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Catalogo a cura di Eugenio Busmanti e Maurizio Nobile
Se mi volgo a considerare il passato, penso che vent’anni fa quando cominciai la mia attività non sarei stato in grado di allestire una mostra come quella che sono lieto di presentare oggi, con queste brevi parole. Ho pensato per il titolo alla parola ricerche per indicare quel complesso di attività, quella rete di relazioni e di conoscenze nel campo che risultano necessari a chi conduca quella difficile ma entusiasmante attività che va sotto il nome di antiquario. Valuto questo raggiungimento con l’innegabile soddisfazione che mi trasmette la disponibilità e la collaborazione degli studiosi che hanno accettato di redigere le schede del catalogo che mi dispongo a suggellare; sono tutti molto conosciuti, alcuni decisamente illustri, tutti sono i migliori specialisti del settore per il quale sono stati richiesti di intervenire. Ma poiché la vanitas è un soggetto molto apprezzato in antiquariato me ne permetto qui un piccolo esercizio. L’antiquario non è necessariamente uno studioso, anzi non lo è quasi mai, ma è guidato nella ricerca appunto e nella scelta che ne con-
segue da un intuito personale, un suo sesto senso che lo porta a elaborare un sistema indistinto e incompleto ma che non per questo è meno rivelatore di una personalità. L’antiquario è l’ideatore, gli studiosi sono i precisatori, i rifinitori, gli estensori di un pensiero che egli elabora senza le parole. Ma c’è un terzo soggetto operante oltre l’antiquario e lo studioso, il collezionista. L’azione finale e suprema è compiuta dal collezionista. Senza di lui non esisterebbe l’antiquario, studi e studiosi non avrebbero quella linfa vitale che è loro necessaria. Ormai si è capita la sinergia tra commercio, collezionismo e studi. Mi sembra che questa mia mostra realizzi questa aspirazione. Le opere d’arte infine. Il reperirle è stata di gran lunga l’azione che mi ha più divertito, e penso di averne riunito un buon gruppo. Ora la parola passa ai visitatori, ai colleghi, agli amici. Senza di loro, come ho detto, nulla sarebbe possibile. Maurizio Nobile
Il gusto di un antiquario Non so se nella casa di Maurizio Nobile siano conservate bacheche piene di stupende farfalle come nella casa parigina onusta di capolavori di monsieur Groult, che ne traeva ispirazione per la scelta dei Fragonard che aveva quasi altrettanto numerosi. Anzi, lo so, non ci sono, perché Nobile, che è un’anima sensibile e delicata e un uomo moderno, non tollererebbe nemmeno di vederle racchiuse in una smisurata serra, come faceva negli anni Cinquanta del Novecento il Re di Svezia nel suo castello di Helsingborg. Vorrebbe incontrarle totalmente libere e selvagge nella foresta amazzonica. Tuttavia se sfoglio in rapida sequenza le opere che egli ha stabilito di esporre nella mostra che ci avviamo a inaugurare, non posso fare a meno di pensare che egli sia attratto dai colori smaglianti, dalle sculture eseguite nei marmi più immacolati, dagli oggetti più rifiniti, dai materiali più scelti. Maurizio Nobile pare guidato da un gusto fastoso e nello stesso tempo raffinato, un amore tattile per gli oggetti, una speciale sensibilità per le materie che riflettono la luce, il bronzo dorato, il marmo candido, gli intarsi più serici. E a questa tipologia si attiene tutta una serie di oggetti abitualmente classificati come espressione delle arti applicate che egli considera sculture sentendo intuitivamente che quel tanto di resistenza della materia non impedisce a quei lavori di elevarsi al ruolo delle arti maggiori e della scultura. Ma tuttavia in una perorazione a favore di quello che viene, o veniva, detto “gusto antiquariale” non posso esimermi dal sognare che gli oggetti finiscano in una collezione privata ma, più ancora, in una casa. Certe case ancora, sempre meno, posseggono un incanto misterioso. Le case di un grande esteta quale lo fu nel Novecento
Charles de Beistegui, nel suo palazzo di Venezia, nel suo Castello di Groussay non lontano da Parigi, in cui arredi e dipinti splendidi si accompagnavano a copie da lui stesso fatte realizzare per rispettare la simmetria avevano una qualcosa di toccante, un’attitudine alla bellezza di cui si è persa la ricetta, ma soprattutto si è persa la volontà. Ma con l’andare del tempo si fa inevitabilmente strada nel collezionista l’aspirazione all’accesso a un manufatto più smaterializzato, affatto intellettuale se intellettuale si considera il visivo, che determina la percezione passando attraverso gli occhi organi a cui sovrintende la mente e solo essa. Per cui la storia delle forme è mera storia del pensiero, la pittura. Tengo a precisare che la scelta dei dipinti, sculture e oggetti che compongono la mostra per cui mi sono assunto la responsabilità di curatore è stata compiuta da Maurizio Nobile in prima persona. La sua personalità non tollererebbe che la sua sfera d’azione fosse invasa da altri. E d’altronde il suo gusto è troppo sicuro e il suo senso della qualità troppo spiccato perché si sia chiamati a esercitare competenze non richieste. Ho soltanto dato la mia approvazione e ho colto l’occasione di poter conoscere, riflettere e far mie alcune di quelle misteriose comunicazioni dell’esperienza umana che chiamiamo opere d’arte. La scelta che qui si precisa compiuta da colui che nel mio lessico dico l’uomo di gusto non deve essere troppo sistematica e la sola coerenza rispettata deve essere quella della qualità. Una mostra miscellanea come questa or ora realizzata è un paragrafo, una chiosa di storia dell’arte condotta per exempla. Ogni autore, ogni opera, ogni scheda è stata l’occasione per affronta-
re un problema di storia dell’arte e tentare di risolverlo. È per questo che alcuni tra i migliori studiosi in Italia nel loro campo di studi sono stati richiesti di fornire le loro competenze. Sono numerosi e non ripeto dunque i loro nomi, che figurano del resto in un foglio apposito in testa al catalogo. Invece mi è grato pensare che il catalogo del 2009 è il primo che pubblica l’accessione al ristretto corpus delle opere di grande dimensione di Donato Creti di un numero non conosciuto. Nel Giovane ignudo dormiente il grande maestro bolognese ha replicato una delle sovrapporte (o dei sovrapporta come scrive elegantemente il Benati) che compongono la serie legata alla città di Bologna dal mecenate Marcantonio Collina Sbaraglia e conservata nella sfarzosa Galleria Vidoniana, all’interno del palazzo Comunale di Bologna e di cui costituiscono il vanto, assieme agli altri dipinti del Creti. Ad esso si accompagna un fondamentale inedito di Iacopino del Conte, importante pittore del Manierismo romano di origine fiorentina, restituito all’autore da Francesca Baldassari. Ancora due inediti di speciale importanza sono il grande dipinto del Dorigny che sempre più si va configurando come splendido autore di quadri a olio dopo essere stato conosciuto soprattutto per le sue decorazioni di volte. A questa serie di dipinti reperiti si unisce un cospicuo gruppo di sculture in marmo neoclassiche e dell’Ottocento, costantemente di cultura d’accademia, che è quanto piace al gallerista. Della sua predilezione per il marmo, e per di più conservato come allo stato di nuovo, si è già detto. Allo studio di questo tipo di scultura ha applicato la sua vasta e ormai insostituibile competenza Alfonso Panzetta. La scheda relativa all’Eros del danese Stein è
stata redatta da Mirella Vivioli con una sensibilità che raramente si ritrova in compagnia di dottrina e diligenza. Un’altra scultura degna di nota è il Genio della caccia del Tenereni studiato dallo specialista dello scultore Stefano Grandesso. L’amore per le tarsie del promotore di questi studi è altrettanto inteso. Sono presenti con un esemplare eccezionale, il pannello di Filippo Abbiati e un altrettanto considerevole piano di tavolo del Seicento opera documentata al 1684 dell’intarsiatore Riccardo Bruni. Ma opera della bottega più conosciuta e celebrata, per quanto riguarda la sezione di arti applicate, è l’elemento da centro tavola a foggia di tempio circolare dei Valadier. Ad esso ha prestato la sua attenzione Alvar Gonzalez Palacios, studioso di reputazione e di prestigio indiscussi in campo internazionale. Personalmente ricorderò a lungo il sorriso della Dama di Gaspare Landi come di cosa che mi è divenuta cara, ma se posso segnalare all’interno di questa mostra di grande impegno di una chicca (parola usata, come attesta il Battaglia, dal Pulci, dal Redi, dal D’Annunzio e mi pare che basti) è il Gioco di putti, chiosato da Emilio Negro con la competenza che tutti gli riconosciamo. Quanto all’autore, Luigi Pellegrino Scaramuccia, non avrebbe forse desiderato di essere ricordato più per i succhi dell’inchiostro che per il trascorrere dei suoi pennelli sulle tele. Il suo libro, appunto, Le finezze dei pennelli italiani ammirate e studiate, pubblicato nel 1674, sarebbe stato un ottimo titolo anche per la mostra di Maurizio Nobile, antiquario in Bologna, nell’anno 2009. Eugenio Busmanti
Schede a cura di Francesca Baldassari [F.B.] Daniele Benati [D.B.] Eugenio Busmanti [E.B.] Enrico Colle [E.C.] Antonio Gesino [A.G.] Alvar Gonzales-Palacios [A.G.P.] Stefano Grandesso [S.G.] Emilio Negro [E.N.] Alfonso Panzetta [A.P.] Roberto Valeriani [R.V.] Mirella Vivioli [M.V.]
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Frans Floris (Anversa 1519 – ivi 1570)
La morte di Adone Olio su tavola cm. 70 x 90
Il giovane artista fu allievo a Liegi di Lambert Lombard. Dal 1540 risulta iscritto alla gilda di San Luca di Anversa. Dal 1541 si suppone però che abbia compiuto un viaggio in Italia di durata imprecisabile salvo che sappiamo che nel 1549 era di nuovo presente in Anversa. Quale che fosse lo spazio della sua esistenza destinato agli studi dell’arte italiana è certo che questa impresse un orma indelebile nelle sue composizioni e nel suo stile tanto che il Floris può essere considerato il
più “italiano” tra i pittori fiamminghi del Cinquecento. Sono evidenti infatti molti stilemi desunti da pittori italiani prevalentemente di intonazione manieristica fiorentina e romana, lavori significativi e di grande impegno conservati nei musei di Anversa e dell’Europa del Nord. Non sempre, quanto nel caso de La morte di Adone che si espone, il testo figurativo vale a rivelare la personalità artistica e gli intenti stilistici del pittore. La pittura, in questi casi, esattamente come un testo letterario si fa veicolo della concezione delle forme nutrita dall’artista stesso divenendo per il fruitore leggibile e interpretabile appunto come un testo scritto. Esprimiamo queste osservazioni perché la scena con la figura maschile che nell’impaginazione conferitagli dall’artista assume grandi proporzioni quasi di “fuori scala” rispetto all’inquadratura dello sfondo, rivela una desunzione da temi, positure della figura umana e trattamento della superficie pittorica che provengono dalla maniera centrale e tarda di Tiziano. La tavola si rivela così un importante aggiunta al catalogo del Floris denotandone una maniera veneziana, e tizianesca in specie. Il paesaggio che incornicia la scena è dipinto in maniera molto minuziosa, per non dire lenticolare, alla fiamminga ed è uno di quei paesaggi, che, pur fungendo da sfondo alla scena principale, determinarono l’inclinazione di molti pittori fiamminghi successivi al paesaggio puro, così nelle Fiandre come in Italia. Anche i pittori fiamminghi di paesaggio sceseTiziano, Ratto d'Europa, Boston, Isabella Gardner Museum
1 - Frans Floris - La morte di Adone
ro in Italia e idearono una maniera di paesaggismo italianato che fu poi portato, ricreato e prodotto per tutto il Seicento; così come gli sfondi paesistici di Tiziano sono all’origine del paesaggio ideale italiano di Annibale Carracci e di tutti coloro che, in questo, da lui discendono, come Domenichino, Albani e Claudio di Lorena. Nella nostra Morte di Adone la figura di Amore è di stretta derivazione tizianesca così come lo sono pure i cani che piangono il giovane cacciatore nonché il drappo sottostante la figura maschile in puro rosso Tiziano. La figura femminile condotta con una levigatezza e una intenzionalità volumetrica molto più spiccata che non quella di Adone e delle figure di contorno può avere una ascendenza toscana o romana nello stile corrente nel quinto decennio del Cinquecento ed è uno degli elementi formali che possono essere stati trapiantati nell’Europa del nord. Il Tiziano non fu autore di nessuna composizione raffigurante la morte di Adone, ma un suo allievo di nome Cristoph Schwarz dipinse un Compianto su Adone morto che si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna che consente un qualche apparentamento al soggetto del nostro quadro. [E.B.]
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Jacopino del Conte (Firenze 1515 - Roma 1598)
La Sacra Famiglia Olio su tavola cm. 88, 5 x 64,7
La tavola in esame, bella nel disegno e nella stesura pittorica, può essere attribuita, per via stilistica, a Jacopino del Conte, un pittore riscoperto dalla critica moderna grazie all'interessamento del compianto Federico Zeri che lo scelse come argomento della propria tesi di laurea, discussa nel lontano 1945. Allievo di Andrea del Sarto, del quale frequentò la bottega fiorentina, Jacopino fu attratto presto dalla pittura di Michelangelo. La sua tavola giovanile, databile nella prima metà del terzo decennio del Cinquecento, raffigurante la Madonna con il Bambino, Sant’Elisabetta e San Giovannino, già nella collezione Contini Bonaccossi di Firenze e oggi presso la National Gallery di Washington, ci rivela un pittore strettamente legato al manierismo fiorentino, secondo i modi delle rinnovate deformazioni pontormesche e michelangiolesche di Andrea del Sarto. Nella sopracitata tavola americana, come negli altri dipinti sacri restituiti dalla critica alla sua prima attività nota, appare evidente il forte ascendente esercitato su Jacopino dalle
opere fiorentine di Michelangelo e in particolare dalle sculture delle Cappelle Medicee. Non si conosce l’anno della partenza di Jacopino per Roma, città che, dopo il Sacco del 1527, tornò ad essere il centro delle imprese artistiche internazionali grazie anche alle mire di Alessandro Farnese, salito al trono pontificio, nel 1534, con il nome di Paolo III. Di datazione incerta, ma collocabile verosimilmente intorno al 1533, è la prima sua opera certa: l’affresco raffigurante l’Annuncio a Gioacchino, - parte della decorazione dell’Oratorio di san Giovanni Decollato, cui partecipò con altri due scomparti ad affresco e la pala d’altare – che attesta il passaggio di Jacopino verso il linguaggio più aggiornato della maniera. Al 1638 risale un altro affresco eseguito per l’oratorio romano: la Predica del Battista, in cui appare pienamente assorbito lo stile manierista, parallelamente a quanto andavano Jacopino del Conte, Predica di San Giovanni Battista, Roma, Oratorio di San Giovanni Decollato
2 - Jacopino del Conte - La Sacra Famiglia
facendo Perin del Vaga, Daniele da Volterra e il rivale Francesco Salviati. La tavola in esame mostra affinità stringenti con la Predica di san Giovanni Battista, facendo supporre una collocazione cronologica analoga o di poco successiva. Il San Giuseppe è utilmente confrontabile, nella fisionomia e nella gestualità delle mani, con le numerose figure dei vecchi personaggi che popolano l’affresco e il San Giovannino mostra tratti somatici marcati e capelli arricciati insistentemente come i bambini che animano l’affresco romano. Inoltre i panneggi della veste elaborata della Vergine ricadono in maniera analoga a quelli visibili in questo e nell’altro scomparto dell'Oratorio dedicato al Battesimo di Cristo, la cui datazione cade tra la fine del terzo e gli inizi del quarto decennio, poco prima del documentato e fugace soggiorno a Firenze di Jacopino nell’estate del 1547. Entro la fine dell’anno l’artista fece rientro a Roma dove si distinse non solo come pittore sacro attivo per la committenza pubblica e privata, ma anche come ritrattista. Le dimensioni della tavola in esame inducono a supporre che fosse stata destinata alla devozione privata. [F.B.]
