Erich Schleier, David Stone, Maurizio Succi, Davide Trevisani, Nicolas Turner, Annafelicia Zuffrano Progetto d’allestimento: Mario Loforese Referenze fotografie: Stefano Mazzali Progetto grafico e impaginazione: Leonardo Nassini Stampa: Industria Grafica Valdarnese San Giovanni Valdarno (Ar) Italy Relazioni stampa: MyStudio75 – Milano Agence Colonne – Paris Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti. © Maurizio Nobile
In copertina: Leandro Bassano (Bassano 1557-Venezia 1622), Ritratto di gentiluomo, olio su tela cm 102x81
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Galleria Maurizio Nobile
Fondata a Bologna da oltre vent’anni, la galleria Maurizio Nobile si è creata una solida reputazione nel settore dell’antiquariato. Situata nella suggestiva cornice di Piazza Santo Stefano a Bologna, negli interni di Palazzo Bovi Tacconi, la Galleria Maurizio Nobile è specializzata in mobili, oggetti d’arte, dipinti e sculture che spaziano dal XVI al XX secolo, anche se di tanto in tanto si concede qualche sconfinamento nel contemporaneo. Spinto da una vera passione per l’antiquariato, fin dalla più giovane età Maurizio Nobile ha frequentato mostre, musei, grandi antiquari internazionali, approfondendo così la sua già notevole conoscenza della materia e affinando ulteriormente il gusto. Bellezza, autenticità, qualità e rarità: questo è il credo che lo guida costantemente alla ricerca di opere e oggetti d’antiquariato destinati all’accrescimento di collezioni pubbliche e private a livello internazionale. Pioniere del web è stato tra i primi antiquari a dotarsi di un sito che ha creato nel 2000, spinto dall’ambizione di entrare in contatto con un pubblico di estimatori ancora più vasto. Nel giugno 2010 ha inaugurato una nuova galleria a Parigi, 45 rue de Penthièvre, dove già lo attendevano vari collezionisti internazionali.
Preparando questa mostra e indagando le ragioni sottese e nascoste nelle barbe dei personaggi delle mie opere, ho scoperto come alle scelte meramente estetiche si intreccino vicende storiche per lo piÚ foriere di grandi cambiamenti. Le fonti iconografiche e scritte ci insegnano - e questo catalogo in parte cerca di darne conto – come l’approccio all’onor del mento abbia segnato importanti passaggi della storia. Mi sono dunque chiesto se nei volti maschili di oggi, tra gli uomini che distrattamente sfoggiano pelurie di due giorni, arditi pizzetti o barbe ispide e selvagge, tornati in auge grazie alla moda, non si possa legger un involontario riflesso di questo momento di transizione e di profonde mutazioni. Le trasformazioni della barba scandiscono la vita di ogni uomo, che da nera la vede diventare bruna, poi grigia e poi bianca, e proprio con questa storia personale e universale che aspettano di essere scritte le ultime pagine di questo catalogo che in onore della barba portano i suoi colori. Maurizio Nobile
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Fior di Barba
di Laura Marchesini
Premessa metodologica L’intento di questo breve catalogo è di fornire una curiosa ed inusuale chiave di lettura per un ristretto corpus di opere dal XVI al XX secolo, frutto di una lunga e appassionante ricerca antiquaria di Maurizio Nobile. I dipinti, le sculture e gli oggetti selezionati sono tutti accomunati dalla presenza di uomini con la barba. La barba, o l’assenza di essa, caratterizza l’uomo sin dalle sue origini rivestendo significati simbolici legati non solo al raggiungimento della maturità sessuale, ma anche alle usanze, alle tradizioni, alla fede religiosa, al ruolo sociale e alle mode. Quello che si è cercato di fare in questo scritto è stato utilizzare le opere come vere e proprie fonti iconografiche, singole e puntuali testimonianze del complesso tema della barba e la sua storia in Occidente. Nei primi due paragrafi di questo breve scritto le opere sono state raggruppate per tematiche e in maniera diacronica. La prima parte è dedicata alle opere di tema mitologico o che mostrano una dipendenza formale dalla cultura greco-romana, mentre la seconda presenta dipinti connessi alla tradizione ebraico-cristiana. E’ importante ricordare tuttavia che in queste due sezioni non ci si trova di fronte a semplici riproduzioni filologiche dell’antichità. Queste opere costituiscono piuttosto alcuni interessanti esempi di come la cultura antica veniva percepita, utilizzata e re-interpretata nel XVIXVIII secolo. Si cercherà quindi di segnalare - quando possibile l’adesione o le divergenze dai modelli iconografici precedenti. La terza sezione è dedicata invece ad una serie di effigi di personaggi importanti realizzate tra il XVI e il XX secolo. Si tratta per lo più di ritratti coevi all’epoca di realizzazione e per essi si è quindi prediletta una presentazione cronologica coerente. I dipinti e le sculture selezionate sono state il pretesto per sottolineare tendenze estetiche e ideologiche generali succedutesi nell’arco di due secoli. 9
Data la complessità del tema e l’inevitabile e arbitraria scelta delle opere, sottomessa alle affascinanti ma parziali “leggi del mercato”, si è cercato – ove possibile - di affiancare alle opere d’arte alcune fonti letterarie che potessero meglio chiarire le valenze semantiche delle stesse, rendendone più obiettiva possibile l’interpretazione. Alle origini della barba: simbolo di umana virilità e divina saggezza. Breve excursus introduttivo tra pittura, arti decorative e scultura La barba è definita biologicamente come un carattere sessuale secondario maschile, la cui comparsa marca nell’uomo il passaggio dall’età infantile a quella adulta. Questa caratteristica fisica è propria di chi può vantare maturità ed esperienza divenendo segno visibile di saggezza e autorevolezza. La barba infatti, sin dalle origini della storia dell’uomo, ha caratterizzato fortemente la figura delle divinità e dei sovrani nella maggior parte delle civiltà orientali ed occidentali. Gli dei, se non erano espressamente raffigurati come giovani, avevano folte barbe che ne adornavano i volti conferendo loro severità e venerabilità. In Occidente sono le divinità della mitologia greca e poi romana ad accogliere, perpetrare e diffondere questa valenza semantica. Sono numerosi gli dèi dell’Olimpo che si fregiano di barbe rigogliose: Nettuno, Marte, Vulcano, ma soprattutto Giove, sovrano degli dei, l’emblema del potere e dell’autorità. Le sculture antiche lo raffigurano sempre come un vigoroso uomo barbuto, dall’espressione ieratica e severa1. A partire dal Rinascimento con il recupero della mitologia classica, gli umanisti e gli eruditi si impegnano in un alacre lavoro di ricerca archeologica di recupero delle fonti classiche. Fra gli intenti principali
La statua più celebre dell’antichità era probabilmente quella di Zeus che Fidia realizzò negli anni 30 del V secolo per il tempio di Olimpia. La scultura oggi perduta è nota però attraverso alcune descrizioni tramandateci dalle fonti. La più celebre è quella di Pausania nel suo Periegesi della Grecia (V. 11.1-10), dove tuttavia sono assenti i riferimenti alla barba (forse perchè elemento iconografico scontato?). D’altronde Qunitiliano elogiando la famosa statua di Fidia ricorda che “la maestà augusta dell’opera ritrasse fedelmente gli attributi del dio” (Quintiliano, Istituzione oratoria, XII, 10.3-9). A dimostrazione che tra questi attributi ci fosse anche la barba vengono in soccorso però alcune repliche della statua di Fidia. Il volto barbuto del dio trova in realtà conferma anche facendo un rapido confronto con le numerose rappresentazioni iconografiche rimaste. Solo per fare alcuni esempi, si vedano le barbe di Zeus in Zeus che rapisce Ganimede, terracotta, Olimpia Museo, V secolo a. C.; Dodona, Zeus con il fulmine, bronzo, Atene Museo Nazionale; Testa di Zeus, Cirene, Museo delle sculture; Milasa, Testa di Zeus, Boston, Museum of Fine Arts, ma se ne trovano esempi anche nella pittura vascolare: Aristofane, Coppa: Zeus che combatte un gigante, Berlino; Euclide di Atene (?), Testa di Zeus, Atene, Museo Nazionale.
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vi era anche la divulgazione della classicità ad uso degli appassionati ma, soprattutto degli artisti e dei loro committenti. In questi stessi anni le ville, le dimore di città, le logge, i giardini si vanno popolando di immagini degli dèi dipinte o scolpite in stucco. Le statue antiche si confondono con quelle moderne, le feste, i trionfi e gli apparati celebrativi richiedono ricostruzioni esatte di favole, divinità e personificazioni. Agli artisti è richiesta familiarità con l’Olimpo e le fonti classiche, correttezza filologica, fantasia inventiva, arguzia di concetti e allo stesso tempo facilità di interpretazione; per tener testa ad un compito così arduo giungevano in soccorso i manuali i quali, caldamente consigliati da Gian Paolo Lomazzo e Giovan Battista Armenini, garantivano una uniformità di linguaggio - scritto e visivo -, un territorio comune di intesa per artisti, committenti e pubblico. In particolare le Metamorfosi di Ovidio2 sono uno dei testi più amati durante il Rinascimento e l’età Barocca, presentando temi narrativi a carattere erotico-amoroso3 che facilmente si prestavano per rappresentazioni di gusto antichizzante. In questo inedito dipinto di Pietro della Vecchia detto Muttoni (Vicenza, 1603 - Venezia, 1678) è raffigurato uno degli amori del re degli dèi: il mito4 di Giove e la ninfa Io (fig. 1)5. Il dio invaghitosi di Io, figlia di Inaco re di Argo, la seduce trasformandosi in una nuvola che avvolge la terra. Il fenomeno alquanto insolito insospettisce Giunone, ormai avvezza alle infedeltà del marito. Giove allora, per proteggere Io dalla vendetta della moglie, trasforma la ninfa in una giovenca. Giunone però, fiutato l’inganno, chiede in dono il bovino consegnandolo nelle mani di Argo, il gigante dai cento occhi, che diventa il suo carceriere. Il dipinto raffigura la scena poco dopo l’avvenuta metamorfosi della ninfa. Giove - accompagnato dall’aquila suo attributo - è seduto ac-
A partire dalla fine del XV secolo si diffondono numerosi volgarizzamenti delle Metamorfosi ovidiane, utilizzate anche dagli artisti. Si trattava di traduzioni tutt’altro che fedeli, rielaborate in forme più o meno abbreviate (C. Ginzburg, Tiziano e Ovidio e i codici della figurazione erotica del Cinquecento, in “Paragone”, n. 339 (1978), pp. 3-24, a p. 10, 12). Il passaggio dal testo alle più diverse arti figurative è risultato spesso mediato dalle illustrazioni silografate che corredano questi testi che a partire dalla fine del Quattrocento si diffondono largamente sul mercato librario (G. Huber-Rebenich, L’iconografia della mitologia antica tra Quattrocento - e Cinquecento. Edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio, in “Studi umanistici piceni”, XII (1992), pp. 123134, a p. 123
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La fantasia erotica cinquecentesca trovava nella mitologia classica un repertorio già pronto di temi e di forme, immediatamente decifrabili da una clientela internazionale (C. Ginzburg, Tiziano e Ovidio e i codici della figurazione erotica del Cinquecento, in “Paragone”, n. 339 (1978), pp. 3-24
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P. Ovidio Nasone, Le metamorfosi, I, 583-750
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Pietro della Vecchia (Vicenza, 1603 - Venezia, 1678) detto anche Pietro Muttoni, Giove e Io, olio su tavola ovale, 49 x 66 cm, dipinto inedito.
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fig. 1
canto alla giovenca, mentre interloquisce con Giunone che compare tra le nubi squarciate e dubbiosa si porta il dito indice alla bocca. Il dio sembra perdere la sua ieraticità e avvicinarsi alla condizione dei mortali, schiavi degli istinti e dei bisogni. Giove - insolitamente seduto a terra mentre si giustifica di fronte ad una moglie gelosa - è un uomo dal corpo robusto e tonico, nel pieno del suo vigore e degli appetiti, che fa bella mostra di una folta barba e di una capigliatura riccioluta e corvina. Proprio queste caratteristiche ne sottolineano la maturità sessuale e il ruolo di insaziabile e prestante seduttore, più che di saggio e potente sovrano di uomini e dèi. D’altronde lo stesso testo di Ovidio sottolinea il carattere un po’ grottesco dell’episodio, facendo pronunciare a Giove, mentre insegue la ninfa che prova a sfuggirgli, queste parole: “E non aver paura […] addentrati tranquilla nel folto, che sei protetta da un dio, e non da un deuccio qualunque, ma da me che tengo nella grande mano lo scettro del cielo, da me che scaglio fulmini errabondi. Non mi sfuggire!”6
P. Ovidio Nasone, Le metamorfosi, I, 593-597
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Dal medesimo gusto antichizzante è ispirata anche l’importante tarsia lignea di Francesco Abbiati (documentato dal 1783 al 1828) che raffigura il mito di Selene ed Endimione (fig. 2)7. Abbiati aveva molta dimestichezza con i repertori consacrati alla raccolta delle antichità. E’ noto infatti che per le sue tarsie si sia più volte avvalso delle incisioni raffiguranti gli affreschi delle Terme di Tito a Roma, pubblicate da Nicolas Ponce a Parigi nel 1786, o di quelle delle sculture del Museo Pio - Clementino, incise da A. Locatelli per il volume di Ennio Quirino Visconti dato alle stampe nel 1788. “Proprio dai rilievi dei Musei Vaticani, Abbiati ricavò il soggetto per questo lavoro: nella Galleria dei Candelabri, del Museo Pio Clementino esiste infatti un sarcofago (Inv. 2829) di epoca classica, scoperto nel 1776 nella Vigna Casali, dove il mito di Endimione fu illustrato con una disposizione dei personaggi poi ripresa dall’ebanista con
Abbiati Francesco (documentato dal 1783 al 1828), Diana e Endimione, tarsia lignea, cm 56,5x74, fine sec. XVII; per la bibliografia si veda nota 8.
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fig. 2
minimi cambiamenti”8. La scena raffigura Selene (la dea Diana) che innamoratasi del re dell’Elide, Endimione, e non sopportando l’idea che un giorno lui in quanto mortale potesse morire, lo fa sprofondare in un sonno eterno, durante il quale lei ogni notte l’avrebbe visitato9. Per enfatizzare la condizione di Endimione, che sui sarcofagi assume anche il significato di liberazione dell’uomo dall’esistenza terrena10, Abbiati pone il giovane tra le braccia del dio del sonno Ipnos. Il contrasto fra le due figure è accentuato dalla posa ieratica del dio: questi sfoggia una barba bianca e curata, a differenza di Endimione, la cui avvenenza giovanile e inconsapevolezza per il “dolce” destino a cui la dea lo ha condannato si legge sul suo volto sbarbato e posa lasciva. La barba caratterizza anche numerose figure di eroi dell’antichità, coloro cioè che si collocano a metà tra l’uomo e il dio e che avendo compiuto in vita imprese memorabili e sovraumane, sono degni di venerazione dopo la loro morte. Per gli antichi infatti gli eroi non rappresentavano soltanto figure letterarie conosciute attraverso determinati testi, ma personaggi reali della storia passata. Nel suo trattato sulla sequenza delle razze umane, Esiodo teorizza l’esistenza di cinque età diverse per l’uomo, quella aurea, quella d’argento, quella di bronzo e, prima di quella di ferro, nella quale vive il poeta, quella degli eroi. Considerati come incarnazioni dei guerrieri valorosi, “La stirpe divina degli uomini eroi che vengono chiamati semidei” è sparita dalla terra, a causa delle numerose guerre tra le quali quelle di Tebe e Troia11. L’eroe più famoso dell’antichità è Ercole, figlio di Zeus e di una donna mortale Alcmena. Veneratissimo da Greci e Romani è ricordato soprattutto per essersi elevato dalla condizione umana attraverso imprese terrene straordinarie, guadagnandosi un posto nell’Olimpo. L’iconografia più diffusa, e che di norma lo caratterizza, è quella di un uomo nudo muscoloso e possente, dalla pettinatura riccioluta e dalla folta barba nera che stringe una clava e la pelle di un leone, proprio come lo vediamo raffigurato in una delle sculture più note dell’antichità: l’Ercole Farnese, oggi custodito al Museo Archeologico Nazionale di Napoli12.
