Controstoria dell'arte

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Pablo Echaurren



uG universale Gallucci



Pablo Echaurren

Controstoria dell’arte Breviario di un bastiancontrario


Pablo Echaurren Controstoria dell’arte ISBN 978-88-6145-234-3 Prima edizione dicembre 2011 © 2011 Carlo Gallucci editore srl - Roma ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2016 2015 2014 2013 2012 2011

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Indice

1. Preistoria 2. Antico Egitto 3. Antica Grecia 4. Arte romana 5. Arte bizantina 6. Medioevo 7. Gotico 8. Trecento 9. Rinascimento 10. Manierismo 11. Barocco 12. Neoclassicismo 13. Impressionismo 14. Pointillisme 15. Gli Incoerenti 16. Simbolismo 17. Espressionismo 18. Cubismo 19. Futurismo

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20. Dada 21. Surrealismo 22. Astrattismo 23. Espressionismo Astratto 24. Pop 25. Arte Povera 26. Installazioni 27. Street Art 28. L’artista

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CREDITI DELLE IMMAGINI pag 11: pagg. 14-15: pag. 19: pag. 22: pag. 23: pag. 27: pagg. 30-31: pagg. 38-39: pag. 43: pag. 46: pagg. 50-51: pag. 55: pag. 62: pagg. 66-67:

© Photoservice Electa/Leemage © Copper Age/The Bridgeman Art Library/GettyImages © Photoservice Electa/Anelli su concessione del MIBAC © Photoservice Electa/Akg_Images © Foto Servizio Fotografico Musei Vaticani © Photoservice Electa/Anelli © Photoservice Electa/Ravenna © Photoservice Electa/Leemage © Photoservice Electa/AISA © RMN (Musée du Louvre)/Daniel Arnaudet © Foto Servizio Fotografico Musei Vaticani © Photoservice Electa/Akg_Images © Photoservice Electa/Quattrone © Photoservice Electa/Anelli su concessione del MIBAC

pag. 70: pag. 75:

© Photoservice Electa/Anelli © Photoservice Electa/Akg_Images pagg. 86-87: © 2011. Copyright The National Gallery, London/Scala, Firenze pag. 89: © Photoservice Electa/Akg_Images pag. 95: © Photoservice Electa/Leemage pagg. 98-99: © 2011. Digital Image, The Museum of Modern Art, New York/Scala Firenze pag. 103: © Photoservice Electa/Leemage pagg. 110-111: © Photoservice Electa/Leemage pag. 115: © Photoservice Electa/Anelli su concessione del MIBAC pag. 118: © Photoservice Electa/Akg_images pag. 123: © Photoservice Electa/Akg_images pag. 127: © Foto Paolo Pellion pag. 134: © Photoservice Electa/Photoshot pagg. 138-139: © Photoservice Electa/Photoshot


ORTNOC STORIA ,

DELL A R T E


3. ANTICA GRECIA

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k, è scontato: un’automobile da corsa è più bella della Nike di Samotracia, almeno per noi moderni infuturati dal verbo marinettiano. Ma per i Greci? Beh, non è detto che per loro non fosse la stessa medesima cosa. Nel senso che erano ultramoderni pure loro e queste statue oggi immacolate e calcinate, essi le dipingevano a tinte piatte, forti e squillanti come fossero carrozzerie d’automobili rombanti. Ve li figurate Apollo, Afrodite e Zeus tutti imbellettati e pavesati con quei colori sparati di solito adottati dai racing team, dai modelli per rally o dai bolidi delle scuderie di Formula 1? Ebbene le sculture greche erano proprio così. Spavaldamente pop. Il pentelico, il tassio, il nassio, il pario, venivano patinati, laccati, tinteggiati. Alla faccia di chi li vuole candeggiati. Alla faccia di chi vede i ruderi come un ossario ciclopico, un gigantesco inventario di zanne cariate, un immane Cimitero degli Eleganti. Niente di più falso.

Afrodite di Doidalsas (Afrodite accovacciata) Roma, Museo Nazionale Romano Palazzo Massimo alle Terme

