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Bruno Munari : E il Linguaggio del Designer di Giovanni Cardone

In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Bruno Munari apro il mio saggio dicendo : Posso dire che la sua formazione artistica muove dalle esperienze pittoriche condotte nell’ambito del Futurismo, dal quale trarrà la sua ricerca visuale e l’interesse per l’oggetto nella sua complessa definizione e identificazione di caratteri, attributi e significati. Nel 1925 conosce Marinetti, simpatizza con Balla e Prampolini, i futuristi che lo influenzarono maggiormente. Dal 1927 partecipa alle collettive futuriste: espone alla milanese Galleria Pesaro, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e a Parigi. Sono del 1933 le sue prime “macchine inutili”, concepite secondo i presupposti dell’arte programmata, che lo rendono famoso negli ambienti artistici dell’epoca. Inventa “L’agitatore di coda per cani pigri”, studia “il motore per tartarughe stanche”. Nel 1939 diventa art director della rivista Tempo. Con Max Huber collabora alla creazione dell’immagine della casa editrice Einaudi. Del 1945 è il suo primo multiplo cinetico “Ora X” del 1948 -49 i suoi “libri illeggibili” del 1951 le “strutture continue” tridimensionali, gli esperimenti sul “negativo-positivo” e quindi successivamente quelli sulla luce polarizzata per proiezioni dalla materia; i numerosi film di ricerca, la progettazione di oggetti di arte cinetica; le sue famose “sculture da viaggio” in cartoncino piegabile oggetti di ornamentazione estetica, progettati allo scopo di creare un punto di riferimento, in qualche modo coincidente col proprio mondo culturale, da collocare nelle anonime camere di albergo o in qualunque altro luogo non caratterizzato. Seguono le “Xerografie originali”, i “Polariscop”, gli oggetti flessibili “Flexy”, i giochi per i bambini e tanti vari oggetti di arte cinetica. A questa intensa ricerca nel campo della sperimentazione visiva e attività nel campo della progettazione, s’accompagna quella non meno costante e feconda nel campo della grafica, in quello degli allestimenti e in quello della saggistica.

Tra i suoi numerosi scritti, fondamentali sono “Design e comunicazione visiva” del 1968, “Arte come mestiere” del 1966, “Artista e designer” del 1971, “Codice ovvio” del 1971. Premi e riconoscimenti gli giungono da ogni parte del mondo: il premio della Japan Design Foundation del 1985, quello dei Lincei per la grafica del 1988, il premio Spiel Gut di Ulm del 1971 in seguito verrà premiato nel 1973 e nel 1987mentre nel 1989 gli viene conferita laurea ad honorem in architettura dall’Università di Genova.

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”Il design dà qualità estetica alla tecnica. Non nel senso dell’arte applicata, come si faceva una volta quando l’ingegnere che aveva ideato la macchina per cucire, chiamava un artista che gliela decorasse in oro e madreperla, bensì nel senso che l’oggetto e la sua forma estetica siano una cosa sola ben fusa assieme, senza alcun riferimento a estetiche preesistenti nel campo dell’arte cosiddetta pura. Un oggetto progettato dal designer non risente dello “stile” personale dell’autore dato che il designer non dovrebbe avere, a priori, uno stile col quale dar forma a ciò che progetta, come avviene quando un artista si improvvisa designer ovvero l’oggetto prodotto dal designer dovrebbe avere quella “naturalezza” che hanno le cose in natura: una cavalletta, una pera, una conchiglia, una scarica elettrica; ogni cosa ha la sua forma esatta. Sarebbe sbagliato pensare queste cose in stile: una cavalletta a forma di pera, una scarica elettrica a forma di, quindi un settore diverso dal design, che ha una sua precisa funzione, è lo styling, dove si progetta moda, dove la fantasia e la novità sono dominanti, per un consumo rapido della produzione. Il vero design non ha stile, non ha moda; se l’oggetto è giusto, nel design non si dice bello dura sempre. Oggetti di design ignoto si usano da sempre: il leggio a tre piedi dell’orchestrale, la sedia a sdraio da spiaggia”.Bruno Munari è una della grandi figure del design e della cultura del XX secolo.

Milanese, ha vissuto tutte le età più significative dell’arte e del progetto, diventandone un assoluto protagonista sin dagli anni Trenta, con la creazione delle “macchine inutili” e con il contemporaneo lavoro di grafica editoriale, del tutto innovativo nel panorama europeo. Ma è nel secondo dopoguerra che Munari si afferma come uno dei “pensatori” di design più fervidi: la collaborazione con tutte le aziende più importanti per la rinascita del Paese dalla Einaudi alla Olivetti, dalla Campari alla Pirelli e una serie di geniali invenzioni progettuali spesso realizzate per la ditta Danese ne fanno un personaggio chiave per la grande stagione del design italiano. Grafica, oggetti, opere d’arte, tutto risponde a un metodo progettuale che si va precisando con gli anni, con i grandi corsi nelle università americane, come l’MIT, e con il progetto più ambizioso di tutti, che è quello dei laboratori per stimolare la creatività infantile, che dal 1977 sono tuttora all’avanguardia nella didattica dell’età prescolare e della prima età scolare. La sua costante ricerca è stata quella dell’approfondimento di forme e colori, variabili secondo un programma prefissato, e della autonomia estetica degli oggetti. Tali premesse hanno trovato conferma nella pratica dell’industrial design. La sua po- liedrica capacità comunicativa si è manifestata nei campi più disparati: pubblicità e comunicazione industriale libri per la scuola L’occhio e l’arte. L’educazione artistica per la scuola media, 1992; Suoni e idee per improvvisare. Costruire percorsi creativi nell’educazione musicale e nell’insegnamento strumentale, 1995, entrambi in collaborazioni inventò giochi, laboratori grafici e libri di ricerca. Munari amava raccontarsi e diceva : “All’improvviso senza che nessuno mi avesse avvertito prima, mi trovai completamente nudo in piena città di Milano, il 24 ottobre 1907.