E. Colle scheda n. 26 in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009; cfr. E. Colle, Magazzino di Mobilia: otto schede di arredi italiani (1999-2009) in “Decart”, n. 10 (2009), pp. 106-108
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P. Grimal, Enciclopedia della mitologia, ed. it. a cura di C. Cordié, Milano 1990, pp. 190-191 E. M. Moormann, W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico. Dizionario di storia, letteratura, arte e musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano 1997, p. 328
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Esiodo, Le opere e i giorni, ed a cura di A. Colonna, Milano s.d, p. 69
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P. Grimal, Enciclopedia della mitologia, ed. it. a cura di C. Cordié, Milano 1990, pp. 216
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Barbuti sono rappresentati sovente anche i principali eroi della Guerra di Troia. Questo busto Neoclassico ne è un esempio significativo (fig. 3)13. La scultura raffigura il valoroso comandante Menelao, re di Sparta e marito di Elena, il cui rapimento ad opera di Paride causò la decennale guerra di Troia narrata da Omero nell’Iliade. Questo esemplare è tratto da una scultura romana del II secolo d.C., oggi conservato ai Musei Vaticani, che a sua volta riprende un bronzo ellenistico della scuola di Pergamo14. Questa versione “ritrattistica” di Menelao è nota non solo in forma di busto, ma anche come parte di un gruppo scultoreo più articolato in cui il comandante greco a figura intera è intento a recuperare sul campo di battaglia il corpo esanime del suo compagno Patroclo15. La scultura è conosciuta in diverse versioni di epoca romana: il Pasquino di Roma e quella della Loggia dei Lanzi a Firenze sono tra le più note. In questo busto il volto di Menelao è raffigurato convenzionalmente16 con un pesante elmo su cui è intagliato, a scopo apotropaico, il combattimento di Ercole con il centauro. Menelao esibisce una folta barba definita in riccioli, a sottolineare la fierezza di un volto dai tratti fattisi severi per il lungo protrarsi della guerra. Il viso è contratto dallo sforzo e dal dolore per la perdita dell’amico e la fronte si aggrotta accentuando le rughe d’espressione mentre la bocca si dischiude leggermente in un gemito strozzato. La barba era tenuta in grande considerazione in Grecia. Le fonti ricordano come Licurgo, legislatore e guerriero spartano, dicesse che
e ssg., in particolare fig. 3 Scultore Romano, fine XVIII-inizi XIX secolo, Menelao, marmo, 93 cm; incisione alla base Aiace
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L’identificazione del soggetto della scultura non è univoco. Alcuni vi riconoscono Menaleo che raccoglie il corpo esanime di Patroclo, altri Aiace che solleva il cadavere di Achille. E’ conosciuto un altro gruppo scultoreo vicino a quello romano del Pasquino (vedi infra), conservato presso il Museo Archeologico di Sperlonga e identificato in Ulisse che mette in salvo il corpo di Achille morto (cfr. http://www.archeoguida. it/001554_sperlonga-museo-archeologico.html). Sebbene il busto riporti l’iscrizione AIACE, si è preferito aderire all’interpretazione più accreditata di riconoscere nel personaggio la figura del re spartano Menelao (cfr. anche G. Malizia, Le statue di Roma, Roma 1990, p. 12; Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale, Roma 1961, pp. 1018-1022, a p. 1021).
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Omero, Iliade, XVII; I nemici erano soliti impossessarsi delle armi degli avversari caduti in battaglia, ma anche dei loro corpi, al fine di impedirne degna sepoltura e condannarli ad una peregrinazione dell’anima impossibilitata a scendere negli inferi. Non ricevere gli onori funebri era considerato un grande disonore.
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Omero avaro nel descrivere fisicamente i personaggi dell’Iliade racconta di Menelao, re di Sparta e marito di Elena, il cui rapimento ad opera di Paride causò lo scoppio della guerra di Toria, per le sue doti di affidabilità, fiducia e di valoroso combattente; nell’Odissea parla della sua rossa capigliatura nonostante l’età avanzata (Omero, Odissea, canto IV).
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fig. 3
la barba rende gli uomini più gentili e più allegri, e che è bene curare i capelli, soprattutto in momenti di pericolo, perchè in battaglia ciò “rende più affascinanti i belli e più terribili i brutti”17. Gli Spartani avevano inoltre l’abitudine di imporre ai vili di radersi su una sola guancia in segno di pusillanimità18. Anche l’arte dimostra l’importanza rivestita da questo attributo di virilità, pullulando di numerose raffigurazioni di personaggi barbuti (per lo più mitologici) a partire dall’arte arcaica fino all’età ellenistica. Tuttavia la coesistenza di uomini barbuti e rasati nell’arte greca, anche in scene di battaglia, può semplicemente, a mio avviso, indurre a pensare che di norma la presenza di un mento irsuto indichi un personaggio adulto, di maturità comprovata. La barba sembra voler suggerire quindi non solo un’età anagrafica circoscritta, ma anche un’autorevolezza dovuta all’esperienza della persona e quindi anche al suo ruolo sociale19. Per questo motivo è scelta anche come attributo non solo degli dèi, ma anche dei condottieri e dei sovrani20. A questo proposito esiste un esplicito detto popolare: “E’ meglio stare sotto barba, che sotto bava” che sta a significare come sia meglio dipendere da un uomo forte piuttosto che da un bambino21. La presenza del virile ornamento, soprattutto se associato ad una corona, non poteva che suscitare deferenza e onorabilità, proprio come accadeva per gli dèi.
Plutarco, Vita di Licurgo, 22
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Plutarco, Agesilao, 30; per un rapido ma esaustivo elenco dei personaggi mitologici rappresentati con barba cfr. anche http://dagr.univ-tlese2.fr, ad vocem
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Il nostro esame non può che essere rapido e superficiale. Raffigurazioni di uomini imberbi e barbuti si affiancano spesso nell’arte greca. Barba piena e baffi folti ha la maschera funeraria micenea detta di Agamennone risalente al 1200 a.C. circa (Museo Archeologico Nazionale di Atene); barba senza baffi e capelli curatissimi mostra il Cavaliere Rampin (Louvre di Parigi) risalente al VI sec. a.C.; barbato è Aiace Telemonio mentre trasporta il corpo di Achille morto - imberbe e con lunghi capelli raffigurato sul vaso François del VI sec. a. C. (Museo Archeologico di Firenze); sui rilievi del Partenone del VI secolo sfilano uomini imberbi accanto a tronfie barbe (British Museum, Londra); nel capolavoro dell’arte ellenistica (181-159 a. C.), il fregio dell’altare di Pergamo, uomini, dèi e giganti rasati e barbuti combattono l’uno contro l’altro (Pergamonmuseum, Berlino).
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La barba come simbolo di anzianità e maturità, propria degli dèi e dei regnanti, accomuna sia l’Oriente che l’Occidente. Significativo è il recente ritrovamento di alcune statue della regina egiziana Hatshepsut della XVIII dinastia, in cui la sovrana esibisce una barba posticcia come segno di potere paritario nei confronti degli uomini cfr. J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles. Mythes, reves, costume, gestes, formes, figures, couloures, nombres, Paris 1969, p. 84
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G. Salveti, L’uomo e la barba, dalle origini ai nostri menti, Padova 1966, p. 57
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Tuttavia l’uso degli attributi nelle arti figurative non è sempre univoco e può presentare diverse sfaccettature. Un esempio eloquente è la barba di Re Mida, che sullo stolto regnante diventa un simbolo vuoto, un mero artifizio estetico di cui indegnamente è adornato il mento regale. Il mito di Re Mida, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, è un soggetto raro nelle arti figurative, tuttavia pregno di forte suggestione, come si vede in questo dipinto (fig. 4)22 di Nicolas Tournier (Montbéliard, 1590 – Tolosa, 1638 circa), dove le lunghe orecchie da asino23 contrastano fortemente con la maestosità della posa, l’espressione calma ma dallo sguardo vivace e la soffice e fiera barba che dovrebbe contraddistinguere un savio ed autorevole sovrano. Ma per dirla con le parole di Ovidio, Re Mida “era sempre grossolano di mente, e per il cervello gli passavano ancora idee stolte”. Il mito narra infatti che Re Mida dopo aver raccolto Sileno (divinità silvestre), ubriaco e barcollante nelle campagne della Figia, lo aveva restituito al suo pupillo Bacco, meritandone la riconoscenza. Il regnante allora chiese ed ottenne da Bacco il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Benché circondato di ogni ricchezza, il sovrano non poteva più né bere né mangiare, senza che cibo e bevande si trasformassero in oro splendente. Affamato e allo stremo lui, il più ricco tra i mortali, dovette chiedere al dio di essere liberato da tale “rovinosa fortuna”24. Secondo altre versioni Re Mida, approfittando della ubriachezza di Sileno, lo aveva imprigionato presso la sua reggia per carpirne il segreto della sua saggezza25. Era forse un altro espediente di Re Mida per guadagnarsi quell’onorabilità che non aveva ma di cui si fregiava sfoggiando una folta barba da sapiente? Il Sileno è nella mitologia greca un emblema di saggezza a metà tra l’uomo e l’animale. Devoto a Bacco e dedito alla crapula, questi è dotato di zampe equine (o talvolta umane), lunghe orecchie, occhi sporgenti, naso camuso e una folta capigliatura unita alla lunga bar-
Nicolas Tournier (Montbéliard, 1590-Tolosa 1638 circa), Re Mida, olio su tela 71x54 cm, dipinto inedito
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ll mito racconta infatti che il re della Frigia, Mida, assistendo ad una gara musicale tra il dio del sole Apollo e il satiro Pan, si schierò dalla parte di quest’ultimo, nonostante l’esibizione divina fosse di gran lunga superiore. Allora “il dio di Delo (Apollo) non sopportò che quelle stolte orecchie conservassero forma di orecchie umane, e così gliele allungò e coprì di grigio pelame, e le rese mobili alla base, in modo da poter essere agitate” (P. Ovidio Nasone, Le metamorfosi, XI, 85).
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P. Ovidio Nasone, Le metamorfosi, XI, 76
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E. M. Moormann, W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico. Dizionario di storia, letteratura, arte e musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano 1997, pp. 655
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fig. 4
ba26, che ne sottolineano l’aspetto ferino di divinità silvestre. Il suo attributo tipico è molto spesso un tralcio di vite carico di pampini che ne circonda la testa intrecciandosi ai pesanti riccioli. Per questo forte carattere decorativo, dovuto alla commistione dell’elemento fitomorfo con la protome del Sileno, è stato spesso riprodotto su oggetti di pregio, come per esempio su questa coppia di splendidi vasi neoclassici in bronzo dorato (fig. 5)27 attribuita alla manifattura di Pierre Gouthière (Bar-sur-Aube 1732 - Ivry Seine, 1813/1814), cesellatore e doratore di Luigi XVI. Le anse sono state sostituite da due teste del vecchio Sileno, magistralmente modellate in un sorriso dovuto all’ebrezza, mentre la barba ricade verso il basso e il virgulto di vite che corona la testa avvolge simmetricamente a destra e a sinistra la pancia del vaso. Nonostante il vizio del bere e l’assidua partecipazione ai Baccanali, Sileno era stato prescelto come educatore di Bacco fanciullo. Le sue doti di saggezza e le sue facoltà divinatorie sono note attraverso le fonti, tra le quali la più significativa resta il Simposio di Platone, il dialogo dedicato al tema dell’amore. Attraverso la voce di Alcibiade, Platone paragona Socrate - il filosofo dell’antichità per eccellenza alla figura del Sileno. Alcibiade nell’elogiare Socrate dice “egli assomiglia moltissimo a quei Sileni, messi in mostra nelle botteghe degli scultori28, [..] che quando vengono aperti in due rivelano di contenere dentro immagini degli dèi […]. Vedete che Socrate è sempre innamorato dei belli, sta sempre intorno a loro e si strugge d’amore. Però poi, ignora tutto e non sa niente. Questo suo atteggiamento non è forse da Sileno? Altro se lo è! Ma questo è proprio un suo rivestimento esteriore, come nel Sileno scolpito, ma dentro, se lo si apre, immaginate, voi che con me bevete, di quanta temperanza sia ripieno? Sappiate che, se uno è bello, a lui non importa proprio niente, e anzi lo disprezza […]; e così non gli importa nulla neppure se uno è ricco o se è in possesso di alcuni di quegli onori che secondo la gente rendono felici […]. Quando, invece, fa sul serio e si apre, non so se qualcuno abbia mai visto le immagini che ha dentro. Ma io una volta le ho viste e mi sono sembrate essere divine e d’oro e tutte belle e mirabili”29. Socrate viene paragonato ad una divinità silvestre il cui aspetto esteriore rozzo e trascurato tipico di un’esistenza vicina agli istinti ani-
E. M. Moormann, W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico. Dizionario di storia, letteratura, arte e musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano 1997, pp. 653-656
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Pierre Gouthière (Bar-sur-Aube 1732 - Ivry Seine, 1813/1814) attr. a, Coppia di vasi in bronzo dorato con anse a foggia di Sileno, cm 45
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Si trattava di piccole statuette votive congegnate per aprirsi e rivelare il loro contenuto: immagini di divinità.
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Platone, Simposio, trad. G. Reale, Milano 2000, 216 D-217 A, pp. 153,155
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fig. 5
fig. 6
maleschi, si accorda invece con un’interiorità straordinaria dotata di lucidità di pensiero e alte capacità di penetrazione. I ritratti che dall’antichità ci sono pervenuti di Socrate ne rivelano una certa somiglianza con i tratti silenici30, viso schiacciato e lunga barba incolta come si vede nel busto conservato a Roma al Museo Nazionale, copia da scultura ellenistica IV secolo. Sotto la bruttezza silenica di Socrate si rivela dunque tutta la divina nobiltà di pensiero della Filosofia. Giungiamo dunque all’ultima e più famosa categoria di barbuti dell’antichità che ci piace ricordare in questa prima parte: il filosofo. I filosofi sono gli unici personaggi del mondo greco antico a conservare barbe incolte31 anche in epoca Macedone, ovvero dopo l’introduzione generalizzata dell’uso di radersi32. Questa iconografia canonizzatasi nel mondo antico suscita nuovo interesse soprattutto nel Seicento, quando colti committenti richiedevano agli artisti immagini di filosofi che costituivano una valida alternativa alle raffigurazioni degli Evangelisti o un interessante complemento ad essi. Altre volte dipinti e sculture di letterati, poeti e filosofi servivano ad adornare emblematicamente le biblioteche. Questa tradizione che doveva risalire all’età ellenistica è ricordata anche da Plinio: “non si deve dimenticare neanche la nuova trovata di dedicare nelle biblioteche ritratti […] di coloro le cui anime immortali parlano in quegli stessi luoghi; che anzi vengano raffigurati anche ritratti immaginari e il nostro desiderio dà forma a volti non tramandati, com’è avvenuto per Omero”33. Nel mondo romano è infatti noto il caso dell’imperatore Adriano, la cui barba è ricordata nel diario di viaggio del 1746 di Gibbon autore di “Declino e caduta dell’impero romano”. Gibbon asserisce che “fu il primo imperatore a farsela crescere, la portavano solo i filosofi e Adriano che per distinguersi da loro l’accorciava un poco”34. A questo fenomeno di rinnovato interesse per i saggi del passato si devono attribuire anche questi due dipinti (fig. 6)35 di Girolamo Negri, detto il Boccia, (Bologna, 1648-1718) che raffigurano tre uomini
Sulla somiglianza fisica di Socrate con il Sileno si veda anche Platone, Teeteto 143
30
C. Cecchelli, Barba, in Enciclopedia italiana di scienze lettere arti, Roma 1949, vol VI, pp. 111-115, a p. 112
31
Athen. XIII, pp. 564-565.