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Era tutto uno scoppiettare caleidoscopico, un turbinare artificiale, un verniciare fenomenale. Il Partenone era un baraccone blu-rosso-verde, sui suoi marmi hanno riscontrato tracce consistenti di ematite, di malachite, di azzurrite. La valle dei templi di Agrigento era uno sgomento arcobalenico che faceva a pugni col paesaggio, una cassata, l’Acropoli un luna-park cromatico traumatico. Non c’era scultura che non venisse ritoccata e truccata peggio d’una baldracca ripicchiata. Ogni effigiato faceva l’effetto di un mascherone mascarato. Pure gli occhi che ci sembrano così penetranti e ficcanti per quei buchini vuoti, pure gli occhi erano riempiti con una rutilante pasta vitrea che gli conferiva un aspetto sospetto da bambolotto. A certi gli mancava giusto il ciucciotto. Altri sarebbero entrati di diritto nella lista nera del Fronte di Liberazione dei Nani da Giardino. Per cui fatela finita una buona volta con la bubbola degli antichi compassati e inamidati. Quelli erano peggio dei graffitari quando si mettono a imbrattare i vagoni della metro. Erano dei sanguigni, credevano in dèi vanitosi, invidiosi e litigiosi, dèi che si cornificavano l’un l’altro, che copulavano con le bestie, che danzavano con l’uccello al vento. Dèi goduriosi, libidinosi, smaniosi di darsi alla bella vita. Che tracannavano e ruttavano come hooligans all’ultimo stadio il giorno della vittoria in Champions League. Perché mai avrebbero dovuto celebrarli con uno stile slavato? È ormai chiaro, noi abbiamo una percezione completamente sballata, distorta, travisata, della loro sensibilità. Una visione derivata da una tradizione inventata di sana pianta e che ci è stata tramandata dai nostri predecessori i quali vedevano tutto con le lenti del loro personale stato d’animo. Uno stato d’animo esangue, estenuato, anemico

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Antica Grecia

endemico. Fatto di tramonti impotenti, languidi sfinimenti, tremori insistenti. Di gelide manine e altre cosine col mal di petto. Tutto l’ambaradan sapeva di dieta ipocalorica a base di deprimenti risottini al burro e parmigiano o brodini da convalescenti, adatto alla cattiva digestione di professori gottosi, di studiosi forforosi, di chiosatori biliosi. Per loro ovviamente il non colore dell’albedine costituiva un valore aggiunto, era un elemento fondamentale di compostezza, di grandezza, di rigore. Rigor mortis da ultime lettere di Jacopo Ortis. Si sono costruiti un mondo fittizio, per un proprio sfizio. Un mondo su cui gemere e sospirare e frignare a tutt’andare. E copiare, copiare, copiare. Imitare, imitare, imitare. Dal Rinascimento al Neoclassicismo, da Winckelmann a Canova, è stata tutta una lunga congiura. Per secoli costoro si sono alleati per ingannarci, per ammannirci la favoletta che nella Grecia antiqua regnava incontrastato un bianco che più bianco non si può. Il colore gli sembrava qualcosa di poco serio, di sconveniente, prerogativa dei giocherelloni, dei pasticcioni che non sanno dosare, contenere, controllare gli istinti e le pulsioni belluine.

Nelle pagine seguenti: Augusto di Prima Porta detto anche Augusto loricato, 8 a.C. circa. Città del Vaticano, Musei Vaticani © Musei Vaticani Calco con ipotesi di coloritura originaria dell’Augusto di Prima Porta realizzato in occasione della mostra “I colori del bianco. Policromia nella scultura antica”, Città del Vaticano, Musei Vaticani, 2004-2005 © Musei Vaticani

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Perciò sentivano il bisogno di calare un immane sudario lapidario per coprire uno scenario altrimenti troppo focoso. Magari pure scabroso. Dovevano evocare un fantasma affinché agitasse il suo lenzuolo di bucato e decolorasse un passato troppo agitato, irruente, passionale, che non corrispondeva all’ideale che se ne aveva in giro. Come se una mano di biacca ammorbidisse i contorni del ricordo sfumando il tutto in un’atmosfera algida, formale, sacrale. Atemporale. Avete presente quando nei film a colori il flash back viene trattato col bianco e nero? Sembra più vero del vero. Come le foto della trisnonna. È un trucchetto che funziona sempre. L’hanno inventato i romantici. Da allora vige il concetto che l’eccesso di colore è una pacchianata, una mancanza di stile, una burinata. Da allora si invitano gli artisti alla morigeratezza delle tinte neutre, alle ombreggiature, alle velature. Sono le gipsoteche, le accademie, le congreghe di anticaje & petrelle che hanno sparso a iosa le storielle sul candore e sul pallore. Addirittura, nell’Ottocento, si usava passare una speciale lacca ambrata sui dipinti perché si attenuassero i contrasti troppo netti, perché ingiallissero e incupissero assumendo quell’aria di invecchiatura catarrosa, di kultura bavosa. Erano fissati che il colore metteva a rischio la serietà, la dignità, le basi stesse della società. E della pomposità e ta-ta-tà. Lo vedete o no che qui ormai si vestono tutti di nero? Nero o grigio. O blu scuro. Guardatevi un consiglio di amministrazione, un governo in carica, un summit di capi di governo. Tutti in divisa. Armani docet.

