MAURIZIO NOBILE ANTIQUARIO 19/a, Via S. Stefano, 40125 Bologna Tel. +39051238363 - Fax. +39051225276 www.maurizionobile.com - maurizionobile@libero.it
MAURIZIO NOBILE VISAGES EN POSE ritratti dipinti, scolpiti, fotografati in galleria antiquaria
catalogo a cura di: Anna Maria Amonaci Eugenio Busmanti
26 settembre – 8 novembre 2008 via S.Stefano 19/A Bologna
Dando alle stampe il catalogo della consueta mostra attuale, divenuta oramai appuntamento fisso, rinnovo anno dopo anno un impegno con me stesso e con il gruppo di amici e visitatori che da tempo seguono il mio lavoro e mi onorano della loro stima. Sono specialmente orgoglioso di aver potuto ampliare gli spazi della galleria restaurando un’ulteriore porzione dello storico e magnifico palazzo Bovi Tacconi in Bologna, in quella che fu la sede del celebrato studio fotografico Villani. E’ un’occasione – questa – per interrogarmi su che cosa sia ai nostri giorni il collezionismo, la conoscenza e il commercio di arte antica: in una parola l’antiquariato. Per me è stata ed è una sorta di vocazione. Sono nato e rimango collezionista, ma il contribuire alla circolazione di opere d’arte e alla diffusione del mio gusto personale hanno costituito un’ attrattiva che ha finito per avere il sopravvento. In secondo luogo il potermi accostare, anche fisicamente ad opere d’arte, oggetti, manufatti creati non lo nego, per un mondo di privilegiati ma destinati per questo ad obbedire ai canoni e ai criteri del bello, dell’accurato, del prezioso e del
raro mi ha sempre incantato. Questo mi induce a tentare di migliorare ed elevare via via la qualità della mia scelta. Infine mi pare che l’arte antica costituisca un impareggiabile veicolo di propagazione culturale. In un mondo in cui, e mi riferisco al mercato artistico, vengono meno tutte le certezze e svanisce qualsiasi filologia, l’arte antica continua a basarsi sull’aspirazione alle notizie fondate e ai dati di fatto. E’ per questo che ho inteso che il catalogo delle opere da me raccolte fosse quanto piu’ possibile accurato e proficuo, affidandone la stesura ad Anna Maria Amonaci, Eugenio Busmanti, Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca che ringrazio per la costante disponibilita’, quattro studiosi che godono della mia considerazione. Spero dunque che questa mostra in cui ho messo tutta la passione per il mio lavoro incontri il favore dei visitatori, cui sono grato in anticipo. MAURIZIO NOBILE
MAURIZIO NOBILE VISAGES EN POSE ritratti dipinti schede di Eugenio Busmanti [E.B.] Stefano Grandesso [S. G.] Fernando Mazzocca [F. M.]
VISAGES EN POSE di EugEnio Busmanti
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Il suggestivo e salottiero titolo rinvenuto per questa importante mostra da Maurizio Nobile e da me accettato di buona voglia, anzi, con quell’entusiasmo che è tipico di chi teme che non avrebbe saputo dire altrettanto bene, rimanda a una pratica abolita, la posa. In assenza di quel mezzo meccanico di riproduzione che chiamiamo macchina fotografica il ritratto aveva precise esigenze, a fondamento delle quali si poneva la somiglianza. Il ritratto infatti ha sempre teso alla riproduzione di esseri umani mediante la resa pittorica o scolpita dei tratti fisionomici di un preciso individuo. Il complesso dei tratti somatici tipici e riconoscibili propri di un individuo viene detto verosimiglianza fisionomica e per essa si invoca una fedeltà di immagine che sia addirittura quella dello specchio, speculare, ovverosia una identità assoluta. Ne consegue che la storia dell’ arte come tutte le azioni umane è scienza transitoria, passeggera e vana, se appare così superato il concetto stabilito dal Croce secondo cui, tra i generi letterari e artistici un genere del ritratto in effetti non esiste. “L’artista ritrae sempre il proprio sentimento e non mai il modello” è l’assioma di Benedetto Croce. Lungi da me l’idea di oppormi a quello spirito magno e a quella intelligenza impareggiabile, ma mi domandavo se, per realizzare quella somiglianza richiesta dagli artisti e che il filosofo avrebbe nel secolo successivo respinto, il Canova, di cui si conoscono decine di ritratti, avesse dovuto ogni
volta posare ex novo. Gli artisti, quelli di calibro secondario, si saranno contentati di ritrarre da un ritratto, cancellare cioè la maniera del prototipo per sovrapporvi la propria e qui torniamo parzialmente a dare ragione al Croce. E’ che la somiglianza è talmente richiesta e ottenuta dall’artista del passato che i volti del Canova, attraverso le tele sono facilmente riconoscibili, tanto che chiunque ne abbia incontrato qualcuno può dire: “ancora un ritratto del Canova”, perché il grande scultore ha acquisito una fisionomia riconoscibile anche a noi posteri che non l’abbiamo mai incontrato dal vero. Queste nostre riflessioni sono ovviamente indotte dallo splendido esemplare di un ritratto del Canova dovuto a Giovanni Battista Lampi junior, ritrattista principe a Vienna con il padre, per il quale il famoso scultore aveva realmente posato .Così come il Lampi fu quasi esclusivamente ritrattista (ma fu autore anche di qualche pala d’altare) al punto di diventare artista ufficiale di corte a Vienna, vi furono pittori più portati al ritratto o esclusivamente portati al ritratto, così come altri negati al ritratto. Non si può non dichiarare che Velasquez non fosse versato per il ritratto, eppure egli fu pittore completo, forse il più completo e il più grande di tutti i pittori dell’età barocca e comunque il più caro alla sensibilità moderna. Eppure fu pittore di tutti i soggetti. E tuttavia se a ben guardare anche nelle composizioni di storia la tentazione al ritratto scappa sempre un po’ fuori. A ragionare con
intenzione di delineazione storica il ritratto non risulta in alcun modo genere minore e subalterno ma appare viceversa frutto di civiltà evolute e giunte a un apice talmente elevato del loro splendore da risultare instabile. E’ controverso se esista un ritratto nella Grecia antica, ma è inoppugnabile che esista una ritrattistica come la si intende con accezione moderna e anzi alcuni capolavori artistici emergano già nella produzione degli etruschi. Non esiste ritratto nell’arte dell’antico Egitto ma le tavolette del Fayum, opere raggruppabili nell’ambito della produzione tardo antica ritrovate nella necropoli di quella località, saranno anche coperchi di mummie, ma, con le loro labbra carnose e i loro occhioni sgranati che ci guardano con un realismo perfino imbarazzante, costituiscono una delle vette della ritrattistica di tutti i tempi. Perché il ritratto si fa’ da vivi ma rappresenta uno dei tanti espedienti tentati dal genere umano per vincere il tempo e dominare il futuro. I ritratti sono fatti per la posterità se non proprio per l’eternità e sono predisposti per tramandare le nostre sembianze, il nostro ricordo, la nostra vita in una parola, a figli, nipoti, pronipoti e tutta una discendenza che ci si illude sia interminabile. Senonché il Tempo come svolgimento di tutti i fenomeni e di tutte le vicende umane e naturali prende il sopravvento e, quando si sarà richiuso su di noi e su tutti coloro che ci hanno conosciuto e hanno sentito parlare di noi l’immane gorgo dell’oblio, il ritratto da noi commissionato non avrà
più importanza per tramandare qualcosa di reale. Ci si sarà anche scordati a chi appartenessero i tratti di quel volto e il ritratto continuerà a vivere di vita propria e autonoma come tutti i fatti dell’arte. Dopo la pittura tardo romana il ritratto decade e si eclissa per tutto il medioevo. Rinasce con il risorgere dell’individualità personale di contro al mondo religioso–simbolico della lunga età di mezzo. Risorge con la visione laica della vita. Non sono infatti ritratti i pur cosiddetti ritratti di san Francesco compiuti da Cimabue ad Assisi e nemmeno l’affresco dell’Abbazia di Subiaco che si vuole visitata da San Francesco già nel terzo decennio del Duecento ed è venerato come effigie del Poverello d’Assisi. Così come non è un ritratto la grande statua, desunta da modelli di Arnolfo di Cambio (scultore che pure già tendeva al ritratto) raffigurante Bonifacio VIII, posta dai bolognesi sulla facciata del palazzo del Comune nell’anno 1300. E’ la rappresentazione di una tipologia, in questo caso della sovranità papale, disgiunta da qualsiasi anche lontano intento mimetico. Il ritratto riaffiora prepotentemente nel Quattrocento, l’età delle Signorie, delle prime manifestazioni della vita di corte, delle sfrenate affermazioni personali. Subito emergono alcuni caposaldi della ritrattistica che paiono tuttora reggere come monumenti incrollabili dello spirito umano. Ora, io non ho mai riflettuto per iscritto–lo scrivere è il momento della verità– sulle caratteristiche del ritratto ma
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ho sentito innumerevoli volte di una consueta e, mi pare, abusata terminologia con locuzioni che si concludono con il termine psicologico.“Approfondimento psicologico”, “acuta caratterizzazione psicologica”, “notazioni psicologiche”, “ritratto psicologico” sono le locuzioni innumerevoli volte e universalmente utilizzate. Non vedo come l’artista possa immettere alcunché di psicologico nella riproduzione di tratti somatici che afferiscono comunque alla sfera fisica. Di psicologico può essere soltanto il complesso dei dati caratteristici della personalità dell’effigiato il cui tratto saliente l’artista si è sforzato di catturare o l’aspetto psicologico che egli ha ritenuto di dover attribuire al raffigurato o viceversa è stato dal committente preteso. Si sa ad esempio che il ritratto di Sutherland offerto a Churchill dal Parlamento britannico fu distrutto dal grande uomo politico perché egli riteneva che gli fossero stati attribuiti i caratteri di una personalità troppo aggressiva che non si autoriconosceva, che non accreditava. Ma del resto Cecil Beaton ci aveva dato di Churchill una fotografia dal volto altrettanto cagnazzo. Non posso a questo punto resistere all’’infantile tentazione di dichiarare che uno dei miei ritratti preferiti è il cosiddetto Ignoto marinaio di Antonello da Messina che si conserva a Cefalù. Infantile e antipedagogica predilezione perché ritengo che chi dedica all’osservazione delle forme artistiche una parte delle proprie energie professionali non abbia più predilezioni. Non esiste graduatoria degli argomenti degni
di studio. Non esiste una farfalla preferita dall’entomologo ma tutti gli insetti possono essere oggetto di studio fatti salvi i criteri di dignità estetica per quello che riguarda le opere d’arte. Tanto mi piaceva il quadro di Antonello che sono giunto a ribattezzarlo Ritratto dell’allegro marinaio perché il suo sorriso mi sembrava irresistibile, eppure c’è chi lo ha definito “sorriso arcaico fino all’esasperazione” per l’analogia della bocca con quelle delle statue greche provenienti da Egina, per cui fu definito appunto eginetico un sorriso fisso e stereotipato. Lo Zeri, sempre per citare tentativi di attribuzione psicologica a un ritratto, definiva l’Ignoto marinaio il massimo esempio di sicilitudine che si conosca nelle arti figurative. Intendendo forse con questo goffo neologismo l’insieme delle consuetudini, delle mentalità, degli atteggiamenti che sono tradizionalmente attribuiti ai siciliani. Come a dire “attenti, il marinaio è un mafioso”. Ma di riscontrabile c’è solo la mobilità degli occhi febbrili, che veramente bucano la tela e i caratteri somatici di presumibile ascendenza araba nel giovane ma non giovanissimo uomo mediterraneo, d’altronde elegantemente vestito. Di una vetta dell’arte del ritratto, dunque, niente si può dire e tutto si può dire. Per il ritratto di Antonello da Messina, così come per il ritratto in generale di tutti i tempi e di tutte le epoche vale la migliore riflessione che sia stata fatta su questo problema da Panofsky a proposito dei ritratti quattrocenteschi di Van Eyck (che tra l’altro sarebbe
stato il maestro di Antonello). Sono ritratti “descrittivi più che interpretativi nel senso che proprio la mancanza, o piuttosto la latenza di qualità precisamente definibili, conferisce loro una particolare profondità, che si è nello stesso tempo tentati e scoraggiati di esplorare”. Il ritratto in meno di un secolo si sviluppa con una potenza e una vigoria come se fosse qualcosa che l’umanità assetata aveva agognato con tutte le proprie forze. Raffaello compone superbi ritratti a sè stanti e ritratti, più o meno realistici o idealizzati, in tutti i suoi grandiosi lavori. E’ da dire che egli fu sommo anche come ritrattista benché l’includerlo in questa categoria certamente determinerebbe una sua svalutazione nella graduatoria estetica in vetta alla quale egli si trova. Tutti gli artisti da quel momento si provarono nel ritratto e farne la storia equivarrebbe a fare la storia dell’arte e dunque ce ne asterremo. Si può soltanto ripetere che vi furono artisti nati per il ritratto come il bergamasco Moroni. Le sue sacre conversazioni sono insipide ma i suoi ritratti ci guardano implacabili con la forza irrefrenabile della vita. Eppure una scorsa consecutiva ai suoi volti svela la ripetitività dei suoi schemi compositivi. Caravaggio invece non produsse se non un paio di veri e propri ritratti a lui destinati a precisi committenti. Ma le sue opere, per lo più sacre, sono ricchissime di ritratti “rubati” a modelli che si direbbero oggi presi dalla strada: Caravaggio è un vero ritrattista in itinere, i suoi modelli, soltanto, hanno evitato
di posare. Ancora una volta un artista molto diverso dal Caravaggio e a lui successivo, il Baciccio (Giovanni Battista Gaulli, così chiamato con tipico soprannome genovese) fu appassionato decoratore di cupole e pale d’altare. Eppure fu anche specialista di ritratti, vantando una committenza estremamente illustre, l’élite dell’epoca: papi, cardinali e principi romani. E’ notevole come nel Gaulli si affermi prepotentemente la tendenza a rendere visibile e tangibile l’inaudito fasto ornamentale di abiti, tessuti, merletti da lui ricreati con impareggiabile minuzia, densità di materia pittorica e vibrante cromatismo. Ora, la mostra di un collezionista e di un gallerista, come quella a cui mi ha chiamato a dare voce Maurizio Nobile è una scelta personale a cui chi scrive non è stato chiamato a partecipare. L’operazione più importante e fondamentale è compiuta, e così si può soltanto tentare di intuire le ragioni di una predilezione attraverso quello che si conosce di colui che quella scelta ha compiuto. Poiché risalendo il tempo siamo pervenuti ai secoli del primo ritratto esposto, il Ritratto di gentiluomo dell’olandese naturalizzato inglese, il settecentista Herman van der Myn. Direi che un certo gusto per il ritratto di parata presiede all’attività del nostro mecenate se così mi posso aulicamente spingere a chiamare il nostro gallerista. Il ritrattista olandese, poiché proveniva dalla stessa cultura non poteva non rifarsi al precedente di Van Dyck, come avviene appunto in questo ritratto di
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gentiluomo inglese. Diciamo inglese perché i tratti del volto paiono nutriti di costumi britannici: così come il suo predecessore anche van der Myn pare creare dalla pallida materia il prototipo del dandy, circonfuso in ampi e squisiti drappeggi arricchiti di cangiantismi e passaggi tonali ma spiranti dal volto una delicata sensibilità. Ad altrettali richieste di uno status al vertice della gerarchia sociale pare volgersi il ritratto del conte Giusti del Giardino, uno di quei frutti di una matura tradizione artistica evolutasi in una città di prima grandezza artistica senza essere mai stata una capitale: Verona. La famiglia Giusti trae il proprio predicato non da una località geografica come abitualmente avviene ma dallo splendido giardino creato dietro il palazzo dell’illustre casata e tuttora esistente: nel ritratto in mostra il padre non deroga dall’altero e severo atteggiamento di consapevole superiorità che fu proprio di tanta aristocrazia settecentesca, perlomeno così come ci appare nei ritratti, mentre il bambino si svaga con l’animale preferito, in questo caso un pappagallo, reggendo affettuosamente la mano del padre. La ritrattistica lombarda della seconda metà del Settecento, di cui Martin Knoller, benché tirolese, è illustre esempio tende a liberarsi degli orpelli di molta ritrattistica aulica come avviene nel dipinto presente in mostra, raffigurante un ignoto gentiluomo, in cui la passamaneria è usata in funzione di stacco tra le superfici brune più che per per esaltare una
dignità sociale. L’attenzione dell’artista è centrata sulla mano in primo piano resa con una delicatezza che tende a emulare la morbida, e nel contempo naturalistica maniera del Mengs di cui il Knoller fu allievo. La lettera è necessaria per istituire una profondità spaziale ma l’attenzione è concentrata sul volto di cui ci vengono fornite notazioni profonde in quanto prive di atteggiamenti forzati. Il maggior risultato di intensità con la più elegante parsimonia dei mezzi espressivi. Man mano che viene a scadere il secolo XVIII e ci si inoltra nell’Ottocento, già nei primi anni la ritrattistica di scuola francese ma di neppur troppo lontana e sottaciuta ascendenza olandese, mescola completamente le carte in tavola. Il ritratto abbandona la liberazione dell’individuo dallo spazio circostante e si integra nell’ambiente con una compiaciuta esplorazione lenticolare di interni, mobili, arredi, fiori freschi, nella tendenza ad una intimità domestica che veniva desunta dal grande Veermer. La dolcissima fanciulla che posa languidamente come interrotta nella stesura di una lettera ci nasconde una storia di amicizia, avviandosi la sensibilità e il gusto in quella direzione di virtù domestiche e buoni sentimenti che condurranno da lì a qualche decennio alla morale vittoriana.