32
Plinio, Storia Naturale, XXXV. 9-10
33
M. Paloscia, Nemmeno la barba di Adriano sfugge al curioso Gibbon”, in Viaggio in Italia” n. 17 (1987), pp. 46-48, a p. 47
34
Girolamo Negri, detto il Boccia (Bologna, 1648-1718), Tre teste virili, Tre teste virili, olio su tela; ciascuno cm 66 x 107; per la bibliografia si veda nota 36.
35
23
che discutono assieme animatamente. Difficile stabilirne con certezza l’identità e a tal proposito Milena Naldi già rilevava “Credo sia impossibile dare un nome a questa serie di sei teste di uomini d’età diversa e che paiono tutti conversare animatamente fra di loro. Non sono santi, perché nessuno di essi mostra traccia di aureola o di attributi identificativi; potrebbero, forse, essere filosofi antichi, ma di ciò non c’è alcuna prova; e non sono di certo vecchi riuniti per una bevuta all’osteria. Che cosa sono allora? Si potrebbe dire che in questo caso il pittore abbia riunito in ciascuna tela tre tipiche teste di carattere”. D’altronde la studiosa ricorda anche come “Gli studi recenti hanno portato alla ribalta la sua ricca produzione [del Boccia] di “teste di carattere” sulla scia inaugurata, in base a ormai lontane ascendenze carraccesche, da Pasinelli e da Canuti”36. Nel Seicento comparvero diversi repertori di riproduzioni ritrattistiche a stampa che costituivano facile veicolo di diffusione delle reali o supposte sembianze dei filosofi37. Tuttavia la loro labile aderenza alle iconografie antiche di non sempre facile reperibilità e la volontà degli artisti di interpretare liberamente i personaggi, fecero sì che, salvo per qualche fisionomia molto peculiare (ad es. Socrate o lo “pseudo Seneca”), le riproduzioni dall’antico mediate da repertori a stampa, si limitarono ad altri tratti tipizzanti come gli attributi di barba e mantello. L’allontanarsi da un ideale antico imbrigliato dalla necessità di rigide riproduzione permise di creare ad artisti e committenti un tipo ideale di filosofo e quindi di personificazione della saggezza antica, che proponeva un modello di filosofo come mendicante e indecoroso, perchè saggio rinunciatario dei beni terreni. L’equazione Filosofia = Povertà divenne talmente diffusa che lo stesso Cesare Ripa nel suo trattato di Iconologia la raffigura come una fanciulla vestita di stracci, riprendendo i celebri versi del Petrarca “Povera e nuda vai Filosofia”38.
M. Naldi schede 16-17, Il fascino dell’arte emiliana. Dipinti e disegni dal XVI al XIX secolo, a cura di D. Benati, catalogo della mostra, (“Incontro con la pittura”, 16) Fondantico, Bologna, 2008, pp. 72-73; Ferrari ricorda che “verso la fine del secolo la componente di investigazione fisiognomica sottesa alla quale erano sì vocazioni naturalistiche e dunque in un certo senso, scientifiche, e sia interessi per gli affetti, finirà per scadere nell’anedottica delle teste di carattere sotto forma anche di esercitazioni di studio” (O. Ferrari, L’iconografia dei filosofi antichi nella pittura del sec. XVII in Italia, in “L’arte”, n. 57 (1986), pp. 105-182, a p. 143)
36
I repertori erano davvero numerosi, tra i più noti: Diogenis Laertii, De vita et moribus philosophorum, libri 10, Lugduni 1592 (opera del XIII secolo pubblicata nel XVI secolo); F. Orsini, Images et Elogia Virorum Illustrium et Eruditor, ex antiquis lapidibus et nomismatib. expressa cum annotationibus, Roma 1570;
37
C. Ripa, Iconologia, overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, opera non meno utile che necessaria à Poeti, Pittori, Scultori, per rappresentare le virtù, vitij, affetti e passioni humane, Roma 1593, ad vocem.
38
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Quest’associazione diventa talmente popolare che Salvator Rosa nelle sue satire ricorda il malcostume di certuni: […] che per parer filosofi, e saputi se ne vanno per le strade unti e bisunti stracciati, sciatti, sudici e barbuti39. La barba come segno di consacrazione nell’ebraismo e nel cristianesimo La figura del filosofo e la sua iconografia, così come sin qui l’abbiamo descritta, viene caricata di nuovi significati con il cristianesimo. Emblematica in questo senso è la figura di san Girolamo (Stridone Dalmazia c.a. 342- Betlemme 419/420), riconosciuto Padre della Chiesa soprattutto per la sua opera di traduzione della Bibbia in latino che prese il nome di Vulgata 40. San Girolamo, grande conoscitore ed estimatore dei filosofi antichi, rappresenta un momento di equilibrio precario dove la dimensione religiosa dell’ascesi della ricerca di Dio non ha ancora divorato la dimensione della ricerca sapiente e filosofica. La fuga di san Girolamo dal mondo per ritirarsi in una dimensione ascetica nel deserto, seminudo e in povertà, evoca uno scambio di attributi che si opera con il filosofo greco, che talvolta anch’egli si faceva eremita per dedicarsi alla ricerca della saggezza; anche sul piano esteriore, il pesante mantello del filosofo è letteralmente divenuto il vestito dell’eremita e del monaco. La rappresentazione del santo infatti conserva la prossimità al modello del saggio filosofo greco nella mutazione stessa che subisce sotto l’influenza del modello ascetico e martiriologico cristiano. Il ritratto di san Girolamo si situa in questo momento: un viso di vecchio, che potrebbe essere quello di un filosofo dell’antichità, sereno o leggermente attraversato dal dubbio in una posa che è tipicamente quella di una meditazione spirituale41. Ad indagare l’espressione del volto segnato dagli anni e dalla vita ascetica è Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento
Satire di Salvator Rosa, con le note di Anton Maria Salvini, Napoli 1860, p. 81 satira della Poesia
39
D. Attwater, Vite dei santi, Asti 1995, pp. 152-153
40
E. Kantorowicz, Selected Studies, Augustin 1965, cit. in J. Claude Monod, Face à la mort, in Portraits de la pensée, cat. Exposition Palais des B. A. Ville de Lille, 11 mars-13 juin 2011, sous la direction d’Alain Tapié et Régis Cotentin, Chaudun 2011, pp. 92-93, a p. 92.
41
25
fig. 7
1591-Bologna 1666), che in questa tela (fig. 7)42 raffigura una testa di san Girolamo fin sotto le spalle. La lunga barba e il mantello ricordano l’iconografia classica del filosofo, mentre la pietra stretta nella mano destra è lo strumento con il quale il santo si percuoteva il petto in segno di penitenza. Al suo ruolo da esegeta è invece dedicato questo dipinto quasi coevo al precedente (fig. 8)43 di Giovanni Battista Carlone (Genova 16031683/1684). San Girolamo ha staccato la penna dal libro che sta compilando e rivolge lo sguardo al cielo. La luce che magistralmente lo illumina scendendo dall’alto lo investe e lo sguardo del santo sembra perdersi in essa, ritrovandovi la Verità che con tanta protervia il santo cerca nelle Sacre Scritture. Nel piccolo dipinto (fig. 9)44 di Domenico Monia (Ferrara c. 1550-Parma c. 1602) la scena è molto più articolata: attraverso la luce divina invocata dal santo in meditazione appare la Madonna con in grembo il Bambino. Il santo inginocchiato distoglie gli occhi dal Crocifisso torcendo il corpo, dal canone allungato, verso la visione mistica. In questa rappresentazione cinquecentesca il santo è accompagnato dai numerosi attributi che gli artisti e la devozione popolare hanno voluto tributargli nel corso dei secoli. Sullo sfondo è evocata in monocromo la scena in cui san Girolamo libera il cenobio nel quale viveva dall’arrivo di un leone. La fiera si era avvicinata ai frati con una zampa zoppicante e san Girolamo si accorse che ad affliggere la povera bestia era una spina. Curandolo se ne guadagnò la perpetua riconoscenza45. Il leone lo ritroviamo infatti docilmente accovacciato ai piedi del santo, anch’egli attratto dalla subitanea apparizione divina. Sulla destra del dipinto invece campeggiano il rosso cappello cardinalizio (orpello anacronistico, il cardinalato sarà introdotto solo a partire dall’anno 1000) tributato al santo per la sua importanza come Padre e Dottore della Chiesa; la Bibbia aperta, a simboleggiare familiarità con lo studio
Guercino (Cento 1591-Bologna 1666), San Girolamo, olio su tela cm 60x49; dipinto inedito.
42
G. B. Carlone (Genova 1603-1683/1684), San Girolamo, olio su tela, 123x96 cm; edito in A. Gesino scheda n. 4 in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009; J. T. Bonticck, scheda n. 48, in Portraits de la pensée, cat. Exposition Palais des B. A. Ville de Lille, 11 mars-13 juin 2011, sous la direction d’A. Tapié et R. Cotentin, Chaudun 2011, p. 203, cat. Exposition Palais des B.A. Ville de Lille, 11 mars-13 juin 2011, sous la direction d’Alain Tapié et Régis Cotentin, Chaudun 2011
43
Domenico Mona (Ferrara c. 1550-Parma c. 1602), San Girolamo con la Vergine, olio su tela, cm 55,8x40,5; bibliografia: G. Frabetti, L’autunno dei manieristi, Ferrara 1978, scheda n. 48, pp. 65-66, tav. 9
44
J. da Varaggine, Leggenda aurea, trad. a cura di C. Lisi, Firenze 1984, II, p. 666.
45
27
fig. 8
delle Scritture; un crocifisso, la pietra nella mano destra ed un teschio, segno delle reiterate e profonde riflessioni del santo sulla morte. In tutte queste opere colpisce la cura con cui gli artisti hanno descritto – sebbene stilisticamente in maniera molto differente - queste barbe. Guercino indaga l’intera scala cromatica che dal bianco porta al 28
fig. 9
grigio passando per le sfumature violette, conferendo alla barba una sofficità che pare invitare l’osservatore a toccarla. Quella di Monia, più manierata, è divisa in ciocche che ricordano la forma delle fiamme, allungando con eleganza il volto del santo. Nel Carlone la barba è lumeggiata da rapidi tocchi che paiono riflettere la luce divina di cui il santo è investito. L’attenzione degli artisti per questo attributo sottende un significato che affonda le radici nella cultura ebraica. Per la barba di san Girolamo pensare infatti ad una semplice adesione al modello del filosofo greco non soddisferebbe a pieno la complessità semantica che essa assume sul volto del santo. Alla necessità per l’uomo di fede di far crescere rigoglioso il virile ornamento fanno riferimento infatti diversi scritti di san Girolamo. La barba è segno di chi si dedica alla vita contemplativa rinunciando alle vanità terrene46, in una lettera infatti egli scrive: “catene, sporcizia, lunga capigliatura non sono insegne di chi porta il diadema ma di chi piange”47. L’atto di rasarsi poi è giudicato in maniera molto negativa: “I rasati sono i falsi profeti a cui si toglie ciò che hanno di virile; chi li rade è il vero profeta membro della Chiesa, perchè è indegno di portare la barba, ornamento dell’eloquenza, chi non possiede la parola profetica”48. E ancora: “D’altronde il Signore vuole che i suoi sacerdoti abbiano i capelli della santità perpetui e vuole coprire la loro testa non con qualche velo esteriore ma con la chioma naturale, non per la bellezza e la lussuria ma per l’onestà; […] La testa dell’uomo è Cristo, testa che il peccatore disprezza e schiaccia e, per così dire, che il rasoio rade portando via la bellezza”49 San Girolamo trae queste convinzioni dalle Sacre Scritture, dove il Codice di Santità prescrive esplicitamente:
G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 6. Si veda anche per la barba in ambito monastico G. Bormiolini, La barba di Aronne. I capelli lunghi e la barba nella vita religiosa, Firenze 2011
46
San Girolamo, Lett. XVII, 2
47
Girolamo santo, Commento a Esaia VI, 15 in G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 12.
48
Girolamo santo, Commento a Ezechiele XIII, 44 in G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 12.
49
30
Non vi tagliate in tondo i capelli ai lati della testa, e non vi raderete i lati della barba 50 La barba è il tramite attraverso cui Dio fa discendere sull’uomo il suo divino unguento51: […] E’ come unguento fino, sul capo, che giù discenda lungo la barba, barba di Aronne52, che giù discenda sugli orli del manto. […] Chè qui pose Iddio la benedizione, qui pose la vita nei secoli eterni53. San Girolamo commentando questo salmo afferma che l’unguento divino rappresenta la divina santificazione. Questa scende dalla testa, cioè Dio, sulla barba, segno dell’umanità perfetta ovvero Cristo, per poi ricadere sulla veste che rappresenta invece l’uomo, imperfetto54. La perdita della barba è una delle peggiori ignominie, di cui Dio stesso minaccia il suo popolo se dovesse disobbedirgli55: In quel giorno il Signore raderà col rasoio preso a nolo da quelli che sono al di là del fiume -dal re di Assur56i capelli dalla testa, i peli dai piedi, e taglierà la barba57
Levitico 19, 27; cfr. 21; era ammesso radersi solo in segno di lutto (Geremia 41, 5; 48, 37).
50
G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 12.
51
Capostipite della casta sacerdotale, noto anche per la proverbiale lunghezza della sua barba.
52
Salmo 133
53
Girolamo, Commento ai salmi, 132; cfr. G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 12.
54
G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 3.
55
Gli Assiri erano nemici del popolo di Israele.
56
Isaia, 7, 20; si veda anche Michea 1, 16
57
31
fig. 10
Portare barba e capelli lunghi significava consacrarsi al Signore e rispettarlo, per questo motivo di norma i personaggi dell’antico Testamento sono rappresentati come barbuti e chiomati. Non fa eccezione Lot, che in questo dipinto di Pietro Testa (Lucca 1611-Roma 1650)58 è raffigurato durante la Fuga da Sodoma in fiamme (fig. 10)59. L’uomo dalla folta e soffice barba grigia si affretta a condurre in salvo la sua famiglia dalla distruzione della città voluta da Dio, disgustato per l’empietà dei suoi abitanti. In secondo piano si intravede un’esile figura grigia che rappresenta la moglie di Lot trasformata in una statua
Il dipinto riporta poi il monogramma dell’artista, composto da una sorta di T maiuscola fusa con l’occhiello di una P, dopo la quale si distingue abbastanza agevolmente la scritta “ietro”. Alla critica è già noto il monogramma dell’artista, utilizzato in diverse opere, che permette di annoverare quest’ultimo dipinto come una nuova scoperta, da aggiungere all’esiguo corpus di uno straordinario artista, che attende ancora oggi di essere rivalutato.
58
Pietro Testa detto il Lucchesino (Lucca 1611-Roma 1650), Incendio di Sodoma, olio su tela, 54x66 cm; dipinto inedito
59
32
di sale per aver violato il principio divino che aveva imposto loro di non voltarsi durante la fuga60. In questo dipinto la tavolozza ristretta, limitata quasi solo a colori scuri, mette in forte rilevanza l’abilità del pittore nel saper modulare le luci e le ombre in uno scenario saturo e senza soluzione di continuità tra cielo e terra. La narrazione è affidata alla spiccata sensibilità dell’artista, capace di cogliere, nonostante l’uso predominante del monocromo, i dettagli dei bagliori dell’incendio dello sfondo e il riverbero della luce notturna sulle foglie in primo piano61. L’Antico Testamento ricorda inoltre che tra gli ebrei chi si distingueva maggiormente per la rigida osservazione delle norme del Codice di Santità erano i nazirei, “i consacrati”, che tributavano particolare importanza ai capelli. L’esempio più noto è sicuramente quello di Sansone. La madre di Sansone era sterile, finchè un giorno non le apparve un angelo che le annunciò: “concepirai e darai alla luce un figlio, sul capo del quale non passerà rasoio. Egli sarà nazireo fin dalla nascita e comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei”62, il popolo che ormai da quarant’anni soggiogava gli Ebrei. Sansone infatti era dotato di una forza straordinaria, che il Signore gli infondeva attraverso i capelli. Una volta che Dalila, la donna di cui si era invaghito, gli fece recidere le trecce egli sentì che “la sua forza era sparita da lui […] il Signore si era ritirato da lui”63. Si riteneva quindi che i capelli fossero catalizzatori di forze superiori che davano capacità sovrumane. Bormolini dice che “Queste concezioni sopravissero fino al Medioevo e se ne trova traccia nella mistica ebraica dello Zohar, che considera i capelli come canali attraverso cui fluisce la potenza magnetica del cervello e mezzo per armonizzarsi con l’influsso divino superiore”64. Le vicende di Sansone furono tra i soggetti più frequentati dagli artisti tra XVII e XVIII secolo. In questo impressionante dipinto di Michel Corneille detto il vecchio (Orléans 1601 - Paris 1664), l’artista
Genesi, 19, 15.