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Frank Pauwels detto Paolo Fiammingo (Anversa 1540 - Venezia 1596)
Scena pastorale con la Lussuria fustigata dall’Invidia Olio su tela cm. 96 x 150
Sono molto scarse le notizie riguardanti la sua prima attività Fiandre del Cinquecento furono polo di attrazione artistica in patria. Nel 1561 è elencato nelle gilda di San Luca, quel- sia Roma sia Venezia. Benché gli studi non siano in possesso la dei pittori di Anversa. È opportuno osservare che per le della documentazione della formazione del pittore durante la sua giovinezza è possibile che abbia conosciuto qualche esempio di arte veneta o che sia stato invogliato o consigliato a compiere un viaggio nella città lagunare per concludervi la propria educazione artistica. La sua presenza a Venezia pare certa comunque a partire dal 1573 e, anche se il suo primo lavoro a noi noto, una Deposizione conservata alla pinacoteca di Monaco, parrebbe ispirata a opere del Manierismo romano di origine fiorentina, le opere successive sono debitrici dello stile del Tintoretto di cui fu scolaro e collaboratore dal 1573 al 1580. Divenuto veneziano di adozione elaborò una maniera personale intermedia tra il Tintoretto e il Veronese, ma volta soprattutto, negli anni maturi della sua attività, ad osservare e ricreare le composizioni raffiguranti le scene pastorali che Jacopo Bassano e la sua bottega andavano diffondendo in Europa. Tintoretto, La strage degli innocenti, particolare, Venezia, Scuola Grande di San Rocco
3 - Paolo Fiammingo - Scena pastorale con la Lussuria fustigata dall'Invidia
Il dipinto qui esposto che si situa dopo la metà degli anni ottanta del Cinquecento raffigura in realtà una scena pastorale sotto il pretesto di una allegoria moraleggiante facilmente identificabile come la punizione della lussuria. La cultura fiamminga della fine del Cinquecento era infatuata, in quello scorcio di secolo e nel successivo, di emblemi, quelle immagini concettose incise in rame che raffigurano figure simboliche di solito accompagnate da un motto, una dichiarazione o una spiegazione in versi o in prosa. La giovanile figura femminile che giace seminuda su un letto rustico in stato di grande disordine è chiaramente la personificazione della Lussuria che viene fustigata con un fascio di giunchi da una figura identificabile nell’Invidia, raffigurata, sempre secondo i dettami del Ripa come “donna vecchia, brutta, mal vestita, di colore livido” e cosi via. Un uomo a sinistra è immerso in un sonno colpevole avendo abbandonato tutti gli attrezzi del suo lavoro. Il bambino che si dispera in lacrime è sia il figlio della coppia sia Amore sconfitto. In primo piano un tavolo rotondo sul quale è disposto un ricco pasto contadino in parte consumato. Un uovo infranto è versato in una scodella, pane e formaggio sono in parte intaccati ma oramai sprecati, una pera è tagliata per metà. Su tutto aleggia lo spreco e il senso di corruzione imminente di ciò che è stato vivente. Questo contenuto di ammonimento non deve ingannare circa le reali intenzioni dell’artista. Codesti pittori veneti, o naturalizzati veneti, intendevano esperire le potenzialità offerte dalla
minuziosa esplorazione del reale, intendendo realizzare una pittura di tocco, una pittura di succhi ricchi, liquidi, colanti, pastosi e filamentosi disposti ad accumulo e con una condotta falsamente casuale. Tutte le gamme delle tinte calde, brune, dorate e rosse, di ascendenza tintorettesca sono presenti. Questo tipo di tele e soggetti posseggono anche un valore documentario della vita di contadini e braccianti che si svolgeva in capanne costruite in materiali fragili corredate da tutto un armamentario di rozzi utensili miserabili, che paradossalmente ingolosiva conoscitori molto raffinati ed esigenti. Come ha ben indicato un’esegeta di Jacopo Bassano, Livia Alberton, anche a Paolo Fiammingo potrebbe adattarsi a pieno titolo la locuzione coniata dal Longhi di “contadino per celia” per intendere “colui che dipingeva i lavori campestri per svagare i signori” (L. Alberton in Jacopo Bassano, catalogo della mostra, Bassano del Grappa e Forth Worth, Texas, 1992-1993, pg. 140.) Inedito
[E.B.]
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Giovanni Battista Carlone (Genova 1603 – ivi 1683/1684)
San Gerolamo Olio su tela cm. 123 x 96
Il dipinto raffigura San Gerolamo, Padre della Chiesa e traduttore dell’antico testamento. Nel XVII Secolo l’emaciato anacoreta ispirò brani pittorici d’intenso naturalismo, a cominciare dalla magnifica interpretazione caravaggesca della Galleria Borghese, esemplare per i seguaci del maestro lombardo e i suoi epigoni tenebrosi1. La tela in esame partecipa a pieno ti-
tolo a quest’indirizzo di ricerca illustrativa e i caratteri di stile e scrittura suggeriscono di attribuirne l’esecuzione a Giovanni Battista Carlone, avvalorando la firma scritta sul libro: “G. Ba. Carlone fecit 16..”2. “Tra i molti pittori, che in vari tempi sono usciti dalla famiglia de’ Carloni, niuno ne abbiamo avuto superiore a Gio. Battista, fratello di Giovanni, e figlio di Taddeo”: con queste parole Carlo Giuseppe Ratti3 dà inizio alla biografia del maestro, esponente di spicco dell’arte genovese tra naturalismo e barocco, la cui produzione si presenta senza un “cedimento di fantasia, fiacchezza di tinte o durezza di pennello”. L’erudito elogia altresì “l’energia meravigliosa” e “la vivezza di colorito; che niun altro suo contemporaneo l’ebbe maggiore”, riferendosi in modo particolare alle opere a fresco che decorano le chiese e i palazzi della Superba, ma altrettanto felice è la G. B. Carlone, cupola di Sant'Ambrogio, particolari Genova, Chiesa di San Siro
1 P. Caretta, V. Sgarbi, in Caravaggio e L’Europa, catalogo della mostra a cura di Vittorio Sgarbi, Milano, 2005, pp. 154 – 157, n. I. 5 2 Su Giovanni Battista Carlone si veda: L. Alfonso, I Carlone a Genova, in “La Berio”, n. 1 – 2, gennaio - agosto 1977, p. 45; F. R. Pesenti, La Pittura in Liguria. Artisti del primo Seicento, Genova 1986, pp. 143 – 158; G. V. Castelnovi, La pittura nella prima metà del Seicento dall'Ansaldo a Orazio de Ferrari, in La Pittura a Genova e in Liguria, Genova 1987, II, pp. 99 – 105, 139 - 142 [aggiornamento a cura di Farida Simonetti]; A. Dagnino, Giovanni Battista Carlone, in Genova nell’Età Barocca, catalogo della mostra a cura di Ezia Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello, Genova, Galleria Naziona-
le di Palazzo Spinola, Galleria di Palazzo Reale, 2 maggio – 26 luglio 1992, Bologna 1992, p. 117; E. Gavazza, F. R. Pesenti (Un affresco inedito per casa Spinola e il cantiere genovese di Giovanni e Giovanni Battista Carlone, in “Arte Documento” n. 7, 1993, pp. 57 – 68; M. Bartoletti, L. Damiani Cabrini, I Carlone di Rovio, Lugano 1997, pp. 156 – 189; A. Morandotti, Gli esordi naturalistici di Giovanni Battista Carlone, tra Genova e Milano, in “Nuovi studi”, 6/7, 2001/02 (2003) n. 9, p. 161 -167. 3 R. Soprani, C. G. Ratti, Vite de' pittori, scultori ed architetti genovesi, Genova 1768 -1769, II, 1768, pp. 1 – 9.
5 - Giovanni Battista Carlone - San Gerolamo
qualità delle numerose pale d’altare, che ne testimoniano l’indubbia fortuna critica. Scarno è invece il catalogo dei quadri destinati al collezionismo privato, dove il marginale intento celebrativo offriva indubbiamente una maggiore libertà creativa4. Il dipinto qui presentato manifesta l’istintivo naturalismo del pittore, contrassegnato da una stesura di vigorosi passaggi chiaroscurali eseguiti con pennellate sfrangiate e fluide, cariche di colore, che modellano l’anatomia e i panneggi, mentre la luce che cade dall’alto a sinistra pone in risalto l’espressione estatica G. B. Carlone , San Gerolamo, particolare con la firma 4 Carlo Giuseppe Ratti (cfr. Soprani-Ratti cit. p. 7) ricorda il gran numero di “tavole” appartenenti alle case private: “Per me basti dire, che le tavole del Carlone son senza fine, e di varie misure, e grandezze, e di molte figure, e di vasta composizione”. 5 Su Luciano Borzone si veda l’articolo di C. Manzitti, Influenze caravaggesche a Genova e nuovi ritrovamenti su Luciano Borzone, in “Paragone”, XXII, n. 259, settembre 1971, p. 33, dove lo studioso rintracciando una serie d’inedite tele del pittore, svela per primo lo scenario naturalista nella pittura genovese d’inizio Seicento. 6 La critica ha fatto risalire la componente culturale caravaggesca dell’Assereto all’esperienza romana, datandola quindi al periodo successivo al 1639, ma già varie opere giovanili degli anni venti, evidenziano il confronto attento con le opere di Battistello Caracciolo, Giuseppe Ribera, e dello stesso Merisi, che dovette avvenire in ambito genovese a contatto in particolare con i dipinti collezionati da Marcantonio e Giovan Carlo Doria (cfr. T. Zennaro, Sull’attività giovanile di Gioacchino Assereto, in “Paragone”, XLVI, n. 4, novembre 1995, pp. 21-61; eadem, Aggiunte al catalogo di Gioacchino Assereto, in “Paragone”
LVI, n. 64, novembre 2005, pp. 25-42). Per quanto riguarda le influenze di Matthias Stomer, la presenza di tre tele raffiguranti rispettivamente: Saul e la maga di Endor, Cristo nell’orto e la Flagellazione abbinate alla Morte di Catone dell’Assereto in Palazzo Cambiaso già Spinola in Strada Nuova (ora nella Pinacoteca di Palazzo Bianco), spiega la repentina adesione al tenebrismo meridionale del pittore genovese (cfr. A. Gesino, T. Zennaro, Tracce di Matthias Stomer nelle antiche collezioni genovesi e la pittura a “lume artificiale” in Gioacchino Assereto, in “Paragone”, cds; T. Zennaro, Gioacchino Assereto e i pittori della sua scuola, Soncino, in cds). Sulla pittura caravaggesca in ambito genovese, si veda: P. Boccardo, A. Orlando, L’eco caravaggesca a Genova. La presenza di Caravaggio e dei suoi seguaci e i riflessi sulla pittura genovese, in Caravaggio e l’Europa, catalogo della mostra (Milano) a cura di V. Sgarbi, Milano 2005, pp. 103-115; e A. Gesino, Excursus fra luce e ombra dell’attività giovanile e prima maturità di Domenico Fiasella, in “Studi di Storia dell’Arte”, n. 18, 2007, con bibliografia precedente. 7 La chiesa teatina di San Siro conserva un complesso ciclo affrescato di Giovanni Battista Carlone. Si tratta di un’impresa grandiosa, compiuta a varie ri-
e il valore simbolico del libro, rammentando le creazioni di Luciano Borzone5 e in modo particolare di Gioacchino Assereto, che nel corso del quinto decennio interpreta immagini dalla vigorosa impronta tenebrosa sull’esempio di Giuseppe Ribera e Matthias Stomer6. Queste osservazioni consentono di datare la tela al sesto decennio, vicino alla decorazione della chiesa genovese di San Siro7 e agli Evangelisti affrescati sui peducci della cupola di Sant’Ambrogio al Gesù – documentati al 1659 - dove “la forza del colorito, e l’esattezza del disegno gareggiano per lo primato"8. Un altro confronto utile a circoscrivere cronologicamente il dipinto è l’affresco raffigurante Giove e la Giustizia che
decora la galleria del palazzo di Giovanni Battista Balbi, datato da Ezia Gavazza attorno al 1655, soprattutto se si osserva la maestosa figura di Giove, che presenta interessanti somiglianze formali9.
prese nel corso di quasi vent’anni. La decorazione della calotta absidale (San Siro scaccia il basilisco) e della volta del presbiterio (Gloria di San Siro) era terminata nel 1652 (intorno al 1654 per Boggero 1978, p. 151). Al ‘57 sì data l’inizio della navata maggiore (Vocazione e Crocifissione di San Pietro, Caduta di Simon Mago) e al ‘61 della cupola.Verso il ‘70 è fissata la decorazione delle volte e del transetto (Eraclio al Calvaå1943, pp. 52 - 53; F. Boggero, Gli affreschi di Giovanni Battista Carlone nella chiesa genovese di San Siro: committenze, piano e templi di lavoro, in “Studi di storia delle arti”, 1978/79, pp. 149 -159; G. Rotondi Terminiello, M. Semino, Le volte della chiesa di San Siro a Genova. Restauro degli affreschi e dei loro supporti architettonici, in Il restauro nell’attività della soprintendenza, “Quaderno” n. 1, Soprintendenza per i beni Ambientali e Architettonici della Liguria, Genova 1978; V. Belloni, Le bombe del Re Sole (Luigi XIV) sulla cupola di San Siro, in Scritti e cose d’arte genovese, Genova 1988, pp. 192 – 193; E. Gavazza, La grande decorazione a Genova, Genova 1974, pp. 271, figg. 266 - 269; E. Gavazza, Lo Spazio dipinto, Genova 1989, pp. 77 – 145. 8 L’intervento di Giovanni Battista avviene sui precedenti affreschi del fratello
Giovanni, danneggiati da infiltrazioni d’acqua passanti dalla cupola: (Cfr. E. Gavazza, La Grande Decorazione a Genova, Genova 1974, pp. 182, 340; G. Bozzo, a cura di, La Chiesa del Gesù e dei Santi Ambrogio e Andrea a Genova. Vicende arte e restauri, Genova 2004 e in particolare si veda il saggio dedicato all’Appendice documentaria sulla chiesa e sulla Casa Professa dall’Historia Domus Professae, pp. 77 – 91, con bibliografia precedente; C. G. Ratti, op. cit. p. 2.). 9 E. Gavazza, op. cit. 1974, pp. 290 – 291, fig. 284; Agli stessi anni sì data la decorazione della cappella del Palazzo Ducale (compiuta nel 1655), raffigurante la Madonna e i Santi Protettori della città nella volta, la Presa di Gerusalemme da parte di Guglielmo Embriaco, l’Arrivo a Genova delle ceneri del Battista e lo Sbarco di Colombo (Cfr. A. Dagnino, “Per la fabbrica et ornamento della Cappella Reale”. Storie di Architetture e di arredo tra Medioevo ed età moderna, in El siglo de los Genoveses e una lunga storia di arte e splendori nel Palazzo dei Dogi, catalogo della mostra a cura di Piero Boccardo e Clario di Fabio, Genova, Palazzo Ducale, 4 dicembre 1999 - 28 maggio 2000, Milano 1999, pp. 270 – 277).
[A.G.]
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Paul De Vos (attribuito a)
Paul De Vos (attribuito a)
(Hulst, Zelanda, 1596 – Anversa 1678)
(Hulst, Zelanda, 1596 – Anversa 1678)
Cani che si contendono il pasto
Cani che si contendono il pasto
Olio su tela cm. 116 x 172
Olio su tela cm. 119,5 x 171
Profondamente inserito nell’ambiente dei pittori fiamminghi, Pau De Vos, specialista di animali, scene di caccia, nature morte e trofei, fratello del famoso ritrattista Cornelis De Vos, divenne allievo di Denis Van Hove ad Anversa e nel 1606 di David Remeeus. Nel 1611 la sorella dei De Vos, Margaretha andò sposa al già famoso Frans Snyders allievo
e collaboratore di Rubens ed anch’egli pittore animalista, il quale intrattenne lungo tutta la sua vita cordiali rapporti di amicizia e di lavoro con Paul De Vos. Inoltre Rubens fu padrino di uno dei suoi figli. Con Rubens spesso collaborò eseguendo le figure di animali dei suoi dipinti così come collaborò a quelli di Snyders. De Vos ebbe rinomanza quasi pari a quella dei pittori testé nominati. Ebbe committenti straordinariamente illustri, quasi tutta la rete dei sovrani europei, ma soprattutto i suoi lavori furono richiesti in Spagna dove ebbero molti copisti ed imitatori. Occorre dire che l’attività di tutto l’ambiente fiammingo che ruotava ad Anversa intorno a Rubens è da intendersi un lavoro pressoché collettivo di quella che oggi chiameremmo una equipe pur sotto la lata supervisione e P. De Vos, Horse attacked by wolves, Solingen, K. J. Müllenmeister
5 - Paul De Vos - Cani che si contendono il pasto
5 | 6 - Paul De Vos e bottega - Cani che si contendono il pasto
vigilanza del maestro, più che come frutto di una individualità spiccata. Queste botteghe che si avviavano a diventare sempre più accademie o università della pittura avevano decine di allievi indistinguibili uno dall’altro in un epoca in cui il concetto di autografia rigidamente inteso non era ancora comparso. Alla luce di queste considerazioni è spiegabile la vastissima produzione di Rubens e della sua scuola dispiegantesi spesso in tele di una vastità incommensurabile, con un dispendio di mezzi figurativi, una prodigalità di materia cromatica, una dovizia di particolari e di rifiniture tali da non aver conosciuto l’eguale in nessuna altra epoca e in nessun’altra scuola. Le composizioni di Paul De Vos trattano gli animali con la stessa cura che se fossero soggetti di figura umana, con un’armonia mirabile cui la luce sapientemente diffusa conferisce una vita e uno splendore intensi. Le scene di caccia di De Vos e Snyders così come quelle di Rubens che pure si provò in questo genere sono alcuni dei momenti più alti del Barocco inteso come il periodo della storia della pittura europea. Vi si riscontra un sentimento drammatico, una rappresentazione del movimento, una esuberanza di vita che è stata raggiunta soltanto in pochi altri vertici dell’universo barocco. A buon esempio di ciò che abbiamo detto sono questi ritratti di cani con i loro mantelli realisticamente descritti, così come realisticamente è descritta la ferocia dei loro istinti, brani di un verismo apparente che, filtrato dal
medium della pittura, perde ogni carica di sgradevolezza, esattamente come altri generi dello stile barocco quali le battaglie, le tempeste, la vita dei diseredati, che divenivano quadri da salotto. In queste nostre scene della vita di alcuni esemplari di cani un grande molosso e cani di altre razze si contendono porzioni di carne e interiora sanguinolente che assurgono a brani-esempio delle potenzialità offerte dalla natura morta nella quale anche Paul De Vos ebbe ad eccellere. Inediti [E.B.]