Il ritratto con miniatura è di solito un ritratto che si fa come pegno di fidanzamento e che, come tale, viene inviato al promesso. In questo caso invece è un ritratto che allude ad una fedeltà coniugale. Il preferire l’immagine del marito al possesso dei gioielli è un locus letterario classico del Neoclassicismo. Deriva dall’episodio narrato da Cornelio Nepote in cui la moglie di Focione, una corrispettiva coniugale della madre dei Gracchi, ad un’amica che le aveva mostrato i gioielli aveva risposto di preferire il marito a qualsiasi pietra preziosa. “Gemmas cecropiae uxori ostentaverat hospes. Ast ille unus ait Phocio gemma mihi” aveva scritto l’autore latino. Il consorte, di rimando, è figurato nell’atto di redigere una lettera. A lei stessa. Ancora nella direzione nell’ambientazione dei personaggi e nella realtà indagata con virtuosistico compiacimento è il grande quadro che ci mostra un gruppo di bambini nell’atto di giocare con i loro cani, tra i quali il grande barboncino è raffigurato in tutte le sue caratteristiche di mantello. Gli arredi sono precisissimi e l’assenza degli esseri viventi potrebbe fare di questo dipinto una di quei ritratti di interni che costituirono la predilezione dello stile Biedermeier. La stessa profusione di dettagli arredativi e l’efficace resa di tessuti, intagli, dorature e ornamenti preziosi, osserviamo nel ritratto di Alessandrina Bonaparte, seconda moglie del fratello di Napoleone, Luciano, che siede probabilmente su una terrazza della villa dal consorte posseduta a Frascati,
inquadrata dallo sfondo di un magnifico paesaggio a perdita d’occhio che un neoclassico come Bosio si compiaceva di indagare minuziosamente, scevro di sottintesi metafisici, ma che i barocchi ritenevano viceversa metafora del Creato. Un ritorno intramoenia è il ritratto del medico Vandoni di Giambattista Gigola, anch’egli raffigurato con una lettera in mano, carte e penne su un tavolo, vera e propria macro–miniatura del pittore lombardo. Di tutt’altra specie e natura e, come procedendo per contrasto, è il ritratto del Barone De Raym, un alto ufficiale dell’esercito francese che affida ai posteri la sua effige pavesandosi in un accumulo di decorazioni, nastri, galloni, palline, passamanerie, pendagli, pennacchi e nappe che hanno soprattutto una funzione decorativa e che non erano stati sdegnati nemmeno dal grande David che ne aveva tratto alcuni eccelsi capolavori. Di tutt’altra levatura artistica e quasi ad accentuare il contrasto è il ritratto del Principe di Metternich che viene raffigurato in busto privo anche del drappeggio, come un eroe greco. Ma del personaggio moderno egli conserva tuttavia l’atteggiamento. Bartolini qui, come in altri esercizi, appare supremo nel rendere un’anima pur in assenza totale di elementi indicativi che supportino le indicazioni morali che egli conferisce al personaggio. Artista prediletto solo ed esclusivamente dalla più elevata società europea dell’epoca, il Bartolini seppe dare soddisfazione in modo completo alle esigenze di autoaffermazione e di autoperpetuazione dei committenti.
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Diversa temperie artistica può ritrovarsi nel busto di artista italiano nell’ambito di Thorvaldsen che come esempio di scultura che mi piace chiamare dorica in epoca neoclassica realizza un pudico busto di giovinetta alla quale non è conferita dall’artista alcuna caratteristica di personalità evidente se non l’adeguarsi a un ideale di virtù femminile che si avviava al ritorno di una morale cattolica profondamente sentita e praticata. L’aspetto dell’età giovanile è fortemente ravvisabile, e ne costituisce il peculiare elemento di seduzione nell’autoritratto di artista fanciullo, un francese che data la propria tela al 1824. Siamo in piena Restaurazione. Ma gli smaglianti colori dell’Impero sono ancora presenti e un grande colletto inamidato recita da protagonista intorno ad un immagine di candore morale assoluto. Proseguendo gli anni e col trascorrere del tempo, gli stili e, quasi direi, le mode figurative cambiano e non c’è nulla di più emblematico del Romanticismo, delle sue predilezioni e dei suoi punti di vista che l’autoritratto di Francesco Podesti. Non posso evitare di compiacermi della presentazione di questo squisito autoritratto della mostra. Il ritrovamento di un ulteriore autoritratto di Francesco Podesti è notizia significativa per gli studi storico–artistici che non potranno non tenerne conto. E’ un ritratto decisamente romantico, a cominciare dagli abiti diventati neri, pur indossati da un giovane, il basco alla raffaellesca a
indicare il neocinquecentismo di tutti gli artisti italiani. Del Podesti si espone anche una piccola tela che ritrae la celebre cantante rossiniana e belliniana Maria Malibran raffigurata in vesti di scena. Il piccolo ritratto, perché non si tratta di una miniatura, è realizzato con un fare ancora strettamente tardo Neoclassico. Per Bologna, area trascurata in campo storico artistico della prima metà dell’Ottocento, il ritrattista di maggior rilevanza fu Clemente Alberi, di cui in questa occasione si produce un esempio di grandissimo impegno. Il doppio ritratto che raffigura madre e figlio in colloquio allude a avvenimenti risorgimentali. Quasi contemporaneo dell’Alberi ma pittore dotato di molto maggiore notorietà è il veneto Felice Schiavoni. L’emozionante ritratto maschile di uomo barbuto in costume greco si riferisce agli aneliti e alle simpatie ideali di molti italiani e molti europei verso le guerre di liberazione del popolo greco. Si pensi al caso di Lord Bayron, morto mentre si trovava in Grecia a combattere per la libertà di quel Paese. Anche se greco è l’abbigliamento, tutto veneto è l’accordo cromatico dei panni e delle passamanerie e dei velluti con cui gioca un accordato contrasto la tinta dell’incarnato. Schiavoni guarda evidentemente ai grandi ritrattisti del Cinquecento. Dal blocco abbastanza compatto di opere presentate in mostra si distacca il bronzo di Chana Orloff realizzato a Parigi nel 1920 che detiene pieno diritto di cittadinanza tra
le avanguardie europee per essere stata amica di Modigliani e avere studiato Leger, Picasso e avere prodotto e formato il suo stile già negli anni dieci del XX secolo. Questo grande bronzo può considerarsi il suo capolavoro. Esso determina un abbandono della stretta figurazione nell’arte del ritratto. Può costituire da opportuno tramite verso le esperienze della seconda metà del XX secolo e le ancora più avanzate e indecifrabili operazioni artistiche degli operatori estetici a noi strettamente contemporanei. Se mi trovo a riflettere sugli esiti e gli sbocchi dell’arte che nel passato si è sempre strettamente detta figurativa non riesco a pensare che non si sia compiuto un trauma irreparabile. Naturalmente, come abbiamo visto per l’antichità in rapporto al Medioevo si è conclusa una fase e qualsiasi funzione figurativa è venuta meno. Parlare oggi di ritratto nel senso tradizionale che si è usato in questa mostra è completamente privo di senso. Ritengo, per esprimermi con grande semplicità ed estrema chiarezza, che quell’esigenza alla figurazione che l’uomo sente innata si sia trasferita alla fotografia e conseguentemente al cinema. Non avrebbe dunque potuto aversi migliore intuizione che quella di accostare il ritratto tradizionale, dipinto e scolpito, alla fotografia. Così come ha voluto, con la apprezzabile iniziativa, ottenere Maurizio Nobile. E. B.
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Herman van der Myn (amsterdam 1684 – Londra 1741) Ritratto di gentiluomo olio su tela cm 89, 5 x 71
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Per un olandese che si trovasse a nascere alla fine del Seicento, Rubens e van Dick erano modelli, inarrivabili forse, ma che era necessario tentare di imitare. L’artista di cui ci occupiamo e che ha condotto il magistrale ritratto presumibilmente di gentiluomo inglese, fu un pittore di storia, soggetti mitologici, soggetti di genere, nature morte, cui si accompagnava come era d’uso in Olanda la raffigurazione di fiori appena recisi che racchiudessero in se qualcosa della vita e infine, quello che più ci riguarda, pittore di ritratti. Era attestato ad Anversa ancora nel 1712 e fu chiamato a Dusseldorf alla corte dell’Elettore Palatino da dove si volse verso Parigi e, infine, approdò a Londra per stabilirvisi fino alla morte. Una siffatta formazione non implicava, per un artista che si trapiantasse in terra britannica e che intendesse esercitare l’arte del ritratto, di essere del tutto libero. Le grandi tele di Anton van Dick erano un precedente del quale non si poteva in alcun modo fare a meno. Se van der Myn si fosse volto invece verso l’Italia sarebbe stato una sorta di Maratta che, procedendo dalle Fiandre, si avviasse verso quella maniera larga dal cromatismo di ascendenza veneta e di normalizzazione bolognese che era diventato linguaggio internazionale nella pittura romana. L’olandese si volse al nord invece e l’esecuzione di questo ritratto ci attesta inevitabilmente quale sia stato il suo modello, ma anche ci convince inoppugnabilmente che l’imitazione di van Dick continuò ad inoltrarsi fino al pieno Settecento. Della presente composizione la parte più riuscita è la resa del volto del giovane aristocratico apparentemente colto come in un attimo di
sorpresa, come se la naturalezza del suo sguardo e del suo porgersi non fosse il frutto di lunghe e studiate sedute di posa. L’incarnato è reso con una larghezza di pennello che conserva qualcosa ancora della naturalezza con cui pareva dipingere Rubens. Per un pittore come Rubens dipingere era come respirare, ebbe a dire un critico d’arte del passato, e questa felicità di pennello riaffiora nel ritratto di van der Myn nella resa vaporosa e pur accurata della chioma prolissa, la solidità del tappeto su cui posa con elegante disinvoltura la mano del ritrattato e infine, tratto che fu il più tipico di van Dick, l’avvolgersi intorno a lui di drappi aerei e come dotati di sostenutezza propria. Van Dick e il suo buon continuatore van der Myn hanno creato il dandismo britannico, mutuato forse dalla messa a punto rinascimentale del perfetto gentiluomo italiano, ma destinato ad assurgere nei freddi climi dell’Europa del nord ad una perfezione non più superata. Inedito
[E.B.]
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Agostino Ugolini (Verona 1755–ivi 1824) Ritratto di un componente della casata giusti del giardino col figlio olio su tela cm 128, 5 x 116 firmato e siglato in basso a sinistra a. u. pinxit 1783
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Il cospicuo dipinto è menzionato nell’importante studio dedicato alla pittura nel Veneto (2003) col titolo di Ritratto di nobiluomo con bambino e pappagallo, ma una tradizione orale non accertata indicherebbe in un componente dell’arisotcratica famiglia veronese Giusti del Giardino l’identità dell’effigiato col figlio. D’altronde il palazzo, che con il piano terreno costituito da archi sorretti da pilastri bugnati ha caratteri veronesi, non è identificabile con una delle proprietà Giusti e non è comunque il palazzo del giardino. Ma viceversa la struttura del dipinto con la figura del genitore che si erge a un lato della tela per lasciar posto, nell’altra porzione del dipinto, al figlio raffigurato con l’animale preferito è in tutto identica a quelle adottate nei ritratti di Gomberto Giusti a con il figlio Carlo e della moglie Teresa Malaspina Giusti col figlio Carlo (pubblicati in Bonaparte a Verona, catalogo della mostra, 1997–1998, n. 22 e n. 23, pp. 237–239). Talmente stringente é il confronto da lasciare ipotizzare che si tratti di una serie, se non fosse che il formato della nostra tela è notevolmente diverso dalle altre due. Come che sia il presente dipinto è buona testimonianza degli intenti di alta rappresentanza genealogica affidata al ritratto dalla committenza elevata. L’Ugolini fu pittore completo, autore di pale d’altare e dipinti di devozione privata e potrebbe dirsi il principale pittore della seconda metà del Settecento veronese. E dichiariamo questo perché, malgrado l’artista abbia prolungato il corso della sua esistenza ben addentro il secolo XIX, egli non
fu artista classico e neppure neoclassico ma bensì perfettamente Louis seize, se una certa terminologia, diciamo così, antiquariale ha un senso. E siamo convinti non solo che abbia un senso ma che sia, anzi, particolarmente calzante. Raramente può trovarsi in Italia composizione più Louis seize di un grande ritratto collettivo a dodici personaggi della Famiglia Dionisi, (1788) (esposto alla mostra Bonaparte a Verona) di cui la disposizione segmentata, l’ostensione delle diverse parrucche, il porsi dei personaggi in atteggiamenti metastasiani fanno un esempio principe dello stile. Ma non è da meno nel nostro dipinto il serico panciotto riccamente decorato e il virtuosismo con cui è reso il velluto a coste della giubba del padre, così come la paziente minuzia che indaga gli stucchi del pilastro laterale, il piumaggio del pappagallo (animale eminentemente settecentesco) e il panciotto a fiori prelibatissimi che fascia l’esile busto del nobile pargolo. Una volta di più la ritrattistica ci restituisce emozioni meta–artistiche spesso superiori ad opere dei “generi”, nella graduatoria accademica, considerati superiori. Bibliografia: La pittura nel Veneto. L’Ottocento, Milano, Electa, 2003, vol.II, p. 834–835. [E. B.]
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Martin Knoller (steinach 1725 – milano 1804) Ritratto di gentiluomo con lettera olio su tela cm 70 x 55, 7 iscritto a tergo sulla tela Rafaele mens dipinse l’anno 1766 suo più caro amico martino Knoller / inviato dalla corte di sassonia presso sua santità e più in basso, quasi indecifrabile Kn…pinxit 1778
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La prima lunga iscrizione che attribuisce il presente dipinto al Mengs, per quanto antica è apocrifa e destituita di fondamento salvo per il fatto che il Knoller fu allievo e realmente amico del Mengs. L’altra invece che assegna, appunto, questo ritratto a Martin Knoller, veridica e probabilmente autografa. Come che sia, anche il solo confronto con un’opera di Knoller tra le tante: il Ritratto del Piermarini ci mostra identico il disegno della bocca, a labbra serrate e tinte di un color ciliegia chiaro e lo stesso sguardo franco e diretto, a perpendicolo del riguardante malgrado la postura lievemente a tre quarti del volto. Quanto all’esistenza sua, il Knoller fu, da buon tirolese, ancipite. Steinach si trova infatti in prossimità del passo del Brennero e dunque il giovane artista si volse a Vienna a studiare presso Paul Troger all’Accademia di Belle Arti, dal cui pittore apprese soprattutto il modo di ben decorare i soffitti. Ma a trent’anni sentì il richiamo della grande arte e di Roma e vi si recò, perfezionandosi alla scuola del Mengs in cui si formò nell’arte del ritratto e frequentò anche il Winckelmann. Spintosi fino a Napoli fu dal conte Firmian rispedito a Milano a decorare palazzo Vigoni. Colà permase e affrescò innumerevoli palazzi, scenografie in essere del muoversi del giovin signore. E in effetti del Parini il pittore fu grande amico. Di quattro anni più vecchio del poeta, l’artista visse quattro anni più di lui. Furono dunque esatti contemporanei. E in realtà i soffitti del Knoller tutti improntati a favole mitologiche, a celebrazioni
olimpie e apoteosi di probabili neo–aristocratici elevati a semidei terreni, tutti cooptati in concilii, pranzi e ricevimenti sulle nuvole, realizzano un equivalenza verbale del Giorno. Nel ritratto invece il Knoller fu più severo, più secco, meno adorno di ironici fronzoli mitologici, meno equivalente del sarcastico Parini. Più illuminista contemporaneo, ad esempio dei fratelli Verri e in generale dei nitidi pensatori milanesi, pur con la mantenuta, nei ritratti, presenza di pizzi, passamanerie e galloni vari. Mi piace concludere con le vacanze dell’artista che d’estate riguadagnava il Tirolo a decorarvi chiese e collegiate ritenendo forse di meritarsi così il biglietto per la traversata eterna. Da buon cattolico. Contemporaneo di Beccaria, anticipatore di Manzoni. Inedito
[E.B.]