60
Pietro Testa predilige nelle sue opere scene all’aperto, con cieli tempestosi, ombre boschive e ore vespertine con atmosfere allucinate e visionarie (L.Vertova, Ricordando Pietro Testa, il Lucchesino, in Aux quattre vents: a Festschrift for Bert W. Meijer, a cura di A. W. A. Boschloo, E. Grasman, Firenze 2002, pp. 121-130) come in questa tela dove la vera protagonista pare la natura selvaggia e violenta, e i quattro personaggi semplici comprimari.
61
Giudici, 13, 5
62
Giudici, 16, 19 ssg.
63
G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 4.
64
33
fig. 11
rappresenta Sansone dopo l’uccisione dei Filistei (fig. 11)65. L’antico testamento racconta che il nazireo, adirato perchè il suocero filisteo aveva fatto risposare in seconde nozze sua moglie, diede alle fiamme il raccolto dei Filistei. Questi ultimi decisero allora di ardere padre e figlia, considerati la causa della loro sciagura, scatenando l’ira di Sansone che uccise a sua volta una trentina fra loro. I Filistei si presentarono allora alla caverna di Etam dove Sansone si era rifugiato presso il suo popolo, che senza esitare lo consegnò in mano nemica. “Lo Spirito divino allora lo investì e trovata una mascella d’asino squartato
Michel Corneille, detto il vecchio, (Orléans 1601 - Paris 1664), Sasone e i filistei, olio su tela, 91x98 cm; dipinto inedito. Galerie Coatalem, Paris
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34
di recente, l’afferrò e uccise con quella mille uomini […] sentendo poi un’ardente sete invocò il Signore […]. Allora Dio fece aprire una fenditura nella vasca che è in Lechi, donde uscirono delle acque, e Sansone potè bere”66. Il dipinto raffigura proprio il momento in cui Sansone, gettata la mascella e dissetatosi (si vedano in basso l’osso e lo zampillo d’acqua), si riposa per il grande sforzo. Sullo sfondo si scorge l’ombra quasi indistinta dei cadaveri nemici. Il dipinto da ricondurre al momento in cui forte è l’influenza su Corneille di Simon Vouet, presenta una composizione semplice e frontale dai colori delicati, nel pieno spirito del classicismo francese. Sansone in posa accademica fa sfoggio di un corpo perfetto mentre riposa, tronfio della sua impresa, contro un bassorilievo antico che pare apparentarlo più ad un Ercole pagano che ad un salvatore dell’antico testamento. Capelli lunghi e barba non possono non ricordate il volto di Cristo, il volto del Dio fattosi uomo. Durante i primi secoli dell’Era Cristiana non esisteva un unico modello per la raffigurazione del volto di Cristo, coesistevano infatti immagini del Salvatore come giovane dalle sembianze del dio Apollo e come uomo maturo e barbato. Grabar sosteneva che “Cristo imberbe si conformava all’arte graziosa e superficiale dell’età imperiale[…], mentre le immagini di Cristo barbuto […] sembravano denotare una preoccupazione realistica” più aderente alla verità storica del Cristo semita67. E’ a partire circa dall’epoca giustinianea che si è delineata una tipologia di immagini rispondente a questi precisi connotati. Probabilmente originatasi nel mondo orientale ed estesasi poi gradualmente a quello occidentale, è divenuta un modello universalmente accettato. Alcuni studiosi hanno anche ipotizzato che, la tipologia iconografica delle sopracciglia ampie e arcuate, della lunga canna nasale ma soprattutto la presenza della barba e dei lunghi capelli che ricadono simmetricamente lungo le spalle, sia da ricondurre all’immagine impressa su quella che oggi è nota come la Sacra Sindone. Il Sacro Lino, di cui le prime attestazioni in Occidente risalirebbero secondo alcune fonti, all’XI secolo, ma di cui si hanno prove certe dell’esistenza solo a partire dal XIII secolo, è forse da identificare con il Mandylion orientale, di cui le fonti e gli artisti erano a conoscenza già dal VI secolo68.
Giudici, 15, 14 ssg.
66
A. Grabar, Le vie della creazione dell’iconografia cristiana, Milano 1983, p. 150.
67
F.Manservigi, La Sindone tra passato e futuro. Il volto di Cristo nell’iconografia e l’uomo
68
35
Senza addentrarci nelle complicate vicende che portarono all’affermazione di quest’ultima iconografia e non potendo in questo caso appellarci alle fonti, alquanto confuse sull’aspetto esteriore di Gesù69, ai fini del nostro discorso è interessante riportare le parole del Bacci che scrive “Secondo Epifanio di Salamina (vescovo e scrittore palestinese vissuta tra il 315 e il 403 circa) a privilegiare il tipo con barba e capelli lunghi erano soprattutto quelle comunità [...] che mantenevano legami stretti con la tradizione ebraica e che associavano un tale aspetto con quello delle persone votate a Dio secondo la prassi, istutita da Dio sul Sinai, nel nazireato [...] Anche se Epifanio giudicava questa forma di rappresentazione impropria e inaccettabile l’associazione con l’aspetto dei nazirei, che condizionò l’aspetto di altri personaggi (san Giovanni Battista o san Giacomo), aveva il merito di visualizzare efficacemente il ruolo di Cristo consacrato al signore sin dal ventre della madre”70. In questo dipinto di Gaspare Landi (Piacenza 1756-1830), importante esponente del Neoclassicismo italiano, è raffigurata la scena del Noli me tangere tratta dai Vangeli71, dove Gesù risorto appare a Maria Maddalena (fig. 12)72. Per la raffigurazione del Cristo il pittore ha rappresentato il volto conformemente ai tratti distintivi che i fedeli, sia cattolici che ortodossi, per molti secoli sono stati abituati ad associare alla figura del Salvatore e che le arti figurative hanno interpretato in una serie pressochè interminabile di rappresentazioni, mentre il corpo assume la posa antichizzante della scultura dell’Apollo Belvedere73. Il viso “semitico”, addolcito e mediato attraverso prototipi della cultura umbra74, si accorda perfettamete con un fisico giovane, armonioso e dall’incarnato immacolato se non fosse per la leggera ferita del costato che restituisce sanguigno calore al corpo “marmoreo” del dio pagano.
della Sindone, Tesi di Laurea in: Archeologia e Culture del Mondo Antico, Università degli Studi di Bologna, Rel.Prof.ssa R.Budriesi, Bologna, a.a. 2009-2010, pp. 114-120 con amplia bibliografia sull’argomento Si veda ad esempio il Vangelo di Giovanni “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv, 1, 18), cioè la contemplazione del Padre era resa possibile dalla forma del Figlio di Dio incarnato.
69
M. Bacci, Alla ricerca del volto di Cristo, in Gesù. Il corpo, il volto nell’arte, cat. Mostra Venaria, 1 aprile-1 agosto 2010, a cura di Timothy Verdon, Cinisello Balsamo 2010, pp. 91-95, a p. 94.
70
Giovanni, 20, 11 ssg.; Marco 16, 9.
71
Gaspare Landi (Piacenza 1756-1830), Noli me tangere, olio su tela 70 x 97 cm; per la bibliografia si veda nota seguente.
72
S. Grandesso, scheda n. 17 in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009.
73
S. Grandesso, scheda n. 17 in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009
74
36
fig. 12
E’ suggestivo notare come in questo dipinto Landi, seppur involontariamente, sia riuscito a fondere due componenti iconografiche che hanno caratterizzato la rappresentazione del Cristo nei primi secoli. Si è detto infatti che la lenta e difficile definizione di un’effigie aveva visto convivere - almeno fino all’età giustinianea - il modello apollineo e il modello barbato con capelli lunghi. Il dibattito sull’affermazione dell’iconografia del Cristo era probabilmente totalmente estraneo al Landi, che quando realizzò l’opera si limitò a replicare l’iconografia canonizzata del volto barbuto, scegliendo di accostarla alla scultura antica dell’Apollo, semplicemente in coerenza con i dettami del neoclassicismo, che vedeva nell’imitazione della natura mediata attraverso le forme dell’arte antica, l’unica strada per raggiungere un modello di bellezza ideale75. Resta il fatto che la figura cristologica, alla luce di tutto quello che si è fin qui detto, richiama suggestive contaminazioni tra cultura grecoromana e tradizione ebraica. Sull’immagine del Maestro, l’arte ha spesso ricalcato anche quella dei discepoli. Le fonti sono tuttavia avare di descrizioni anche se Esigeppo riferisce, per esempio a proposito dell’apostolo Giacomo, che portasse barba e capelli lunghi alla maniera dei nazirei76. Così pure per san Giovanni Evangelista, raffigurato da Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona 1578-Roma 1649), è difficile stabilire una reale coerenza ritrattistica (fig. 13)77. Sappiamo però che san Giovan-
A partire dall’Ottocento in ambito Neoclassico il dibattito sull’ inadeguatezza del lessico figurativo classico per la rappresentazione di soggetti sacri era molto acceso. Per ragioni di coerenza al soggetto trattato in questo volumetto e di spazio, non potremo darne conto. Gioverà tuttavia ricordare che come mediatore tra l’arte dei sentimenti e l’ordine del Bello ideale venne spesso presa ad esempio l’arte del Canova, da cui anche Landi attinge per la figura della sua Maddalena. Riprendendo le parola della Marin: “Giocata sul sottile crinale dell’equilibrio tra il moto sconvolgente degli ‘affetti’ e la sovrana calma dell’autocontrollo […] l’arte del Canova sembrò ai contemporanei poter garantire un trapasso naturale dall’esperienza neoclassica allo spiritualismo moderno: la natura altamente individualizzata e la profonda introspezione emotiva dei protagonisti delle sue opere rispondeva alle contemporanee esigenze di intimizzazione del sentimento religioso, mentre la perfetta conduzione formale garantiva l’artista da un’estremizzazione concettuale, che avrebbe prevaricato le qualità estetiche pure” (C. Marin, Fare del Laocoonte un martire della nostra religione?” La tematica sacra nella critica d’arte del primo Ottocento, in Le arti a confronto con il sacro. Metodi di ricerca e nuove prospettive di indagine interdisciplinare, Atti delle Giornate di Studio Padova 31 maggio-1 giugno 2007, a cura di V. Cantone, S. Fumian, Padova 2009, pp. 177-185, p. 181).
75
Storia eccl. II, XXIII,5 in G. Bormolini, L’immagine del Maestro. Le tradizioni monastiche sulla barba e I capelli, in “Rivista ascetica e mistica”, 2 (2003), pp. 1-15, a p. 5 nota 42
76
Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona 1578-Roma 1649), San Giovanni Evangelista, olio su tela, 97,7x72,3 cm; dipinto inedito
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38
fig. 13
ni è l’apostolo “che Gesù amava”, presente a tutti gli episodi importanti della vita di Cristo, unico ad assistere alla crocifissione. La sua giovane età, ribadita dai racconti evangelici, è stata spesso pretesto per gli artisti per prediligere rappresentazioni dell’apostolo imberbe, soprattutto se in compagnia degli altri discepoli78. Tuttavia in questo dipinto l’apostolo è raffigurato nell’atto di redigere il suo Vangelo in un momento successivo alla morte di Cristo. La scelta dunque di dotarlo di discreta ed elegante barbetta, dalla foggia in voga a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, è forse legato alla maturità raggiunta dall’Apostolo e dal ruolo eminente di redattore di uno dei Vangeli. D’altronde già Cassiodoro ricordava esplicitamente la barba come attributo della virilità apostolica: “Dicono bene barba gli apostoli, poichè è segno della più vigorosa virilità e resta salda, fissa sotto la testa alla quale appartiene. Gli apostoli infatti, superate molte passioni per dono divino, si dimostrano uomini fermissimi: e anche conservando le regole che avevano ricevuto dal Signore mostrano di restare sotto il loro capo”79. La barba nella ritrattistica tra scelte estetiche ed ideologiche Il ritratto è un indicatore delle mode e delle tendenze che hanno segnato ogni epoca. Gli attributi e i volti dei personaggi raffigurati possono quindi fornirci interessanti pretesti per capire quale potesse essere l’approccio dell’uomo con il suo virile ornamento del mento. A partire dal XIII secolo fino ai primi anni del Cinquecento la barba conosce un periodo di oblio. Particolarmente eloquenti in questo senso sono le raffigurazioni pittoriche, per lo più ritrattistiche, che si intensificano a partire dal Quattrocento. Gioverà tuttavia fare una piccola digressione ed utilizzare un esempio eloquente come la duplice raffigurazione di san Francesco, barbuto e imberbe, per dimostrare quanto l’attributo virile fosse inviso durante questi secoli. Che il santo assisiate avesse la barba ce lo assicurano Tommaso da Celano, che lo aveva conosciuto, e le numerose raffigurazioni duecentesce del santo: dall’immagine di Subiaco a quella di Margarito d’Arezzo, solo per fare qualche esempio, dove San Francesco è presentato con il volto ovale caratterizzato da tonsura e barba bruna.
Celebre è il Cenacolo di Leonardo da Vinci nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano.
78
Magnii Aurelii Cassiodori, Expositio psalmorum 71-150, Brepols 1958, salmo n. 123
79
40
Tuttavia l’apprezzamento verso questo attributo doveva essere alquanto controverso sul finire del XIII secolo, se solo qualche anno dopo la sua morte, negli affreschi della Basilica inferiore di Assisi, il santo è raffigurato perfettamente rasato. Il senso di avversione verso la barba era riuscito a scalfire la verità storica persino nel luogo dove egli era sepolto e che più di ogni altro doveva glorificare e attestare le sue memorabili vicende terrene. La presenza o l’assenza della barba sul volto del santo era divenuta - secondo il Bellosi - argomento di contesa tra due diverse fazioni: i francescani ‘spirituali’, pro barba e a favore della povertà, e i ‘conventuali’ sostenuti dal papato e dalla ricca borghesia, che preferivano un’immagine più “edulcorata”, civilizzata e rasata del santo. Gli aspetti politici e finanziari della vicenda non ci interessano in questa sede, ci basterà sottolineare invece come si era diffusa l’idea che l’uomo barbato fosse persona sospettabile di disonestà, dalla pessima reputazione e poco civile. La barba viene considerata impura a tal punto che anche il sacerdote doveva essere rasato: avvicinando infatti alle labbra il calice durante l’eucarestia avrebbe certamente contaminato il vino attraverso il contatto con i baffi80. Tra il Quattrocento e i primi anni del Cinquecento anche la ritrattistica ci mostra come poco diffusa fosse la barba. Solo per fare alcuni esempi eminenti, sono ritratti imberbi Lorenzo il Magnifico negli affreschi di Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici Riccardi a Firenze, Sigismondo Malatesta raffigurato negli affreschi del Tempio Malatestiano di Rimini da Piero della Francesca, ma anche l’intera corte dei Gonzaga nella Camera picta affrescata da Andrea Mantegna (Palazzo ducale, Mantova) o ancora Federico da Montefeltro nel dipinto di Giusto di Gand (Pinacoteca Nazionale di Urbino). Gli uomini di potere e le loro corti solevano dunque fare largo uso del rasoio, ma imberbi sono anche gli artisti: rasato è Botticelli nell’autoritratto che si riserva tra gli astanti della Pala dell’Adorazione dei Magi oggi agli Uffizi, ma anche Andrea del Sarto nel suo autoritratto conservato nello stesso Museo fiorentino. Verso la metà del Cinquecento la barba acquisisce nuova importanza, tornando ad abbellire i volti maschili. Emblematica del cambiamento di gusto è la vicenda che coinvolse l’autoritratto imberbe di Giorgione (Castelfranco V. 1578-Venezia 1510), oggi a Braunschweig presso l’ Herzog Anton Ulrich Museum81.