6 - Paul De Vos - Cani che si contendono il pasto
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Giovan Francesco Romanelli (Viterbo 1612 - ivi 1662)
Allegoria della Fama Olio su tela cm. 191 x 137,5
Non appare di prima agevolezza la decrittazione del presente imponente dipinto del Romanelli. La figura femminile alata ovviamente personifica la Fama secondo le prescrizioni dall’Iconologia di Cesare Ripa “Donna vestita d’un velo sottile succinto à traverso, raccolto a meza gamba che mostri di correre leggiermente, averà due grand’ali, […] nella destra mano terrà una tromba, così la descrive Virgilio” (cfr. C. Ripa, Iconologia, a c. di P. Buscaroli, Milano, Tea, 1992, p. 124) incrementata dall’adagio Fama volat, poiché la figura si libra nell’aria. Nella mano sinistra tiene una corona di lauro, che nell’antichità greca veniva assegnata anche a chi aveva particolari meriti verso lo Stato. A destra nel dipinto si eleva un altare cilindrico guarnito da uno stemma sovrastato da una corona e nel cui campo compaiono le tre stelle a sei punte appartenenti
alla divisa araldica del Cardinal Giulio Mazzarino. All’altare è appoggiata una mazza, anch’essa appartenente all’arma del porporato, così come da esso pende la decorazione dell’Ordine di Malta con la consueta croce bianca. Sull’altare sono infine posti un galero cardinalizio e due corone, come ad intendere forse che la reggenza del Cardinale si estese tra il regno di Luigi XIII e quello di Luigi XIV. Si tratterebbe dunque di una glorificazione del Cardinal Mazzarino, analoga al disegno del Romanelli stesso da cui è tratta l’incisione di F. Poilly raffigurante l’Allegoria di Giulio Mazzarino. Elementi allegorici attinenti alla gloria del Cardinal Mazzarino sono presenti nel grande affresco sulla volta della Galleria di Palais Mazarin a Parigi, oggi sede della Biblioteque Nationale, senza che vi si riscontri una corrispondente figura con la Fama. Il Romanelli eseguì un’altra più semplice figura della Fama, oggi in collezione privata, ma la nostra raffigurazione, certamente ispirata all’Apollo e Dafne del Bernini, trova puntuale riscontro in una Maddalena e in un Borea rapisce Orizia, entrambi in collezione privata (cfr. M. Fagiolo dell’Arco, Pietro da Cortona e i cortoneschi, G. F. Romanelli, Allegoria dell'Inverno, 1640 ca., collezione privata G. F. Romanelli, Borea rapisce Orizia, 1640 ca., collezione privata
7 - Giovan Francesco Romanelli - Allegoria della Fama
Gimignani, Romanelli, Baldi, il Borgognone, Ferri, Milano, Skira, 2001, pp. 111-124, ill. 56, tav. IX e 49, tav. XXVI). È curioso che Pietro da Cortona che viene indicato come il principale esponente della pittura “barocca” in Italia sia stato “tradito” proprio da Giovan Francesco Romanelli, forse il migliore dei suoi allievi, che divenne un pittore classicista. Questa svolta viene attuata con un accentuato schiarimento delle tinte, un’aspirazione al nitore delle forme, alla precisione del disegno. “Egli adopera di preferenza colori semplici tra i quali, suoi e tipici, gli azzurri e i rossi, inimitabili per intensità e splendore, scandiscono le note più acute” (Faldi). Raggiunge così uno “stile alto”, aulico e solenne che fu quello, latamente originatosi dai bolognesi in generale e dal Domenichino in ispecie, che altrettante sboccò nella superba maniera del periodo centrale del Reni e in quella del Guercino tardo, ai quali il Romanelli risulta non avere granché da invidiare in quanto a classe ed eleganza. Per entrare nella vexata questione (poiché il Romanelli
ad un’attenta valutazione pare essere stato artista di gran lunga superiore a quanto si sia finora supposto), se cioè il pittore sia stato o abbia influenzato il grand goût francese successivo al suo soggiorno a Parigi tra il 1646 e il 1648, epoca cui presumibilmente è da riferirsi la nostra Fama, penso che il Romanelli sia stato bensì influenzato dalla pittura francese, ma in Italia, con lo studio delle opere di Nicolas Poussin. Come avvenne al Gimignani, di origine cortonesca e contubernale del Romanelli, ma diventato poi pussiniano di stretta osservanza. E come “pussiniano” il Romanelli può avere influenzato la pittura francese. Inedito [E.B.]
G. F. Romanelli, La Maddalena nel deserto, 1650 ca., collezione privata
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Eberhart Keilhau detto Monsù Bernardo (Elsinore 1624 - Roma 1687)
La Sacra Famiglia riceve dall’Angelo l’ordine di fuggire in Egitto Olio su tela cm. 147 x 222
Divagando conversevolmente di artisti e momenti della pittura non si può fare a meno di dichiarare che pittori come Monsù Bernardo ebbero udienza e molto piacquero presso menti insigni della storia dell’arte come Roberto Longhi e a tutto un ambiente collezionistico e un gusto che molto fiorì a partire dalla metà del '900. È tutto un ambiente di pittori di origine nordica che finirono per venire identificati come realisti, i pittori della realtà per ripetere il titolo di una celebre mostra: il danese Keilhau (ribattezzato Monsù Bernardo nella sua permanenza a Venezia presso i Savorgnan, tra il 1652 e il 1656), il Bamboccio (Pieter Von Laer da Haarlem a Roma dal 1625 al 1638), lo Sweerts (da Bruxelles a Roma nel 1646, per dieci anni) che si trovarono a Roma in un giro abbastanza ristretto di anni, poiché anche Monsù Bernardo vi arrivò nel 1656. Non abbandonò più la città dei Papi, sposò la figlia di un pittore italiano, fu riabbracciato da Santa Romana Chiesa, ritornando cattolico da protestante che era. Il Caravaggismo non era evidentemente così passato di moda a metà del Seicento che non ne permanessero in vita l’amore per il contrasto di luci e di ombre nella costruzione delle figure di un dipinto e l’aspetto più esteriore del movimento caravaggesco: l’attingere a modelli reali, individui del popolo, frequentatori di taverne, i rappresentanti della plebe cittadina, tutta quella che fu definita la pittura della realtà, oltre che naturalismo o pittura di genere.
Non si tratta di un vero e proprio realismo, come lo fu ad esempio quello di Vermeer che circonda i suoi personaggi degli oggetti della vita quotidiana e li racchiude nelle loro case, rese con una precisione assoluta. Senza essere lenticolare, e in una luce incorruttibile, la sua è una pittura di tocco, compiaciuta del virtuosismo nell’accumulare materia. E questo è l’aspetto che ha finito per piacere di più ai conoscitori componenti la posterità. Monsù Bernardo finisce per annoverare, secondo la bella ed esaustiva monografia di M. Heimbürger, Bernardo Keilhau detto Monsù Bernardo, Roma, Bozzi, 1988, un numero infinito di giovani con cesti (di fiori, di frutta, di castagne, di volatili) giovani, giovinette, bambini dormienti, di cacciatori, vecchi con attrezzi da lavoro (di tutti i tipi) e così via all’infinito. Con una resa sempre compiaciuta di panni pesanti, drappeggi, veli, tessuti più o meno sbrindellati e sfilacciati, barbe di vecchi (che si apparentano molto a quelle del napoletano Maestro dell’Annuncio ai pastori, del resto coevo), capelli e cappelli. Un elemento molto frequente è un canestro, una cesta, una scatola di vimini o di giunco intrecciato che il pittore sembra prediligere anche per il colore dorato in cui la riproduce. Il materiale è presente anche nella nostra Sacra Famiglia in cui San Giuseppe è sorpreso nell’atto di impagliare una sedia dall’angelo inviato da Dio che gli ingiunge di intraprendere la fuga in Egitto, mentre la Madonna ha tratto il Bambino da una culla in vimini, da poveri, per vezzeggiarlo o forse allattarlo. Un soggetto raro, trasformato in una scena di genere, nello stile e nella fattura pit-
8 - Monsù Bernardo - La Sacra Famiglia riceve dall’Angelo l’ordine di fuggire in Egitto
torica tipica e inconfondibile di Monsù Bernardo, dovuto certamente a una commissione privata e per l’impegno e per le grandi dimensioni. Un unicum anche per il fatto che rarissime sono le prove di Monsù Bernardo nella pittura sacra. Si riproduce per confronto la sola Sacra Famiglia conosciuta oltre alla nostra, di altissima qualità pittorica, tratta dal libro della Heimbürger. Dimenticavo: il merito principale di Monsù Bernardo fu di avere aperto la strada a Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto per l’aver anch'egli molto raffigurato mendichi e, per l’appunto, pitocchi, ma con ben altro movimento dell’animo e partecipazione morale. Per significare poi tutto quel gusto collezionistico per le scene Monsù Bernardo, L'adorazione dei pastori, di genere prese dalle strade e dal mondo dei diseredati valga Losanna, collezione privata una bella frase scritta dal Carducci: “L’entusiasmo dell’arte era forse la cagione che quei nobili pittori spagnoli si godessero lo stesso, sì a ritrarre fedelmente un pitocchetto nell’atto di spidocchiarsi, sì a figurare la Vergine benedetta”. Inedito [E.B.]
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Giovanni Antonio Scaramuccia (Perugia, 1570/80 - ivi 1633)
Cupido con putti musici e danzanti Olio su tela cm. 195,5 x 121,5
Il dipinto è ben conservato e raffigura un tema inconsueto quanto benaugurante, tratto da una citazione derivata dalla statuaria classica che sottolinea la cultura archeologizzante dell’artista: sette putti che danzano allegramente accompagnati dalle note prodotte da una zampogna e dal ritmo dei colpi battuti da un tamburello, suonati da due di loro; sullo stesso lato, un po’ meno visibili dietro alle spalle dei putti musicanti, si distinguono Cupido munito di arco, faretra e frecce, e un suo compagno che con la mano sinistra indica l’orizzonte. Il dio Amore, Eros per i greci e Cupido per i latini, era il nume volubile armato di dardi che colpiva le sue vittime alla cieca, facendo scoccare a suo capriccio il sentimento amoroso. Sullo sfondo della tela si scorge un paesaggio con una insenatura marina percorsa da due galere e da altre vele, mentre a destra, sulla cima della collina, si vedono un pastore e i suoi armenti. I marcati caratteri stilistici della tela indicano che siamo dinanzi all’opera di un valente pittore italiano attivo nei decenni turbolenti a cavaliere tra il XVI e il XVII secolo, un artista che evidenzia un’aggiornata cultura tardo-manierista, inequivocabilmente centro-italiana, con palesi ascendenze baroccesche e manifesti contatti con la pittura di Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio e di Giovanni Baglione. Si tratta perciò di un maestro ben informato sulle novità pittoriche del tempo che produsse un linguaggio lucidamente evocativo, arricchito inoltre da legami con la cultura figurativa dei Carracci e di Guido Reni, come rivelano i decisi sbattimenti di lume, la tipologia
dei nudi carracceschi e la particolare apertura paesaggistica tipicamente reniana. Sono queste le ragioni non sottovalutabili che convincono ad attribuire questa gioiosa composizione a Giovanni Antonio Scaramuccia, il bravo maestro umbro che dopo un esordio pittorico nell’ambiente locale cittadino - dunque in contiguità di intenti con la pittura dei barocceschi perugini -, si trasferì a Roma, dove fu conquistato dalla pittura carraccesca (Pascoli, 1732, pp.180-184); successivamente divenne scolaro e collaboratore del citato Pomarancio, con il quale lavorò nelle decorazioni per il Santuario di Loreto, ed anche amico e sostenitore del grande Reni, all’arte del quale indirizzò il suo bravo allievo Gian Domenico Cerrini (Toscano, 1980, ad indices; Mancini, 1981, pp.367-404). L’origine centro-italiana di Giovanni Antonio Scaramuccia è ovviamente fondamentale per chiarire le particolari tendenze culturali che sono il presupposto della sua composita espressività pittorica: un colto eclettismo che, anche nelle sue raffigurazioni, diventa il tramite principale per lo studio e l’attuazione di un pensiero visivo vagamente visionario, in cui egli riversa il proprio cerebralismo di maestro tardo-manierista che richiama a tratti i toni della robusta retorica sacra di Pomarancio e la più edotta cultura controriformata bolognese. Questa rappresentazione fanciullesca, originale e festosa, vagava nel limbo dei quadri anonimi finché ho ritenuto di poterla accostare all’ultima maniera di Roncalli e conseguentemen-
9 - Giovanni Antonio Scaramuccia - Cupido con putti musici e danzanti
te di farla rientrare nel catalogo delle opere del suo allievo Giovanni Antonio Scaramuccia. Il nostro Cupido con putti musici e danzanti denota infatti analogie evidenti con altre tele pittore umbro, come ad esempio la Giuditta (Roma, Galleria Pallavicini) e soprattutto la Madonna col Bambino in gloria tra S.Domenico e la beata Colomba da Rieti (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria; Mancini, 2005, pp.108109) /fig.1/, le cui date d’esecuzione - intorno alla fine del primo decennio del Seicento - dovrebbero corrispondere all’incirca a quella del nostro dipinto. Quest’ultimo, in conseguenza di ciò, sarebbe stato eseguito negli anni della prima maturità di Scaramuccia, quando egli sentiva maggiormente l’affinità con le opere di e Guido Reni, G.A.Scaramuccia, Madonna col Bambino in gloria mentre manifestava un ampliamento tra S.Domenico e la beata Colomba da Rieti, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. di esperienze figurative derivato dalla conoscenza delle pitture di Giovanni Baglione.
Bibliografia Generale: L.Pascoli, Vite de’ Pittori, Scultori e Architetti Perugini, Roma, 1732, pp.180-184; B.Toscano, Pittura del ‘600 e ‘700. Ricerche in Umbria 2, Treviso, 1980; F.F.Mancini, “Profilo di Giovanni Antonio Scaramuccia”, in Arte e musica in Umbria tra Cinquecento e Seicento, Atti del XII convegno di studi umbri (Gubbio-Gualdo Tadino, 1979), Perugia, 1981, pp.367404; F.F.Mancini, in Gian Domenico Cerrini, Milano, 2005, pp.108-109. [E.N.]
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Giovan Francesco De Rosa detto Pacecco De Rosa (Napoli 1607 - ivi 1656)
Amore e la Primavera offrono doni a una sposa Olio su tela cm. 130 x 200
Caravaggio fu a Napoli nel 1607 e Domenichino vi fu nel 1631, intreccio di grandi artisti e capolavori si orientò tutta la vicennon si può immaginare antitesi artistica più marcata sulla me- da di Pacecco, senza un viaggio, senza un’esperienza esterna, desima scena artistica. Tra questi due opposti evolve la vicenda come in un nido in cui si reperissero tutti i fermenti o le suggedelle forme di Pacecco De Rosa, figlio del pittore Tommaso, stioni pronti solo ad essere recepiti e bastevoli a tutte le innovazioni, evoluzioni e tendenze, in uno cognato di altri pittori: Agostino Beldei luoghi più ricchi e artisticamente trano e Juan Do (il supposto Maestro fecondi dell’Occidente intero. Se si dell’Annuncio ai pastori), figliastro osserva lo scalarsi in sequenza dei e discepolo di Filippo Vitale. Come lavori di Pacecco si vedrà che egli aba dire un precoce inizio familiare, braccia e modifica varie tendenze per nel robusto filone del caravaggismo poi abbandonarle e perfino ritornarvi napoletano, che nella città annovera successivamente. Se poi si osservano altri artisti di prima grandezza quali i volti di quei San Gennari, di quelle Battistello Caracciolo e, se vogliamo, Madonne, di quelle dee e ninfe vi si anche il Ribera, detentore di elementi vedrà quel popolo di Napoli, di un crudamente naturalistici. Un succescarattere antico, ricorrente, immusivo alunnato presso l’importante autabile, che sempre si riproduce e ritore Massimo Stanzione condussero nasce, come i pini e i lecci su quelle Pacecco ad abbracciare la tendenza terre di vulcani. E in una cotale Naclassicistica di matrice reniana, filpoli del Seicento non sfigurerà quetrata attraverso gli esperimenti della sta nostra Allegoria in cui il cane, in scuola romana, d’intorno al 1630. basso a sinistra, allude alla Fedeltà, Anno che fu di svolta anche a NapoCupido all’Amore e la Primavera a li: vi giunsero infatti Velasquez (solo una giovinezza incorrotta come la freper anno) e Artemisia Gentileschi schezza dei fiori che vengono offerti (per più di vent’anni, e fino alla mor- Pacecco de Rosa, Flora, alla giovane nubente. Nei drappeggi è te). In questo composito e complesso Vienna, Kunsthistorisches Museum
10 - Pacecco De Rosa - Amore e la Primavera offrono doni a una sposa
altresì evidente la resa minuziosa dei tessuti delle vesti secondo un gusto derivato da Artemisia Gentileschi. Non esistono altri esemplari pubblicati della presente composizione di Pacecco De Rosa, risultando viceversa stringenti il confronto, in quanto a iconografia, con la Flora del Kunsthistorisches Museum di Vienna e, per la tipologia del volto femminile della sposa, l’analogia alla Madonna della Sacra Famiglia in collezione privata a Napoli (cfr. V. Pacelli, Giovan Francesco de Rosa detto Pacecco de Rosa, Napoli, Paparo edizioni, 2008, p. 340 n.76 e p. 366 n. 106) il che determina la collocazione cronologica dell’Allegoria al 1645 circa. I fiori potrebbero essere stati eseguiti da uno specialista, come è più volte documentato che avvenisse, ma non è da escludere che Pacecco volesse talvolta farsi fiorista in proprio, ritenendosi, secondo i pregiudizi accademici, i fiori, la cosa più facile da fare. [E.B.]