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Artista francese del primo decennio del secolo XIX Ritratto di fanciulla biancovestita (m.me duvivier) olio su tela cm 60, 5 x 38 iscritto sulla lettera in primo piano dove / sei / mia / cara. sulla lettera in secondo piano Le jour de notre e il seguito indecifrabile; a tergo applicata sulla traversa del telaio una etichetta iscritta con grafia ottocentesca ma non coeva m.me duvivier mère de / m.me Franz Vaney et / amie de La famille Puy / de Romy / Chambre jaune; sul telaio una piccola etichetta coeva con il numero 484 e due parole indecifrabili.
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La Francia del primo decennio dell’Ottocento guardò intensamente e con grande profitto ai maestri olandesi del Seicento. Così è, ad esempio, per i paesaggisti e soprattutto per i pittori di interni. L’individuo dopo lo sprigionamento di un ego incontenibile dell’età barocca ritorna nel chiuso della propria stanza tanto che pare emblematicamente intitolarsiVoyage autour de ma chambre la celebre autobiografia di Xavier de Maistre. Osservando attentamente il dipinto qui presente in mostra in cui vediamo una fanciulla altocinta secondo la foggia più squisitamente neoclassica, dai lineamenti materiati di una femminilità ineffabile e adorna di riccioli che scendono lungo il collo e si adagiano sulle spalle da etrusca con una morbidezza che è pari al languore dello sguardo di questa ignota M.me Duvivier, non si può fare a meno di osservare che l’artista abbia ciononostante obbedito a schemi compositivi precostituiti. Le lettere posate sul tavolo lasciano supporre una vicenda di amicizia a noi sconosciuta, tema caro al patetismo che avrebbe condotto all’affermazione dei sentimenti dell’Ottocento più avanzato. E’ presente in questa composizione, come spesso avviene, una dicotomia di classico–romantica per la quale, sotto forme algidamente rifinite si cela un sentimento di matrice protoromantica. Il dipinto tuttavia è talmente analogo ad un altro che ho sott’occhio Ritratto di donna in un interno della collezione del Museo Praz (riprodotto in Le stanze della memoria, Roma–Milano, 1988, pp. 63–64, n. 35) in cui una fanciulla, forse meno graziosa della nostra ma altrettanto giovane, altrettanto pensosa, è seduta su di una seggiola di mogano rivestita di un
abito bianco terminante in uno strascico accanto ad un tavolo con piano di marmo su cui è posto un bouquet di rose. La fanciulla è interrotta nell’atto di leggere un libro invece che di scrivere una lettera. Codesti intenti narrativi ricreati come a lasciare intendere un piccolo mistero, a creare nel riguardante un’ incertezza che si sapeva destinata, con l’andare del tempo, ad non essere più dissipata, furono cari alla pittura francese, anche dell’Ottocento avanzato. Basti citare (e tanto la frequenza è alta che ne trovo un esemplare soffermandomi nell’ambito della stessa collezione Praz) il quadro di G. E. Saintin in cui una giovane donna vestita da passeggio è in attesa dietro i vetri di una finestra. Il vaso posato sul tavolo del nostro delizioso quadro ha la foggia del Vaso Medici e la gamba del gueridòn è simile, anche se più semplice, a quella di una consolle del castello di Fontainebleau. Inedito
[E. B.]
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Gaspare Landi (Piacenza 1765 – Roma 1830) Ritratto di dama olio su tela cm 75 x 98 Ritratto di gentiluomo olio su tela cm 81 x 100
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Dopo essere giunto a Roma nel 1781 dalla nativa Piacenza, Gaspare Landi divenne rapidamente uno dei protagonisti della riforma neoclassica, interpretando quelle istanze di un’arte elevata nei contenuti e scelta nella forma – in grado di superare l’artificio barocco in favore della semplicità e dei canoni ideali classici – che il dibattito artistico e culturale in atto nella città pontificia sapeva allora suggerire, condizionando anche le scelte del più grande tra gli artisti contemporanei, Antonio Canova, che qui si trasferiva in quello stesso anno (sull’artista si vedano: G. L. Mellini, Per Gaspare Landi, recapitolazione, in “Labyrinthos”, 2000, XIX, 37/38, pp. 65–120; Gaspare Landi, catalogo della mostra di Piacenza a cura di V. Sgarbi, Milano 2004; S. Grandesso, Landi, Gaspare, ad vocem in Dizionario biografico degli italiani, Roma 2004, vol. 63, pp. 379–384). Dopo il breve alunnato nelle accademie private di Batoni e Corvi, Landi meditava sugli scritti teorici di Anton Raphael Mengs la via per giungere all’eccellenza artistica attraverso lo studio e l’imitazione dei maestri del passato che più si erano distinti nelle diverse parti della pittura, Raffaello per l’espressione, il disegno e la composizione, Correggio per il chiaroscuro e la grazia, Tiziano per il colore e la verità, uniti all’ideale della bellezza tratto dall’antico. Assecondando le proprie inclinazioni, Landi approfondiva tuttavia soprattutto la lezione dei veneti nel colore, riscoprendo tra l’altro le raffinate risorse, sul piano delle trasparenze e della brillantezza delle tinte, della tecnica antica della velatura. Ben presto fu considerato come uno dei massimi coloristi viventi, complementare all’altro protagonista della scena romana, l’amico e rivale Vincenzo Camuccini, che individuava invece
nella riaffermazione del primato del disegno, secondo la tradizione tosco–romana, lo strumento privilegiato per la pittura eroica di storia classica. Anche in Landi l’interesse formale per le possibilità espressive del colore si accompagnò a precise scelte tematiche, consentendogli l’esaltazione dei contenuti sentimentali nel genere grazioso, oltre che in quello eroico, al pari dell’amico Canova: un modello figurativo che consapevolmente tentò di emulare non solo per espressione e naturalezza ma anche per la raffinatezza della tecnica esecutiva (S. Grandesso, La vicenda esemplare di un pittore “neoclassico”: Gaspare Landi, Canova e l’ambiente erudito romano, in La città degli artisti nell’età di Pio VI, a cura di L. Barroero, S. Susinno, “Roma moderna e contemporanea”, a. X, 1–2, gennaio–agosto 2002, pp. 178–203). Oltre alle impegnative tematiche coltivate nei dipinti di figura, storici e religiosi, Landi si dedicò con successo anche al genere del ritratto. Anche negli anni più difficili delle guerre europee, le costanti ordinazioni di opere di questo genere gli permisero di finanziare i più impegnativi dipinti storici, che talvolta realizzava senza commissione a scopo promozionale. Proprio per la sua abilità nella ritrattistica fu chiamato nel 1791 alla corte milanese di Federico Barbiano di Belgiojoso, dove si dedicò a effigiare i membri di quella famiglia coltivando anche la tipologia del ritratto divinizzato o allegorico, che conosceva proprio allora l’ultima grande stagione figurativa con i marmi canoviani dedicati ai napoleonidi. Si esercitò anche nelle altre tipologie ereditate dalla stagione mengsiana e batoniana o legate ai prototipi della specialista attuale del genere a Roma, Angelica Kauffmann, con cui poté competere nel ritratto ambientato, come quello di Sigismondo Chigi agli scavi di Porcigliano
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in compagnia del Visconti (Roma, collezione Chigi), in quello morale e illuminista, come il celebre di Antonio Canova nelle due versioni di Bergamo e Roma, o nella scena di conversazione, fissata nel ritratto di gruppo dei suoi mecenati piacentini i marchesi Landi (Torino, collezione d’Albertas). Questa coppia di dipinti, attribuita a Gaspare Landi da Fernando Mazzocca (comunicazione scritta del 25 marzo 2003), rientra nella categoria del ritratto illuminista, semplificato nell’ambientazione e concentrato sulla descrizione fisiognomica e psicologica degli effigiati. Quello straordinario femminile evoca alcuni celebri capolavori della ritrattistica landiana, come il Ritratto della n.d. Caterina Anguissola da Travo (1791–92, Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese) per il naturalismo, l’espressione intensa e serena che accenna a un affabile sorriso, la foggia dell’abito di gusto direttorio, con le fasce di seta intorno alla vita e tra i capelli. O il ritratto della contessa Valeria Tarnowska (1805, Caracovia, Galleria Nazionale), riconosciuto come Landi da Gian Lorenzo Mellini (G.L. Mellini, Terzo intervento per Gaspare Landi, in “Labyrinthos”, 12 1987, p. 54), che reca similmente il motivo della miniatura esibita dalla protagonista all’osservatore del dipinto. Come un ritratto nel ritratto, anche questa dama effigiata nell’elegante e semplice abito, abilmente descritto da Landi nelle variazioni cromatiche dei bianchi, dei grigi e degli azzurrini delle sete, è intenta nell’azione di mostrare con naturalezza il ritratto del marito in miniatura, al quale appare conferire maggiore importanza rispetto alle pur preziose gioie estratte da un cofanetto, collocate per favorire questa lettura simbolica. Come nei capolavori della ritrattistica “morale” di Landi, l’opera sembra incarnare le qualità che Giuseppe
Antonio Guattani aveva invocato per il ritratto esemplare, che fissasse cioè il caratteristico dell’effigiato non solo nell’aspetto ma anche nell’attitudine e che perciò sembrasse preso come di sorpresa, “di volo”, come nell’altro ritratto “parlante” e mobile per eccellenza, quello di Canova, che Guattani aveva elogiato per il “delicato sentimento” Che Landi aveva fatto trasparire dalla fisionomia, lo stesso che lo scultore metteva nei suoi lavori (G.A. Guattani, “Memorie Enciclopediche Romane sulle Belle Arti, Antichità”, t. II [1807], p. 108). Il personaggio dipinto nella miniatura è quello che compare nell’altro dipinto: pendant del femminile, nonostante il lieve scarto delle misure, per epoca di realizzazione (intorno all’ultimo decennio del Settecento), qualità pittorica e identità della cornice originale. Il gentiluomo vi è rappresentato con simile realismo nell’individuazione dei tratti del volto e una coerente attitudine psicologica, cordiale e aperta, mentre attende alla scrittura, accanto al sigillo e alla corrispondenza da sbrigare, un accenno a interessi intellettuali o professionali. Anche questo dipinto può essere riferibile a Landi, come rivelano la caratteristica essenzialità dell’impianto, la raffinatezza della definizione cromatica, alcuni dettagli come la resa dei capelli, simile nel Ritratto di Onofrio Boni (Roma, Accademia Nazionale di San Luca). Tuttavia il differente registro pittorico nella costruzione dei tratti del volto sembra non trovare altrettanto evidenti possibilità di confronto nell’opera landiana, finora nota, come nel caso del suo pendant femminile. Inedito
[S. G.]
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Barthélemy–Louis Mendouze (nato circa nel 1775, attivo in Francia e in italia nei primi due decenni del XiX secolo) Ritratto di tre bambini in un interno olio su tela cm 150 x 182 Firmato e datato: mEndouZE m.E.d.L. au 5 dRag / anno 1811 dEPingEBat
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Questo straordinario ritratto di gruppo neoclassico appare per molti versi ancora enigmatico. Poche sono infatti le notizie che ci sono giunte sul suo autore. I lessici degli artisti e dei miniatori registrano gli unici dati dello sporadico passaggio in asta di alcune opere: il 17 maggio a Parigi una miniatura ritraente una giovane donna, datata 1808, e, ancora a Parigi, il 5 marzo 1997, un ritratto su tela, in dimensioni al naturale, di un’altra giovane dama, dipinto nel 1813. La memoria di questo raro artista perciò sembra in gran parte perduta, forse, com’è accaduto anche in altri casi, a causa di una sua scomparsa prematura. Nell’iscrizione apposta a questo ritratto dei fanciulli in un interno Mendouze ricordò la propria appartenenza all’esercito, nel corpo dei dragoni. Oltre che pittore, egli fu dunque anche un soldato di mestiere che forse esercitava la pittura occasionalmente o per diletto. Per tipologia l’opera rientra nel genere della conversation piece, la cui tradizione secolare e la fortuna, dagli esempi secenteschi olandesi alla vasta diffusione Biedermeier, sono state esemplarmente ricostruite da Mario Praz (Scene di conversazione. Conversation piece, Roma 1971) e che allora, tra Settecento e Ottocento, dopo la vasta adozione in Inghilterra, conosceva anche in Francia un momento fortunato con specialisti come Greuze, Isabey, Boilly, François e Marguérite Gérard e di riflesso in Italia con François Salbet e Matteini. Proprio tra le scene di
conversazione dedicate ai ritratti di bambini, Praz ricordava alcuni dipinti commissionati dall’élite napoleonica nel desiderio di gareggiare con l’aristocrazia inglese per i ritratti colti nell’intimità domestica (Ibidem, p. 152): Napoleone con i figli di Murat sulla terrazza di Saint Cloud di Louis Ducis (Versailles, Musées national des Châteaux des Versailles et Trianon), I figli di Murat che fanno merenda nel bosco di Isabey (Roma, Museo Napoleonico), I figli di Girolamo Bonaparte in giardino di Chatillon (Roma, Collezione privata), La moglie del maresciallo Lannes nel parco con i figli di Gérard, conservato a Versailles. Opere alle quali si possono aggiungere, ambivalenti tra la dimensione ufficiale del fasto e delle pose auliche e quella privata, legata alle semplici e quotidiane occupazioni dei fanciulli, celebri prototipi come il ritratto ancora di Gérard di Carolina Murat, regina di Napoli con i suoi figli (Musée national du Château du Malmaison), o di Giulia Clary con le figlie (Caserta, Palazzo Reale) di Wicar e della Generalessa Clarke, duchessa di Feltre con i suoi quattro figli di Fabre (Parigi, Museo Marmottan). Si trattava di una tipologia fortunata anche nella miniatura – e Mendouze fu miniaturista – come dimostrano le effigi di Cristina, Elena, Rosina e Vittoria Trivulzio che incoronano il busto del padre Gian Giacomo (collezione privata) di Gigola, ritrattista della società napoleonica lombarda.
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A questo contesto figurativo, tra Italia e Francia dunque, appartiene il dipinto di Mendouze, che appare rievocare emblematicamente quei modelli nell’atteggiamento di piacevole intimità dei fanciulli, ripresi nella reciproca comunicazione sentimentale, e nella preziosa descrizione dei dettagli dell’arredo e dell’ambiente, che tuttavia non è fastoso e celebrativo. Sembra perciò probabile che l’identità dei fanciulli rappresentati, che non è stato ancora possibile sciogliere, vada ricercata proprio nell’ambito della classe dirigente francese in Italia. Uno dei rari documenti relativi a Mendouze testimonia i rapporti, proprio in relazione all’esercizio della pittura, intrattenuti al più alto livello dell’amministrazione francese. Veniva infatti incaricato dalla granduchessa di Toscana Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone, dell’esecuzione di un dipinto non ancora rintracciato per il quale Mendouze trovò necessario nel 1813 poter copiare le opere del celebre botanico Nicolaus Joseph Jacquin conservate al Museo della scienza di Firenze, come risulta dalla documentazione archivistica conservata nello stesso museo. Del resto il decoro dell’ambientazione e l’aulica tenuta stilistica sembrano appropriati a una destinazione socialmente elevata del dipinto, privo delle connotazioni più intimiste, domestiche e realiste, di ascendenza olandese, tipiche delle scene di conversazioni borghesi di età romantica. Lo spazio appare costruito geometricamente e i dettagli figurativi sono descritti analiticamente, dalle
stoffe alla tappezzeria ricamata sul fondo, al vello dei cani, ai costumi, preziosi come nel particolare delle scarpine femminili, ai giochi infantili. Questo impegno pittorico, nella sua precisione disegnativa, sembra derivare dalla lezione di Gérard. Contemporaneamente le scelte arcaizzanti, come la prospettiva ripida del piano del pavimento, la semplificazione geometrica nella definizione delle forme, animate e inanimate, la lente analitica e la qualità nitida della luce richiamano quella precoce fase della riscoperta dei cosiddetti “primitivi”, gli artisti del medioevo e del primo rinascimento, avvenuta nell’atelier di David nelle esperienze del gruppo dei “barbus”, ma anche di Ingres e dei pittori “troubadour”, di cui fu appassionata collezionista Joséphine de Beauharnais, prima moglie di Napoleone. E dunque il dipinto di Mendouze nel 1811 appare aggiornato sulle più attuali e innovative correnti dell’arte internazionale. Inedito.
[S. G.]