L. Bellosi, La barba di san Fracesco. Nuove proposte per il problema di Assisi, in “Prospettiva”, 22 (1980), pp. 11-34, a pp. 11-14.
80
La critica non è concorde nell’identificare l’esemplare di Braunschweig con quello
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Il dipinto era divenuto molto noto grazie al Vasari che da esso aveva tratto l’incisione dell’effigie di Giorgione posta in principio della biografia a lui dedicata nel celebre libro Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti (1550 e riedito nel 1568). Tuttavia, appena un secolo dopo, nella Vita del Giorgione, redatta dal Ridolfi nel suo Maraviglie dell’arte edita nel 1648, nell’incisione eseguita da Giovanni Georgi sul volto di Giorgione compaiono barba e baffi. Ad influire su questa “prodigiosa crescita” del virile ornamento avevano agito più fattori. Il primo era la diatriba, di cui Ridolfi fa menzione nei suoi scritti, che da lungo tempo si stava tenendo tra due famiglie venete che millantavano tra i loro antenati il celebre pittore. Tra queste la famiglia Barbanella aveva addirittura fatto erigere nel 1638 una lapide nella Cattedrale di Castelfranco Veneto a ricordo di questo “lontano parente”. La barba sarebbe quindi potuta comparire in ossequio al detto antico per cui nomen omen (il nome ha in sé un presagio). In secondo luogo – e questo è l’aspetto più interessante della curiosa vicenda - la comparsa della barba e dei baffi conformava e aggiornava l’immagine di Giorgione alla moda del tempo82. Secondo il Vasari Giorgione era infatti uno dei fondatori della “maniera moderna” e forse proprio per questo suo ruolo fondativo dell’arte italiana si predilesse l’immagine di un personaggio severo e austero, dallo sguardo acuto e ammonitore e quindi dotato di barba e baffi. Il volto di Giorgione subì dunque un processo di “irsutizzazione” che proseguì anche per tutto il XVIII secolo fino alla metà del seguente. In questo periodo si diffusero infatti una serie di incisioni ritrattistiche di Giorgione dai capelli e barba imbiancati, nonostante il Vasari riferisse che era morto all’età di soli trentaquattro anni83. Se nella cultura antica “havere una bella barba accennerà decoro, dignità, e gravità” viceversa l’esserne privo poteva significare “pueril vaghezza, e simplicità et età giovanile”. Non per nulla “Apollo fu da gli antichi figurato senza barba giovinetto; per dinotare il Sole, che dà vita alle cose create, esser sempre l’istesso, né mai invecchiarsi”84.
della collezione Grimani, pur ammettendo che esso tramanda il vero volto di Giorgione. E’ nota infatti l’esistenza di falsi ritratti di Giorgione dotati di baffi e barba, per attualizzare il soggetto al gusto dei collezionisti del XVII secolo.
82
E. Maria Dal Pozzo, La barba di Giorgione, in Giorgione, a cura di E. M. Dal Pozzo, L. Puppi, cat. Mostra Castelferanco Veneto, Museo casa Giorgione 12 dicembre 200911 aprile 2010, Milano 2009, pp. 207-224.
83
Bonifacio L’arte de’ cenni 1616, p. 80, in E. Maria Dal Pozzo, La barba di Giorgione, in Giorgione, a cura di E. M. Dal Pozzo, L. Puppi, cat. Mostra Castelferanco Veneto, Museo casa Giorgione 12 dicembre 2009-11 aprile 2010, Milano 2009, pp. 207-224, a p. 224.
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A cavallo tra XVI e XVII secolo, mentre la barba cresce sui volti maschili, i capelli cominciano ad accorciarsi85 e sparisce la “zazzera [...] infino alle spalle” di cui parla Vasari per Giorgione86. Il cambiamento nel ritratto non concerne però solo le mode esteriori ma si manifesta sempre più verso questo genere pittorico una diversa attitudine. Nella prima metà del Cinquecento predomina un interesse psicolgico e la pittura mette in risalto gli aspetti della personalità intesa come espressione momentanea dello stato d’animo, come irripetibile condizione esistenziale. Nella seconda metà le caratteristiche fisiche sono rese con estrema minuzia e si prediligono pose auliche, quasi ieratiche. Non c’è più infatti interesse ad indagare lo stato d’animo momentaneo ma si cerca di esprimere, attraverso il ritratto, un carattere “universale”. Per fare questo gli artisti introducono alcuni attributi che raccontano del personaggio ritratto non solo le inclinazioni personali, ma anche il suo rapporto con il mondo87. Tra i più celebri ritrattisti del Cinquecento si annovera Bartolomeo Passerotti (Bologna 1529-1592), il cui Ritratto di gentiluomo mostra una qualità pittorica straordinaria, degna delle parole del Malvasia che nella Felsina pittrice, il libro dedicato alle vite dei pittori bolognesi, riferisce: “ne’ dipinti ritratti poi pochi furono che, a’ que’ tempi, l’uguagliassero”88. Al ritratto Passerotti dedica buona parte della sua opera, diventando il ritrattista delle più importanti famiglie bolognesi, fino a raggiungere una fama che travalica la sua città d’origine. Sono gli anni in cui particolarmente vivace è il dibatitto critico sulle forme del ritratto. Per un ritorno al “decoro”, inteso come aderenza al dato naturale lontano dalle eccessive idealizzazioni, sono gli scritti di Gian Paolo Lomazzo, di Giovan Battista Armerini, ma soprattutto del cardinale Paleotti Passerotti che proprio a Bologna scrive il suo trattato sulle immagini. Sensibile a queste esortazioni, tuttavia il Passerotti non rinuncia alla tradizione del ritratto emiliano, guardando anche ai fiamminghi, a Moroni e ai Bassano. Riesce così a ricreare, attorno ai suoi esibiti ed inamidati personaggi, una nota d’ambiente o racconto con prosaica e talvolta ironica cordialità89. In questo dipinto (fig. 14)90
Rosanna Pistolese, La moda nella storia del costume, Bologna 1979, p. 140
85
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, p. 569
86
E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, Torino 1973, pp. 1033-1094, a pp. 1060-1061
87
C. C. Malvasia, Felsina pittrice, Bologna 1841, I, p. 190
88
A. Ghirardi, Bartolomeo Passerotti pittore (1529-1592), catalogo generale, Rimini 1990, p. 53
89
Bartolomeo Passerotti (Bologna 1529-1592), Ritratto di uomo, olio su tela, cm 40,5x31,7; inedito
90
43
fig. 14
si vede solo il volto di un Gentiluomo, un uomo anziano, dalla pelle livida e trasparente, che pare, per dirla con le parole del Malvasia, “in atto di fulminar con gli occhi”91 il riguardante. I difetti del volto non sono celati, le vene si intravedono sulle tempie, le rughe segnano impietose il contorno degli occhi e un labbro inferiore fin troppo pronunciato si fa spazio come una macchia rosa tra il candore di una folta e soffice barba bianca. E’ l’onor del mento a dare carattere a questa figura maschile, innegabilmente è la barba biforcuta a conferire una spiccata severità alla figura. La foggia della barba a coda di rondine92 portata con grande dignità anche da Cesare Borgia, ritratto da Raffaello93, è una variante più rara della barba a una sola punta, la cui versione leggermente accorciata è tipica del Veneto, come vediamo in questo magnifico Ritratto di gentiluomo (fig. 15)94 di Leandro Bassano (Bassano 1557-Venezia 1622). Le dimensioni del dipinto consentono la presa della figura quasi fino alle ginocchia, come stava divenendo usuale in ambito Veneto, che consentono l’inserimento nella rappresentazione di alcuni interessanti attributi. L’uomo stringe con la sinistra l’elsa di una spada mentre la destra è appoggiata ad un libro chiuso sopra ad un tavolo a sottolineare i due aspetti della sua personalità: l’uomo d’arme e l’uomo di lettere. Le mani sono elegantemente ricoperte da guanti di pelle. Il guanto, talvolta appare calzato su una sola mano e più raramente, come in questo caso, su entrambe, era un accessorio costoso che stava ad indicare l’alto rango sociale del personaggio ritratto. Sulla diffusione dell’uso dei guanti ci informa il Varchi, nella su Storia fiorentina edita solo nel 1721, che riferisce ci fosse l’abitudine di cambiarli ogni settimana assieme ad altri indumenti e la mania di imberli con essenze odorifere, usanza tuttavia proibita in molte città dalle leggi suntuarie. Il personaggio è abbigliato con un giuppone a collo alto che termina con una gorgiera sulla quale risalta la barba rasa, molto curata e leggermente a punta, che annuncia già la moda del Seicento95. I capelli sono invece ancora corti: gli uomini infatti sono definiti zucconi dal
C. C. Malvasia, Felsina pittrice, Bologna 1841, I, p. 190
91
Passerotti ha utilizzato ad esempio questa foggia di barba per la figura del Cristo nella tela Resurrezione con la madonna in preghiera, Bologna Pinacoteca Nazionale, inv. 1360 e per alcune raffigurazioni di san Francesco e sant’Antonio cfr. A. Ghirardi, Bartolomeo Passerotti pittore (1529-1592), catalogo generale, Rimini 1990, pp. 181, 190-191
92
Opera oggi in collezione Rotschild a Parigi.
93
Leandro Bassano (Bassano 1557-Venezia 1622), Ritratto di gentiluomo, olio su tela cm 102x81; dipinto inedito
94
Cfr. Giacomo Franco, Ritratto del Maestro di ballo-incisione da Fabrizio Caroso -”il ballarino”-1581 Venezia
95
45
fig. 15
Varchi e continueranno a fregiarsi di tale aggettivo almeno fino ai primi del Seicento. Il Seicento tenne in grande onore la barba, che divenne oggetto di attenzioni morbose. Gian Francesco Loredano nelle sue Bizzarie Accademiche reputa quasi indegno “nel nome d’huomo chi non avesse la barba, non avendo di questa il maggior testimonio che attesti della sua virilità”96. Ma già molti coetanei del Loredano si lasciano crescere la zazzera e se l’arricciano e sostituiscono alla barba intera il pizzo appuntito che affina aristocraticamente l’ovale del viso, dando un che di sottile e di inquietante alle fisionomie maschili del tempo97. Segnali della crescente vanità maschile in questo secolo si colgono nello scritto della monaca Arcangela Tarabotti, Antisatira in risposta al lusso Donnesco, edito a Venezia nel 164498. Lo scritto, nato per difendere i costumi femminili, divenne piuttosto un aperta critica ad alcune attitudini civettuole degli uomini tra cui spiccano le attenzioni riservate a barba e capelli. “Immaginatevi […] che dopo aver stancata una meza dozzina di pettini con la zazzera, altrettanti ferri tiepidi con la barba e cento altre frascherie, escano di casa a portare all’universo una pomposa vista delle loro bellezze e attillature”. Dopo aver riservato un’accurata messa in piega a capelli, baffi e barba sono “resi così lucidi dall’oglio di gelsomino, di cedro od altro, che paiono finissima seta e non peli”99. I giovani avevano la tendenza a rasarsi e di loro riferisce “l’huomo, che si rade, sterpa, e estirpa dal mento fin alla virilità quel pelo, che lo distingue dalla femina, e poi quando comincia ad incanutire, lascia spuntar la barba, ed all’hora, che sarebbe tempo di cominciar a pensare alla morte, comincia a farsi conoscere per Huomo”100. E di una folta barba bianca fa sfoggio il personaggio ritratto (fig. 16) nel dipinto del celebre ritrattista Samuel Hoffmann (Zürich 1595 – Frankfurt a.M. 1648)101.
F. Loredano, Bizzarrie Accademiche, Venezia, 1684, p. 146
96
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, III, p. 331
97
A. Tarrabotti, Antisatira in risposta al lusso Donnesco Satira Menippea del sig. Franc. Buoninsegna, Venezia 1644
98
Satira e antisatira, a cura di E. Weaver, Roma 1998, pp. 97-98
99
Satira e antisatira, a cura di E. Weaver, Roma 1998, pp. 96, 98
100
Samuel Hoffmann (Zürich 1595 – Frankfurt a.M. 1648), Ritratto di uomo barbuto, olio su tela, 50x43 cm; bibliografia: I. Schlégl, Samuel Hofmann (um 1595 – 1649), Th. Gut
101
47
fig. 16
Il volto sereno dagli occhi vispi assume un aspetto alquanto bonario, accentuato dalla presenza di una prolissa capigliatura e della barba piena, il cui candore si esprime con sfumature d’argento nel contrasto con la gorgiera bianca. I baffi del personaggio leggermente rivolti ver-
& Co.,Verlag, Prestel - Verlag, Stäfa, (Zürich), 1980, rep. p. 132, n° 73
48
so l’alto sembrano confermare l’attenzione tutta maschile posta nel rialzarli e modellarli alla moda. Sul petto si intravede una grossa catena d’oro ad anelli intrecciati distintiva dei gentiluomini, ma che spesso viene concessa dalle leggi suntuarie anche ai semplici cittadini, tanto se ne era diffusa la voga. L’abito maschile nero e chiuso fino al collo dalla gorgiera è improntato alla severità dei costumi, imposta già a partire dalla seconda metà 49
fig. 17
del secolo precedente dalla Riforma luterana102. Tuttavia la “guerra ai colori” dichiarata dalla Riforma e l’austerità di costumi dei riformatori, che vestivano il colore umile del peccatore - si veda ad esempio Lutero103 - ha una forte influenza anche sulla Controriforma. I sovrani cattolici, ad esempio Carlo V, e con loro anche i gentiluomi104 cominciarono a vestire di scuro, eleggendo il nero come il nuovo colore dell’eleganza. Di fronte a tanta sobrietà diventa una nota bizzarra l’esotica barba nel Ritratto d’uomo con turbante (fig. 17)105 eseguito da Girolamo Negri, detto il Boccia (Bologna, 1648-1718). La tela risponde al gusto collezionistico dell’epoca e come spiega la Naldi “raffigura un uomo nel pieno vigore degli anni, a mezzo busto, il cui corpetto “verde Veronese” è accompagnato da un mantello alla veneta, così come di vermiglio tizianesco è tinto il copricapo in guisa di turbante, più o meno ottomano, ornato al centro d’un fermaglio di pietra dura racchiusa in una cornice d’oro”106. Il personaggio ha una barba portata piena naturale, scevra da particolari cure, come usavano averla normalmente gli Arabi107, in coerenza con le vesti del personaggio che ammiccano all’Oriente. Con la comparsa della parrucca nella metà del Seicento, la moda maschile cambia profondamente. Chi infatti non poteva vantare lunghe chiome ricorreva facilmente a questo artifizio, che ben presto da semplice ripiego alle calvizie divenne accessorio ricercatissimo108. Come i veri capelli, i posticci si portavano lunghi ondulati o frisè. All’origine di questa moda pare ci siano stati i lunghi boccoli di Luigi XVI, la cui chioma leonina conquistò a poco a poco tutta la corte. Dal 1673 il re fu costretto tuttavia a portare una parrucca, inaugurando una moda
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, III, p. 325
102
M. Pastoreau, D. Simmonet, Il piccolo libro dei colori, Milano 2006, pp. 84, 86
103
A. Quondam, Tutti i colori del nero: moda e cultura del gentiluomo nel Rinascimento, Milano 2001, p. 122
104
Girolamo Negri, detto il Boccia (Bologna, 1648-1718), Ritratto d’uomo con turbante, olio su tela, 61,5 x 51,5 cm; bibliografia si veda nota seguente.
