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FAUSTO BERETTI

Nasce a Reggio Emilia nel 1962. Nel 1980 consegue il diploma di Maturità Artistica al Liceo Artistico di Bologna e frequenta il Corso di Scultura diplomandosi nel 1984 come Maestro Scultore all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Negli anni della sua formazione è stato allievo di Ugo Guidi, Enzo Pasqualini e Quinto Ghermandi. Dal 1984 al 1988 lavora per la curia di Reggio Emilia eseguendo copie di quadri antichi per numerose chiese della diocesi, appassionandosi alle tecniche antiche. Dal 1987 al ’90 insegna Discipline Plastiche all’Istituto d’Arte “G.Chierici” di Reggio Emilia. Dal 1990 al 1992 ha vissuto e lavorato a Parigi eseguendo una serie di quattro grandi tele dedicate al ballerino russo Nijinsky, per il collezionista R. Bocobza. Nel 1991 incontra a Parigi lo scultore Jacques Canonici con il quale condividerà una solida amicizia e un intenso periodo di creazione artistica. Dal 1992 al ’94 collabora con la ditta “Archè Restauri” di Parma, lavorando in Italia e all’estero. Nel 1995 ottiene la cattedra di discipline plastiche all’Istituto d’Arte “P.Toschi” di Parma dove tuttora insegna. Nel 2019 entra a far parte della prestigiosa associazione di artisti bolognesi “Francesco Francia”.

Disegnatore, pittore ma soprattutto scultore, si rifà alla tradizione rinascimentale e manierista italiana, Michelangelo, Giambologna, Pontormo, e ai grandi scultori francesi

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Visitare di persona un laboratorio – quello di un pittore e ancor più quello di uno scultore – è un’esperienza assolutamente incontournable per chi volesse entrare in contatto con l’arte dal punto di vista degli artisti. Mi sento di suggerirlo caldamente a chi studia l’arte e la sua storia e anche a chi semplicemente è in cerca di emozioni estetiche. Quando l’artista bolognese Fausto Beretti mi invitò nel suo atelier parmigiano, fui lieto di accedere al suo antro personale, di respirare gli odori forti dei materiali, d’immergermi nella miriade di immagini anatomiche di cui era disseminato, di aggirarmi nei vari ambienti come nelle anse affollate del suo immaginario. Sapevo già che presto o tardi avrei scritto di lui e delle sue opere. In questi anni ne ho scritto in diverse occasioni, ma non ancora in maniera organica come in questa. La sua ricerca visiva, sia nella pittura sia nella scultura, è chiaramente ispirata alla grande tradizione del Rinascimento e del Manierismo italiani, di cui è un appassionato ammiratore, di più, un fedele seguace. In accordo con questi principi, che Beretti non nasconde ma rivendica orgogliosamente, modelli dichiarati sono, su tutti, Michelangelo Buonarroti, Jacopo Carucci da Pontormo e Jean de Boulogne o Giambologna. E come dargli torto: i vertici raggiunti dai grandi maestri del Cinquecento italiano sono inarrivabili, come testimoniano le “gallerie italiane” dei più importanti musei di tutto il mondo.

A partire dai primi anni Novanta, la rilettura di quella meravigliosa e irripetibile stagione dell’arte italiana è andata temperandosi – o acuendosi, secondo il punto di vista – attraverso la straordinaria lezione della scultura e della pittura francese del XIX secolo. Maestri diacronici di questo curioso apprendistato furono soprattutto gli scultori JeanBaptiste Carpeaux, Jules Dalou e Auguste Rodin, e i pittori Théodore Géricault ed Eugène Delacroix. La loro frequentazione nelle solenni sale dei musei parigini ha condotto la creatività di Beretti ad esiti in qualche modo originali e orgogliosamente anacronistici.

La pittura di Beretti fa sue le conquiste del tardo romanticismo d’oltralpe, ma rifiuta le sperimentazioni degli “ismi” che nei decenni successivi avrebbero fatto della Francia il crogiuolo delle avanguardie. In un’epoca di frenetico inseguimento del nuovo, l’artista bolognese opera una scelta controcorrente, ostinatamente à rebours. La sua produzione scultorea non si allontana da questo centro gravitazionale; essa è ispirata alla buona tradizione del modellato di figura, nel quale è andato specializzandosi in lunghi e proficui decenni d’intensa attività, con particolare attenzione alla figura in movimento declinata nell’iconografia classica, religiosa e mitologica.

Evidentemente a questa elezione estrema non è estranea quella straordinaria e sognante fiaba fin de siècle che è il suo soggiorno parigino dei primi anni Novanta, in cui vive sulla sua pelle il mito degli umidi ateliers e delle mansardes, di una bohème tardiva eppure assolutamente sincera ed autentica, di quelle che ogni studente di belle arti ha sognato almeno una notte nella sua vita. La sua jeunesse artistique sembrava a un passo dalla sua miracolosa soluzione attraverso le favolose commesse di un facoltoso collezionista dal nome e dal destino decadente; ma “la vita non è sogno” come scriveva Salvatore Quasimodo e Beretti ce ne ha lasciato mémoires in un suo nostalgico ricordo. L’arte tuttavia, ormai lo sappiamo, non è solo ricerca formale. L’opera è un sinolo straordinario di forma e materia, di tecnica e idee. Nel creare Beretti ricerca una profondità di senso e la rintraccia nell’iconografia sacra, nel mito classico, nella tradizione letteraria, nell’alchimia. Questo straordinario patrimonio d’immagini fornisce ispirazione e significati allegorici alla sua arte, che pesca a piene mani nei più esaltanti repertori figurativi.

L’arte è per Beretti figurativa, o non è. Egli non cede mai alla tentazione di violare il suo monolitico iconismo con espressioni informali o astratte, non ha mai la tentazione di abbandonare la figura, per lui del tutto irrinunciabile. Pare quasi affiliato a un conciliabolo antico e rigorosissimo; d’una fedeltà assoluta e a tutta prova.

Di più: la figura nelle sue opere, pur declinandosi in un’ampia gamma di temi, è sempre antropomorfa. L’uomo è sempre al centro delle sue speculazioni e delle sue sperimentazioni. La rivoluzione antropocentrica, umanistica e rinascimentale, ha lasciato una traccia indelebile nella storia e nel suo immaginario. L’uomo è la misura assoluta del suo essere e del suo operare.

Mauro Carrera

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