Giovanni Battista Lampi Junior Ritratto di antonio Canova olio su tela cm 60 x 50
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È da presumere che si sia formata con l’Illuminismo, raggiungendo dunque il suo apice in età neoclassica, la consuetudine di raffigurare artisti contemporanei in quanto latori di virtù morali e non soltanto valori estetici, assurta ben presto a convenzione e moda. Si può dire questo soprattutto nel caso di Antonio Canova, fatto segno in tutto il mondo civile dell’ammirazione ardente e dell’incontenibile gratitudine di re, papi, imperatori, artisti, letterati e aristocratici di ogni genere e luogo. È stato così possibile censire alcune decine di ritratti, apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, eseguiti nel corso della vita del celebre scultore. Uno degli esemplari di certo più eminenti di questa specialissima fortuna goduta ancora in vita dal Canova è il dipinto di Giovanni Battista Lampi, che lo ritrae nell’atto di licenziare una delle figure marmoree del grande monumento all’arciduchessa d’Austria Maria Cristina, dipinto ora posseduto e conservato dal Principe di Liechtenstein. Di questo ritratto furono condotte una replica analoga e due in formato minore, una delle quali è la presente in mostra. Il Canova vi è raffigurato con un ampio mantello drappeggiato di un colore fulvo–aranciato, con una parrucca di foggia ancora settecentesca (benché il prototipo dei ritratti rimonti al 1806) posata su di una fronte a dir poco spaziosa. In un’epoca che è stata anche detta “l’età delle corti”, grande importanza espressiva e simbolica ebbe a raggiungere il ritratto e così come Roma nel Settecento ebbe il suo Batoni, Parigi il suo
David, Londra il suo Lawrence, così Vienna ebbe i suoi Lampi. E adottiamo il plurale perché padre e figlio furono così stretti collaboratori da costituire quasi un unico artista in due individui separati. E non sembri poco essere ritrattista di corte, quando lo si paragoni a un Goya che lo era, in Spagna, negli stessi anni di Lampi. Ciò serve solo a dimostrare una volta di più che lo stile di un’epoca non è qualcosa di compatto e monolitico, come si è portati a pensare, ma produca risultati talvolta antitetici. Il fatto è che il Lampi, per una Vienna volta ossessivamente alla ricerca della grazia, nella sua fusione di colorismo veneto e analisi psicologica di derivazione inglese e di solidità di disegno, raggiunse una morbidezza veramente canoviana e un risalto cromatico anche negli incarnati che ben si accompagna a quell’arte della porcellana che tanto si andava sperimentando proprio nella Vienna di quegli anni. Bibliografia: Intorno alla scultura, catalogo della mostra a.c. di S. Grandesso, Firenze, Galleria Carlo Virgilio, XXV Biennale dell’antiquariato, 2007. [E. B.]
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Jean Baptiste François Bosio (monaco 1764 – Parigi 1827) Ritratto di alessandrina de Bleschamp Bonaparte con una delle figlie, a Frascati olio su tela cm 29, 8 x 24, 6 firmato sulla base della colonna Bosio
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L’identificazione dell’effigiata trova inoppugnabile fondamento nel disegno di J.B. Wicar in cui Alessandrina è ritratta con i capelli in parte raccolti e in parte liberi e asimmetricamente scompigliati su un lato della testa. Ma la seconda moglie di Luciano Bonaparte e cognata di Napoleone ebbe ancora più illustre ritrattista in Jean Auguste Dominique Ingres che la raffigura in un conosciuto disegno (conservato al Museo Bonnat di Bayonne) adagiata su un divano, grassoccia e con l’inconfondibile acconciatura, palmare nel raffronto ancora più del disegno di Wicar. Un altro importantissimo ritratto della cognata Bleschamp fu scolpito da Canova. Di esso rimangono soltanto due modelli preparatori in gesso a Possagno, ma il marmo definitivo è perduto. Chi viceversa, delle tre figlie della principessa sia la fanciulla effigiata non è, al presente, possibile determinare. È probabile tuttavia che si tratti di Anne Marie, figlia del primo marito di Alessandrina, M. Jouberthon, ovviamente la più grande delle sue figlie, andata sposa al bolognese principe Alfonso Hercolani. Dall’identità ne consegue che il grande paesaggio che funge da sfondo alle due figure, anche se trattato “alla fiamminga”, come si conviene ad un pittore francese dell’Impero, è l’incantevole campagna che si stende da Frascati al mare Tirreno, la Campagna Romana, uno dei paesaggi più celebri e decantati del mondo, contemplato dalla villa La Rufinella che era una delle innumerevoli proprietà del ricco principe Luciano Bonaparte. Alessandrina, vedova Jouberthon, una borghese tipica del Direttorio fu la causa degli incomponibili dissapori tra Napoleone
e il fratello. L’imperatore avrebbe voluto per lui una principessa di sangue reale. Ma la Jouberthon nata Bleschamp, aveva avuto, come si dice, un passato. Era stata una merveilleuse. Questo tipo di donne alla moda, erano spregiudicate e opportuniste, insaziabili di piaceri e di lussi. Erano però anche curiose e dunque più colte, aperte e vivaci delle aristocratiche, loro consorelle di privilegi. Bosio, l’artista che ritrasse madre e figlia, compone la galassia degli allievi a Parigi di David, che, quanto più la studiamo tanto più ci appare un’università della pittura, piuttosto che una bottega. E il monegasco fu uno dei discepoli più dotati. Pittore completo, egli passa da una produzione di Neoclassicismo eroico, a quadri sacri, ai molti ritratti che rimangono la categoria più vicina e godibile per la sensibilità moderna. Non mette conto, forse, che ci si soffermi sulla delicatezza magistrale che sovrintende alla resa del velluto cremisi restituitoci in tutti i suoi riflessi cangianti, nel raso della giovinetta, nelle due paia di occhi azzurri ripresi dall’imbottitura cerulea della poltrona dorata, la mano cerea, gli incarnati come di bambola incipriata delle due donne. Si potrebbe continuare indefinitamente. Mi interrompe un superstite ritegno verbale. Inedito
[E. B.]
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Giambattista Gigola (Brescia 1769 – tremezzo 1841) Ritratto del medico giovanni antonio Vandoni olio su tavola cm 68, 5 x 89 iscritto, siglato e datato: EFFigiEs / mEdiCi / ioH. ant. Vandoni / an. mdCCCXX / g.g.F.
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Questo ritratto a figura intera su tavola costituisce un caso eccezionale nel catalogo fino ad ora ricostruito del grande miniaturista lombardo Giambattista Gigola. Nonostante infatti l’esistenza di alcuni ritratti di grandi dimensioni sia documentata dai cataloghi delle annuali esposizioni dell’Accademia di Belle Arti di Brera nel terzo decennio dell’Ottocento, questo è l’unico esemplare di formato considerevole oggi noto. Rappresenta l’effigie sedente del medico Giovanni Antonio Vandoni, individuato con fedeltà realista al dato naturale e collocato in un interno descritto in termini analitici, con pochi e distintivi attributi, secondo la voga dei ritratti ambientati in interno di gusto biedermeier: Il fedele cane carlino ai suoi piedi, essenziali elementi dell’arredo e il busto all’antica di Esculapio in bronzo, collocato simbolicamente sull’alto piedistallo alle sue spalle, che sembra sovrintendere e guidare l’esperienza professionale del medico lombardo. Celebre miniaturista su avorio e pergamena, illustratore assai richiesto nella Milano neoclassica e poi romantica, dopo un soggiorno di formazione a Roma, dove si era avvicinato al primitivismo tedesco allora affacciatosi sulla ribalta romana, Gigola rientrava in patria affermandosi come uno dei ritrattisti più ricercati, prima dall’aristocrazia giacobina bresciana (Girolamo Fenaroli, Giacomo Lechi), poi dalla nuova e spregiudicata società napoleonica come dai più illustri collezionisti lombardi: dal marchese Gian Giacomo Trivulzio – per il quale illustrò nel 1811 una rinomata edizione del Decamerone e nel 1819 un esemplare della Storia di Romeo e Giulietta – a Giambattista Sommariva, per
il quale tradusse in miniatura la straordinaria serie di dipinti della sua raccolta d’arte moderna. Apprezzato da Ugo Foscolo, che nel 1802 gli chiedeva di immortalare in due ritratti miniati la propria effigie e quella dell’amata Antonietta Fagnani Arese in vista della loro imminente separazione, Gigola riscosse successi lusinghieri anche ai Salon parigini durante la sua permanenza nella capitale francese. Mentre, una volta rientrato a Milano, fu nominato ritrattista di corte dal viceré Eugenio di Beauharnais. Nel 1819, con la Restaurazione, realizzava in miniatura su pergamena, in sette esemplari, l’edizione della Storia di due nobili amanti di Luigi Da Porto e, tra il 1825 e il 1826, l’impresa dell’edizione del Corsaro di Byron, stampato in tre esemplari e anch’esso illustrato con miniature su pergamena (sull’artista si vedano: Neoclassicismo e trobadour nelle miniature di Giambattista Gigola, catalogo della mostra di Milano a cura di F. Mazzocca, Firenze 1978; B. Falconi, F. Mazzocca, A.M. Zuccotti, Giambattista Gigola e il ritratto in miniatura tra Bergamo e Brescia tra Settecento e Ottocento, Milano 2001; C. Parisio, Giovanni Battista Gigola: committenti e opere, Brescia 2002). Bibliografia: Sublime e pittoriesco. Temi di figura e paese dal Neoclassico al Romantico, catalogo della mostra di Milano, a cura di S. Grandesso, F. Leone, Galleria Carlo Virgilio, Roma, 2006, p. 64. [S. G.]
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Artista francese del primo quarto del XIX secolo Ritratto del Barone Raym de saint Julien olio su tela cm 92, 5 x 73 iscritto Le B. on Raym. d P. re Ch. les de Royer de s. t Julien
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La tela reca in alto a sinistra una lunga scritta con nomi e titoli non del tutto interpretabili. L’effige parrebbe appartenere ad un generale dell’esercito della Restaurazione che abbia dunque servito sotto Luigi XVIII o Carlo X, non essendo del tutto precisabile neppure la data di esecuzione del dipinto, che dovrebbe comunque cadere intorno al 1820. L’uniforme comprende come accessori un elmo piumato e una sciabola della quale ben si distingue soltanto la grande impugnatura dorata terminante in una nappa di fili d’argento che sono gli stessi delle spalline della divisa. Il corpetto rosso sul fondo nero cui sono appuntate tre grandi e vistose decorazioni di metallo smaltato è di un colore vivo e squillante che ben contrasta con le spesse filettature orizzontali in passamaneria che sono qui sfruttate dall’artista in funzione decorativa. Gli allievi di David, di cui il presente artista fa certamente parte, avevano appreso dal maestro la capacità di usare decorazioni, ricami, passamanerie, sete e piumaggi per esaltare la portata celebrativa del ritratto. Il precedente a cui l’artista ha fatto immancabilmente riferimento è il ritratto del conte François de Nantes conservato al museo Jacquemart–André di Parigi. Il David aveva fatto del suo effigiato un personaggio a metà strada tra l’ostentazione del potere e la caricatura. Non così del più semplice ritratto del barone de Raym qui esposto in cui il volto, guarnito di imponenti fedinoni, è raffigurato secondo i canoni di realismo abbellito che erano tipici del Neoclassicismo, scevri però di intenti ironici o, meno che mai, sarcastici. Il ritratto di ufficiale divenne una categoria a se stante durante l’epoca dell’Impero e negli anni successivi,
e per l’aver servito molti francesi sotto le armi e per le opportunità decorative che offrivano al ritrattista. Molto diffuse di questo soggetto sono anche le miniature che, a volte, posseggono una finezza e una immediatezza che sfugge perfino a molti dei ritrattisti più accreditati. Di questi ritratti di ufficiali forse per l’esubero decorativo accumulato nei dettagli della divisa lo sfondo è lasciato assolutamente neutro, di un colore difficilmente definibile e comunque non suggeribile con le parole. Di questi sfondi i pittori del Neoclassicismo furono maestri. Riuscirono a suggerire nella totale assenza di elementi prospettici, una profondità che era data soltanto dall’accumulo di velature uniformi di cui sono composti. Si potrebbe giudicare la qualità dell’artista, medianicamente, da quella degli sfondi. Inedito
[E.B.]
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Artista Francese Del Primo Quarto Del Secolo XIX autoritratto di giovane artista olio su tela cm 72, 4 x 91 iscritto ma 1.ère couronne e datato 1824
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Per quanto ci si inoltri nel progresso una parte del passato che viene meno può far sentire dolorosamente la sua mancanza. Confesso di provare nostalgia per un tempo in cui la fotografia a colori delle opere d’arte era inesistente o enormemente meno diffusa di quanto non lo sia oggigiorno, perché avrei dovuto descrivervi i colori di questo smaltato dipinto raffigurante un giovane pittore che ha ricevuto un premio scolastico. Molte volte sono addivenuto alla lettura di alcune delle cosiddette “perizie” o lettere di accompagnamento di un dipinto per l’acquirente redatte da Roberto Longhi, storico dell’arte principe. Le lettere corredavano fotografie in bianco e nero. La parte che permaneva viva di quegli scritti era la lunga descrizione dei colori dei dipinti, restituitaci coi termini preziosi e perspicui che gli venivano dalla frequentazione, poi rimossa, di D’Annunzio, di Carducci e dei molti parnassiani italiani, caduchi se si vuole, ma fermentati in lui e amalgamatisi nella sua personale lingua che creavano quell’incanto che ancora soggioga. Così ho un bel provarmi a descrivere il bluetto della giubba che elegantemente riveste il giovane pittore e contrasta con il tortora scuro dei pantaloni, e non è lo stesso grigio che tende lievemente al verde di una parte dei colli che fanno da sfondo e nemmeno quello cinerino ma trascolante in un azzurro perlato degli altri colli che si avvicinano al cielo. O il contrasto delicato del turchino (del vestito appunto) con il giallo come di senape dorata del panciotto di cui fuoriescono soltanto i ricercati
revers o ancora il color pesca delle guance del fanciullo che non è lo stesso rosa–aranciato del tramonto e neppure quello delle mani, pur rosee e paffute e del bennato fanciullo. Perché il giovane è certamente nato in civil condizione – come si sarebbe scritto allora – è un ragazzo meritevole e studioso, vincitore di una corona scolastica. Senonchè il suo reggere con la destra il toccalapis ce lo dimostra come giovane artista di cui questo è certo un autoritratto. E il suo stile ai limiti del naif è probabilmente solo dovuto alla giovanissima età. Nessun lodatore dei tempi moderni, credo, potrà non sentire una trafittura per un passato di condizione così idilliaca dell’uomo, in così perfetta alleanza con una circostante natura amica, come ce lo rende visibile questo dipinto. Si potrà solo stupire che da un ideale estetico di così ingenua grazia e serenità si sia pervenuti alle attuali condizioni di sconvolgimento dell’arte contemporanea. Della quale questo dipinto e tutta la categoria di arte che con esso fa blocco costituisce assoluta antitesi. Inedito
[E.B.]
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Francesco Podesti (ancona 1800 – Roma 1895) autoritratto olio su tela cm 16, 4 x 15, 3
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Nell’accingermi alla redazione di questa scheda mi sono domandato se fosse opportuno rilevare prima di ogni altro argomento l’eccezionalità del ritrovamento di un autoritratto di Francesco Podesti o il soffermarmi, come di solito si usa, sul ruolo avuto dall’artista che con Hayez e Bezzuoli è uno dei maggiori pittori della prima metà dell’Ottocento. Del Podesti infatti era noto soltanto un autoritratto, conservato a Roma in collezione privata, di piccole dimensioni e realizzato probabilmente nel 1819. In esso l’artista appare come un giovane dall’acconciatura neoclassica intento a eseguire una tela a soggetto mitologico reggendo tavolozza e pennelli. Il secondo autoritratto conosciuto era soltanto quello realizzato in una piccola figura sullo sfondo del grandioso ritratto dei Marchesi Busca, conservato a Firenze in collezione privata in cui l’artista si autoraffigura sullo sfondo degli imponenti archi del palazzo Mattei poi Caetani a Roma, per attestare le sue predilezioni neocinquecentesche così anche come le attesta il basco “alla Raffaele” e la postura che in qualche modo richiama quella dell’autoritratto di Raffaello stesso nel celeberrimo affresco vaticano con la Scuola d’Atene. L’accostamento del nostro autoritratto con quello menzionato in precedenza permette di collocarlo cronologicamente al 1825, anno, per l’appunto, di esecuzione del doppio ritratto Busca. In entrambe le immagini il pittore ci appare con i baffetti (che si sono un po’ ispessiti al nostro autoritratto) i grandi occhi neri, il sesquipedale copricapo nero e l’aria come di ragazzo timido un po’ spaurito. Nell’autoritratto Busca il Podesti si guarniva
anche di un ampio e pesante mantello alla pellegrina e una grossa cartella di disegni a certificazione del suo “corso studioso” come attestazione accademica. L’autoritratto qui presente in mostra è dipinto su di uno sfondo color oliva adeguato ad accompagnarsi alle molte gamme di nero con cui è realizzato l’abito e ai pochi tocchi di bianco della camicia. L’incarnato del volto è rosso e colorito come a restituirci un uomo in possesso di buona salute malgrado l’aspirazione a un aspetto maladif. I Romantici non avrebbero voluto essere gente allegra, anche quando forse lo erano. Esiste tutta una categoria di autoritratti della prima metà dell’Ottocento, a cominciare dal capolavoro del genere che è quello di Tommaso Minardi riverso sul materasso della sua soffitta vestito di tutto punto con un teschio in mano. Ma più che novello Amleto ci appare come un giovane italiano piccolo–borghese un po’ di provincia, in una parola un Romantico. Inedito
[E. B.]