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Louis Dorigny (Parigi 1654- Verona 1742)
Susanna e i vecchioni Olio su tela cm. 210 x150
Figlio dell’incisore Michel Dorigny e della figlia di Simon Vonet, mancato cinque anni prima della sua nascita, fu posto giovinetto alla scuola di Charles Le Brun, il principale discepolo dell’illustrissimo nonno, e quanto meno gli sarà stata istillata l’idea che la pittura di volte possa essere un genere praticato con onore e nobiltà. A diciassette anni intraprese quel cursus honorum che doveva portarlo a diciotto anni compiuti (1672) a Roma tra i pensionanti dell’Accademia di Francia. Vincitore anche di un premio dell’Accademia di San Luca, il che ne assevera il fondato sviluppo accademico, nel 1676, quando parrebbe trascorso il periodo, neppur breve, di studi italiani, invece di fare ritorno a Parigi, dopo più di un anno di peregrinazioni nell’Italia centrale, giunse nella Repubblica di Venezia, donde non si sarebbe più mosso, prendendovi anzi moglie. Per quanto decaduta o quanto meno avviata a un’irreversibile decadenza, la Venezia del tardo Seicento era tuttavia tutt'un fervore di opere e anzi il sublime fiorire di Tiepolo e Canaletto doveva ancora venire. Non si possono trascurare a questo punto gli innumerevoli soffitti decorati dal Doringy, attività iperdocumentata oggi dalle ricerche di due giovani studiosi, Massimo Favilla e Ruggero Rugolo, (in calce al catalogo della mostra Louis Doringy a c. di G. Marini e P. Marini, Verona, Marsilio, 2003) ma ancora mal illustrata, qua e là in alcuni libri. Ma quando ci si imbatte in qualche particolare di quegli affreschi (voglio relazionare da dove io abbia veduto riprodotta la splendida scena con Pan che scopre Siringa, a Treviso in pa-
lazzo Calzavara Giacomelli: E. Martini Le pitture del Settecento veneto, Udine, 1981, fig. 356) si potrà dire che Dorigny è artista di grande rilevanza. Si converrà che Dorigny abbia meritato la considerazione che di lui ebbe il giovane Gianbattista Tiepolo quando iniziò la sua fantastica carriera. E anzi i tanto deprecati (dal Longhi) “panneggi in carta da pacchi” nascono qui, nascono con Dorigny, in quelle campiture deterse con cui rende le stoffe, rialzate in pennellate larghe di bianco, in certi azzurri a contrasto con certi ranciati in cui si affievolisce la lontana eco del pussinismo primordiale. A questo punto occorre dire che la locuzione Dorigny frescante apparirà sempre meno tautologica, per riannodarsi alla simpatica metafora di Paola Marini, dopo l’importante accessione al catalogo dei dipinti mobili del pittore di questa grande Susanna e i vecchioni, che a tutt’oggi risulta essere il capolavoro assoluto dell’artista tra i dipinti a Olio su tela. Il formato orizzontale e le misure lascerebbero pensare ad un quadro da “portego” e dunque avrebbe, o avrebbe avuto un pendant, anche se il soggetto audace e audacemente trattato induce alla perplessità. Del presente dipinto A. Pasian ha reperito il disegno preparatorio, conservato presso la fondazione Giorgio Cini in Venezia, che ha pubblicato in Asterischi per Louis Dorigny: novità, correzioni, proposte in "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 31, 2007 (in corso di stampa). Lo ringraziamo vivamente per avercelo segnalato.
11 - Louis Dorigny - Susanna e i vecchioni
In questa nostra composizione paiono raccolte tutte le suggestioni del tardo barocco veneto e direi perfino europeo, accompagnate da un arzigogolo di positure scalene quasi neomanieristiche, anche se in quelle carni così a contrasto dei drappi maschili si sente che Rubens non è passato invano. Vicinissimo alla nostra Susanna è il quadro raffigurante Venere e Cupido, n. 4 del citato catalogo. Di questo dipinto si può scrivere, come ha scritto pungentemente Sergio Marinelli di una Galatea in collezione privata che fu eseguita “per le richieste erotiche di uno sconosciuto committente”. Parole che si possono estendere senza fatica al dipinto che qui si espone. Quanto alla datazione, il 1685 proposto a quel dipinto potrebbe accostarsi anche alla nostra Susanna. Anche se quel metodo praticato costantemente dagli storici dell’arte di datare un dipinto assimilandolo ad un altro analogo e sicuramente datato mi convince L. Dorigny, Susanna e i vecchioni (recto), fino a un certo punto. Inedito
Schizzo per Susanna e i vecchioni (verso) 183 x 245 mm. Matita nera e matita rossa, carta bianca ingiallita Raccolta Giuseppe Fiocco, Venezia, Fondazione Giorgio Cini
[E.B.]
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Francesco Monti detto il “Brescianino”
Antonio Calza
(Brescia 1646 - Parma 1703)
(Verona 1653 – ivi 1725)
Scontro fra cavalieri turchi e cristiani
Battaglia fra cavallerie europee
Olio su tela cm. 89 x 131
Olio su tela cm. 89 x 131
Attribuite a Francesco Monti e Antonio Calza da Marco Chiarini, le battaglie in esame sono concepite a “pendant”, come suggeriscono le dimensioni del supporto e la comune tipologia delle corniJ. Courtois detto "il Borgognone", ci. Entrambe esibiscono caBattaglia tra cristiani e turchi con torre, ratteri iconografici desunti da collezione privata Salvator Rosa (Napoli 1615 – Roma 1673) e Jacques Courtois detto il “Borgognone” (St. Hyppolite 1621 – Roma 1676), celebri autori delle cosiddette “battaglie senza eroe”, da cui deriva il carattere dinamico di questo tipo di scene e la peculiare struttura delle composizioni, dove la statica
concezione d’Aniello Falcone (Napoli 1607 – 1656) e gli intenti celebrativi del Cavalier d’Arpino (Arpino 1568 – Roma 1640) lasciano spazio ad immagini di cruento realismo, in linea con il gusto collezionistico barocco1. La tela con lo Scontro fra cavalieri turchi e cristiani è opera distintiva del Brescianino, le cui prime notizie biografiche sono offerte dall’Abecedario Pittorico dell’Orlandi2, che ne documenta l’apprendistato presso Pietro Ricchi a Venezia e il Borgognone a Roma, e ci narra di una vita trascorsa ad inseguire fortuna e fama nelle principali città della penisola, servendo “di sue operazioni molti principi e cavalieri”, con soggiorni a Genova, Napoli, Piacenza e Parma3. Peculiare del pittore è la rappresentazione del combattimento in primo piano, descritto con vivacità cromatica e un’attenta regia scenica, dove grumi di nuvole si amalgamano a fumi densi, ponendo in risalto il vortice di violenza
1 La definizione “battle scene without a Hero” si deve a Fritz Saxl, che individua in Aniello Falcone l’artefice di battaglie il cui tema è fine a se stesso. Ne trassero influenza Salvator Rosa e Jacques Courtois che svilupparono in senso moderno il genere battaglistico (cfr. F. Saxl, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 1939 – 1940, p. 70). Specialmente con Salvator Rosa il quadro di battaglia diviene protagonista della quadreria seicentesca, non più soggetto con semplice funzione decorativa, ma opera autonoma e degna di comparire in una raccolta (cfr. M. Chiarini, Battaglie. Dipinti dal XVII al XIX Secolo nelle Gallerie fiorentine, catalogo della mostra, Firenze 1989, pp. 87 – 88); con il Borgognone il tema diviene realistico e i suoi quadri ispirano un’aria di verità vissuta, che l’artista acquisì in Lombardia svolgendo la professione di soldato nell’esercito spagnolo. 2 P. A. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna 1704, p. 166.
3 Il primo studio moderno sul Brescianino si deve a Ferdinando Arisi: F. Arisi, Il Brescianino delle Battaglie, Piacenza 1975.La fortuna del pittore fu straordinaria: nel 1670 è documentata la sua presenza presso la corte di Parma ove restò dal 1681 al 1695. Gli inventari medicei indicano ben sei dipinti del Brescianino e nella Galleria Palatina figuravano altre quattro grandi tele di soggetto militare (cfr. M. Chiarini 1989, op. cit.). Si deve ricordare che il Brescianino si emancipò rispetto agli insegnamenti del Borgognone, dedicandosi altresì alla pittura di figura e paesaggio ed eseguendo affascinanti fortune di mare ispirate a Pieter Mulier. 3 Si veda: G. Sestieri, I pittori di battaglie, Maestri italiani e stranieri del XVII e XVIII Secolo, Roma 1999, pp. 228 – 257, figg. 15, 22, 23, 27 e M. Chiarini 1989, op. cit. 4 Cfr. Sestieri 1999, op. cit. pp. 228 – 229.
12 - Francesco Monti detto il “Brescianino� - Scontro fra cavalieri turchi e cristiani
12 - Francesco Monti detto il “Brescianino” - Scontro fra cavalieri turchi e cristiani | 13 - Antonio Calza - Battaglia fra cavallerie europee
che trova il suo apice al centro, con il cavaliere che vibra colpi di spada, secondo un’intonazione realistica desunta dal Courtois, dove spiccano la vivacità delle vesti, i riflessi metallici dei finimenti, e “par J. Courtois detto "il Borgognone", vedervi il coraggio che comBattaglia di cavallerie europee, batte per l’onore e per la vita”4. Vienna, Heeresgeschichtliche Museum Diversa è invece la struttura compositiva della Battaglia fra cavallerie europee, caratterizzata da un’intervallata disposizione dei protagonisti e un ampio paesaggio. La stesura - accorta a definire i piani prospettici e le differenti condizioni di luce - suggerisce un’attribuzione a un artista settentrionale e addentro il XVIII secolo, che possiamo riconoscere in Antonio Calza, la cui produzione è stata recentemente indagata da Giancarlo Sestieri5. La scenografia, aperta al centro con le due ‘quinte’ di cavalieri in primo piano, è propria del maestro veronese, come si può arguire osservando le opere autografe, contraddistinte da una bassa linea d’orizzonte e un cielo ampio solcato da nuvole e coaguli di fumo sprigionati dalle artiglierie, che confondono il profilo delle città in lontananza e dei fortilizi. Come la maggior
parte dei pittori di battaglia, il Calza condusse una vita errabonda, spostandosi in continuazione tra Bologna, Milano, Venezia, Roma, Firenze e Vienna. Secondo il Dal Pozzo, il maestro fu a Roma ancor giovane, attorno al 1670, per poter osservare dal vero le tele del Borgognone, dal quale acquisì gli stilemi che contraddistinguono la sua produzione, tanto da creare talvolta complicati problemi attributivi6. Le fonti lo descrivono estroso e intraprendente; Luigi Crespi, tracciandone un ritratto umoristico e folle, lo annovera fra i pittori felsinei di gran fama7. La tela si può confrontare con la Battaglia di cavallerie europee dell’Heeresgeschichtliche Museum a Vienna, la Battaglia tra Cristiani e turchi con torre tonda a sinistra di collezione privata e le due composizioni conservate presso la Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia, opere che si avviano ad un gusto settecentesco, caratterizzato dallo schiarirsi della tavolozza e da un interesse sempre più decorativo, in analogia con le tele di Francesco Simonini (Parma 1689 – Venezia o Firenze dopo il 1753), dove il crudo naturalismo si piega alle piacevolezze narrative e alla vivacità del colorire. Tali considerazioni ci consentono di riferire il dipinto attorno al secondo decennio del secolo.
5. B. Dal Pozzo, Vite dei pittori, degli scultori et architetti veronesi, Verona 1718, p. 80. 6 Sestieri 1999, p. 239, fig. 18; p. 256, fig. 55; p. 245, figg. 30 – 31.
7 L. Crespi, Felsina Pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, Bologna 1769, III, pp. 185 – 189. Sul pittore si veda anche la biografia di Giovanni Pietro Canotti in Felsina pittrice, vite de'pittori bolognesi. Bologna 1841, pp. 185 – 188.
[A.G.]
13 - Antonio Calza - Battaglia fra cavallerie europee
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Donato Creti (Cremona, 1671 – Bologna 1749)
Giovane ignudo dormiente Olio su tela cm. 132,5 x 85,5
Non sussistono dubbi circa l’appartenenza di questo dipinto a Donato Creti, l’artista che meglio d’ogni altro incarna sul principio del Settecento la tendenza classicista, inaugurata a Bologna da Guido Reni e proseguita da Simone Cantarini e poi da Lorenzo Pasinelli, che fu suo maestro. La profilatura nitida e tagliente delle forme si ravviva, come sempre nel Creti maturo, per la pennellata ravviata e filante, che alleggerisce l’immagine pur mantenendone intatta la mo-
numentalità. L’ambientazione spoglia, in un contesto che evita ogni definizione prospettica o spaziale, accentua la forza del suo procedimento creativo, cui aggiunge fascino l’uso della grisaille: pur privata del colore, la raffigurazione non perde di fatto la sua integrità e la sua traspirante naturalezza e, lungi dal simulare l’effetto di un bassorilievo, il dipinto sfrutta le potenzialità del chiaroscuro per esaltare la qualità tutta mentale del riporto dal vero, venendo in ultima analisi a celebrare la potenza ricreatrice della pittura. La tela ripete l’invenzione contenuta nel celebre sovrapporta pervenuto, insieme ad altri sette, alle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna in seguito al lascito effettuato nel 1774 dal marchese Collina Sbaraglia, protettore dell’artista (R. Roli, Donato Creti, Bologna, 1967, pp. 87-88, fig. 47; Id., Il Creti a Palazzo: lascito Collina Sbaraglia al Senato di Bologna, 1774, in “Arte a Bologna, Bollettino dei Musei Civici d’Arte Antica”, 1, 1990, pp. 47-57; Donato Creti. Melanconia e perfezione, a cura di E. Riccomini e C. Bernardini, catalogo della mostra di New York, 1998, p. 74). Al dipinto Sbaraglia, arricchito sulla sinistra dalla presenDonato Creti, Ermafrodita, Madrid, Museo del Prado
14 - Donato Creti - Giovane ignudo dormiente
za di un putto alato pure dormiente, è stato da tempo avvicinato un bozzetto preparatorio ad olio su carta per la sola figura del giovane ignudo, conservato nel Museo del Prado a Madrid (A. Perez Sanchez, I grandi disegni italiani nelle collezioni di Madrid, 1978, pp. 50-51, fig. 5). Si noterà tuttavia che tale modelletto presenta alcune differenze rispetto al quadro già noto, ad esempio nel fondo, connotato da un alto basamento di colonna anziché da un tendaggio. Mentre entrambe queste soluzioni sono assenti nel dipinto in esame, il particolare del cuscino al quale il giovane dormendo si appoggia vi torna in modo assai più puntuale, suggerendo che le sua esecuzione si collochi in una fase intermedia tra il bozzetto del Prado e il grande sovrapporta Sbaraglia. Lo stretto rapporto tra quest’ultimo e il quadro in esame è denunciato
d’altro canto dalla presenza a sinistra della frammentaria figura del putto riemersa dalla pulitura, che assente nel bozzetto del Prado, nel quadro finale interviene ad aggettivare brillantemente la composizione, sul cui significato complessivo appare tuttavia vano interrogarsi. Se il processo creativo “per sottrazione” ben si addice alla mentalità sempre sottilmente raziocinante di Creti, a rimarcare la piena autografia del dipinto in esame è poi la straordinaria abilità pittorica, che sa giovarsi, nella muscolatura del giovane, di stesure calde e compatte, alternandole con pennellate veloci, quasi saettanti, ad esempio nel guanciale e nei panni su cui egli si appoggia, oltre che nel libro su cui stende la mano stropicciandone nel sonno le pagine. E’ d’altro canto noto che per i sovrapporta Sbaraglia Creti si giovò anche di invenzioni già sperimentate in precedenza, cosa che non è da escludere in questo caso, visto che, con la sua finitezza e le sue dimensioni, il dipinto in esame ha tutti i caratteri di un quadro autonomo e non di uno studio preparatorio. Per questi motivi, oltre che per l’ottimo stato di conservazione, il dipinto si segnala come un’importante acquisizione al corpus pittorico di Creti. Inedito Giovane ignudo dormiente e putto alato Bologna, Collezioni comunali d'Arte
[D.B.]