105
M. Naldi schede 15, Il fascino dell’arte emiliana. Dipinti e disegni dal XVI al XIX secolo, a cura di D. Benati, catalogo della mostra, (“Incontro con la pittura”, 16) Fondantico, Bologna, 2008, pp. 70-71
106
“Anche gli arabi portarono fin dall’età preislamica la barba piena […]. Nella sunnah mussulmana (costumanza ispirata al presunto esempio di Maometto) è prescritta la barba accorciata fino alla lunghezza di una spanna e sfoltita, ma non rasa, sulle guance; I baffi devono essere spuntati e accorciati sopra il labbro” (C. Cecchelli, Barba, in Enciclopedia italiana di scienze lettere arti, Roma 1949, vol VI, pp. 111-115, a p. 111).
107
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, III, pp. 333-336
108
50
più che secolare109. Nella letteratura europea è curioso vedere come a invettive virulente contro questa nuova tendenza, si affianchino testi di elogio e manuali per la storia e confezionamento delle diverse fogge di parrucca110. In Italia la diffusione della parrucca è fortemente osteggiata dalle autorità, interessate a garantire la sobrietà dei costumi. La tassazione sull’uso del posticcio, come succede ad esempio in Toscana nel 1692, diventa lo strenuo tentativo di arginarne la diffusione. I Signori deputati impongono una tassa annua a chi vuole indossare la parrucca: “[...] tutti quelli, di qualsivoglia stato, grado, e condizione, che presentemente si vagliano, e sono soliti usare, e valersi della Parrucca, di zazzera posticcia, di zazzerino, ò Berrettino con capelli finti, ò, di altro simile acconcio in vece, e luogo della naturale e propria chioma” paghino “Li Gentiluomini lire 4 Li Cittadini lire 2 Li Terrazzani Benestanti lire 2 E gl’Artierei, e ogni altra sorte di Persona lire 1,66”111 Questa disposizione dimostra quindi chiaramente che la tendenza ad usare la parrucca era ormai dilagante e che caratterizzava, non solo gli strati più abbienti della società, ma tutte le sue categorie. Alla progressiva crescita dei capelli, naturale o artificiale che fosse, corrispondeva un proporzionale accorciamento della barba, dapprima ridotta ad un elegante pizzetto, poi a una piccola mosca sotto il labbro fino a scomparire del tutto nel Settecento112. L’episodio storico che fa più capire di quale portata fosse la scelta di rasarsi o meno è sicuramente la tassazione sulla barba imposta da
V. Aubry, Costumes, Sculture de l’éphémère 1340-1670, II, Cahors 1998, p.91.
109
Senza alcuna pretesa di esaustività si citano di seguito alcuni dei testi più interessanti sull’argomento: Docteur Akerlio (ma Deguerle Jena Marie Nicolas), Eloge des Perruques, enrichi de notes plus amples que le texte, Parigi, Maradan, s.d. (Lipperheide, 1685); Thiers Jean Baptiste, Histoire des Perruques, ou l’on fait voir leur origine, leur usage, leur forme, l’abus & l’irregolarité de celles des Ecclesiastiques, Avignone, Louis Chambeau, 1779; Nicolai M. - Jansen, Recherches historiques sur l’usage des Cheveux postiches et des Perruques, dans les termps anciens et modernes, Traduit de l’allemand de M. Nicolai par Jansen. Parigi, Leopold Collin, 1809; A. Mallemont, l’Art de la Coiffure Francaise. Histoire de la coiffure de dames depuis les Gaulois jusqu’a nos jours, Parigi, Robinet, 1900.
110
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, III, pp. 336-339.
111
Risale al 1770 la pubblicazione del celebre trattato sulla rasatura di Jean Perret, famoso coltellinaio francese, da alle stampe La Pogonotomia (dal greco pogon, barba e tomia, tagliare) che si dilunga su una specificità del taglio della barba.
112
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fig. 18
Pietro il Grande (Mosca 1672-S.Pietroburgo 1725). Lo zar impose ai boiardi il taglio della barba, come dimostrazione di come la Russia guardasse l’Europa e si adeguasse alla sua modernità113. Dei costumi dell’epoca ne è dimostrazione questa tela di Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima 1728-Bologna 1782), che ritrae un giovane uomo imberbe dalla parrucca incipriata (fig. 18)114. La cipria aveva una grandissima importanza nelle acconciature maschili in quanto permetteva di schiarire il colore dei capelli nell’intento di emulare l’effetto dei capelli biondi, al tempo molto rari e quindi ricercatissimi. Anche l’abbigliamento del giovane mostra un momento di passaggio dalla sontuosa e ampollosa gravità delle vesti seicentesche, ad un’immagine di leggerezza e di morbidezza che fa abbandonare i pesanti tessuti in favore di sete, lanciate e broccate. Si diffuse in particolare il gilet corto in vita con collo alto che aveva il vantaggio di mettere in evidenza la forma slanciata del corpo. Realizzato sul retro in cotone, mostrava nella parte anteriore l’impiego di ricca seta bianca (ad imitazione del marmo) ed in seguito, come in questo dipinto, anche gialla115. L’uso della parrucca marcò profondamente la moda maschile: è interessante notare come in questo dipinto di Giovanni Battista Lampi Junior (Trento 1775-Vienna 1837) “il Canova vi è raffigurato con un ampio mantello drappeggiato di un colore fulvo-aranciato e con una parrucca di foggia ancora settecentesca”116, benché il prototipo del ritratto risalga già al 1806 (fig. 19)117. Con la caduta della monarchia portata dalla Rivoluzione francese ci si libera anche delle parrucche. In un interessante libretto dedicato alla storia della barba si dice che “Tra i vantaggi che i paesi nostri han tratto dalla rivoluzione e dal repubblicano stile” c’è la scomparsa della parrucca che porta con sè innegabili benefici: “risparmio del tempo per assestarsi il capo: e l’essere liberi dai tanti imbarazzi che seco porta l’arricciatura, mantecata, impolverata pettinatura, per cui impiegansi ferro, fuoco, droghe e chimiche manipolazioni”; gli uomini ci guadagnavano non solo in bellezza, ma anche in salute ribadendo
cfr. http://www.magistraturatributaria.it/pg081.html
113
Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima 1728-Bologna 1782), Busto di giovane con gilet color giallo oro, olio su tela, 63 x 48 cm; opera inedita.
114
C. Crivelli Traverso, Moda neoclassica romantica in Liguria, Torino 2011, p. 58
115
E. Busmanti in Maurizio Nobile. Visage en pose, ritratti dipinti, scolpiti e fotografati, a cura di A. M. Amonaci, E. Busmanti, Bologna 2008, pp. 32-33
116
Giovanni Battista Lampi Junior (Trento 1775-Vienna 1837), Ritratto di Antonio Canova, olio su tela, 60 x 50 cm; per la bibliografia si veda nota 116
117
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fig. 19
come “assai più pulita è una testa ben pettinata, libera da qualunque immondezza, e spesse volte lavata con acqua e aceto”118. L’Ottocento è un secolo travagliato, in cui le tendenze della moda
Saggio di storia sulle vicende della barba, con un’appendice sopra imostacchj, anno IX Repubblicano, Rep. Cisalpina 1800-1801, pp. 33-34.
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cambiano rapidamente e più volte, non risparmiando certo l’onor del mento. E’ interessante rilevare come la barba susciti un interesse etnografico. Nel libro La discendenza dell’uomo e la selezione sessuale, Darwin riserva diverse pagine alla descrizione della presenza e percezione della barba nelle diverse regioni della terra. Egli aveva notato come in Oriente gli uomini giurino solennemente sulla loro barba e come alcune popolazioni africane la considerino come un grande ornamento, mentre gli abitanti degli arcipelaghi di Tonga e Samoa siano imberbi e detestino il mento che ne è ricoperto119. Alla base di questa diversa considerazione della barba secondo Darwin c’è una differente concezione del bello tra le diverse razze. Secondo lo studioso ogni popolazione apprezza l’esagerazione di quelle caratteristiche di base di cui la natura ha dotato l’uomo. Per questo motivo popolazioni senza barba si danno un gran da fare per estirparla, mentre le razze barbute ne vanno fiere e la curano120. Ma la barba non è certo un semplice ornamento del volto virile, ma esprime più di ogni altra cosa nell’uomo l’appartenenza ad un pensiero, ad una corrente politica, ad una mentalità. Nel trattato della vita elegante di Balzac, Lord Brummel121 sottolinea come l’apparenza sia l’ espressione piena di una mentalità: “l’uomo si veste prima di agire, di parlare, di camminare, di mangiare. Le azioni che appartengono alla moda, il portamento, le conversazioni ecc., non sono che le conseguenze della nostra toilette [...] le idee dell’uomo rasato non sono le stesse dell’uomo barbuto. Noi sottomettiamo tutto all’influenza del costume”122. Anche un trattato scientifico sulle malattie che affliggono capelli e barba diventa il pretesto per ribadire il valore semantico di quest’ultima. Secondo Obert l’uso di portare la barba era generalizzato in Europa fino al secolo scorso, ma man mano che la forza fisica cede il posto alla forza del pensiero, anche l’importanza della barba sembra venire
“En Orient, les hommes jurent solennement par leur barbe. Nous avons vu que Chinsurdi, chef des Makalolos en Afrique, regardait la barbe comme un grand ornament. Chez les Fidjiens, dans le Pacifique, barbe est abondante et touffue, et ils en sont très fiers; tandis que les habitants des arcipels voisins de Tonga et de Samoa n’ont pas de barbe et détestent un menton velu (C. Darwin, La descendence de l’homme e la selection sexuelle, 13° ed. trad. da E. Barbier, Paris 1891, pp. 636).
119
C. Darwin, La descendence de l’homme e la selection sexuelle, 13° ed. trad. da E. Barbier, Paris 1891, pp. 636-638, 658.
120
George Brummel era un inglese di origine plebea che nella Londra di Giorgio IV impartì lezioni di bon ton e di abbigliamento all’aristocrazia e al re.
121
H. Balzac, Traité de la vie elegante, 1830 in La Mode, Milano 1982, pp. 81-82
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meno, e solo i maomettani la portano. “I popoli europei la pensano diversamente, e, a parte qualcuno che attratto dalla novità più che da qualsiasi altro motivo è spinto a conservarla, di norma si ritiene che portare la barba intera sia segno di infrazione alle regole, che fanno della pulizia la principale caratteristica della nostra civiltà”123. La barba, o meglio le diverse foggie che essa poteva assumere, erano viste come una presa di posizione precisa nei confronti della società e delle sue norme. Tra il 1822 e il 1835 la barba in Italia torna a comparire. Le basette, si veda ad esempio Cavour124, prendono il significato di fede liberale mentre i baffi caratterizzano la figura conservatrice del sovrano Vittorio Emanuele II. Di barbe folte, piene e capigliature leonine si fregiavano invece i nuovi eroi del Risorgimento italiano, come il Giuseppe Garibaldi di cui Achille Astolfi (Padova 1823 – 1900) realizza questo ritratto attorno al 1866 (fig. 20)125. Achille Astolfi, attivo fin dal 1855, fu versato nelle immagini di carattere pubblico perchè sensibile, come molti artisti della sua generazione, ad un tema come questo al quale era sottesa una forte componente patriottica. Nel XIX secolo alla creazione del “mito del Risorgimento”, cioè del momento fondante dello stato unitario italiano, si accompagna proprio questo fervore ritrattistico votato alla raccolta dei volti di coloro che parteciparono a quell’epopea e che, per ragioni anagrafiche, al volgere della fine del secolo, stavano ormai scomparendo126. Le fattezze degli uomini e le loro barbe si facevano portatrici di significati più alti, di messaggi di libertà e riscatto. Nell’aneddotica garibaldina la barba è infatti spesso menzionata proprio come attributo inscindibile dal personaggio. Alla barba “oltraggiata” di Garibaldi è dedicato questo aneddoto: “Nel 1866 il Re d’Italia invitò Garibaldi a prendere parte alla liberazione del Veneto, ma il Generale La Marmora fece sapere all’eroe dei
Les peuples du centre de L’Europe pensent aujourd’hui différement, et , à part quelques personnes que l’attrait de la nouveauté plus que tout autre motif porte parmi nous à la conserver, on s’accorde géneralement à regarder l’usage de porter la barbe entière comme une infraction aux règles qui font de la propreté un des principaux signes de notre civilisation. M. L. A. Obert, Traité des maladies des cheveux, de la barbe e du système pileux en général, présenté à l’Académie royale de médecine et à l’Académie des sciences, Paris 1848, pp. 20-24
123
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, V, p. 168.
124
Achille Astolfi (Padova 1823 - 1900), Garibaldi, olio su zinco, cm. 60 di diametro, 1866 circa, siglato AA; inedito
125
M. Gavelli, Ritrattistica e creazione del mito: i reduci nelle immagini del Museo del Risorgimento di Bologna, in “Bollettino del Museo del Risorgimento”, a. XXXIX (1994), pp.163-168, a p. 168
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fig. 20
due mondi che avrebbe mal sopportato nel suo esercito un comandante con tanto di barba e di capelli cosÏ lunghi. Garibaldi, sempre comprensivo nei riguardi della Monarchia, nei limiti consentiti dal dare all’avere, permise che il barbiere gli riducesse gli uni e gli altri di un buon sessanta per cento, dopo di che si mise alla testa del suo reparto. Una mattina si vide presentare un soldato che cadeva letteralmente nelle proprie scarpe e nei propri panni ad alle rimostranze di quello che pretendeva gli fossero dati abiti piÚ confacenti alla sua persona, Garibaldi gli disse ridendo: Che ci vuoi fare, amico mio! 57
A te troppo e a me niente! Guarda un po’ me rasato come un cane barbone127. La barba folta poteva rappresentare il simbolo tangibile di una vita consacrata alla lotta per la libertà, contro ogni convenzione, alla quale si contrappose il ligio generale La Marmora abituato alle addomesticate barbe alla “Cavour”. Un ancora più esplicito riferimento alle aspirazioni di libertà del popolo si legge in un libretto dedicato alla barba e al Risorgimento in cui si dice: “Portare i peli sotto il mento si credeva essere un segno dell’Unità d’Italia; tutta la barba, poi, era cospirazione, congiura, finimondo”. Non erano rari infatti i provvedimenti delle autorità contro chi portava barba e baffi, lascarsi crescere liberamente la peluria era spesso segno di sfida verso il sistema128. A questo tipo di barba e alla sua valenza simbolica pensava forse Antonio Soldini (Chiasso 1853-Lugano 1933) quando realizzò il magnifico busto di Guglielmo Tell nel 1883 (fig. 21)129. Guglielmo Tell è l’eroe leggendario svizzero la cui vicenda storica si colloca tra la fine del XIII ed il XIV secolo. Secondo la leggenda nel 1307 si recò nel capoluogo regionale, Altdorf, e mentre passava sulla pubblica piazza non riverì, come prescritto dalla legge, il cappello imperiale fatto erigere in cima ad un asta dal balivo Gessler. Il giorno dopo Tell fu dunque citato sulla pubblica piazza e in cambio della vita gli fu imposta una prova particolare: centrare una mela posta sulla testa del figlioletto con la freccia della sua balestra. La prova riuscì, ma le autorità scoprirono che Tell nascondeva sotto la giacca una seconda freccia, destinata al tiranno nel caso in cui avesse dovuto fallire. Tell fu allora imprigionato, ma dopo alcune fortunose avventure riuscì a liberarsi e ad uccidere Gessler. Diffusasi la notizia delle sue gesta, il popolo insorse assediando i castelli, cacciando i balivi dalle loro terre e liberando definitivamente la Svizzera130. Lontano dalla volontà di una corretta ricostruzione storica, l’intento di Soldini è piuttosto concentrato nell’immortalare la fama di questo eroe nazionale dal volto fiero e virile, i cui tratti esteriori ricordano quelli di un eroe del nostro Risorgimento, di Garibaldi in particolare.