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Francesco Podesti (ancona 1800 – Roma 1895) Ritratto di dama (maria malibran?) olio su tela applicata su tavola cm 14 x 11, 3 Firmato a tergo F. Podesti
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La proposta di identificare nella dama effigiata in questo piccolo e prezioso ritratto di Francesco Podesti la celebre cantante rossiniana e belliniana Maria Malibran (Parigi 1808 – Manchester 1836) è stata avanzata, pur con prudenza, da Fernando Mazzocca (L’ultimo giorno di Ercolano di Francesco Podesti (1800–1895), testo di F. Mazzocca, catalogo della mostra, Galleria Carlo Virgilio, “Dossier n. 4”, Roma 2005, fig. 10, p. 21, n. 2). Sulla base della vasta, anche se non univoca per quanto riguarda la restituzione dei dati fisiognomici, iconografia della grande diva ottocentesca di origini spagnole l’ipotesi di riconoscimento appare indubbiamente sostenibile. La fronte spaziosa, il viso allungato ma non affilato, dal mento rotondo, i lineamenti regolari e il naso diritto, gli occhi grandi ed espressivi sono costanti nei suoi numerosi ritratti, come quelli celebri e realizzati in Italia di Abbondio Sangiorgio, in scultura nelle vesti di Norma, o di Luigi Pedrazzi, che la dipingeva come Desdemona nell’Otello di Rossini (entrambi conservati presso il Museo teatrale alla Scala di Milano). O nel vasto repertorio di quelli eseguiti all’estero, dal dipinto di François Bouchot (Parigi, Musée de la Vie Romantique) alle numerose incisioni, che con l’opera di Podesti hanno in comune la preziosa definizione dell’acconciatura, qui trattenuta da una crocchia posteriore e lasciata scendere ai lati del viso in ciocche ondulate, e il semplice diadema sulla fronte, impreziosito da una gemma centrale. Per l’acconciatura e la foggia dell’abito il ritratto appare databile al quarto decennio dell’ottocento. Quest’ipotesi di datazione vedrebbe coincidere l’età apparente dell’effigiata e quella della Malibran, che dopo i trionfi francesi e londinesi nel 1831 giungeva in Italia,
esibendosi a Roma, Napoli, Bologna e Milano. Proprio a Roma, dove esordì nel 1831 al teatro Apollo appena restaurato dal principe Alessando Torlonia e tornò l’anno seguente per le recite dell’Otello al Teatro Valle, la cantante poteva facilmente essere ritratta dal più importante pittore della scena artistica romana. Il piccolo formato del dipinto, l’impressione di vita nella nobile espressività e di fedeltà al dato reale del volto, nonostante il perdurante riferimento agli schemi di bellezza raffaellesca con cui Podesti temperò la sua adesione al naturalismo romantico, suggeriscono che si tratti di un’opera realizzata rapidamente sull’impressione del modello vivente. Essa conferma dunque la capacità di presa sul modello testimoniata dalla vasta attività di ritrattista del pittore anconetano, protagonista in questo campo come nel genere storico della pittura romantica nazionale, ed esemplificata dall’impegno documentario del ciclo degli studi preparatori per i ritratti di contemporanei rappresentati nei vasti affreschi dedicati alla proclamazione del Dogma dell’Immacolata Concezione nell’omonima Stanza Vaticana, realizzati a partire dal 1854, quasi cento ritratti a matite colorate (Biblioteca Apostolica Vaticana, G. Morello in Francesco Podesti, catalogo della mostra di Ancona a cura di M. Polverari, Milano 1996, pp. 238–243). Bibliografia: L’ultimo giorno di Ercolano di Francesco Podesti (1800– 1895), testo di F. Mazzocca, catalogo della mostra, Galleria Carlo Virgilio, “Dossier n. 4”, Roma, 2005, fig. 10, p. 21, n. 2. [S. G.]
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Clemente Alberi Ritratto di donna in colloquio con il figlio milite della guardia Civica Bolognese olio su tela cm 141, 5 x 193 firmato e datato in basso a sinistra Clemente alberi fece 1848
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Il presente dipinto, uno dei caposaldi della ritrattistica dell’Alberi, è ampiamente documentato dalle fonti in quanto esposto al pubblico nello studio dell’autore in occasione della mostra tenutasi all’Accademia di Belle Arti nel 1851. Fu inoltre descritto da G. C. Lossada, uno studioso dell’epoca, che lo indicava in una sua recensione apparsa sulla rivista “L’Osservatore” come Ritratto di signora in atto di colloquio con un giovinetto milite. Documentazione, questa, rintracciata e segnalata da Claudio Poppi in una comunicazione scritta che costituisce un approfonditissimo e dettagliato studio del dipinto in questione. Come ritenuto dal summentovato scritto e come altresì risulta dall’esame del dipinto, nel declino del tardo Neoclassicismo italiano, vengono meno i temi eroico–pagani, si abbandonano gli exempla virtutis e irrompe una tematica politica e di impegno civile inerente i tumultuosi avvenimenti della prima metà dell’Ottocento, a tutti nota col nome di Risorgimento. Bologna aveva fatto la sua parte rendendosi indipendente nel 1848, venendo, anzi, a conflitto con la guarnigione austriaca nella famosa battaglia della Montagnola avvenuta l’8 agosto 1848. In quell’anno si era costituita una Guardia Civica cui appartiene indubitabilmente, ravvisandosene la divisa, il giovane milite del dipinto. Il tono estremamente elevato dell’ambiente in cui si svolge la scena, conferma, qualora fosse necessario, come il Risorgimento fu propugnato da aristocratici, alto–borghesi, comunque tutti spiriti illuminati che incrollabilmente credettero nell’unità d’Italia, e prevalsero. L’Alberi stesso, autorità istituzionale
in quanto docente della Pontificia Accademia di Belle Arti, parrebbe coinvolto in questo credo politico almeno a giudicare dalla disponibilità offerta all’esecuzione del dipinto. Il gesto del giovane poi, che pare indicare la fontana del parco all’inglese con tutto l’armamentario di elementi alla moda quale il salice piangente, la fontana che raffigura Leda violata o posseduta dal cigno, potrebbe, assai cripticamente, alludere alla dominazione Austriaca su Bologna col colore bianco del cigno, che era lo stesso delle uniformi austriache. Come che sia l’Alberi risulta artista di notevole levatura, nella resa delle superfici seriche, nella splendida trasparenza dello scialle, nella minuziosa, diligente cura del merletto e infine nell’accostamento del blu scuro della grande crinolina ottocentesca al rosso del panno, di tra il vellutato e il felpato, dei pantaloni del giovane armigero, terminanti in due scarpini (se ne vede solo uno), che si direbbero decisamente più adatti alla sala da ballo che al campo di battaglia. Aleggia su tutto il richiamo di alcune eccelse prove ritrattistiche di Ingres, non a voler suggerire con certezza una diretta dipendenza dell’Alberi, ma a conferma che l’eroismo neoclassico si stempera in moderazione accademica dai toni spesso edonistici e mondani. Bibliografia: G. C. Lossada, recensione in “L’Osservatorio”, anno II, N. 63, mercoledì 12 novembre 1851. [E. B.]
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Felice Schiavoni (trieste 1803 – Venezia 1881) Ritratto maschile in costume greco olio su tela cm 83, 5 x 71
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Il dipinto costituisce una rara e interessante testimonianza della notevole produzione ritrattistica di Felice Schiavoni che, insieme al padre Natale (Chioggia, Venezia 1777 – Venezia 1858; L. Sernagiotto, Natale e Felice Schiavoni. Vita, Opere, Tempi, Venezia 1881), fu uno dei protagonisti della scena artistica verso la metà dell’Ottocento, tra Venezia, Trieste e Milano, dove i due pittori furono ricercati dai collezionisti e presentarono le loro opere alle esposizioni. Come il genitore, anche Felice seppe cimentarsi con successo sia nella grande pittura di figure, affrontando per lo più soggetti mitologici e sacri, sia nei ritratti (o in particolari tipologie femminili di carattere allegorico come la Malinconia) dove fu apprezzato per il suo stile rifinito, piacevole e seducente, tanto da meritarsi il lusinghiero appellativo di “Raffaello veneziano”. Lo scarso bilancio degli studi moderni sull’artista non rende giustizia alla considerevole fama che ha goduto in vita, tanto da avere committenti prestigiosi come nel caso della corte russa, dallo zar Nicola I a Alessandro II; mentre i suoi dipinti, soprattutto ritratti, sono presenti nei più importanti musei del Veneto: i musei civici di Padova e Treviso (Dipinti dell’Ottocento e del Novecento dei Musei Civici di Padova, catalogo a cura di D.Banzato, F. Pellegrini e M. Pietrogiovanna, Padova, Il Poligrafo, 1999, pp. 121–124. Una Pinacoteca per l’Ottocento, catalogo a cura di E. Manzato e G. C. F. Villa, Treviso, Canova, 2000), la Galleria Internazionale di Ca’Pesaro a Venezia, dove si ritrovano i
suoi capolavori come i due ritratti della Granduchessa Elena Paulowna e della Baronessa Angela de Reinet, cui soprattutto il nostro ritratto va accostato (cfr. AA.VV. La pittura nel Veneto. L’Ottocento, a cura di G. Pavanello, Milano, Electa, 2002, I, pp. 46–47). Qui Felice schiavoni ha saputo rendere con particolare efficacia lo smagliante costume greco, spesso usato a Venezia in quegli anni anche per simpatia con la causa dei Greci che avevano appena conseguito, dopo una lunga guerra, l’indipendenza dall’infamante giogo turco. Inedito
[F. M.]
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MAURIZIO NOBILE VISAGES EN POSE ritratti scolpiti
schede di Eugenio Busmanti [E.B.] Stefano Grandesso [S. G.]
Lorenzo Bartolini Ritratto del Principe di metternich marmo h. cm 53 (cm 69 con il piedistallo non coevo)
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Lorenzo Bartolini, che lavorò con il nobile marmo bianco statuario di Carrara, fu il più grande ritrattista in scultura della prima metà dell’Ottocento italiano, e quasi direi, europeo, non essendosi dedicati né il Canova né il Thorvaldsen ad una produzione di ritratti su così vasta scala come fece il Bartolini. Di lui ci permangono quasi seicento modelli in gesso, preparatorii di altrettante sculture, di cui circa quattrocento sono ritratti individuali, talvolta a mezzo busto, in qualche caso a figura intera, restaurati e conservati presso la gipsoteca bartoliniana riunita a Firenze alla Galleria dell’Accademia. Delle identità dei ritrattati esiste un elenco completo numerato, in riferimento ad etichette applicate sui gessi che sono andate perdute, rendendo impossibile nella maggior parte dei casi l’identificazione dei personaggi. Inconveniente cui ovviamente sfugge il ritratto del Metternich data l’universale notorietà delle fattezze del principe. Il busto realizzato “all’antica” per usare la terminologia bartoliniana, privo cioè del drappeggio come a significare che il personaggio è ritratto idealmente ignudo, secondo la moda inaugurata dal Canova nella figura colossale di Napoleone, ha un modello in gesso della gipsoteca bartoliniana cui è inscritta la data 182… Il presente busto è l’unica realizzazione in marmo a tutt’oggi rintracciata, come mi conferma Vanessa Montigiani, studiosa della gipsoteca bartoliniana. Se davvero fosse l’unico esemplare in marmo esistente se ne dovrebbe dedurre che sia stato di proprietà del Principe stesso. Dei personaggi celebri esistono viceversa più realizzazioni in marmo da un unico modello, secondo
la concezione della scultura neoclassica per la quale un’opera approvata e licenziata dall’autore, anche se da lui non manualmente condotta, o totalmente condotta, è da considerarsi senz’altro autografa. Il che facilitava ovviamente le realizzazione di molteplici esemplari in marmo da destinarsi a dono di rappresentanza. Lo stile del Bartolini si ravvisa in questo nostro Metternich nel fare specialissimamente morbido, fluido e naturale della cesellatura e, soprattutto nelle sembianze veridiche, ma nobilmente idealizzate, nella resa delle ciglia elegantemente inflesse, nella bocca di grande seduttore, arte, la seduzione, di cui lo statista fu provvisto altrettanto che di genio politico. Pare di riuscire a intuire uno sguardo che invece di stabilire un contatto sembra voler mantenere una distanza. Lorenzo Bartolini, ritrattista in scultura prediletto dall’alta società, in un’epoca in cui il ritratto in scultura era sentito come attributo sociale più ancora del ritratto dipinto, riuscì sempre e impareggiabilmente a immettere nei suoi personaggi quel quid di sprezzatura, alterigia, consapevolezza del proprio stato, con la sola sostenutezza del portamento, con una lieve torsione del collo, con uno scarto al limite del percepibile che fanno dei suoi personaggi gli ultimi eroi di un mondo altrimenti condannato ad avviarsi all’uniformità. In rapporto: gesso preparatorio conservato presso la Gipsoteca Bartolini, Firenze, Galleria dell’Accademia, cfr. Lorenzo Bartolini, catalogo della mostra a.c. di S. Pinto, Prato, 1978, p. 73, n.4 [E. B.]
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Scultore della cerchia di Bertel Thorvaldsen (Roma, secondo–terzo decennio del XiX secolo) Busto femminile marmo cm 43, 5 (cm 63 con il piedistallo non coevo)
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Il busto appare caratterizzato da un esemplare equilibrio tra il dato naturale, corrispondente a una fisionomia precisamente individuata, e un processo di idealizzazione che ha ricondotto i bellissimi tratti del volto e della testa, privati di notazioni realistiche, in una forma plastica pura e semplificata, condotta per ampie superfici variate da morbidi trapassi chiaroscurali. Lo sguardo è dotato di una connotazione psicologica, nella serena, e pur decisa, e nobile distinzione, mentre lo scarto laterale della testa e la sua leggera inclinazione in avanti aggiungono un elemento narrativo e sentimentale alla concentrazione riflessiva dell’espressione. Nonostante l’assenza di firma e di documentazione relativa al busto non consenta per ora di individuare con certezza il suo autore, in attesa di un provvidenziale ritrovamento del gesso originale o di una sua seconda versione, questa volta documentata – casi entrambi non infrequenti nell’ambito della scultura classicista ottocentesca – è possibile intanto individuare il suo contesto di riferimento sulla base di una serie di confronti con motivi analoghi nella scultura contemporanea. Proprio i dati formali citati sembrano individuarne l’autore, con una certa approssimazione, in uno scultore attivo a Roma, o quantomeno di formazione romana, legato alla cerchia di Bertel Thorvaldsen e operante tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento, date alle quali il busto deve risalire anche per la caratteristica foggia
dell’acconciatura, con la scriminatura centrale e i capelli raccolti superiormente in una treccia disposta a corona, in uso soprattutto dopo la Restaurazione. La sintesi formale, l’espressione e i dettagli di lavorazione e resa dei capelli richiamano infatti prototipi thorvaldseniani come il busto di Ida Brun (1810, Copenaghen, Museo Thorvaldsen) e di Wilhelmine duchessa di Sagan (1818, Dresda, Staatliche Skulpturensammlung), o il suo busto di Vittoria Caldoni (Copenaghen, Museo Thorvaldsen), ritratta nel medesimo 1821 anche da Pietro Tenerani (Roma, Museo di Roma), il suo principale allievo e uno dei possibili autori dell’opera nonostante il gesso non risulti nella Gipsoteca Tenerani conservata presso il Museo di Roma. Affine per sensibilità al ritratto è anche la statua muliebre sedente scolpita da un altro artista della cerchia thorvaldseniana, cioè la Fanciulla che si lega il sandalo di Ridolfo Schadow (Monaco, Neue Pinakothek), eseguita in più versioni a partire dal modello del 1813 ed esposta a Roma nel 1819, colta in atteggiamento di raccolto intimismo, con identica acconciatura e simile purezza nel profilo (sulla ritrattistica di Thorvaldsen cfr.: E. Kai Sass, Thorvaldsens Portraetbuster, 3 voll., København, 1963–65; su Tenerani: S. Grandesso, Pietro Tenerani (1789–1869), Cinisello Balsamo, 2003; su Schadow: G. Eckardt, Ridolfo Schadow. Ein Bildhauer in Rom swischen Klassizismus und Romantik, Köln, 2000).