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Leonardo Coccorante (Napoli 1680 - ivi 1750)
Rovine in un paesaggio sulla costa Olio su tela cm. 77,5 x129,5 iscritto a tergo CUCURANTE
Di rovine e di colonne dirute è piena la pittura del Settecento, da Codazzi e Ghisolfi fino a Pannini per menzionarne solo tre dei maggiori. Tra questi Codazzi, bergamasco, operante a Roma, fino a Napoli nel 1634, che con queste peregrinazioni dimostra insieme a tutti gli altri artisti italiani come l’Italia unita non sia convenzione artificiale comandata d’autorità nel 1861 ma, all’opposto, realtà da sempre operante. Del Codazzi il Coccorante non avrebbe potuto essere allievo diretto ma secondo il De Dominici, lo scrittore d’arte del Settecento, fu allievo di un allievo del Codazzi, il palermitano Angelo Maria Costa che impartiva i suoi insegnamenti dal carcere della Vicaria in cui fu a lungo detenuto. Così andava la vita nella bizzarra Napoli barocca. Le sue colonne
sbocconcellate sono un elemento costante che si ripete in tutti i suoi dipinti, privo di compiacimento archeologico. Spesso incorniciano un’urna sepolcrale come avveniva altresì nella dottissima Bologna accademica del Creti con la celebre serie di tombe allegoriche progettate nel 1720-1721 dal mercante Mc Swiny (dipinti commissionati anche al Monti, Balestra, Pittoni, Sebastiano Ricci, Piazzetta e Canaletto). Niente di quel livello e di quell’impegno nel Coccorante, il complesso di colonne e urna è solo un elemento decorativo, una concrezione calcarea, niente più che lo “scoglio”, l’elemento centrale in sughero del presepe settecentesco, come veniva chiamato in gergo, cui si appoggia la Santa Capanna. Ne riproduciamo uno assolutamente analogo riprodotto da N. Spinosa, Pitture napoletane del Settecento, Napoli, Electa; Napoli, 1988, n. 349, ill. p. 412, in cui il monumento è accostato al tipico mare in tempesta con nave in procinto di far naufragio e raffinatissime figurette che si agitano inconsultamente. Nel dipinto che qui si espone, corredato di una comunicazione scritta di Nicola Spinosa, le piccole figure sono assegnate all’attività di G. Marziale e G. Tomajoli, che spesso collaborarono col Coccorante. La tela originaria presenta inoltre a tergo l’iscrizione coeva Cucurante. Si parla a volte di Romanticismo per queste scene di tempesta, ma non esiste partecipazione sentimentale alcuna di questi pittori. Per parlare di Romanticismo è necessario che si siano interposte la L. Coccorante, Porto con mare in tempesta e rovine, Coral Cables, Lowe Art Gallery
15 - Leonardo Coccorante - Rovine in un paesaggio sulla costa
poetica del Pittoresco e del Sublime, la volontà di emozionare, indurre alla contemplazione, al sogno. Nel settecentista napoletano il mare in tempesta è un elemento Barocco, una mera espressione di movimento. Il dipinto che qui si espone non raffigura una marina (anche se il mare è presente in distanza) ma è un paesaggio con torri, edifici ed edicole molto simile agli sfondi di taluni paesaggi di Salvator Rosa, come ad esempio il Ponte della galleria Pitti a Firenze, la Marina delle torri ancora al Pitti, il Ritrovamento di Mosè di Detroit, per indicare soltanto i primi che ci sono venuti tra le mani, potendolisi vedere riprodotti nell’insuperato “classico” Rizzoli, L’opera completa di S. Rosa, a c. di L. Salerno, Milano 1975. Non è possibile, pur in presenze di un corpus esteso, istituire una cronologia perché il lavoro del Coccorante non presenta evoluzione alcuna, e non ne vale veramente la pena perché i suoi dipinti devono essere goduti come una delle manifestazioni più riuscite del capriccio settecentesco. Accanto a lui un suo emulo e deuteragonista di pari nobiltà, più profilato e cristallino ma meno estroso e scenografico del Coccorante, risponde al napoletanissimo nome di Gennaro Greco. L’uno e l’altro ricercatissimi dai collezionisti. Inedito [E.B.]
Iscrizione a tergo
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Gaspare Landi (Piacenza 1765 - ivi 1830)
Ritratto di dama Olio su tela cm. 63 x 50
Dopo un irrilevante ingresso nel mondo degli artisti avvenuto a Piacenza, Gaspare Landi che quivi era nato, ebbe la buona ventura di formarsi a Roma, a partire dal 1781, alla scuola di Pompeo Batoni, maestro della cui grandezza il Landi dimostra di prendere atto nei suoi copiosi scritti (un ricco epistolario e un’autobiografia), pur dichiarando di non aver tratto significativi vantaggi da tale discepolato. Il Landi appare come un talento che traendo origine da spiccate doti innate si risolva a compiere uno studioso corso autodidattico, fondato sull’osservazione dei grandi capolavori del passato, fruibili a Roma per la cultura tardo settecentesca meglio che in qualsiasi altro luogo al mondo. Da quella città sostanzialmente non doveva più muoversi, pur con numerosi e prolungati ritorni, soggiorni e spostamenti a Milano e Piacenza dove, d’altronde, ebbe a concludere la sua lunga esistenza operosa. Il Landi reca inoltre al suo attivo un singolare tributo di ammirazione in un’epoca avversissima al Neoclassicismo: una sala retrospettiva alla Biennale di Venezia del 1926. In effetti il Landi tutto teso a cimentarsi in que-
gli esercizi di soggetto elevato e tono aulico accede ad alcune prove come l’Ebe coppiera della Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia, l’Antioco e Stratonice della collezione Mellini a Firenze e la Morte di Camilla custodito nel palazzo Taverna di Roma, e tante altre che non menziono per non protrarre l’enumerazione, in cui si accredita detentore di quella grazia alessandrina, di quella squisitezza idealmente ellenistica che costituisce l’aspetto più nobilmente gratificante dello stile che suole dirsi neoclassico. Un alessandrinismo che non è da intendersi come coacervo di lambiccate minutaglie ma come racchiuso in Landi in una colata fluida di pittura smaltata, animata da quel tanto di aderenza alla realtà che ne corrobora l'immagine. Il fruitore contemporaneo può, a questo punto, aborrire le monumentali composizioni sacre, con figure più grandi del vero, che il Landi si impegnò a compiere per vari duomi, collegiate e cappelle (Piacenza, Bergamo e altrove. Le si può vedere menzionate e illustrate nel catalogo della mostra GaG. Landi, Ritratto di Corona Scotti di Fombio, collezione privata
16 - Gaspare Landi - Ritratto di dama
spare Landi, Piacenza-Roma, 2004-2005). Ma un vecchio luogo comune critico sosteneva che nell’età compresa tra fine Settecento e prima metà Ottocento aveva rifulso soltanto il Ritratto. E oggi ancora questo assioma si riaffaccia con l’ineluttabile evidenza della verità. E proprio nel così parco di espedienti artistici Ritratto di dama che qui si presenta che “il classicismo della pittura à la greque si scioglie in una disarmante naturalezza di sentimenti, senza più memoria dell’antico” (Sgarbi). Questo dipinto databile fra il 1790 e il 1792 è avvicinabile ad alcuni altri ritratti conosciuti: La contessa Corona Leotti di Fombio e La contessa Caterina Anguissola da Travo e possiede il pendant in un Ritratto di gentiluomo, che qui non si espone. Ma si indulga a contemplare questo ritratto e si converrà non potersi incontrare uno sguardo così limpido e franco, un sorriso così godibile, come la quintessenza di una femminilità trattenuta. Uniti a un tocco così inglese, un’immediatezza così francese, la grazia del Correggio e il colore dei veneti e
si avrà il sospetto di contemplare un piccolo capolavoro. Il Landi scrive: “Ma non amo di fare ritratti. Alcuni che bilancino il poco utile e le perdite che si fanno sui quadri di storia, sta bene. In ogni modo c’è un rimedio all’occasione ed è accrescerne il prezzo”. Se è vero che il tempo elabora il giudizio storico definitivo, vince il ritratto. Bibliografia: Gaspare Landi, di V. Sgarbi, Piacenza, 2004-2005, ill. p. 126; Gaspare Landi, a cura di V. Sgarbi e Gaspare Landi, a cura di V. Sgarbi, Roma, Camera dei Deputati, 2005, ill. p. [E.B.]
G. Landi, Ritratto di uomo, pendant del dipinto che si espone, collezione privata
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Gaspare Landi (Piacenza 1756 – ivi 1830)
Noli me tangere Olio su tela cm. 70 x 97
Il carteggio di Gaspare Landi con il suo mecenate Giambattista Landi delle Caselle testimonia l’esecuzione di almeno due dipinti sul soggetto del Noli me tangere. Il primo fu eseguito da Landi nel 1801 e destinato al proprio appartamento, dove si trovava ancora dopo la morte del pittore, come testimoniava Luciano Scarabelli, il secondo fu realizzato tra il 1804 e il 1806 per il medico piacentino Luigi Ghizzoni (cfr. F. Arisi, La vita a Roma nelle lettere di Gaspare Landi (1781-1817), Piacenza 2004, pp. 240, 279). Nonostante l’assenza di documentazione sulla sua provenienza non si può escludere che il dipinto qui presentato si possa identificare con una delle opere citate. Anche la sua cronologia, sulla base dei confronti interni all’opera landiana, sembra poter concordare con le date riportate dal carteggio ed essere precisabile al primo decennio dell’Ottocento. Esemplificativi sono i riscontri puntuali che si possono osservare, sia per le tipologie dei volti, che
per le pose, con le figure di Cristo e della Maddalena dell’Andata al Calvario della chiesa di San Giovanni in Canale a Piacenza. A differenza dei dipinti di figura più impegnativi, ai quali il pittore affidava la sua fama di pittore storico, dove l’impiego della tecnica della velatura era in grado di dissimulare la traccia del pennello, i ritratti e i quadri di minori dimensioni sono spesso caratterizzati, come in questo caso, da una rapidità esecutiva testimoniata dall’evidenza delle pennellate, ravvisabile nell’indagine a distanza ravvicinata. Il bel brano di paesaggio è realizzato con una tecnica quasi compendiaria come quello davvero simile dell’Incontro di Veturia e Coriolano della Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze, che tra l’altro riprende l’iconografia di questo dipinto nelle due figure principali. La consumata perizia dell’artista consentiva la ricomposizione ottica delle pennellate Antonio Canova, Stele dell'ammiraglio Angelo Emo, Venezia, Museo Storico Navale
17 - Gaspare Landi - Noli me tangere
nell’osservazione a distanza, con effetti di trasparenza nel panneggio di Cristo e di prospettiva aerea leonardesca nello sfondo. Il dipinto testimonia la complessità e la ricchezza dei rimandi figurativi e culturali che possiede la pittura di Landi a queste date (cfr. S. Grandesso, La vicenda esemplare di un pittore “neoclassico”: Gaspare Landi, Canova e l’ambiente erudito romano, in La città degli artisti nell’età di Pio VI, a cura di L. Barroero e S. Susinno, “Roma moderna e contemporanea, a. X, 1-2, 2002, pp. 194 e ss.). Se l’antico è rievocato nella posa del Cristo, esemplata su quella dell’Apollo del Belvedere, la figura della Maddalena invece è un omaggio a Canova, riprendendo in controparte la figura della Fama del Monumento di Angelo Emo (Venezia, Museo Storico Navale). Il volto di Gesù si ispira ai prototipi della pittura umbra del Quattrocento, mentre il paesaggio testimonia i lunghi studi condotti dal pittore sui modelli della scuola veneta. Grazie anche a questo esplicito richiamarsi a quella tradizione, fondata sulla maestria nell’uso del colore, Landi era considerato dai contemporanei, comprese le voci dei più grandi scrittori d’arte, come Giovanni Gherardo De Rossi, Giovanni Antonio Guattani e Pietro Giordani, il massimo colorista del suo tempo.
[S.G.]
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Luigi Pizzi (Verona 1759 - Padova 1821)
Il ratto delle Sabine matita su carta cm. 75 x 120 firmato e datato in basso a destra: "Luigi Pizzi inventò e dipinse 1812"
Scarse le notizie pervenuteci di Luigi Pizzi che pare, a tutt’oggi, si sia dedicato soltanto all’incisione di riproduzione. Nel 1791 il Pizzi è elencato come già tra gli allievi di Paolo Pozzo alla Regia Accademia di Padova, come attesta un documento raccolto da C. D’Arco, Delle arti e degli artefici di Mantova, Mantova, 1857. Nell’anno 1801 era tornato a Verona e scriveva all’ecclesiastico e scrittore di tragedie Saverio Bettinelli, alludendo alla propria attività di incisore di riproduzione. Aggregato alla Regia Accademia di Venezia vi sostenne l’insegnamento di disegno e intaglio. Incarico che tenne nella Regia Università di Padova quando si trasferì in quella città. G. A. Moschini nel suo Stato delle Belle Arti in Letteratura veneziana del sec. XVIII, Venezia, 1806, lo dice “grande disegnatore e incisore”. Infine i manuali di raccoglitori di incisioni elencano alcune delle sue incisioni tratte da opere di Raffaello, Veronese, Domenichino, e la riproduzione di una pittura antica custodita nella Villa Negroni di Roma di cui aveva approntato il disegno il Mengs. Ma esclusivamente incisore di riproduzione non dovette essere perché ci sono pervenuti in fogli sciolti un Ritratto di Robespierre e un Ritratto di Canova di cui non L. Pizzi, ritratto di Robespierre, incisione
si conosce il prototipo che non è elencato nell’esteso repertorio di ritratti del Canova compilato da Haskell. Tralasciando il convenzionale omaggio al grande scultore, è il Ritratto di Robespierre a fornirci uno squarcio sulle possibili idee politiche del Pizzi, o per lo meno di un periodo transeunte della sua vita. Non posso garantire in proposito ma ritengo che siano rari i ritratti del rivoluzionario giacobino da parte di autori italiani. È difficile recuperare l’infatuazione che si nutrì nel Settecento per la calcografia (il Lanzi lo disse “il secol del rame”), allorché vennero riprodotti tutti i capolavori possibili col procedimento dell’incisione su rame, un mondo lontano dalla sensibilità di noi contemporanei, un mondo dal quale non può dirsi se non che aspettava la fotografia. Le poche incisioni reperibili del Pizzi non bastano a giustificare l’operosità di una vita, e neppur breve, secondo i parametri dell’epoca. È possibile che un censimento completo delle incisioni di riproduzione italiana reperirebbe un numero più elevato di operazioni del Pizzi di quante se ne elenchino attualmente. E altrettanto è quasi certo che tra le carte dell’Accademia di Venezia e dell’Università di Padova dormano un lungo sonno le L. Pizzi, Ritratto di Canova, incisione
18 - Luigi Pizzi - Il ratto delle Sabine
notizie riguardanti le attività didattiche e artistiche di Luigi Pizzi. È così che il disegno in questione ha quasi valore di cimelio. Il soggetto raffigurante il Ratto delle Sabine è consueto almeno dal Cinquecento allorché il Vasari ne descrive un esemplare di Polidoro da Caravaggio graffito sulla casa di una certa signora Gostanza sotto Corte Savella a Roma “La qual istoria fa conoscere non meno la sete e il bisogno di reperirle, che la fuga e la miseria delle meschine portate via da diversi soldati”. Nel disegno del Pizzi i compagni di Romolo non è detto siano soldati in quanto appaiono succintamente vestiti con una volontà archeologizzante di integralismo neoclassico come lo praticarono molti artisti quali Ademollo, Sabatelli e Palagi, per menzionarne soltanto alcuni tra i molti reperibili. Molte sono le citazioni dal Manierismo, come avviene di regola per i neoclassici italiani che guardarono al Cinquecento, oltre che ovviamente Giambologna e Canova sono una diade che fa sentire il suo peso anche per il nostro Pizzi, insieme a tutta la scultura antica. Il foglio è rifinitissimo e ha l’aspetto della preparazione ad un’incisione, che non conosciamo. Inedito [E.B.]
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Pietro Tenerani (Torano, Carrara 1789 – Roma 1869)
Genio della Caccia Marmo altezza cm. 90 firmato sulla base: P. TENERANI
In una serie di sculture, ideate tra la fine del secondo decennio dell’Ottocento e i primi anni del seguente, Pietro Tenerani sperimentava nel vasto repertorio della mitologia greco-romana un nuovo tipo di soggetti. Non tanto dunque i temi emblematici, rappresentativi dell’idea in quanto tale o dei diversi caratteri assoluti della bellezza, in voga negli anni precedenti, quanto piuttosto quelli che consentivano di sottolineare aspetti sentimentali e psicologici, come nelle serene e dolci evocazioni anacreontiche e arcadiche, non prive di toni malinconici, della Venere cui Amore toglie la spina dal piede (Chatsworth, Devonshire collection) e del Fauno in atto di suonare la tibia (Palermo, collezione privata), o nei più decisi turbamenti passionali, stimolo anche alla riflessione filosofica sul destino umano e sulla natura dell’amore, delle statue dedicate a Psiche, rappresentata abbandonata da Amore (Firenze, Galleria d’arte moderna) e svenuta (San Pietroburgo, Ermitage). Incontrando il favore del pubblico dell’età della Restaurazione, che poteva apprezzare questa chiave psicologica e intimista, e dunque non solo dei classicisti, ma anche dei romantici, Tenerani diveniva uno dei protagonisti di una nuova fase della scultura romana classicista, insieme a Ridolfo Schadow e, per alcuni aspetti, al suo maestro Bertel Thorvaldsen. Dopo l’inimitabile stagione canoviana e prima dei riferimenti allo spirito e alle forme dell’arte del tardo medioevo e del primo ri-
nascimento propri della corrente purista, che Tenerani avrebbe capeggiato in scultura, l’artista carrarino studiava inoltre allora, nei suoi prototipi di bellezza giovanile, una maggiore aderenza al vero naturale rispetto all’esclusivo riferimento all’antico, che consentisse anche la rappresentazione della bellezza individuale, cioè relativa e non ideale, al pari di quanto a Firenze perseguiva Lorenzo Bartolini. Anche nel Genio della caccia, opera modellata nel 1824 (gesso a Roma, Museo di Roma) e più volte eseguita in marmo per una prestigiosa clientela internazionale, Tenerani sapeva da un lato arricchire la gentile allegoria del fanciullo alato che trascina trionfante la sua preda di un moto psicologico, pur contenuto in ossequio al principio classico della convenienza di una superiore imperturbabilità al soggetto ideale, dall’altro esprimere l’anatomia del fanciullo nei termini esemplari di un giusto equilibrio tra adiposità e tensione muscolare, senza aderire alle convenzioni rappresentative del soggetto in scultura. Entrambi gli aspetti furono sottolineati dai numerosi commentatori contemporanei, come Enrico Lovery, che sottolineava l’originalità dell’artista e l’autonomia dai maestri delle generazioni precedenti, “sebbene, quanto alla grazia delle mosse, e alla finitezza dei marmi” fosse acPietro Tenerani, Il genio della pesca, Roma, Palazzo Corsini
19 - Pietro Tenerani - Genio della Caccia
costabile al Canova, descrivendo nel 1825 il Genio della caccia eseguito per Lord Deustanville: “Tiene questo fanciullo un giavellotto nella destra, e nella sinistra un lepre. E siccome è disteso il braccio, l’animale ucciso trascina la testa in terra facendo a un tempo l’ufficio di tronco alla statua, e scemando l’idea del proprio peso, che parrebbe soverchio alle puerili forze del cacciatore. L’aria del volto mostra un singolare contento delle acquistate prede, non senza fanciullesca baldanza a maggiori acquisti. Il nudo ritragge mirabilmente dal vero; elegante è una breve veste che gli scende dalla cintura fino oltre la metà delle cosce.” (E. Lovery, Sculture di Pietro Tenerani carrarese, in “Memorie Romane di Antichità e Belle Arti", II, 1825, p. 248) Nel 1832 Serafino d’Altemps poteva osservare, insieme a quest’opera, anche il suo pendant, il Genio della Pesca, entrambi commissionati in marmo dal principe Tommaso Corsini (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini). Ne individuava dottamente i riferimenti iconografici nelle pitture di Ercolano e nel Fanciullo che strozza l’oca dei Musei Capitolini e chiariva, sulla base delle fonti letterarie, l’allegoria dei due geni rappresentati come fanciulli, volendo intendere “le inclinazioni della caccia e della pesca venire dall’innocenza” . Secondo d’Altemps per intelligenza di contorni e carnosità e per espressione i due geni erano addirittura in grado di essere accostati ai putti di Donatello e Duquesnoy per “canone di fanciullesca bellezza” (S. d’Altemps, Il Genio della Caccia e il Genio della Pesca, sculture del prof. Pietro Tenerani, in “Giornale Arcadico”, t. LV, 1832, pp. 211-215) .