Curatulo, Aneddoti garibaldini, 1927
127
R. Zagaria, Il pallore e la barba durante il Risorgimento Italiano, Catania 1928, p. 2; cfr. anche per i numerosi episodi di ribellione.
128
Antonio Soldini (Chiasso 1853-Lugano 1933), Guglielmo Tell, marmo, h 87 cm; per la bibliografia si veda nota seguente.
129
A. Panzetta, scheda n. 23, in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009
130
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fig. 21
Siamo dunque giunti alla nostra ultima opera e con essa alle soglie del XX secolo. La barba ormai ha riconquistato i volti degli uomini, legando il suo significato anche all’importanza del personaggio. Le barbe caratterizzano i volti di letterati e professori che le prediligono tonde, come ad esempio Carducci, ma anche gli uomini politici, come nel caso di Gregorio Aghini (Finale Emilia (Mo)1856 - Roma 1945) imprenditore e uomo politico del Socialismo immortalato nel busto in bronzo (fig. 22)131 di Arrigo Minerbi (Ferrara 1881-Padova 1960). Il personaggio sceglie per sè una cosidetta barba alla Cialdini, lunga ma ristretta al mento132, ornamento capace di suscitare onorabilità da parte degli altri, ma soprattutto, alla luce di tutto quello che si è detto sinora, segno del grande rispetto verso il proprio ruolo sociale e politico. Le vicende della barba nel XX secolo si complicano ulteriormente, ma restano foriere di cambiamenti ideologici, portatrici di pensieri talvolta contrastanti tra loro. L’arrivo della fotografia e del cinema accelera poi enormemente il cambio dei gusti e delle mode, eppure pare che ciclicamente il virile ornamento torni a imporsi sul volti del sesso forte. In questi ultimi anni sembra infatti tornata in auge: diverse sono le foggie che si incontrano per strada e sulle riviste di moda, ma in fondo a guardare bene il passato pare che non ci sia poi molto di nuovo. Già nel Seicento esistevano 50 diversi modelli di barba133, e ancora nel 1850 Melville nel suo romanzo Giacca bianca ne ricorda 25. Oggi forse nessuno si chiede più se la sua barba è a forma di picca, a stiletto o è una cosidetta barbula, perchè ignora che l’affascinante attributo di virilità vanta una storia secolare. Varrà dunque forse la pena di riconsiderare l’importanza dell’onor del mento ripercorso in questo breve e parziale excursus illustrato.
Arrigo Minerbi (Ferrara, 1881 – Padova, 1960), Busto di Gregorio Aghini, bronzo, 53x44 cm
131
R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, Milano 1966, V, p. 297
132
V. Cumming, C. V. Cunnington, P. C. Cunnington, The dictionary of fashion history, Oxford 2010, pp. 16-17
133
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fig. 22
Proverbi e detti popolari “con la barba” (*)
Farla in barba a qualcuno o a qualcosa (non tener conto dell’onore e della rispettabilità della persona o della cosa; mancare di rispetto) Vivere e mangiare alla barba di uno (vivere a sue spese) Servire uno di barba e parrucca (conciarlo per le feste) Prender Pietro per la barba (negare con insistenza) Il Barba (si dice per indicare l’uomo anziano, il nonno) Son cose che han tanto di barba (si dice per indicare le cose vecchie) Non c’è barba d’uomo che possa riuscire in tale impresa Mettere le barbe (consolidarsi) Sai quanti peli ci vogliono per fare una barba (detto di chi sa il fatto suo) A barba di pazzo rasoio ardito (esorta a mostrare i denti al temerario per rintuzzare il suo orgoglio) Dar di barba (essere curiosi dei fatti altrui) Scoprire le barbe al sole (mandare all’aria qualcosa) Rovinato nelle barbe (rovinato sino alla radice) Non la barba ma l’ingegno Rende l’uomo d’impiego degno 62
Quando la barba fa bianchino (imbianca), lascia la donna e tienti al vino. Chi barba non ha e barba tocca si merita uno schiaffo nella bocca (allude al rispetto che i giovani devono avere per gli anziani) Far la barba di stoppa (fare ad uno qualche maltorto, sopraffarlo) La barba non fa il filosofo Stare in barba di micio (stare con tutti gli agi) Una bella barba ed un cuore valente adornano l’uomo Se hai barba sii savio (gli adulti devono essere saggi) Nessuno sputa nella propria barba Solo i vili strappano la barba al leone morto Il giovane che non ha la barba al mento non ha consiglio nel cervello Barba rossa uomo infido La barba agguerrisce l’uomo Barba bagnata è mezza rasata Testa digiuna barba pasciuta (la testa si deve rasare a digiuno e la barba a pancia piena) Far la barba e il contropelo (Rimbeccare l’altrui sottilmente)
(*) le citazioni sono state tratte da: Dizionario della lingua italiana, De Agostini 1990, ad vocem G. Salveti, L’uomo e la barba dalle origini ai nostri menti, Padova 1966, pp. 55-57 G. Stafforello, La sapienza del mondo, ovvero dizionario universale dei proverbi di tutti i popoli, Torino 1883, ad vocem barba, pp. 155-157 63
Indice delle immagini
1. Pietro della Vecchia (Vicenza, 1603 - Venezia, 1678) detto anche Pietro Muttoni, Giove e Io, olio su tavola ovale, 49 x 66 cm, dipinto inedito 2. Abbiati Francesco (documentato dal 1783 al 1828), Diana e Endimione, tarsia lignea, 56,5x74 cm, fine sec. XVII; firmato Franc. co Abbiati 3. Scultore Romano, fine XVIII-inizi XIX secolo, Menelao, marmo, 93 cm; incisione sulla base Aiace 4. Nicolas Tournier (Montbéliard, 1590 – Tolosa, 1638 circa), Re Mida, olio su tela 71x54 cm 5. Pierre Gouthière (Bar-sur Aube1740- Ivry sur Seine 1813/1814) attr. a, Coppia di vasi in bronzo dorato con anse a foggia di Sileno, h 45 cm 6. Girolamo Negri, detto il Boccia (Bologna, 1648-1718), Tre teste virili; Tre teste virili, olio su tela; ciascuno 66 x 107 cm 7. Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino (Cento 1591-Bologna 1666), San Girolamo, olio su tela 60x49 cm 8. Giovanni Battista Carlone (Genova 1603-1683/1684), San Girolamo, olio su tela, 123x96 cm 9. Domenico Mona (Ferrara c. 1550-Parma c. 1602), San Girolamo con la Vergine, olio su tela, cm 55,8x40,5 10. Pietro Testa detto il Lucchesino (Lucca 1611-Roma 1650), Incendio di Sodoma, olio su tela, 54x66 cm; con monogramma
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11. Michel Corneille, (Orléans 1601 - Paris 1664), Sasone e i filistei, olio su tela, 91x98 cm; Galerie Coatalem, Paris 12. Landi Gaspare (Piacenza 1756-1830), Noli me tangere, olio su tela 70 x 97 cm 13. Alessandro Turchi detto l’Orbetto (Verona 1578-Roma 1649), San Giovanni Evangelista, olio su tela, 97,7x72,3 cm 14. Bartolomeo Passerotti (Bologna 1529-1592), Ritratto di uomo, olio su tela, cm 40,5x31,7 15. Leandro Bassano (Bassano 1557-Venezia 1622), Ritratto di gentiluomo, olio su tela cm 102x81 16. Samuel Hoffmann (Zürich 1595 – Frankfurt a.M. 1648), Ritratto di uomo barbuto, olio su tela, 50x43 cm 17. Girolamo Negri, detto il Boccia (Bologna, 1648-1718), Ritratto d’uomo con turbante, olio su tela, 61,5 x 51,5 cm 18. Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima 1728-Bologna 1782), Busto di giovane con gilet color giallo oro, olio su tela, 63 x 48 cm 19. Giovanni Battista Lampi Junior (Trento 1775-Vienna 1837), Ritratto di Antonio Canova, olio su tela, 60 x 50 cm 20. Achille Astolfi (Padova 1823 - 1900), Garibaldi, olio su zinco, cm. 60 di diametro, siglato AA 21. Antonio Soldini (Chiasso 1853-Lugano 1933), Guglielmo Tell, marmo, h 87 cm; firmato sul retro Soldini A. fece – Milano 1883 22. Arrigo Minerbi (Ferrara, 1881 – Padova, 1960), Busto di Gregorio Aghini, bronzo, 53x44 cm; firmato sul lato destro AMinerbi 1927
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Biografie brevi degli artisti in ordine alfabetico
Fig. 2
Fig. 20
Fig. 7
Francesco Abbiati (documentato dal 1783 al 1828) originario di Mondello, sul lago di Como, compì probabilmente il proprio apprendistato nella sua terra natale (forse presso la bottega di Giuseppe Maggiolini) per poi trasferirsi a Roma in un laboratorio situato in Campo Marzio. I suoi lavori sono menzionati per la prima volta nel 1787 in uno scritto apparso sul Giornale delle Belle Arti. Francesco Abbiati per le sue rare qualità d’intagliatore ricevette commissioni da tutti i sovrani d’Europa, tra i quali menzioniamo: la Regina Maria Carolina di Borbone, i sovrani di Spagna, presso i quali si trasferì per un breve periodo nel 1791, e Maria Luisa di Parma, consorte del Re Carlo IV, alla quale fornì importanti arredi. Achille Astolfi (Padova, 1823 – 1900) nacque da una famiglia borghese che lo avviò sin dalla più tenera età verso una formazione sacerdotale. Tuttavia mostrando spiccato interesse per le arti decorative si ritirò dalla vita clericale, per diventare allievo di Vincenzo Gazzotto. Presso il maestro si specializzò nel ritratto, diventando ben presto il ritrattista della Padova borghese dell‘Ottocento. Non lasciò mai la sua città natale, pur partecipando a diverse espozioni. Nel 1872 all’espozione di Treviso vinse presentando il ritratto del Principe Umberto. Nel 1884 partecipò all‘esposizione di Torino e nel 1885 espose all‘Accademia di Venezia i Questuanti, opera successivamente acquistata dall‘Accademia stessa. Fu particolarmente prolifico anche nell‘attività litografica, alla quale si dedicò tra gli anni 60 e 70 del XX secolo. Morì nella sua città natale nel 1900. Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino (Cento prov. Ferrara, 1591 – Bologna, 1666), è considerato un autodidatta, educatosi e cresciuto sulle opere di Correggio, Ludovico Carracci e della pittura ferrarese di Scarsellino e Bononi dai quali trasse la sua sensibilità, tipicamente veneziana, per il colore caldo e pastoso. A questi riferimenti pittorici va poi aggiunta una schietta inclinazione naturalistica dovuta alla pratica dell‘osservazione diretta della natura. Dopo aver ricevuto incarichi importanti tra Cento e Bologna, nel 1621 venne chiamato a Roma da Gregorio XV e nell‘arco di due anni realizza nella capitale una serie di opere importantissime, tra le quali si ricordano l‘affresco dei soffitti del Casino Ludovisi (L‘Aurora e le lunette con Il Giorno e La Notte) e la Sepoltura di Santa Petronilla per San Pietro (Roma, oggi Musei Capitolini). Il soggiorno romano corrisponde ad una correzione idealizzante verso il classicismo, sugli esempi del Domenichino e dell‘Agucchi. Rientrato a Cento riprende un‘intensa attività pittorica che a partire dal 1629 viene regolarmente registrata ne „Libro dei conti“ della sua bottega, che testimonia
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importanti commissioni in Emilia Romagna, tra le quali si ricordano i ritratti per gli Estensi a Modena e Sassuolo e la Crocifissione per la Ghiara di Reggio Emilia. Sono questi gli anni in cui si completa nella pittura del Guercino l‘adesione al classicismo: dove alla semplificazione e alla chiarezza compositiva si accompagna anche un cambiamento nella gamma coloristica tenue e delicata sotto l‘influsso di Guido Reni. Dopo la scomparsa di quest‘ultimo, Guercino trasferisce la sua bottega a Bologna (1642), dove continuerà un‘alacre attività fino alla morte avvenuta nel 1666. Leandro Bassano, detto Dal Ponte (Bassano, 1557 – Venezia, 1622), quarto figlio del noto pittore Jacopo Bassano, apprese dal padre i primi rudimenti della pittura. Fra il 1577 e il 1578 lavorò a Venezia con il genitore e, solo a partire dal 1580 cominciò a lavorare autonomamente. Nel 1588 si trasferì stabilmente nella città lagunare dove rimase fino al 1621. Nei primi anni la sua pittura fu fortemente influenzata dallo stile paterno, pur mostrando maggior attenzione al disegno e conservando una pennellata filamentosa ben diversa da quella punteggiata e robusta del padre. A Venezia venne in contatto con la pittura di Paolo Fiammingo, dal quale trasse il carattere illustrativo che caratterizza la sua pittura. Negli ultimi anni del secolo, insignito del titolo di „cavaliere“ dal doge Marino Grimani ottenne numerose commissioni. Nell‘ultima parte della sua carriera reagì al tardomanierismo veneziano, introducendo in opere come l‘Alessandro III offre il cero al doge Ziani del Pal. Ducale di Venezia, alcuni arcaismi: spiccata verticalità delle figure, volti affilati e dita lunghissime. Particolarmente importante è la sua attività ritrattistica che partendo da un‘impostazione tintorettesca, si mantenne aperta anche alla pittura emiliana. La fusione di queste due diverse tradizioni gli permise di cogliere magistralmente il carattere fisico e morale dei personaggi calati nella loro concreta realtà vissuta. Boccia vedi Negri Giovanni Battista Carlone (Genova, 1603 - 1683/1684), figlio di Taddeo e fratello minore di Giovanni, entrambi pittori, si forma a Roma e a Firenze, ma, fatta eccezione per una breve parentesi lombarda è attivo principalmente a Genova dove diventa la personalità più innovativa del barocco genovese. Le contemporanee esperienze tosco-romane sugli esempi del Baglione, dell‘Orbetto e del Passignano sono rimeditate sull‘esempio delle più avanzate personalità dell‘ambito genovese, come G. Assereto, e De Ferrari. La sua pittura è caratterizzata da un forte naturalismo, contrassegnato da una stesura di vigorosi passaggi chiaroscurali eseguiti con pennellate sfrangiate e fluide e cariche di colore. Il suo stile particolarmente seducente gli fece guadagnare importanti incarichi, tra i quali, gli affreschi della cupola di San Siro a Genova, la cappella di Palazzo ducale a Genova e la decorazione della Galleria di Palazzo Negroni con Le storie degli dèi. La data della sua morte risulta ancora controversa (1670/1683), così come il luogo, che alcuni indicano in Torino, mentre altri in Genova. 67
Fig. 15
Fig. 8
Fig. 11
Fig. 1
Michel Corneille, (Orléans 1601 - Paris 1664), detto il Vecchio per distinguerlo dal figlio anch’egli pittore e incisore come il padre. Michel Corneille fece il suo apprendistato e debutto artistico a Orléans, sua città natale, frequentando una o più botteghe di maestri probabilmente di estrazione “fiamminga”. Trasferitosi a Parigi, nel 1632 entra nell’atelier di Simone Vouet (1590-1649), divenendone rapidamente uno dei suoi collaboratori più fedeli. Amico di Eustache Le Seur (1617-1655) e di Charles Le Brun (1619-1690), trasse dalla loro pittura l‘uso di tinte limpide e chiare e il tocco delicato dell‘aulico classicismo francese di gusto archeologico e antichizzante. Nel 1648 figura fra i principali fondatori dell’Accademia Reale di Pittura e Scultura. Artista vivace e industrioso si provò anche nell’arte dell’arazzo. Fra gli arazzi creati dall’artista tuttora conservati, si segnalano la Storia di Tancredi e Clorinda, la Storia di Daphne e di Enea e Didone. Dal Ponte vedi Bassano Pietro Della Vecchia detto Muttoni* (Vicenza, 1603 - Venezia, 1678) nacque forse a Vicenza verso il 1603 e venne avviato alla professione artistica dal padre Gasparo pittore anch’egli. La formazione del giovane Pietro venne poi affidata al Padovanino. Nel 1626 Pietro sposò una delle figlie di Nicolas Régnier, Clorinda, pittrice anch’ella. Pietro Della Vecchia non dovette viaggiare molto, e quando si spostò lo fece quasi sicuramente per poco tempo. Il soggiorno a Roma agli inizi della carriera rimane ancora oggi solamente un’ipotesi anche se sicuramente conobbe i lavori di Caravaggio, subendo inoltre il forte ascendente della pittura di Bernardo Strozzi. La sua vera patria rimase dunque Venezia, dove fondò anche un’Accademia per l’educazione artistica dei giovani, all‘interno della quale si insegnavano oltre al disegno anche l’anatomia e la prospettiva. Pietro della Vecchia viene a ragione considerato l’ultimo grande maestro del tardo Rinascimento veneziano, poiché la sua opera si orienta quasi esclusivamente al modello dei grandi maestri del Cinquecento. Oltre ad una serie di lavori ‘storicheggianti’ il Della Vecchia fu celebrato dai contemporanei anche per le sue raffigurazioni grottesche, l‘alacre opera di copista, nonché per le opere di piccolo formato eseguite non su incarico. * Come ha dimostrato Aikema nella sua ancor’oggi fondamentale monografia sul pittore (1984), il cognome Muttoni viene attribuito erroneamente a Pietro Della Vecchia dal Lanzi nella sua Storia pittorica della Italia edito nel 1795-1796, e interpretato poi dalla letteratura artistica successiva come il suo soprannome.