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Molti dati richiamano anche la ritrattistica intorno a quelle date di due artisti di area nordica come Christian Friedrich Tieck e Christian Daniel Rauch, scultori dal percorso parallelo: entrambi a Roma a contatto con Thorvaldsen e in seguito per alcuni anni a Carrara, impegnati nella realizzazione di monumentali sculture destinate ai committenti prussiani, prima del definitivo rietro in patria. Proprio Thorvaldsen tradusse in marmo, sul modello in gesso di Tieck, un busto molto vicino a questo come il Ritratto di Auguste Bömer (Copenaghen, Museo Thorvaldsen), ma entrambi realizzarono in particolare ritratti simili nel taglio del busto, con la caratteristica erma rastremata verso il basso e lo spessore del marmo anche sui lati tagliato verticalmente. Il dato di un ideale classico e purista in grado di controllare il rimando naturalista è comune a molti busti femminili di Rauch a cui questo in esame rimanda, come quelli di Frederike Unger e di Anges Rauch (Berlino, Nationalgalerie). Sorprendente è inoltre la vicinanza nello stile ma anche nei tratti fisiognomici sia con Adelheid von Humboldt come Psiche, ritratto allegorico a figura intera della giovinetta realizzato nel 1810 a Roma, sia con il Busto della principessina Charlotte di Prussia, poi zarina Alessandra Fiodorovna di Russia, di cui Rauch eseguì più versioni a partire dal 1816 (per Tieck cfr.: B. Maaz, Friedrich Tieck. Briefwechsel mit Goethe, Berlin, 1996; per Rauch: J. Von Simson, Christian Daniel Rauch.
Oeuvre–katalog, Berlin, 1996). Forse dunque fu proprio lui l’autore di questo ritratto anonimo, o, come detto, un’artista anche più strettamente legato a Thorvaldsen come Tenerani o Luigi Bienaimé, la cui produzione però nel campo del ritratto non è ancora stata adeguatamente ricostruita. Inedito
[S. G.]
Chana Orloff (tsaré–Constantinovska – tel aviv 1968) dama col ventaglio (Ritratto di ivanne le maistre) bronzo a patina color miele cm 91, 5 firmato e datato sulla base a destra Ch. orloff 1921 iscritto sulla base a sinistra susse fondeur Paris
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La scultura dispone di un certificato di autenticità redatto da Ariane Tamir, nipote dell’autrice che rinvia al numero 39 della monografia curata nel 1991 da F. Marcilhac, dichiarante altresì che si tratta di fusione d’epoca. La scheda del Marcilhac ci informa inoltre che dell’opera esiste un modello in gesso che risale al 1920, una realizzazione in legno e alcune fusioni in bronzo conservate in collezioni private e al museo di Israele a Gerusalemme. Avventurosa e travagliata come quella della più parte dei correligionari nel corso del Novecento, l’esistenza della Orloff fu altrettanto artistica, nel senso della dedizione a un ideale estetico. Fuggita diciassettenne dall’Ucraina nel lontano 1905 con la famiglia, fu tra i pionieri degli insediamenti ebraici in Palestina. Ma già tre anni dopo si recò a Parigi dove, oltre alla frequentazione di corsi artistici istituzionali, ebbe a incontrare tutto il gotha degli artisti che sarebbero divenuti i più celebri colossi dell’arte del Novecento, destinati a soppiantare nei favori del pubblico contemporaneo e nelle quotazioni perfino i grandi artisti del passato. Non c’è nome che manchi nella pleiade di amici di Chana Orloff e ne trascuro dunque l’enumerazione perché equivarrebbe a elencare i componenti dell’Ecole de Paris, ma profondamente si legò allo stile di Amedeo Modigliani che conobbe personalmente e a lungo frequentò, in quell’anno, il 1912, ancora precocissimo. Alcune sculture della Orloff sembrano infatti influenzate da Modigliani. Oppure la Orloff ha influenzato Modigliani? Ma ella si sente ebrea per lo meno altrettanto che parigina e torna spesso in Palestina – lo stato di Israele è infatti successivo alla seconda guerra mondiale – e comincia a fare la spola tra la sua patria di adozione e Parigi.
A partire dagli anni Venti ottiene le richieste di alcuni committenti di grande prestigio e diviene in fretta la ritrattista in scultura dell’alta società parigina. È il ritratto, sempre e soltanto modellato, a volte intagliato nel legno, il suo genere preferito. Rappresentativo del suo stile al punto di costituirne un archetipo è il presente Ritratto di Ivanne le Maistre, anch’ella pittrice, nata a Pietroburgo e moglie di un pittore francese, figura significativa della comunità russa in esilio a Parigi. Conosciuto ed esposto al museo di Gerusalemme come Dame a l’eventail, è considerato il capolavoro della Orloff. Esso costituisce un punto di incontro di alcuni elementi maturati dall’osservazione di Modigliani, del sommo Constantin Brancusi che ella ben conobbe e infine, nei volumi cilindrici e nel predominio della linea curva, lo studio attento delle opere di Leger. Riuscendo ad essere altresì, questa scultura, una icona dello stile Déco, che unisce una componente edonistica e mondana alle istanze modernistiche degli anni Venti. Ma la vita incalza con i tumultuosi e tragici eventi del Novecento e nell’andirivieni tra la Palestina e Parigi, nel dicembre del 1942 la Orloff scampa alla deportazione poiché viene avvertita della sua imminente cattura da un amico fonditore e da un alto funzionario di polizia. Al termine di una terribile fuga riparerà in Svizzera. Gli anni del dopoguerra la vedono attiva sia a Parigi sia in Israele dove eseguì il ritratto di Ben Gurion e si spense a Tel–Aviv nel 1968. Bibliografia: F. Marcillhac, Chana Orloff, Parigi, Les Editions de l’amateur, 1991, pag. 55; n. 39 di catalogo pag. 210. [E.B.]
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MAURIZIO NOBILE VISAGES EN POSE ritratti fotografati schede di Anna Maria Amonaci [A. M. A.]
IL rITrATTO NELLA FOTOGrAFIA ODIErNA di anna maRia amonaCi
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Da qualche tempo conduco riflessioni sul ritratto fotografico, mi colpisce in particolare la vasta diffusione del genere che dai primi anni Novanta del secolo scorso ha acquistato via via maggior preminenza nell’espressione contemporanea; sia esso limitato alla rappresentazione del volto, sia trattato nella singola figura intera, come esteso a più soggetti riuniti nella stessa immagine. Se la fotografia ha concorso alla sepoltura del ritratto pittorico, decretata dai non figurativi delle avanguardie del Novecento, confermando nella mente dell’artista l’inutilità di un’arte rappresentativa, o comunque collegata in qualche modo alla natura, essa, ripropone ora, in maniera incalzante il problema del ritratto che non è stato superato, bensì “annullato” dal comportamento “non figurativo” di molta parte dell’arte contemporanea1. Una questione da considerarsi in relazione, appunto, all’ampio seguito che il genere riscuote al presente. Ho colto lo spunto per occuparmi dell’argomento in occasione di una tesi da me assegnata sul ritratto fotografico, dove è stato affrontato il profilo storico del tema a partire dagli albori della fotografia, fino a giungere propriamente al ritratto nella conformazione odierna. A sommi capi è emerso che già negli anni Ottanta del Novecento l’espressione fotografica non si manifestava tanto nella presa diretta della realtà, “cogliendo l’attimo” sull’impronta dell’emozione momentanea – secondo ciò che nel Novecento si era impostato in relazione al medium riproduttivo – quanto in un recupero della messa in posa, elaborata sugli esempi della tradizione pittorica, traendo dalle opere dei maestri citazioni esplicite che conferiscono all’immagine la fissità dei dipinti. Gli autori tra i più significativi sono stati Robert
Mapplethorpe e Jeff Wall, annunciando una nuova formulazione dell’opera fotografica con il recupero del valore della bellezza e della storia. Alla fine del decennio sono comparse fotografie di ritratti in pose statiche, quelle, per esempio, di Andres Serrano a forte contenuto simbolico, o quelle di Tomas Ruff, segnate da un’icasticità straniante, di effetto “fototessera”. Ancora il senso di fissità inespressiva lo annuncia, ai primi dei Novanta, la ricerca della fotografa Rineke Dijkstra, con la rappresentazione statica di adolescenti privi di qualsiasi soggettività. Un carattere stilistico questo, che ha improntato gran parte della fotografia contemporanea. Lo troviamo nelle foto di Alec Soth, di Laura McPhee, di Jitká Hanzlová, denominato recentemente: “Deadpan Photography”2, ossia la fotografia dei volti senza espressione, neutrali e freddi, con i personaggi in posa dal tono impassibile; una fotografia, quale esplicazione dell’ansia e dell’inquietudine del nostro tempo. Si assiste inoltre al superamento della soggettività, con il ritratto inespressivo che comunica una certa trascendenza, come quelli di Eric Nehr e di Eva Lauterlein, dove il racconto episodico lascia il passo alla visione atemporale. Senso di atemporalità anche nelle foto di Hellen Van Meene di adolescenti dai volti assenti raccolti nei loro pensieri; o nelle scene di interni, illuminate im maniera da evocare la condizione artificiale e in certo modo aliena dei personaggi rappresentati: di Tina Barney, Hannah Starkey e Sarah Jones. Così come negli scenari urbani, dove l’attimo dello scatto concentrato sul passante lo astrae dalla provvisorietà della folla: di Philip-Lorca Dicorcia, Beat Streuli, Melanie Manchot. Una fotografia quella odierna che, nel genere del ritratto, non tanto ci pare da comprendere quale espressione di
artisti che “affrontano il nichilismo di Warhol, cercando la loro strada attraverso di esso e con una miriade di espedienti creativi (che) aiutano a ridare un po’ dell’antica magia allo specchio”3 – secondo una lettura recente a proposito del nuovo ritratto in fotografia – quanto piuttosto come l’annuncio della ricerca di una qualche trascendenza, tesa alla volontà di riappropriarsi di sentimenti intimi attraverso lo sguardo sulle persone osservate. E qui, mi piace ricollegarmi, così, per avventura intellettuale, al concetto crociano dell’artista che “ritrae sempre il proprio sentimento e non mai il modello”4. Nel senso del ritratto come mezzo per “la estrinsecazione della personalità dell’artista”5. Un senso che pare intravedersi nelle fotografie di sette autori italiani riuniti in vista della presente esposizione. Tre di loro: Aldo Fallai, Fabrizio Ferri e Luciana Majoni, sono nomi affermati nel campo della moda e della ricerca fotografica. Noti nel panorama internazionale, i loro sguardi mirano a fissare un’estetica fortemente ispirata ai maestri della tradizione pittorica e scultorea. Accanto ai loro ritratti si propongono quelli di quattro giovani fotografi: Gianluca Maver, Andrea Piacquadio, Raffaello Raimondi e Alex Subrizi, accomunati da una visione intensa e solenne, ad un tempo disarmante, dell’uomo contemporaneo. Le trenta fotografie, condotte negli ultimi dieci anni, lontane da finalità documentarie, per la loro natura artistica, esemplificano la vocazione anche lirica della fotografia che viene così a porsi in continuità con la forza espressiva della pittura, una forza aggiornata sul senso del nostro presente. Quanto mai significativa mi appare la prefazione di Ugo Ojetti all’imponente catalogo de Il Ritratto italiano dal Caravaggio al Tiepolo, uscito nel 1927 in memoria della prima mostra sull’argomento, tenutasi
sedici anni prima in Palazzo Vecchio a Firenze: “[...] Solo nel ritratto la lotta tra la natura e il pittore è diretta, un’anima contro un’altra, senza possibilità di strattagemmi e d’equivoci. Un tema obbligato: quello e quello soltanto. Scriveva Giovanni Segantini: «Il ritratto è la massima delle difficoltà artistiche e pittoriche. Esso è lo studio che con la maggior semplicità di mezzi racchiude la più efficace parola dell’arte nella espressione della forma viva. Se si considerano le opere dei più alti come dei più meschini pittori antichi e moderni, è facile constatare che il sommo della potenzialità pittorica tutti lo hanno raggiunto in qualche ritratto» [...]”6. A. M. A.
1 L. Grassi, Lineamenti per una storia del concetto di ritratto, «Arte Antica e Moderna», n. 4, 1961, pp. 477-494, p. 492. 2 Vedi G. Cook, Here's looking at you, «Boston Globe», novembre 4, 2007, in www.boston.com/news/globe/living/articles/2007/11/04. 3 W. A. Ewing, Intorno al viso, in W. A. Ewing, N. Herschdorfer, Faccia a faccia. Il nuovo ritratto fotografico, catalogo della mostra, Edizioni Contrasto, Roma, 2007, p. 25. 4 B. Croce, Il ritratto e la somiglianza, in Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana, t. 1, Bibliopolis, Napoli, 2003, p. 250. 5 L. Grassi, op. cit., p. 490. 6 U. Ojetti, Prefazione, in Il ritratto italiano dal Caravaggio al Tiepolo, Istituto di Arti Grafiche Editore, Bergamo 1927, p. VII. Vedi anche G. De Lorenzi, Ugo Ojetti critico d'arte. Dal «Marzocco» a «Dedalo», Le Lettere, Firenze, 2004, p. 114-120.
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Aldo Fallai Firenze, 1943 – vive e lavora tra Firenze e milano
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Si forma all’Istituto d’Arte di Firenze, dove si educa alla perizia tecnica e alla familiarità con i maestri del passato; non di meno è stimolato dal confronto con i moderni, coltivando l’entusiasmo che scaturisce dalla visione dei capolavori. Nei primi anni Settanta, nel clima di avanguardia concettuale, apre uno studio a Firenze insieme al fotografo Mario Strippini che diviene un punto d’incontro per ricerche aggiornate e propositive. In un tempo di messa al bando della figurazione, dove l’Arte Povera si fa portavoce di istanze politiche e sociali, egli indirizza l’attenzione al riscatto della forma, guardando piuttosto ai lavori iperrealisti, attratto dalla loro precisione fotografica, così come ammira espressioni pop non prive di poesia, in particolare quella di David Hockney. È suggestionato anche dai rigori, dolcezze, esotismi delle opere dell’Ottocento che a Firenze, nei primi dei Settanta, si vanno riproponendo nell’ambito degli studi storico artistici. Nel ‘75 elabora le prime fotografie per la pubblicità Armani, instaurando con lo stilista un sodalizio duraturo, significativo per l’affermazione internazionale del prestigioso marchio italiano. A monte del suo stile, caratterizzato dall’esattezza esecutiva, dal timbro smaltato conferito alle foto, si intuiscono meditazioni appassionate sull’arte, specialmente sulle opere di Bronzino, Pontormo, Caravaggio, poi dei Preraffaelliti e degli Orientalisti che traduce nelle pose statuarie dei modelli, nelle inquadrature dei ritratti, nei tagli delle luci, evocanti ideali spazi pittorici. Quanto all’incidenza della sua espressione, si può affermare che da circa un trentennio egli interpreta l’evoluzione del gusto, nella declinazione italiana, cogliendolo e dandone forma con la moda, secondo le istanze estetiche dei tempi. Se le foto per la pubblicità Armani degli inizi – cioè ancora nei Settanta – privilegiano l’azione, la ripresa di una gioventù inquieta e fragile, consumata «sui marciapiedi di metrò, o lungo pareti ingiallite e povere dei sottopassaggi», all’avvio del decennio successivo traduce il mutamento in atto verso la post modernità con immagini
di «adesione totale alla bellezza come via espressiva autonoma, in cui torna la lentezza dolce anche dell’espressione, segnata dal ricordo, dalla fantasia, dalla storia» (C. Falciani, Fotografie di Aldo Fallai, «Artista», 1993, p. 60). È il caso, per esempio, della campagna pubblicitaria del 1985 per Emporio Armani, ispirata all’abbigliamento degli anni Trenta, dove fotografa i modelli come trasfigurati nel marmo in pose ispirate alle statue del Foro Italico. La premura di ricorrere al passato per nobilitare il presente, vivissima, appunto, negli Ottanta, con citazioni ripetute dalla pittura e dalla scultura, ora per l’assetto compositivo, ora per gli effetti cromatici, o per la modulazione della luce, man mano si allenta, per una propensione a cogliere nella natura, finanche nelle cose ordinarie «materia per la fantasia, secondo una disposizione dell’anima di carpire l’ineffabile, che fiorisce senza stimoli esteriori, da solo» (Ivi, p.65). La sua espressione si nutre anche di atmosfere incontrate nei paesi d’Oriente, rarefatte e dense di preziosismi, dell’incanto del deserto, dove più volte ha condotto campagne fotografiche impiegando giovani dai corpi perfetti, immersi in scenari arcaici. Così come trae ispirazione dalla figura femminile, e proprio in certi volti di modelle, per lo più provenienti dall’Est, ritrova quelle suggestioni di esotismo, cariche di potenziale immaginativo. Volti dalla bellezza desueta, con i lineamenti sottili, ingentiliti dalla purezza degli incarnati che osserva intensamente, fissandoli quasi fossero ritratti di cammei rari e preziosi. Innumerevoli sono le sue pubblicazioni in prestigiose riviste di moda italiane ed internazionali. [A. M. A.]