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24. POP

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econdo me i pop non l’amavano affatto la cultura pop-olare. Anzi. La effigiavano, è vero, se ne servivano, ne facevano il centro del loro sistema narrativo, ma come a dire: «Guardate un po’ di che merda ci circondiamo». Insomma, sfottevano. Sputtanavano il sistema. Attaccavano il meccanismo di produzione dei miti fondati sull’industria del consenso. Erano dei criticoni che non gli andava bene l’andazzo. Rappresentavano l’America come un concentrato di stronzate amplificate, ben confezionate, pronte per essere smerciate al pop-olo bue. Fumetti, lavatrici, torte, poppe, cheeseburger, barattolame, mangime per il bestiame che è in noi. Perfino la bandiera a stelle e strisce. L’intiero emporio dell’Imperio. Dove la sedia elettrica, l’incidente stradale, la Coniglietta Starletta sono emblemi assoluti di un consumismo diffuso che macina ogni cosa. Take it or leave it. Facevano gli snobboni. Tipo: «Voi vaccari vi beate di tutte queste troiate e noi ve le rifacciamo pari pari, acrilico su tela».

Campbell’s Soup Can I., Andy Warhol, 1969 © Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, by SIAE 2011

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«Vi piacciono tanto i centri commerciali? Ok, noi ve li replichiamo tali e quali, basta che pagate, e salato». Questo facevano. Ingigantivano, gonfiavano, evidenziavano ogni aspetto della vita materiale e sub-culturale. Rendevano manifesto lo strapotere della pubblicità, la volgarità della popolarità. Ma mica ci si mischiavano, se ne tenevano a debita distanza, come dalla merda. Merda che poi servivano su un piatto d’argento. Così che il petroliere texano (l’analogo della casalinga di Voghera ma con i dollari) finalmente potesse fregiarsi e circondarsi di tutta la spazzatura di cui solitamente andava fiero e che riconosceva come segno distintivo della sua grande nazione. Ma senza più vergognarsene. Senza sentirsi da meno di un qualunque europeo col suo Culiseo vecchio di migliaia di anni. «Credete che una zuppa Campbell sia più buona della pappa col pomodoro dell’Artusi? Siete convinti che una Chevrolet possa rivaleggiare con un Courbet? Ebbene noi vi forniamo Campbell e Chevrolet da appendere con orgoglio sui vostri buffet e controbuffet». Li trattavano da parvenu, da burini arricchiti e ripuliti, da bovari ’gnuranti che non sanno far altro che grufolare nel loro fango abituale. Liz Taylor come la Fornarina, Marilyna come la Signora Ermellina. Gli fornivano le basi per sentirsi importanti, gli conferivano una patente di rispettabilità, di autorevolezza iconica, di continuità nobiliare con un passato che non hanno mai avuto. Ma dài e dài hanno finito per crederci pure loro, loro gli artisti pop. A forza di ripeterla ogni bugia diventa una verità. E a forza di spacciare ogni ciofeca per una delle sette meraviglie hanno messo le briglie a un nuovo concetto di amor patrio. Erano partiti per stigmatizzare e sono finiti a esaltare a tutto spia-

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pop

no, ad annullare ogni differenza tra un drugstore e il Pantheon, tra un fast food e il Cuppolone, tra la bottiglietta della Coca-Cola e una scala a ellisse del Vignola. Erano partiti per demistificare e sono finiti per avvalorare un macrocosmo alienato, reificato, controllato dai persuasori occulti delle multinazionali, delle campagne promozionali, dei tabulati aziendali. E in quanto a tabulati anche gli artisti pop non scherzavano mica. A botte di milioni di trilioni. Altro che supermarket, altro che carrello della spesa, loro non facevano sconti. Niente prendi tre e paghi due. Niente occasioni, niente promozioni, e niente saldi. Soldi, soldi & soldi. Erano dei commercianti nati, vestiti & calzati, born in Usa. L’alibi del popolare gli servì per sfondare, per farsi notare, per rastrellare la fama e la grana. Ma erano espressione dell’élite più chic, del rich più sofisticato, riservato ai pochi eletti, ai privilegiati che guardano da su in giù, alla vita di strada, che si affacciano dai loro superattici blindati in cui i rumori giungono piacevolmente ovattati. Interessati al tran tran quotidiano come gli entomologi al comportamento delle formiche. E alle formiche gli frega assai del pop.

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Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso CDC Arti Grafiche srl di CittĂ di Castello (Pg) nel mese di novembre 2011



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