Fig. 18
Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima, 1728 – Bologna, 1782), fratello maggiore di Gaetano pittore anch‘egli, già dal 1746 cominciò a frequentare l‘Accademia Clementina di Bologna, sotto la direzione di Ercole Lelli, mettendosi contemporaneamente a bottega da Felice Torelli. I primi esiti pittorici di Ubaldo danno prova della sua adesione alla cultura classicista seicentesca, come si vede negli affreschi di alcune sale del palazzo di Cesare Malvasia realizzate nel 1758. Un rilevante cambiamento della sua pittura attorno al 1760 fa pensare che a quelle date Ubaldo avesse raggiunto il fratello Gaetano a Venezia, accrescendo la sua conoscenza della pittura veneta. La
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grande maestria di Ubaldo consistette proprio nell‘abilità di saper fondere le due scuole, pur mantenendo vivo interesse verso la pittura fiorentina, cesenate e parmense, che incontrò nei suoi numerosi viaggi per l‘Italia. Oltre a tele chiesastiche, al pittore venivano richiesti dipinti da stanza - celeberrime le due sovraporte oggi alla Collezioni Comunali di Bologna con Diana e Endimione e Andromeda e Perseo - e importanti commissioni di affreschi, come ad es. quelli in palazzo Malvezzi sempre a Bologna. Molto attento alla rappresentazione del reale, si era cimentato anche nella realizzazione di una serie di teste di carattere per il Casali, tra le quali spiccano opere di tale qualità da poter essere annoverate tra i capolavori della pittura settecentesca europea. La precoce morte per malaria lo colse nel pieno della sua carriera a soli cinquant‘anni. Pierre Joseph Gouthière (Bar-sur-Aube 1732- Ivry sur Seine v. 1813/1814) importante fonditore e cesellatore di bronzi francese. Attivo soprattutto sotto Luigi XVI, si specializzò nell‘esecuzione di applicazioni in bronzo dorato per mobili nonchè in altre decorazioni per interni. Produsse inoltre alari, candelabri, montature per vasi e orologi a cartel. Divenne maestro doratore nel 1758 e ottenne i maggiori riconoscimenti a partire dal 1770, quando Madame du Barry gli diede l‘incarico di eseguire i bronzi ornamentali per il suo padiglione a Louveciennes. Tra il 1772 e il 1777 eseguì una parte delle decorazioni bronzee del castello di Fontembleau. In tutti suoi lavori seppe accordare fantasia negli ornati a motivo vegetale, raffinata eleganza e sul piano tecnico finitura perfetta. Firmò pochi pezzi e lo fece con una G, tra quelli firmati si ricorda la scrivania di M. Antonietta al Museo del Louvre di Parigi. Guercino vedi Barbieri Samuel Hoffmann o Hoffman (Zürich 1595 – Frankfurt a.M. 1648) allievo di Gotthard Ringgli, si trasferì ad Anversa per lavorare sotto la direzione di Rubens, distinguendosi presto fra i suoi numerosi allievi. Al suo rientro in Svizzera gli arrise un successo straordinario. Si specializzò in ritratti, nature morte di frutta e cacciagione, anche se non disdegnò dipinti storici. Giovanni Battista Lampi Junior (Trento 1775 - Vienna 1837) figlio del più noto ritrattista d‘Europa e omonimo G. B. Lampi, seguì le orme paterne iscrivendosi all‘Accademia di Belle Arti di Vienna, dove seguì gli insegnamenti di Mauser e Fuger. Lavorò a lungo con suo padre, dal quale trasse l‘abilità di trasportare in pittura le inclinazioni personali e caratteriali dei suoi ritrattati. Dopo un lungo soggiorno a San Pietroburgo si installò a Vienna, dove riuscì a distinguersi nella nobile arte pittorica fino a diventare membro dell‘Accademia di Belle Arti. Lampi si specializzò in ritratti e dipinti di genere affinando grazia e colorismo di ascendenza veneta, con la solidità del disegno derivatagli dal lungo affiancamento paterno. 69
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Gaspare Landi (Piacenza, 1756 - 1830), studiò a Piacenza presso G. Bandini, e A. Porcelli pittore di vetri. La protezione del conte G. B. Landi, con il quale intratterrà una lunga e filiale amicizia gli permetterà di completare gli studi a Roma presso il Batoni e il Corvi. Tuttavia affascinato dall‘antichità lasciò presto i maestri per dedicarsi allo studio solitario delle collezioni d‘arte antica romane. Si trattenne a Roma quasi ininterrottamente dal 1781 al 1797, venendo a contatto con i più importanti esponenti del classicismo e soprattutto con il Canova, con il quale intratterrà una solida amicizia. Dopo il 1783 la sua fortuna comincia ad affermarsi, dedicandosi sia ai dipinti di storia che ai ritratti, nei quali dimostra non consuete capacità di penetrazione psicologica. Sebbene la sua pittura mostri un‘adesione incondizionata all‘estetica winckelmaniana, nei dipinti di storia è notevole la capacità coloristica e il virtuoso naturalismo. Nel 1810 diventa membro dell‘Accademia di San Luca a Roma e nel 1817 ne diviene il principe. Nel 1829 si ritirò a Piacenza, per morirvi l‘anno successivo. Lucchesino vedi Testa Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 - Padova 1960) iniziò i suoi studi artistici presso la Scuola Dosso Dossi di Ferrara. Fu poi per lungo tempo a Firenze, da dove si trasferì per recarsi a Milano, dove venne in contatto con Adolfo Wildt. Divenuto allievo di quest‘ultimo, trasse dal maestro l‘abilità tecnica raffinatissima e l‘elevatezza dell‘ideale che Minerbi seppe però esprimere con profonda sensibilità personale ed intuitiva. Artista particolarmente fecondo, le sue opere sono oggi conservate alla Galleria d‘arte Moderna di Milano (alcuni bassorilievi in gesso raffiguranti i mestieri e i modelli in pietra delle sculture per l‘Istituto Sanatoriale Romano), alla Galleria romana d‘Arte Moderna (Mattino di primavera, 1920) e alla Galleria fiorentina (autoritratto). Fu autore di numerosi monumenti funebri realizzati anche con il maestro A. Wildt, tra questi si ricordano i rilievi per due cenotaffi in Santa Maria delle Grazie a Milano. Il Minerbi fu autore di opere commemorative, alle quali seppe conferire intensità di sentimento con grande sobrietà del mezzo espressivo sapientemente adoperato. Morì a Padova nel 1960. Domenico Mona o Monna o Moni o Monio (Ferrara c. 1550 - Parma c. 1602) allievo di Giuseppe Mazzuoli, fu un artista fecondo, dotato di una fervida immaginazione e di grande facilità di realizzazione. Le sue opere sono ubicate principalmente nelle chiese del Ferrarese, tra le quali ricordiamo: La Nascita della Vergine e La Nascita del Cristo in Santa Maria in Vado. Il livello di tanto in tanto discontinuo nella sua opera è dovuto a crisi di follia, che portarono il pittore addirittura a commettere l‘omicidio di un servitore del cardinale Aldobrandini. A seguito dell‘episodio criminoso, il Mona fu costretto a rifugiarsi a Modena. Morirà a Parma nel 1602, città che conserva - nella Cattedrale cittadina - un‘importante pala con l‘ Assunzione in cielo della Maddalena. 70
Muttoni vedi Della Vecchia Girolamo Negri (Bologna, 1648 - 1718), detto il Boccia per l‘abitudine ad abusare del vino, fu allievo dapprima di Domenico Maria Canuti e poi, dopo la partenza di questi per Roma (1672), di Lorenzo Pasinelli. Muovendosi soprattutto nel solco tracciato da quest’ultimo, acquisì una buona notorietà. Alla produzione di dipinti da altare affiancò quella privata, di soggetto sia sacro che profano: oltre al quadro con Alessandro Magno davanti al cadavere di Ciro, eseguito nel 1692 per il modenese Onofrio Campori, ora smarrito, si possono ricordare quattro tele con Storie bibliche attualmente in collezione privata nonché lo Svenimento di Ester dell’Istituto G. Ronchi di Montombraro. Gli studi recenti hanno portato alla ribalta la sua ricca produzione di “teste di carattere” sulla scia inaugurata, in base a ormai lontane ascendenze carraccesche, da Pasinelli e da Canuti. Orbetto vedi Turchi Bartolomeo Passerotti (Bologna 1529-1592), artista multiforme che pur operando entro la tradizione manierista sfugge per certi versi alle categorie correnti per la capacità di elaborare spunti che saranno sviluppati dalla successiva pittura carraccesca. I suoi inizi non sono chiari: si sa che fu attivo a Roma prima con il Vignola e poi con Taddeo Zuccari; tornato a Bologna si impose come artista colto, e strinse rapporti con importanti personaggi dello Studio bolgnese come Ulisse Aldrovandi. Oltre che alle pale d’altare si dedicò con straordinario successo al ritratto (fu ritrattista notevole e talentuoso) e poi alla scena di genere, seguendo la tradizione fiamminga ma aggiornandola con richiami alla commedia dell’arte. Nella tarda produzione si mostra altresì sensibile alle nuove esigenze della devozionalità post-tridentina. Antonio Soldini (Chiasso Svizzera , 1854- Lugano 1933), allievo di Lorenzo Vela, predilesse la lavorazione in marmo o in gesso di busti e opere animalistiche. Durante la sua carriera attende anche a monumenti funerari, ubicati a Parigi, Berna e Locarno. E‘ documentata la sua partecipazione a numerose rassegne d‘arte. Tra le più importanti si menzionano la Rassegna della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1884, dove presenta l‘importante bassorilievo in marmo dal titolo Selvaggina, ripresentato poi a Milano nel 1886; sempre a Milano espone nel 1881, due ritratti maschili; a Venezia nel 1887 presenta un gruppo di Selvaggina in marmo; espone anche a Londra nel 1888 una Natura Morta e ancora a Milano nel 1894 una Bagnante. Pietro Testa detto il Lucchesino (Lucca 1611-Roma 1650), si trasferisce a Roma giovanissimo ed entra a far parte della scuola del Domenichino dedicandosi assiduamente al disegno dell‘antico. Le opere finora rintracciate di Pietro Testa ci restituiscono soltanto un´immagine parziale del suo catalogo pittorico che, secondo quanto riferiscono le fonti, doveva essere ben più vasto. Più conosciuta e studiata è invece la sua attività nel campo della gra-
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fica e dell´incisione. L‘amicizia con Poussin ha una forte influenza sui suoi primi dipinti, mentre pare meno segnato dal breve alunnato presso Pietro da Cortona. Raggiunge il suo apice espressivo attorno agli anni 30. Cresce nel frattempo il suo interesse per i temi moralistico-filosofici, la storia antica e gli eroi, come ci testimoniano gli appunti nel suo „Trattato“. Tuttavia gli ultimi anni della sua vita bruscamente interrotta dal suicidio dell‘artista nelle acque del Tevere, si caratterizzano per ripetute delusioni, tra le quali la revoca dell‘incarico per realizzare gli affreschi dell‘abside della chiesa San Martino ai Monti di Roma. Nicolas Tournier (Montbéliard, 1590 – Tolosa, 1638 circa), la formazione di Tournier è sicuramente legata agli insegnamenti impartitigli dal padre pittore André Tournier. Un soggiorno a Roma è documentato tra il 1616 e il 1626, dove viene in contatto con il pittore caravaggesco Liegi Gérard Douffet e dove divenne allievo di Valentin. Di fatto Tournier segue le orme del maestro e di Manfredi, cimentandosi in dipinti con scene di taverna, e di tipi dalla maniera contrastata e drammatica. Le opere di Tournier a lungo scambiate per quelle di Valentin se ne distinguono per nettezza del disegno, per la sobrietà del trattamento delle forme e per uno stile più prosaico. Tornato in Francia, è documentato nel 1627 a Carcassonne e nel 1632 a Tolosa. Accanto a temi carraceschi trattò soggetti storici e sacri. Con il passare degli anni la sua pittura divenne più sobria affermando un austero classicismo in opere come il Trasporto di Cristo al sepolcro e la Madonna con Bambino al Musée des Augustins di Tolosa. Alessandro Turchi detto l‘Orbetto (Verona 1578-Roma 1649), allievo nella sua città natale di Felice Brusasorci, alla morte di questi (1605) ne ereditò la bottega. Negli anni giovanili compì quasi certamente un viaggio a Venezia, mentre tanta parte nella sua formazione dovette avere la conoscenza delle collezioni gonzaghesche di Mantova e dell‘opera di Rubens. Per la complessa formazione dell’artista determinante risulta la conoscenza della cultura bolognese, avvenuta tramite le stampe carraccesche e un probabile soggiorno nel capoluogo emiliano. Dopo il 1614 Turchi si trasferì a Roma e lavora assieme a Carlo Saraceni e Giovanni Lanfranco, alla decorazione della Sala Regia nel Palazzo del Quirinale. Nell’Urbe egli seppe ritagliarsi legami importanti; ricevette alcune commissioni dall’influente cardinale Scipione Borghese ed entrò a far parte dell’elite aristocratica romana contraendo matrimonio nel 1623 con donna Lucia del nobile casato dei San Giuliano. Nel 1618 è membro dell’Accademia di San Luca, di cui diviene principe nel 1637.
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Bibliografia sintetica per la sezione biografica:
Antiquariato. Enciclopedia delle arti decorative, Milano 1981, II Benezit E., Dictionaire des peintures sculpteurs dessinateurs et graveur, Gründ 1999 Colle E. scheda n. 26 in Ricerche di un antiquario. Dipinti, sculture, oggetti dal XVI al XX secolo, a cura di E. Busmanti M. Nobile, Bologna 2009 Dizionario della pittura e dei pittori, a cura di M. Laclotte, J. P: Cuzin, Torino 1989-1994 Gli scultori italiani, dal Neoclassicismo al Liberty, Lodi 1990 La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1990 La pittura in Italia. Il Seicento, II, Milano 1989 La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1990 La pittura in Italia. L‘Ottocento, II, Milano 1990 La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, a cura di M. Lucco, III, Milano 1992 Naldi M. schede 16-17, Il fascino dell‘arte emiliana. Dipinti e disegni dal XVI al XIX secolo, a cura di D. Benati, catalogo della mostra, („Incontro con la pittura“, 16) Fondantico, Bologna, 2008, pp. 72-73 Panzetta A., Nuovo Dizionario degli scultori italiani dell‘Ottocento e del primo Novecento. Da Antonio Canova ad Arturo Martini, Borgotaro 2003, II
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Tutti i colori della barba
Finito di stampare nel mese di Settembre 2011 da Industria Grafica Valdarnese