SENzA TITOLO, 1993
stampa digitale a getto d’inchiostro, cm 25 x 33, edizione 1/3
69
SENzA TITOLO, 2003
stampa digitale a getto d’inchiostro, cm 37 x 50, edizione 1/3
70
wErONICA, 2004
stampa digitale a getto d’inchiostro, cm 37 x 50, edizione 1/3
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OLESSIA, 1985
stampa digitale a getto d’inchiostro, cm 34 x 53, edizione 1/3
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SENzA TITOLO, 2004
stampa digitale a getto d’inchiostro, cm 37 x 50, edizione 1/3
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Fabrizio Ferri Roma, 1952 – vive e lavora a new York
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Nasce in un ambiente familiare caratterizzato da una forte identità politica e culturale, formandosi a contatto con intellettuali ed esponenti della sinistra italiana, in un clima improntato a passioni ideali, carico di fermenti e progettualità. Il padre è Franco Ferri, deputato comunista e direttore dell’istituto Gramsci; la madre, Giuliana De Francesco, giornalista e scrittrice, si occupa della propaganda e dell’immagine del partito, affiancata in questo dal grafico Giulio Cesare Italiani che egli ricorda lodandone la vivacità comunicativa del segno. Un humus decisivo per la sua vocazione artistica, da intendersi a fondamento e insieme spinta propulsiva per la messa in atto, nel corso degli anni, di iniziative multiformi all’insegna della creatività e della sperimentazione. Una vocazione artistica scaturita fin dagli anni del liceo, manifestatasi attraverso il mezzo fotografico in un momento preciso di cui conserva ben viva memoria. Quello, durante un comizio di Luciano Lama, in occasione del primo maggio 1970, quando coglie nell’assembramento della folla la forza attrattiva di un istante di bellezza che si palesa nell’equilibrio compositivo di tre teste: di un bimbo e di una coppia accostate l’una all’altra. Una visione irripetibile che lui fissa, certo soltanto di alcuni rudimenti di tecnica appresi da Vezio Sabatini, del gruppo dei fotografi romani intorno a Caio Garrubba, specializzati in reportages di attualità e di costume politico. Quel momento è risolutivo, si fa chiaro in lui il valore della fotografia, come la via più consona per testimoniare il potenziale della bellezza, quale veicolo di entusiasmo e di speranza in un tempo di mutamenti, carico di idealità tese all’avvento di società migliori. In breve le sue foto sono pubblicate nelle principali testate italiane, delle quali si elencano: «L’Unità», «Fotografare», «Paese
Sera», «Noi donne», «Il Mondo» e «L’Espresso». Sulla scia della notorietà ottenuta con i servizi di attualità e di costume, nel 1971 intraprende un viaggio memorabile in Unione Sovietica, per conto di un’agenzia di viaggio, riportandone immagini suggestive per un pubblico incline a mete turistiche desuete. Le riflessioni sulla bellezza, sul valore comunicativo delle immagini lo conducono nel 1973 nell’ambito della moda che lo vede in pochi anni affermarsi tra i fotografi più ricercati, collaborando con le maggiori riviste nazionali ed internazionali; così come si impegna nella fotografia pubblicitaria con campagne di successo per McDonald’s, Bulgari, Ferragamo, Peroni, Laura Biagiotti e Fiuggi. In certa maniera la sua energia espressiva, mutuata dai genitori, egli la indirizza, piuttosto che alla progettazione di mondi migliori, alla fattività di iniziative, tese alla messa in atto di organizzati microcosmi lavorativi e creativi insieme, pensati autonomamente rispetto ai sistemi produttivi dominanti. Si comprende allora la creazione, nel 1983, di Industria Superstudio a Milano, rilevando vasti spazi dismessi nel quartiere Tortona, con l’intento di ricavarne studi fotografici il cui affitto non sia appannaggio dei fotografi, bensì compreso nei costi di produzione. Il centro polifunzionale con sale di posa e strutture di servizio si arricchisce, nel 1999, di Industria Digital, una divisione dedicata all’acquisizione e post–produzione digitale; nel 2002 di Industria Musica, per la pre e post–produzione audio digitale, divenendo tra i più aggiornati e propositivi del settore. L’idea organizzativa del lavoro fotografico la mette in atto anche a New York, fondando nel 1991 – nel periodo di recessione americana – Industria Superstudio Overseas nel centro
del West Village. L’aspirazione a costituire microcosmi di armonie, lo conduce ad aprire nel 1995 anche il resort Monastero nell’isola di Pantelleria. La sua multiforme tensione espressiva lo vede impegnato inoltre, tra il ‘92 e il ‘98, perfino nella creazione di una linea di indumenti; ancora nel ‘98 nella fondazione a Milano dell’Università dell’immagine, una scuola mirata alla formazione di creatività e di sinestesia delle arti. Conta poi molteplici pubblicazioni: Open Eyed, del 1989 – il primo libro fotografico edito da Industria Books; Acqua, del 1992 (ancora Industria Books, in collaborazione con la Pediatric Aids Foundation, ente con cui dal 1993, organizza ed ospita negli spazi di Industria a New York l’evento annuale Kids for Kids); oltre al breve racconto Discrete avventure di Vito Zuccheretti, uomo comune, del 1992, edito da Novecento; poi Carubba, del ‘95, di Industria Books; quindi Aria, del ‘97, per la Federico Motta (il primo libro realizzato interamente con tecniche di ripresa digitale, dal progetto nasce pure un cortometraggio, ideato in collaborazione con la ballerina Alessandra Ferri). Seguono pubblicazioni dedicate al design e all’architettura razionalista italiana quali: Forma (Electa, 2000) e Forma: nudi di architettura (Idea books, 2004). Nella direzione cinematografica, invece, dopo Aria, si cimenta nei cortometraggi Prèlude (presentato al festival di Venezia nel ‘98), ancora con Alessandra Ferri e la partecipazione di Sting, con i quali riceve l’assegnazione del Premio Raisat Digital Show per la regia e la fotografia dei corti; infine con Carmen, del 2000, è premiato due anni dopo, con il Best Live Performance in Dance Screen al Monaco Dance Forum. Riguardo alla fotografia di Fabrizio Ferri, va rilevato il suo rapporto con l’arte. È attratto, per esempio, dalla perfezione dei maestri del
Cinquecento italiano, poi dai Preraffaelliti, per quel preziosismo che conferisce alle opere l’incanto della fiaba; del Novecento ammira la pittura smaltata e superba di Tamara de Lempicka, quindi Sironi, i futuristi italiani, con Balla in particolare, poi Braque, Picasso, Guttuso, Turcato e Bacon. Se questi sono i maestri di riferimento, non di meno è attento al recupero delle forme da parte di giovani artisti, collezionandone i lavori, tra questi: Marco Petrus, Federico Guida, e Alfredo Rapetti. Nel campo delle foto di moda apprezza l’originalità espressiva di Bruce Weber, Paolo Roversi, Oliviero Toscani e Aldo Fallai. Ma ancor più lo avvince la bellezza della natura, quella, per esempio, di un corpo armonioso che danza, nella cui tensione percepire forze archetipe di idealità; o quella di certi volti, capaci di espressioni intense e solenni. Della letteratura ama la sapienza di indagare l’animo umano di Tolstoj e di Dostoevskij, suscitatrice di passioni profonde, del dolore, della gioia, della speranza. La cultura la intende a sostegno della vita, in primis la musica, a cui ricorre suonando e componendo nei momenti di afasia creativa, custode del proprio baricentro interiore. C’è nella sua ricerca la precisa volontà di far convergere all’unisono le diverse discipline artistiche, individuando nel cinema, nella messa in opera dei film, l’espressione adesso per lui più consona e risolutiva. Se si osservano a lungo le fotografie di Ferri, nonostante la sua propensione per le opere del Rinascimento, si scorge una bellezza con un che di denso, pieno, profuso, in certa maniera di eco barocca, financo nelle riprese più ravvicinate. Una bellezza di cui si è nutrito crescendo a Roma, improntandolo, direi, così, per osmosi. [A. M. A.]
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LAUrA MOrANTE, 1997
stampa lambda, cm 60 x 78
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ISABELLA rOSSELLINI, 1991
stampa lambda, cm 60 x 82
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STING AT IL PALAGIO, 1999
stampa lambda, cm 60 x 72
78
DJIMON HOUNSOU, FrOM THE BOOK ACQUA, 1992
stampa lambda, cm 60 x 81
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LUCIANO PAVArOTTI, 2003
stampa lambda, cm 60 x 90
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ALESSANDrA FErrI IN MANON, 2006
stampa lambda, cm 60 x 90
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LUCIANA MAJONI
Cortina d’ampezzo, 1948 – vive e lavora a Firenze
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Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1976. La sua formazione prosegue nel clima dei fermenti artistici presenti in città in quegli anni, prendendo parte alle iniziative della galleria Schema e dello Spazio Zona no Profit, di cui documenta l’attività fotografando serate di incontri e di esposizioni. Nel 1978 presenta, presso lo stesso Spazio Zona, una ricerca incentrata sul paesaggio, tesa a recuperare il valore estetico e il potenziale evocativo della fotografia. Durante la visita alla Biennale di Venezia del ‘76, effettua una serie di scatti in alcuni punti della città, concentrati nel momento di passaggio dal giorno alla sera, dove mette a punto la volontà di fermare stati d’animo e visioni interiori con il mezzo meccanico. Queste immagini, ispirate alle riprese lagunari di Edward Steichen, le presenta un decennio più tardi, nel 1988, in occasione dell’iniziativa Incontri sulla fotografia, tenutasi presso la facoltà di Magistero a Firenze. Per la Majoni, fin dagli inizi, il confronto con i maestri della fotografia, le riflessioni sulla bellezza, sul valore dell’immaginazione e del sentimento, sono il filo conduttore della sua ricerca. Alla prima personale (Il piacere delle rovine), tenuta alla galleria Schema nel 1980, espone particolari di fontane e frammenti antichi fotografati nei giardini, quasi fossero ricordi sbiaditi dal tempo. Durante gli anni Novanta si confronta con la statuaria neoclassica, elaborando immagini riprese nei musei, con l’intento di ‘rendere viva’ la politezza di quelle forme, per via di processi selettivi di parti delle opere che in fase di stampa vengono a perdere la freddezza
della materia. La ricerca si conclude con la mostra Pigmalione, presentata nel ‘93 ancora a Schema. In seguito si rapporta con la figura umana, concentrandosi su una serie di volti femminili che espone nel 2000 in occasione della personale Inventario, a cura di Giuliano Serafini, tenuta alla Galleria Fallani Best Arte Moderna e Contemporanea. Nel 2004 partecipa alla collettiva Col segno di poi. Fotografie in Toscana 1980–2004, curata da Anna Maria Amonaci presso la Galleria moderna di Palazzo Pitti. Nello stesso anno il Museo Marino Marini di Firenze ospita una sua antologica (Luciana Majoni Fotografie), a cura di Amonaci, dove si profila il percorso espressivo dell’autrice. Nella rivista “Gente di fotografia” (XIII, n. 41, primavera–estate 2006), Vincenzo Mirisola pubblica il suo portfolio di ritratti. Nel 2007, su invito dello stesso Mirisola, espone alla galleria Lanterna Magica di Palermo una serie di fotografie incentrate sull tema della natura. Nel medesimo anno partecipa alla collettiva La francité dans les villes italiennes, presso la sede dell’Alliance française a Parigi, ottenendo il premio speciale per la fotografia. Luciana Majoni è un’autrice fedele alla sua vocazione estetica, perseguita in oltre trent’anni di ricerca, tesa a recuperare il valore evocativo della fotografia, a fronte della mera registrazione oggettiva degli accadimenti e delle cose. Un percorso appartato di natura intima il suo, concentrato sul sentimento della bellezza quale tramite di libertà e di amore.
VOLTO # 10, 2002
stampa lambda, cm 400 x 125
Dalle prime sequenze di sponde di ruscelli cariche di fronde tremule e di paesaggi avvolti nella nebbia, agli scatti sul far della sera alla laguna veneziana, dove gli scintillii di chiarori rarefanno la realtà in attimi di incanto, a quelli alle sculture neoclassiche fatte affiorare tenuamente, in fase di stampa, dal chiarore della carta, le sue immagini esprimono emozioni profonde, come se fotografando avesse voluto affermare ogni volta l’appartenenza dell’arte alla sfera del sensibile, piuttosto che intenderla in quanto idea. Nel corso degli anni, lei, allora, con il mezzo meccanico, ha disegnato e dipinto, sostenuta dal confronto con le opere dei maestri, dalle frequentazioni dei musei, dalle riflessioni sulla portata dell’immaginazione e del sentimento. Le foto più recenti sono riprese di volti di amici e di conoscenti messi in posa, ispirate all’intensità della ritrattistica del passato. Sono immagini tramite le quali conduce una ricerca tutta interiore, tesa a fermare, con i volti che si pone di fronte, quell’attimo preciso di abbandono, massimo, profondo, di fermezza e grazia insieme, riflesso del bene disarmante dell’armonia, dove trova l’incontro per il suo cuore. [A. M. A.]
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DAVIDE, 2006
stampa ai sali d’argento, cm 85 x 75
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ALESSIO NANNI, 2006
stampa ai sali d’argento, cm 85 x 75
85
GIANLUCA MAVEr, 2007
stampa ai sali d’argento, cm 85 x 75
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MALVINA, 2006
stampa ai sali d’argento, cm 85 x 75
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Gianluca Maver Bergamo, 1972 – vive e lavora tra montevarchi e Firenze
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Si dedica alla fotografia fin da giovanissimo. Nel 1996, dopo un viaggio On the road per l’Italia, decide di trasferirsi a Firenze. Qui completa la sua formazione, presso la scuola di fotografia della Fondazione Studio Marangoni, dove dal 2000 insegna, e qui conduce per alcuni anni, in società, il laboratorio professionale Print service. I suoi lavori sono stati selezionati e premiati in diversi concorsi. Tra i più significativi: nel 2000, il Premio per un progetto fotografico, indetto dalla Fondazione Studio Marangoni; nello stesso anno risulta vincitore di Portfolio in Piazza 2000, a cura di Vittoria Ciolini; nel 2004 è selezionato dal Museum of Contemporary Art di Fort Collins, in Colorado; e, nel 2005, per il Premio Arti Visive San Fedele di Milano. Tra le numerose esposizioni personali e collettive, avviate nel 1997, si evidenziano: nel 2000, CGM Collection of Contemporary Photo 1997–2000, a cura di Walter Guadagnini e Filippo Maggia alla Galleria Civica di Modena; e Intimate Thought, a cura di Anna Fox, promossa da The London College of Printing; nel 2001, la collettiva Focus on Italy, alla Tisch School of the Arts di New York; nel 2003, Luce notturna, di Mauro Magrini, alla Ex Stazione Leopolda; e You red between the lines, curata da Renate Aller per la galleria Dryphoto di Prato; seguono mostre in Germania, in Bulgaria, di nuovo a New York; nel 2005, Valdarno on the road, a cura di Anna Detherige per i Cantieri la Ginestra, in Valdarno; nel 2006, Open day, di Daria Filardo, al FSM Gallery di Firenze; e la personale L’Arno un percorso visivo, curata da Anna Maria Amonaci, in piazza della Passera a Firenze. La mostra si
trasferisce a Roma, in occasione di FotoGrafia Festival del 2007, allo Spazio Mulinom Biondi; ancora nel 2007, tiene ad Aarhus in Danimarca, presso la Galleri Image, la mostra They looked on while it happened, quale risultato finale di un progetto condotto in collaborazione con due autori tedeschi, teso a indagare il senso della frammentarietà odierna. Sue fotografie sono pubblicate tra le altre nella rivista annuale di storia dell’arte “Artista” (2005), curato da Marco Delogu, Roma, Italy. Quella di Maver per la fotografia è una passione intensa, sorta quando egli era giovanissimo e fermava i momenti di svago con gli amici. Una passione che si rigenera ogni volta, giacché sembra che con sguardi lunghi e meditabondi sulle cose egli ne colga la sostanza atemporale, nella quale la propria tensione trovi pienezza di calma, di quiete e di libertà. Nelle sue fotografie c’è una tensione fra stupore e testimonianza, fra documento e incanto, dalla quale scaturiscono visioni ferme, tese, concise, necessarie ad esprimere il valore fisico, grazie anche all’uso del colore, alla sua dosata risoluzione, e quello metafisico dei temi. Le immagini della serie dedicata al fiume Arno, per esempio, di qualche anno addietro, nette, precise, sono un percorso, visivo e interiore insieme, che si è svolto sia attraverso scatti da vicino, sia con riprese a campo pieno, per comprendere, si direbbe, il coro delle cose, come quello di una collina sfumata dalla neve che si profila contro il bianco di un cielo velato; o di una boscaglia, guardata dal di dentro durante il cammino, dove gli alberi
immersi nella nebbia, paiono tremule colature d’inchiostro su una carta. Le sue fotografie, tuttavia, non consentono alcun indugio nostalgico, per via di una certa immediatezza, di una presa d’atto piena e ferma del presente. Rammento anche quelle scattate alla centrale elettrica di Levane in Toscana e a quelle della diga ad essa collegata, dove le riprese degli ingranaggi che governano la forza dell’acqua, o quelle alle paratoie regolatrici dei flussi raccontano di emozioni, come se osservate da vicino quelle cose, quei materiali grevi della costruzione, egli avesse colto armonie nuove, rispondenti a sentimenti profondi. Al tema del ritratto Luca Maver si è dedicato recentemente, quasi per caso, per un servizio ad un’attrice sua amica. Man mano è nata in lui l’idea di fotografare volti dagli sguardi intensi e desueti, con l’intento di renderli, si direbbe, di natura metafisica. A tal fine, ha inteso neutalizzare i personaggi scelti proiettandoli contro fondali bianchi, così da creare una sorta di spazio astrale, affinchè niente allenti la forza della visione, quella di un attimo preciso, assoluto, come sospeso nell’incanto di un’apparizione immersa nella luce. [A. M. A.]