La piacevolezza di questi soggetti e la facilità dell’impiego delle statue negli allestimenti decorativi procurarono loro un grande successo. Tra gli acquirenti le fonti citano il barone Carl Rotschild, che dirigeva la filiale napoletana della famosa banca familiare, Augustin Bertin de Veaux, proprietario anche di una versione della Psiche abbandonata, il conte Fenaroli di Brescia, Nellesen Kelleter ed altri destinatari (esemplari in marmo della coppia sono a Carrara, Accademia di Belle Arti, e Amburgo, Jenisch Haus). Nel 1841 il barone Rotschild, che già possedeva i due putti, ne ordinò altri di nuova concezione richiedendo il Genio del Commercio, in onore della professione che aveva reso prospera la sua famiglia, e il Genio dell’Agricoltura. Anche questi furono replicati più volte. Il Genio della Caccia fu inoltre esposto, con la Psiche, al Salon di Parigi del 1831, mentre quello della Pesca, di proprietà di un certo Langlois, fu premiato con la medaglia d’oro per la scultura nell’edizione del 1837 (cfr. S. Grandesso, Pietro Tenerani (1789-1869), Cinisello Balsamo 2003, pp. 91-92, con bibliografia precedente). Tra le numerose figure di amorini e genietti ideate allora e nei decenni seguenti dagli scultori operanti a Roma, come Luigi Bienaimé, Heinrich Wilhelm Bissen, Joseph Gott, le quattro statue allegoriche delle Stagioni di Emil Wolff (1854, Berlino, collezione privata) appaiono direttamente ispirate dalla serie di Tenerani, a testimonianza della loro fortuna figurativa, oltre che critica e collezionistica. [S.G.]
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Theobald Johan Carl Henrik Stein (Copenhagen 1829 - ivi 1901)
Eros Marmo bianco pario altezza cm. 127 firmata sul retro: T. Stein F(e)c(it), 1860-70
tistiche fioriscono a dispetto della condizione di Talento precoce alla locale Accademia di Belle isolamento del paese, come segnalato dall’espoArti, dall’età di 14 anni Stein si dedica alla sua sizione Fatigue. Danish sculpture 1850-1900 formazione di artista a tutto tondo sotto la guida a cura di E.J Bencard e S. Miss, Copenhagen, di H.V. Bissen (1798-1868), scultore che inter2002, dove Stein è presente insieme agli altri alpretò con forza le nuove tendenze della scultura lievi di Bissen e Thorvaldsen, rappresentanti la danese forgiata dal purismo neoclassico di Thorgenerazione di scultori danesi nati tra il 1820 e il valdsen. Stein affronta sia i soggetti classici sia la 1840 che affrontano la “fatica” di accedere al coritrattistica, in busto o figura intera, di personaggi contemporanei, ricevendo ben presto ambiti Canova, monumento funera- siddetto modern breakthrough, ben coscienti del riconoscimenti ufficiali che gli permettono di rio a Clemente XIII,particolare bagaglio culturale e della potenza espressiva del completare la sua formazione, grazie al sostegno Roma, Basilica di San Pietro Classicismo e trovano nello stesso Classicismo in Vaticano. una possibile via d’uscita, sfidando così, con le economico dell’Accademia stessa, a Roma, culla stesse armi, quello che non riescono a sopraffare. della cultura classica, dove Stein soggiorna a più Come il suo illustre predecessore Stein si dedica riprese dal 1856 al 1889, nell’entourage degli arai temi legati alle figurazioni di Amore, ispirati ai tisti scandinavi che lì avevano già trovato la loro versi del poeta ionico Anacreonte, raffigurando patria d’elezione. Rientrato poi a Copenhagen, qui il suo Eros giovinetto, descritto da Esiodo è professore di Anatomia e Modellato e quindi come “fra tutti gli Immortali il più bello”, assundirettore dell’Accademia dal 1893 al 1896 (cfr. to a tensione stessa verso la conoscenza del bello S.Müller, Dansk Biografisk Leksikon, 1902). e del bene nella filosofia platonica, dotato del suo La predominanza degli incarichi pubblici di attributo da Euripide e plasmato nella tridimenStein, ci permette di apprezzare maggiormenB.Thorvaldsen, sionalità antropomorfa da Lisippo (Eros arciere, te la sincera e pura passione di quest’opera Amore sul leone IV sec. a.C.) come un fanciullo che incorda l’arco giovanile, realizzata probabilmente nel decennio 1860-70, durante il suo primo periodo romano. per scoccare le sue frecce d’amore provocando il risveglio delL’ambiente culturale danese vive, nella seconda metà del XIX la passione così descritta da Saffo: “Scuote l’anima mia Eros, secolo, la sua guldalderen, durante la quale le diverse forme ar- come vento sul monte che irrompe entro le querce”.
20 - Theobald Johan Carl Henrik Stein - Eros
L’Eros di Stein, scolpito in un unico blocco di marmo ed in perfetto stato di conservazione, guarda lontano, scruta l’orizzonte alla ricerca delle “vittime” della sua potenza, la mano destra sulla fronte per concentrare lo sguardo, mentre la sinistra impugna saldamente l’arco, in forte posa plastica. Il giovane efebo dal corpo delicato e flessuoso è assiso su una roccia rivestita dalla pelle di un leone, affermando la sua vittoria sulla Natura. E’ proprio qui la “modernità” di Stein, il leone reso con naturalezza realistica nelle ampie anse del suo vello e in quell’espressione remissiva del muso dell’animale che soggiace alla forza dell’Amore. Stein scrive così, nella speciale qualità traslucida e luminosa levigatezza del marmo pario, il capitolo seguente al leggiadro bassorilievo di Thorvaldsen Amore sul leone (U. Rosenberg, Thorvaldsen, Bielefend und Leipzig, 1901, p.21) e alla nobile calma elegiaca dell’Eros canoviano del monumento funerario a Papa Clemente XIII, rinnovando con vigore eloquente, attraverso una magistrale padronanza del mezzo espressivo, tutta la potenza della “grecità”. [M.V.]
da Lisippo, Eros arciere, copia di epoca romana, Londra, British Museum
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Antonio Tantardini (Milano, 1829 - ivi 1879)
La bagnante Gesso altezza cm. 130 esposizioni: Firenze, 1861; Londra, 1862; Filadelfia, 1876; Londra, 1876; Londra, 1878.
“Le vesti le sono cadute ai piedi, e la bella persona si mostra senza velo agli sguardi degli invisibili amori che soli possono vagheggiarla in quel segreto recesso dei folti boschi, dove mormora la limpida fonte, sul cui margine ella si è fermata. Ma nel punto in cui sta per scendere nell’acqua a chieder refrigerio degli ardori, uno stormire di fronde la pone in sospetto. Restringe le membra raccogliendole quasi in sè stesse, per quel moto istintivo del pudore che la spinge a celare quanto più può delle ignude forme; e rimane incerta e titubante. [...] Alza, spaurita, il destro braccio al viso quasi per nascondere l’improvviso rossore e per farsi schermo: e tutta la persona è nell’atteggiamento di opporsi ad un nemico invisibile.”. Con questo tono elegiaco inizia la descrizione della «Bagnante» di Tantardini nel giornale illustrato dell’Esposizione Universale di Filadelfia del 1876, accompagnata da un disegno di G. Galli inciso da Colombo. A questa data l’opera ha già al suo attivo uno straordinario curriculum espositivo ed il suo autore, quasi cinquantenne, è ormai considerato “[...] uno dei valenti di quella scuola lomA. Tantardini, La Bagnante, marmo, Museo Nazionale di Belle Arti, Buenos Aires
barda, alla quale in gran parte si devono i trionfi che la scultura italiana è abituata a ottenere alle Esposizioni mondiali.”, un giudizio fondato essenzialmente sul fascino delle sue creazioni femminili, sui nudi morbidi, procaci, opulenti e pieni di seducente grazia, lavorati in marmo alla perfezione, che ottenevano grande successo di pubblico. Antonio Tantardini si forma all’Accademia di Brera a Milano sotto la direzione di Pompeo Marchesi, in piena accademia canoviana, ma presto si accosta alle novità bartoliniane, evidenti nei numerosi lavori eseguiti per il Monumentale di Milano. Ma le opere di Tantardini, e soprattutto quelle destinate ad arricchire gli interni borghesi, sono d’un naturalismo attenuato ed immalinconito che, più che il ricordo di Bartolini o le suggestioni del già notissimo Duprè, sembrano rivelare l’influsso di Francesco Hayez. Certamente un romantico, ma con un precoce interesse per un modellato più vibrante e mosso nelle superfici, secondo modi che preludono o accompagnano quelli di un Vela, di un Tabacchi o di un Grandi. L’inedito gesso della «Bagnante», freschissimo nel modellato e perfettamente conservato, è da considerare uno dei “primi” gessi “tirati” direttamente dall’originaria forma a tasselli eseguita sull’opera in argilla, modello imprescindibile per le future traduzioni in marmo. Proprio in marmo l’opera compare in prima assoluta nel 1861, all’Esposizione Italiana tenutasi a Firenze all’indomani della raggiunta Unità nazionale, celebrata e riprodotta mediante un’incisione di D. Calvi sul “Giornale”
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della manifestazione. L’anno seguente, 1862, sarà esposta all’Internazionale di Londra e, dopo la già citata esposizione Universale di Filadelfia del 1876, il 25 marzo dello stesso anno verrà ripresentata a Londra da Christie (cat. n. 0146), che la propone ancora nell’esposizione del 4 maggio 1878 (cat. n. 0061), a conferma del grande favore che l’opera incontrò tra il pubblico inglese e che determinò l’esecuzione di un numero imprecisato di repliche, verosimilmente eseguite con minime varianti nei dettagli o nelle dimensioni. Tra le redazioni in marmo al momento note, certamente la migliore di qualità è quella conservata nel Museo Nazionale di Belle Arti di Buenos Aires (inv. n. 3641). Scultore certamente indicativo nel panorama della scultura lombarda della seconda metà dell’Ottocento, Antonio Tantardini fu uomo del suo tempo impegnato anche politicamente, partecipò infatti alle cinque giornate di Milano e alla campagna garibaldina del 1859. Alla morte, volle legare il suo nome ad una perpetua opera benefica, istituendo un premio annuale, il “premio Tantardini” appunto, per i giovani scultori lombardi. Autore fecondo e apprezzato dalla committenza contemporanea eseguì numerosi ritratti, monumenti funerari e, dal 1863, alcune sculture D. Calvi, La Bagnante di Tantardini, Firenze 1861, incisione.
per la Fabbrica del Duomo di Milano, anche se l’opera sua più nota e citata è la figura rappresentante la «Storia» (1865) nel monumento milanese a Cavour. A Vicenza esegue la statua di «Arnaldo da Brescia» e, nel 1871, il «Genio» per il monumento dell'Indipendenza. Per l'Università di Pavia realizza le statue di «Antonio Bordoni» e «Alessandro Volta» (1878), quest'ultima replicata anche per l'Università di Pisa. Autore del monumento ai Caduti della guerra d’Indipendenza a Rieti, esegue a Torino alcuni lavori per la chiesa della Consolata e le statue per la facciata della chiesa di Santa Cristina. Tra la produzione di destinazione borghese almeno da ricordare «La leggitrice» e «La schiava», presentate con successo all’Esposizione Universale di Parigi nel 1867, un favore di critica che ottenne anche a Dublino nel 1865 con la sua «Beatrice». Dal 1870 espone con frequenza alla Promotrice di Belle Arti di Torino e ancora a Londra nel 1875. Alcune sue opere sono conservate nella Galleria d'Arte Moderna di Milano, nella Pinacoteca di Brescia («Najade»), in quella di Bergamo («Angelo Maj») e nel Museo di Buenos Aires («Bagnante», «La Clarina»). G. Galli, La Bagnante di Tantardini, Filadelfia, 1876, incisione.