Mio padre aveva rapporti con le più alte personalità della città essendo stato cameriere al Gambrinus, il grande Caffè Concerto di piazza della Scala, dove si riunivano tutte le persone importanti a bere un tamarindo dopo lo spettacolo. Mia madre, in conseguenza di ciò, si dava delle arie ricamando ventagli. A sei anni fui deportato a Badia Polesine, bellissimo paese agricolo dove si coltivavano i bachi da seta e le barbabietole da zucchero. Il caffè veniva dal Brasile, a piedi nudi. Sulla piazza del paese, tutta di marmo rosa, si passeggiava a piedi nudi nelle sere d’estate. Nel caffè niente zucchero.

Le vacche erano nel Foro Boario dove improvvisavano ogni mercoledì (mercato) dei cori, non come alla Scala, ma con molto impegno. Dopo le vacche ho avuto rapporti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le macchine inutili. E adesso sono ancora qui a Milano dove qualcuno mi chiede se faccio ancora le macchine inutili oppure se sono parente col corridore (che poi era mio nonno, mentre lo zio Vittorio faceva il liutaio e il cuoco. Scusatemi se lascio la parentesi aperta.” Dopo aver trascorso l’infanzia in un piccolo paesino del Veneto, nel 1926 Bruno Munari torna a Milano, città che diventerà il centro della sua attività artistica. Qui uno zio ingegnere lo assume nel suo studio e lo aiuta ad integrarsi nella metropoli. Il primo incontro con i futuristi milanesi risale al 1926, ma è bene ricordare che l’artista sente parlare del futurismo per la prima volta ancora adolescente, nell’albergo dei genitori. Lo stesso Munari racconta infatti: Prima della guerra passavano dei viaggiatori di commercio che si fermavano una o due notti, e fu uno di loro che mi parlò del futurismo. Ricordo che aveva al collo un fazzoletto, cosa strana perché allora si portava solo la camicia con la cravatta, e io mi entusiasmai per i suoi discorsi, avevo più o meno diciotto anni, e allora cominciai a fare dei disegni, ma senza sapere niente, inventando. L’incontro che sancirà l’ingresso di Munari nell’avanguardia, avviene invece girando per le librerie antiquarie, dove egli conosce il poeta futurista Escodamé. Questo incontro permetterà al giovane artista di conoscere Marinetti ed entrare nel gruppo di intellettuali che fonderanno il secondo futurismo milanese. Munari vede nel movimento futurista «l’espressione più coerente con l’idea del nuovo» nata durante i primi mesi passati in città: egli, che si avvicina al mondo dell’arte da un percorso non accademico, individua l’innovazione futuristica nel coinvolgimento di diverse discipline caratteristica essenziale nella successiva attività di Munari in particolare l’attenzione ai problemi della grafica, della pubblicità e dell’arte applicata al quotidiano, in contrasto alle tendenze artistiche novecentiste e al recupero dell’arte classica e aulica. Nonostante Munari sia tra i fondatori del secondo futurismo milanese, le sue origini artistiche sono da ricercare nella prima esperienza futurista, quella di Balla, Boccioni, Carrà e Depero. Sarà significativo il rapporto con Enrico Prampolini, uno degli esponenti più importanti del primo futurismo, in particolare per la sua attenzione verso l’Europa e le esperienze d’arte internazionali tra le due guerre, egli viaggia tra Ginevra, Praga, Berlino e Parigi, mantenendo stretti rapporti con gli ambienti delle avanguardie europee. Prampolini verrà citato da Munari come suo unico referente culturale e interlocutore di tutte le esperienze internazionali diffuse nel Vecchio Continente a partire dagli anni ’20. Gli elementi di contatto più evidenti tra Munari e l’avanguardia italiana si possono individuare all’interno del manifesto programmatico pubblicato nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero. Il documento Ricostruzione futurista dell’universo cita anzitutto l’uso di materiali poveri per la costruzione del «nuovo Oggetto (complesso plastico)». Anche nel Manifesto tecnico della scultura futurista firmato da Boccioni viene sottolineato il rinnovamento nell’uso dei materiali, in particolare attraverso la concezione del polimaterismo: 3. Negare alla scultura qualsiasi scopo di ricostruzione episodica veristica. Percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, filo di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. ecc. 4. Distruggere la nobiltà, tutta letteraria e tradizionale, del marmo e del bronzo. Affermare che anche venti materie diversi possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Il manifesto mette in luce due importanti innovazioni: il rinnovamento dei materiali, ovvero la necessità di abbandonare le materie tradizionali per lasciare spazio a quelle nuove e la «compenetrazione tra gli oggetti e lo spazio circostante». Queste caratteristiche innovative della scultura futurista sono visibili nella progettazione (e realizzazione) delle prime Macchine inutili: per queste opere Bruno Munari seleziona con particolare attenzione le materie da usare, ponendo l’accento non solo sull’accostamento dei colori soprattutto tinte piatte e quindi sulla sensazione visiva che l’oggetto artistico provoca, ma anche sull’effetto tattile, nel desiderio di risvegliare tutti i sensi del fruitore nell’atto di contemplazione dell’opera.

Nelle Macchine inutili è evidente anche la fusione tra le componenti fisiche e lo spazio vuoto circostante: l’utilizzo di materiali leggeri come cartoncini colorati, bastoncini di legno e fili di seta permette alla costruzione di essere molto leggera e di potersi muovere con un soffio d’aria. A tale proposito, Munari spiega: «pensavo che sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle nell’aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà».

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