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GLOrIA, 2007
stampa lambda su dibond sotto plexiglass, cm 125 x 100, edizione 1/3
90
PIErO, 2008
stampa lambda su dibond sotto plexiglass, cm.125 x 100, edizione 1/3
91
Andrea Piacquadio Busto arsizio, 1978 – Vive e lavora a Varese
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Fin dai primi anni di età mostra una spiccata propensione per le immagini, disegnando e dipingendo con perizia tecnica non comune. Dopo il liceo artistico, dove si appassiona al disegno e all’ornato, studia all’accademia di belle arti di Brera a Milano, per poi integrare la formazione all’Université 8 di Parigi, nel 2001, presso il dipartimento di fotografia. Non ancora ventenne si cimenta con il mezzo fotografico, appassionandosene a tal punto da abbandonare le pratiche disegnative e pittoriche, giacchè vi intravede possibilità più ampie di esprimere emozioni. In primis quelle suscitate da armonie e morbidezze del corpo femminile, a lungo studiato e disegnato. Da allora l’amore per la fotografia si fa totale, impiega l’apparecchio di continuo, scattando migliaia di immagini nelle situazioni più disparate, sebbene prediliga i contesti animati e ritrarre persone. Dal 2000, per due anni, in qualità di assistente, pratica studi di fotografi pubblicitari e di registi che incontra a Milano, fra tutti quello di Fredi Marcarini, dal quale riporta l’esperienza più rilevante. Prende avvio professionalmente nel 2002, collaborando a Milano con diverse agenzie di moda, per le immagini destinate ai books test delle modelle. Seguono servizi commissionati dalle compagnie teatrali, con le foto di scena degli spettacoli. La sua prima pubblicazione esce infatti nel 2003 sulla copertina della rivista di teatro «Prove Aperte». Seguita da quelle per le testate del Gruppo Mondadori, come «Creare» ed «Elle»; ancora del 2002, è il suo primo servizio di moda, per la giovane stilista Gaia Clerici; nello stesso anno partecipa ad iniziative culturali promosse a Varese dal poeta e scrittore Silvio Raffo, nonchè noto traduttore di Emily Dickinson e Oscar Wilde. L’incarico più impegnativo giunge nel 2004, con il progetto editoriale ideato da Dino Azzalin di ritratti fotografici ad artisti e personaggi di spicco della cultura e dell’imprenditoria di area varesina, come tra gli altri: Dario Fo, Franca Rame, Branduardi, Barbareschi, Frittoli, Zanzotto e Missoni. Il libro, uscito nel 2005 (per conto della Nuova editrice Magenta), riscuote
ampio consenso, venduto nelle principali librerie nazionali di settore. Dal 2005 conduce servizi di moda per Marta Marzotto, Alta Donna e Edelweiss, proseguendo le collaborazioni con Missoni. Accresce, inoltre, il suo portfolio con campagne fotografiche in Europa, negli Stati Uniti ed in Asia, riportandone immagini che pubblica su testate di riviste e quotidiani, come «Il Sole 24 Ore», «Panorama», «La Stampa», «Grazia» e «Class». In virtù delle elaborazioni digitali, che conferiscono alle riprese un forte impatto comunicativo, le sue immagini – ultime, quelle riportate dalla Cina nel 2008 – si pongono tra le più richieste non solo in ambito pubblicitario, grazie anche alle agenzie di Macrostock e Microstock con le quali costantemente è impegnato. Se in Piacquadio la vocazione all’immagine si annuncia fin dall’infanzia, manifestando capacità grafiche sorprendenti, con la pratica fotografica egli la dichiara per intero. Ben distante da finalità documentarie, il mezzo gli rappresenta piuttosto la maniera più consona per fermare rapidamente e con maggiore raggio di azione quegli attimi di emozioni còlte nel succedersi della vita, osservandone i fatti e le cose. Con l’impiego, poi, a partire dal 2003, della macchina digitale e del programma Photoshop, la libertà espressiva si fa completa, grazie alla possibilità di riformulare le immagini in chiave pittorica, permettendogli di sviluppare stimoli creativi ulteriori. Di personalità esuberante e passionale, egli costruisce scenari estremi, in certa maniera mosso dall’urgenza di mostrare una visione eroica dell’esistenza: fatta di intensità cromatiche, di luci ambrate e dense, a lambire bellezze gravide di forza e di gioventù, immerse in atmosfere surreali, dove tutto è intriso di profuso erotismo. Più chiare ci appaiono, allora, le immagini che compone accostando e combinando differenti scatti, i più disparati, come a pórci mosaici di emozioni. Una risposta, la sua, al grigio scorrere delle cose, che si fa appello accorato di fronte all’uniformità del banale e al vuoto del volgare. [A. M. A.]
CELLAr, 2008
stampa su carta fotografica satinata, cm 137 x 91, edizione 1/3
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LIGHT, 2008
stampa su carta fotografica satinata, cm 110 x 125, edizione 1/3
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SHADOw, 2008
stampa su carta fotografica satinata, cm 110 x 125, edizione 1/3
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raffaello raimondi Bologna, 1975 – vive e lavora a Londra
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La sua passione per la fotografia nasce con l’intento di fermare gli effetti dei fenomeni luminosi sulla natura e sulle cose. Una passione che si è sviluppata riflettendo sulla forza dell’energia, sul suo potenziale generativo e distruttivo insieme. I primi lavori prendono avvio da autodidatta nel 2000, grazie alle frequentazioni di ambienti musicali e teatrali, all’insegna delle molteplici suggestioni ricevute durante la preparazione degli spettacoli e dalla loro messa in scena. A contatto degli artisti, egli ha modo, fin dall’infanzia, di partecipare ai climi di ricerca espressiva che si sviluppano durante le realizzazioni delle opere. Dopo la formazione liceale, svolta in Gran Bretagna, e gli studi di Economia condotti a Bologna, e conclusi nel 2000 con una tesi sulla regolamentazione del mercato energetico, si dedica propriamente alla fotografia, svolgendo dal 2001 riprese di eventi musicali; tra i più significativi per la sua formazione, quelli condotti da Claudio Abbado e da Lucio Dalla. In seguito a un viaggio intrapreso nel 2005 lungo la linea Transiberiana, egli riporta foto di paesaggi e di persone di diverse etnie, fissati per il loro significato emozionale ed estetico, piuttosto che per intenti documentari. Le immagini le presenta presso la galleria dell’antiquario Maurizio Nobile di Bologna, con il quale avvia nel 2004 una collaborazione ricca di stimoli creativi, fotografando con spirito interpretativo le opere d’arte e i preziosi oggetti di arredo raccolti negli spazi della galleria, e partecipando alle pubblicazioni di cataloghi mirati. Nel 2006 si trasferisce a Londra, dove entra
in relazione con il propositivo ambiente artistico della città che lo induce, attraverso la visita delle esposizioni e gli incontri con gli autori, ad abbandonare le riprese in bianco e in nero, effettuate negli anni bolognesi, attratto dalla forza comunicativa del colore. Quanto alla ricerca espressiva, si sviluppa in lui la consapevolezza di dar forma a visioni interiori precise, rispondenti a progetti fotografici veri e propri, organizzati e circoscritti, piuttosto che fermare con lo scatto emozioni estetiche, provate vagando per i luoghi della città. La svolta si annuncia già nel 2006, con una serie di sette paesaggi che nomina Yn1 untitled, significativamente in ricordo di una funzione matematica che da studente stentava a risolvere. Segue la sua partecipazione alla campagna fotografica promossa dalla compagnia britannica Dunhill 1td, in occasione dell’adeguamento in club privato esclusivo di una sontuosa abitazione a Mayfair, in stile giorgiano, appartenuta al duca di Westminster. Dove, attratto dall’atmosfera di quegli ambienti vetusti, mette a punto una ricerca formale mirata a fermare corrispettivi scenari interiori, scaturiti durante i sopralluoghi. Nel febbraio del 2008 si impiega presso una nota società commerciale londinese, occupandosi di sviluppo economico del mercato energetico. Qui, nella frenetica realtà lavorativa e a contatto della più variegata umanità, matura l’idea del progetto Yn2–cryogenic pyramid lunch break che raccoglie una serie di ritratti di colleghi addetti alle vendite, fotografati durante la pausa pranzo contro sfondi angolari, secondo la dovizia preparatoria richiesta
dai set di posa. Il titolo ironico, scelto con pertinenza, mutua il nome da un processo industriale di liquefazione e insieme rinnova l’omaggio scaramantico in memoria della giovanile difficoltà di fronte all’ostica funzione matematica. Le fotografie di Raimondi denunciano un destino estetico del loro autore. Già dalle riprese alle suppellettili per i cataloghi d’arte, osservate nei dettagli, intensamente, con incanto davanti alla maestria della fattura, agli adagi delle ombre che restituiscono all’oggetto l’aurea del tempo, si rivela una vocazione contemplativa carica di affetto. Come quella che traspare dagli scatti nel canile di Bologna, dove con l’obbiettivo egli penetra l’intensità struggente degli occhi degli animali. Poi le immagini di paesaggi e di persone di etnie diverse, riportate dal viaggio lungo la transiberiana, che scorrono quasi fossero le sequenze di un sogno, per raccontarci di emozioni e di sentimenti, quelli provati di fronte alla meraviglia degli scenari della natura, o a cospetto di umanità lontane, ritrovando nei volti il senso di valori archetipi. Fra gli artisti odierni stima Jeff Wall o Thomas Struth, per la meditata ricerca in preparazione dello scatto che conferisce alle opere quella pienezza solenne e silente delle scene teatrali. L’amore per la bellezza, per la sua forza ordinatrice, suscitata fin da giovanissimo dalla musica – più di recente quella del brano Un Unanswered Question, di Charles Ives, per esempio, nel cui timbro sonoro coglie una fermezza armonica densa e profonda
– lo conduce a riflessioni sul valore del processo razionale sugli impulsi creativi. Una consapevolezza che si traduce nella ricerca Yn2–cryogenic pyramid lunch break, dove con i ritratti ai colleghi, ripresi entro la tridimensionale spazialità degli angoli, e secondo la dovuta regia, attenta all’abbigliamento, alle luci, alla posa, egli intende rispondere al senso del caos, al processo disumanizzante di ritmi produttivi concitati, recuperando, attraverso i tempi lenti e meticolosi delle sedute, un’intimità nuova che è poi anelito di un’esistenza fatta di quiete e di pace. [A. M. A.]
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UNTITLED – 1, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
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BArNEy, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
99
UNTITLED – 3, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
100
HANS, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
101
UNTITLED – 2, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
102
PAULO, 2008
C–print, cm 20 x 25, edizione 1/10
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Alex Subrizi milano, 1963 – vive e lavora a tavarnelle in Val di Pesa (Firenze) e a san Francisco (usa)
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Nato in Italia, ma cresciuto e formato negli Stati Uniti, si avvicina alla fotografia da giovanissimo, quando negli anni della scuola superiore allestisce la sua prima camera oscura e riprende da autodidatta i compagni del liceo e gli spazi scolastici. Per la scelta universitaria si indirizza tuttavia verso studi di informatica, di grafica e di design industriale, laureandosi nel 1985 e nell’86 alla Brown University di Providence nel Rhode Island, e frequentando, nel 1990, l’Art Center College of Design nella città svizzera di Vevey. Dopo esperienze lavorative come ingegnere informatico nell’azienda Clearview Software (in seguito inglobata da Apple) e consulente di immagine aziendale e designer presso la Fitch Inc – di cui apre una sede a San Francisco in California – decide, nel 1998, di dedicarsi interamente alla fotografia, svolgendo l’attività professionale tra gli Stati Uniti e l’Italia, dove nel 2005 si trasferisce con la famiglia nella campagna vicino a Firenze. Alle riprese su commissione, egli affianca una ricerca fotografica intensa e meditata che scaturisce dai ricordi legati ai suoi passati soggiorni in Italia. Una ricerca incentrata su tematiche ambientali e sociali, mosso dall’intento di meglio comprendere la relazione fra le persone e il loro ambiente, come la serie Liceo che raccoglie immagini di studenti nelle rispettive strutture scolastiche, ripresi singolarmente, ispirandosi per la densità dei volti ai ritratti di adolescenti della Rineke Dijkstra. Le espone nel 2007 presso la scuola superiore «Odero» di Genova. La volontà di indagare le specificità e le differenze di precise realtà umane, a presa diretta, intensa e insistita, lo conduce al progetto Unità spinale, del 2007,
dove egli riporta ad alta risoluzione una sequenza di ritratti di giovani affetti da lesioni alla spina dorsale, assistiti nell’apposito centro del complesso ospedaliero di Careggi a Firenze. Questi volti, statici ed insieme incisivi, ad effetto “foto tessera”, avviato da Thomas Ruff, li presenta alla Galleria Studio 44 di Genova. Poi altri ritratti riuniti nella serie At Home, ai familiari, agli amici, alle persone per lui significative, fotografati nel loro ambiente domestico come documenti, quasi a ribadire con lo scatto il valore degli affetti. Sue fotografie sono apparse in numerosi periodici americani ed europei, fra i quali: «GQ», «La Repubblica», «Io Donna», «Vanity Fair», «The Atlantic Monthly», «Dwell Magazine» e «Göteborgs Posten». In campo pubblicitario conta campagne per: Ruffino, Riffage. com, Banca CR di Firenze, InCase Inc., Gensler Corporation e American Legacy Foundation. Oltre all’attività professionale, tiene corsi di fotografia alla Sixth Street Photography Workshop a San Francisco, e presso l’istituto Lorenzo de’ Medici a Firenze. Le immagini di Subrizi si inseriscono a pieno nella tradizione fotografica americana, per una presa diretta della realtà netta, ferma, oggettiva, priva di compiacimenti, spoglia ed essenziale. Il carattere delle sue foto, tuttavia, svela un timbro passionale, un’intensità, si direbbe, etica, per l’uso sapiente della tecnica che definisce e determina il loro contenuto. Come nella serie di ritratti agli studenti, nata riflettendo sulla diversità formativa della scuola superiore italiana rispetto a quella statunitense, fortemente
legata al suo passato umanistico la prima, impostata per lo più sull’acquisizione di pratiche professionali la seconda. Pensieri che lo hanno condotto ad osservare la fisionomia dei giovani con riprese ad alta risoluzione, come per meglio indagarne lo spirito, così da comprendere il senso della diversità. Riprese ad alta risoluzione anche per fermare i volti di persone affette da lesioni spinali, osservandoli da vicino e a lungo, attendendo l’arresto di qualsiasi espressione, per ottenere un’immagine neutra, una sorta di specchio su cui l’osservatore possa proiettare la propria emozione, quella di fronte all’oggettività del dolore. Con la medesima fermezza di sguardo ha fotografato anche l’amico Matthew Hern; lo ha fermato così, pianamente, con visione limpida e complessiva: insieme al cane, davanti alla propria casa, una delle tante sulle colline di Malibù in California, che ci rammenta quella di molti ritratti del Settecento di gentiluomini britannici, senza fasti né pompe, in tutta la loro domesticità. Nel trittico Resolutions, di volti fissati a luce diurna, potenziata con l’ausilio del flash, egli ha invece adottato l’obbiettivo medio– lungo che sfoca i contorni, rilevando l’incisività dello sguardo, come per concentrarsi massimamente sui personaggi, quasi a penetrare il carattere e intenderne l’intima natura. Quella, per esempio, di chi si ammira per la forza delle scelte esistenziali, o di chi si ama. [A. M. A.]
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rESOLUTIONS, 2008
stampa Lambda montata sotto Plexiglas, cm 71 x 60, n. di serie: 1/4
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TwO VIEwS OF MATT HErN (1 OF 2), 2007
stampa Lambda montata sotto Plexiglas, cm 80 x 101, edizione 1/4
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Un sentito ringaziamento a Carola Bertorello per la professionalitĂ , grande disponibilitĂ e versatilitĂ nel coordinamento generale.
photo e progetto grafico | Stefano Mazzali Finito di stampare nel mese di settembre 2008 da tipografia Negri S.r.l.