L’Esposizione Universale di Filadelfia del 1876 Illustrata, vol. I, Milano 1876, pp. 41-42 e 217 (riprodotta in incisione); N. D'Althan, Gli artisti italiani e le loro opere, Torino 1902, p. 270; L. Callari, Storia dell'arte contemporanea italiana, Roma 1909, p. 29; P. A. Corna, Dizionario della Storia dell’Arte in Italia, 2 voll., Piacenza 1930, p. 860; A. M. Bessone Aurelj, Dizionario degli scultori ed architetti italiani, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello 1947, p. 475; L. Oliveira Cézar, Los Guerrico, Buenos Aires 1988, p. 37 (riprodotto il marmo); La Città di Brera. Due secoli di scultura, catalogo della mostra, Milano 1996, p. 70; A. Van Deurs e M. G. Renard, Italian Sculpture at the National Museum of Fine Arts Buenos Aires Argentina, Buenos Aires, 2002, p. 38 (riprodotto il marmo); A. Panzetta, Nuovo DizionaMemorial Hall, Filadelfia, 1876, incisione. rio degli Scultori Italiani dell’Ottocento e del primo Novecento. Da Antonio Canova ad Arturo Martini, 2 voll., Torino 2003, p. 902; R. Morozzi (a cura di), Omaggio a Gaetano Trentanove Bibliografia dell’opera: Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica tenuta in 1858-1937. Uno scultore tra la Toscana e gli Stati Uniti, cataFirenze nel 1861. Catalogo officiale, Firenze 1862, p. 358, n. logo della mostra, Firenze 2005, p. 53 (riprodotta in incisione). 9147; La Bagnante. Statua del sig. Antonio Tantardini di Mi[A. P.] lano, in: La Esposizione Italiana del 1861. Giornale con 190 incisioni e con gli atti ufficiali della R. Commissione, n. 18, Firenze, 12 febbraio 1862, p. 132 (riprodotta in incisione); J. Beavington Atkinson, The Sculpture of the Exhibition, in: The Art Journal Illustrated Catalogue of the International Exhibition 1862, London 1863, pp. 313-324; Belle Arti – Sezione Italiana. La Bagnante. Statua in marmo di Antonio Tantardini, in:
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Renato Peduzzi (da un modello di) (Ramponio (CO), 1837 - Milano, 1884)
Berenice consacra la sua chioma agli Dei Marmo altezza cm. 183 esposizioni: Filadelfia, 1876; Torino, 1880; Londra, 1888
[...] La chioma scarmigliata [...] non è certo quella delle medaglie che effigiano Berenice, nè tanto meno la chioma che il greco poeta fingeva essere stata posata sul grembo casto di Venere, che commossa dalla prova di maritale affetto della bella e pudica sposa, volle che la recisa chioma fosse fra i cerchi amplii del cielo, e divenisse una nuova costellazione. [...]”. L’affascinante descrizione che rileva la modernità dell’atteggiamento della donna, violento e terribile, opposto dalla pacata, triste e rassegnata immagine tradizionalmente assegnata a Berenice, accompagnata da un disegno di G. Galli inciso da Colombo, è nel giornale illustrato dell’Esposizione Universale di Filadelfia del 1876, anno in cui quest’opera compare per la prima volta in pubblico. Riesposta nel 1880 alla Mostra Nazionale di Torino insieme all’opera «Conseguenze della guerra», Venere a te consacro e agli altri Dei ricompare ancora, nel 1888, quattro anni dopo la morte dello Questa mia chioma; se mi rendi salvo scultore, all’Italian Exhibition in Earl’s Court a Londra (cat. n. Dalla pugna il marito ... 19) esposta dallo scultore Andreoni, forse in replica postuma, In quest’atto la scolpì il Peduzzi: la regina stende le braccia a riprova del consolidato favore del mercato inglese per i marall’altare sul quale compierà il sacrificio della magnifica sua mi italiani. Assolutamente interessante è il confronto tra l’incisione chioma e rivela fin troppo gli affetti potenti per cui dell’opera esposta da Renato Peduzzi nel 1876 a Filadelfia e l’inedito marmo qui in esame, che evidenzia una serie di diffe ... tutte si rodean l’egre midolle renze/varianti che, se singolarmente possono apparire trascu Per l’amorosa cura: il cuore tutto rabili, nel loro insieme suggeriscono un’intonazione dell’opera Tremava ... più “accattivante” e appetibile per il mercato internazionale. La mossa capigliatura che nell’esemplare americano è definita “Berenice che offre all’ara di Venere l’ornamento più diletto d’una donna, la chioma che ne adombra le belle sembianze e nello stesso tempo le adorna, inspirò Callimaco e Catullo, e Foscolo, innamorati della bella forma classica, avvolta nel suo nobile paludamento. Il Peduzzi invece, che trattò il medesimo soggetto, si abbandonò all’impeto della fantasia, e alle calme forme antiche dei poeti sostituì gli smaniosi atteggiamenti di una statua moderna. Berenice, quando il marito Tolomeo Evergete re d’Egitto, partì per la spedizione siriaca, afflitta per la dolorosa separazione e tremando per la sorte che aspettava il nuovo sposo, ritrattasi nel tempio di Afrodite a Zefirio, volse questa calda preghiera alla Dea:
22 - Renato Peduzzi (da un modello di) - Berenice consacra la sua chioma agli Dei
parere “nemica del pettine e degli unguenti” è nel marmo in esame più morbida, fluente e composta; la ricca collana di gusto egizio che regge il drappeggio anteriore e lascia scoperto uno dei seni della regina, qui è sostituita da un doppio filo di perle anch’esse reggenti il drappeggio anteriore il quale, però, non rinuncia a scoprire totalmente entrambi i seni procaci. Di là da queste varianti, cui si aggiunge un diverso andamento del panneggio dell’ampia sopraveste frangiata, che converge al centro della figura, il marmo presenta un’espressività notevolmente più addolcita. L’eloquenza del volto che, come indicato nel testo del giornale di Filadelfia, “reca con se la disperazione, quasi lo spavento”, e la teatralità nervosa delle braccia, quasi da invettiva tragica, sono mutate decisamente nel nostro marmo in uno sguardo sognante verso il cielo e in una morbidezza sensuale delle membra protese. Quelle indicate sono differenze che, pur rilevando come l’opera in esame non sia identificabile con quella esposta a Filadelfia, lasciano aperta la questione se questo straordinario marmo può essere una replica non autografa d’altro sculto-
re, se non proprio quella di Andreoni - Francesco o Orazio al momento è difficile dirlo - presentata a Londra nel 1888. Esponente di quella scuola lombarda responsabile del grande apprezzamento della scultura italiana in ambito internazionale, Renato Peduzzi, morto prematuramente a quarantasette anni, è soprattutto autore d’opere di genere destinate agli interni borghesi che mostrano un interesse per un modellato mosso e vibrante nelle superfici, secondo i modi indicati da Vincenzo Vela prima e da Odoardo Tabacchi poi. A parte la realizzazione di poche opere di committenza pubblica o religiosa, tra le quali si ricordano almeno il busto di «Tranquillo Cremona» (1890) per il Palazzo di Brera a Milano e il «San Giovanni Crisostomo» (1877) per la Fabbrica del Duomo della medesima città, l’attività di Peduzzi è intensa soprattutto in ambito espositivo. Tra le numerose esposizioni cui partecipa sono da ricordare almeno quella di Parma del 1870 («La Primavera»), Milano 1872 («La pesca», «Fanciullo che si trastulla con un cigno»), Vienna 1873 («Putto col cigno»), G. Galli, Berenice consacra la sua chioma agli Dei. Statua di Renato Peduzzi – Filadelfia 1876, incisione.
Napoli 1877 («I primi salti»), Milano 1881 («Cenci»), Milano e Roma 1883, Londra 1874 («Satiro») e 1881. Partecipa con regolarità anche alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino dal 1875. Nella Galleria d'Arte Moderna di Milano è conservata l'opera «Trastullo infantile», esposta a Roma nel 1873.
Bibliografia dell’opera: Berenice, statua di Renato Peduzzi, in: L’Esposizione Universale di Filadelfia del 1876 Illustrata, vol. II, Milano 1877, pp. 573-574 (riprodotta in incisione); IVª Esposizione Nazionale di Belle Arti. Torino 1880. Catalogo Ufficiale Generale, Torino 1880, p. 42, n. 254; A. De Gubernatis, Dizionario degli Artisti Italiani viventi. Pittori, Scultori e Architetti, Firenze 1889, p. 363; A. De Gubernatis, Dizionario degli Artisti Italiani viventi. Pittori, Scultori e Architetti, Firenze 1906, p. 363; P. A. Corna, Dizionario della Storia dell’Arte in Italia, 2 voll., Piacenza 1930, p. 718; A. M. Bessone Aurelj, Dizionario degli scultori ed architetti italiani, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello, 1947, p. 389; A. Panzetta, Dizionario degli scultori italiani dell'Ottocento, Torino 1990, p. 181; A. Panzetta, Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento e del primo Novecento, 2 voll., Torino 1994, p. 210; A. Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento e del primo Novecento. Da Antonio Canova ad Arturo Martini, 2 voll., Torino 2003, p. 685. [A. P.]
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Antonio Soldini (Chiasso, 1853 - Lugano, 1933)
Guglielmo Tell Marmo altezza cm. 88 firmato e datato sul retro: Soldini A. fece – Milano 1883 esposizioni: Zurigo, 1883
Guglielmo Tell è l'eroe leggendario svizzero per antonomasia la cui vicenda si colloca storicamente tra la fine del XIII ed il XIV secolo. Secondo la tradizione nacque e visse a Bürglen, a ridosso del massiccio del San Gottardo. Cacciatore abile nell'uso della balestra, il 18 novembre del 1307 si recò nel capoluogo regionale, Altdorf, e mentre passava sulla pubblica piazza, ignorò il cappello imperiale fatto fissare in cima ad un'asta dal balivo Gessler (l’amministratore locale degli Asburgo). Il cappello, simbolo dell’autorità, doveva assolutamente essere riverito da chiunque passasse e chi non s’inchinava rischiava la confisca dei beni o addirittura la morte. Tell non riverì il cappello e il giorno dopo fu citato in piazza; davanti a tutti dovette giustificare il suo agire e, in cambio della vita, il balivo Gessler gli impose la prova della mela che, posta sulla testa del figlioletto Gualtierino, avrebbe dovuto essere centrata dalla freccia della sua balestra. La prova riuscì a Tell ma, nel caso qualcosa fosse andato storto, Guglielmo nascose una seconda freccia sotto la giacca, pronta per il tiranno. Questo costò a Tell la libertà; fu arrestato e portato in barca verso la prigione di Küssnacht, ma riuscì a scappare e nascosto dietro ad un albero si vendicò uccidendo
Gessler. Secondo la tradizione, venuto a conoscenza delle gesta di Tell, il 1 gennaio del 1308 il popolo insorse assediando i castelli e cacciando per sempre i balivi dalle loro terre, determinando così la liberazione della Svizzera originaria. Soldini raffigura il busto dell’eroe romantico in posizione frontale con la testa lievemente voltata verso destra, il nobile volto, incorniciato da folta barba, lunghi capelli e cappello piumato, ha la fronte aggrottata e lo sguardo lontano e intenso a valutare la difficoltà della prova cui è stato chiamato. La mano destra stringe con fermezza la freccia sul cuore, mentre con la sinistra impugna uno degli apici dell’arco della balestra. Nella rarità delle opere note, l’inedito e potente busto in marmo dell’eroe svizzero è certamente esemplare della grande qualità della scultura di Antonio Soldini e della sua sperticata abilità mimetica, capace di suggerire nel marmo le differenti consistenze materiche: la leggerezza vaporosa della piuma, contrasta con la stopposità del feltro del cappello; l’incarnato politissimo e sensibile nell’individuazione di ogni minima variazione dei piani, è esaltato dalla controllata casualità della barba e della capiA. Soldini, Guglielmo Tell, 1883, incisione
23- Antonio Soldini - Guglielmo Tell
gliatura, dove il trapano raggiunge finezze straordinarie. Le superfici vibranti mostrano poi quanto Soldini abbia compreso bene l’esempio di Vincenzo Vela inserendosi in quella generazione di scultori lombardi che preludono il fiorire della scapigliatura in ambito plastico. Esposta a Zurigo nel 1883, l’opera ottenne un grande successo, ma anche la critica di un anonimo recensore che sul “Giornale”di Zurigo rimproverava allo scultore di aver raffigurato l’eroe come “un aitante tenore della scala più che un gagliardo montanaro urano”. Lombardo di formazione, dopo un breve soggiorno nello studio di Gilberto Buzzi a Viggiù, Antonio Soldini si trasferisce a Milano dove, sotto la guida di Lorenzo Vela, tra il 1873 e il 1881 studia all’Accademia di Belle Arti di Brera ottenendo premi e riconoscimenti nel 1873, 1874 e 1877. Terminati gli studi, per qualche tempo è attivo come modellatore e sbozzatore in marmo per gli scultori Pietro Magni, Pasquale Miglioretti e Odoardo Tabacchi. Autore di busti in gesso e in marmo, opere animalistiche e monumenti funerari a Parigi, Milano, Berna e Locarno, Soldini inizia la sua attività di scultore indipendente verso il 1880 e apre uno studio a Milano. Partecipa alle rassegne della Promotrice di Belle Arti di Torino dal 1884 («Selvaggina», bassorilievo in marmo), con un’opera poi ripresentata a Milano nel 1886. A Milano nel 1881 espone un «Ritratto d’uomo» e il «Ritratto del prof. Gorini» e a Venezia nel 1887 presenta un gruppo di «Selvaggina» in marmo. Espone anche a Londra nel 1888 («Natura morta») e ancora a Chi-
cago nel 1893 e a Milano nel 1894 («Bagnante»). Tra le sue opere pubbliche, tutte in territorio svizzero, sono da ricordare i monumenti a «Stefano Franscini» (1890) a Faido, quello a «Plinio Bolla» (1898) a Olivone e quello a «Luigi Lavizzari» (1900) a Mendrisio. Almeno un cenno si deve anche alla sua intensa attività politica che, già nel 1877, lo porta a fondare a Milano la Società Liberale Ticinese, della quale diventa presidente nel 1887. Nel 1890 è alla testa dei rivoltosi che assalirono gli arsenali del castello di Bellinzona dando il segnale della “rivoluzione”. Da questo momento inizia la sua carriera politica, inizialmente come presidente della Federazione degli emigranti liberali, poi - tra il 1902 e il 1905 – come portavoce dell’estrema fronda radicale in Consiglio Nazionale ed in seguito in Gran Consiglio. Bibliografia dell’artista e dell’opera: L’Esposizione di Zurigo, in “Giornale Nazionale 1883”, 367, Zurigo, (1883), p. 346 (riprodotta l’incisione); G. Foletti, Arte nell’Ottocento. La pittura e la scultura del Cantone Ticino (1870-1920), Locarno 2001, pp. 450 e 452 (riprodotta l’incisione); A. Panzetta, Nuovo Dizionario degli Scultori Italiani dell’Ottocento e del primo Novecento. Da Antonio Canova ad Arturo Martini, 2 voll., Torino 2003, p. 852. [A. P.]
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Aldo Andreani (Mantova, 1887 - Milano, 1971)
Ritratto di Jia Ruskaja Bronzo altezza cm. 57 Firmato: Aldo Andreani, Esposizioni: Venezia, 1934; Milano, 1938.
La russa naturalizzata italiana Jia Ruskaja, nome d'arte di Eugenia Borisenko (Kerč, Crimea, 1902 - Roma, 1970), dopo gli studi classici e musicali si trasferisce in Italia dedicandosi alla danza. Appartenente al cosiddetto movimento della danza libera, scelse uno stile che si ricollegava ai postulati di tendenza greco-mediterranea già adottati al principio del secolo da Isadora Duncan. Soprannominata dai contemporanei l’“Aristocratica della danza” Jia Ruskaja si trasferisce a Roma nel 1923 facendo il suo esordio al Teatro degli Indipendenti diretto da Anton Giulio Bragaglia. Dopo aver aperto una scuola di danza a Milano, diede il suo contributo coreografico agli spettacoli del Teatro Greco di Siracusa e in altri luoghi di uguale struttura ed ambiente. Dal 1932 al 1934 è condirettrice alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala e nel 1936 si presenta con la sua scuola alle Olimpiadi di Berlino. Nel 1940 si trasferisce a Roma dove fonda la Regia Scuola di Danza che nel 1948 si trasformò in Accademia Nazionale di Danza, di cui ricoprì la carica di direttrice sino alla morte. Aldo Andreani ritrae la danzatrice durante il periodo milanese, momento della sua massima notorietà italiana. Suggestivo e mosso, il bronzo è impostato sulla diagonale facendo in modo che il sintetico ritratto della Ruskaja, composto e Jia Ruskaja – foto
con le palpebre cave di wildtiana memoria, si ritrovi al centro dell’ampio mantello che le cinge le spalle nude. Lo scatto nervoso della testa che volge a destra, poi, evidenzia la presenza delle lunghe trecce della giovane donna, geniale complemento compositivo tutt’altro che secondario dell’opera. Andreani espone questo bronzo alla XIX Biennale di Venezia nel 1934 e lo ripresenta nel 1938 alla Mostra dei XXXV Anni della Galleria Pesaro di Milano. Anche architetto, studia al Politecnico di Milano e dal 1909 inizia ad esercitare la professione. Dal 1910 al 1913 è a Roma dove si diploma all’Accademia di San Luca. Rientrato a Milano prosegue la sua formazione laureandosi al Politecnico nel 1917. All’impegno come architetto Andreani affianca costantemente la passione per la scultura e nel 1927 si iscrive all’Accademia di Brera sotto la guida di Adolfo Wildt. Nel 1930 espone a Milano e nello stesso anno alla Prima Mostra d’Arte Sacra di Roma. Del 1931 è la sua prima personale alla Galleria Pesaro di Milano e tra le opere esposte è anche il suo «Passo d'addio», oggi nella Galleria d'Arte Moderna milanese insieme a «Testa femminile» e «Legionari» (bassorilievo del 1936). Da questo momento l’artista intensifica l’attività espositiva a Milano, Mantova, Roma e Ginevra. Tra il 1936 e il 1941 esegue quattro statue per le guglie del Duomo di Milano («S. Tecla», «S. Biagio», «S. Cecilia» e «S. Maria Maddalena»), nel 1937 realizza alcuni bassorilievi per il Padiglione italiano all’Esposizione di Parigi (premiato), nel 1939 vince il concorso nazio-
24- Aldo Andreani - Ritratto di Jia Ruskaja
nale per le opere del Sacrario di Piazza San Sepolcro a Milano, mentre nel 1941 realizza il busto di «Giovanni Marangoni» per il Gianicolo a Roma. Bibliografia dell’opera: XIXª Esposizione Biennale Internazionale d’Arte – 1934. Catalogo, Venezia 1934, p. 123, sala XXIII; A. Sartori e A. Sartori, Artisti a Mantova nei secoli XIX e XX, vol. 1, Mantova 1999, pp. 48-49 e 52 (riprodotta). [A. P.]
Jia Ruskaja – argilla
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Botteghe Granducali o Richard Lebrun (Riccardo Bruni) Tavolo Piano, ultimo quarto del XVII secolo, legno impiallacciato di ebano e intarsiato di legni vari, cm. 143,5 x 70 Base, Italia del nord (?), seconda metà del XVIII secolo, legno di noce intagliato, impiallacciato e in parte intarsiato, cm. 126 x 52
Il mobile si compone di due parti eseguite in epoche diverse: il piano fu realizzato durante l’ultimo quarto del Seicento da uno degli ebanisti operosi a Firenze, mentre la base fu con tutta probabilità compiuta, dopo la metà del secolo seguente, da artigiani attivi nel nord Italia al fine di adeguare il mobile al nuovo gusto rococò. Per quanto riguarda il disegno dell’intarsio del piano esso è un esempio della diffusione del gusto per gli ornati floreali creati dagli ebanisti fiamminghi e da loro poi esportati in gran parte degli Stati europei. Le esuberanti decorazioni ad intarsio si rifanno infatti a quella particolare moda definita “tulipomania” che, nata tra il 1630 e il 1640, ebbe largo seguito specialmente in Inghilterra, Germania e Francia. In Toscana, tale soluzione decorativa può essere intesa come un ulteriore sviluppo del naturalismo ligozziano, che partendo da un’analisi minuziosa ed emblematica dei motivi floreali giunge alle elaborate e “monumentali” organizzazioni degli ornati presenti nelle opere uscite dalla bottega di Leonardo Van der Vinne ( notizie dal1659 al 1713), nei piani intarsiati della Villa della Petraia (ora in deposito a Palazzo Pitti), in quello della collezione Chigi Saracini di Siena, sulle superfici lignee della porta dell’alcova del Gran Principe Ferdinando a Palazzo Pitti, eseguita da Richard Lebrun nel 1686, e in una scrivania del Museo Civico di To-
rino (tutte queste opere sono illustrate in E. Colle, Il mobile barocco in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1600 al 1738, Milano 2000, pp. 166-167). Gli elaborati intrecci di volute di foglie e fiori, alternati a pappagalli e farfalle che contornano la variegata composizione floreale intarsiata al centro del nostro piano ricorda infatti molto da vicino analoghi decori disposti sui citati piani di tavolo (anch’essi poggianti su supporti realizzati in epoca posteriore, ma originariamente di “pero tinto nero”) della Villa della Petraia attribuiti dalla critica a Richard Lebrun, ad eccezione di Alvar Gonzàlez – Palacios (Trionfi barocchi a Firenze, in E. Colle op. cit. 1997, pp. 32 -33) che vi vede invece la mano più esperta di Leonardo van der Vinne. Per quanto riguarda il piano qui esaminato, si può osservare inoltre come esso dipenda, per la parte dell’ornato, dal disegno adottato nei tavoli commissionati dal Gran Principe Ferdinando dove la ricca composizione floreale si staglia in alto su di un elaborato piedistallo mentre le carnose volute di foglie d’acanto sono state abilmente disposte a riempire gli spazi laterali, con la differenza che nel nostro esemplare furono eliminate la scenetta di caccia inserita entro un cartiglio fregiato Richard Lebrun (Riccardo Bruni), Porta dell’alcova del Gran Principe Ferdinando, 1686, Firenze, Palazzo Pitti, Appartamenti Reali
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d’avorio e le figure del levriero e del leone sostituite da due pappagalli affrontati. Per quanto riguarda la tecnica dell’intarsio essa invece risulta più vicina a quella con cui fu condotta la porta dell’Alcova del principe: quasi identiche appaiono infatti le volute realizzate con l’uso di legni di due diversi colori e i fiori da esse nascenti sapientemente ombreggiati con l’uso di un ferro rovente in maniera da rendere un illusorio effetto di profondità. Tecnica quest’ultima utilizzata anche per ottenere un maggiore naturalismo nella resa dei petali dei tulipani frammisti alle peonie e agli sfrangiati garofani su cui volteggiano farfalle. Il piano è stato oggetto di uno studio condotto da chi scrive e di prossima pubblicazione sulla rivista Decart. [E.C.]
Richard Lebrun o Leonardo van der Vinne, Piano di tavolo, 1686, Firenze, Villa della Petraia
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Francesco Abbiati (documentato dal 1783 al 1828)
Tarsia raffigurante Diana ed Endimione Fine del XVIII secolo
Il pannello, firmato in basso a sinistra “Franc. co Abbiati”, rappresenta Endimione dormiente sorretto da Ipnos, dio del Sonno, allorché viene visitato da Diana, identificata, nel mito originario, nella figura di Selene, la quale innamoratasi del giovane pastore lo visitava ogni notte mentre egli dormiva il suo sonno eterno. La raffinata tarsia - la cui scheda con relativa bibliografia verrà pubblicata sul prossimo numero della rivista Decart - è un importante documento per meglio capire lo sviluppo artistico di Francesco Abbiati, un ebanista originario di Mondello, sul lago di Como, del quale se ne erano perse le tracce ma Sarcofago con il mito di Endimione e Selene, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino, Galleria dei Candelabri, particolare
che durante gli ultimi due decenni del Settecento, era assurto ai vertici della committenza europea grazie all’abilità raggiunta nell’intarsio ligneo. In virtù delle ricerche di Alvar Gonzàlez – Palacios, che per primo scoprì alcune opere firmate dall’intarsiatore, siamo venuti così a conoscenza che Abbiati, dopo aver compiuto il proprio apprendistato nella terra natale (si potrebbe supporre nella bottega di Giuseppe Maggiolini), si trasferì a Roma, dove i suoi lavori sono menzionati per la prima volta nel 1787 in uno scritto apparso sul Giornale delle Belle Arti. Qui si lodava l’ingegno dell’intarsiatore e si fornivano alcuni dati circa la sua attività, allora svolta in un laboratorio situato in Campo Marzio e si asseriva che nei suoi lavori gli intarsi sembravano “una vera Pittura” ed erano condotti con un tale “artifizio”, sconosciuto nelle tarsie eseguite fino ad allora, tanto da far ingannare l’occhio di chiunque li vedesse. Come si poteva notare in due cassettoni realizzati all’interno della bottega di Campo Marzio non meno “ingegnosi nella costruzione” e di “gran lunga superiori in bellezza“ di un tavolino venduto alla Regina di Napoli. Essi infatti spiccavano per il “lavoro finissimo” delle tarsie di “fiori, e di bellissime figure elegantemente disposte e con diverse Medaglie esprimenti Gruppi di Baccanti”, quasi a simulare una pittura ma in realtà “un vero Mosaico di tutti legni orientali incastrati”. Il nostro anonimo recensore concludeva quindi il suo testo lodando “l’abilità del Professore, che fa vedere all’Italia, che non vi è bisogno di ricorrere alle oltramontane contrade per avere
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simili lavori portati alla maggiore perfezione e gusto sublime’. E difatti Francesco Abbiati ebbe tra i suoi committenti, oltre la Regina Maria Carolina di Borbone, anche i sovrani di Spagna, dove egli si trasferì per un breve tempo, nel 1791, fornendo alcuni arredi a Maria Luisa di Parma, consorte del Re Carlo IV. Negli intarsi di Abbiati finora noti si può osservare che egli prese come modello per le sue composizioni antichizzanti le incisioni raffiguranti gli affreschi delle Terme di Tito a Roma, pubblicate da Nicolas Ponce a Parigi nel 1786, e quelle delle sculture del Museo Pio - Clementino, incise da A. Locatelli per il volume di Ennio Quirino Visconti dato alle stampe nel 1788. Proprio dai rilievi dei Musei Vaticani, Abbiati ricavò il soggetto per questo lavoro: nella Galleria dei Candelabri, del Museo
Pio Clementino esiste infatti un sarcofago (Inv. 2829) di epoca classica, scoperto nel 1776 nella Vigna Casali, dove il mito di Endimione fu illustrato con una disposizione dei personaggi poi ripresa dall’ebanista con minimi cambiamenti. La scultura venne infatti pubblicata da Visconti (Il museo Pio Clementino illustrato e descritto da Giambattista ed Ennio Quirino Visconti, Milano 1820, IV, pp. 112 -120, tav. XVI) che la descrive come “il perpetuo sonno d’Endimione sul Latmo, che dava agio alla Luna di vagheggiarlo ... addormentato fralle braccia del Sonno stesso. Il vecchio barbato, nel cui grembo riposa Endimione, è il Dio del Sonno ...”. Rispetto all’originale, nella sua tarsia Abbiati, se da una parte citò fedelmente le figure di Endimione dormiente, dell’allegoria del Sonno e di Diana, dall’altra eliminò “i due Genj della Morte” che “appoggiati a spente faci” chiudono il bassorilievo alle estremità e la figura di “una Najade giacente appoggiata all’urna, che sembra osservar tacita i furti della celeste rischiaratrice della notte” e, contemporaneamente, introdusse una variante nel genietto alato (secondo Visconti, Amore che guida Diana facendole vedere “il sentiero con la sua face”) da lui colto nell’atto di sorreggere con entrambe le mani la fiaccola. [E.C.] Sarcofago con il mito di Endimione e Selene, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino, Galleria dei Candelabri, particolare
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Jan Bruegel il vecchio (Bottega) (Bruxelles 1568- Anversa 1625)
Madonna Orante Olio su rame cm. 8,4 x 6,3
Il dipinto ad olio su rame misura cm. 8,4 x 6,3 ed è in buono stato di conservazione, all’interno di una importante cornice in bronzo dorato, smalti e cristallo di rocca su modello sansoviniano ed elegantemente elaborata. Raffigura la Madonna orante, ossia un soggetto iconografico molto diffuso nella tradizione cristiana, qui ripresentato seguendo uno schema collaudato che vuole la Vergine all’interno di una garbata raffigurazione devozionale, quasi certamente destinata al culto domestico. Considerando i dati stilistici della piacevole immagine, è indispensabile rimarcare che siamo dinanzi ad un’opera realizzata da un pittore oltremontano dotato di buone capacità tecniche ed esecutive, attivo tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del secolo successivo. Riguardo ai caratteri stilistici del piccolo dipinto si evidenzia l'operato di un valente maestro di scuola transalpina: siamo, infatti, in presenza di un quadro assai gradevole, eseguito da un pittore fiammingo che fu attivo a cavallo tra Cinque e Seicento. Né va taciuto che il gusto ricercatamente attardato, da ultimo manierista, l’impasto pittorico acceso e smaltato, adatto ad esaltare le tinte vivide e l’aureola dorata, testimoniano il lavoro di un artista che quasi certamente soggiornò anche a Venezia (dove ebbe modo di ammirare le famosissime Madonne di Tiziano, a cui il nostro rame si ispira), e a Roma. Per tali ragioni ritengo di potere assegnare la nostra Madon-
na orante ad un pittore cresciuto artisticamente nella bottega di Jan Bruegel il vecchio (Bruxelles, 1568-Anversa, 1625), autore di splendide nature morte, ed Hendrick van Balen (Anversa, 1575-1623) pittore di belle figure: dunque, un valente maestro collaboratore dei due artisti, capace di trasformare composizioni devozionali in godibili dipinti religiosi. Un artista talentuoso, anch’egli attivo in Europa agli albori del XVII secolo e che fu verosimilmente al servizio del clero, della nobiltà e soprattutto dei ricchi mercanti; ossia di quegli strati sociali privilegiati ai quali erano solitamente destinate le costose composizioni simili a quella in esame. [E.N.]
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Luigi Valadier (bottega) Tempietto in marmi colorati altezza cm. 51; diam. cm. 39 Roma, inizi del XIX secolo
Base circolare in bianco e nero di Aquitania, due gradini in giallo antico su cui si elevano otto colonne in alabastro cotognino con basi e capitelli ionici in bronzo dorato. Al di sopra una trabeazione circolare in giallo antico con teste di leone in rame dorato, sormontata da otto statuette in bronzo dorato, su plinti in alabastro separati da transenne anch’esse in bronzo dorato. Questo elegante monumento da tavola ha un precedente prestigioso nel Tempio di Flora, eseguito da Luigi Valadier nel 1778 per il Balì de Breteuil alla morte del quale venne venduto dagli eredi per passare in possesso del futuro Carlo IV. Oggi si trova nel Palazzo Reale di Madrid. Quell’opera sontuosa, eseguita in lapislazzuli, alabastro fiorito, rosso antico e smalti raggiunge più o meno le stesse dimensioni (cm. 48 x 42) della nostra. Ambedue i lavori derivano da un celebre prototipo antico, il Tempio della Sibilla a Tivoli. Il tempietto di Madrid ha perso le figure del coronamento, qui conservate. Luigi Valadier, Tempio di Flora, Madrid, Palazzo Reale L’opera esaminata venne certamente eseguita a Roma ai primi anni del secolo XIX. Esiste anche la possibilità che essa spetti ai discendenti di Luigi Valadier che tennero bottega in via del Bibliografia: A. Gonzales-Palacios, Pittura per l’eternità. Le collezioni reali spagnole di mosaici e pietre dure, Milano, 2003, Babuino per diversi anni. pp. 213, 225 [A.G.P.]
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Luigi Manfredini (attr. a) (Bologna 1771 – Milano 1840)
Quattro vasi in bronzo dorato e laccato Manifattura italiana 1825 ca. altezza cm. 33
I quattro vasi formano un finimento che poteva essere esposto sia a sé stante sia, combinato a candelabri e alzate, andare a far parte di un centrotavola. In questo caso i vasi potevano avere funzione di rinfrescatoi, o di contenitori per fiori o ancora di elemento di pura decorazione. Il loro uso in questo senso è attestato sin dal XVIII secolo ma è solo coi primi dell’Otto-
Manifattura Manfredini, coppia di bracci da muro in bronzo dorato, particolare, collezione privata
1 Fra i numerosi disegni per centrotavola in bronzo dorato fra secondo e terzo decennio dell’Ottocento si vedano, ad esempio, quelli della manifattura dei Feuchère (Dessins des Feuchère, Parigi, Galerie Andrè Lemaire, 1998,
cento che questo genere di manufatti interamente in bronzo trova la sua vera fortuna, seguendo lo stile e le impostazioni dettate dai grandi bronzisti dell’ Impero come P.-P. Thomire1. Hanno corpo a campana poggiante su un cespo in cui si alternano foglie d’acanto ad altre, più stilizzate. Foglie d’acanto compaiono anche nella parte bassa del corpo scandito in alto da teste di leone a cui sono appese ghirlande floreali e dalle cui fauci fuoriescono brevi pendenti dello stesso tipo. Il labbro svasato è ornato da piatti baccelli e lancette. Il disegno classicista dei nostri esemplari ha ovvie radici nella serie di incisioni di Giovanni Battista Piranesi, Vasi, Candelabri, Cippi…apparsa postuma nel 1678 in cui erano documentati i reperti di scavo abilmente restaurati e reinventati dal Piranesi. Le maschere leonine, i festoni, i registri fogliacei e decorativi che vediamo sui vasi qui in esame sono debitori a quel repertorio di immagini ma tuttavia se ne distaccano per un diverso sentimento interpretativo. Il gusto espresso da questi manufatti appare infatti già più “moderno” e stilizzato rispetto a quello archeologico del Settecento che, nel campo qui in esame, ha massima espressione dei lavori della bottega dei Valadier. La robusta descrizione delle ghirlande, ad esempio, si accorda allo stile della piena Restaura-
figg.18-19; o uno di Pelagio Palagi (S. Bandiera Gregori, “Filippo Pelagio Palagi. An Artist between Neo-Classicism and Romanticism”, in Apollo, maggio 1973, fig. 17.)
29 - Luigi Manfredini- Quattro vasi in bronzo dorato e laccato
Manifattura Manfredini, coppia di candelabri in bronzo dorato e patinato, collezione privata 2 Si veda ad esempio un grande vaso in porcellana blu di Jacob Petit montato in bronzo, oggi al Louvre illustrato in Un âge d’or des arts décoratifs, catalogo della mostra, Parigi Grand Palais 1991, n. 208, p.373
zione che pur mantenendo saldo il lessico classicista ne rivede impiego e proporzioni; stesso può dirsi per la struttura generale connotata da una sagoma pura su cui risalta enfaticamente il labbro: un risalto simile è dato, per fare un solo esempio, in esemplari del 1830 circa di bronzisti e ceramisti francesi2. L’ipotesi attributiva che può essere tracciata per questi eleganti e solenni lavori conduce in ambito italiano, più specificamente nelle manifatture attive a Milano che operarono nei primi decenni del XIX secolo. Fra queste la più celebre fu quella di Francesco Manfredini (già attivo a Parigi da dove fu chiamato nel 1806 da Eugenio de Beauharnais) diretta poi da Luigi e Antonio Manfredini a partire dal 1811. Già nei primi lavori di questi fonditori si assiste ad una rimeditazione di caratteri neoclassici nella linea degli ornatisti e architetti attivi ai primi del secolo. Ancor più calzante appare il confronto fra i nostri vasi e alcuni manufatti usciti da un’altra grande firma milanese, quella di Strazza e Thomas che dal 1815 fu presente con regolarità alle esposizioni di Milano e Venezia3 e collaborò saltuariamente coi Manfredini. Un vaso da loro approntato, custodito nella Pinacoteca Ambrosiana e databile intorno al 18254 trova consonanze sia stilistiche, sia tecniche con i nostri esemplari; si confronti, ad esempio, l’analogo motivo sul labbro estroverso. Lo spirito decorativo della Restau3 E. Colle, A. Griseri, R. Valeriani, Bronzi decorativi in Italia, Milano, 2001, pp. 306-307, 330-337 (E. Colle)
razione che queste manifatture esprimono è strettamente legato al mondo dei disegnatori nati alla fine del Settecento5: una certa consonanza stilistica è rintracciabile fra i vasi e l’opera grafica di Domenico Moglia (1782-1867) che pubblicò a Milano nel 1838 la sua Collezione di soggetti ornamentali con tavole che illustravano lavori eseguiti anche anni addietro. La volumetria robusta di teste, ghirlande, registri fogliacei sugli oggetti illustrati da Moglia ha, lo si ripete, un’indubbia consonanza con quanto il fonditore ha concepito e realizzato con sapienti finiture al cesello. Si può ancora aggiungere che la laccatura rossa data al fondo non solo contribuisce a far risaltare questi elementi ma, sebbene aggiunta forse qualche decennio dopo la loro esecuzione, è ancora un tratto ornamentale caratteristico che riecheggia le bicromie nette dell’Impero o, ancor meglio, quelle del più maturo stile neoclassico francese. In quel periodo fu infatti uso approntare oggetti decorativi in cui si contrapponeva il bronzo dorato su fondi di acciaio o di altri metalli scuri che, con un opportuno trattamento, costituivano un contrasto cromatico audace6. [R. V.]
4 H. Ottomeyer, P. Pröschel, Vergoldeten Bronzen, Monaco, 1986, I, p.403, n. 5.19.3 5 Sia i Manfredini sia Strazza e Thomas ebbero, ad esempio, stretti contatti con Pelagio Palagi (Colle, op.cit. a nota 3, pp.362-367 e passim)
6 Ottomeyer, Pröschel, op. cit. a nota 4, I, tav XXI. Lavori del genere furono particolarmente favoriti anche da manifatture russe, prima fra tutte quella di armi di Toula.